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AGGIORNAMENTO AL 29.05.2015 |
ã |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
I risparmi dello straordinario incrementano
obbligatoriamente il fondo per il salario accessortio
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 27.05.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Modulistica regionale per l’attività edilizia
libera (comunicazione inizio lavori e comunicazione inizio
lavori asseverata) – Adeguamento dei Comuni (ANCE di
Bergamo,
circolare 22.05.2015 n. 115). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 28.05.2015 n. 122 "Disposizioni in materia di
delitti contro l’ambiente" (Legge
22.05.2015 n. 68). |
DOTTRINA &
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
R. Panozzo,
Sull’obbligo di indicare il motivo di esenzione dall’imposta
di bollo (27.05.2015 - tratto da
www.diritto.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
G. Buscema,
DURC online: come funzionerà (22.05.2015 -
tratto da www.ipsoa.it). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza e benessere nelle scuole.
Il volume riassume i risultati di uno studio
realizzato dai professionisti Inail della Contarp centrale,
il quale prende spunto dal protocollo d’intesa stipulato tra
Inail e Miur nel 2007 ed è finalizzato ad implementare le
conoscenze sui fattori di rischio e di comfort negli
ambienti scolastici.
In particolare, sono stati presi in esame aspetti specifici
di notevole rilevanza e influenza sulla qualità dell’aria
(fattori di rischio chimico e biologico) e dell’ambiente
(microclima, acustica ed ergonomia degli arredi).
Lo studio è stato condotto in collaborazione con un Rspp di
alcuni istituti di scuola superiore di Roma e provincia, che
ha curato l’osservazione dello stato degli edifici
scolastici dal punto di vista delle strutture e degli
impianti.
Il volume contiene, infine, i risultati di una serie di
questionari somministrati agli studenti, al fine di
comprendere la loro percezione dei rischi individuati nelle
scuole oggetto di indagine (21.05.2015 - tratto da
http://sicurezzasullavoro.inail.it). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
sul lavoro, un utile vademecum sulla gestione.
Sicurezza sul lavoro: gestione della sicurezza, attori,
ruoli e obblighi. Tutto quello che c’è da sapere nel
vademecum dell’Università di Perugia.
L'Università degli studi di Perugia ha pubblicato
un'interessante guida sulla gestione della sicurezza nei
luoghi di lavoro, che illustra in maniera semplice e chiara
norme, compiti e responsabilità relative alla sicurezza sul
lavoro.
Attori della sicurezza sul lavoro e loro
obblighi
Il testo individua tutti gli attori della sicurezza, ossia:
●
datore di lavoro
●
dirigente
●
preposto per la sicurezza
●
addetto antincendio e primo soccorso
●
responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP)
●
medico competente
●
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS)
●
lavoratore
Per ciascuno di questi vengono definiti in maniera chiara e
sintetica i compiti specifici e gli obblighi previsti dalla
norma.
Documenti per la gestione della sicurezza sul lavoro
Vengono quindi individuati e schematizzati i documenti per
la gestione della sicurezza e della salute, ossia:
●
il documento di valutazione dei rischi (DVR)
●
il piano di sorveglianza sanitaria
●
il piano di manutenzione di ambienti di lavoro, impianti,
attrezzature
Gestione della sicurezza sul lavoro
Vengono illustrate le modalità di intervento e gestione
delle emergenze, in particolare:
●
come utilizzare un estintore
●
come effettuare una rianimazione cardiopolmonare
●
quali numeri chiamare in caso di emergenza
Sicurezza sul lavoro in caso di evento
sismico
Viene illustrato come comportarsi in caso di evento sismico
e in quali luoghi trovare riparo.
Ergonomia della postazione di lavoro
Infine vengono analizzate le questioni legate all’ergonomia
della postazione di lavoro e al corretto utilizzo del
videoterminale
(21.05.2015 - link a www.acca.it). |
VARI:
BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle
Entrate, aprile 2015). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Effetto domino nel danno erariale per chi affida
incarichi illegittimi. Inconferibilità. Le conseguenze
operative.
Le amministrazioni locali devono
definire le regole per l’individuazione degli organi
deputati a conferire incarichi in via sostitutiva, qualora
il titolare del relativo potere sia stato sospeso per averne
attribuiti in violazione di quanto previsto dal Dlgs
39/2013.
Il presidente dell’Anac, con il
comunicato
del Presidente 14.05.2015 (su cui si veda anche
Il Sole 24 Ore del 22 maggio) ha richiamato gli enti
all’esercizio del loro potere/dovere, in larga parte
inattuato.
L’articolo 17 del Dlgs 39/2013 stabilisce che gli atti con i
quali sono attribuiti incarichi (dirigenziali e di
consulenza) in contrasto con i limiti stabiliti dalla legge
anticorruzione sono nulli, mentre l’articolo 18 impone la
sospensione per tre mesi del soggetto che ha adottato l’atto
illegittimo dal potere di conferimento degli incarichi.
Per garantire la continuità dell’azione amministrativa, la
stessa norma aveva previsto, al comma 3, che Regioni,
Province e Comuni, entro tre mesi dall’entrata in vigore del
decreto 39/2013, adeguassero i propri ordinamenti,
individuando le procedure interne e gli organi che in via
sostitutiva possono procedere al conferimento degli
incarichi nel periodo di interdizione dei titolari.
Diversamente, decorso inutilmente il termine dei tre mesi,
avrebbe trovato applicazione la procedura sostitutiva
descritta dall’articolo 8 della legge 131/2003, con
intervento (preceduto da assegnazione di un termine
ulteriore) della presidenza del consiglio dei Ministri.
L’Anac ha effettuato una serie di verifiche, rilevando che,
in numerosi casi, le amministrazioni locali non hanno dato
attuazione alle disposizioni che richiedevano la definizione
della procedura sostitutiva.
L’Autorità evidenzia la pesante responsabilità dei
componenti degli organi che abbiano conferito incarichi
dichiarati nulli per le conseguenze economiche degli atti
adottati, ammonendo gli enti sulle conseguenze che
potrebbero aggravarsi per il protrarsi dello stato d’inerzia
da parte delle Pubbliche amministrazioni.
Il soggetto che conferisce un incarico nullo risulta infatti
pienamente responsabile per il danno erariale rilevabile, ma
anche sotto il profilo risarcitorio nei confronti
dell’amministrazione, in ragione proprio dell’espressa
declaratoria di nullità del provvedimento.
La nullità dell’incarico comporta ovviamente l’immediata
cessazione dallo stesso del soggetto nominato, determinando
una condizione di rischio grave per gli atti eventualmente
adottati dal medesimo soggetto nel frattempo.
La mancata definizione delle regole per l’individuazione
dell’organo chiamato a sostituire il conferente sospeso può
avere conseguenze operative molto rilevanti: si pensi al
caso della mancata nomina di un componente di un organo
collegiale che renda lo stesso impossibilitato a funzionare.
L’Anac sollecita le amministrazioni locali ad adottare le
necessarie disposizioni e a pubblicarle sulla sezione
dell’amministrazione trasparente, al fine di consentire la
verifica sull’adozione e l’esercizio dei poteri di vigilanza
da parte della stessa autorità (articolo Il Sole 24 Ore del
25.05.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi, più sanzioni senza regolamento.
Anac. Se l’ente non ha adeguato gli ordinamenti alla legge
Severino crescono le responsabilità per chi approva
conferimenti illegittimi.
Regioni,
Province e Comuni spesso si disinteressano di adeguare i
propri ordinamenti interni alle leggi anticorruzione, e
questo può moltiplicare le responsabilità a carico di chi
firma nomine illegittime alla luce del decreto su
inconferibilità e incompatibilità.
L’allarme arriva dall’Anac,
che nel
comunicato
del Presidente 14.05.2015, diffuso ieri, chiede agli enti
territoriali di attivarsi in fretta nell’adozione dei
regolamenti per evitare «l’aggravarsi delle conseguenze
economiche» che si determina con «il protrarsi dello stato
di inerzia da parte delle Pa».
Per capire il problema, bisogna tornare al decreto che ha
attuato il capitolo della legge Severino sulle
inconferibilità e incompatibilità degli incarichi, in
particolare per quel che riguarda le nomine nelle società
partecipate (Dlgs 39/2013). In quel provvedimento si fissano
le griglie che impediscono per esempio di affidare a ex
sindaci, presidenti o assessori (nel caso dei Comuni, solo
dai 15mila abitanti in su) incarichi amministrativi
dirigenziali o di vertice negli stessi enti, nelle realtà
pubbliche loro collegate e nelle società controllate.
Gli
incarichi che violano queste regole e tutti i contratti
conseguenti sono nulli, e chi li ha firmati o comunque
approvati subisce una doppia sanzione: è considerato
responsabile delle conseguenze economiche prodotte dai
contratti poi dichiarati nulli, e non può per i tre mesi
successivi conferire altri incarichi.
Proprio per quest’ultima sanzione, le Pa territoriali
avrebbero dovuto adeguare i propri regolamenti interni per
stabilire chi sostituisce le persone temporaneamente
bloccate dallo stop trimestrale. La scadenza fissata dal
decreto attuativo della legge Severino è scaduta ormai da
quasi due anni, perché le Pa avrebbero avuto tre mesi di
tempo dall’entrata in vigore della norma, ma un’indagine
condotta dall’Anac ha mostrato che in molte amministrazioni
i regolamenti non sono stati mai adeguati.
Vista la situazione, l’Autorità guidata da Raffaele Cantone
chiede ovviamente agli enti territoriali di adeguarsi in
fretta, riscrivendo il regolamento organizzativo e
pubblicandone la nuova versione sul proprio sito internet,
nel capitolo «disposizioni generali» della sezione dedicata
all’«amministrazione trasparente». Ma il comunicato
dell’Autorità dice di più, ed evidenzia le possibili
conseguenze economiche per amministratori e dirigenti degli
enti che non adeguano le proprie regole interne.
Il problema
è legato alla responsabilità prevista per chi conferisce
incarichi illegittimi, i quali producono effetti economici
resi nulli ex post dalla stessa nullità dei contratti. Chi
conferisce gli incarichi poi cancellati deve rispondere del
problema e, avverte l’Anac, il protrarsi del mancato
adeguamento delle regole può «aggravare» le ricadute di
queste responsabilità (articolo Il Sole 24 Ore del
22.05.2015). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Nelle gare il professionista risponde
individualmente.
Un professionista iscritto in un elenco di una stazione
appaltante, se viene scelto per presentare una offerta non
può candidarsi in raggruppamento temporaneo con altri
professionisti, ma deve rispondere a titolo individuale.
È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il
parere
sulla normativa 06.05.2015 rif.
AG 38/15/AP nel quale si è esaminata la legittimità
dell'esclusione di un professionista, iscritto a titolo
individuale in un elenco costituito da un ente locale per
l'affidamento di servizi di ingegneria e architettura.
Era
successo che la stazione appaltante aveva esperito una
procedura negoziata senza bando (ex articolo 57, comma 6 del
Codice dei contratti pubblici) per affidare un incarico di
valore inferiore a 100 mila euro. Per questa tipologia di
affidamenti l'articolo 267 del Regolamento del codice (dpr
207/2010) detta una disciplina specifica prevedendo che la
stazione appaltante, in alternativa al classico avviso di
gara, può selezionare il mercato avvalendosi di un apposito
elenco (aperto), in ogni caso rispettando il criterio di
rotazione.
Il punto era decidere se la partecipazione del
professionista iscritto all'elenco individualmente, ma nella
fattispecie candidatosi in raggruppamento con altri
professionisti, fosse legittima.
L'Autorità propende per la
tesi negativa affermando che in base all'art. 90, comma 1,
lett. d) e lett. g), del codice, parallelamente a quanto
previsto nell'articolo 34, appare «evidente che il
Raggruppamento temporaneo di professionisti è soggetto
sostanzialmente diverso dal professionista individuale,
contemplandosi in due distinte categorie “i liberi
professionisti singoli e associati (lett. d) e i
raggruppamenti temporanei” costituiti dai soggetti di cui
alle lett. d), e), f) f-bis) e h) ai quali si applicano le
disposizioni di cui all'art. 37 in quanto compatibili (lett.
g). Dal momento quindi che il raggruppamento temporaneo
consiste “in un soggetto collettivamente organizzato,
costituito per la partecipazione alle gare, sostanzialmente
diverso dalle identità soggettive di coloro che vi
partecipano” e che l'invito era per professionisti e non per
raggruppamenti temporanei, l'esclusione era legittima e non
si può parlare neanche di modificazione soggettiva ai sensi
dell'articolo 51 del codice dei contratti»
(articolo ItaliaOggi del 26.05.2015
- tratto da www.centrosctudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: A
decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di
conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le
altre pubbliche amministrazioni, devono fare riferimento,
per l’erogazione degli incentivi al personale interno
incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento
di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla
novella legislativa, con conseguente necessaria adozione di
un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale
massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) ed un nuovo
accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento,
che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi devono adeguarsi alle novità normative, su alcune
aspetti delle quali la Sezione ha avuto già modo di
soffermarsi.
E' stato sottolineato come la norma (oggi
l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n.
163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità
d’affidamento degli incarichi tecnico professionali,
previsti dalla legislazione in materia di contratti
pubblici.
Quest’ultima
è informata da un principio generale,
codificato anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n.
165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono
essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo
solo se non si disponga di professionalità adeguate nel
proprio organico e tale carenza non sia altrimenti
risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle
risorse umane.
Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche,
oltre che a valorizzare il personale interno alle
amministrazioni.
---------------
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare
sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti
espletanti gli incarichi indicati dalla norma (responsabile
del procedimento, incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di
un appalto di fornitura di beni o di servizi);
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza,
direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle
quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni
non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di
prevedere analiticamente nel regolamento interno, e
graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico
espletabile dal personale, in maniera tale da permettere,
nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a
professionisti esterni, la predetta devoluzione.
---------------
L’attività di coordinatore della
sicurezza in fase di esecuzione costituisce
una delle attività che fanno capo alla direzione dei lavori,
ufficio che, come disposto dall’art. 130 del d.lgs. n.
163/2006, tutte le amministrazioni aggiudicatrici sono
obbligate ad istituire per garantire la corretta esecuzione
dei lavori pubblici. Tale ufficio è costituito da un
direttore dei lavori ed, eventualmente, da assistenti,
denominati direttori operativi (a cui può essere attribuita,
come visto, la funzione di coordinatore della sicurezza in
fase di esecuzione) e ispettori di cantiere
(cfr. artt. 147 e seguenti del DPR n. 207/2010).
Pertanto, l’attività di coordinatore
della sicurezza in fase di esecuzione, quando espletata
dal personale tecnico interno, investito della funzione di
direttore dei lavori o di direttore operativo (collaboratore
del primo), può beneficiare dell’incentivo previsto dal
novellato art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006.
Naturalmente, in sede di contrattazione
integrativa, è necessario considerare autonomamente le due
funzioni (quella di direttore dei lavori e quella di
coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione), in modo
da attribuire correttamente ai dipendenti incaricati la
quota del fondo costituito dall’amministrazione ai sensi dei
commi 7-bis e 7-ter
(pari al 80% di una percentuale, nel limite massimo del 2%,
dell’importo posto a base di gara).
Nel caso in cui, infatti, l’attività di
coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione sia
espletata dallo stesso direttore dei lavori, munito dei
prescritti requisiti professionali e di formazione,
quest’ultimo potrà beneficiare di una quota di fondo
riferita anche a tale attività (percentuale della quota di
fondo spettante all’ufficio di direzione dei lavori). Nel
caso in cui, invece, la funzione sia espletata da un
direttore operativo, sarà quest’ultimo a poter beneficiare
della quota dell’incentivo riferita al coordinamento della
sicurezza in fase di esecuzione (mentre, simmetricamente, il
direttore dei lavori potrà percepire un incentivo decurtato
della percentuale spettante al direttore operativo).
Per quanto riguarda il secondo quesito posto dal
comune istante, la Sezione si limita a
ricordare come la nuova disciplina legislativa (art. 93,
comma 7-ter, penultimo periodo) ribadisca la confluenza in
economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a
prestazioni non svolte dai dipendenti interni, ma affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione.
Il precetto normativo non distingue in base alla motivazione
dell’attribuzione dell’incarico a professionisti esterni, ma
àncora la devoluzione in economia della corrispondente quota
parte del fondo incentivante alla mera ricorrenza di tale
presupposto.
La regola non fa che esprimere un principio di carattere
generale, posto dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n.
165/2001, in base al quale “Le amministrazioni pubbliche
non possono erogare trattamenti economici accessori che non
corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
---------------
Il Sindaco del comune di Alzano Lombardo (BG), con
nota del 26/02/2015, ha formulato una richiesta di parere
avente ad oggetto la disciplina dei c.d. incentivi alla
progettazione.
Premette che l’amministrazione sta predisponendo le modalità
ed i criteri, da sottoporre alla contrattazione decentrata e
da recepire in un regolamento interno, per la costituzione
del fondo per la progettazione e l'innovazione, disciplinato
dall'art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n.
163/2006. A tal fine, pone i seguenti due quesiti:
- se possa beneficiare dell'incentivo il coordinatore
della sicurezza in fase di esecuzione, qualora l’attività
venga svolta da personale interno, munito dei prescritti
requisiti di formazione;
- se si debba considerare economia la quota parte
dell'incentivo corrispondente alle prestazioni svolte da
soggetti esterni all'ente, per carenza di personale interno
munito dei prescritti requisiti di formazione.
...
Risulta necessario premettere che il legislatore, dopo aver
abrogato l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, ha
mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un
incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono
conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo
ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per
la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art.
13-bis della legge n. 114/2014. Quest’ultima norma ha
inserito, nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici,
d.lgs. n. 163/2006, quattro nuovi commi, di cui si riporta,
per comodità espositiva, il contenuto del 7-bis e del 7-ter,
rilevanti ai fini del presente parere: "7-bis. A valere
sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni
pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e
l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al
2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o
di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un
regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo
per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma
7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli
incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e
le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie
connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali
incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto
dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del
ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo
periodo del presente comma, non sono computati nel termine
di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni
per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere
a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta
dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli
incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno
al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non
possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.".
Di conseguenza, a decorrere dall’entrata in
vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n.
90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche
amministrazioni, devono fare riferimento, per l’erogazione
degli incentivi al personale interno incaricato di attività
tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed
esecuzione di un’opera pubblica, alla novella legislativa,
con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento
interno che stabilisca la percentuale massima destinata a
tali compensi (comma 7-bis) ed un nuovo accordo integrativo
decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i
criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi devono
adeguarsi alle novità normative, su alcune aspetti delle
quali la Sezione ha avuto già modo di soffermarsi
(cfr.
parere 01.10.2014 n. 246,
parere 01.10.2014 n. 247,
parere 13.11.2014 n. 300).
Nel
parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453 della Sezione, dopo
averne richiamato il tenore letterale, è stato sottolineato
come la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis,
7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel
complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli
incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione
in materia di contratti pubblici. Quest’ultima
(cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006)
è informata da un principio generale, codificato
anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base
al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a
soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si
disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e
tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti
flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto
mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a
valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi
tecnici siano espletati da personale interno occorre far
riferimento, ai fini della loro remunerazione, alle regole
generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema
retributivo è conformato da due principi cardine, quello di
definizione contrattuale delle componenti economiche e
quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt.
2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001).
Tuttavia, la fonte legislativa, oltre a disciplinare la
struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico
impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in
omaggio al generale sistema delle fonti, disciplinare in
modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si
rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l.
n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché
attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso
dell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del d.lgs. n.
163/2006).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui
denominazione risale all’art. 18 dell’abrogata legge n.
109/1994), costituisce, infatti, uno di quei casi nei quali
il legislatore, derogando al principio per cui il
trattamento economico è fissato dai contratti collettivi,
attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai
regolamenti dell’amministrazione ed alla contrattazione
decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone
alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014,
risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a
mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del
fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a
base di gara).
Limitando l’analisi ai quesiti avanzati dal comune istante,
i punti fermi che il regolamento interno deve
rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione)
sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non,
pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi);
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza,
direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione
(si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18
e
deliberazione 02.05.2001 n. 150 dell’Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici).
Alla luce di tali premesse, per quanto concerne il primo
quesito posto dal comune istante, si evidenzia come
l’art. 151 del DPR n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione ed
attuazione del d.lgs. n. 163/2006) dispone che le funzioni
del coordinatore per l'esecuzione dei lavori previsti dalla
vigente normativa sulla sicurezza nei cantieri (d.lgs. n.
81/2008, c.d. testo unico in materia di salute e sicurezza
sui luoghi di lavoro) possono essere svolte dal direttore
lavori, qualora sia provvisto dei requisiti previsti dalla
normativa stessa. Nell'eventualità, invece, che il direttore
dei lavori non svolga le funzioni di coordinatore per
l'esecuzione dei lavori, le stazioni appaltanti prevedono la
presenza di almeno un direttore operativo, in possesso dei
requisiti previsti dalla normativa, che svolga le funzioni
di coordinatore per l'esecuzione dei lavori.
L’art. 98 del d.lgs. n. 81/2008 disciplina i presupporti per
l’espletamento di tale attività, imponendo una serie di
requisiti professionali e di formazione, analiticamente
elencati, che debbono essere posseduti, come ricordato dal
comune istante, anche dal personale delle pubbliche
amministrazioni chiamato ad espletare tale incarico
all’interno del procedimento di esecuzione di un’opera
pubblica.
I compiti del coordinatore della sicurezza in fase di
esecuzione sono elencati nell'articolo 92, comma 1, del
citato d.lgs. n. 81/2008 (verifica dell'applicazione, da
parte delle imprese esecutrici, delle disposizioni contenute
nel piano di sicurezza e di coordinamento; verifica
dell’idoneità di quest’ultimo; segnalazione al committente o
al responsabile dei lavori delle inosservanze riscontrate;
proposta di sospensione dei lavori o della risoluzione del
contratto, etc.). Inoltre, deve assicurare il rispetto delle
disposizioni di cui all'articolo 131 del d.lgs. n. 163/2006,
che ribadisce, integrandole in parte, per quanto riguarda la
specifica materia dei lavori pubblici, quanto prescritto, in
linea generale, dal d.lgs. n. 81/2008.
L’attività di coordinatore della
sicurezza in fase di esecuzione costituisce, pertanto,
una delle attività che fanno capo alla direzione dei lavori,
ufficio che, come disposto dall’art. 130 del d.lgs. n.
163/2006, tutte le amministrazioni aggiudicatrici sono
obbligate ad istituire per garantire la corretta esecuzione
dei lavori pubblici. Tale ufficio è costituito da un
direttore dei lavori ed, eventualmente, da assistenti,
denominati direttori operativi (a cui può essere attribuita,
come visto, la funzione di coordinatore della sicurezza in
fase di esecuzione) e ispettori di cantiere
(cfr. artt. 147 e seguenti del DPR n. 207/2010).
Pertanto, l’attività di coordinatore
della sicurezza in fase di esecuzione, quando espletata
dal personale tecnico interno, investito della funzione di
direttore dei lavori o di direttore operativo (collaboratore
del primo), può beneficiare dell’incentivo previsto dal
novellato art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006.
Naturalmente, in sede di contrattazione
integrativa, è necessario considerare autonomamente le due
funzioni (quella di direttore dei lavori e quella di
coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione), in modo
da attribuire correttamente ai dipendenti incaricati la
quota del fondo costituito dall’amministrazione ai sensi dei
commi 7-bis e 7-ter
(pari al 80% di una percentuale, nel limite massimo del 2%,
dell’importo posto a base di gara).
Nel caso in cui, infatti, l’attività di
coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione sia
espletata dallo stesso direttore dei lavori, munito dei
prescritti requisiti professionali e di formazione,
quest’ultimo potrà beneficiare di una quota di fondo
riferita anche a tale attività (percentuale della quota di
fondo spettante all’ufficio di direzione dei lavori). Nel
caso in cui, invece, la funzione sia espletata da un
direttore operativo, sarà quest’ultimo a poter beneficiare
della quota dell’incentivo riferita al coordinamento della
sicurezza in fase di esecuzione (mentre, simmetricamente, il
direttore dei lavori potrà percepire un incentivo decurtato
della percentuale spettante al direttore operativo).
Per quanto riguarda il secondo quesito posto dal
comune istante, la Sezione si limita a
ricordare come la nuova disciplina legislativa (art. 93,
comma 7-ter, penultimo periodo) ribadisca la confluenza in
economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a
prestazioni non svolte dai dipendenti interni, ma affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione.
Il precetto normativo non distingue in base alla motivazione
dell’attribuzione dell’incarico a professionisti esterni, ma
àncora la devoluzione in economia della corrispondente quota
parte del fondo incentivante alla mera ricorrenza di tale
presupposto.
La regola non fa che esprimere un principio di carattere
generale, posto dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n.
165/2001, in base al quale “Le amministrazioni pubbliche
non possono erogare trattamenti economici accessori che non
corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 12.05.2015 n. 193). |
ENTI LOCALI: Sul
servizio gratuito prestato da volontari.
Il carattere necessariamente oneroso del
rapporto di lavoro subordinato discende, con riferimento
agli enti locali, dall’art. 90, comma 2, TUEL, ai sensi del
quale “al personale assunto con contratto di lavoro
subordinato a tempo determinato si applica il contratto
collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti
locali”.
Le eccezioni alla necessaria onerosità del
rapporto di lavoro possono essere previste soltanto dalla
legge. Fra esse rileva in tale sede il lavoro prestato
gratuitamente nelle organizzazioni di volontariato.
Nella prospettiva di favorire l’autonoma iniziativa dei
cittadini sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale, la legge n. 91/266 ha,
infatti, introdotto nell’ordinamento la figura soggettiva
delle organizzazioni di volontariato, che persegue finalità
di carattere sociale, civile e culturale per il tramite
degli aderenti. Costoro devono prestare la propria opera in
modo personale, spontaneo e gratuito, senza scopo di lucro
neppure indiretto, esclusivamente per fini di solidarietà.
Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 266/1991 “Le
organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri
aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli
infortuni e le malattie connessi allo svolgimento
dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile
verso i terzi.
Con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e
dell'artigianato, da emanarsi entro sei mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge, sono individuati
meccanismi assicurativi semplificati, con polizze anche
numeriche o collettive, e sono disciplinati i relativi
controlli”.
Con specifico riferimento ai
soggetti beneficiari di ammortizzatori e di altre forme di
integrazione e sostegno del reddito previste dalla normativa
vigente, coinvolti in attività di volontariato a fini di
utilità sociale in favore di Comuni o enti locali, l’art. 12
del d.l. n. 90/2014, convertito, con modificazioni, nella
legge n. 114/2014 istituisce in via sperimentale, per il
biennio 2014-2015, presso il Ministero del lavoro e delle
politiche sociali “un Fondo finalizzato a reintegrare
l'INAIL dell'onere conseguente alla copertura degli obblighi
assicurativi contro le malattie e gli infortuni, tenuto
conto di quanto disposto dall' articolo 4 della legge
11.08.1991, n. 266”.
L’art. 7 della legge-quadro sul volontariato prevede la
possibilità che “Lo Stato, le
regioni, le province autonome, gli enti locali e gli altri
enti pubblici possono stipulare convenzioni con le
organizzazioni di volontariato iscritte da almeno sei mesi
nei registri di cui all'articolo 6 e che dimostrino
attitudine e capacità operativa”.
In tale contesto il comma 3 del medesimo articolo stabilisce
espressamente che “La copertura
assicurativa di cui all'articolo 4 è elemento essenziale
della convenzione e gli oneri relativi sono a carico
dell'ente con il quale viene stipulata la convenzione
medesima”.
Nei limiti anzidetti è, pertanto,
consentito all’ente locale di avvalersi di lavoro prestato
gratuitamente in regime di volontariato, con le riferite
conseguenze in punto di copertura assicurativa.
---------------
Il Sindaco del Comune di Camisano ha formulato una
richiesta di parere in merito alla possibilità di stipulare
“apposite polizze per garantire ai volontari adeguata
copertura assicurativa contro infortuni, malattie connesse
allo svolgimento dell’attività e per la responsabilità
civile” in considerazione del fatto che “molto spesso
cittadini singoli chiedono di poter prestare servizio
volontario a titolo individuale a favore del Comune in
diversi ambiti: biblioteca, uffici, tenuta del verde,
manutenzione edifici ecc.”.
...
Il quesito verte sulla possibilità di stipulare “apposite
polizze per garantire ai volontari adeguata copertura
assicurativa contro infortuni, malattie connesse allo
svolgimento dell’attività e per la responsabilità civile”
in considerazione del fatto che “molto spesso cittadini
singoli chiedono di poter prestare servizio volontario a
titolo individuale a favore del Comune in diversi ambiti:
biblioteca, uffici, tenuta del verde, manutenzione edifici
ecc.”.
Al riguardo si ritiene opportuno svolgere
alcune considerazioni di carattere preliminare. E ciò anche
al fine di evitare l’instaurazione surrettizia di forme di
lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione non
disciplinate dalla legge, ancorché a titolo precario,
interinale e occasionale.
Il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione è
presidiato dalla generale previsione di accesso tramite
concorso, passibile di essere superata solo in forza di una
disposizione di legge (art. 97, comma 4).
La modalità di ingresso agli impieghi pubblici tramite
concorso costituisce, da un lato, uno strumento al servizio
del buon andamento dell’agire pubblico (art. 97 Cost.), in
quanto volto ad individuare il miglior candidato per la
posizione bandita, e, dall’altro lato, presidia il diritto
di tutti i cittadini ad accedere agli uffici pubblici (art.
51 Cost.) quale strumento per promuovere l’uguaglianza e
rimuovere gli ostacoli che di fatto la limitano (art. 3
Cost.).
Il rapporto di lavoro subordinato riveste un carattere
necessariamente oneroso in aderenza al dettato dell’art. 36
della Costituzione, in forza del quale “Il lavoratore ha
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e
qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e
dignitosa”.
L’art. 2094 c.c. qualifica come prestatore di lavoro
subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a prestare
il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione del
datore di lavoro.
L’onerosità è garantita dall’art. 2126 c.c. anche nel caso
di nullità o annullamento del contratto di lavoro non
derivante da illiceità dell’oggetto o della causa,
allorquando è riconosciuto il diritto al trattamento
retributivo per la prestazione di fatto svolta dal
lavoratore.
Il carattere necessariamente oneroso del
rapporto di lavoro subordinato discende, con riferimento
agli enti locali, dall’art. 90, comma 2, TUEL, ai sensi del
quale “al personale assunto con contratto di lavoro
subordinato a tempo determinato si applica il contratto
collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti
locali”
(Sezione Campania 155/2014/PAR).
Le eccezioni alla necessaria onerosità del
rapporto di lavoro possono essere previste soltanto dalla
legge. Fra esse rileva in tale sede il lavoro prestato
gratuitamente nelle organizzazioni di volontariato.
Nella prospettiva di favorire l’autonoma iniziativa dei
cittadini sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale, la legge n. 91/266 ha,
infatti, introdotto nell’ordinamento la figura soggettiva
delle organizzazioni di volontariato, che persegue finalità
di carattere sociale, civile e culturale per il tramite
degli aderenti. Costoro devono prestare la propria opera in
modo personale, spontaneo e gratuito, senza scopo di lucro
neppure indiretto, esclusivamente per fini di solidarietà.
Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 266/1991 “Le
organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri
aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli
infortuni e le malattie connessi allo svolgimento
dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile
verso i terzi.
Con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e
dell'artigianato, da emanarsi entro sei mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge, sono individuati
meccanismi assicurativi semplificati, con polizze anche
numeriche o collettive, e sono disciplinati i relativi
controlli”.
Con specifico riferimento ai soggetti
beneficiari di ammortizzatori e di altre forme di
integrazione e sostegno del reddito previste dalla normativa
vigente, coinvolti in attività di volontariato a fini di
utilità sociale in favore di Comuni o enti locali, l’art. 12
del d.l. n. 90/2014, convertito, con modificazioni, nella
legge n. 114/2014 istituisce in via sperimentale, per il
biennio 2014-2015, presso il Ministero del lavoro e delle
politiche sociali “un Fondo finalizzato a reintegrare
l'INAIL dell'onere conseguente alla copertura degli obblighi
assicurativi contro le malattie e gli infortuni, tenuto
conto di quanto disposto dall' articolo 4 della legge
11.08.1991, n. 266”.
L’art. 7 della legge-quadro sul volontariato prevede la
possibilità che “Lo Stato, le regioni,
le province autonome, gli enti locali e gli altri enti
pubblici possono stipulare convenzioni con le organizzazioni
di volontariato iscritte da almeno sei mesi nei registri di
cui all'articolo 6 e che dimostrino attitudine e capacità
operativa”. In
tale contesto il comma 3 del medesimo articolo stabilisce
espressamente che “La copertura
assicurativa di cui all'articolo 4 è elemento essenziale
della convenzione e gli oneri relativi sono a carico
dell'ente con il quale viene stipulata la convenzione
medesima”.
Nei limiti anzidetti è, pertanto,
consentito all’ente locale di avvalersi di lavoro prestato
gratuitamente in regime di volontariato, con le riferite
conseguenze in punto di copertura assicurativa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 11.05.2015 n. 192). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il rimborso delle spese legali.
DOMANDA:
Nei confronti di un dipendente è stata emessa sentenza di
non luogo a procedere per il reato di cui all'art. 615, c. 1
e 3, del c.p. in quanto i locali interessati non sono stati
configurati come dimora privata. Nel procedimento in
questione, persona offesa è altro sovraordinato
all'indagato.
Nelle motivazioni della sentenza non si esclude, né si
ammette la riferibilità all’indagato dei dispositivi di
registrazione rinvenuti e sequestrati in quanto
l’interessato non è stato colto nell’atto dell’installazione
degli stessi. L'art. 28 del contratto di categoria del
14/09/2000 disciplina il rimborso delle spese legali nei
confronti dei dipendenti ponendo determinate condizioni.
Si domanda se nel caso di specie possano ritenersi
sussistenti tali condizioni stante le dette motivazioni
della sentenza, segnalandosi la difficoltà sia a ritenere il
comportamento imputato posto in essere a causa e
nell'esercizio delle funzioni e sia a escludere il conflitto
di interessi con l'ente.
RISPOSTA:
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i presupposti
(oltre a quelli risultanti dall'art. 28 del C.C.N.L.
14.09.2000) che devono ricorrere affinché l’ente possa
assumere l’onere dell’assistenza legale del dipendente:
a) l’assenza di dolo e colpa grave in capo al dipendente
sottoposto a giudizio;
b) il giudizio deve riguardare atti o fatti strettamente
connessi all’espletamento dell’attività istituzionale del
dipendente;
c) l’assenza, in concreto, di conflitti di interesse tra il
dipendente e l’ente di appartenenza;
d) che, se il rimborso sia chiesto ex post, la spesa
deve rispondere a parametri di obiettiva congruità e non
deve esservi conflitto d’interessi con l’ente.
La Corte dei Conti ed il Consiglio di Stato sono inoltre
orientati ad affermare che, se il procedimento si conclude
con il proscioglimento, il diritto al rimborso sussiste
soltanto nelle ipotesi di cui agli artt. 529 e 530, comma 1,
cod. pen., rispettivamente di non luogo a procedere e di
proscioglimento nel merito.
Nella fattispecie in esame, il dipendente è stato querelato
per il reato di cui all'art. 615-bis comma 1 e 3 c.p., ossia
per aver fatto uso di strumenti di ripresa visiva o sonora,
"per procurarsi indebitamente notizie o immagini
attinenti alla vita privata" di un altro dipendente
dell’ente. Il giudice ha dichiarato il non luogo a
procedere, in quanto i locali interessati non sono stati
configurati come dimora privata (mentre, per la
configurabilità del reato, occorre che esso sia commesso nei
luoghi indicati nell'articolo 614 c.p.).
Tuttavia non si è pronunciato, attenendo al merito, sull'addebitabilità
all’indagato dell’installazione dei dispositivi di
registrazione rinvenuti e sequestrati, né l'imputato è stato
colto nell’atto di farlo. Dall'analisi emerge come non sia
certamente sussistente il presupposto di cui alla lett. b),
necessario affinché l’ente possa assumere l’onere della
refusione delle spese legali del dipendente. Inoltre, non si
ha la certezza riguardo all'esistenza dei requisiti di cui
alla lett. c).
Non si può infatti sostenere che il giudizio abbia
riguardato atti o fatti strettamente connessi
all’espletamento dell’attività del dipendente.
L’installazione di un registratore nella stanza di un
collega, sia o meno realmente imputabile al dipendente
querelato, è comunque estranea all'attività del dipendente
(non potendo realizzare tale connessione la semplice
circostanza di essere avvenuta sui luoghi di lavoro e nei
confronti di altro dipendente).
Il fatto poi che la sentenza si è fermata
sull'improcedibilità per mancanza di un elemento
fondamentale della fattispecie di reato, e non si è
pronunciata sul merito dell'addebitabilità al dipendente del
comportamento non costituente reato, non esclude la
sussistenza -almeno potenziale- del concreto conflitto di
interesse tra il dipendente e l’ente di appartenenza (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: chiarimenti sulla definizione di
ristrutturazione edilizia
(Regione Emilia Romagna,
parere 25.05.2015 n. 337640 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Gruppi, decide il comune.
L'ipotesi dell'espulsione va regolamentata.
Il consigliere sospeso dal partito non è obbligato a
lasciare.
Quali effetti produce, sulla composizione dei gruppi
consiliari costituitisi in seno al consiglio comunale, il
provvedimento con il quale un consigliere comunale è stato
sospeso dal proprio partito di riferimento?
Il quesito, nel caso di specie, attiene alla sussistenza, o
meno, del potere del presidente del consiglio comunale di
chiedere a un consigliere, sospeso dagli organi del proprio
partito di riferimento, di iscriversi a un gruppo consiliare
diverso da quello riconducibile al partito politico dal
quale sia stato sospeso.
In linea generale, il rapporto tra il candidato eletto e il
partito di appartenenza «non esercita influenza
giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di
mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti
del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale
rispetto alla lista o partito che li ha candidati» (Tar
Puglia, sez. di Bari, sentenza n. 50/2005).
Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono
configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non
sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà
direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di
riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente. In
merito il Tar Lazio, con sentenza n. 16240/2004, ha
precisato che i gruppi consiliari hanno una duplice natura;
essi rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti
all'interno delle assemblee, e, per altro verso,
costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto
articolazioni interne di un organo istituzionale.
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
peraltro, demanda al regolamento, «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del
funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche
relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi
consiliari devono essere valutate alla stregua delle
specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente
locale si è dotato. Nella fattispecie in esame, il
regolamento sul funzionamento del consiglio del comune
prevede che «il consigliere che intende appartenere a un
gruppo diverso, deve darne comunicazione al presidente,
allegando la dichiarazione di accettazione del capogruppo.
Senza la dichiarazione di accettazione la comunicazione non
ha effetto».
La disposizione regolamentare reca, pertanto, una disciplina
dettagliata per quanto riguarda il passaggio da un gruppo ad
altro, con il presupposto indefettibile dell'accettazione da
parte del presidente del gruppo cui il consigliere chiede di
aderire, mentre non sembra potersi rinvenire una specifica
normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un
consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario.
Pertanto, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è
interamente demandata allo statuto e al regolamento sul
funzionamento del consiglio, spetta alle decisioni del
consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le
singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con
apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in
argomento, al fine di assicurare il regolare funzionamento
dei gruppi e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie
dell'assemblea consiliare
(articolo ItaliaOggi del 22.05.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Può un consigliere comunale, che ne ha fatto richiesta,
lasciare il proprio gruppo di appartenenza originario e
costituirne uno nuovo, ispirato a un omonimo gruppo presente
nell'ambito del Parlamento nazionale?
L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000, demanda al
regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo
statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli;
pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate
alla stregua delle specifiche norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
In merito
alla questione in esame, nel regolamento sul funzionamento
del consiglio comunale è previsto che il consigliere che
abbandoni il gruppo di appartenenza possa costituirne un
altro se dichiari di aderire a una forza politica
rappresentata con un proprio gruppo parlamentare nell'ambito
del parlamento nazionale. Considerato che presso la camera
dei deputati risulta essere presente un gruppo omonimo, il
caso prospettato sembrerebbe coerente con la fattispecie
astrattamente prevista dalla norma regolamentare e,
pertanto, rispettoso della stessa.
Tuttavia, poiché la
materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo
statuto e al regolamento sul funzionamento del consiglio, è
in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le
relative problematiche applicative
(articolo ItaliaOggi del 22.05.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Sostituzione del capogruppo di un gruppo consiliare comunale.
Qualora lo statuto e il regolamento, ai
quali è demandata la disciplina sul funzionamento dei gruppi
consiliari in forza dell'articolo 38 del D.Lgs. 267/2000,
non indichino alcun criterio in ordine alla designazione o
alle successive variazioni del capogruppo, si ritiene che
l'individuazione dello stesso sia conseguente ad un'intesa
tra i componenti del gruppo oppure, in caso di controversie,
si renda necessario procedere a un'elezione interna.
Il consigliere comunale chiede di conoscere un parere in
merito alla regolarità della nomina di un capogruppo
consiliare. In particolare, desidera sapere se la
maggioranza dei consiglieri comunali appartenenti ad un
medesimo gruppo consiliare possa nominare un capogruppo
diverso da quello che stava ricoprendo l'incarico (e che non
ha rassegnato proprie dimissioni), comunicando un tanto al
segretario comunale.
In via generale, si osserva che l'esistenza dei gruppi
consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si
desume implicitamente da quelle disposizioni normative che
contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai
capigruppo. [1]
In particolare, la gestione dell'articolazione e del
funzionamento dei gruppi consiliari rientra nell'ambito
della più ampia autonomia funzionale e organizzativa, di cui
i consigli sono dotati, ai sensi dell'articolo 38 del TUEL,
e la relativa materia è, pertanto, regolata primariamente
dalle norme dello statuto e del regolamento consiliare.
Nel caso di specie, l'articolo 14 dello statuto comunale,
dopo aver previsto che i consiglieri eletti nella medesima
lista formano un gruppo consiliare, al comma 2, recita: 'Ciascun
gruppo comunica al Presidente del Consiglio il nome del
Capogruppo entro il giorno precedente la prima riunione del
Consiglio neo-eletto. [...]'.
Quanto al regolamento per la disciplina delle adunanze del
consiglio comunale, esso, all'articolo 3, rubricato 'Costituzione
dei Gruppi e dei Capi-gruppo' si limita, per quanto qui
di interesse, a prevedere che: 'Ciascun Gruppo è
rappresentato da un Capo Gruppo, che mantiene i rapporti con
il Presidente del Consiglio, il Sindaco e la Giunta'.
Le norme citate non contengono, pertanto, alcuna previsione
circa il criterio da adottare per la nomina del capogruppo
né quanto alla procedura da seguire nel caso in cui si
intenda addivenire alla sostituzione di un capogruppo
esistente. Ciò nonostante, si ritiene che la nomina del
capogruppo debba essere conseguente ad un'intesa tra i
componenti del gruppo oppure, in caso di controversie, si
renda necessaria l'individuazione mediante un'elezione
interna. [2]
Segue che, l'individuazione del capogruppo, in sostituzione
del precedente, effettuata dalla maggioranza dei consiglieri
appartenenti al gruppo (quattro su sei componenti) pare
potersi ritenere operata correttamente. Non risulterebbe,
invece, conforme all'articolo 14 dello statuto la
comunicazione della nuova nomina al segretario comunale e
non anche al Sindaco, in qualità di presidente del
Consiglio. Benché, infatti, la norma in commento faccia
riferimento alla nomina dei capigruppo che si effettua
all'indomani dell'insediamento del nuovo consiglio comunale
si potrebbe, in via interpretativa, applicare la stessa
anche per le nomine che si effettuano successivamente,
intendendo necessaria, pertanto, la comunicazione
dell'avvenuta nuova nomina al Sindaco, in qualità di
presidente del Consiglio entro il giorno precedente la prima
riunione di tale organo, successiva all'effettuata
sostituzione.
Per completezza, si fa presente che potrebbe essere valutata
la possibilità di integrare lo statuto o il regolamento
consiliare con una previsione espressa concernente la
disciplina da adottare nei casi di sostituzione dei
capigruppo esistenti.
---------------
[1] In particolare, si vedano gli articoli 38, comma 3,
ultimo capoverso ('Con il regolamento di cui al comma 2 i
consigli disciplinano la gestione di tutte le risorse
attribuite per il proprio funzionamento e per quello dei
gruppi consiliari regolarmente costituiti'), 39, comma 4
('Il presidente del consiglio comunale o provinciale
assicura una adeguata e preventiva informazione ai gruppi
consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni
sottoposte al consiglio.') e 125 ('Contestualmente
all'affissione all'albo le deliberazioni adottate dalla
giunta sono trasmesse in elenco ai capigruppo consiliari; i
relativi testi sono messi a disposizione dei consiglieri
nelle forme stabilite dallo statuto o dal regolamento') del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
[2] Si veda, al riguardo, il parere del Ministero
dell'Interno - Dipartimento per gli affari interni e
territoriali, del 12.09.2003
(20.05.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
APPALTI:
Corsa a ostacoli per impugnare l'appalto.
Diventa una corsa a ostacoli impugnare un appalto
particolarmente complesso. Se il ricorso al Tar supera le 30
pagine bisogna farsi autorizzare dal giudice amministrativo,
che ha tre giorni di tempo per rispondere. E questo prima
della notifica dell'atto di impugnazione. Si contrae, così,
ancora di più il lasso di tempo a disposizione per iniziare
il processo (30 giorni).
È questa la conseguenza del
decreto 25.05.2015 n. 40
del presidente del Consiglio di
Stato
che ha inserito all'art. 120 del codice del processo
amministrativo la regola del numero massimo di pagine per
gli atti difensivi.
Il decreto ha definito il limite di pagine per il ricorso e
gli altri scritti difensivi e ha anche elaborato un sub
procedimento di autorizzazione alla deroga nei casi
complessi (si veda ItaliaOggi di ieri).
Prima della notifica del ricorso (che scade nel termine di
30 giorni), l'interessato deve portare al giudice il ricorso
contenente l'istanza a derogare dal limite di 30 pagine.
Entro tre giorni il Tar si deve pronunciare autorizzando o
meno il più alto numero di pagine. Se il Tar non risponde
vuol dire autorizzazione allo sforamento; lo stesso vale nel
caso in cui il Tar si pronunci dopo il terzo giorno. Se
arriva l'autorizzazione bisogna notificarla a controparte
insieme al ricorso (chiedendo copia autentica alla
segreteria del Tar). Se passano i tre giorni e non arriva
nulla, l'avvocato interessato ha due scelte: chiedere al Tar
la certificazione di segreteria sull'avvenuta formazione del
silenzio-assenso oppure fare una autodichiarazione del
medesimo contenuto.
La certificazione o la autodichiarazione devono essere
notificato insieme al ricorso. Va notato che i tempi di
questo sub-procedimento vanno a ritagliare un termine
abbreviato per la presentazione del ricorso (30 giorni). Se
si considera, poi, che l'interessato non sempre si rivolge
subito al legale e che bisogna raccogliere i documenti, e
che bisogna tener conto, ora, dei tre giorni necessari per
avere l'autorizzazione ad andare oltre le 30 pagine, e che è
meglio non aspettare il terzultimo giorno disponibile
(casomai arrivasse un diniego espresso, che costringe a
riscrivere e tagliare l'atto), il ricorso negli appalti
complessi diventa una corsa a ostacoli.
Anzi il tempo si restringe proprio per gli appalti più
complicati. D'altra parte senza l'autorizzazione preventiva
del Tar, il rischio è grosso. Ciò che scritto in eccesso
potrebbe non essere nemmeno esaminato e, quindi, è come se
non fosse scritto
(articolo ItaliaOggi del 28.05.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni
legate al passato. Risorse programmate in base al triennio
precedente. Lo prevede la bozza del decreto enti locali, che
smentisce la tesi della Corte conti.
Le risorse assunzionali si programmano con riferimento al
triennio precedente all'anno di programmazione non guardando
al triennio futuro.
Il decreto «enti locali» (la cui approvazione da
parte del Consiglio dei ministri è in dirittura) smentisce
la Corte dei conti sull'utilizzo delle risorse di personale
destinate all'assunzione nell'arco del triennio, regolato
dall'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, convertito in
legge 114/2014.
Se il testo delle bozze in circolazione sarà confermato, si
tratterà di una sorta di interpretazione autentica normativa
largamente opportuna, che metterà fine al problema posto
dall'interpretazione piuttosto discutibile offerta dalla
Sezione Autonomie della magistratura contabile con il parere
27/2014.
Tutto trae origine dalla formulazione non proprio chiara
dell'articolo 3, comma 5, del cosiddetto «decreto Madia»:
«A decorrere dall'anno 2014 è consentito il cumulo delle
risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non
superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del
fabbisogno e di quella finanziaria e contabile».
Considerato che le assunzioni possono essere effettuata a
valere su risorse effettivamente disponibili, a tutti era
parso ovvio che il cumulo triennale previsto dal dl 90/2014
fosse riferito al triennio precedente, con la possibilità di
utilizzare, dunque, «resti» non spesi in quell'arco
di tempo.
La Sezione Autonomie sorprendentemente interpretò la norma
in senso totalmente opposto «il riferimento alla
programmazione sembra lasciare intendere che il triennio
possa essere quello successivo al 2014, così come la
dicitura riferita alle risorse ''destinate'' alle
assunzioni. Ciò risulta funzionale anche perché, di solito,
gli enti impiegano un periodo di tempo piuttosto lungo per
svolgere un concorso pubblico: questa norma consente perciò
di rendere la programmazione più coerente anche con i
fabbisogni futuri».
La chiave di lettura fornita dalla Sezione Autonomie, con
motivazioni per altro piuttosto deboli, ha creato non pochi
problemi alle amministrazioni e si è immediatamente rivelata
incompatibile con il congelamento delle assunzioni imposto
dalla legge 190/2014.
Il decreto enti locali intende, dunque, eliminare l'impasse
causato dalla Sezione Autonomie novellando l'articolo 3,
comma 5, nel quale viene inserito il seguente periodo: «è
altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili
delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite
al triennio precedente».
In questo modo, il legislatore dispone espressamente, come
logica gestione impone, l'utilizzabilità dei resti non spesi
delle facoltà assunzionali riferiti al triennio precedente e
non al triennio successivo
(articolo ItaliaOggi del 27.05.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La Pec è valida solo se esclusiva.
Direttive Mise-Giustizia. La posta certificata non può
fare riferimento a più soggetti - Obbligo di pubblicità
anche per le variazioni di capitale.
In un’altra
direttiva 27.04.2015 adottata dal Mise di concerto con il
dicastero della Giustizia, si stabilisce anzitutto che
l’iscrizione al Registro delle imprese dell’indirizzo di
posta elettronica certificata di un’impresa è legittimamente
effettuata solo se detto indirizzo è nella «titolarità
esclusiva» della medesima. Quindi, lo stesso indirizzo Pec
non può essere riferito a una pluralità di soggetti
(individuali o societari, non importa) iscritti nel Registro
delle imprese.
Viene disposto che, prima di procedere all’iscrizione di un
indirizzo Pec, il Registro imprese verifica sia che
l’indirizzo non risulti già assegnato ad altra impresa sia
che non si tratti di un indirizzo «inattivo» (in tal caso il
richiedente viene invitato a indicare un nuovo indirizzo
«attivo» entro un congruo termine, pena il rigetto della
domanda d’iscrizione).
Il soggetto che dunque non regolarizza non subisce una
sanzione pecuniaria: l’impresa che non ha indirizzo (o che
aveva un indirizzo poi cancellato) e che presenti al
Registro imprese un’istanza di iscrizione, riceve un
provvedimento di sospensione per “stimolare” l’integrazione
dell’istanza con la comunicazione di un indirizzo di posta
elettronica certificata proprio e corrispondente a una
casella attiva.
Se perdura questo stato di omessa comunicazione si giunge
infine al rigetto dell’istanza, la quale «si intende non
presentata», con conseguente applicazione della sanzione
amministrativa pecuniaria prescritta per l’omissione degli
adempimenti pubblicitari; inoltre, si determina l’apertura
del procedimento per l’iscrizione d’ufficio, ai sensi
dell’articolo 2190 del codice civile, dell’atto o della
notizia oggetto dell’istanza considerata come non
presentata.
Capitale sociale
Dopo la fase di costituzione della società, si possono avere
diverse ipotesi di variazione del capitale sociale a causa
dei versamenti che i soci effettuino. Secondo una terza
direttiva Mise-Giustizia - anche le modifiche al capitale
versato delle Srl e delle Spa sono oggetto di un autonomo
obbligo di iscrizione nel Registro delle imprese; obbligati
all’adempimento sono gli amministratori della società nel
termine di 30 giorni dal momento in cui la società ha
ricevuto il versamento (il ritardo o l’omissione comporta
l’applicazione, nei confronti di ciascuno degli obbligati,
delle sanzioni previste dall’articolo 2630 del codice
civile) (articolo Il Sole 24 Ore del
27.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ricorsi amministrativi smilzi. Massimo 50 pagine.
Ma solo nei giudizi più rilevanti.
Il Consiglio di stato ha messo nero su bianco per decreto le
regole per il processo.
Scritti difensivi a dimensioni ridotte nel processo
amministrativo. Massimo 50 pagine nei giudizi più importanti
e complessi, e modalità di redazione standard, dall'utilizzo
del foglio al corpo del carattere.
A definire le dimensioni dei ricorsi e degli atti difensivi
è il
decreto
25.05.2015 n. 40 del Consiglio di stato, emanato ieri in
attuazione dell'art. 120 del dlgs n. 104/2010, e in via di
pubblicazione in G.U.
Le dimensioni.
Il decreto, che era stato sottoposto al
parere del Consiglio nazionale forense, dell'avvocato
generale dello stato, nonché delle associazioni di categoria
riconosciute degli avvocati amministrativisti (si veda
ItaliaOggi del 22 aprile scorso), disciplina, atto per atto,
il numero massimo di pagine consentite, le relative
eccezioni e le modalità da seguire per redigere gli atti.
Per esempio, le dimensioni dell'atto introduttivo del
giudizio, del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti,
degli atti di impugnazione principale e incidentale della
pronuncia di primo grado, della revocazione e
dell'opposizione di terzo proposti avverso la sentenza di
secondo grado, dell'atto di costituzione, delle memorie e di
ogni altro atto difensivo non espressamente disciplinato nel
decreto, sono contenute in massimo 30 pagine. Mentre la
domanda di misure cautelari autonomamente proposta
successivamente al ricorso e quella di cui all'art. 111 cpa
sono contenute nel numero massimo di dieci pagine, così come
le memorie di replica e l'atto di intervento e le memorie
della parte non necessaria del giudizio.
Da questi limiti
sono escluse intestazioni e altre indicazioni formali, come
l'epigrafe, l'indicazione delle parti e dei difensori e
relative formalità, l'individuazione dell'atto impugnato, il
riassunto preliminare (non eccedente le due pagine), le
conclusioni e così via.
Le eccezioni.
Il decreto prevede delle eccezioni nel caso in
cui l'atto presenti una determinata complessità, a livello
tecnico, giuridico o dal punto di vista degli interessi
sostanziali perseguiti di particolare rilievo anche
economico.
In questo caso, la valutazione è effettuata dal
presidente della sezione competente, previa formulazione di
istanza motivata in calce al ricorso, sulla quale il
presidente si pronuncia con decreto entro i tre giorni
successivi. In caso di esito positivo, sono autorizzati
limiti dimensionali non superiori nel massimo di 50 pagine
laddove il limite era di 30 e di 15 pagine laddove il limite
era di dieci.
La redazione dell'atto.
Gli atti devono poi essere redatti
su foglio A4, mediante caratteri di tipo corrente e di
dimensioni di almeno 12 punti nel testo e 10 nelle note a
piè di pagina, con una interlinea di 1,5 e margini
orizzontali e verticali di almeno 2,5 centimetri.
Il decreto
si applicherà alle controversie il cui termine di
proposizione del ricorso di primo grado o di impugnazione
inizi a decorrere trascorsi 30 giorni dalla pubblicazione in
G.U. Mentre le disposizioni possono essere modificate o
integrate in seguito a un apposito monitoraggio del
Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.
Le reazioni.
L'Unione nazionale amministrativisti, guidata
da Umberto Fantigrossi, ribadisce «la ferma contrarietà ad
ogni forma di regolamentazione in via normativa delle
dimensioni del ricorso e degli atti difensivi che reputa
posta in violazione del principio di efficacia ed
effettività dei diritti della difesa ed esprime la
convinzione che l'obiettivo dello spedito svolgimento del
giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui
all'art. 3, comma 2, del Codice del processo amministrativo
possa essere meglio perseguito piuttosto attraverso tecniche
di autolimitazione e di formazione, che non mediante misure
coercitive»
(articolo ItaliaOggi del 26.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nuovo
linguaggio al Sistri. Rinnovati la scheda tecnica e i codici
rifiuto. Il sistema di tracciabilità
si adegua alla nuova classificazione europea.
Nuova scheda tecnica a carico delle imprese soggette al
Sitri, per la movimentazione dei rifiuti. Cambia anche la
procedura di classificazione degli stessi, in virtù
dell'entrata in vigore, il 01.06.2015, della decisione
2014/955/Ue e del regolamento 1357/2014/Ue, che prevedono
rispettivamente il nuovo elenco dei codici Cer e la nuova
codifica per le caratteristiche di pericolo (si veda
ItaliaOggi del 12/05/2015).
A diffondere
le nuove specifiche
il 19.05.2015 è stato il dicastero dell'Ambiente. In presenza di
registrazioni di carico del Sistri effettuate secondo la
vecchia codifica dei rifiuti e non ancora movimentate,
ovvero parzialmente movimentate, è necessario procedere alla
compilazione di registrazioni cronologiche di scarico per
azzerare le quantità residue e, contestualmente, provvedere
alla compilazione di nuove registrazioni cronologiche di
carico per registrare le medesime quantità secondo i nuovi
criteri di classificazione.
Entro il 1° giugno, dunque, ogni
azienda dovrà effettuare la nuova classificazione rifiuti
con assegnazione codice di pericolo HP per quelli
classificati pericolosi, modificare le etichette del
deposito temporaneo, e infine verificare le giacenze sul
registro di carico/scarico del Sistri. Sempre dal 1° giugno
un secondo cambiamento riguarderà anche l'introduzione e la
variazione di nuovi codici Cer (010310 fanghi rossi derivati
dalla produzione di allumina contenenti sostanze pericolose,
diversi da quelli di cui alla voce 010307, 070217 rifiuti
contenenti silicio, diversi da quelli di cui alla voce
070216, 160307 mercurio metallico, 190308 mercurio
parzialmente stabilizzato).
Fino al 31 maggio varranno le
vecchie caratteristiche di pericolo H. Dopo, le nuove
caratteristiche di pericolo HP. Quindi dal 1° giugno
l'azienda che non ha classificato correttamente i propri
rifiuti in base alle nuove normative potrà incorrere in
pesanti sanzioni. Inoltre saranno ridenominate le
caratteristiche di pericolo ex H5 («nocivo») e ex H6
(«tossico»), nonché l'introduzione di nuove denominazioni
per le caratteristiche di pericolo ex H12 («rifiuti che, a
contatto con l'acqua, l'aria o un acido, sprigionano un gas
tossico o molto tossico») ed ex H15 («rifiuti suscettibili,
dopo l'eliminazione, di dare origine in qualche modo a
un'altra sostanza»)
(articolo ItaliaOggi del 26.05.2015
- tratto da www.centrosctudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Appalti,
tetto di pagine per i ricorsi. Il giudice vincolato a
esaminare solo le ragioni fatte valere nei limiti.
Diritto amministrativo. Il Consiglio di Stato fissa la
dimensione degli atti per le controversie sulle gare.
Un limite ai ricorsi amministrativi.
Almeno quantitativi.
A porli è il decreto con cui il Consiglio di Stato (ma a
prevederlo era stata la legge “del fare”) ha scandito i
limiti di pagine cui devono sottostare le contestazioni a
Tar e Consiglio stesso in materia di appalti. Il
provvedimento,
decreto 25.05.2015 n. 40, delimita innanzitutto
l’area di applicazione dei paletti che dovranno essere
rispettati da parte degli avvocati nella redazione degli
atti: gli appalti appunto. A seguire vengono scanditi i
limiti di pagine da rispettare.
Cosa succede, però, se questi limiti non vengono rispettati?
Il decreto non lo dice e per capirlo bisogna fare
riferimento a una disposizione che già era stata contestata
da parte dell’avvocatura (sul punto critici, per la
violazione al diritto di difesa, sia il Cnf sia l’Unione
nazionale degli avvocati amministrativisti), l’articolo 40
del decreto legge n. 90 del 2014. Testuale: «Il giudice è
tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine
rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle
suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la
sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di
appello».
A prima lettura così appare evidente come la penalizzazione
per il mancato rispetto dei vincoli sul numero di pagine sia
rappresentato dal possibile mancato esame delle ragioni
contenute nelle pagine in eccesso da parte dell’autorità
giudiziaria. Senza che, in questo caso, venga dalla legge
riconosciuto il mancato esame come un motivo di impugnazione
da fare valere nei gradi successivi di giudizio.
Quanto ai limiti introdotti dal decreto che è destinato a
rappresentare un punto di riferimento ineludibile (a meno di
future censure da parte della Corte costituzionale) va
innanzitutto sottolineato come «le dimensioni dell’atto
introduttivo del giudizio, del ricorso incidentale, dei
motivi aggiunti, degli atti di impugnazione principale ed
incidentale della pronuncia di primo grado, della
revocazione e dell’opposizione di terzo proposti avverso la
sentenza di secondo grado, dell’atto di costituzione, delle
memorie e di ogni altro atto difensivo non espressamente
disciplinato dai numeri seguenti, sono contenute, per
ciascuno di tali atti, nel numero massimo di 30 pagine».
Le domande per l’applicazione di misure cautelari devono
essere contenute entro le 10 pagine , mentre lo stesso
limite deve essere rispettato per la richiesta di misure
cautelari e per le memorie di replica.
Si può sforare dai limiti indicati? Sì, ammette il decreto,
quando la controversia presenta questioni tecniche,
giuridiche o di fatto particolarmente complesse oppure
riguarda interessi sostanziali di particolare rilievo anche
economico. In questa prospettiva vengono valutati, a titolo
di esempio, il valore della causa, comunque non inferiore a
50.000.000 euro, determinato secondo i criteri relativi al
contributo unificato, il numero e l’ampiezza degli atti e
provvedimenti effettivamente impugnati, la dimensione della
sentenza impugnata, l’esigenza di riproposizione di motivi
dichiarati assorbiti oppure di domande od eccezioni non
esaminate, la necessità di dedurre distintamente motivi di
natura diversa (articolo Il Sole 24 Ore del
26.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Delitti contro l'ambiente, via a superindagini e
maxisanzioni. Inquinamento,
disastro, omessa bonifica: arriva la stretta penale sugli
ecoilleciti.
Severa stretta sugli illeciti ambientali, che saranno
investigabili tramite intercettazioni, indagabili con
ricorso a misure cautelari personali, perseguibili
processualmente con un raddoppio dei termini legali e
punibili con la reclusione fino a 20 anni.
A inasprire l'apparato repressivo degli ecoreati è la legge
approvata in via definitiva dal parlamento lo scorso
19.05.2015 che introduce nel codice penale diversi nuovi
delitti contro l'ecosistema, corredandoli con pesanti
sanzioni e rendendo loro di conseguenza in molti casi
applicabili i più invasivi strumenti procedurali previsti
dal sistema per perseguire gli illeciti considerati di
maggiore gravità.
Le nuove fattispecie consentiranno di perseguire molto più
duramente inquinamento e disastro ambientale, traffico o
abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento di
controlli pubblici, omessa bonifica di siti inquinati,
affiancando le figure penali (nella maggior parte inquadrate
come più blande «contravvenzioni») già previste da codice
ambientale (dlgs 152/2006), codice penale (in via
giurisprudenziale) e provvedimenti di settore.
Nuovi ecodelitti.
A guidare, per peso di pena edittale, i delitti previsti dal
nuovo titolo VI-bis del codice penale (rubricato come «Dei
delitti contro l'ambiente») sono la «morte o lesioni come
conseguenza di inquinamento ambientale» (con reclusione fino
a 20 anni) e il «disastro ambientale» (fino a 15 anni),
seguiti da «inquinamento ambientale» e traffico o abbandono
di materiale altamente radioattivo (6 anni), «omessa
bonifica» (4 anni), «impedimento di controlli» (3 anni).
Comuni ai delitti d'inquinamento, disastro e traffico di
materiali radioattivi è la necessità di aver posto in essere
la condotta «abusivamente».
Sul punto si ritiene opportuno segnalare che all'avverbio è
stato dalla Cassazione dato in passato un significato
oscillante, laddove con sentenza 8299/2010 lo si è esteso a
tutte le attività non conformi ai precisi dettati normativi
mentre con sentenza 46189/2011 lo si è ristretto alle
attività poste in essere senza le necessarie autorizzazioni,
in violazione delle prescrizioni e/o dei limiti sanciti
dalle stesse o sulla base di titoli illegittimi o scaduti.
Le fattispecie.
A tracciare il confine tra il delitto d'inquinamento e
quello di disastro ambientale sono gli effetti della
condotta abusiva, laddove dovrà ritenersi integrato il
secondo e più grave reato qualora l'alterazione
dell'ecosistema sia irreversibile o eliminabile solo tramite
gravosi interventi (per i quali non sono però indicati
parametri). Vi è anche una fattispecie colposa, che prevede
finanche un'ipotesi di anticipazione della punibilità alla
condotta che cagioni il semplice pericolo di danno.
Caratteristica del nuovo delitto di disastro ambientale è il
suo collegamento sistematico con lo storico reato di
«disastro innominato» ex art. 434 cp (cui è stato ricondotto
fino a oggi quello a carico dell'ecosistema). La nuova
fattispecie prevede una clausola di riserva che salva
l'applicabilità del reato ex art. 434 cp, plausibilmente per
reprimere le condotte illecite poste in essere prima
dell'entrata in vigore del neo art. 542-quater, ma ad esso
non riconducibili ratione temporis e quelle posteriori non
inquadrabili tecnicamente nell'esordiente figura. La nuova
legge eleva a delitto anche l'omessa bonifica dei siti (art.
452-terdecies, cp), relegando l'applicabilità dell'analoga
contravvenzione ex art. 257 dlgs 152/2006 ai soli casi in
cui il fatto non «costituisca più grave reato».
È dunque plausibile ritenere che saranno perseguite
penalmente le violazioni dell'obbligo di ripristino previsto
dal nuovo art. 452-terdecies collegate alla commissione dei
neo delitti di inquinamento e disastro ambientale, mentre
resteranno sotto il Codice ambientale le residuali ipotesi.
Tramite la modifica dell'art. 157 cp è stato previsto per
tutte le nuove fattispecie un raddoppio dei termini di
prescrizione.
Riflessi processuali.
Oltre alla loro perseguibilità fin dalla fase di «tentativo»
(ex art. 56, cp), la collocazione dei nuovi reati ambientali
nel novero dei delitti aprirà in diversi casi le porte a
strumenti investigativi principe, come le intercettazioni
(artt. 266 e seguenti cpp per tutti i delitti non colposi
punibili con la reclusione superiore nel massimo a cinque
anni) così come pedissequamente permetterà l'applicazione
sia delle misure «precautelari» (arresto in flagranza di
reato e fermo di indiziato) che di quelle cautelari
(coercitive ed interdittive).
Aggravante e Responsabilità 231.
Una nuova e specifica «aggravante ambientale» inserita come
articolo 452-novies cp consentirà di punire con un aumento
(fino a metà) della relativa pena ogni altro reato previsto
dall'ordinamento commesso al fine (dunque, con dolo
specifico) di commettere un illecito ambientale.
Ancora, Enti ed imprese risponderanno a titolo
amministrativo ex dlgs 231/2001 anche dei nuovi delitti (sia
dolosi che colposi) di inquinamento e disastro ambientale,
traffico o abbandono di materiale ad alta radioattività
posti in essere da persone fisiche loro riconducibili.
Meccanismi deflattivi.
Si prevede altresì un meccanismo di ravvedimento operoso
(452-decies, cp) che prevede una decurtazione delle sanzioni
per chi: si adopera per evitare che l'attività delittuosa
sia portata a conseguenze ulteriori; provveda prima del
dibattimento processuale a bonifica; aiuti le Autorità a
ricostruire fatti, individuazione autori, sottrazione
risorse per commissione delitti.
La nuova legge introduce infine nel dlgs 152/2006 un
meccanismo deflattivo per le ipotesi contravvenzionali ex
Codice ambientale che non hanno cagionato danno (a risorse
ambientali, urbanistiche e paesaggistiche protette.
L'istituto consentirà l'estinzione del reato qualora il
contravventore adempia entro tempi certi e provveda al
pagamento di una somma chiesta in via amministrativa come
sanzione
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Web, tutto lecito se non vietato.
Il vademecum del Garante fissa le condizioni per
l'utilizzo della tecnologia digitale.
Scaricarsi la musica per l'iPod dalla rete internet
aziendale? Si può. Se il datore di lavoro non l'ha vietato,
espressamente e chiaramente, in un proprio regolamento non è
un'operazione vietata ai lavoratori.
Lo stabilisce il Garante della privacy nel
vademecum «Privacy e lavoro».
Uso del web e delle e-mail.
Tutto lecito, se non vietato: è il principio, astratto, cui
si informa il vademecum del Garante della privacy sull'uso
di internet e di e-mail in azienda. Se limitazioni devono
essercene per i lavoratori, queste vanno dettagliate dal
datore di lavoro; altrimenti ogni operazione passa per
possibile. In quest'ottica, dunque, spetta al datore di
lavoro adottare idonee misure di sicurezza per assicurare la
disponibilità e l'integrità dei sistemi informativi e dei
dati, anche per prevenire utilizzi indebiti.
Il datore di lavoro ha l'onere di informare, chiaramente e
in modo particolareggiato, i dipendenti su quali siano le
modalità di utilizzo degli strumenti messi a disposizione
ritenute corrette e se, in che misura e in quali modalità
vengono effettuati controlli anche in accordo con le
organizzazioni sindacali, utilizzando, per fare un esempio,
un disciplinare interno, chiaro e aggiornato affiancato da
un'idonea informativa.
Internet e rete interna aziendale.
Il datore di lavoro deve specificare con chiarezza se la
navigazione in internet o la gestione di file nella rete
interna autorizzi o meno specifici comportamenti come il
download di software o di file musicali o l'uso dei servizi
di rete con finalità ludiche o estranee all'attività
lavorativa. Occorre anche che siano specificate se e quali
conseguenze, anche di tipo disciplinare, il datore di lavoro
si riserva di trarre qualora constati che la posta
elettronica oppure la rete internet sono utilizzate
indebitamente.
Ancora, per ridurre il rischio di usi impropri di Internet,
il datore di lavoro può adottare opportune misure che
possono prevenire controlli successivi sul lavoratore, che
possono risultare leciti o meno a seconda dei casi e possono
comportare il trattamento di dati sensibili, come le
convinzioni religiose, filosofiche, politiche, lo stato di
salute o la vita sessuale. Ad esempio, può individuare i
siti web correlati o meno alla prestazione lavorativa o
configurare sistemi o filtri che prevengano determinate
operazioni.
Posta elettronica aziendale.
Stesso discorso per la posta elettronica aziendale. I
contenuti e le informazioni delle e-mail sono tutelati
costituzionalmente da garanzie di segretezza ma riguardano
anche l'organizzazione del lavoro. In questo quadro,
pertanto, per il Garante Privacy è opportuno che il datore
di lavoro renda disponibili indirizzi di posta elettronica
condivisi tra più lavoratori (ad esempio, ufficioreclami@società.com)
affiancandoli a quelli individuali (ad esempio rossi@società.com)
e valuti la possibilità di attribuire al lavoratore un
diverso indirizzo destinato ad un uso privato.
Il datore di lavoro può mettere a disposizione di ciascun
lavoratore apposite funzionalità di sistema che consentano
di inviare automaticamente, in caso di assenze programmate,
messaggi di risposta che contengano le «coordinate»
di un altro lavoratore.
Si può altresì consentire al lavoratore di delegare un altro
lavoratore (fiduciario) in caso di assenze prolungate a
leggere i messaggi di posta e a inoltrare al titolare del
trattamento quelli ritenuti rilevanti per l'attività
lavorativa. Di tale attività dovrebbe essere redatto
apposito verbale e informato il lavoratore interessato. In
caso di assenze non programmate (ad esempio, per una
malattia), qualora il lavoratore non possa attivare la
procedura descritta (anche avvalendosi di servizi webmail),
il datore di lavoro può incaricare altro personale (ad
esempio l'amministratore di sistema) di gestire la posta del
lavoratore, avvertendo l'interessato e i destinatari.
I controlli.
I controlli da parte del datore di lavoro per motivi
organizzativi o di sicurezza sono leciti solo se vengono
rispettati i principi di pertinenza e di non eccedenza. I
sistemi software devono essere programmati e configurati in
modo tale da cancellare periodicamente e automaticamente i
dati personali relativi agli accessi a internet e al
traffico telematico, qualora la conservazione non sia
necessaria.
Videosorveglianza e geolocalizzazione.
È vietato ai datori di lavoro privati e pubblici di
effettuare trattamenti di dati personali mediante sistemi
hardware e software che mirano al controllo a distanza dei
lavoratori. Tale divieto vale anche per l'uso di strumenti
di controllo quali la videosorveglianza e la
geolocalizzazione.
Non devono essere effettuati controlli a distanza al fine di
verificare l'osservanza dei doveri di diligenza stabiliti
per il rispetto dell'orario di lavoro e la correttezza
nell'esecuzione della prestazione lavorativa (ad es.
orientando la telecamera sul badge).
Vanno poi osservate le garanzie previste in materia di
lavoro quando la videosorveglianza o la geolocalizzazione
sono rese necessarie da esigenze organizzative o produttive,
o sono richieste per la sicurezza del lavoro.
In tali casi, ai sensi dell'art. 4 della legge n. 300/1970
(lo Statuto dei lavoratori), gli impianti e le
apparecchiature, «dai quali può derivare anche la
possibilità di controllo a distanza dell'attività dei
lavoratori, possono essere installati soltanto previo
accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure,
in mancanza di queste, con la commissione interna. In
difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro,
provvede l'Ispettorato del lavoro (cioè le direzioni
territoriali del lavoro), dettando, ove occorra, le modalità
per l'uso di tali impianti”.
In taluni casi la localizzazione geografica può essere utile
a rafforzare le condizioni di sicurezza dei dipendenti
permettendo l'invio mirato di soccorsi in caso di
difficoltà. Si possono ad esempio utilizzare i dati di
localizzazione geografica, rilevati da una «App»
(applicazione) attiva sugli smartphone in dotazione ai
lavoratori, purché vengano adottate adeguate cautele a
protezione della loro vita privata.
Occorre, infatti, adottare misure volte a garantire che le
informazioni visibili o utilizzabili dalla App siano solo
quelle di geolocalizzazione, impedendo l'accesso ad altri
dati, quali ad esempio, sms, posta elettronica, traffico
telefonico. Il sistema deve essere configurato in modo tale
che sullo schermo dello smartphone compaia sempre, ben
visibile, un'icona che indichi ai dipendenti quando la
funzione di localizzazione è attiva.
I dipendenti devono essere ben informati sulle
caratteristiche dell'applicazione (ad esempio, sui tempi e
sulle modalità di attivazione) e sui trattamenti di dati
effettuati dalle società. Sono inoltre necessarie cautele
circa la rilevazione dei dati di geolocalizzazione che non
deve essere continuativa e deve avvenire in modo che
l'ultima rilevazione cancelli quella precedente. Prima di
attivare il sistema le società devono notificare
all'Autorità il trattamento di dati sulla localizzazione.
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Stop all'uso generalizzato dei dati
biometrici.
Non è lecito l'uso generalizzato e incontrollato dei
cosiddetti «dati biometrici» (quelli ricavati, ad
esempio, dalle impronte digitali o topografia della mano).
Lo è in alcuni casi, come ad esempio, le impronte digitali o
la topografia della mano utilizzate per presidiare gli
accessi ad «aree sensibili» (nei luoghi dove si
svolgono processi produttivi pericolosi, nei locali
destinati a custodia di beni di particolare valore e/o alla
conservazione di documenti riservati) o per consentire
l'utilizzo di apparati e macchinari pericolosi ai soli
soggetti qualificati; l'impronta digitale o l'emissione
vocale possono essere utilizzate per l'autenticazione
informatica (accesso a banche dati o a pc aziendali); la
firma grafometrica per la sottoscrizione di documenti
informatici.
Ciò nel rispetto, in particolare, di rigorose misure di
sicurezza specificamente dettagliate nel provvedimento. In
alcuni casi individuati dal Garante, nel rigoroso rispetto
delle cautele individuate, il datore di lavoro non è tenuto
a richiedere il consenso al personale per adottare
tecnologie biometriche, ma deve comunque informare i
dipendenti sui loro diritti, sugli scopi e le modalità del
trattamento dei loro dati biometrici.
Non è generalmente ammessa la costituzione di banche dati
centralizzate ed è preferibile l'utilizzo di altre forme di
memorizzazione dei dati, ad esempio in smart card ad
uso esclusivo del dipendente. Nel caso in cui la tecnologia
biometrica che si vorrebbe adottare non rientri tra i casi
semplificati dal Garante, permane l'obbligo per il datore di
lavoro di richiedere un'apposita verifica preliminare prima
di iniziare il trattamento dei dati
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015). |
APPALTI:
Acquisti centralizzati per le in
house. Nei Comuni non capoluogo obblighi estesi ai titolari
di affidamenti diretti.
Anac. Le indicazioni dell’Autorità sugli obblighi di
gestione degli appalti in arrivo a partire da settembre.
Le società in house potrebbero
essere assoggettate agli obblighi di aggregazione per le
acquisizioni di lavori, servizi e forniture.
Nel
documento sottoposto a consultazione sui profili
applicativi dell’articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei
contratti, l’Autorità nazionale anticorruzione evidenzia la
possibilità che le società affidatarie dirette di servizi in
base al modello in house providing siano sottoposte
all’obbligo di effettuare acquisizioni di lavori, beni e
servizi mediante i modelli aggregativi previsti dalla norma
per i Comuni non capoluogo, quindi facendo ricorso alle
centrali di committenza organizzate dalle stesse
amministrazioni o ai soggetti aggregatori (Consip e centrali
di committenza regionali) o alle stazioni uniche appaltanti
presso le province.
Secondo l’Anac, infatti, l’assoggettamento delle società
all’obbligo al pari dei Comuni loro soci deriva proprio dal
particolare rapporto connesso al modulo di affidamento.
L’analisi parte dall’assunto per cui il metodo dell’in
house providing costituisce un principio derogatorio
rispetto alla regola dell’evidenza pubblica, e quindi deve
essere applicato in termini di stretta interpretazione.
Pertanto, in rapporto agli obblighi derivanti dall’articolo
33, comma 3-bis del Codice, secondo l’Anac,
l’assoggettamento al rispetto delle regole di evidenza
pubblica delle società affidatarie in house discende dal
fatto che esse sono equiparabili a una diramazione
organico-amministrativa dell’ente controllante.
Ne deriva che qualora sia un Comune non capoluogo di
provincia ad avvalersi di una società in house, lo stesso
regime giuridico dettato per il primo deve inevitabilmente
estendersi alla seconda riguardo agli acquisti di lavori,
beni e servizi.
Le società in house, quindi, dovrebbero attenersi
all’obbligo di acquisizione di lavori, beni e servizi
facendo ricorso, anch’esse, ai modelli aggregativi, peraltro
con una scelta che dovrebbe essere prodotta in modo coerente
con i Comuni soci.
La proposta interpretativa dell’Anac presenta tuttavia molti
elementi critici, a partire proprio dal tema della relazione
interorganica, posto in discussione dalla giurisprudenza
civilistica che ha giudicato molte società pubbliche
assoggettabili alle procedure fallimentari, riconoscendone
la distinta soggettività giuridica e la “alterità”
rispetto all’ente socio.
Lo stesso articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei
contratti, peraltro, a differenza di altre disposizioni in
materia di razionalizzazione dei conti pubblici adottate
negli ultimi anni (ad esempio le regole sulle riduzioni di
spesa previste dall’articolo 6 della legge 122/2010)
individua come destinatari solo i Comuni non capoluogo, non
riportando alcuna indicazione estensiva a soggetti
collegati.
L’interpretazione dell’Anac, inoltre, determinerebbe una
complicata situazione per le società in house che
gestiscono di servizi di rete riferiti agli ambiti
territoriali ottimali, frequentemente partecipate sia dal
Comune capoluogo che dagli altri Comuni della provincia.
Questi soggetti, infatti, rischierebbero di dover operare
con un regime differenziato per i subaffidamenti e per gli
appalti affidati in ragione della tipologia di ente
affidante, con ricorso ai moduli di aggregazione degli
acquisti per le esigenze riferite ai Comuni non capoluogo e
con gestione in proprio per quelle riferibili al Comune
capoluogo.
Si determina in questo modo un rischio evidente di
confliggenza con le logiche di aggregazione d’ambito,
promossa peraltro dai macro-criteri di razionalizzazione
delle partecipate definiti dal comma 611 dell’articolo 1
della legge 190/2014 (articolo Il Sole 24 Ore del
25.05.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Il Durc online parte dal 1° luglio.
Il ministro Poletti: «Se qualcosa andrà storto verifica
manuale da parte dell’ente».
Adempimenti. Definito il passaggio dalla carta al web: la
documentazione richiesta sarà emessa istantaneamente in
formato pdf.
Conto alla
rovescia per il Durc online. Il passaggio dalla carta al
web del documento unico di regolarità contributiva scatterà
dal primo luglio.
Lo ha promesso il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che
ieri ha spiegato le principali novità della semplificazione,
la quale attende (da un anno) un decreto attuativo. «Il
decreto sarà pubblicato sulla “Gazzetta” del primo giugno,
dalla pubblicazione scattano 30 giorni per l’entrata in
vigore: quindi si partirà dal primo luglio», ha detto il
ministro, affiancato dai presidenti di Inail, Inps e Casse
edili, cioè gli enti coinvolti nella procedura.
Il passaggio dalla carta al web porterà grandi vantaggi. Ci
sarà un solo Durc, rispetto ai quattro tipi oggi vigenti,
per varie funzioni. E ci sarà un unico periodo di validità:
120 giorni. Per fare un esempio, andrà in soffitta il Durc
specifico per i lavori edili privati, che vale 90 giorni.
Ma la vera rivoluzione è nei tempi e nella modalità del
rilascio. Il Durc -se tutto filerà liscio- sarà emesso
all’istante e in formato pdf stampabile. E potrà essere
chiesto direttamente dall’impresa (o da un suo delegato). La
richiesta sarà fatta da un punto di accesso creato sui
portali di Inps e Inail (ma non delle casse edili). Tutto
questo, appunto, dal primo luglio prossimo.
La richiesta avverrà tramite l’inserimento di un’unica
chiave: il codice fiscale dell’impresa (il sistema renderà
possibile la procedura alla sola azienda interessata). Il
click fa scattare l’interrogazione telematica delle banche
dati di Inps, Inail e Casse edili. A quel punto, se
l’impresa risulta in regola con tutti i versamenti, viene
restituito il Durc, abbinato a un codice. Il codice servirà
alla Pa, per verificare l’autenticità del Durc.
Questa, in sintesi, la procedura, sempre che non sorga
qualche problema, com’è probabilmente prevedibile. È stato
lo stesso presidente dell’Inps, Tito Boeri, a mettere le
mani avanti: «Qualche imprevisto lo troveremo», ha ammesso,
ricordando anche la mole dei numeri in gioco. «Nel 2013 e
nel 2014 ci sono state in media circa 5,5 milioni di
richieste di Durc per ciascun anno -ha riferito Boeri- ma
nei primi tre mesi di quest’anno ci sono state già 2 milioni
di richieste, il che significa, che entro l’anno potrebbero
esserci 8 milioni di richieste». Nelle sperimentazioni
finora fatte sono stati verificati oltre un milione di
codici fiscali di imprese, di cui 160mila del settore
dell’edilizia.
Il caso più temuto dalle imprese è quello del Durc negato
ingiustamente. L’impresa, cioè, risulta irregolare e invece
non lo è. In questo senso si guarda soprattutto all’Inps,
che ha la banca dati di gran lunga più grossa, complessa e
stratificata. A puntare il dito sull’Inps sono i consulenti
del lavoro. «Gli archivi dell’Istituto non sono aggiornati
in tempo reale», ha denunciato in una nota Vincenzo
Silvestri, vicepresidente dei professionisti.
La soluzione? L’ha spiegata lo stesso Poletti. «Se qualcosa
va storto ci sarà una verifica fatta manualmente dall’ente
interessato, e l’impresa riceverà una risposta entro 72
ore», ha assicurato il ministro.
In altre parole, se uno degli enti (ma il problema, come si
diceva, è soprattutto dell’Inps) dovesse dare semaforo
rosso, scatta la verifica manuale, entro 3-5 giorni, seguita
da una comunicazione all’impresa. Se l’irregolarità viene
confermata, l’impresa avrà 15 giorni per mettersi in regola.
La validità del Durc partirà dalla data della
regolarizzazione, ma la scadenza resta fissata ai 120
giorni conteggiati dalla richiesta. Sarà possibile chiedere
un solo Durc ogni 120 giorni. Il decreto in «Gazzetta» sarà
accompagnato da ben quattro circolari: Welfare, Inps, Inail,
Casse edili.
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Controlli Inps per la verifica delle posizioni.
L’operazione. Avviata un’operazione di pulitura massiccia
per partire con archivi regolari.
Prove tecniche
per il corretto funzionamento del Durc online che partirà
dal prossimo 1° luglio, in attuazione delle previsioni del
Dl 34/2014: è questo, in sintesi, il senso del
messaggio 21.05.2015 n. 3454
dell'Inps, diffuso ieri, a riguardo del cosiddetto Durc
interno (si legga anche l’articolo sopra).
Facendo una breve premessa, la nuova piattaforma consentirà
a chiunque vi abbia interesse, compresa la medesima impresa
coinvolta, di verificare in tempo reale la regolarità
contributiva nei confronti dell’Inps, dell’Inail e delle
Case Edili: l’interrogazione fornirà una certificazione che
avrà validità di 120 giorni dalla data di acquisizione,
sostituendo ad ogni effetto il Documento unico di regolarità
contributiva, come regolato nella sua veste attuale.
Ovvio che l’operazione avrà indubbi vantaggi per le imprese
nel momento in cui gli archivi degli enti interessati siano
“puliti”. Viceversa, il rischio è quello di un boomerang
perché alcune posizioni potrebbero risultare formalmente
irregolari quando magari sarebbero sufficienti semplici
sistemazioni contabili.
Proprio per prevenire queste criticità, l’Inps ha deciso di
giocare d’anticipo, attraverso un’operazione di pulitura
massiccia delle posizioni contributive gestite
dall’Istituto, che richiederà una particolare collaborazione
delle sedi.
Entrando nel dettaglio, il messaggio illustra come siano in
corso di ultimazione le operazioni di controllo della
regolarità ai fini della fruizione dei benefici normativi e
contributivi, dettando precise tempistiche: nella terza
decade del mese corrente ripartiranno le operazioni di invio
dei preavvisi di irregolarità ai fini della fruizione dei
suddetti benefici, seguendo le indicazioni già fornite in
passato.
Le aziende regolari troveranno riscontro di tale posizione
all’interno del Cassetto previdenziale aziende, dove verrà
visualizzato il “semaforo verde”, con riferimento ai mesi di
maggio giugno, luglio e agosto 2015.
Le aziende (attive nel mese di maggio 2015) che, invece,
presentano situazioni di irregolarità ancora in corso
(semaforo rosso) accertate a partire da gennaio 2008,
riceveranno il correlato preavviso, con le consuete
modalità: Pec all’intermediario o al datore di lavoro
ovvero, in via residuale, mezzo raccomandata a/r (sul punto
è importante l'aggiornamento, da parte del datore, degli
indirizzi Pec presenti nell’anagrafica aziende).
L’operazione slitta di un mese per le aziende la cui
matricola aziendale risulti sospesa o cessata.
A quel punto scatteranno i canonici 15 giorni per
regolarizzare la propria posizione, attraverso la
funzionalità “Contatti” del Cassetto previdenziale,
selezionando la voce “Durc interno (regolarità
contributiva)” all’interno dell’oggetto “Agevolazioni
contributive” (articolo Il Sole 24 Ore del
22.05.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Documento unico, da luglio basterà un click.
Durc online operativo dal 1° luglio. Basterà un click per
ottenere, in tempo reale, il Documento unico di regolarità
contributiva che, peraltro, avrà validità di 120 giorni per
tutte le finalità (compresi i lavori privati dell'edilizia,
per i quali la validità oggi è di 90 giorni).
A stabilire le nuove regole, presentate ieri dal ministro
del lavoro, Giuliano Poletti, è un decreto che sarà in
Gazzetta Ufficiale per i primi giorni di giugno.
Diversi i
vantaggi della procedura online, a cominciare dalle attese
(oggi un mese) per ottenere il certificato che dimostra la
regolarità della posizione contributiva di un'azienda. A
partire da luglio, invece, si potrà accedere all'archivio di
Inps, Inail e Casse edili e ottenere un Durc in formato
«pdf», in tempo reale.
Qualora siano riscontrate carenze
contributive, entro 72 ore il sistema segnalerà
all'interessato le cause dell'irregolarità e saranno poi
sufficienti pochissimi giorni per regolarizzare la posizione
ed ottenere il certificato. Semplificazione significa
risparmi per imprese e pubbliche amministrazioni. Il
ministero li ha valutati in oltre 100 mln di euro all'anno,
senza tuttavia convincere i consulenti del lavoro.
«Bisogna
stare attenti che di vera semplificazione si tratti e non di
un boomerang che a regime potrebbe complicare le cose più di
prima», ha commentato Vincenzo Silvestri, vicepresidente del
Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. «Fatta salva
la buona volontà, il rischio è», ha continuato Silvestri,
«che l'ente pubblico richieda direttamente il Durc online
all'Inps e l'azienda interessata si veda accendere il
semaforo rosso senza comprenderne il motivo. Ciò può
accadere», ha concluso Silvestri, «in quanto gli
archivi dell'Inps non sono aggiornati in tempo reale»
(articolo ItaliaOggi del 22.05.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, mobilità ferma al palo.
Il portale della Funzione pubblica è ancora carente di dati.
Molte le amministrazioni reticenti a fornire la rilevazione
dei fabbisogni di personale.
Ferma al palo la piattaforma web per la mobilità dei
dipendenti provinciali in sovrannumero. Il sito
www.mobilita.gov.it che dovrebbe contenere il sistema di
incontro tra domanda e offerta di mobilità tra le pubbliche
amministrazioni è ancora desolatamente assente di dati e
informazioni. Sono attivabili solo due menù: uno per la
«Rilevazione dei fabbisogni di personale e delle facoltà di
assunzione delle p.a.»; l'altro per l'«Individuazione del
personale degli enti di area vasta destinatari delle
procedure di mobilità». Nessuno degli elenchi che dovrebbero
comporre le due partizioni del portale, però, risulta
completo.
Sono moltissime le amministrazioni, specie locali,
reticenti nel fornire la rilevazione dei fabbisogni. Questo
significa che non è ancora noto quali siano i posti
disponibili nelle p.a. per avviare la mobilità dei
dipendenti in sovrannumero. Praticamente vuoto è il secondo
elenco, perché, salvo pochissime eccezioni, le province
hanno deciso di disapplicare le disposizioni contenute nella
legge 190/2014 e le indicazioni della circolare
interministeriale 1/2015, così da non adottare il
provvedimento per l'individuazione nominativa dei dipendenti
in sovrannumero. In queste condizioni, dunque, perdura
l'impossibilità di gestire in modo coordinato il
trasferimento dei 20.000 dipendenti che si stimano in
sovrannumero dalle province verso regioni, comuni e, in
seconda battuta, amministrazioni statali.
Prosegue, dunque,
il «fai da te» consigliato dalla circolare 1/2015, che nelle
more dell'attivazione della piattaforma informatica di
incontro domanda offerta, invita le amministrazioni
pubbliche ad emettere bandi di mobilità riservati al
personale provinciale in sovrannumero. Nella realtà, si
assiste ad applicazioni molto eterogenee e poco rispettose
delle norme di tale facoltà. Per un verso, infatti, si
assiste alla continua emanazione di bandi di concorso, che
dovrebbero considerarsi vietati alla luce del congelamento
delle assunzioni imposto dall'articolo 1, commi 424 e 425,
della legge 190/2014.
Per altro verso i bandi «riservati»
sono aperti a tutti i dipendenti delle province, anche se
non collocati in sovrannumero, in aperto contrasto con le
disposizioni del comma 422 della legge di stabilità, ai
sensi del quale la collocazione in sovrannumero è
presupposto di legittimità dei trasferimenti, per evitare la
sanzione della nullità delle assunzioni prevista dai commi
424 e 425.
Insomma, una situazione di caos a quasi sei mesi
di distanza dall'entrata in vigore della legge 190/2014.
Ora, di mesi alla scadenza del 31/12/2016, data superata la
quale i dipendenti provinciali saranno destinati alla messa
in disponibilità e al licenziamento, ne restano solo 18, in
una situazione nella quale occorre praticamente avviare
ancora tutto da zero.
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Centri impiego, risparmi con l'avvalimento.
La soluzione per i dipendenti provinciali addetti ai centri
per l'impiego potrebbe essere immediata e semplice, con l'avvalimento.
Nel gioco a rimpiattino tra stato e regioni sul destino
lavorativo dei quasi 20.000 dipendenti provinciali in
sovrannumero, dei quali circa 7.500 addetti ai servizi per
il lavoro, la legge 190/2014 potrebbe fornire la soluzione
per eliminare da subito dalle spese delle province gli oneri
connessi alla gestione dei centri per l'impiego, e alleviare
in parte il peso insostenibile della legge di stabilità,
svelato dalla deliberazione 17/2015 della sezione autonomie
della Corte dei conti.
È l'articolo 1, comma 427, a offrire la soluzione tecnica
immediata.
Il comma citato dispone che «nelle more della conclusione
delle procedure di mobilità di cui ai commi da 421 a 428, il
relativo personale rimane in servizio presso le città
metropolitane e le province con possibilità di avvalimento
da parte delle regioni e degli enti locali attraverso
apposite convenzioni che tengano conto del riordino delle
funzioni e con oneri a carico dell'ente utilizzatore».
In parole più semplici, fino a che non sia istituita
l'Agenzia nazionale per l'occupazione (della quale si sono
perse le tracce), gli addetti ai servizi per il lavoro
potrebbero restare formalmente alle dipendenze delle
province, ma essere funzionalmente alle dipendenze delle
regioni, che si avvarrebbero (con poteri ovviamente anche di
indirizzo politico amministrativo) dell'attività lavorativa,
e assunzione degli oneri relativi.
Tale soluzione sgraverebbe immediatamente le province di un
costo di circa 700 milioni di euro (dei quali circa 250 per
il personale) e potrebbe dare fiato al sistema provinciale,
a fortissimo rischio di andare incontro a diffusi dissesti
finanziari, senza compromettere oltre la funzionalità, già
molto compromessa, dei servizi.
Resterebbe, però, il problema più grave, quello appunto
dell'accollo dei relativi oneri finanziari. I 60 milioni
messi a disposizione per il personale dei Cpi dal comma 428
della legge 190/2014, oltre a essere largamente
insufficienti, sono di fatto evaporati, perché
inutilizzabili senza violare le regole di impiego dei fondi
europei.
Le regioni, per attuare l'avvalimento, dovrebbero, allora,
finanziare da sé i servizi per il lavoro e addossarsi un
onere di 700 milioni circa. E non ne hanno la minima
intenzione. In questo caso, anche giustificatamente.
Sebbene, infatti, siano state le regioni, in attuazione del
dlgs 469/1997, a trasferire alle province la gestione
operativa delle politiche attive per il lavoro, non hanno
mai erogato alle province stesse alcuna risorsa finanziaria.
Il finanziamento dell'attività dei servizi per il lavoro è
sempre provenuto dallo stato, anche perché i centri per
l'impiego derivano dalle vecchie sezioni circoscrizionali
per l'impiego del ministero del lavoro.
Dunque, la stretta e corretta applicazione della legge
Delrio impone allo stato e non alle regioni di farsi carico
della spesa per i servizi per il lavoro, come del resto le
regioni insistentemente puntualizzano in sede di Conferenza.
Lo stato, peraltro, avrebbe anche la fonte di finanziamento:
esattamente il carico da 1,575 miliardi che preleva
forzosamente dalle province, in applicazione del dl 66/2014
e della stessa legge 190/2014. Le convenzioni tra stato e
regioni, di cui si è parlato in questi giorni, avrebbero,
allora, lo scopo di assicurare alle regioni il finanziamento
statale per sostenere la spesa connessa all'avvalimento,
aspettando il Godot dell'Agenzia nazionale per l'occupazione
(articolo ItaliaOggi del 22.05.2015). |
GIURISPRUDENZA
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LAVORI PUBBLICI:
Se le utilizza, l'ente paga le opere
extracontratto.
L'ente paga le opere extracontratto realizzate dal privato
se le utilizza anche senza delibera ad hoc. Alle sezioni
unite passa l'indirizzo minoritario: l'impresa prova
l'indebito arricchimento, il giudice accerta il fatto
oggettivo, mentre l'amministrazione non può opporre il suo
mancato riconoscimento.
Diventa più facile per il privato farsi certificare dal
giudice che la pubblica amministrazione si è indebitamente
arricchita alle sue spalle: il riconoscimento dell'utilità
dei lavori svolti dall'impresa edile fuori dal contratto,
infatti, non costituisce un requisito dell'azione ex
articolo 2041 cc..
Il privato deve dunque provare il fatto oggettivo
dell'arricchimento da parte dell'ente e il giudice ad
accertarlo, mentre l'amministrazione non può opporre il suo
mancato riconoscimento dei lavori: in altri termini, conta
che il comune abbia comunque utilizzato le opere realizzate
ma non contrattualizzate, anche se manca una delibera ad hoc
della giunta o del consiglio o il placet del sindaco.
Lo stabiliscono le Sezz. Unite civili della Corte di
Cassazione con la
sentenza 26.05.2015 n. 10798.
Vantaggio ingiustificato.
Accolto il ricorso proposto dagli eredi del piccolo
impresario edile. La ditta realizza per conto del comune
anche lavori non previsti in origine ma chiesti dall'ufficio
tecnico dell'ente per garantire la funzionalità degli
edifici. Le opere, però, non vengono mai pagate. E la Corte
d'appello esclude la configurabilità dell'indebito
arricchimento perché manca il riconoscimento dell'utilitas
della prestazione da parte degli organi dell'ente.
Ora il revirement della Suprema corte sta nello
spostare il baricentro dell'indagine del giudice sulla
valutazione in fatto d'arricchimento: il soggetto privato e
l'ente pubblico sono entrambi soggetti alla regola secondo
cui non possono essere legittimati trasferimenti
patrimoniali non giustificabili. Fra loro, ci deve essere
par condicio: se si riconoscesse che l'amministrazione possa
opporre al privato il suo mancato riconoscimento dei lavori
si finirebbe per conferire all'ente una posizione di
vantaggio che è priva di base normativa.
Il fatto che il comune abbia comunque utilizzato l'opera ha
una valenza probatoria del riconoscimento. La circostanza
che i lavori svolti risultino utili all'ente è necessaria
per far scattare l'indennizzo al privato. Ma per liberarsi
l'amministrazione deve dimostrare che l'arricchimento non fu
voluto o non fu consapevole
(articolo ItaliaOggi del 27.05.2015).
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MASSIMA
2. Col primo motivo (il secondo è al primo correlato, in
quanto attiene alla mancata ammissione della prova
articolata sul punto della conoscenza da parte degli "amministratori"
dei lavori di cui trattasi), la ricorrente si duole,
deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2041
cod. civ., che la Corte d'appello abbia disatteso il
principio, patrocinato da alcune decisioni di questa Corte
di legittimità, secondo il quale il giudizio di utilità può
essere compiuto anche dal giudice, che ha il potere di
accertare se ed in quale misura l'opera o la prestazione
siano state effettivamente utilizzate dalla pubblica
amministrazione.
2.1. Il ricorso richiama un orientamento minoritario di
questa Corte, stigmatizzando il mancato accertamento
giudiziale della fruizione delle opere di manutenzione da
parte dell'ente pubblico nella piena consapevolezza della
relativa esecuzione, sebbene nell'assenza di un
riconoscimento implicito o esplicito dei suoi organi
rappresentativi.
La sezione terza, assegnataria del ricorso, ne ha, dunque,
promosso la devoluzione alle Sezioni unite, rilevando
nell'ordinanza interlocutoria che sussiste un contrasto
interno alla giurisprudenza di legittimità, «tra
l'orientamento (prevalente) che assume come assolutamente
ineludibile la necessità che il riconoscimento anche
implicito dell'utilitas provenga da organi quanto
meno rappresentativi dell'ente pubblico e quello
(minoritario, ma significativo e fondato su solide
argomentazioni) che offre invece spazi all'apprezzamento
diretto da parte del giudice».
2.2. Non è, invece, in discussione la sussistenza del
requisito della sussidiarietà dell'azione imposto dall'art.
2042 cod. civ., non essendo qui applicabile ratione
temporis la normativa di cui D.L. n. 66 del 1989, art.
23 (conv. in L. 24.04.1989, n. 144, abrogato dall'art. 123,
comma primo, lett. n, del d.lgs. 25.02.1995, n. 77, ma
riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 del
medesimo decreto e infine rifluito nell'art. 191 del D.Lgs.
n. 267 del 2000) che, per i casi di richiesta di prestazioni
o servizi, non rientranti nello schema procedimentale di
spesa tipizzato dalla stessa normativa, ha previsto la
costituzione di un rapporto obbligatorio diretto con
l'amministratore o funzionario responsabile,
correlativamente rimettendo all'ente pubblico la valutazione
esclusiva circa l'opportunità o meno di attivare il
procedimento del riconoscimento del debito fuori bilancio
nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed
arricchimento per l'ente stesso [cfr. lett. e) art. 194
D.Lgs. n. 267 del 2000].
Invero, non potendosi, in difetto di espressa previsione
normativa, affermare la retroattività del cit. d.l. n. 66
del 1989 art. 23, deve ritenersi l'esperibilità dell'azione
di indebito arricchimento nei confronti della P.A. per tutte
le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente
all'entrata in vigore di tale normativa (ex plurimis,
tra le più recenti: Cass. 26.06.2012, n. 10636; Cass.
11.05.2007, n. 19572). E poiché i lavori in contestazione
vennero eseguiti nell'anno 1986, è indubbio che il
depauperato non aveva la possibilità di farsi indennizzare
del pregiudizio subito agendo, ai sensi della normativa cit.
direttamente nei confronti dell'amministratore o del
funzionario che aveva consentito l'acquisizione.
2.3. Il punto nodale della controversia si rinviene sulla
necessità o meno di un requisito ulteriore -quello del
riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione-
rispetto a quelli standards fissati dagli artt. 2041 e 2042
cod. civ., allorché l'azione venga proposta nei confronti
della P.A.. Strettamente connessa a detta questione si
rivela, poi, quella evidenziata nell'ordinanza
interlocutoria del ruolo assegnato al giudice
nell'accertamento dell'arricchimento; ciò in quanto
individuare l'elemento qualificante dell'azione, in ragione
della qualificazione pubblicistica dell'arricchito, in un
atto di volontà o di autonomia dell'amministrazione
interessata, significa confinare il ruolo giudiziale
all'accertamento di un utile "soggettivo" e, cioè,
riconosciuto come tale (esplicitamente o implicitamente)
dagli organi rappresentativi dell'ente pubblico;
all'inverso, consentire al giudice di sostituirsi alla
pubblica amministrazione nella valutazione dell'utilitas
finisce per spostare l'indagine sul fatto oggettivo
dell'arricchimento, giacché solo questo dovrebbe essere
l'elemento costitutivo della fattispecie, ove non si
ammettano deroghe all'esercizio dell'azione in relazione
alla qualificazione pubblicistica dell'arricchito.
3. Così definito l'ambito della questione all'esame delle
Sezioni Unite, si impone una sintesi delle argomentazioni a
sostegno dell'uno e dell'altro indirizzo di legittimità,
come individuati dall'ordinanza interlocutoria, osservando
sin da ora che nella giurisprudenza di questa Corte ricorre
un ulteriore approccio interpretativo, più risalente nel
tempo, che offre una sorta di tertium genus tra le
soluzioni astrattamente praticabili in materia.
3.1. La tesi prevalente
muove dalla considerazione delle specifiche condizioni e
limitazioni, costituite dalle regole c.d. dell'evidenza
pubblica che presidiano l'attività negoziale della P.A. e si
radica sul rilievo che l'azione di arricchimento comporta,
di fatto, il superamento della regola assoluta a tutela del
buon andamento della pubblica amministrazione, secondo cui
non si può dar luogo a spese non deliberate dall'ente nei
modi previsti dalla legge e senza la previsione
dell'apposita copertura finanziaria. Di qui l'esigenza
-avvertita dalla giurisprudenza, ancor prima che il
legislatore a partire dal già cit. D.L. n. 66 del 1989
segnasse drasticamente l'ambito di operatività dell'azione-
di marcare di "specialità" la domanda di
arricchimento proposta nei confronti della P.A., posto che
il relativo oggetto è costituito quasi sempre da prestazioni
o opere eseguite da privati in dipendenza di contratti
irregolari, nulli o addirittura inesistenti.
E', dunque, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità
l'affermazione che per l'utile esperimento dell'azione nei
confronti della P.A. occorre la prova di un duplice
requisito, e cioè, non solo il fatto materiale
dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa
per l'ente pubblico, ma anche il cd. riconoscimento,
espresso o tacito e, in sostanza, che l'amministrazione
interessata abbia compiuto una cosciente e consapevole
valutazione dell'utilità dell'opera, del servizio, o della
prestazione, e che li abbia considerati rispondenti alle
proprie finalità istituzionali.
In particolare -secondo l'orientamento giurisprudenziale
all'esame- la configurazione del riconoscimento dell'utilità
dell'opera o della prestazione come un atto di volontà o di
autonomia della P.A. comporta che la stessa configurabilità
di un arricchimento senza causa resti affidata alla
valutazione discrezionale della sola amministrazione, unica
legittimata a esprimere il relativo giudizio, che presuppone
il doveroso apprezzamento circa la rispondenza diretta o
indiretta della cosa o della prestazione al pubblico
interesse (Cass. 18.04.2013, n. 9486; Cass. 11.05.2007, n.
10884; Cass. 20.08.2004, n.16348; Cass. 23.04.2002, n.
5900); inoltre detta valutazione non solo non può essere
sostituita da quella di amministrazioni terze, pur se
interessate alla prestazione, ma neanche provenire da atti e
comportamenti imputabili a qualsiasi soggetto che faccia
parte della struttura dell'ente di esse destinatario (Cass.
18.04.2013 n. 9486), essendo necessariamente rimessa solo
agli organi rappresentativi di detta amministrazione o a
quelli cui è istituzionalmente devoluta la formazione della
sua volontà (Cass. 27.07.2002, n. 11133; Cass. 17.07.2001,
n. 9694).
E sebbene non si richieda che il riconoscimento avvenga
necessariamente in maniera esplicita -cioè con un atto
formale (il quale, peraltro, può essere assistito dai crismi
richiesti per farne un atto amministrativo valido ed
efficace, ovvero può anche essere carente delle formalità e
dei controlli richiesti, come nel caso in cui l'organo di
controllo lo annulli) e si sia predicata la sufficienza del
riconoscimento implicito- l'una e l'altra forma di
riconoscimento sono ritenute soggette alle medesime regole
dell'evidenza pubblica (sul riconoscimento come atto di
volontà, cfr Cass. 24.10.2011, n. 21962; Cass. 31.01.2008 n.
2312; Cass. 24.09.2007 n. 19572), richiedendosi che
l'utilizzazione dell'opera o della prestazione sia
consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi
dell'ente (cfr. Cass. Sez. un. 25.02.2009, n. 4463; Cass.
20.10.2004, n. 16348; nonché Cass. 11133/2002 già cit.).
3.2. Secondo questa tesi, che esalta i limiti istituzionali
della giurisdizione ordinaria, fissati dall'art. 4 della
legge 20.03.1865, n. 2248, all. E, a presidio della
discrezionalità amministrativa, il giudice ordinario non può
giudicare dell'utilitas, dal momento che la necessità
del riconoscimento è tradizionalmente impostata sulla
discrezionalità amministrativa che la valutazione del
vantaggio comporta. L'utiliter versum non può essere
altro che un utile soggettivo, cioè relativo all'interesse
dell'accipiens e la valutazione dell'utilità
dell'ente pubblico si risolve in una valutazione
dell'interesse pubblico, come tale necessariamente affidata
alla P.A..
La tesi si radica sull'evidente timore che -in specie nel
caso assai frequente di indebito arricchimento derivante da
rapporti negoziali instaurati da dipendenti pubblici privi
dei necessari poteri- fa pubblica amministrazione possa
essere chiamata a rispondere ex art. 2041 cod. civ. di tutte
le iniziative arbitrarie assunte al di fuori del controllo
degli organi amministrativi responsabili della spesa, quando
il riconoscimento dell'utilità sia ravvisato nella stessa
utilizzazione dell'opera o del servizio acquisito, da parte
di coloro che hanno abusivamente speso il nome dell'ente o
dell'ufficio.
Sennonché essa -oltre ad apparire espressiva di esigenze di
tutela della P.A., di cui si è fatto carico, nel tempo, il
legislatore, facendo leva, come si è visto, sul carattere
sussidiario dell'azione- rivela la sua criticità sol che si
consideri che, portata alle sue naturali conseguenze, essa
comporta che il giudice, mentre dovrebbe condannare l'ente
pubblico per un arricchimento riconosciuto, ancorché non
provato, dovrebbe assolverlo per un arricchimento provato,
ma non riconosciuto.
Soprattutto l'orientamento risulta fortemente penalizzante
per il depauperato, allorquando l'arricchimento si risolva
in un risparmio di spesa (come nel caso che qui ricorre di
esecuzione di opere di manutenzione), dal momento che un
riconoscimento implicito da parte degli organi
rappresentativi dell'ente pubblico appare ravvisabile solo
in relazione a opere e prestazioni comportanti un incremento
patrimoniale, e quindi suscettibili di appropriazione;
mentre, nel caso che l'opera risulti già esistente e già a
disposizione della collettività, si è ritenuto che il
perdurare -od il riprendere dopo gli interventi- della
pubblica fruizione non possa costituire riconoscimento
implicito dell'utilitas, perché non implica alcuna
valutazione consapevole da parte dell'ente (Cass.
02.09.2005, n. 17703 in motivazione).
3.3. Non mancano tuttavia pronunce
improntate a un approccio più duttile,
nelle quali, in ragione del fondamento equitativo che permea
tutta l'azione di ingiustificato arricchimento, si evidenzia
che il riconoscimento, da parte di enti pubblici,
dell'utilità di una prestazione professionale, con
conseguente loro arricchimento, si realizza con la mera
utilizzazione della stessa, indipendentemente dal fatto che
i fini alla cui realizzazione la prestazione poteva essere
diretta non fossero stati realizzati dall'ente cui il
progetto era stato destinato (Cass. Sez. un. 10.02.1996, n.
1025; e più di recente Cass. 18.06.2008, n. 16596).
In tale prospettiva, l'utilità è stata ritenuta ravvisabile
allorché la P.A., ad esempio, si sia servita della
prestazione del privato per corredare pratiche
amministrative, ovvero ne abbia ricavato un risparmio di
spesa (v. Cass. 12.12.2003, n. 19059; e ancora Cass. n.
10576 del 1997; Cass. n. 1025 del 1996; Cass. n. 12399 del
1992), ridimensionandosi la necessità della provenienza
dagli organi formalmente qualificati della P.A. (cfr. Cass.
16.09.2005, n. 18329) e precisandosi che, seppure il
giudizio sull'utilità per la P.A. dell'opera o della
prestazione del privato è riservato in via esclusiva
all'amministrazione e non può essere compiuto, in
sostituzione di quella, del giudice, spetta pur sempre a
quest'ultimo il compito di accertare se e in che misura
l'opera o la prestazione siano state effettivamente
utilizzate dalla pubblica amministrazione (cfr. Cass.
02.09.2005, n. 17703).
3.4. Si tratta di un orientamento
minoritario, che non abbandona il tradizionale argomento,
secondo cui l'esperimento dell'azione di arricchimento nei
confronti della P.A. richiede un quid pluris, qual è
il riconoscimento dell'utilitas, sebbene al fatto
dell'utilizzazione venga attribuita una valenza probatoria
di detto riconoscimento; in tal modo esso presta il fianco
alla critica dell'incongruenza di legittimare soggetti
diversi in ragione del fatto che il riconoscimento sia
esplicito (per il quale si afferma la necessità che provenga
dagli organi rappresentativi della pubblica amministrazione)
o implicito (nel qual caso si ritiene che il riconoscimento
può provenire da organi non qualificati
dell'amministrazione), vale a dire in ragione della forma
del riconoscimento, che dovrebbe essere un elemento neutro
sotto questo profilo
(così Cass. 07.03.2014, n. 5397 in motivazione).
In realtà l'avere svincolato il
riconoscimento dalla provenienza dagli organi formalmente
qualificati ad esprimere la volontà dell'ente pubblico ha
finito per incrinare fortemente lo stesso principio della
relatività soggettiva dell'utilitas, consentendo di
recuperare la connotazione ordinaria dell'azione, giacché il
baricentro dell'indagine risulta spostato sulla valutazione
in fatto dell'arricchimento, che deve essere accertato con
la regola paritaria di diritto comune, sia quando riguarda
il privato che quando si riferisce alla pubblica
amministrazione
(così Cass. 16.05.2006, n. 11368),
affidando al saggio apprezzamento del giudice lo
scrutinio sull'intervenuto riconoscimento ovvero la
valutazione, in fatto, dell'utilità dell'opus
(così Cass. 21.04.2011, n. 9141).
3.5. Come evidenziato nell'ordinanza interlocutoria,
soprattutto l'ultima delle sentenze citate si è
fatta carico di rimarcare l'insufficienza dell'approccio
ermeneutico che confina il ruolo giudiziale all'esterno
della valutazione di utilità, ritenendo che il giudice non
possa accertare se la prestazione del depauperato sia stata
utile all'ente pubblico, ma solo se l'ente pubblico l'abbia
riconosciuta come tale.
In contrario senso si è osservato che il richiedere sempre e
comunque comportamenti inequivocabilmente asseverativi
dell'utilità dell'opera o della prestazione da parte degli
organi rappresentativi dell'ente è scelta interpretativa che
depotenzia fortemente il diritto del privato ad essere
indennizzato dell'impoverimento subito, svuotando di fatto i
poteri di accertamento del giudice, in vista della tutela
delle posizioni soggettive in sofferenza; e si è, quindi,
ritenuto che «il criterio idoneo a mediare tra tutti gli
interessi in conflitto è l'affidamento al saggio
apprezzamento del giudice dello scrutinio sull'intervenuto
riconoscimento ovvero la valutazione, in fatto, dell'utilità
dell'opus, utilità desunta dal contesto fattuale di
riferimento, senza pretendere di imbrigliare l'ineliminabile
discrezionalità del relativo giudizio in schemi prede
finiti, ma solo esigendo che del suo convincimento il
decidente dia adeguata e congrua motivazione»
(cfr. Cass. n. 9141 del 2011 cit. in motivazione).
Occorre, tuttavia, rilevare che la pista
interpretativa indicata dalla sentenza da ultima citata,
tendente a marcare di autonomia il sindacato giudiziale e a
spostare decisamente l'oggetto dell'indagine dalla
qualificazione soggettiva dell'arricchito al fatto
dell'arricchimento, non risulta seguita dalla successiva
giurisprudenza di legittimità che, anche da recente, ha
privilegiato una connotazione negoziale dell'istituto,
contrapponendo alla regola paritaria di diritto comune
nemo locupletari potest cum aliena iactura la normativa
di diritto pubblico che regola la contabilità della pubblica
amministrazione, con efficacia anche per i soggetti esterni
che vengono in contatto con essa, e che si giustifica oltre
che con vincoli di spesa imposti da norme di rango primario
nell'impiego di denaro pubblico, anche con le dimensioni e
la complessità dell'articolazione interna della pubblica
amministrazione
(così Cass. n. 5397 del 2014 sopra cit.).
3.6. Mette conto a questo punto evidenziare che la
previsione di un'azione generale di arricchimento era ignota
al codice del 1865; l'istituto venne, quindi, accolto dal
progetto di codice delle obbligazioni del 1936 e, infine,
codificato dal legislatore del 1942, accanto a numerosi
altre fattispecie particolari di arricchimento (artt. 31, co.
3, 535, 821, co. 2, 935, 940, 1150, 1185, co. 2, 1190, 1443,
1769, 2037, co. 3, 2038 co. 3 cod. civ.), assolutamente
eterogenee e, comunque, ispirate al medesimo principio e
accomunate dall'obbligo di "restituire"
all'impoverito esclusivamente perdite, esborsi, spese,
prestazioni ed altri elementi, utilità o valori già
sussistenti nel suo patrimonio "nei limiti
dell'arricchimento".
Orbene -mentre nel vigore del codice del 1865, la
prefigurazione della specialità dell'azione nei confronti
della P.A. si giustificava in considerazione
dell'elaborazione giurisprudenziale dell'actio de in rem
verso sugli schemi della gestione di affari e
dell'attribuzione al riconoscimento dell'utilitas
dello stesso fondamento dell'utiliter gestum-
l'intervenuta codificazione dell'istituto ad opera del
legislatore del 1942 ne ha privilegiato una connotazione
oggettivistica, fatta palese dall'impiego dei concetti
materiali di «arricchimento» e «diminuzione
patrimoniale», senza richiamo alcuno al parametro
soggettivistico dell'«utilità», ponendo così il
problema se vi sia ancora spazio per postulare una
valutazione discrezionale da parte dell'arricchito in
ragione della sua qualificazione pubblicistica.
Orbene il terzo e più risalente orientamento
giurisprudenziale di cui si è detto sub 3. muove proprio
dalla considerazione della sopravvenuta inclusione della
disciplina nel codice del 1942 per postulare la necessità di
abbandonare «il remoto principio», secondo cui
l'azione è esperibile nei confronti della P.A. soltanto se
questa ha riconosciuto la locupletazione, evidenziando non
solo il superamento degli schemi su cui era stata costruita
la fattispecie giurisprudenziale dell'actio de in rem
verso, ma anche e soprattutto la necessità di una
lettura costituzionalizzante dell'istituto, che assicurasse
la piena tutela della garanzia di agire in giudizio contro
l'amministrazione pubblica, assicurata a chiunque dagli
artt. 24 e 113 Cost. (cfr. Cass. Sez. unite sentenze
28.05.1975, n. 2157; Cass. Sez. unite 19.07.1982, n. 4198).
Sulla base di tali premesse si è esclusa, in radice, la tesi
che all'ente pubblico possa essere riservato non solo di
riconoscere il vantaggio in sé, ma anche la relativa entità
economica: tesi ritenuta inaccettabile per la considerazione
che essa pone il giudice nella condizione di dover
unicamente prendere atto delle determinazioni del convenuto,
contraddicendo alla stessa funzione dell'azione consistente
nell'apprestare un rimedio "generale" per i casi in
cui sia possibile risolvere sul piano economico il contrasto
tra legalità e giustizia. In luogo della questione del
riconoscimento dell'utilità, è stato evidenziato un problema
di imputabilità dell'arricchimento, paventandosi il pericolo
che l'ente pubblico possa subire iniziative che i terzi, pur
presentandosi come ingiustamente depauperati, abbiano
assunto conto il volere dell'ente o comunque senza che i
suoi organi rappresentativi ne avessero contezza.
In tale prospettiva il problema risulta ridotto unicamente a
quello dell'«attribuzione» del vantaggio all'ente
pubblico e risolto nel senso che si debba indagare «non
tanto se quest'ultimo abbia riconosciuto l'arricchimento,
quanto se sia stato almeno consapevole della prestazione
indebita e nulla abbia fatto per respingerla, sicché
nell'avvenuta utilizzazione della prestazione è da
ravvisare, invece che un atto di riconoscimento
-difficilmente definibile nei suoi caratteri e soprattutto
giuridicamente inammissibile, non potendo mai condizionarsi
la proponibilità di un'azione ad una preventiva
manifestazione di volontà del soggetto contro cui essa è
diretta- un mero fatto dimostrativo dell'imputabilità
giuridica a tale soggetto della situazione dedotta in
giudizio» (così, Cass. n. 4198 del 1982 in motivazione).
4. Questi, in estrema sintesi, i principali argomenti a
sostegno delle opzioni ermeneutiche a confronto,
le Sezioni unite, nel risolvere il contrasto,
intendono proseguire sulla strada tracciata nelle sentenze
da ultime citate e, in parte, ripercorsa da quell'indirizzo
minoritario (sub 3.4. e 3.5.) che ha rimarcato la
connotazione ordinaria dell'azione anche nei confronti della
P.A., predicando una valutazione oggettiva
dell'arricchimento che prescinda dal riconoscimento
esplicito o implicito dell'ente beneficiato.
A questi risultati conduce una lettura
dell'istituto più aderente ai principi costituzionali e a
quelli specifici della materia che assegnano una dimensione
fattuale di evento oggettivo all'arricchimento di cui
all'art. 2041 cod. civ. e alla relativa azione una funzione
di rimedio generale a situazioni giuridiche altrimenti
ingiustamente private di tutela, tutte le volte che tale
tutela non pregiudichi in alcun modo le posizioni,
l'affidamento, la buona fede dei terzi
(cfr. Cass. Sez. un. 08.12.2008, n. 24772).
In tale prospettiva il diritto fondamentale
di azione del depauperato può adeguatamente coniugarsi con
l'esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento
dell'attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica
amministrazione l'onere di eccepire e provare il rifiuto
dell'arricchimento o l'impossibilità del rifiuto per la sua
inconsapevolezza (c.d. arricchimento imposto).
Del resto sulla qualificazione dell'arricchimento come
istituto civilistico che dà luogo a situazioni di diritto
soggettivo perfetto anche quando parte sia una P.A., salvo
il limite interno del divieto di annullamento e di
modificazione degli atti amministrativi, la giurisprudenza
ha mostrato di non dubitare, allorché ha costantemente
affermato la giurisdizione ordinaria in materia
(Cass. Sez. un. 18.11.2010, n. 23284; Cass. Sez. un.
20.11.1999 n. 807).
4.1. Valga considerare che l'impostazione
fondata sulla necessità di un riconoscimento esplicito o
implicito degli organi rappresentativi è sostanzialmente
ancorata ad una lettura dell'istituto in chiave contrattuale
che è stata già stigmatizzata da queste Sezioni Unite in
occasione della risoluzione di altro contrasto sul tema
dell'arricchimento nei confronti della P.A., rilevandosi che
se è indubbio che l'arricchimento che dipende da fatto
dell'impoverito presenta punti di contatto con la
responsabilità contrattuale, ciononostante non se ne
giustifica l'assimilazione
(cfr. sentenza 11.09.2008, n. 23385).
Invero il principio secondo cui «chi
senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra
persona, è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a
indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione
patrimoniale» è stato dettato dal legislatore del 1942,
accanto ad altre fattispecie particolari di cui già si è
dato conto, con la funzione di norma di chiusura onde
coprire -come si legge nella Relazione al progetto del
codice- anche i casi «che il legislatore non sarebbe in
grado di prevedere tutti singolarmente».
L'istituto risulta, così, configurato come un rimedio
unitario, idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di
arricchimento di un soggetto e di correlativo impoverimento
di un altro soggetto in mancanza di una giusta causa e,
quindi, sia i casi di arricchimento conseguito
appropriandosi di utilità insite nell'altrui situazione
protetta, sia quelli che dipendono da comportamenti
dell'impoverito.
E sebbene la prima categoria presenti innegabili punti di
contatto con la responsabilità civile e la seconda con il
regime di esecuzione dei contratti, l'istituto non si presta
ad essere letto né in una chiave, né nell'altra, avendo una
precisa identità di autonoma fonte di obbligazione
restitutoria e l'esclusiva finalità di indennizzare lo
spostamento di ricchezza senza giusta causa dall'uno
all'altro soggetto.
4.2. In particolare la lettera della norma, che -come sopra
evidenziato- adopera un lessico oggettivistico
nell'individuazione dei presupposti dell'azione, nonché la
funzione dell'istituto che è quella di eliminare l'iniquità
prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di
giustificazione di fronte al diritto, sancendone la
restituzione, riconducono l'arricchimento ad una dimensione
fattuale di evento oggettivo, escludendo che la
qualificazione pubblicistica del soggetto arricchito possa
essere evocata a fondamento di una riserva di
discrezionalità in punto di riconoscimento
dell'arricchimento e/o del suo ammontare.
Ne consegue che ciò che il privato attore
ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare
è il fatto dell'arricchimento; e il relativo accertamento da
parte del giudice non incorre nei limiti di cognizione ai
sensi dell'art. 4 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. E,
trattandosi di verificare un evento patrimoniale oggettivo,
qual è l'arricchimento, senza che l'amministrazione possa
opporre il mancato riconoscimento dello stesso, perché
altrimenti si riconoscerebbe all'amministrazione una
posizione di vantaggio che è priva di base normativa.
In tale prospettiva il riconoscimento da
parte della P.A. dell'utilità della prestazione o dell'opera
può rilevare non già in funzione di recupero sul piano del
diritto di una fattispecie negoziale inesistente, invalida o
comunque imperfetta -trattandosi di un elemento estraneo
all'istituto- bensì in funzione probatoria e, precisamente,
ai soli fini del riscontro dell'imputabilità
dell'arricchimento all'ente pubblico. Mentre le esigenze di
tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle
dimensioni e della complessità dell'articolazione interna
della pubblica amministrazione, che l'espediente
giurisprudenziale del riconoscimento dell'utilitas ha
inteso perseguire, possono essere adeguatamente coniugate
con la piena garanzia del diritto di azione del depauperato,
nell'ambito del principio di diritto comune
dell'arricchimento imposto, in ragione del quale
l'indennizzo non è dovuto se l'arricchito ha rifiutato
l'arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo, perché
inconsapevole dell'eventum utilitatis. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Per gli incarichi extra-istituzionali, il dipendente
pubblico deve riversare il compenso.
Al dipendente pubblico che violi il divieto
di svolgere incarichi non conferiti o non previamente
autorizzati dall’amministrazione di appartenenza si applica
la sanzione automatica della restituzione integrale del
compenso, da versarsi a cura dell’erogante, o, in difetto,
del percettore, nel conto dell'entrata di bilancio
dell’amministrazione:
è quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza
26.05.2015 n. 90.
La Consulta non ha potuto accertare l’eventuale
illegittimità costituzionale di tale principio e ha, invece,
dovuto dichiarare manifestamente inammissibile la relativa
questione sollevata dal Tribunale di Bergamo e dal TAR per
la Puglia, poiché entrambi i giudici rimettenti, trascurando
di compiere una esauriente ricognizione delle norme di
riferimento, hanno completamente omesso di esaminare e di
risolvere motivatamente il problema sulla sussistenza della
rispettiva giurisdizione in ordine ai ricorsi davanti ad
essi presentati dalle parti.
Come è noto, i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare
il principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego
–principio che trova fondamento nell’art. 98, primo comma,
Cost.,- e, in caso di trasgressione del dovere di chiedere
l’autorizzazione per svolgere attività extra-istituzionali
remunerate, gli stessi sono passibili di essere sottoposti a
un provvedimento disciplinare.
In caso di violazione del divieto di svolgere incarichi non
conferiti o non previamente autorizzati dall’amministrazione
di appartenenza, il TU per il Pubblico Impiego (art. 53,
comma 7, del D.Lgs. n. 165/2001) prevede che al dipendente
pubblico debba applicarsi la sanzione automatica della
restituzione integrale del compenso, da versarsi a cura
dell’erogante, o, in difetto, del percettore, nel conto
dell'entrata di bilancio dell’amministrazione.
Orbene, due giudici hanno sollevato la questione di
legittimità di tale norma dinanzi al Giudice delle leggi,
con riferimento a due distinte controversie: i procedimenti
principali riguardano, da un lato, alcuni infermieri
professionali dipendenti dell’Azienda Ospedaliera Bolognini
di Seriate, i quali hanno svolto presso terzi prestazioni
infermieristiche al di fuori dell’orario di lavoro senza
fari prima autorizzare dall’Azienda, e dall’altro lato, un
ufficiale pilota dell’aeronautica militare, il quale,
durante un periodo di congedo straordinario senza assegni
concessogli dall’amministrazione, aveva svolto, anch’egli
senza autorizzazione, attività lavorativa retribuita quale
pilota di elicotteri presso una società spagnola. In
entrambi i casi, tali soggetti si sono visti richiedere
dalle amministrazioni di appartenne le somme percepite a
titolo di compenso.
La Consulta, però, dopo aver riunito i giudizi (poiché
avevano a oggetto la medesima questione), ha dichiarato
manifestamente inammissibile la questione di legittimità
costituzionale poiché entrambi i giudici rimettenti,
trascurando di compiere una esauriente ricognizione del
contesto regolativo di riferimento, hanno completamente
omesso di esaminare e di risolvere motivatamente il problema
sulla sussistenza della rispettiva giurisdizione in ordine
ai ricorsi davanti ad essi instaurati.
In merito, infatti –scrive la Corte Costituzionale– il comma
7-bis dello stesso art. 53 stabilisce che “L’omissione
del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico
indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità
erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
D’altronde, anche le sezioni unite civili della Cassazione
hanno già avuto modo di affermare che sussiste la
giurisdizione della Corte dei conti in materia di
responsabilità amministrativa di un soggetto che, legato
all’amministrazione da un rapporto di impiego o di servizio,
causi un danno con azioni od omissioni connesse alla
violazione non solo dei doveri tipici delle funzioni
concretamente svolte, ma anche di quelli ad esse
strumentali, attenendo al merito e, dunque, ai limiti
interni della potestas iudicandi, ogni questione
attinente al tipo e all’ammontare del danno stesso diverso
da quello all’immagine (Cassazione, sez Unite, ordinanza n.
22688 del 02.11.2011).
I giudici remittenti, dunque, non hanno indicato le ragioni
per le quali ciascuno di essi implicitamente esclude che la
disciplina di cui al richiamato comma 7-bis possa trovare
applicazione alle vicende di cui ai giudizi loro devoluti (“le
quali, per di più, apparendo del tutto analoghe anche sotto
il profilo della normativa applicabile, risulterebbero
tuttavia contemporaneamente attribuite sia alla
giurisdizione ordinaria sia a quella amministrativa”).
Per di più, spiega la Corte, la questione proposta dal TAR
Puglia va dichiarata manifestamente inammissibile anche per
carente motivazione sulla rilevanza, poiché il giudice
amministrativo non ha descritto con sufficienza le
circostanze di fatto del giudizio a quo, relative alla
situazione di un ufficiale pilota dell’aeronautica militare
collocato in aspettativa, senza peraltro considerare una
serie di altre circostanze tra cui la particolare situazione
del dipendente posto in aspettativa per il quale lo stesso
TU per il pubblico impiego esclude dalla disciplina
sanzionatoria, tra gli altri, proprio i compensi derivanti “da
incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto
in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo”
(commento tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Sovrintendenza non salva la casa sull’albero.
È abusiva la
casa di 70 metri quadrati costruita, sull’albero senza
autorizzazione, in una zona sottoposta a vincolo ambientale.
Reati edilizi. L’ok sulla compatibilità non esclude che il
manufatto in legno di grandi dimensioni sia abusivo.
La Corte di
Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 21.05.2015 n.
21029, respinge il ricorso di Marcello Dell’Utri e conferma
la condanna.
L’ex senatore aveva realizzato nella Villa di
Torno sul lago di Como la “bird watching” su un albero a
scopo contemplativo. Secondo il ricorrente il manufatto
doveva essere considerato al pari di una pertinenza, non
aveva un negativo impatto sull’ambiente con il quale si
armonizzava perfettamente, ed era rimovibile. Tra le carte
giocate della difesa per escludere la punibilità, c’era
anche il parere favorevole Soprintendenza riguardo alla
compatibilità. Diverso il punto di vista della Suprema
corte. La casa sull’albero, in legno, era su due piani più
torretta, grande circa 70 metri quadrati con un volume di
180 metri cubi.
La struttura, che raggiungeva un’altezza di 3,69, copertura
compresa, era fissata a terra con «plinti di cemento in cui
erano annegati i pilastri di legno che la sostenevano, le
saette di sostegno della struttura a sbalzo erano fissate al
fusto dell’albero con profili metallici».
La descrizione tecnica della casa, secondo i giudici di
merito ai quali la Cassazione si allinea, è sufficiente per
affermare l’impatto sul paesaggio ed escludere la tesi della
facile rimovibilità. Un manufatto decisamente
sovradimensionato rispetto all’uso meramente contemplativo
per il quale era stato realizzato. Non è utile neppure il
via libera ottenuto in via preliminare dalla Sovrintendenza
propedeutico ad una sanatoria poi disapplicata.
L’ok,
relativo a un piano iniziale diverso da quello realizzato,
non sarebbe stato comunque utile per escludere la
punibilità. La Cassazione ricorda, infatti, che il positivo
accertamento di compatibilità paesaggistica dell’abuso
eseguito in una zona vincolata non esclude la punibilità di
un’azione che si configura come reato di pericolo.
Per l’illecito non serve, infatti, un effettivo pregiudizio
per l’ambiente dal momento che le sole condotte penalmente
non rilevanti sono quelle che “a occhio” non sono idonee a
compromettere i valori protetti. A questo proposito la
Suprema corte sottolinea che in nome della rilevanza
costituzionale del paesaggio, si giustifica la funzione
anticipata di tutela affidata al diritto penale.
Per il ricorrente non c’è neppure l’errore scusabile come
dimostrato dalla «pacifica prosecuzione dei lavori
nonostante fosse stato emesso un ordine di sospensione».
Dimostrazione dell’esistenza «di una pregressa intenzione
diretta a realizzare l’evento vietato». Persa anche
l’occasione di ottenere la sospensione condizionale della
pena, condizionata in base alla sentenza d’appello alla
demolizione dell’opera entro 90 giorni. Azione riparatoria
non più possibile perché la villa era stata venduta
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.05.2015).
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MASSIMA
Sotto quest'ultimo aspetto, va chiarito che
il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica
dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude
la punibilità del delitto paesaggistico previsto dall'art.
181, comma 1-bis,d.lgs. 22.01.2004, n. 42
(Sez. 3, n. 7216 del 17/11/2010, dep. 25/02/2011, Zolesio ed
altro, Rv. 249526), con la conseguenza che,
a fronte di una contestazione di lavori eseguiti, come nella
specie, su aree dichiarate di notevole interesse pubblico (e
comunque in tutte le ipotesi di contestazione della
fattispecie delittuosa ex art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n.
42 del 2001), l'accertamento di compatibilità paesaggistica
è del tutto irrilevante, a prescindere dall'ambito di
operatività dell'art. 181, comma 1-ter, che esclude, a
determinate condizioni, la rilevanza penale (non anche
amministrativa dal punto di vista sanzionatorio) dell'art.
181, comma 1 (e non invece del comma 1-bis) ed anche a
prescindere dalla rimessione in pristino che, ai sensi
dell'art. 181, comma 1-quinquies, estingue la
contravvenzione di cui al comma 1 e giammai il delitto dì
cui al comma 1-bis.
...
Va a tale proposito ricordato come questa Corte -nell'affermare
il richiamato principio secondo il quale il positivo
accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso
edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la
punibilità del delitto paesaggistico previsto dall'art. 181,
comma 1-bis, d.lgs. 22.01.2004, n. 42- abbia anche affermato
che la mancata estensione alla fattispecie
delittuosa della causa di non punibilità, prevista dall'art.
181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42 del 2004 per la sola
fattispecie contravvenzionale di cui al comma primo, non
viola il principio di offensività e tanto sul rilievo che,
quanto alla incidenza del principio di offensività nel
delitto di specie, la Corte Costituzionale, investita della
questione di legittimità costituzionale dell'originaria
fattispecie di cui all'art. 1-sexies della legge 08.08.1985,
n. 431 (l'art.
181, d.lgs. del 2004 ripropone relativamente al 10 e 2°
comma le previsioni già contenute nell'art. 163, d.lgs.
29.10.1999, n. 490, ed ancor prima dall'art. 1-sexies, D.L.
27.06.1985, n. 312, conv. L. 08.08.1985, n. 431, ponendosi
con questi precedenti in sostanziale continuità normativa,
salvo modifiche formali) sotto il profilo
dell'asserito contrasto di detta norma con i principi
costituzionali di cui agli artt. 13, 25 e 27 Cost., nella
parte in cui sottopone a sanzione penale tutte le modifiche
ed alterazioni, con opere non autorizzate, di beni
specificamente tutelati dal vincolo paesaggistico, senza
valutare la concreta incidenza dannosa per i beni tutelati,
pur rigettando la questione, ha tuttavia affermato che, con
riferimento all'offensività in concreto delle condotte
incriminate, l'accertamento in concreto dell'offensività
specifica della singola condotta, anche per i reati ascritti
alla categoria di quelli formali e di pericolo presunto, è
devoluto in ogni caso al sindacato del giudice penale,
mentre la mancanza di offensività in concreto, lungi
dall'integrare un potenziale vizio di costituzionalità,
implica una valutazione di merito rimessa al giudice
(sentenza n. 247 del 1997).
Non vi è dubbio (e lo stesso ricorrente ne è consapevole)
che la fattispecie incriminatrice descritta
nell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 configuri,
al pari di quella contravvenzionale, un reato di pericolo.
Da ciò consegue che, per la configurabilità dell'illecito,
non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente,
potendo escludersi dal novero delle condotte penalmente
rilevanti soltanto quelle che si prospettano ictu oculi
inidonee a compromettere i valori del paesaggio.
Come questa Corte ha affermato il principio
di offensività deve essere inteso, al riguardo, in termini
non di concreto apprezzamento di un danno ambientale, bensì
dell'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene
protetto. Nel caso
di specie la sentenza impugnata ha dato conto dell'entità
dell'opera eseguita e del fatto che la stessa è risultata
-sulla base della documentazione anche fotografica in atti-
non irrilevante sotto il profilo oggettivo, oltre ad essere
stata realizzata in area dichiarata di notevole interesse
pubblico con apposito provvedimento.
Pertanto i giudici, dandone congrua motivazione, hanno
valutato l'intervento idoneo a compromettere l'ambiente,
pervenendo alla corretta conclusione circa la sussistenza di
un'effettiva messa in pericolo del paesaggio, oggettivamente
insita nella minaccia ad esso portata e valutabile come tale
ex ante, nonché una violazione dell'interesse dalla
P.A. ad una corretta informazione preventiva ed
all'esercizio di un efficace e sollecito controllo.
Ne consegue che la condotta, nella situazione data, ha
realizzato il pericolo pronosticato in astratto dal
legislatore, su cui fonda la natura dei reati di pericolo
presunto, con la conseguenza che solo astraendosi dalla
fattispecie concreta, come adeguatamente ricostruita dal
giudice di merito, è possibile, con estrapolazione
logico-fattuale non consentita, ritenere vinta quella
ipotetica presunzione, postulata nel ricorso, che il
legislatore ha ritenuto di porre a fondamento del bene
giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
In altri termini, pur volendo distinguere, per la ricaduta
che, in materia, può esercitare il principio di offensività,
i reati di pericolo astratto (dove il pericolo si ritiene
effettivamente implicito nella condotta) dai reati di
pericolo presunto (dove il pericolo non è necessariamente
insito nella condotta, poiché nel momento in cui la stessa
viene posta in essere è possibile controllare l'esistenza o
meno delle condizioni per il verificarsi dell'evento lesivo)
e sussumendo la fattispecie incriminatrice, secondo una
corretta operazione ermeneutica fatta propria e pronosticata
dal ricorrente, nel novero dei reati di pericolo presunto,
la verifica condotta dai Giudici del merito è ampiamente nel
senso della concreta offensività della condotta a produrre
l'evento temuto.
Sul punto, è sufficiente considerare la sproporzione
rilevata dai Giudici del merito tra lo scopo per il quale si
assume che l'opera doveva essere realizzata (mero
avvistamento degli uccelli, "bírd watching") e la
consistenza del manufatto nonché il suo stabile radicamento
al suolo e la oggettiva funzione della struttura a poter
essere persino adibita all'uso abitativo, con la conseguenza
che neppure sarebbe stata fornita ex adverso la prova
negativa, il cui onere normalmente si adempie fornendo la
prova dei corrispondenti fatti positivi diretti a svalutare
i primi o a vincere le presunzioni sui quali essi si
radicano, della non offensività ex ante della
condotta realizzata in relazione al fatto storico
contestato.
Va allora ricordato che il paesaggio
costituisce bene di rilevanza costituzionale, opzione che
legittima anche la funzione anticipata di tutela affidata al
diritto penale in tale nevralgico settore della vita della
comunità, sull'indiscutibile rilievo che il preciso
riconoscimento della valenza costituzionale attribuita al
bene "ambiente-territorio" secondo una concezione
dinamica del "paesaggio" (art. 9, comma 2, Cost.)
giustifica una tutela che esige il controllo e la direzione
degli interventi che, ricadendo sul territorio stesso,
influiscono sul paesaggio che, come è stato opportunamente
osservato, non può essere assolutamente confinato in forma
statica, quale mera conservazione del visibile.
Questa Corte ha fornito in passato una
interpretazione rigorosa del principio di offensività in
questa materia, affermando che la sanzione penale è posta in
riferimento a condotte che violino l'interesse pubblico a
che l'autorità deputata alla tutela dei beni ambientali
possa valutare previamente (ossia anteriormente alla
realizzazione dell'opera) il suo possibile impatto
ambientale. Questo interesse pubblico, che è sotteso
strumentalmente a quello avente ad oggetto direttamente la
tutela del paesaggio, è leso -ed in ciò risiede l'offensività
della condotta- quando non viene resa possibile questa
valutazione preventiva. In tal caso la lesione del bene
tutelato e l'offensività della condotta sussistono anche ove
ex post la stessa autorità amministrativa possa
verificare che l'opera non comportava alcun impatto
ambientale negativo
(Sez. F, n. 35527 del 31/08/2001, Fontana ed altri, Rv.
219895 e in motivazione).
Si tratta di un orientamento -enunciato in tema di
protezione delle bellezze naturali in relazione alla
modificazione dello stato di luoghi vincolati ai sensi della
legge 29.06.1939 n. 1497 integrante il reato previsto
dall'art. 1-sexies d.l. 27.06.1985 n. 312, convertito nella
legge n. 431 del 1985- che, agli effetti penali, tuttora non
smentisce (v. sub 3 del considerato in diritto) quanto la
disciplina positiva, a determinate condizioni, espressamente
ammette o implicitamente esclude, ossia la rilevanza della
sanatoria paesaggistica in relazione agli abusi ex art. 181,
comma 1, escludendola categoricamente per quelli, come nel
caso in esame, di cui al comma 1-bis.
Il principio di offensività, di ardua
declinazione normativa e in forza del quale non è
concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine
iniuria"), opera, secondo la consolidata giurisprudenza
costituzionale, su due piani, "rispettivamente, della
previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al
legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in
astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in
pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale
(offensività in astratto), e dell'applicazione
giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio
interpretativo - applicativo affidato al giudice, tenuto ad
accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o
messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato"
(così testualmente Corte cost. n. 265 del 2005 e, in senso
conforme, v. Corte cost. nn. 360 del 1995, 263 del 2000, 519
del 2000, 354 del 2002).
Con specifico riferimento si reati paesaggistici, la Corte
costituzionale ha chiarito che
l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della
singola condotta, anche per i reati formali e di pericolo
presunto, in ogni caso, è devoluta al sindacato del giudice
penale, tanto sul presupposto che "non è incompatibile
con il principio di offensività la configurazione di reati
di pericolo presunto"
(sentenze n. 360 del 1995 già citata; n. 133 del 1992; n.
333 del 1991; per il reato paesaggistico, sentenza n. 67 del
1992).
Né può configurarsi una irragionevole od arbitraria
valutazione operata dal legislatore, nella sua
discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta
in violazione delle speciali disposizioni stabilite a tutela
delle zone di particolare interesse ambientale,
contemporaneamente alla introduzione di vincoli paesistici
generalizzanti, in relazione a categorie di beni, in quanto
la ratio della scelta legislativa deve essere
ricercata nella valutazione (così sent. n. 248 del 1997,
cit.) che "l'integrità ambientale è un bene unitario, che
può risultare compromesso anche da interventi minori e che
pertanto va salvaguardato nella sua interezza",
giustificandosi perciò la configurazione del reato a
"carattere formale e di pericolo in quanto il vincolo posto
in determinate parti del territorio nazionale ha una
funzione prodromica al suo governo" (sent. n. 67 del
1992,
cit.).
Da ciò deriva pure come al Giudice di merito sia affidata la
delicata operazione di bilanciamento tra principi per la
verifica della concreta offensività ex ante della
condotta proprio in subiecta materia (Corte cost.
sent. 247 del 1997, cit.), operazione che deve tenere perciò
in debito conto l'interesse pubblico a che l'autorità
deputata alla tutela dei beni ambientali possa valutare
previamente (ossia anteriormente alla realizzazione
dell'opera) il suo possibile impatto ambientale.
Ciò conferma che, in materia di tutela del
paesaggio, non hanno rilievo penale soltanto le condotte che
si prospettano ictu oculi inidonee a compromettere i
valori del paesaggio, con la conseguenza che la ritenuta
compatibilità paesaggistica intervenuta ex post non
implica necessariamente che la condotta possa, tout court,
stimarsi inoffensiva ex ante
(come invece si assume nel ricorso) con
riferimento alla fattispecie incriminatrice ex art. 181,
comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004.
5. Peraltro, quantunque il ricorrente non abbia sollevato
alcuna questione in tal senso, non è possibile estendere,
per via interpretativa, l'esclusione della punibilità
prevista dal d.lgs. n. 42 del 2004, commi 1-ter e 1- quater,
in conseguenza dell'accertamento di compatibilità
paesaggistica, anche alla contestata incriminazione di cui
all'art. 181, comma 1-bis dello stesso decreto legislativo,
non sussistendo omogeneità e piena identità di funzione fra
le discipline poste a raffronto per diversità dell'oggetto
materiale del reato e dello scopo delle incriminazioni.
Questa Corte ha perciò affermato, con condivisibili pronunce
alle quali occorre dare continuità, che è
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 181, comma primo-ter, del d.lgs.
22.01.2004, n. 42, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 42
e 97 Cost., nella parte in cui non prevede che, nonostante
il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica
dell'opera, siano comunque applicabili le sanzioni penali
contemplate dallo stesso art. 181 al comma primo bis atteso
che la diversità delle situazioni disciplinate dalle norme
richiamate rende non irragionevole una disciplina normativa
differenziata
(Sez. 3, n. 13736 del 26/02/2013, Manzella, Rv. 254762; Sez.
3, n. 7216 del 17/11/2010, dep. 25/02/2011 Zolesio ed altro,
Rv. 249527).
Con il delitto paesaggistico di cui
all'art. 181, comma 1-bis, il legislatore ha ritenuto di
sanzionare più severamente quelle condotte che, configurate
come delitto e non come contravvenzioni, sono state ritenute
maggiormente offensive del bene tutelato dell'integrità
ambientale, consistenti o in lavori di qualsiasi genere
eseguiti, come nel caso di specie, su immobili o aree
tutelate già in precedenza con apposito provvedimento di
dichiarazione di notevole interesse pubblico, ovvero in
lavori di consistente entità
(come determinata con i parametri richiamati dalla lett. b)
del citato comma) che ricadono su immobile
o aree tutelate per legge ai sensi dell'art. 142 dello
stesso testo normativo.
6. Neppure può essere sostenuta la carenza dell'elemento
soggettivo in capo al ricorrente.
La fattispecie di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, art. 181,
comma 1-bis, è punita a titolo di dolo generico (Sez. 3, n.
48478 del 24/11/2011, Mancini, Rv. 251635) con la
conseguenza che, quanto alla coscienza dell'antigiuridicità
della condotta, il presupposto della responsabilità penale è
la conoscibilità, da parte del soggetto agente,
dell'effettivo contenuto precettivo della norma.
Nella fattispecie in esame, indipendentemente dal fatto di
aver o meno incaricato esperti della materia, l'imputato
aveva il dovere di informarsi preventivamente (anche) circa
l'eventuale assoggettamento a vincoli dell'area sulla quale
andava ad eseguire una costruzione in legno di rilevanti
dimensioni e ancorata al suolo e non ha dimostrato (anzi si
deve ritenere abbia escluso a cagione dell'affidamento
riposto verso terzi) di avere assunto alcuna informazione al
riguardo presso gli organi competenti.
Peraltro, la pacifica prosecuzione dei lavori nonostante
fosse stato emesso l'ordine di sospensione degli stessi è
stata correttamente e logicamente ritenuta dai Giudici del
merito quale ulteriore indice comprovante l'esistenza di una
pregressa intenzione diretta a realizzare l'evento vietato e
ciò esclude la configurazione di un errore, peraltro
genericamente invocato, su norma extrapenale, che abbia
potuto cagionare un errore sul fatto costituente il reato
(ex art. 47, comma 3, cod. pen.) attraverso la incolpevole
percezione di una diversa realtà.
Va poi precisato che -nel caso di esecuzione di lavori di
qualsiasi genere su beni paesaggistici che ricadano, come
nella specie, su aree dichiarate di notevole interesse
pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca
antecedente alla realizzazione dei lavori- non può essere
escluso il reato sotto il profilo soggettivo, per errore
sulla non necessità dell'autorizzazione, perché nemmeno in
virtù del criterio della ignoranza inevitabile, teorizzato
nella sentenza 24.03.1988, n. 364 della Corte
costituzionale, è lecito scusare chi compia o abbia
consentito ad altri di eseguire lavori di qualsiasi genere
su aree sottoposte al più rigoroso vincolo senza informarsi
delle leggi penali che disciplinano la materia e la cui
doverosa conoscenza avrebbe dovuto indurre a desistere da
qualsiasi manomissione del luogo al massimo livello
protetto.
Ne consegue che il ricorrente ha volontariamente posto in
essere un'attività edilizia senza richiedere
l'autorizzazione all'autorità amministrativa preposta alla
tutela del vincolo sicché, in assenza di dubbi circa la
diretta volizione del comportamento illecito, neppure si
rinvengono elementi idonei a configurare l'errore scusabile
sul precetto di cui all'art. 5 cod. pen. ovvero l'errore su
norma extrapenale ex art. 47, comma 3, cod. pen.. |
VARI: Pratica legittima «prenotare» la sosta.
Cassazione. Colpevole di lesioni chi urta l’occupante.
Grossi
problemi per chi contesta la “prenotazione” del parcheggio,
in attesa che giunga il titolare, quando cioè si chiede a un
amico, o al passeggero, di occupare di persona uno spazio
visto in lontananza.
Se ne è occupata la Corte di Cassazione, Sez. V penale,
con la
sentenza
21.05.2015 n. 19075, ritenendo colpevole di
lesioni l’automobilista che, indispettito dall’impropria
prenotazione, ha urtato, seppur lievemente, chi manteneva il
posto.
Non si è dato peso alla convinzione
dell’automobilista che riteneva che l’occupante si sarebbe
spostato all’ultimo momento, sicché l’urto non era voluto,
perché si è tenuto presente il solo contatto fisico. Da
questo caso quotidiano, si possono trarre suggerimenti per
evitare contrasti, quando ad esempio i posti (a sedere)
risultino occupati in modo improprio, con oggetti vari quali
giornali o borse di plastica. Chi occupa più di un posto,
commette un apparente abuso, ma in termini giuridici
l’occupante può ritenersi un delegato, incaricato
dell’operazione materiale, purché la prenotazione abbia
tempi e modi ragionevoli.
Chi sta in fila o aspetta il turno rispetta il principio
giuridico «prior in tempore potior in iure», dal quale
deriva la precedenza a chi giunga per primo. Una norma sul
tema era contenuta nel Codice della navigazione anteriore al
2009, quando la concorrenza tra aspiranti concessionari era
risolta sulla base della cronologia delle domande (oggi si
decide sulla base della qualità dell’offerta).
Lo stesso
Codice della navigazione disciplinava anche il diritto a
mantenere il posto occupato (cosiddetto diritto “di
insistenza”), simile a quello di chi si allontana dal posto
per un motivo particolare (toilette, un caffè), ma può
tornare sul suo posto perché non ha espresso una volontà di
abbandonare, cioè non ha espresso l’intenzione di rinunciare
alla situazione di vantaggio. Per manifestare la volontà di
mantenere il posto, possono usarsi segnali particolari,
purché il segnale sia inequivoco e riconducibile alla
persona. Quindi non basta un oggetto casuale ma è necessario
un oggetto specifico, riferibile all’utente.
L’oggetto che
materializza l’occupazione, non deve quindi avere carattere
indifferenziato ed equivoco, ma deve essere espressivo di
una specifica continuità. Stesso ragionamento opera nelle
prenotazioni di una fila, quando si chiede a una persona di
occupare un posto, prenotando una situazione di vantaggio.
Chi incarica altri di “tenere il posto” effettua una delega,
che può essere anche verbale e non deve necessariamente
essere rivolta ad un soggetto che possegga le stesse qualità
del sostituito: ad esempio, un professionista può chiedere
ad un dipendente di fare la fila in suo nome anche se
l’operazione prenotata, quando verrà il turno, richiederà
una qualità specifica, posseduta solo dal professionista che
ha conferito l’incarico.
Chi non sopporta i soprusi altrui,
deve evitare il rischio di un «esercizio arbitrario delle
proprie ragioni» (articolo 392 del codice penale). Il codice
impone di rivolgersi a un giudice, ma se il sopruso è
evidente è ammessa la reazione a caldo. Sempre che, come
sottolinea la Cassazione, non si giunga ad un contatto
fisico (lesioni)o verbale (ingiurie) (articolo Il Sole 24 Ore del
22.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: In
termini generali, la SCIA (come la precedente DIA) non
modifica la disciplina sostanziale dell’attività
interessata, bensì il titolo di legittimazione, sostituendo
il tradizionale provvedimento di autorizzazione da emettersi
a seguito della domanda del privato, con un procedimento di
verifica ad iniziativa pubblica necessaria: si inverte
pertanto il meccanismo, dovendo l’autorità amministrativa
esercitare un controllo ex post sulla denuncia “abilitante”
presentata dal soggetto interessato.
Secondo l’art. 19, comma 3, della L. 214/1990, nel termine
di sessanta giorni (o di trenta giorni in materia edilizia,
ex art. 19, comma 6-bis, della stessa L. 241/1990) dal
ricevimento della segnalazione, l'amministrazione
competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei
presupposti di cui al comma 2, “adotta motivati
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di
rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo
che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a
conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi
effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in
ogni caso non inferiore a trenta giorni”, restando salvo il
potere dell'amministrazione competente "di assumere
determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt.
21-quinquies e 21-nonies", mentre, "in caso di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false
o mendaci, l'amministrazione...può sempre e in ogni tempo
adottare i provvedimenti di cui al primo periodo".
Il comma 4 prevede che, decorso il termine per l'adozione
dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3
(ovvero di cui al comma 6-bis in ambito edilizio),
all'amministrazione è consentito intervenire solo in
presenza del pericolo di un danno per il patrimonio
artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la
sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato
accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali
interessi mediante conformazione dell'attività dei privati
alla normativa vigente.
Sulla base del delineato quadro normativo, la giurisprudenza
ha elaborato alcuni principi:
• è illegittimo l'operato dell'amministrazione comunale che,
in presenza di una denuncia d'inizio attività (assimilabile
sotto questo aspetto alla SCIA), adotta provvedimenti
inibitori o sanzionatori dopo che sia decorso il termine
previsto per il consolidamento del titolo, senza rispettare
i limiti e le condizioni in base ai quali è possibile
esercitare i poteri di autotutela ai sensi degli artt.
21-quinques e 21-nonies della L. 241/1990;
• il termine (di 60 giorni) per l'esercizio del potere
inibitorio doveroso è perentorio mentre, decorso tale spazio
temporale, l’autorità conserva soltanto un potere residuale
di autotutela;
• quest’ultimo deve essere esercitato dall'amministrazione
competente entro un termine ragionevole, e va supportato
dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e
concreto, alla rimozione del titolo tanto più quando il
privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la
realizzazione del progetto, un logico affidamento sulla
regolarità dell'autorizzazione;
• anche in materia di commercio, ogni atto di ordinario
esercizio di pubblici poteri resta subordinato al rispetto
delle regole generali che informano i rapporti tra
amministrazioni e amministrati: così, è necessario
comunicare l’avvio del procedimento, consentire
all’interessato e a eventuali cointeressati e
controinteressati di parteciparvi, dimostrare la sussistenza
dei presupposti che ai sensi degli articoli 19 e
21-quinquies e 21-nonies della L. 241/1990 ne consentono
l’esercizio, ivi compreso il rispetto del tempo ragionevole
per porre in essere il provvedimento di secondo grado, la
comparazione dell'interesse pubblico con l'aspettativa del
privato, la motivazione in ordine alle ragioni di fatto che
ne giustificano l’adozione;
• la valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli
interessi in rilievo, giustifica la frustrazione
dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante
a seguito del decorso del tempo e della conseguente
consumazione del potere inibitorio.
Il ricorso è
fondato e merita accoglimento.
2. Parte ricorrente ha anzitutto dedotto la violazione
dell’art. 19 della L. 241/1990 e del principio di
affidamento, l’eccesso di potere per carenza di istruttoria,
difetto di motivazione, illogicità e ingiustizia manifesta,
in quanto il potere di intervento sulla SCIA può essere
esercitato entro il termine di 60 giorni dalla sua
presentazione, salva la possibilità di agire ex post
a tutela di preminenti interessi pubblici (pericolo di un
danno per il patrimonio artistico e culturale, per
l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la
difesa nazionale), che non sono stati rilevati nella
fattispecie: il Comune era da oltre un anno privo del potere
ordinario di inibizione degli effetti della SCIA, tenuto
conto che il provvedimento dispone una semplice
archiviazione, senza menzionare né motivare l’autotutela con
riferimento ai requisiti contemplati all’art. 21-quinques
della L. 241/1990.
Il motivo è meritevole di accoglimento, avendo
l'amministrazione pacificamente adottato l'atto di controllo
inibitorio oltre il termine di legge.
2.1 In termini generali, la SCIA (come la precedente DIA)
non modifica la disciplina sostanziale dell’attività
interessata, bensì il titolo di legittimazione, sostituendo
il tradizionale provvedimento di autorizzazione da emettersi
a seguito della domanda del privato, con un procedimento di
verifica ad iniziativa pubblica necessaria: si inverte
pertanto il meccanismo, dovendo l’autorità amministrativa
esercitare un controllo ex post sulla denuncia “abilitante”
presentata dal soggetto interessato.
Secondo l’art. 19, comma 3, della L. 214/1990, nel termine
di sessanta giorni (o di trenta giorni in materia edilizia,
ex art. 19, comma 6-bis, della stessa L. 241/1990) dal
ricevimento della segnalazione, l'amministrazione
competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei
presupposti di cui al comma 2, “adotta motivati
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di
rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo
che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a
conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi
effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in
ogni caso non inferiore a trenta giorni”, restando salvo
il potere dell'amministrazione competente "di assumere
determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt.
21-quinquies e 21-nonies", mentre, "in caso di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di
notorietà false o mendaci, l'amministrazione...può sempre e
in ogni tempo adottare i provvedimenti di cui al primo
periodo".
Il comma 4 prevede che, decorso il termine per l'adozione
dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3
(ovvero di cui al comma 6-bis in ambito edilizio),
all'amministrazione è consentito intervenire solo in
presenza del pericolo di un danno per il patrimonio
artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la
sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato
accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali
interessi mediante conformazione dell'attività dei privati
alla normativa vigente.
2.2 Sulla base del delineato quadro normativo, la
giurisprudenza ha elaborato alcuni principi:
• è illegittimo l'operato dell'amministrazione comunale che,
in presenza di una denuncia d'inizio attività (assimilabile
sotto questo aspetto alla SCIA), adotta provvedimenti
inibitori o sanzionatori dopo che sia decorso il termine
previsto per il consolidamento del titolo, senza rispettare
i limiti e le condizioni in base ai quali è possibile
esercitare i poteri di autotutela ai sensi degli artt.
21-quinques e 21-nonies della L. 241/1990 (Consiglio di
Stato, sez. IV – 20/02/2014 n. 788 in materia edilizia, con
riflessioni che ben possono essere estese alla DIA –e alla
SCIA– in materia commerciale;
• il termine (di 60 giorni) per l'esercizio del potere
inibitorio doveroso è perentorio mentre, decorso tale spazio
temporale, l’autorità conserva soltanto un potere residuale
di autotutela (Consiglio di Stato, sez. VI – 14/11/2012 n.
5751; TAR Veneto, sez. II – 26/01/2015 n. 59);
• quest’ultimo deve essere esercitato dall'amministrazione
competente entro un termine ragionevole, e va supportato
dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e
concreto, alla rimozione del titolo tanto più quando il
privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la
realizzazione del progetto, un logico affidamento sulla
regolarità dell'autorizzazione (sentenza TAR Campania
Salerno, sez. I – 07/04/2015 n. 732, resa in ambito
edilizio);
• anche in materia di commercio, ogni atto di ordinario
esercizio di pubblici poteri resta subordinato al rispetto
delle regole generali che informano i rapporti tra
amministrazioni e amministrati: così, è necessario
comunicare l’avvio del procedimento, consentire
all’interessato e a eventuali cointeressati e
controinteressati di parteciparvi, dimostrare la sussistenza
dei presupposti che ai sensi degli articoli 19 e
21-quinquies e 21-nonies della L. 241/1990 ne consentono
l’esercizio, ivi compreso il rispetto del tempo ragionevole
per porre in essere il provvedimento di secondo grado, la
comparazione dell'interesse pubblico con l'aspettativa del
privato, la motivazione in ordine alle ragioni di fatto che
ne giustificano l’adozione (TAR Friuli Venezia Giulia –
25/09/2014 n. 463).
• la valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli
interessi in rilievo, giustifica la frustrazione
dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante
a seguito del decorso del tempo e della conseguente
consumazione del potere inibitorio (Consiglio di Stato,
adunanza plenaria – 29/07/2011 n. 15).
2.3 Nella fattispecie, i 60 giorni erano abbondantemente
decorsi quando l’amministrazione è intervenuta, e non
affiora alcun elemento o circostanza a supporto
dell’esercizio della potestà di autotutela. Non è stata
neppure adombrata l’unica ipotesi derogatoria della
perentorietà del predetto termine contemplata dal
legislatore, ossia l’esistenza di dichiarazioni sostitutive
di certificazione e dell'atto di notorietà "false o
mendaci", che abilita l'amministrazione ad assumere i
provvedimenti repressivi "sempre e in ogni tempo"
(cfr. TAR Abruzzo L’Aquila – 19/03/2015 n. 163)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.05.2015 n. 739 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
19, comma 4, della legge 241/1990 pone significative
limitazioni al potere di intervento in autotutela
dell’amministrazione, una volta che la SCIA abbia conseguito
efficacia per decorrenza del termine di controllo pari a 30
giorni fissato dal comma 6-bis della medesima disposizione
normativa.
Tuttavia, il potere di controllo non si può tuttavia
considerare esaurito nel termine breve di 30 giorni, qualora
il progetto allegato alla SCIA contenga elementi di
ambiguità che, pur non essendo qualificabili come
dichiarazioni sostitutive false o mendaci ex art. 19, comma
3, della legge 241/1990, rendano comunque l’esame più
difficoltoso, omettendo o non evidenziando a sufficienza
eventuali criticità e il percorso argomentativo seguito per
superarle.
In particolare, quando vengano in rilievo interventi su
parti comuni, o interventi che alterano il collegamento tra
edifici posti a confine, è compito del progettista dare il
giusto risalto a queste situazioni, per consentire agli
uffici comunali di effettuare una verifica completa del
progetto. Se non vi è piena trasparenza, la sanzione
appropriata consiste nella (ragionevole) dilatazione dei
tempi di controllo.
Sul termine di controllo della SCIA
8. L’art. 19, comma 4, della legge 241/1990 pone
significative limitazioni al potere di intervento in
autotutela dell’amministrazione, una volta che la SCIA abbia
conseguito efficacia per decorrenza del termine di controllo
pari a 30 giorni fissato dal comma 6-bis della medesima
disposizione normativa.
9. Nel caso il esame il termine è in effetti decorso
(09.01.2014-17.02.2014), e il Comune non evidenzia pericoli
per il patrimonio artistico e culturale o per l’ambiente (e
tantomeno per la salute, la sicurezza pubblica e la difesa
nazionale). Sull’edificio della ricorrente non grava un
vincolo paesistico in senso proprio: l’esame paesistico è
imposto dall’inquadramento del centro storico nella classe 5
di sensibilità paesistica, situazione non coincidente con
quella descritta nell’art. 19, comma 4, della legge
241/1990. L’edificio, benché l’architrave in pietra
collocato sopra l’ingresso riporti la data del 1706, non è
neppure assoggettato a vincolo monumentale.
10. Il potere di controllo non si può tuttavia considerare
esaurito nel termine breve di 30 giorni, qualora il progetto
allegato alla SCIA contenga elementi di ambiguità che, pur
non essendo qualificabili come dichiarazioni sostitutive
false o mendaci ex art. 19, comma 3, della legge 241/1990,
rendano comunque l’esame più difficoltoso, omettendo o non
evidenziando a sufficienza eventuali criticità e il percorso
argomentativo seguito per superarle.
In particolare, quando vengano in rilievo interventi su
parti comuni, o interventi che alterano il collegamento tra
edifici posti a confine, è compito del progettista dare il
giusto risalto a queste situazioni, per consentire agli
uffici comunali di effettuare una verifica completa del
progetto. Se non vi è piena trasparenza, la sanzione
appropriata consiste nella (ragionevole) dilatazione dei
tempi di controllo.
11. Nel caso in esame, la relazione paesistica datata
08.01.2014 evidenzia la formazione in gronda di un “piccolo
dislivello” con il tetto del vicino, senza però una
precisa quantificazione. Inoltre, come viene sottolineato
nel provvedimento del 07.04.2014, omette di riferire che
l’intervento riguarda anche parti comuni dell’edificio.
Poiché entrambe le questioni assumono importanza nell’esame
della SCIA, si deve riconoscere la legittimità
dell’estensione del termine di conclusione del procedimento.
Le ordinanze di sospensione e di rimessione in pristino sono
quindi qualificabili come atti finali della procedura
tempestivamente adottati, e non come provvedimenti in
autotutela
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.05.2015 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La regola delle distanze legali tra costruzioni
di cui al comma 2 dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 deve
ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2,
del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone
al proprietario dell'area confinante col muro finestrato
altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci
metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta
ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e
a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano,
con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola
anche i comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme
tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla
tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
In riferimento alla violazione delle distanze, il Collegio
deve rilevare che il D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’art. 9
-Limiti di distanza tra i fabbricati- comma 1, n. 2,
dispone: “Le distanze minime tra fabbricati per le
diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come
segue:.. 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è
prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m.
10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;”.
Al riguardo occorre innanzitutto precisare che, secondo la
consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis, in tal
senso, Cassazione civile, sezione II, 27.03.2001, n. 4413,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759), dal quale
il Collegio non ha motivo di discostarsi, la regola delle
distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art.
9 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2,
del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone
al proprietario dell'area confinante col muro finestrato
altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci
metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta
ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e
a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano,
con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola
anche i comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme
tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla
tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi
consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV,
12.06.2007 , n. 3094, Consiglio di Stato, Sez. IV,
27.10.2011, n. 5759)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è stata rappresentata una situazione dei
luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale
difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo
edilizio determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale
circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente
per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio
del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può
prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento
con un interesse pubblico attuale e concreto.
Proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici,
rendeva necessitata e vincolante l’adozione, da parte
dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di
annullamento in autotutela, il cui contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
Al riguardo il
Collegio ritiene che principio per certo rilevante per il
caso in esame è quello ben consolidato nella condivisibile
giurisprudenza e in forza del quale se è stata rappresentata
una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà
esistente e tale difformità costituisce un vizio di
legittimità del titolo edilizio determinato dallo stesso
soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se
ragione idonea e sufficiente per l’adozione del
provvedimento di annullamento di ufficio del titolo
medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere,
ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un
interesse pubblico attuale e concreto (cfr. in tal senso, ad
es., Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6554, nonché Sez.
V, 12.10.2004 n. 6554).
Proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici,
rendeva necessitata e vincolante l’adozione, da parte
dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di
annullamento in autotutela, il cui contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27.08.2012, n. 4619).
Concludendo sul punto, il Collegio rileva che il
provvedimento di annullamento è stato adottato a seguito di
un accertamento tecnico completo e approfondito, la cui
forza fidefaciente non è scalfita dalle contestazioni
prospettate da parte ricorrente, le cui doglianze appaiono,
pertanto, infondate
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
generale, gli allevamenti di animali costituiscono in ogni
caso industrie nocive di cui al D.M. 12.02.1971, oggi D.M.
05.09.1994.
L'allevamento avicolo, infatti, è qualificabile come
industria insalubre di prima classe, ai sensi dell'art. 216
t.u. leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265 del 1943 e
nell'elenco contenuto nel D.M. 05.09.1994, n. 1, lett. c), e
ciò indipendentemente dalla sua natura tradizionale o
intensiva.
Nella dizione <allevamenti di animali>, classificati tra le
industrie insalubri di 1 classe dai d.m. 12.02.1971 e
23.12.1976, sono compresi tutti i tipi di allevamento, anche
quelli di tipo “tradizionale” che danno sempre luogo ad
attività agricola (allevamenti di bestiame previsti
dall'art. 2135 c. c., intendendosi per bestiame solo i
bovini, ovini, caprini, equini e suini, ossia animali da
lavoro, carne, latte e lana), o quelli che possono
acquistare carattere agrario solo come attività connesse
all'agricoltura, se ed in quanto esercitate nell'ambito di
un'impresa di coltivazione del fondo, come gli allevamenti
degli animali da cortile e le altre attività di allevamento,
quali la coniglicoltura, la pollicoltura, l'apicoltura,
ecc..
Non vi è alcuna normativa nazionale che escluda l’ubicabilità
di allevamenti di animali costituenti industrie nocive ai
sensi del D.M. 12/02/1971 all’interno delle aree a
destinazione agricola.
L'art. 216 t.u. del 27.07.1934 n. 1265 impone unicamente che
le industrie insalubri della prima classe, vale a dire
quelle produttive di "vapori, gas o altre esalazioni
insalubri" pericolose per la salute umana, tra le quali sono
compresi gli allevamenti di bestiame (D.M. citato, lett. C,
n. 1), siano "isolate nelle campagne e tenute lontane dalle
abitazioni".
La prescrizione normativa nazionale non contiene, tuttavia,
alcuna fissazione di distanze minime, consentendo, anzi, che
quelle imposte dalla disciplina di legge o di piano
regolatore possano in ipotesi essere derogate se venga
dimostrato che l'esercizio dell'attività non reca pregiudizi
alla salute del vicinato.
Divieti e limitazioni all’istallazione di industrie
insalubri (tra cui allevamento zootecnici) in zona agricola
possono ben essere previste, tuttavia, negli strumenti
urbanistici in sede di pianificazione del territorio.
La prima censura è infondata.
Il Collegio evidenzia innanzitutto come le NTA e la delibera
comunale n. 20/2009, diano vita, sia per quanto riguarda la
tipologia di attività installabili nell’area, che per quanto
riguarda le distanze, a una disciplina di non piana
interpretazione, che lascia zone grigie non espressamente
disciplinate e fonte di possibile incertezza applicativa.
Detto ciò, il medesimo Collegio osserva che l’art. 17 delle
NTA prevede che le zone territoriali omogenee agricole E
siano “destinate prevalentemente all'esercizio diretto delle
attività agricole ed all'insediamento di nuclei, edifici e
attrezzature, necessari appunto all'esercizio di tali
attività”… “Tali zone sono destinate alla conduzione del
fondo e all’esercizio dell’attività agricola in generale”….
In essa è consentita la costruzione di: …. 6) Impianti per
allevamenti zootecnici…”.
Il medesimo articolo successivamente prevede che “dalle zone
agricole sono escluse le industrie nocive ai sensi del D.M.
12/02/1971”.
Il Collegio rileva come non sia corretto l’assunto di parte
ricorrente che, ai sensi delle NTA, un allevamento intensivo
come quello in questione non sia realizzabile in zona
agricola, rientrando tra le industrie nocive, in quanto la
previsione di cui al punto 6 dell’art. 17 delle NTA –che
espressamente contempla la realizzazione di allevamenti
zootecnici in zona agricola– si riferirebbe solo agli
allevamenti di tipo tradizionale (esclusi dal novero delle
industrie nocive), e non a quelli di tipo intensivo
assimilabili a impianti industriali.
Osserva in proposito il medesimo Collegio che, in generale,
gli allevamenti di animali costituiscono in ogni caso
industrie nocive di cui al D.M. 12.02.1971, oggi D.M. 05.09.1994.
L'allevamento avicolo, infatti, è qualificabile come
industria insalubre di prima classe, ai sensi dell'art. 216
t.u. leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265 del 1943 e
nell'elenco contenuto nel D.M. 05.09.1994, n. 1, lett.
c) (Cons. Stato, Sez. V, Sent., 04.09.2013, n. 4409), e ciò
indipendentemente dalla sua natura tradizionale o intensiva.
Nella dizione <allevamenti di animali>, classificati tra le
industrie insalubri di 1 classe dai d.m. 12.02.1971 e
23.12.1976, sono compresi tutti i tipi di allevamento,
anche quelli di tipo “tradizionale” che danno sempre luogo
ad attività agricola (allevamenti di bestiame previsti
dall'art. 2135 c. c., intendendosi per bestiame solo i
bovini, ovini, caprini, equini e suini, ossia animali da
lavoro, carne, latte e lana), o quelli che possono
acquistare carattere agrario solo come attività connesse
all'agricoltura, se ed in quanto esercitate nell'ambito di
un'impresa di coltivazione del fondo, come gli allevamenti
degli animali da cortile e le altre attività di allevamento,
quali la coniglicoltura, la pollicoltura, l'apicoltura, ecc.
(TAR Veneto, 08.05.1980, n. 325).
Non vi è alcuna normativa nazionale che escluda l’ubicabilità
di allevamenti di animali costituenti industrie nocive ai
sensi del D.M. 12/02/1971 all’interno delle aree a
destinazione agricola.
L'art. 216 t.u. del 27.07.1934 n. 1265 impone unicamente
che le industrie insalubri della prima classe, vale a dire
quelle produttive di "vapori, gas o altre esalazioni
insalubri" pericolose per la salute umana, tra le quali sono
compresi gli allevamenti di bestiame (D.M. citato, lett. C,
n. 1), siano "isolate nelle campagne e tenute lontane dalle
abitazioni" (TAR Piemonte Torino Sez. II, Sent.,
21/02/2009, n. 477; Cons. Stato, Sez. V, 08.06.1998, n.
778).
La prescrizione normativa nazionale non contiene, tuttavia,
alcuna fissazione di distanze minime, consentendo, anzi, che
quelle imposte dalla disciplina di legge o di piano
regolatore possano in ipotesi essere derogate se venga
dimostrato che l'esercizio dell'attività non reca pregiudizi
alla salute del vicinato (Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6612; sez. V, 13.10.2004, n. 6648).
Divieti e limitazioni all’istallazione di industrie
insalubri (tra cui allevamento zootecnici) in zona agricola
possono ben essere previste, tuttavia, negli strumenti
urbanistici in sede di pianificazione del territorio.
In tal senso l’art. 17 delle NTA del PRG del Comune in
questione ha disciplinato l’utilizzo urbanistico delle zone
a destinazione agricola in apparente antinomia.
Da un lato, ha infatti, previsto la realizzabilità, in zona
a destinazione agricola, di impianti di allevamenti
zootecnici, senza porre alcuna limitazione qualitativa o
quantitativa.
Dall’altro, ha vietato nella medesima zona l’installazione
di industrie nocive (tra cui rientrano gli allevamenti di
animali).
L’apparente incongruenza deve essere risolta in termini di
rapporto di specialità tra norme, dove le industrie nocive
costituiscono la norma generale che disciplina, vietandone
l’installazione in zona agricola, la categoria generale
delle industrie nocive (produttive di vapori, gas o altre
esalazioni insalubri), mentre la previsione della
localizzabilità di allevamenti zootecnici nell’ambito della
medesima zona si pone in termini di
specialità/eccezionalità, prendendo specificamente in esame
la species degli allevamenti di animali nell’ambito del più
ampio genere delle industrie nocive per consentirne in via
d’eccezione la localizzazione in area agricola.
Diversamente opinando, non avrebbe avuto senso prevedere
nelle NTA la possibilità di installazione di allevamenti
zootecnici a fronte di un divieto generale di localizzazione
di industrie nocive.
Né risulta convincente l’interpretazione ipotizzata da parte
ricorrente che, come indicato, argomenta il divieto della
presenza dalle zone agricole dell’allevamento in questione
in base alla previsione della lettera H dell’art. 17 delle
NTA, che in riferimento agli allevamenti zootecnici
realizzabili in zona agricola, indica i parametri di
distanza minima, superficie minima del lotto, indice di
fabbricabilità fondiaria, altezza massima e quanto altro
“per la costruzione di allevamenti di tipo tradizionale
(ossia basati prevalentemente sull'utilizzazione degli
elementi della terra) di cui al n° 4 del presente articolo”.
Rileva il Collego come la circostanza che l’art. 17 delle
NTA nulla prescriva per gli allevamenti di tipo intensivo,
non significa che la previsione della lettera H sia
esaustiva rispetto alla tipologia di allevamenti
localizzabili in zona a destinazione agricola.
In particolare, la circostanza che la lettera H si limiti a
disciplinare le caratteristiche degli allevamenti basati in
via prevalente sull'utilizzazione degli elementi della terra
di tipo tradizionale non esclude la localizzabilità in zona
agricola di quelli di altro tipo.
Né, d’altra parte, è sostenibile che l’ubicazione di un
allevamento di tipo intensivo, per la sua assimilabilità ad
impianto di tipo industriale, debba trovare naturale
collocazione nell’ambito delle aree industriali del PRG
comunale.
L’art. 22 delle medesime NTA nel disciplinare le Zone
industriali artigianali di tipo D1 non fa alcun cenno agli
allevamenti di tipo zootecnico mentre, in caso di
localizzazione ripartita tra allevamenti tradizionali e
allevamenti intensivi, tale articolo avrebbe ben dovuto
disciplinare disponendone l’inserimento in questa
destinazione di zona.
Inoltre, l’impianto in questione non avrebbe potuto trovare
spazio nell’area a destinazione industriale D1 che
espressamente esclude l’installazione di industrie nocive,
di talché non appare logica una interpretazione che, sulla
base del dato formale della previsione delle NTA (la lettera
H) che disciplina solo gli allevamenti tradizionali, intenda
dare alle norme un significato che rende impossibile la
realizzazione di un impianto di allevamento di tipo
intensivo nell’intero territorio comunale, non potendo lo
stesso essere localizzato né in zona agricola, né in zona
industriale.
L’interpreazione da accogliere , nella pur non chiara
formulazione del testo delle NTA, anche al fine di evitare
incongruenze e illogicità, è nel senso dell’inesistenza di
limitazioni tipologiche nella localizzazione di allevamenti
zootecnici in zona agricola.
Tale interpretazione è stata peraltro, quella concretamente
adottata nella prassi dall’amministrazione comunale che ha
nel tempo autorizzato tutti gli impianti di allevamento
avicoli in zona agricola senza operare alcuna distinzione.
La censura va quindi rigettata
(TAR Campania, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2762 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'interpretazione
della norma alla quale accede la giurisprudenza più recente
è nel senso di valorizzare il presupposto applicativo della
doppia conformità di guisa da escludere cittadinanza alla
pur divisata sanatoria giurisprudenziale.
Secondo l’orientamento maggiormente seguito in sede pretoria,
infatti, predicare l'operatività della sanatoria
giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di
opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa
tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24,
97, 101 e 113 Cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, l.
07.08.1990 n. 241, sia in quanto svuoterebbe della sua
portata precettiva, certa e vincolante la disciplina
urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione
degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito
oggettivo di applicazione del permesso di costruire in
sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36,
d.P.R. n. 380 del 06.06.2001) alle sole violazioni di ordine
formale; inoltre si finirebbe per premiare gli autori degli
abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che
abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel
doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri,
invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non
addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio.
--------------
Il permesso di costruire in sanatoria contenente
prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia
conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in
parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata
all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al
tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma,
eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la
richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni.
I. Il ricorso
è infondato.
Viene all’esame del Collegio la questione della legittimità
del provvedimento con il quale il Comune di Montoro ha
respinto l’istanza di accertamento di conformità avanzata
dai ricorrenti per la sanatoria di un fabbricato, sito alla
località Macchioni della frazione San Bartolomeo.
Tale atto denegante si fonda sulla seguente testuale
motivazione: “la mancanza del lotto minimo di mq.
4.000,00 previsto dalle norme di attuazione del piano
regolatore generale; - la destinazione del fabbricato a
civili abitazioni in contrasto con le normative vigenti in
zona agricola che prevedono la realizzazione di un immobile
a servizio di un fondo agricolo con maggiore destinazione
d’uso a pertinenza agricola”.
Poiché le ricorrenti, nel corso del procedimento, avevano
evidenziato di avere acquistato, con atto di compravendita
rep. n. 37680 del 15.12.2012, un’ulteriore consistenza
immobiliare al rappresentato fine di conseguire la minimale
estensione del lotto, a tal riguardo, nel corredo
motivazionale dell’atto impugnato, specificamente si osserva
che “Solo successivamente all’accertamento edilizio ed
all’emissione dell’ordinanza n. 124 del 14/09/2012, e
precisamente in data 15/12/2012, i coniugi G.M. e P.L. hanno
acquistato un terreno confinante per raggiungere le
dimensioni del lotto minimo”.
I.1. Parte ricorrente contesta la legittimità di tale
diniego, assumendo, nell’ambito del primo motivo di ricorso,
che la conseguita conformità urbanistica ed edilizia del
manufatto alla data (16.01.2014) cui risale l’istanza di
sanatoria, attraverso il predetto atto di compravendita di
un terreno attiguo (foglio n. 18, part.lle 1671-1673-320),
sarebbe sufficiente ai fini del rilascio del sospirato
titolo edilizio, ostando il principio della doppia
conformità di cui all’art. 36 d.p.r. n. 380/2001 solo
nell’ipotesi di variazione peggiorativa della disciplina
edilizia ed urbanistica di zona e non anche nell’ipotesi di
conformità dell’intervento alla data di rilascio del titolo.
Sussisterebbero, in ogni caso, i presupposti per la
cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, risultando così
sufficiente la conformità sopraggiunta dell’intervento al
momento della proposizione della domanda.
I rilievi sollevati non colgono nel segno, in quanto
trascurano la precisa formulazione del citato art. 36, che
così dispone: “1. In caso di interventi realizzati in
assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso,
ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio
attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in
difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui
agli articolo 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e
comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative,
il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario
dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se
l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
L'interpretazione della norma alla quale accede la
giurisprudenza più recente è nel senso di valorizzare il
presupposto applicativo della doppia conformità di guisa da
escludere cittadinanza alla pur divisata sanatoria
giurisprudenziale.
Secondo l’orientamento maggiormente seguito in sede pretoria,
infatti, predicare l'operatività della sanatoria
giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di
opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa
tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24,
97, 101 e 113 Cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, l.
07.08.1990 n. 241, sia in quanto svuoterebbe della sua
portata precettiva, certa e vincolante la disciplina
urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione
degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito
oggettivo di applicazione del permesso di costruire in
sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36,
d.P.R. n. 380 del 06.06.2001) alle sole violazioni di ordine
formale; inoltre si finirebbe per premiare gli autori degli
abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che
abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel
doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri,
invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non
addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio (TAR Perugia, sez. I, 03.12.2014, n. 590; TAR
Napoli, sez. VIII, 20.03.2014, n. 1690; TAR Aosta-Valle
d'Aosta - sez. I, 11.03.2014, n. 13; TAR Firenze-Toscana -
sez. III, 27.03.2013, n. 497; Consiglio di Stato, sez. IV,
26.04.2006, n. 2306).
Il conseguimento del lotto minimo solo in data successiva
alla realizzazione del manufatto non integra quindi il
presupposto per rilascio del titolo edilizio secondo i due
riferimenti temporali normativamente imposti. Né vi sono
spiragli per accedere alla lettura restrittiva della norma
auspicata in ricorso, non potendosi ricavare dal suo tratto
testuale che il requisito della doppia conformità non sia
richiesto in assenza di modifiche della disciplina
urbanistica intercorse tra i due momenti in cui la verifica
di compatibilità deve essere effettuata. Ciò che
invariabilmente richiede la norma infatti è che, in
relazione a ciascuno di essi, le opere oggetto di sanatoria
devono risultare conformi alla normativa urbanistica ed
edilizia vigente. La censura in esame va quindi disattesa.
I.2. Nemmeno persuade il secondo mezzo, col quale si assume
la infondatezza del secondo versante motivazionale,
afferente al rilevato contrasto della destinazione d’uso con
le normative vigenti in zona agricola, non potendosi
condividere quanto auspicato dai ricorrenti nel senso che il
rilevato contrasto si sarebbe potuto superare con una
semplice prescrizione sul rapporto tra le diverse
destinazioni, in quanto, come da costante orientamento della
giurisprudenza, la sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 36,
per sua stessa natura, non può contenere prescrizioni atte a
modificare l’esistente.
Questa stessa Sezione (28.05.2014, n. 1017) ha, infatti, di
recente evidenziato che il permesso di costruire in
sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con
l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non
già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa
dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità
ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni
e quindi non esistente al tempo della presentazione della
domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data
futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato
alle prescrizioni. Ad ogni modo, stante la idoneità del
corno motivazionale afferente alla rilevata mancanza del
requisito del lotto minimo all’epoca di realizzazione del
manufatto a sorreggere la impugnata determinazione, la
disamina del motivo in esame diviene superflua.
Costituisce invero “ius receptum” che quando la
reiezione di una pretesa vantata dall'interessato si fondi
su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna sufficiente a
sorreggere la determinazione negativa, il consolidamento
anche di uno solo dei motivi di diniego, per la mancata
deduzione di censure contro di esso o per l'infondatezza
delle relative doglianze, comporta l'inammissibilità delle
contestazioni rivolte contro tutti gli altri elementi
ostativi. Infatti, laddove un atto sia plurimotivato, ovvero
fondato su più profili motivazionali da soli idonei a
sorreggerlo, la mancata formulazione di censure avverso una
di tali parti motivazionali rende il ricorso inammissibile
per difetto di interesse a ricorrere, restando l'atto
idoneamente sorretto dal profilo motivazionale non oggetto
di impugnativa (TAR Napoli–Campania - sez. VII, 05.12.2014,
n. 6377) (cfr. TAR Napoli–Campania - sez. VI, 10.02.2015, n.
978)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto che, in virtù dell'art. 21-octies, l.
07.08.1990 n. 241, come inserito dall'art. 14, comma 1, l.
15/2005, si assiste ad una dequotazione dei vizi formali del
provvedimento, e ciò vale anche con riferimento al diaframma
procedimentale innescato dal preavviso di diniego.
Questo Tribunale ha già avuto modo di osservare che nel
procedimento amministrativo, la mancata comunicazione del
preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del
provvedimento finale, in quanto la disposizione contenuta
nell'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 va interpretata alla
luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale,
nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale
del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui
le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità
sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione
delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto
allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
I.3. Va ravvisata l’infondatezza anche del terzo mezzo, col
quale si assume la violazione dell’art. 10-bis per difetto
di motivazione sulle osservazioni rese a seguito del
preavviso di diniego, dovendosi rilevare che nella
comunicazione dei motivi ostativi prot. n. 4774 del
07.03.2014 contiene ampie argomentazioni a sostegno del
contestato diniego in relazione ai punti valorizzati nella
nota dei ricorrenti prot. n. 5621 del 19.03.2014, inerenti
alla proporzione tra le destinazioni d’uso delle parti
(agricola ed abitativa) del fabbricato. Peraltro, la
censura, per il suo carattere formale, non è in grado di
inficiare ex se la legittimità dell’atto impugnato,
stante la fondatezza del rilievo sollevato
dall’amministrazione in ordine alla sopravvenienza del
requisito del lotto minimo.
E’ noto infatti che, in virtù dell'art. 21-octies, l.
07.08.1990 n. 241, come inserito dall'art. 14, comma 1, l.
15/2005, si assiste ad una dequotazione dei vizi formali del
provvedimento, e ciò vale anche con riferimento al diaframma
procedimentale innescato dal preavviso di diniego.
Questo Tribunale (sez. I, 10.10.2014, n. 1719) ha già avuto
modo di osservare che nel procedimento amministrativo, la
mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta
ex se l'illegittimità del provvedimento finale, in
quanto la disposizione contenuta nell'art. 10-bis, l.
07.08.1990, n. 241 va interpretata alla luce del successivo
art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice
di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di
non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali
non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del
medesimo, rende irrilevante la violazione delle norme sul
procedimento o sulla forma dell'atto allorché il contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
- “L'ordinanza di demolizione non deve essere
sorretta da una specifica motivazione circa la sussistenza
dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, in quanto
l'interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi ed
al ripristino della legalità è in re ipsa, non ravvisandosi
alcun affidamento del privato meritevole di tutela, e non
potendosi consentire l'utilizzo libero ed indiscriminato
delle facoltà edificatorie sul territorio, soltanto perché
le autorità preposte al controllo siano eventualmente
intervenute a reprimerle con ritardo”;
- “L'ordine di demolizione delle opere abusive non deve
essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241,
trattandosi di atto dovuto per il quale non sono richiesti
apporti partecipativi del soggetto destinatario; tale
ordine, infatti, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede
una specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico, anche di natura urbanistica e ambientale, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati”;
- l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto; l'atto
può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della
stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria;
- “Nella motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria
e sufficiente l'analitica definizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
mentre non è necessaria la descrizione precisa della
superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad
essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in
caso di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la
specificazione intervenire nella successiva fase
dell'accertamento della medesima inottemperanza”.
II. Nemmeno fondate risultano le censure, per vizi propri,
sollevate avverso la susseguente ordinanza demolitoria, in
quanto:
- infondata è la censura di cui al quinto mezzo, in ordine
al preteso difetto motivazionale, atteso che, come da
consolidato orientamento giurisprudenziale dal quale il
Collegio non ha motivo di discostarsi, “L'ordinanza di
demolizione non deve essere sorretta da una specifica
motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a
disporre la sanzione, in quanto l'interesse pubblico alla
repressione degli abusi edilizi ed al ripristino della
legalità è in re ipsa, non ravvisandosi alcun affidamento
del privato meritevole di tutela, e non potendosi consentire
l'utilizzo libero ed indiscriminato delle facoltà
edificatorie sul territorio, soltanto perché le autorità
preposte al controllo siano eventualmente intervenute a
reprimerle con ritardo” (cfr. TAR Catania–Sicilia - sez.
I, 12.03.2015, n. 756);
- parimenti non persuade quanto dedotto col sesto mezzo, in
ordine alla pretesa obliterazione del principio del
contraddittorio, in quanto, come da convincente insegnamento
giurisprudenziale, “L'ordine di demolizione delle opere
abusive non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990
n. 241, trattandosi di atto dovuto per il quale non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
tale ordine, infatti, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica e
ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati” (cfr. TAR
Campobasso–Molise - sez. I, 27.03.2015, n. 141);
- nemmeno coglie nel segno il settimo mezzo, col quale si
denuncia la mancata indicazione delle norme urbanistiche
violate e la mancata qualificazione dell’abuso, in quanto,
come da costante insegnamento giurisprudenziale (TAR
Napoli–Campania - sez. VI, 12.03.2015, n. 1521), l’esercizio
del potere repressivo mediante applicazione della misura
ripristinatoria costituisce atto dovuto; l'atto può
ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa
descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della
misura sanzionatoria;
- è parimenti infondato l’ottavo ed ultimo motivo di
ricorso, circa la mancanza di indicazioni relative alla
successiva acquisizione, in quanto, come da preciso
insegnamento giurisprudenziale, “Nella motivazione
dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente
l'analitica definizione delle opere abusivamente realizzate,
in modo da consentire al destinatario della sanzione di
rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la
descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di
sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al
patrimonio comunale in caso di inottemperanza alla predetta
ingiunzione, potendo la specificazione intervenire nella
successiva fase dell'accertamento della medesima
inottemperanza” (cfr. TAR Napoli–Campania - sez. VI,
10.02.2015, n. 978)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
censura con la quale il ricorrente ritiene applicabili alla
vasca di compensazione (della realizzanda piscina) le
distanze previste dall’art. 889 c.c. per pozzi, cisterne
fossi e tubi deve essere respinta, perché nel caso all’esame
il manufatto realizzato si sostanzia nella realizzazione di
un opera corrispondente ad un muro di contenimento che ha
sopravanzato l’originario profilo della balza del terreno, e
in quanto tale deve essere qualificato come una costruzione,
dato che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle
distanze, “la nozione di costruzione non si identifica con
quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera”.
--------------
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’erroneità
della considerazione del vano di alloggiamento dei motori
(della realizzanda piscina) come idoneo a configurare volume
computabile dal punto di vista urbanistico e paesaggistico.
La censura non può essere accolta perché, come osservato dal
Comune nelle proprie difese, costituiscono vani tecnici non
computabili volumetricamente dal punto di vista urbanistico,
le fattispecie indicate dagli strumenti urbanistici, quali
il sottotetto, il vano scala, il vano ascensore e il volume
delle opere di natura tecnica collocate al di sopra del
solaio di copertura, mentre “tutte le strutture tecnologiche
di dimensioni rilevanti, che non rientrano nella definizione
di volume tecnico, partecipano alla determinazione del
volume edificabile o rapporto di copertura per gli edifici
produttivi e sono soggette alla normativa sulla
edificabilità del P.I.”, e pertanto il vano di alloggiamento
dei motori che internamente misura 5,00 m per 1,60, con
un’altezza utile pari a 3,90 m, ed è sovrastato da una
terrazza, non rientra nel novero delle fattispecie
definibili come volumi tecnici non rilevanti ai fini
urbanistici.
...
per l'annullamento:
-
della determina prot. n. 413 del 20/1/2015 notificata il
21/01/2015, emessa dall'Area Tecnica Edilizia Privata e
Sportello Unico del Comune di Costermano di rigetto
dell'istanza di rilascio di permesso di costruire in
variante in sanatoria relativa alla realizzazione di una
piscina a servizio di civile abitazione presentata il
28/08/2013 prot. n. 6974, presentata dal sig. H.W.;
-
dell'ordinanza n. 4 prot. n. 1701 del 03/03/20105 di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi emessa
dall'Area Tecnica Edilizia Privata e Sportello Unico del
Comune di Costermano il 04/03/2015.
...
Il ricorrente è il progettista e direttore dei lavori di
realizzazione di una piscina privata nello scoperto a
servizio di un’abitazione unifamiliare di proprietà del Sig.
H.W. nel territorio del Comune di Costermano in
area soggetta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico
forestale, per la quale è stato rilasciato il permesso di
costruire n. 10646 del 28.05.2013.
Il progetto originario prevedeva la realizzazione della
piscina alla distanza di m 3,56 dal confine di proprietà
all’interno di una balza del terreno e sul lato sud ovest,
che fronteggia la proprietà confinante, la realizzazione di
un muro di sostegno del preesistente terrapieno di
contenimento della balza.
Nel corso degli scavi sono stati riscontrati dei problemi
alla staticità dell’immobile a causa dell’eccessiva
vicinanza dello scavo all’abitazione.
La piscina è stata quindi traslata in direzione sud ovest,
in avvicinamento rispetto alla proprietà confinante.
Rispetto al progetto autorizzato è stata eliminata la vasca
di compensazione prevista sul lato nord est della piscina, e
la stessa è stata realizzata sul lato sud ovest alla
distanza di m 1,16 dal confine, con la funzione di raccolta
delle acque che scendono dal bordo della piscina, infine è
stato realizzato un vano di alloggiamento dei motori e
filtri della piscina non previsto dal progetto, della misura
di m 5 per 1,6 e altezza di m. 3,9, sovrastato da una
terrazza.
Il 28.08.2013 è stata presentata un’istanza di
accertamento di conformità e un’istanza per l’accertamento
di compatibilità paesaggistica dei lavori abusivamente
realizzati.
Il Comune, con provvedimento prot. n. 413 del 20.01.2015, ha respinto l’istanza di sanatoria e accertamento di
compatibilità paesaggistica e, con ordinanza n. 4, prot. n.
1701 del 03.03.2015, ha ordinato la demolizione delle
opere e il ripristino dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
La censura con la quale, nell’ambito del primo motivo, il
ricorrente deduce che le opere realizzate non soggiacciono
alla disciplina delle distanze dai confini perché sono
interrate in quanto ricomprese all’interno dell’originaria
balza del terreno, è infondata.
Infatti nel caso all’esame la necessità del rispetto delle
distanze dai confini emerge già dall’esame dei prospetti
redatti dalla stessa parte ricorrente come allegati alla
domanda di sanatoria e dalla comparazione il progetto
originariamente assentito (cfr. doc. 3b allegato al ricorso)
e quello realizzato oggetto dell’istanza di sanatoria e tra
lo “stato dei luoghi originale” e “lo stato di sanatoria”
(cfr. doc. 4d allegato al ricorso).
Nel realizzare la traslazione della piscina e della vasca di
compensazione, è stato operato un avanzamento nel lato sud
ovest, verso la proprietà confinante, superando in parte
l’originario profilo della balza.
Il progetto originario prevedeva infatti la realizzazione
della piscina alla distanza di m 3,56 dal confine di
proprietà all’interno di una balza del terreno, e sul lato
sud ovest, che fronteggia la proprietà confinante, la
realizzazione di un muro di sostegno del preesistente
terrapieno di contenimento della balza.
Le opere realizzate, il dato si ricava dalla sovrapposizione
delle sezioni relative allo stato di fatto preesistente e
alle opere oggetto di sanatoria (cfr. doc. 4d allegato al
ricorso), distano invece dal confine circa 2,68 m per quanto
riguarda la piscina che, come emerge dal raffronto tra le
sezioni A-A dello “stato dei luoghi originale” e dello
“stato di sanatoria” in taluni punti è stata realizzata ad
un’altezza maggiore a quella originaria della balza, e 1,16
m per quanto riguarda la vasca di compensazione, il che
rende evidente che sono state superate le precedenti
distanze dal confine con dei manufatti, la vasca di
compensazione e la piscina, creati artificialmente oltre
l’originario profilo della balza, e che complessivamente
emergono dal sottostante vialetto per circa 3,90 m.
Pertanto l’assunto secondo il quale tali opere non
dovrebbero soggiacere alla disciplina sulle distanze dai
confini perché completamente interrate è infondato.
La censura con la quale il ricorrente ritiene applicabili
alla vasca di compensazione le distanze previste dall’art.
889 c.c. per pozzi, cisterne fossi e tubi deve essere
respinta, perché nel caso all’esame, come appena
evidenziato, il manufatto realizzato si sostanzia nella
realizzazione di un opera corrispondente ad un muro di
contenimento che ha sopravanzato l’originario profilo della
balza del terreno, e in quanto tale deve essere qualificato
come una costruzione, dato che, ai fini dell'osservanza
delle norme sulle distanze, “la nozione di costruzione non
si identifica con quella di edificio ma si estende a
qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al
suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di
posa e di elevazione dell'opera” (per una fattispecie
analoga cfr. Cassazione civile Sez. II 17.06.2011 n.
13389).
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere
respinte.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’erroneità
della considerazione del vano di alloggiamento dei motori
come idoneo a configurare volume computabile dal punto di
vista urbanistico e paesaggistico.
La censura non può essere accolta perché, come osservato dal
Comune nelle proprie difese, costituiscono vani tecnici non
computabili volumetricamente dal punto di vista urbanistico,
le fattispecie indicate dagli strumenti urbanistici, quali
il sottotetto, il vano scala, il vano ascensore e il volume
delle opere di natura tecnica collocate al di sopra del
solaio di copertura, mentre “tutte le strutture tecnologiche
di dimensioni rilevanti, che non rientrano nella definizione
di volume tecnico, partecipano alla determinazione del
volume edificabile o rapporto di copertura per gli edifici
produttivi e sono soggette alla normativa sulla
edificabilità del P.I.”, e pertanto il vano di alloggiamento
dei motori che internamente misura 5,00 m per 1,60, con
un’altezza utile pari a 3,90 m, ed è sovrastato da una
terrazza, non rientra nel novero delle fattispecie
definibili come volumi tecnici non rilevanti ai fini
urbanistici.
Sono parimenti infondate le censure proposte avverso
l’ordinanza di demolizione, di cui al terzo e quinto motivo,
con le quali il ricorrente contesta la sanzionabilità
dell’abuso con l’ordinanza di demolizione anziché con una
sanzione pecuniaria.
Infatti, come sopra evidenziato, nel caso all’esame le opere
poste in essere costituiscono una nuova costruzione che
comporta una modificazione e trasformazione permanente del
territorio, e sono pertanto soggette al rilascio del
permesso di costruire (cfr. Tar Campania, Napoli, 06.06.2013, n. 2980; Tar Puglia, Bari, Sez. III, 26.01.2012,
n. 245; Consiglio di Stato, Sez. VI 05.03.2013 n. 1316;
Consiglio di Stato, Sez. III, 29.04.2003, n. 26197;
Cass. pen., Sez. III, 19.03.2014, n. 19444), ricadono in
area soggetta a vincolo paesaggistico, e hanno comportato un
aumento volumetrico dal punto di vista urbanistico, in
violazione delle distanze dai confini.
Pertanto costituiscono opere in totale difformità o con
variazioni essenziali rispetto al permesso di costruire
rilasciato, per le quali è prevista la demolizione.
In definitiva il ricorso deve essere respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 535 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima
l’ordinanza di demolizione ancorché mancante
dell'indicazione dell’area di sedime da acquisire
gratuitamente al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza poiché, conformemente all’indirizzo
giurisprudenziale prevalente, deve essere ammessa la
predetta indicazione anche in un momento successivo.
Il settimo motivo, con il quale il ricorrente lamenta
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione per la mancata
indicazione dell’area di sedime da acquisire gratuitamente
al patrimonio comunale in caso di inottemperanza, deve
essere respinta, perché, conformemente all’indirizzo
giurisprudenziale prevalente, deve essere ammessa la
predetta indicazione anche in un momento successivo (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
05.01.2015,
n. 13; Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.11.2013, n.
5593; Tar Campania, Napoli, Sez. VII, 05.12.2014, n.
6381; Tar Lazio, Roma, Sez. I 19.06.2014, n. 6497)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'illegittimità dell'ordine di demolizione
laddove non fornisce alcuna adeguata motivazione né sulle
ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rilevare nella
fattispecie una variante essenziale, né tanto meno
sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo
trascorso (52 anni) e il conseguente affidamento
ingeneratosi in capo al privato.
La qualificazione delle riscontrate
difformità in termini di variante essenziale (e, dunque, di
abuso totale) risulta viziata da difetto di motivazione e di
istruttoria.
Risulta dagli atti, invero, che la differenza tra l’edificio
licenziato nel 1958 (licenza edilizia n. 13294 del 1958) e
l’edificio realizzato consiste soltanto nella maggiore
superficie di mq. 3,194 per 2 piani (per un totale di circa
mq. 6,55) e nel fatto che il fabbricato è stato costruito in
una posizione leggermente diversa da quanto indicato in
linea di massima nel progetto (uno spostamento di circa 45
metri).
Il carattere lieve di tali difformità, anche in
considerazione del fatto che nel progetto approvato con la
licenza edilizia del 1958 mancavano quote o misure che
vincolassero l’esatta localizzazione dell’edificio (essendo
presenti solo indicazioni di massima), rende immotivata la
qualificazione di tali difformità in termini di variante
essenziale e, dunque, di abuso totale.
Va, peraltro, rilevato che, anche a ritenere vincolanti le
indicazioni (di massima) contenute nel progetto approvato
relative alla localizzazione dell’edificio, la fattispecie
di indebita traslazione della localizzazione dell’edificio
sul lotto è stata introdotta solo con l’art. 8 della legge
n. 47 del 1985 (oggi trasporto nell’art. 32, lett. c),
d.P.R. n. 380 del 2001), in epoca cioè ampiamente successiva
rispetto alla realizzazione dell’intervento oggetto del
presente giudizio.
---------------
A ciò deve aggiungersi il notevole lasso temporale trascorso
dalla commissione del supposto abuso (risalente alla fine
degli anni ’50) e l’adozione del provvedimento di
demolizione (avvenuta nel 2010).
Deve, al riguardo ricordarsi come la giurisprudenza, anche
quella maggiormente rigorosa nell’affermare che l'ordinanza
di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente
motivata con riferimento all'oggettivo riscontro
dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità
di queste al regime del permesso di costruire (non essendo
necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo
sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso
dalla conoscenza della commissione dell´abuso edilizio ed il
protrarsi dell´inerzia dell´amministrazione preposta alla
vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una
posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso
tale approdo affermando che “l’ingiunzione di demolizione,
in quanto atto dovuto in presenza della constatata
realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o
in totale difformità da esso, è in linea di principio
sufficientemente motivata con l´affermazione dell´accertata
abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva
l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso
dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi
questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di
congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato”.
Alla luce di tale orientamento, tenuto conto della limitate
entità delle difformità riscontrate e del notevole lasso di
tempo trascorso dal supposto abuso, il provvedimento
impugnato si appalesa illegittimo laddove non fornisce
alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno
indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una
variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della
demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente
affidamento ingeneratosi in capo al privato.
5. L’appello merita accoglimento.
6. Il Comune di Bologna ha ravvisato nella fattispecie in
esame una ipotesi di variazione essenziale rispetto al
titolo edilizio, rilevando che l’edificio era stato
realizzato su un diverso mappale rispetto a quello di
progetto, oltre che con difformità rispetto al progetto
stesso. Muovendo da tale premessa, il Comune ha ritenuto che
le difformità riscontrate dessero luogo ad un abuso totale
e, di conseguenza, richiamando l’art. 31 d.P.R. n. 380 del
2011 e l’art. 40 l.r. n. 23 del 2004, ha ordinato la
demolizione dell’edificio.
7. La qualificazione delle riscontrate difformità in termini
di variante essenziale (e, dunque, di abuso totale) risulta,
tuttavia, viziata da difetto di motivazione e di
istruttoria.
Risulta dagli atti, invero, che la differenza tra l’edificio
licenziato nel 1958 (licenza edilizia n. 13294 del 1958) e
l’edificio realizzato consiste soltanto nella maggiore
superficie di mq. 3,194 per 2 piani (per un totale di circa
mq. 6,55) e nel fatto che il fabbricato è stato costruito in
una posizione leggermente diversa da quanto indicato in
linea di massima nel progetto (uno spostamento di circa 45
metri).
Il carattere lieve di tali difformità, anche in
considerazione del fatto che nel progetto approvato con la
licenza edilizia del 1958 mancavano quote o misure che
vincolassero l’esatta localizzazione dell’edificio (essendo
presenti solo indicazioni di massima), rende immotivata la
qualificazione di tali difformità in termini di variante
essenziale e, dunque, di abuso totale.
8. Va, peraltro, rilevato che, anche a ritenere vincolanti
le indicazioni (di massima) contenute nel progetto approvato
relative alla localizzazione dell’edificio, la fattispecie
di indebita traslazione della localizzazione dell’edificio
sul lotto è stata introdotta solo con l’art. 8 della legge
n. 47 del 1985 (oggi trasporto nell’art. 32, lett. c),
d.P.R. n. 380 del 2001), in epoca cioè ampiamente successiva
rispetto alla realizzazione dell’intervento oggetto del
presente giudizio.
9. A ciò deve aggiungersi il notevole lasso temporale
trascorso dalla commissione del supposto abuso (risalente
alla fine degli anni ’50) e l’adozione del provvedimento di
demolizione (avvenuta nel 2010).
Deve, al riguardo ricordarsi come la giurisprudenza, anche
quella maggiormente rigorosa nell’affermare che l'ordinanza
di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente
motivata con riferimento all'oggettivo riscontro
dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità
di queste al regime del permesso di costruire (non essendo
necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo
sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso
dalla conoscenza della commissione dell´abuso edilizio ed il
protrarsi dell´inerzia dell´amministrazione preposta alla
vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una
posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso
tale approdo (Consiglio di Stato sez. V 15/07/2013 n. 3847)
affermando che “l’ingiunzione di demolizione, in quanto
atto dovuto in presenza della constatata realizzazione
dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale
difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente
motivata con l´affermazione dell´accertata abusività
dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui,
per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione
preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla
quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che
indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia
dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare
il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Alla luce di tale orientamento, tenuto conto della limitate
entità delle difformità riscontrate e del notevole lasso di
tempo trascorso dal supposto abuso, il provvedimento
impugnato si appalesa illegittimo laddove non fornisce
alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno
indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una
variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della
demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente
affidamento ingeneratosi in capo al privato.
10. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello
deve, pertanto, essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.05.2015 n. 2512 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
I Testimoni di Geova pagano la tassa rifiuti.
I testimoni di Geova pagano la tassa rifiuti. L'esenzione
dal tributo per gli edifici adibiti al culto è applicabile
solo laddove vi sia un'intesa tra la confessione religiosa e
lo stato italiano volta regolamentare i rapporti ai sensi
dell'articolo 8 della Costituzione.
Ad affermarlo è la Ctr Lombardia, sezione staccata di
Brescia, nella sentenza 18.05.2015 n. 2231/67/15.
La vicenda vedeva la Congregazione cristiana dei testimoni
di Geova ricorrere in appello contro una cartella
esattoriale Tarsu da 700 euro. Un comune del bergamasco
aveva richiesto la tassa rifiuti all'ente, in quanto
proprietario di un immobile sito nel proprio territorio.
Secondo la ricorrente, l'articolo 5 del regolamento comunale Tarsu prevedeva l'esenzione «per gli edifici adibiti al
culto delle religioni riconosciute dallo stato,
limitatamente ai locali destinato all'attività di culto vere
e proprie». Così come l'articolo 62 del dlgs n. 507/1993
stabilisce la non imponibilità dei locali «che non possono
produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare
uso cui sono stabilmente destinati». La Ctp di Bergamo
respingeva il gravame con la sentenza n. 128/2/13, sul
presupposto che la ricorrente non fosse religione
riconosciuta dallo stato italiano.
Da qui l'appello in Ctr, che non trova migliore sorte.
Secondo i giudici regionali, il contribuente deve dimostrare
«l'esistenza di una intesa con lo stato italiano atta a
concretizzare legislativamente l'articolo 8 della
Costituzione». Quest'ultimo afferma il principio di
eguaglianza delle religioni fra di loro, laddove compatibili
con l'ordinamento nazionale. Tuttavia, la norma dispone pure
che i rapporti con lo stato «sono regolati per legge sulla
base di intese con le relative rappresentanze».
Accordi di cui, aggiunge la Ctr bresciana, i testimoni di
Geova non hanno dimostrato l'esistenza. La documentazione
prodotta in giudizio, tra cui il certificato del ministero
dell'interno che attesta lo status di «ente di culto
riconosciuto con dpr n. 783/1986», non viene ritenuta
sufficiente dal collegio. Da qui la conferma della sentenza
appellata e la condanna dell'appellante alle spese di lite
(articolo ItaliaOggi del 26.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio richiama il consolidato orientamento
giurisprudenziale ai sensi del quale le norme degli
strumenti urbanistici locali che impongono di mantenere le
distanze fra fabbricati o di questi dai confini non sono
derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi
privati, a quella di interessi generali e pubblici in
materia urbanistica.
Le norme sulle distanze di cui all’art. 873 e ss c.c. sono,
invece, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei
singoli e mirano unicamente ad evitare la creazione di
intercapedini antigieniche e pericolose. Esse, in quanto
tali, sono suscettibili di deroga mediante convenzione tra
privati.
---------------
L’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che si
fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si
applicano le norme relative alle distanze, ma devono
osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” va
inteso nel senso che, in presenza di una strada pubblica,
non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo
privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle
distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il
preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato
sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle
leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali vanno
annoverate le NTA del PRG del Comune, oltre al D.M.
1444/1968.
La giurisprudenza, nel ribadire la natura di norma primaria
imperativa dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici
o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967), ne ha
sancito la prevalenza anche rispetto ad eventuali
disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione che, per questo, “vengono caducate ed
automaticamente sostituite dalla anzidetta disposizione”.
Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente chiarire, da un lato, che le
ricorrenti contestano l’applicazione dell’art. 46 NTA del
PRG e delle previsioni di al D.M. 1444/1968, dall’altro, che
la disposizione del D.M. 1444/1968 che trova indubbia
applicazione è quella di cui al secondo comma dell’art. 9,
che reca una disciplina specifica delle distanze tra edifici
per il caso in cui tra i fabbricati siano interposte strade
destinate al traffico dei veicoli.
Poste tali premesse, è possibile procedere con l’esame delle
singole censure.
Con riferimento alla pretesa applicazione della deroga di
cui all’art. 879 cc., il Collegio richiama, condividendolo,
il consolidato orientamento giurisprudenziale, ai sensi del
quale, le norme degli strumenti urbanistici locali, che
impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di
questi dai confini non sono derogabili, perché dirette, più
che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi
generali e pubblici in materia urbanistica (v. in tal senso,
ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza
30.06.2010 n. 4181, Cass. Civ., Sez. II, 31.05.2006, n.
12966).
Le norme sulle distanze di cui all’art. 873 e ss c.c. sono,
invece, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei
singoli e mirano unicamente ad evitare la creazione di
intercapedini antigieniche e pericolose. Esse, in quanto
tali, sono suscettibili di deroga mediante convenzione tra
privati.
Il fatto che gli edifici progettati confinano con vie
pubbliche è pacifico e non contestato dalle ricorrenti, che
anzi richiamano tale circostanza proprio al fine di
rivendicare l’applicazione della previsione di cui all’art.
879 c.c..
Il diniego opposto all’istanza rileva distanze irregolari
dalla viabilità di Via Marconi e Via Cortese.
In realtà, se ciò può valere ad escludere il rispetto delle
distanze codicistiche (artt. 873, 878 e 879, comma secondo,
codice civile), non può arrivare a far superare l’obbligo di
rispetto delle distanze imposte da leggi e da regolamenti
urbanistici (cfr. Cass. Civile II, 16.04.2007 n. 9077).
L’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che
si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si
applicano le norme relative alle distanze, ma devono
osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano”
va inteso nel senso che, in presenza di una strada pubblica,
non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo
privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle
distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il
preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato
sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle
leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali vanno
annoverate le NTA del PRG del Comune di Bari, oltre al D.M.
1444/1968 (in tal senso TAR Piemonte, sez. I, sent. 1034 del
13.06.2014, TAR Palermo,sez. III n. 2049, del 17/10/2012).
La giurisprudenza, nel ribadire la natura di norma primaria
imperativa dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici
o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967), ne ha
sancito la prevalenza anche rispetto ad eventuali
disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione che, per questo, “vengono caducate ed
automaticamente sostituite dalla anzidetta disposizione”
(Così Cons. Stato, Sez. IV, sent. 7731 del 02.11.2010).
Nel caso in esame, tuttavia, non si rinvengono contrasti fra
le NTA del PRG del Comune di Bari, in particolare la
disposizione di cui all’art. 46, e l’art. 9 D.M. 1444/1968,
risultando, piuttosto, il ricorso teso ad escludere
l’applicabilità di entrambe le previsioni al progetto
edilizio oggetto di istanza di permesso di costruire.
Né, per le medesime ragioni, assume rilievo la previsione
inserita con il Decreto c.d. “del Fare” (D.L.
21.06.2013 n. 69 convertito, con modificazioni, dalla L.
09.08.2013, n. 98) che ha introdotto all’interno del Testo
Unico dell’Edilizia l’art. 2-bis il quale prevede che “ferma
restando la competenza statale in materia di ordinamento
civile con riferimento al diritto di proprietà e alle
connesse norme del codice civile e alle disposizioni
integrative, le regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e
regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono
dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli
insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi,
nell'ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali”.
Le ricorrenti, infatti, come già evidenziato, rivendicano
l’applicazione della deroga di cui all’art. 879 c.c. e, più
specificamente, delle deroghe alla disciplina delle
distanze, non rinvenibili nel caso in esame, avendo il
Comune resistente inteso, piuttosto, applicare l’art. 46 NTA
del PRG, in senso conforme alle previsioni di cui all’art. 9
del D.M. 1444/1968
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 14.05.2015 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E’
ormai consolidata in giurisprudenza la configurabilità di
una responsabilità precontrattuale anche della pubblica
amministrazione, perché anche su di essa grava l’obbligo
sancito dall’art. 1337 Cod. civ. di comportarsi secondo
buona fede durante lo svolgimento delle trattative.
Pertanto, se durante la fase formativa del contratto la
pubblica amministrazione viola quel dovere di lealtà e di
correttezza, ponendo in essere comportamenti che non
salvaguardano l’affidamento della controparte (anche
colposamente, perché non occorre un particolare
comportamento di malafede, né la prova dell’intenzione di
arrecare pregiudizio all’altro contraente) in modo da
sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto,
essa risponde per responsabilità precontrattuale.
La responsabilità precontrattuale non discende infatti dalla
violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano
l’agire autoritativo della pubblica amministrazione e dalla
cui violazione discende l’illegittimità dell’atto. Essa, al
contrario, deriva dalla violazione delle regole comuni (in
particolare del principio generale di buona fede in senso
oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ..) che trattano del
"comportamento" precontrattuale, ponendo in capo alla
pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona
fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel
corso delle trattative precontrattuali.
Invero, nello svolgimento della sua attività di ricerca del
contraente l’Amministrazione è tenuta non soltanto a
rispettare le norme dettate nell’interesse pubblico (la cui
violazione implica l’annullamento del provvedimento ed una
eventuale responsabilità da attività provvedimentale
illegittima), ma anche le norme generali sulla correttezza
di cui all’art. 1337 Cod. civ. prescritte dal diritto comune
(la violazione delle quali fa nascere appunto la
responsabilità precontrattuale).
Da qui l’ordinaria possibilità che una responsabilità
precontrattuale sussista nonostante la legittimità del
provvedimento.
Del resto, come la giurisprudenza ha ulteriormente chiarito,
la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da
comportamento, non da provvedimento, che incide sul diritto
soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti
negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte
negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto
dell’altrui scorrettezza.
Nei casi di responsabilità precontrattuale propriamente
detti, infatti, ciò che il privato lamenta è la lesione
della sua corretta autodeterminazione negoziale.
Questa, del resto, è anche la ragione per la quale, in caso
di responsabilità precontrattuale da ingiustificato recesso
dalla trattative (nel cui ambito si inquadra la vicenda in
esame, in cui viene in rilievo la revoca degli atti di
gara), il danno è commisurato non al c.d. interesse positivo
(ovvero alle utilità economiche che il privato avrebbe
tratto dall’esecuzione del contratto), ma al c.d. interesse
negativo, da intendersi, appunto, come interesse a non
essere coinvolto in trattative inutili, a non investire
inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a
trattative destinate poi a rivelarsi del tutto inutili.
La giurisprudenza è, dunque, concorde nell’affermare che, ai
fini della configurabilità della responsabilità
precontrattuale della pubblica amministrazione, non si deve
tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione
pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma
della correttezza del comportamento complessivamente tenuto
dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e
della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle
parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art.
1337 c.c. (da ultimo, Consiglio di Stato n. 3831/2013;
Consiglio di Stato n. 633/2013, che estende la tutela anche
al caso di revoca legittima degli atti di una procedura di
aggiudicazione di un appalto di lavori per sopravvenuta
indisponibilità delle risorse finanziarie).
6.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento, alla stregua
delle considerazioni che seguono. Gioverà preliminarmente
una sintetica ricostruzione del quadro esegetico.
6.a.- E’ ormai consolidata in giurisprudenza la
configurabilità di una responsabilità precontrattuale anche
della pubblica amministrazione, perché anche su di essa
grava l’obbligo sancito dall’art. 1337 Cod. civ. di
comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle
trattative.
Pertanto, se durante la fase formativa del contratto la
pubblica amministrazione viola quel dovere di lealtà e di
correttezza, ponendo in essere comportamenti che non
salvaguardano l’affidamento della controparte (anche
colposamente, perché non occorre un particolare
comportamento di malafede, né la prova dell’intenzione di
arrecare pregiudizio all’altro contraente) in modo da
sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto,
essa risponde per responsabilità precontrattuale.
La responsabilità precontrattuale non discende infatti dalla
violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano
l’agire autoritativo della pubblica amministrazione e dalla
cui violazione discende l’illegittimità dell’atto. Essa, al
contrario, deriva dalla violazione delle regole comuni (in
particolare del principio generale di buona fede in senso
oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ..) che trattano del "comportamento"
precontrattuale, ponendo in capo alla pubblica
amministrazione doveri di correttezza e di buona fede
analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel
corso delle trattative precontrattuali.
Invero, nello svolgimento della sua attività di ricerca del
contraente l’Amministrazione è tenuta non soltanto a
rispettare le norme dettate nell’interesse pubblico (la cui
violazione implica l’annullamento del provvedimento ed una
eventuale responsabilità da attività provvedimentale
illegittima), ma anche le norme generali sulla correttezza
di cui all’art. 1337 Cod. civ. prescritte dal diritto comune
(la violazione delle quali fa nascere appunto la
responsabilità precontrattuale) (cfr. in questi termini
Cons. Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6).
Da qui l’ordinaria possibilità che una responsabilità
precontrattuale sussista nonostante la legittimità del
provvedimento.
Del resto, come la giurisprudenza ha ulteriormente chiarito
(cfr. Cass., SS.UU., 12.05.2008, n. 11656), la
responsabilità precontrattuale è una responsabilità da
comportamento, non da provvedimento, che incide sul diritto
soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti
negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte
negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto
dell’altrui scorrettezza.
Nei casi di responsabilità precontrattuale propriamente
detti, infatti, ciò che il privato lamenta è la lesione
della sua corretta autodeterminazione negoziale.
Questa, del resto, è anche la ragione per la quale, in caso
di responsabilità precontrattuale da ingiustificato recesso
dalla trattative (nel cui ambito si inquadra la vicenda in
esame, in cui viene in rilievo la revoca degli atti di
gara), il danno è commisurato non al c.d. interesse positivo
(ovvero alle utilità economiche che il privato avrebbe
tratto dall’esecuzione del contratto), ma al c.d. interesse
negativo, da intendersi, appunto, come interesse a non
essere coinvolto in trattative inutili, a non investire
inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a
trattative destinate poi a rivelarsi del tutto inutili.
La giurisprudenza è, dunque, concorde nell’affermare che, ai
fini della configurabilità della responsabilità
precontrattuale della pubblica amministrazione, non si deve
tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione
pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma
della correttezza del comportamento complessivamente tenuto
dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e
della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle
parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art.
1337 c.c. (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 15.07.2013
n. 3831; Consiglio di Stato, sez. VI, 01.02.2013 n. 633, che
estende la tutela anche al caso di revoca legittima degli
atti di una procedura di aggiudicazione di un appalto di
lavori per sopravvenuta indisponibilità delle risorse
finanziarie).
Alla luce del riferito quadro giurisprudenziale, appare
agevole lo scrutinio del ricorso in esame
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.05.2015 n. 981 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Condizionatori non condizionati. Sì all'uso di
parti comuni, ma no agli impianti rumorosi.
I principi contenuti in due sentenze della
Cassazione. Restano i limiti generali.
Per l'installazione dei condizionatori si possono anche
utilizzare le parti comuni dello stabile condominiale e il
fatto che l'impianto sia visibile dalla sede stradale non
implica di per sé lesione del decoro architettonico
dell'edificio. Occorre invece avere maggiore attenzione nel
valutare l'impatto acustico del manufatto, con particolare
riguardo al rumore avvertito dai condomini che abitano nelle
vicinanze del medesimo, essendo necessario tenere conto
delle effettive condizioni del luogo interessato e non
limitarsi alla semplice verifica del rispetto del limite dei
3 decibel fissato dalla normativa sull'inquinamento
acustico. Con l'arrivo dell'estate si ripropongono quindi le
tradizionali diatribe tra condomini relativamente al
posizionamento degli impianti di condizionamento dell'aria
sulle parti comuni.
Con due recenti pronunce (sentenza
04.05.2015 n. 8857 e
sentenza 12.05.2015 n. 9660) la II Sez. civile
della Corte di Cassazione è intervenuta a chiarire alcuni
aspetti che contribuiscono a definire il quadro di un equo
contemperamento degli opposti interessi dei condomini.
In primo luogo i giudici di legittimità hanno nuovamente
evidenziato come sia del tutto legittimo per il condomino
che intenda raffrescare l'aria del proprio appartamento
utilizzare le parti comuni dell'edificio. Questo
comportamento, infatti, costituisce niente altro che
attuazione del diritto che ogni condomino ha di utilizzare
le parti comuni, anche per trarne un maggiore godimento
rispetto agli altri (art. 1102 c.c.).
In particolare la Suprema corte ha puntualizzato come la
tutela dell'uso paritetico del bene comune debba essere
applicata nell'ottica dell'utilizzo concreto che del
medesimo ragionevolmente faranno gli altri condomini e non
anche dell'identica e contemporanea utilizzazione che in via
meramente ipotetica e astratta gli stessi ne potrebbero
fare.
Dal punto di vista del decoro architettonico, invece, è
stato osservato come lo stesso possa dirsi leso soltanto
laddove la realizzazione di un'opera che muti anche un
singolo aspetto o elemento del fabbricato sia tale da
riflettersi negativamente sull'insieme dell'aspetto dello
stabile. Detto vulnus all'uniformità architettonica deve poi
a maggior ragione escludersi nel caso in cui risultino
ulteriori e precedenti interventi sull'edificio che abbiano
portato all'inserimento di nuovi elementi (antenne, altri
condizionatori ecc.).
Interessanti, poi, le considerazioni dei giudici di
legittimità in merito alla valutazione delle immissioni
rumorose derivanti da questo genere di impianti. La Suprema
corte, infatti, nel cassare sul punto una delle sentenze
impugnate, ha chiarito come non si possa affermare in via
generale che il rispetto del limite dei 3 decibel fissato
dalla normativa sull'inquinamento acustico valga di per sé a
rendere lecita l'immissione, poiché detto limite riguarda
più propriamente la tutela della quiete pubblica.
Laddove, al contrario, il giudice civile sia chiamato a
verificare il disturbo arrecato al singolo proprietario
confinante con il manufatto dal quale si genera il rumore,
diventa necessario verificare in concreto lo stato dei
luoghi, al fin di valutare la tollerabilità o meno
dell'immissione.
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Il regolamento condominiale può vietare
espressamente l'installazione.
L'installazione di un condizionatore all'interno di un
appartamento rappresenta, dal punto di vista tecnico,
un'operazione semplice. Si consideri, infatti, che gli
attuali impianti sono generalmente costituiti da due corpi:
uno da posizionare all'interno della proprietà e l'altro (il
motore) all'esterno.
La collocazione di quest'ultimo elemento non presenta
particolari problemi se il condomino dispone di un ampio
terrazzo e/o giardino o, in alternativa, di un balcone
sufficientemente ampio da poterlo contenere. Quando, al
contrario, sorge la necessità di installare il motore
all'esterno, per esempio sulla facciata del caseggiato, la
questione diventa più complessa, perché vengono coinvolti
gli interessi, spesso contrastanti, degli altri condomini.
- Installazione di condizionatori nelle
parti comuni: la comunicazione all'amministratore.
In via generale, ogni condomino può eseguire, nella porzione
di sua proprietà esclusiva, tutte le opere che ritiene
opportune, purché non siano anche solo potenzialmente capaci
di arrecare un danno alle parti comuni dell'edificio.
L'installazione del corpo motore in facciata in genere non
crea particolari problemi di statica e sicurezza per
l'edificio, ma può determinarne la lesione del c.d. decoro
architettonico. Tale situazione ricorre per esempio se viene
installato il compressore di un condizionatore d'aria sulla
facciata condominiale in posizione sporgente e
perpendicolare sopra uno degli ingressi condominiali e senza
alcun consenso dell'assemblea (soprattutto se il fabbricato
ha struttura e linee architettoniche residenziali ed è
inserito in un ambito paesaggistico protetto).
Per evitare possibili conflitti sarebbe quindi consigliabile
che il condomino che intende installare tali apparecchi,
prima di dare l'avvio ai lavori, si facesse carico di
avvisare preventivamente l'amministratore. Quest'ultimo, a
sua volta, dovrebbe sottoporre la questione all'assemblea e
spiegare ai condomini che non si può impedire
l'installazione dell'impianto ove non sia alterata la
destinazione della facciata o di altra parte comune e non
sia impedito agli altri partecipanti di fare ugualmente uso
degli spazi condominiali.
L'assemblea, però, potrà legittimamente rifiutare il placet
preventivo al condomino che, per esempio, voglia occupare
una rilevante porzione del muro perimetrale con un motore di
dimensioni mastodontiche, impedendo così agli altri
condomini ogni possibilità di utilizzare ugualmente la
facciata (per installare un altro condizionatore, una targa,
una tubazione ecc.).
- I limiti del regolamento di condominio.
Ove una norma del regolamento condominiale vieti
espressamente l'installazione di condizionatori in facciata,
il singolo condomino non può che attenersi a tale
disposizione che, però, è valida solo se contenuta in un
regolamento predisposto dal costruttore del caseggiato (c.d.
contrattuale) e sia stata accettata dai singoli acquirenti
degli appartamenti nei relativi atti di acquisto oppure sia
stata deliberata dalla totalità dei condomini in sede di
approvazione del c.d. regolamento assembleare. Questo
significa che il singolo condomino non può installare un
condizionatore in facciata nemmeno se è stato autorizzato
dall'assemblea con una delibera approvata a maggioranza.
- Il problema del rumore.
Per l'installazione dei condizionatori non è richiesto il
rispetto delle norme di legge in tema di distanze: il
manufatto può occupare parte del muro perimetrale della
proprietà del vicino (o essere sistemato in adiacenza della
proprietà del condomino limitrofo).
Tuttavia l'impianto non può comportare immissioni
intollerabili in direzione della proprietà degli altri
condomini vicini, dovendosi cioè evitare la fuoriuscita
rilevante di vapore e acqua calda o la produzione di rumori
insopportabili.
Per quanto riguarda il rumore, la giurisprudenza ritiene
violato il limite della normale tollerabilità delle
immissioni acustiche allorché sul luogo che subisce le
immissioni si riscontri un incremento dell'intensità del
livello medio del rumore di fondo di oltre 3 decibel.
- Condizionatore e sanzioni penali.
Chi abita in un condominio deve comunque controllare che il
proprio condizionatore non sia troppo rumoroso, perché in
caso di superamento dei limiti imposti dalla legge si
rischia non solo un'azione giudiziaria civile per danni, ma
anche di essere coinvolti in un processo penale che si può
concludere con una condanna per disturbo al riposo delle
persone (art. 659 codice penale).
In particolare, secondo i giudici, ricorre tale situazione
quando è dimostrato che i condizionatori determinano un
rumore tale da poter disturbare il riposo e le occupazioni
di un numero indeterminato di persone, anche se una sola di
esse si sia in concreto lamentata.
- Le limitazioni contenute nei regolamenti
edilizi comunali.
Prima di installare un impianto sul muro condominiale è
anche importante verificare che non ci siano limitazioni nei
regolamenti comunali: questi ultimi, infatti, possono
prevedere che detti impianti siano collocati sulla copertura
degli edifici oppure lungo facciate interne o secondarie
oppure che, se installati su facciate poste nei pressi di
strade principali, gli stessi siano dipinti in un colore
uguale a quello della facciata
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015). |
LAVORI PUBBLICI:
La pubblica amministrazione deve tenere un
comportamento corretto in tutte le fasi della procedura
pubblica che portano al consenso contrattuale e informare il
contraente privato di tutte le circostanze che potrebbero
determinare l’invalidità o l’inefficacia del contratto. Se
ciò non avviene sussiste responsabilità precontrattuale in
capo all’ente pubblico.
Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto sussistente la
responsabilità della stazione appaltante che in seguito a
licitazione privata, aveva stipulato un importante contratto
di appalto con una società di costruzioni chiedendo la
consegna immediata dei lavori per ragioni di urgenza, salvo
poi sospenderli dopo 17 mesi perché la Corte dei conti aveva
negato la registrazione, rendendo il contratto inefficace.
Il motivo e’ fondato.
2.1.- E’ necessario considerare che la responsabilità
precontrattuale della Pubblica Amministrazione,
contrariamente a quanto trapela dalla sentenza impugnata,
non è responsabilità da provvedimento, ma da comportamento,
e presuppone la violazione dei doveri di correttezza e buona
fede nella fase delle trattative e della formazione del
contratto (v. Cons. di Stato, sez. 4, n. 790/2014, in caso
di revoca legittima degli atti della procedura di gara),
sicché non rileva la legittimità dell’esercizio della
funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento
amministrativo di aggiudicazione o in altri provvedimenti
successivi, ma la correttezza del comportamento
complessivamente tenuto dall’Amministrazione durante il
corso delle trattative e della formazione del contratto. La
ragione dell’evoluzione della giurisprudenza in tal senso,
con una piena equiparazione dell’Amministrazione ad ogni
contraente privato, si spiega considerando che tutte le fasi
della procedura ad evidenza pubblica si pongono quale
strumento di formazione progressiva del consenso
contrattuale.
Ad analoga conclusione è pervenuta questa Corte che ha
ammesso la responsabilità precontrattuale
dell’Amministrazione, prima e a prescindere
dall’aggiudicazione, anche nell’ambito del procedimento
strumentale alla scelta del contraente, nel quale essa
instaura trattative (multiple o parallele) idonee a
determinare la costituzione di rapporti giuridici specifici
e differenziati nel momento in cui entra in contatto con una
pluralità di offerenti ed è, quindi, tenuta al rispetto dei
principi generali di comportamento (di cui agli articoli
1337 e 1338 c.c.) posti a tutela degli interessi delle parti
(v. Cass. n. 15260/2014, che ha superato il precedente
orientamento espresso, ad esempio, da Cass. n. 477/2013, n.
12313/2005, sez. un. n. 4673/1997; anche secondo Cons. di
Stato, sez. IV, n. 1142/2015, “il rispetto dei principi
di cui agli articoli 1337 e 1338 c.c., non può essere
circoscritto al singolo periodo successivo alla
determinazione del contraente”).
La Corte d’appello, alla quale era stato chiesto di valutare
la correttezza complessiva del comportamento
dell’Amministrazione committente, avuto riguardo al rispetto
dei principi di buona fede e correttezza (articoli 1337 e
1338 c.c.), si è limitata a rilevare la legittimità formale
degli atti della procedura di licitazione privata, ma tale
risposta è evidentemente inadeguata perché contrastante con
il seguente principio di diritto: la responsabilità
precontrattuale della Pubblica Amministrazione, anche
nell’ambito della procedura pubblicistica di scelta del
contraente, non è responsabilità da provvedimento, ma da
comportamento e presuppone la violazione dei doveri di
correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della
formazione del contratto; pertanto, non rileva la
legittimità dell’esercizio della funzione pubblica espressa
nel provvedimento amministrativo di aggiudicazione e in
altri provvedimenti successivi (anche emessi in autotutela),
ma la correttezza del comportamento complessivamente tenuto
dall’Amministrazione durante il corso delle trattative e
della formazione del contratto, poiché tutte le fasi della
procedura ad evidenza pubblica si pongono quale strumento di
formazione progressiva del consenso contrattuale.
2.2.- Una simile evoluzione del formante giurisprudenziale
rafforza la conclusione cui da tempo è pervenuta questa
Corte che ha ritenuto configurabile la responsabilità
precontrattuale della P.A. in presenza di una relazione
specifica tra soggetti che è possibile, anche nell’ambito
della procedura amministrativa di scelta del contraente, a
seguito dell’aggiudicazione, ad esempio nel caso di omessa
redazione del contratto formale senza giustificazione e, a
maggior ragione, quando –come nella specie– sia stato
stipulato il contratto, nel caso di omessa trasmissione
dello stesso all’autorità di controllo (v. Cass. n.
2255/1987) e quando l’Amministrazione abbia preteso
l’adempimento della prestazione prima dell’approvazione del
contratto da parte dell’autorità di controllo, comportamento
questo che è suscettibile di dar luogo, ove l’approvazione
non sia intervenuta, a responsabilità precontrattuale, in
considerazione dell’affidamento ragionevolmente ingenerato
nell’altra parte (v. Cass. n. 23393/2008, n. 3383/1981, n.
3008/1968; quest’ultima sentenza, pur avendo affermato che
l’Amministrazione non è tenuta a rispondere dell’attività
direttamente svolta dall’organo di controllo, l’ha ritenuta
responsabile per non avere comunicato tempestivamente la
mancata approvazione di una sua delibera e per avere
sollecitato la prestazione del privato).
La sentenza impugnata ha omesso di indagare sulle ragioni
che avevano indotto la Corte dei conti a formulare
osservazioni sulle scelte tecniche di realizzazione
dell’opera e, soprattutto, ha omesso di dare il necessario
rilievo alla consegna anticipata dei lavori in via d’urgenza
e, quindi, all’impegno organizzativo e di spesa posto a
carico dell’impresa per l’esecuzione di un contratto
rivelatosi poi ineseguibile per la mancata registrazione del
decreto di approvazione del contratto.
In tal modo ha trascurato che la Pubblica Amministrazione,
in pendenza del procedimento di controllo ed approvazione
del contratto stipulato con il privato e in osservanza
dell’obbligo generale di comportamento secondo correttezza e
buona fede, deve tenere informato l’altro contraente delle
vicende attinenti al procedimento di controllo, in modo che
questi sia posto in grado di evitare i pregiudizi connessi
agli sviluppi e ai tempi dell’indicato procedimento, a
prescindere dagli strumenti di tutela spettanti al privato a
seguito dell’eventuale esito negativo del controllo (recesso
e rimborso delle spese sostenute) (v. Cass., sez. un., n.
5328/1978).
Del resto, un riconoscimento del legittimo affidamento
dell’appaltatore (per avere dovuto iniziare l’esecuzione del
contratto prima della sua approvazione) era già espresso
nell’articolo 337, secondo comma, della legge 20.03.1865 n.
2248, all. F, che gli riconosceva il diritto alla
reintegrazione nelle spese per i lavori eseguiti qualora
l’approvazione non fosse poi intervenuta.
Il principio di diritto, cui la Corte d’appello dovrà
attenersi in sede di rinvio, è il seguente: nel caso in cui,
all’esito della procedura di evidenza pubblica, sia
stipulato il contratto la cui efficacia sia condizionata
all’approvazione da parte dell’autorità di controllo (nella
specie, alla registrazione del decreto di approvazione da
parte della Corte dei conti), l’Amministrazione committente
ha l’obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza
(articoli 1337 e 1338 c.c.), cioè di tenere informato
l’altro contraente delle vicende attinenti al procedimento
di controllo e di fare in modo che non subisca i pregiudizi
connessi agli sviluppi e all’esito del medesimo
procedimento, essendo in condizioni di farlo, in ragione del
suo status professionale nel quale è implicita una posizione
di garanzia nei confronti di coloro che si rapportano ad
essa; l’Amministrazione è quindi responsabile qualora,
avendo preteso l’anticipata esecuzione della prestazione,
abbia accettato il rischio del successivo mancato
avveramento della condizione di efficacia del contratto a
causa della mancata registrazione del decreto di
approvazione, in tal modo frustrando il legittimo e
ragionevole affidamento del privato nella eseguibilità del
contratto.
2.3.- Nel ragionamento della Corte romana si sente l’eco del
tradizionale principio che esclude la configurabilità di una
responsabilità dell’Amministrazione, a norma dell’articolo
1338 c.c., per non avere informato l’altra parte di una
causa di invalidità o inefficacia del contratto di cui debba
presumersi la conoscenza e conoscibilità con l’uso della
normale diligenza, a causa della mancanza del visto
ministeriale necessario ex lege per quella
registrazione, ovvero della stessa natura legale della
condicio juris di cui si tratta (la registrazione del
decreto di approvazione del contratto da parte della Corte
dei conti). Questo principio merita una rimeditazione.
Si e’ dato conto (nel precedente p. 2.1.) dell’esito finale
di un lungo percorso che, a partire dagli anni sessanta
dello scorso secolo (v., tra le prime pronunce, Cass. n.
1142/1963), ha condotto la giurisprudenza di legittimità a
riconoscere che le deroghe alla disciplina privatistica
stabilite dalla legge di contabilità di Stato non
giustificavano l’esenzione da responsabilità della Pubblica
Amministrazione, la quale (prima di essere configurabile, in
casi sempre meno numerosi, come pubblico potere) è un
soggetto di diritto comune e, in quanto tale, anch’essa
soggetta agli obblighi generali di comportamento di buona
fede e correttezza.
Il lento incedere della responsabilità dell’Amministrazione
in ambito precontrattuale, tuttavia, secondo una parte della
dottrina, non può dirsi completato, come dimostrato dalla
rigida interpretazione dell’articolo 1338 c.c., che impone
alla parte che “conoscendo o dovendo conoscere
l’esistenza di una causa d’invalidità del contratto, non ne
ha dato notizia all’altra parte” di “risarcire il danno
da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa,
nella validità del contratto”.
In effetti, la giurisprudenza di questa Corte ha escluso la
responsabilità della P.A., per omessa informazione, in
presenza di invalidità derivanti dall’affidamento di un
contratto a trattativa privata anziché con il metodo della
licitazione privata (v. Cass. n. 11135/2009), dalla mancanza
dei requisiti per partecipare alla gara conclusasi con
l’aggiudicazione annullata in sede giurisdizionale (v. Cass.
n. 7481/2007), dal difetto di forma scritta del contratto
(v., tra le altre, Cass. n. 4635/2006),
dall’incommerciabilità della res (v. Cass. n.
1987/1985), dal fatto che il prezzo di cessione in proprietà
di alloggio economico e popolare sia inferiore a quello
determinabile per legge (v. Cass., sez. un., n. 835/1982),
ecc..
E’ costante l’affermazione secondo cui la responsabilità
prevista dall’articolo 1338 c.c., a differenza di quella di
cui all’articolo 1337, tutela l’affidamento di una delle
parti non nella conclusione del contratto, ma nella sua
validità, sicché non è configurabile una responsabilità
precontrattuale della P.A. ove l’invalidità del contratto
derivi da norme generali, da presumersi note alla generalità
dei consociati e, quindi, tali da escludere l’affidamento
incolpevole della parte adempiente (v. Cass. n. 7481/2007,
n. 4635/2006).
Tale principio e’ estensibile alle cause di inefficacia del
contratto (v. Cass. n. 16149/2010), tra le quali rientra la
mancata approvazione del contratto stipulato da una P.A.,
nei cui confronti è configurabile la responsabilità “in
applicazione analogica dei principi fissati dall’articolo
1338 c.c.” (v. Cass., sez. un., n. 5328/1978).
Nell’interpretazione della norma in esame è necessario
verificare cosa si intenda per “norme generali, da
presumersi note alla generalità dei consociati”, posto
che qualunque norma di legge, imperativa o proibitiva che
sia o “avente efficacia di diritto obiettivo” (Cass.
n. 4635/2006), dovrebbe o potrebbe essere conosciuta da
chiunque per presunzione assoluta, nel qual caso l’articolo
1338 c.c. sarebbe facilmente fuori gioco.
Si è osservato in dottrina che il riferimento al principio
ignorantia legis non excusat (la cui assolutezza,
peraltro, è venuta meno in seguito a Corte costit. n.
364/1988) sarebbe improprio in questa materia, dal momento
che il contraente non evidenzia la propria ignoranza al fine
di evitare la produzione degli effetti ricollegati
dall’ordinamento alla mancata osservanza della norma di
legge (visto che non è in discussione la invalidità o
inefficacia del contratto), ma agisce soltanto per il
risarcimento del danno conseguente alla violazione
dell’obbligo di informazione che è posto dalla legge a
carico dell’altra parte. E si è anche rilevato, seppure con
riferimento ad ipotesi previste dalla legge a fini diversi,
che l’ordinamento attribuisce rilievo all’errore di diritto
che abbia inficiato la volontà del contraente quando sia
stato essenziale (articolo 1429 c.c., n. 3) e riconoscibile
e lo tutela con l’annullamento del contratto nel suo
interesse.
A queste serie obiezioni si è replicato osservando che è lo
stesso articolo 1338 c.c. a riconoscere il risarcimento del
danno in favore della parte che abbia confidato “senza
sua colpa” nella validità del contratto. La parte che è
in colpa perché a conoscenza della invalidità o inefficacia
del contratto, non può addossare alla controparte il danno
(quantomeno per l’intero) che è conseguenza del proprio
comportamento, alla luce di un principio generale desumibile
anche dall’articolo 1227 c.c., comma 1.
E’ invero evidente che, estendendo eccessivamente il dovere
di diligenza a carico della parte che dovrebbe ricevere
l’informazione circa la causa di invalidità o inefficacia
del contratto, sarebbero compromessi lo scopo e l’utilità
dell’articolo 1338 c.c. che non è norma meramente ripetitiva
dell’articolo 2043, né dell’articolo 1337 c.c., il quale,
obbligando le parti a comportarsi secondo buona fede, già
impone loro implicitamente di rendersi reciprocamente le
informazioni necessarie per pervenire alla conclusione di un
contratto che sia eseguibile.
L’articolo 1338 c.c., pone, invece, significativamente a
carico di una sola delle parti, cioè di quella che, in
ragione delle circostanze di fatto e tenuto conto della sua
posizione sociale o professionale, conosca o debba conoscere
l’esistenza di una causa di invalidità o inefficacia,
l’obbligo specifico di informare l’altra parte, la quale ha
diritto a ricevere l’informazione e, in mancanza, al
risarcimento del danno per avere ragionevolmente confidato
nella validità ed efficacia del contratto.
La parte obbligata ha la facoltà di dimostrare che l’altra
parte aveva confidato nella validità del contratto
colpevolmente e non “senza sua colpa” (come richiesto
dall’articolo 1338), ma dovrà dedurre fatti e circostanze
specifiche che dimostrino che, in quel determinato rapporto,
fosse effettivamente a conoscenza della causa che viziava il
contratto concluso o da concludere.
Non si esclude la possibilità di desumere tale conoscenza
dal tipo di invalidità o inefficacia e, in definitiva, dalla
natura della norma violata, ma non e’ possibile riconoscerla
automaticamente rispetto a qualunque norma “avente
efficacia di diritto obiettivo” (Cass. n. 4635/2006)
che, in tesi, sarebbe conoscibile dalla generalità dei
cittadini e, quindi, da qualunque potenziale contraente, al
fine di escludere la responsabilità dell’altra parte che
aveva l’obbligo legale di informare.
Altrimenti, l’articolo 1338 c.c. verrebbe privato della sua
principale funzione che è di compensare l’asimmetria
informativa nelle contrattazioni tra parti che non sono su
un piano di parità, come avviene nei rapporti con la
Pubblica Amministrazione.
E ciò non soltanto in ragione del fatto che la procedura di
evidenza pubblica è da essa governata sulla base
dell’esercizio di poteri previsti da norme di azione
tradotte nella lex specialis della gara, ma anche in
ragione dello status professionale e del bagaglio di
conoscenze tecniche ed amministrative di cui essa è in
possesso (è significativo che la giurisprudenza
amministrativa abbia talora valutato la colpa della P.A. con
riferimento al criterio di imputazione soggettiva della
responsabilità del professionista di cui all’articolo 2236
c.c., introducendo un parametro di imputazione del danno
riferito al grado di complessità delle questioni implicate
dall’esecuzione della prestazione, v. Cons. di Stato, sez. 5
, n. 1300/2007; sez. 4 , n. 5500/2004).
Pertanto, il principio ignorantia legis non excusat,
in materia contrattuale, non ha un valore generale e
assoluto dal quale si possa desumere in modo incondizionato
e aprioristico l’inescusabilità dell’ignoranza
dell’invalidità contrattuale che trovi fondamento (come di
regola) in norme di legge, dovendosi piuttosto indagare caso
per caso sulla diligenza e, quindi, sulla scusabilità
dell’affidamento del contraente, avendo riguardo non solo (e
non tanto) alla conoscibilità astratta della norma, ma anche
all’esistenza di interpretazioni univoche della stessa e,
soprattutto, alla conoscibilità delle circostanze di fatto
cui la legge ricollega l’invalidità.
Infatti, come notato da autorevole dottrina, il contraente
che ignori una norma di legge o intenda sottrarsi alla sua
osservanza si trova in una situazione ben diversa dal
contraente che, eventualmente in presenza di interpretazioni
non univoche della giurisprudenza, credeva che la
fattispecie concreta fosse tale da non rientrare nella
previsione legale d’invalidità a lui nota.
In tale secondo caso, l’astratta conoscibilità della norma
non dimostra necessariamente che il privato sia in colpa,
specialmente quando questi contragga con un’Amministrazione
che non solo rimanga silente, ma improvvidamente conduca il
procedimento sino alla stipulazione di un contratto
destinato ad essere caducato o a rimanere inefficace e
talora ne pretenda l’anticipata esecuzione, in tal modo
frustrando il suo legittimo affidamento nell’eseguibilità
dello stesso e nella legalità dell’azione amministrativa.
In altri termini, l’astratta conoscenza della norma non è
elemento decisivo per la percezione –che rileva ai fini
applicativi dell’articolo 1338 c.c.– della invalidità o
inefficacia del contratto, per la quale spesso si richiede
la necessaria cooperazione dell’altro contraente, il quale è
tenuto a comunicare le circostanze di fatto cui la legge
ricollega la invalidità o inefficacia, quando ne sia (o ne
debba essere) informato in ragione delle sue qualità
professionali o istituzionali e, in mancanza, non può
sfuggire alla responsabilità per culpa in contraendo.
L’obbligo del clare loqui, e cioè di comunicare alle
parti tutte le cause di invalidità negoziale di cui abbia o
debba avere conoscenza, e’ imposto all’Amministrazione
–anche in ragione della sua funzione istituzionale di
rappresentanza e, quindi, di protezione degli interessi di
coloro che entrano in rapporti con essa– non solo
nell’ambito del procedimento di formazione del contratto
secondo il modulo privatistico della trattativa privata, ma
anche nel procedimento di evidenza pubblica, a tutela
dell’affidamento delle imprese concorrenti nel rispetto
delle prescrizioni della lex specialis.
Proprio in tale ottica, nel caso di annullamento
dell’aggiudicazione con caducazione del contratto (fenomeno
assimilabile alla mancata registrazione da parte della Corte
dei conti), la giurisprudenza amministrativa ha ammesso la
tutela dell’imprenditore che, a norma dell’articolo 1338
c.c., abbia fatto legittimo affidamento nell’aggiudicazione
dell’appalto e nella successiva stipulazione del contratto e
che abbia ignorato, senza sua colpa, una causa di
invalidità, con conseguente responsabilità
dell’Amministrazione appaltante per non essersi astenuta
dalla stipulazione del negozio che doveva sapere essere
invalido, rientrando nei suoi poteri conoscere le cause
dell’illegittimità dell’aggiudicazione e, tuttavia,
ingenerando nell’impresa l’incolpevole affidamento di
considerare valido ed efficace il contratto (v. Cons. di
Stato, sez. 3 , n. 279/2013).
In conclusione, può essere enunciato il seguente principio
di diritto: accertare se un contraente
abbia confidato colpevolmente o incolpevolmente nella
validità ed efficacia del contratto (concluso o da
concludere) con la Pubblica Amministrazione –al fine di
escludere o affermare la responsabilità di quest’ultima, a
norma dell’articolo 1338 c.c.,– è un’attività propria del
giudice di merito, il quale deve verificare in concreto se
la norma (di relazione) violata sia conosciuta o facilmente
conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto (e
sia quindi causa di invalidità “autoevidente”),
tenuto conto della univocità dell’interpretazione della
norma e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze
di fatto cui la legge ricollega l’invalidità; in presenza di
norme (di azione) che l’Amministrazione è tenuta
istituzionalmente a conoscere ed applicare in modo
professionale (come, ad esempio, quelle che disciplinano il
procedimento di scelta del contraente), essa ha l’obbligo di
informare il privato delle circostanze che potrebbero
determinare la invalidità o inefficacia e, comunque,
incidere negativamente sulla eseguibilità del contratto,
pena la propria responsabilità per culpa in contraendo,
salva la possibilità di dimostrare in concreto che
l’affidamento del contraente sia irragionevole, in presenza
di fatti e circostanze specifiche
(massima
tratta da http://renatodisa.com -
Corte di Cassazione,
Sez. I civile, nella
sentenza 12.05.2015 n. 9636). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 338 del t.u delle leggi sanitarie del 1934,
i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno
200 metri dal centro abitato. E' vietato costruire intorno
ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal
perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli
strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di
essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge. In base al secondo comma le
disposizioni di cui al comma precedente non si applicano ai
cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10 anni
dal seppellimento dell'ultima salma.
L’art. 338 del T.U. del 1934, secondo la giurisprudenza
costituisce una norma che si impone alla pianificazione
comunale anche modificandola ex lege se non abbia recepito
le disposizioni legislative. Il vincolo cimiteriale,
espresso dall'art. 338 del r.d. 27.07.1934, n. 1265 ha
natura assoluta e si impone, in quanto limite legale, anche
alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli
strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di
tutela di preminenti esigenze igienicosanitarie,
salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura,
conservazione di adeguata area di espansione della cinta
cimiteriale.
Anche la previsione del secondo comma dell’art. 338,
relativa ai cimiteri di guerra, ha la medesima natura,
pertanto, si deve ritenere che anche tale vincolo si imponga
all’Amministrazione comunale ex lege, indipendentemente
dalle previsioni contrarie del piano; peraltro tale vincolo
ex lege cessa, in base alla espressa previsione normativa,
dopo dieci anni dall’ultima sepoltura.
Ritiene il Collegio, conformemente a quanto di recente
affermato dal Tar Veneto, rispetto al vincolo cimiteriale
relativo al Comune di Costermano, che qualora
l’amministrazione comunale abbia recepito nelle proprie
norme di piano il vincolo cimiteriale questo derivi anche da
tali disposizioni comunali. “Il vincolo, in tal caso, trova
la propria autonoma fonte normativa, infatti, nelle
previsioni dello strumento urbanistico comunale relative
alle aree interessate dall’intervento edilizio. La
limitazione temporale relativa alle aree limitrofe ai
cimiteri militari di guerra del vincolo cimiteriale,
prevista dall’art. 338 R.D. n. 1265/1934, non priva,
infatti, i Comuni del potere di individuare delle fasce di
rispetto anche a tutela della sacralità dei cimiteri
militari di guerra”.
Nel caso di specie, il vincolo è contenuto, nelle norme di
piano regolatore del Comune di Pomezia, sia in forza del
richiamo operato dalle norme tecniche di attuazione al T.U.
del 1934 sia nelle tavole di piano. Ne deriva che tale
vincolo può cessare solo a seguito di una variante del piano
regolatore, rispetto alla quale l’amministrazione comunale
non sarebbe vincolata al rispetto del vincolo cimiteriale ai
sensi del secondo comma dell’art. 338, ma, nell’esercizio
della propria discrezionalità, potrebbe anche destinare
l’area ad usi comunque compatibili con la presenza del
cimitero di guerra, rilevante non più sotto il profilo
igienico sanitario, ma di rispetto della sacralità del luogo
o del monumento storico.
---------------
Non rilevano nel caso di specie le diposizioni dei commi
successivi dell’art. 338, citate dalla difesa ricorrente.
Infatti, le ipotesi disciplinate da tali disposizioni, nel
testo modificato dalla legge n. 166 del 2002, riguardano i
casi in cui il Consiglio comunale può ridurre la fascia di
rispetto cimiteriale. In particolare, in base a tali
disposizioni, il consiglio comunale può approvare, previo
parere favorevole della competente azienda sanitaria locale,
la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli
già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal
centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri,
quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti
condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che,
per particolari condizioni locali, non sia possibile
provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da
strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base
della classificazione prevista ai sensi della legislazione
vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Inoltre, per dare esecuzione ad un'opera pubblica o
all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi
ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può
consentire, previo parere favorevole della competente
azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di
rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio
dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici
preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione
di cui al periodo precedente si applica con identica
procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e
annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature
sportive, locali tecnici e serre.
Secondo la costante giurisprudenza, tale eccezionale potere
comunale può essere adoperato in maniera legittima solo per
ragioni di interesse pubblico, “non anche per agevolare
singoli proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o
intendano effettuare, interventi edilizi su un'area, resa a
tal fine indisponibile per ragioni di ordine
igienico-sanitario, nonché per la peculiare sacralità dei
luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di
ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale. L'unico procedimento,
attivabile dai singoli proprietari all'interno della fascia
di rispetto, pertanto, è quello finalizzato agli interventi
di cui all'art. 338, comma 7, dello stesso r.d. n. 1265/1934
(recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni
preesistenti), restando attivabile solo d'ufficio -per i
motivi anzidetti- la procedura di riduzione della fascia
inedificabile in questione”.
Con il presente ricorso è stato impugnato il provvedimento
del dirigente del settore lavori pubblici ed urbanistica del
Comune di Pomezia del 27.10.2014, con il quale è stato
negato il permesso di costruire per la realizzazione di un
distributore di carburanti con locali commerciali annessi,
richiesto dalla società ricorrente il 13.05.2013, in
relazione alla esistenza, in base al piano regolatore
generale, nell’area interessata della fascia di rispetto
cimiteriale relativa al cimitero militare germanico.
...
Ritiene il Collegio di poter prescindere dall’accertamento
della effettiva data di ultima sepoltura nel cimitero
tedesco, in relazione alla natura del vincolo cimiteriale
sull’area interessata.
Ai sensi dell’art. 338 del t.u delle leggi sanitarie del
1934, i cimiteri devono essere collocati alla distanza di
almeno 200 metri dal centro abitato. E' vietato costruire
intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200
metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale
risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o,
in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve
le deroghe ed eccezioni previste dalla legge. In base al
secondo comma le disposizioni di cui al comma precedente non
si applicano ai cimiteri militari di guerra quando siano
trascorsi 10 anni dal seppellimento dell'ultima salma.
L’art. 338 del T.U. del 1934, secondo la giurisprudenza
costituisce una norma che si impone alla pianificazione
comunale anche modificandola ex lege se non abbia
recepito le disposizioni legislative. Il vincolo
cimiteriale, espresso dall'art. 338 del r.d. 27.07.1934, n.
1265 ha natura assoluta e si impone, in quanto limite
legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti
previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle
sue finalità di tutela di preminenti esigenze
igienicosanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi
di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione
della cinta cimiteriale (Consiglio di Stato n. 2405 del
2014; Consiglio di Stato n. 5571 del 2013; Consiglio di
Stato n. 4403 del 2011).
Anche la previsione del secondo comma dell’art. 338,
relativa ai cimiteri di guerra, ha la medesima natura,
pertanto, si deve ritenere che anche tale vincolo si imponga
all’Amministrazione comunale ex lege,
indipendentemente dalle previsioni contrarie del piano;
peraltro tale vincolo ex lege cessa, in base alla
espressa previsione normativa, dopo dieci anni dall’ultima
sepoltura.
Ritiene il Collegio, conformemente a quanto di recente
affermato dal Tar Veneto, rispetto al vincolo cimiteriale
relativo al Comune di Costermano, che qualora
l’amministrazione comunale abbia recepito nelle proprie
norme di piano il vincolo cimiteriale questo derivi anche da
tali disposizioni comunali. “Il vincolo, in tal caso,
trova la propria autonoma fonte normativa, infatti, nelle
previsioni dello strumento urbanistico comunale relative
alle aree interessate dall’intervento edilizio. La
limitazione temporale relativa alle aree limitrofe ai
cimiteri militari di guerra del vincolo cimiteriale,
prevista dall’art. 338 R.D. n. 1265/1934, non priva,
infatti, i Comuni del potere di individuare delle fasce di
rispetto anche a tutela della sacralità dei cimiteri
militari di guerra” (Tar Veneto n. 87 del 2015).
Nel caso di specie, il vincolo è contenuto, nelle norme di
piano regolatore del Comune di Pomezia, sia in forza del
richiamo operato dalle norme tecniche di attuazione al T.U.
del 1934 sia nelle tavole di piano. Ne deriva che tale
vincolo può cessare solo a seguito di una variante del piano
regolatore, rispetto alla quale l’amministrazione comunale
non sarebbe vincolata al rispetto del vincolo cimiteriale ai
sensi del secondo comma dell’art. 338, ma, nell’esercizio
della propria discrezionalità, potrebbe anche destinare
l’area ad usi comunque compatibili con la presenza del
cimitero di guerra, rilevante non più sotto il profilo
igienico sanitario, ma di rispetto della sacralità del luogo
o del monumento storico.
Il provvedimento comunale, basato, quindi, sull’esistenza
della fascia di rispetto cimiteriale nella pianificazione
comunale deve dunque ritenersi legittimo.
Non rilevano, invece, nel caso di specie, le diposizioni dei
commi successivi dell’art. 338, citate dalla difesa
ricorrente. Infatti, le ipotesi disciplinate da tali
disposizioni, nel testo modificato dalla legge n. 166 del
2002, riguardano i casi in cui il Consiglio comunale può
ridurre la fascia di rispetto cimiteriale. In particolare,
in base a tali disposizioni, il consiglio comunale può
approvare, previo parere favorevole della competente azienda
sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o
l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza
inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre
il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche
alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che,
per particolari condizioni locali, non sia possibile
provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da
strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base
della classificazione prevista ai sensi della legislazione
vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Inoltre, per dare esecuzione ad un'opera pubblica o
all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi
ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può
consentire, previo parere favorevole della competente
azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di
rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio
dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici
preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione
di cui al periodo precedente si applica con identica
procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e
annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature
sportive, locali tecnici e serre.
Secondo la costante giurisprudenza, tale eccezionale potere
comunale può essere adoperato in maniera legittima solo per
ragioni di interesse pubblico, “non anche per agevolare
singoli proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o
intendano effettuare, interventi edilizi su un'area, resa a
tal fine indisponibile per ragioni di ordine
igienico-sanitario, nonché per la peculiare sacralità dei
luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di
ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale. L'unico procedimento,
attivabile dai singoli proprietari all'interno della fascia
di rispetto, pertanto, è quello finalizzato agli interventi
di cui all'art. 338, comma 7, dello stesso r.d. n. 1265/1934
(recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni
preesistenti), restando attivabile solo d'ufficio -per i
motivi anzidetti- la procedura di riduzione della fascia
inedificabile in questione” (Consiglio di Stato n. 3410
del 2014).
Sostiene poi la difesa ricorrente la violazione dell’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990, in quanto nel
provvedimento impugnato si fa riferimento ad un preavviso di
rigetto inviato il 18.03.2014 ed alla mancata presentazione
delle osservazioni, mentre queste sarebbero state presentate
il 04.04.2014. Tale censura non può essere accolta.
In primo luogo, come è noto, la costante giurisprudenza, a
cui il Collegio ritiene di aderire, afferma che la
violazione dell'art. 10-bis della legge generale sul
procedimento non produce ex se la invalidità del
provvedimento finale, dovendo la disposizione di preavviso
di rigetto essere interpretata alla luce dell'art. 21-octies
della legge n. 241/1990, per cui occorre valutare il
contenuto sostanziale della determinazione conclusiva,
allorché questa risulti non incisa dal vizio formale
(Consiglio di Stato n. 4448 del 2013).
Nel caso di specie,
il diniego è basato sulla inedificabilità derivante dalla
fascia di rispetto cimiteriale, che, fino ad una modifica
del p.r.g. da parte del Consiglio Comunale, non assegna
alcuna discrezionalità degli uffici del Comune.
Inoltre, nel caso di specie, risulta che dalla data di invio
del preavviso di rigetto, 18.03.2014, a quella di adozione
del provvedimento finale, 27.10.2014, vi sia stata la
presentazione di documentazione integrativa, il 04.04.2014
ed il 24.04.2014, nonché colloqui intercorsi con il
dirigente della sezione urbanistica (cfr. nota indirizzata
del 28.04.2014 indirizzata al Comune di Pomezia).
Infine, il
procedimento concluso con il provvedimento impugnato è
successivo ad un ulteriore procedimento relativo
all’annullamento in autotutela, con provvedimento del
26.04.2013, di un precedente permesso di costruire
rilasciato il 18.01.2013, procedimento in cui era stata già
assicurata la partecipazione della società ricorrente. Anche
sotto tale profilo deve dunque ritenersi infondata la
censura relativa alla violazione dell’art. 10-bis della
legge n. 241 del 1990.
Quanto al censurato difetto di motivazione, nel
provvedimento impugnato deve ritenersi sufficiente il
richiamo al vincolo cimiteriale derivante dal p.r.g., che
comporta un vincolo assoluto di inedificabilità (cfr.
Consiglio di Stato n. 3410 del 2014).
Il ricorso è pertanto infondato e deve essere respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 12.05.2015 n. 6896 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Atti
di indagine. Il comune giustificato dal segreto.
La richiesta di accesso agli atti di indagine della polizia
locale trova un limite nell'attività di polizia giudiziaria.
In questo caso, il comune non può essere trasparente ed è
condizionato dal segreto istruttorio.
Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 12.05.2015 n. 2357.
Un dipendente comunale indagato ha richiesto di poter
accedere al proprio fascicolo personale ma senza completo
successo, ovvero senza ricevere informazioni sugli atti di
indagine svolti dalla polizia municipale su delega
dell'autorità giudiziaria.
Contro questa misura limitativa
anche della trasparenza amministrativa, l'interessato ha
proposto ricorso ai giudici di palazzo Spada, ottenendo
conferma della legittimità dell'operato degli uffici
comunali.
In buona sostanza non basta l'interesse del
richiedente per accedere a questi atti. Serve sempre anche
il nullaosta dell'autorità giudiziaria
(articolo ItaliaOggi del 26.05.2015).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è infondato e va respinto.
Al riguardo si deve osservare, infatti, come rilevato dal
TAR per la Liguria nella pronuncia ora oggetto
d’impugnativa, che avverso il precedente diniego su medesima
istanza di accesso, adottato dal Comune di Savona con nota
prot. n. 39915 del 26.08.2013, è già intervenuta la sentenza
n. 319/2014, oramai divenuta irrevocabile e che l’appellante
ha motivato la nuova istanza ripetendone l’oggetto e
indicandone, a giustificazione, gli stessi motivi che hanno
originato la precedente richiesta.
Orbene, atteso che nel caso di specie nella richiesta di
accesso non sono stati introdotti elementi di novità e
l’interessato si è limitato a reiterare l’originaria istanza
o, al più, a illustrare ulteriormente le proprie ragioni,
non si ravvisa motivo per discostarsi dalla decisione del
TAR Liguria che, comunque, ha verificato l'inesistenza della
lamentata violazione del diritto di accesso (cfr. C.d.S.,
Ad. plen. nn. 6 e 7 del 2006, C.d.S., Sez. V, n. 1661
dell'08.04.2014).
L'accesso agli atti amministrativi non può riguardare,
infatti, atti su cui operi il segreto istruttorio penale,
perché formatisi in occasione di attività di indagine
compiute dalla polizia municipale quale organo di polizia
giudiziaria, su delega del pubblico ministero, atti per i
quali in assenza di autorizzazione di quest’ultimo è esclusa
in radice l'ostensibilità.
Pertanto, se da un lato gli atti oggetto delle istanze di
accesso formulate dal Sig. G. inerenti indagini penali,
quand’anche esistenti, non sono ostensibili, dall'altro deve
constatarsi che il ricorrente non ha provato l'esistenza di
altri dati, notizie ed informazioni ai quali non gli sarebbe
stato concesso di accedere, limitandosi a sostenere che
l'interesse sotteso alle istanze di accesso era quello di
verificare quali atti di indagine il Comune di Savona
tenesse ipoteticamente serbati nel fascicolo personale o più
in generale negli archivi e che, a suo dire, erano stati
utilizzati per promuovere procedimenti disciplinari e per
fornire informazioni alla locale Prefettura presso la quale
era in trattazione una domanda per ottenere i benefici
concessi ai tutori dell'ordine in quanto "vittime del
dovere".
Fermo restando quanto sopra rappresentato circa la non
ostensibilità degli atti d’indagine penale, si riscontra che
in ambito disciplinare il Comune si è attivato a seguito
della comunicazione di cui all'art. 129 disp. att. c.p.p. e
in merito alla richiesta dei benefici spettanti alle "vittime
del dovere" ha fornito alla Prefettura un dettagliato
rapporto relativo al servizio prestato dal ricorrente, così
come richiesto dalla stessa. |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
l’orientamento oggi prevalente, predicare l’operatività
della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la
legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di
legalità, desumibile da una fitta trama di norme
costituzionali, e poi ribadito expressis verbis dall’art. 1
della legge n. 241 del 1990, sia in quanto svuoterebbe della
sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione
degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito
oggettivo di applicazione del permesso di costruire in
sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria (art. 36 del d.P.R. n. 380 del
2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre verrebbero in tale modo ad essere premiati gli
autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti
coloro che abbiano correttamente eseguito attività
edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare
prescrizioni, da altri, invece, violate e risulterebbe anche
fortemente limitata la forza deterrente dell’apparato
sanzionatorio, posto a presidio della disciplina del governo
e del territorio.
4. - E’ evidente peraltro che il perno centrale intorno al
quale ruota il ricorso è costituito dalla terza censura, con
la quale si invoca, seppure in via subordinata al mancato
riconoscimento della doppia conformità (implicita peraltro
nel precedente giudicato amministrativo, concernente
l’ordinanza di demolizione del 1999), richiesta dall’art. 17
della l.r. n. 21 del 2004 per l’accertamento di conformità,
la c.d. sanatoria giurisprudenziale, sussistendo attualmente
le condizioni per assentire la sanatoria edilizia, in
subordine ipotizzandosi anche l’illegittimità costituzionale
della disciplina statale e regionale relativa
all’accertamento di conformità, nella prospettiva che non
sia ragionevole né conforme al canone del buon andamento
imporre la demolizione dell’opera, allorché poi sussista la
possibilità giuridica di riedificazione dello stesso
immobile.
Anche tale motivo non appare meritevole di condivisione.
A questo proposito non può il Collegio non richiamare il
proprio recente precedente (TAR Umbria, 03.12.2014, n. 590)
con il quale si è precisato che, secondo l’orientamento oggi
prevalente, predicare l’operatività della sanatoria
giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di
opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa
tradire il principio di legalità, desumibile da una fitta
trama di norme costituzionali, e poi ribadito expressis
verbis dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990, sia in
quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e
vincolante, la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al
momento della commissione degli illeciti, sia in quanto,
estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso
di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità
provvedimentale, ancorata dalla norma primaria (art. 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine
formale.
Inoltre verrebbero in tale modo ad essere premiati gli
autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti
coloro che abbiano correttamente eseguito attività
edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare
prescrizioni, da altri, invece, violate e risulterebbe anche
fortemente limitata la forza deterrente dell’apparato
sanzionatorio, posto a presidio della disciplina del governo
e del territorio.
Anche in relazione alla prospettata questione di legittimità
costituzionale, il precedente da ultimo richiamato ne ha
rilevato la manifesta infondatezza, proprio alla stregua
delle coordinate ermeneutiche inferibili dalla
giurisprudenza costituzionale, la quale ha più volte
ribadito la natura di principio, vincolante per la
legislazione regionale, della “doppia conformità”
(Corte cost. 31.03.1998, n. 370; 13.05.1993, n. 231;
27.02.2013, n. 101)
(TAR Umbria,
sentenza 12.05.2015 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Tar Lazio. Appalto in salvo se la newco è già
pronta.
Perde l'appalto l'impresa ammessa al concordato preventivo.
E non può invocare l'ipotesi «con continuità» introdotta dal
decreto sviluppo 2012 se non prova che è in procinto di
fondare una new company in grado di proseguire nell'attività
imprenditoriale.
È quanto emerge dalla
sentenza 11.05.2015 n. 6781, pubblicata dalla
Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
L'azienda non gestirà più il servizio di raccolta dei
rifiuti urbani nel Comune. E ciò perché l'ammissione alla
procedura concorsuale prima della novella estrometteva
automaticamente dalle gare per i servizi pubblici. Non può
venire in soccorso dell'impresa il concordato con continuità
aziendale introdotto dal decreto 83/2012.
Per evitare di perdere la commessa deve presentare la
relazione di un professionista qualificato che attesta la
conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento
del contratto. Serve anche la dichiarazione di un altro
operatore qualificato in possesso dei requisiti di
certificazione, richiesti per l'affidamento dell'appalto, il
quale si è impegnato nei confronti del concorrente e della
stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata
del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione
dell'appalto e a subentrare all'impresa ausiliata nel caso
in cui questa fallisca nel corso della gara ovvero dopo la
stipulazione del contratto oppure non sia per qualsiasi
ragione più in grado di dare regolare esecuzione
all'appalto.
Nella specie però l'impresa prospetta ma non prova la sua
intenzione di costruire una newco che possa
proseguire nell'attività imprenditoriale
(articolo ItaliaOggi del 28.05.2015).
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MASSIMA
La ricorrente agisce nel presente giudizio per
contestare l’indizione, da parte del comune resistente, di
una gara per l’affidamento del servizio di raccolta rifiuti,
sostenendo che le norme del bando sarebbero nei suoi
confronti immediatamente escludenti e comunque
immediatamente lesive poiché essa intendeva continuare a
curare il servizio nelle forme dell’in house.
Il ricorso è inammissibile per carenza di legittimazione e
di interesse, così come denunciato dal comune di Lariano
nella sua prima memoria difensiva e sottolineato nella
ordinanza cautelare n. 5100 del 2010, la quale ha fatto
espresso riferimento allo stato giuridico della ricorrente.
Come ha rilevato la giurisprudenza (cfr. TAR Valle d'Aosta
Aosta Sez. Unica, Sent., 18/04/2013, n. 23),
l’avvio della procedura di ammissione al concordato
preventivo determina il venir meno della legittimazione a
partecipare alle gare pubbliche.
Dispone l'articolo 38, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 163
del 2006: "Sono esclusi dalla
partecipazione alle procedure di affidamento delle
concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi,
né possono essere affidatari di subappalti, e non possono
stipulare i relativi contratti i soggetti: a) che si trovano
in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di
concordato preventivo, salvo il caso di cui all'articolo
186-bis del R.D. 16.03.1942, n. 267, o nei cui riguardi sia
in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali
situazioni".
L'art. 186-bis della legge fallimentare, rubricato: “Concordato
con continuità aziendale”, è stato introdotto dall'art.
33, comma 1, lett. h), del D.L. 22.06.2012, n. 83,
convertito dalla L. 07.08.2012, n. 134 e, dunque, non è
applicabile al caso di specie ratione temporis.
Pertanto, all’epoca dell’adozione del bando impugnato
l’ammissione al concordato preventivo era sempre preclusivo
della partecipazione alle gare pubbliche.
Per mere ragioni di completezza, si soggiunge che
l’art. 186-bis citato comunque non sarebbe stato applicabile
al caso in esame. Esso infatti prevede al comma 4 che "L'ammissione
al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a
procedure di assegnazione di contratti pubblici, quando
l'impresa presenta in gara:
a) una relazione di un professionista in possesso dei
requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d),
che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità
di adempimento del contratto;
b) la dichiarazione di altro operatore in possesso dei
requisiti di carattere generale, di capacità finanziaria,
tecnica, economica nonché di certificazione, richiesti per
l'affidamento dell'appalto, il quale si è impegnato nei
confronti del concorrente e della stazione appaltante a
mettere a disposizione, per la durata del contratto, le
risorse necessarie all'esecuzione dell'appalto e a
subentrare all'impresa ausiliata nel caso in cui questa
fallisca nel corso della gara ovvero dopo la stipulazione
del contratto, ovvero non sia per qualsiasi ragione più in
grado di dare regolare esecuzione all'appalto. Si applica
l'articolo 49 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163".
Nel caso di specie, tali presupposti non ricorrono e,
inoltre, la ricorrente ha unicamente prospettato, e non
provato, la propria intenzione di costruire una new
company che avrebbe potuto proseguire nell’attività
imprenditoriale.
Pertanto, deve ritenersi che la ricorrente
sia sprovvista della legittimazione attiva e dell’interesse
alla impugnazione di un bando di gara recante clausole
ritenute immediatamente escludenti nei suoi confronti:
infatti, essa non avrebbe comunque la possibilità di
partecipare alla suddetta gara, essendo carente dei
requisiti.
Il Consiglio di Stato ha, in proposito, avuto recentemente
modo di riaffermare che "Secondo
l'insegnamento della adunanza plenaria da cui il Collegio
non intende discostarsi, i requisiti generali e speciali
devono essere posseduti alla data di scadenza del bando, a
quella di verifica dei requisiti da parte della stazione
appaltante, a quelle dell'aggiudicazione provvisoria e
definitiva (..)”
(Cons. St., ad. plen., 07.04.2011, n. 4, par. 59 e Sez. VI,
18.12.2012, n. 6487).
La carenza di legittimazione e di interesse
si riscontra, per gli stessi motivi, anche in relazione alla
pretesa della ricorrente di dover curare il servizio in
house ai sensi dell’art. 23-bis del D.lgs. n. 112/2008:
il suo stato giuridico, infatti, esclude anche siffatta
eventualità.
Va, dunque, dichiarata l’inammissibilità del ricorso per
carenza di legittimazione attiva e di interesse al ricorso. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati, compensi da uno solo. Obbligato è chi
ha conferito la procura e il mandato.
La Corte di cassazione ha ritenuto infondato un ricorso
sul soggetto tenuto all'esborso.
Se, oltre alla procura alle liti, all'avvocato è stato
conferito un mandato, obbligato al pagamento del compenso
professionale dovuto non può essere una persona diversa da
quella che gli ha conferito la procura.
Lo hanno stabilito i giudici della III Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza 08.05.2015 n. 9297.
Il thema decidendum.
Un avvocato otteneva un decreto ingiuntivo avente ad oggetto
il pagamento di compensi professionali nei confronti di tre
persone. Costoro, però, proponevano opposizione asserendo di
non aver mai avuto rapporti professionali con l'avvocato,
poiché l'attività professionale di cui si chiedeva il
pagamento dell'onorario era stata svolta in realtà da un
altro legale, il quale interveniva sostenendo che l'altro
avvocato non aveva mai svolto attività per conto degli
intimati. La Corte d'appello rigettava l'opposizione.
Ricorso in Cassazione.
Il ricorso viene ritenuto infondato dalla Cassazione.
Secondo i giudici di piazza Cavour obbligato al pagamento
del compenso professionale dovuto ad un professionista
legale potrà essere anche una persona diversa da quella che
gli ha conferito la procura alle liti. Ma tale principio non
potrà essere applicato al caso di specie, perché i tre
intimati avevano conferito un mandato, e non soltanto una
procura alle liti, all'avvocato al quale non volevano poi
riconoscere alcun compenso.
Gli Ermellini evidenziano che non c'è dubbio che obbligato
al pagamento del compenso professionale dovuto ad un
avvocato ben possa essere anche persona diversa da quella
che gli ha conferito la procura alle liti. Ma nel caso di
specie i clienti effettivamente conferirono un mandato (e
non soltanto una procura alle liti) all'avvocato
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Solo il cliente può dimostrare l'imperizia del
proprio legale.
Solo il cliente può dimostrare che l'avvocato ha svolto
l'attività di difesa con imperizia o con impiego inferiore
alla comune diligenza, altrimenti sarà lecito che le singole
voci della parcella vengano liquidate al di sopra del minimo
tariffario.
Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. civile
della Corte di Cassazione con
sentenza 07.05.2015 n. 9237.
Il thema decidendum
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici di piazza
Cavour, il cliente oltre a negare il diritto dell'avvocato
al compenso per l'attività stragiudiziale esorbitante i
limiti dell'incarico conferitogli, aveva altresì contestato
specificamente le voci della notula presentata dal
professionista.
La prova spetta al cliente
Gli Ermellini hanno, pertanto, osservato che, in tema di
liquidazione del compenso per l'esercizio della professione
forense, sarà il cliente a fornire la prova che l'avvocato
abbia svolto poco bene l'attività difensionale affidatagli,
altrimenti le singole voci ben possono essere liquidate al
di sopra del minimo tariffario.
Secondo i giudici supremi, solo se il professionista legale
richieda compensi al di sopra del massimo previsti, lo
stesso sarà chiamato a fornire, a norma dell'articolo 2697
c.c., la prova degli elementi costitutivi del diritto fatto
valere, cioè delle circostanze che nel caso concreto
giustifichino detto maggiore compenso, restando in difetto
applicabile la tariffa nell'ambito dei parametri previsti.
Il principio: quesito e censura di diritto
Nella stessa sentenza, poi, la Cassazione ha ribadito il
principio secondo cui il quesito inerente ad una censura in
diritto, poiché ha la funzione di integrare il punto di
congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e
l'enunciazione del principio giuridico generale, non può
essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato
nella fattispecie concreta, per mettere l'organo giudicante
in grado di poter comprendere, dalla sua sola lettura,
l'errore asseritamente compiuto dal giudice di merito e la
regola applicabile
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015). |
URBANISTICA: Premesso
che la convenzione di lottizzazione, anche se istituto di
complessa ricostruzione a causa dei profili di stampo
giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento
chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre un incontro
di volontà delle parti contraenti nell’esercizio
dell’autonomia negoziale retta dal codice civile, la
richiesta di proroga inoltrata al Comune dalla società
odierna appellata costituiva una proposta di modifica delle
condizioni contrattuali, che avrebbe dovuto essere accettata
da controparte secondo i comuni principi civilistici.
Infatti, alla stregua della vigente normativa la durata
della convenzione di lottizzazione non risulta soggetta a
regole di impronta pubblicistica, costituendo materia
rimessa all’accordo tra lottizzante e Amministrazione: ciò
si ricava dal fatto che sul punto il legislatore –che pure
ha analiticamente regolato il contenuto delle convenzioni de
quibus– si è limitato a fissare il termine massimo di durata
(stabilito in dieci anni ex art. 28, comma 5, nr. 3, della
legge 17.08.1942, nr. 1150) e a ribadire che in convenzione
deve comunque essere indicata la durata della convenzione,
la cui concreta definizione è però rimessa alle parti.
Pertanto, per una modifica dell’accordo si applica la
normativa codicistica ai sensi dell’art. 11, comma 3, della
legge 07.08.1990, nr. 241: in particolare, trattandosi nella
specie di atto negoziale, che presuppone la ricerca del
consenso del privato su un certo assetto di interessi ed
attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne
consegue che la sua modifica necessita della manifestazione
di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla loro
formazione.
... per l’annullamento e/o la riforma, previa sospensione
dell’efficacia, della sentenza della Sez. II del TAR del
Veneto del 09.10.2014, nr. 1287, resa in forma semplificata
ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., con la quale è stato
accolto il ricorso nr. 1200/2014.
...
Il Comune di Vigonza ha impugnato la sentenza –resa in forma
semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.– con la
quale il TAR del Veneto, provvedendo sul ricorso proposto
dalla Direzionale Vigonza S.a.s. di Endrizzi Luigi & C., ha:
- accolto la domanda di accertamento dell’insussistenza
dell’inadempimento all’obbligo stabilito dall’art. 8, ultimo
comma, della convenzione di lottizzazione sottoscritta il
18.05.2007;
- preso atto della rinuncia alle ulteriori domande, aventi a
oggetto la declaratoria di insussistenza dei presupposti per
l’escussione da parte del Comune di Vigonza della polizza
fideiussoria di cui all’art. 16, ultimo comma, della
convenzione medesima, e la condanna del Comune alla
restituzione delle somme pagate per effetto dell’escussione
della detta polizza.
...
12. Passando all’esame del secondo motivo d’appello, questo
è invece fondato e meritevole di accoglimento.
Ed invero, premesso che la convenzione di lottizzazione,
anche se istituto di complessa ricostruzione a causa dei
profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo
strumento chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre
un incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio
dell’autonomia negoziale retta dal codice civile (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 26.09.2013, nr. 4810), la richiesta
di proroga inoltrata al Comune dalla società odierna
appellata costituiva una proposta di modifica delle
condizioni contrattuali, che avrebbe dovuto essere accettata
da controparte secondo i comuni principi civilistici.
Infatti, alla stregua della vigente normativa la durata
della convenzione di lottizzazione non risulta soggetta a
regole di impronta pubblicistica, costituendo materia
rimessa all’accordo tra lottizzante e Amministrazione: ciò
si ricava dal fatto che sul punto il legislatore –che pure
ha analiticamente regolato il contenuto delle convenzioni de quibus– si è limitato a fissare il termine massimo di
durata (stabilito in dieci anni ex art. 28, comma 5, nr. 3,
della legge 17.08.1942, nr. 1150) e a ribadire che in
convenzione deve comunque essere indicata la durata della
convenzione, la cui concreta definizione è però rimessa alle
parti.
Pertanto, per una modifica dell’accordo si applica la
normativa codicistica ai sensi dell’art. 11, comma 3, della
legge 07.08.1990, nr. 241: in particolare, trattandosi
nella specie di atto negoziale, che presuppone la ricerca
del consenso del privato su un certo assetto di interessi ed
attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne
consegue che la sua modifica necessita della manifestazione
di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla loro
formazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, nr.
693).
A ciò si aggiunga che la Giunta Comunale, organo
istituzionalmente competente a esprimere la volontà del
Comune in subiecta materia, non si era mai formalmente
pronunciata sulla richiesta di proroga, limitandosi a
esprimere un avviso preliminare ed espressamente differendo
la “formalizzazione” del proprio assenso all’adempimento
delle suindicate condizioni.
Se questo è vero, ne discende che il “parere favorevole” di
cui alla nota del 24.04.2103 non avrebbe potuto essere
inteso in nessun caso come accettazione della richiesta di
modifica contrattuale, essendo detto parere subordinato a
una serie di condizioni: è noto infatti (ed è principio
pacificamente applicabile alla fattispecie che qui occupa,
giusta quanto sopra evidenziato) che l’accettazione della
proposta contrattuale accompagnata da condizioni diverse
equivale a nuova proposta ai sensi dell’art. 1326, comma 5,
cod. civ. (cfr. Cass. civ., sez. III, 01.04.2010, nr.
7999).
Si potrebbe bensì sostenere che la società richiedente abbia
accettato siffatta “controproposta” con la nota del 27.05.2013, con la quale si è detta disponibile ad
assolvere alle condizioni richieste dal Comune: ma, anche in
tale prospettiva, ci si troverebbe dinanzi ad una condizione
sospensiva (evincibile dalla nota comunale, in cui –come
detto- si faceva dipendere la “formalizzazione” della
proroga dall’avverarsi di tutte e tre le condizioni
richieste), e quindi medio tempore la modifica convenzionale
concordata non aveva efficacia, essendo chiaramente
interesse della parte privata adoperarsi affinché, con
l’avverarsi delle condizioni, il nuovo regolamento
contrattuale divenisse efficace (ciò che, in ipotesi
positiva, sarebbe avvenuto con effetto ex tunc, e quindi
senza soluzione di continuità nella durata della
convenzione).
Orbene, poiché la società odierna appellata, con la citata
nota del 03.04.2014, ha confessato di non aver adempiuto
(e di non poter adempiere) alle condizioni de quibus, resta
acquisito che non era applicabile alla presente fattispecie
il citato art. 30, comma 3-bis, del d.l. nr. 69 del 2013, in
quanto sopravvenuto dopo la scadenza dell’originario termine
pattuito in convenzione e in pendenza delle suindicate
condizioni sospensive.
Ne consegue che risulta immune da censure il successivo
operato del Comune, il quale si è attivato sul corretto
presupposto dell’intervenuta scadenza della convenzione (e,
quindi, dell’inadempimento del concessionario).
13. Ma v’è di più, ché le conclusioni raggiunte non
muterebbero quand’anche si seguisse l’impostazione della
parte odierna appellata, la quale assume la non
applicabilità alla vicenda che occupa delle norme
civilistiche e la sua riconducibilità all’esercizio di
potestà autoritativa del Comune.
Infatti, se anche si ammettesse –come sembra aver fatto il
primo giudice– che il Comune avesse il potere di
“procedimentalizzare” l’istanza di proroga proposta dalla
società concessionaria, e in tal modo sottrarla
all’applicazione delle regole civilistiche (ciò che appare
quanto meno discutibile, essendo evidente che il regime
degli accordi sostitutivi del procedimento discende dalla
legge, e non certo da un’opzione delle parti), siffatto
supposto procedimento non poteva in ogni caso considerarsi
positivamente concluso, dal momento che il “parere
favorevole” comunicato con la nota del 24.04.2013, che
era dichiaratamente prodromico a una successiva
determinazione definitiva (mai intervenuta) della Giunta
Comunale, era perciò stesso un mero atto endoprocedimentale,
come tale inidoneo a far scattare la proroga richiesta dalla
società istante.
14. Alla luce dei rilievi che precedono, restano assorbite
le ulteriori questioni sollevate nell’appello del Comune e,
in particolare, quella della pretesa incostituzionalità del
citato art. 30, comma 3-bis, del d.l. nr. 69 del 2013.
Inoltre, risulta superfluo anche l’esame della nuova
documentazione depositata dalla società appellata in data 11.03.2015 (relazione tecnica attestante lo stato dei
lavori), sia sotto il profilo della sua ammissibilità, sia
sotto quello del suo contenuto, essendo evidente che il
problema di quanto già eseguito, e di quanto eventualmente
per ciò dovuto alla società, dovrà essere affrontato tra le
parti dell’originaria convenzione in altra sede ed è
estraneo al presente giudizio.
15. In conclusione, s’impone una decisione di accoglimento
dell’appello principale, con la conseguente riforma della
sentenza impugnata e la reiezione del ricorso di prime cure
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.05.2015 n. 2313 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti, lecito impartire ordini. Sì a direttive
se riguardano il risultato delle prestazioni.
Sentenza della Cassazione sui rapporti tra
committente e dipendenti dell'appaltatore.
Perché si configuri un appalto illecito, non è sufficiente
avere offerto la prova che il committente abbia dato ordini
ai dipendenti dell'appaltatore. Occorre indagare il
contenuto di tali ordini e provare che essi riguardano la
prestazione di lavoro di fatto svolta.
Così afferma oggi la Corte di Cassazione, Sez. III penale,
con la
sentenza 06.05.2015 n. 18667.
Una precisazione di principio destinata non soltanto a
«rivoluzionare» le dinamiche delle indagini penali sugli
appalti di servizi da parte di ispettori del lavoro e delle
Procure, finora solitamente «superficiali», fissandosi
l'attribuzione del reato sul mero riscontro di stereotipi
indici presuntivi (es. proprietà dei beni utilizzati;
promiscuità con i dipendenti dell'appaltante; e, tra
l'altro, provenienza degli ordini ai lavoratori). Ma anche a
favorire l'organizzazione degli appalti labour intensive
praticati comunemente. In sostanza, un deciso monito ai
giudici di merito a non aderire a tesi accusatorie
preconcette, specie se vi è in campo, come nel caso, una
cooperativa.
Nella vicenda, gli ispettori inerivano l'esistenza del reato
in forza di una (solo) asserita commistione tra le due
società, desunta dal fatto che i locali, in cui operavano i
lavoratori della cooperativa, e le attrezzature impiegate
fossero di proprietà della committente, e dalla circostanza
che quest'ultima esercitasse potere organizzativo e
direttivo sui lavoratori.
Per la Suprema corte, tuttavia, perché si configuri un
appalto in frode alla legge, non basta che ricorra la
circostanza (nel caso provata) che il personale del
committente sia venuto a impartire ordini agli ausiliari
dell'appaltatore. Occorre piuttosto la prova che le
direttive impartite siano inerenti a concrete modalità di
svolgimento della prestazione lavorativa. Diversamente, come
afferma ora la Cassazione, se le disposizioni ai lavoratori
«appaltati» si riferissero solamente al risultato di tali
prestazioni (che in sé possono formare l'oggetto genuino
dell'appalto), non potrebbero sorgere motivi di censura e
punizione da parte dell'ordinamento. I giudici di merito
avrebbero omesso di compiere tale genere di sottile, ma
determinante, valutazione dei rapporti tra i soggetti
coinvolti.
Sempre stigmatizzando il consueto modo di procedere per
equazioni (indimostrate), la Corte di cassazione ha
considerato non accettabile la valutazione in malam
partem, operata dagli ispettori prima, e nel merito
giudiziale, poi, di altri elementi di per loro neutri. Come
con riferimento all'uso dei locali e di attrezzature del
committente da parte dell'appaltatore, legittimamente
concessigli in comodato gratuito. Illogico, a parere della
Cassazione, inerire solo da ciò l'inesistenza di una reale
organizzazione dei mezzi e dell'assunzione effettiva del
rischio d'impresa.
In definitiva, a parere della Suprema Corte, perché possa
dirsi ricorrere il reato di appalto illecito deve
contemporaneamente essere fornita la prova dell'effettiva
inesistenza di un rischio di impresa; del difetto di
organizzazione, comunque sia, dei mezzi necessari
all'esecuzione dell'appalto; dell'assenza di un potere
organizzativo e diretto sui lavoratori, non escluso, di per
sé, da eventuali ordini impartiti dal committente
(articolo ItaliaOggi del 26.05.2015
- tratto da www.centrosctudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’accertamento
di conformità deve riguardare opere già provviste di doppia
conformità e solo formalmente abusive, in quanto carenti di
titolo ma conformi alla disciplina urbanistica. Non è dunque
ammissibile una sanatoria mediante lavori di
regolarizzazione (come appunto nella specie) e non di
semplice completamento.
Circa la c.d. sanatoria giurisprudenziale (per cui sarebbe
sufficiente la regolarità edilizia ed urbanistica solo al
momento della presentazione della domanda di sanatoria) essa
è affermata in un orientamento giurisprudenziale minoritario
e non condivisibile, rispetto a quello che postula il
requisito della doppia conformità, conformemente d’altra
parte al dettato normativo delle conferenti disposizioni
statuali e regionali.
In quest’ultima, in particolare, correttamente si afferma,
tra l’altro, che detto istituto, di matrice
giurisprudenziale, in quanto introduce un atipico atto con
effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione
normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento,
caratterizzato dal principio di legalità dell'azione
amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività,
poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la
violazione del principio di separazione dei poteri e pena
l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate
all'Amministrazione.
L’Amministrazione, ha precisato, in effetti, che gli abusi
hanno determinato, già al momento della realizzazione degli
stessi, la non conformità dell’intervento alle norme
edilizie ed urbanistiche della zona in cui ricade il lotto
interessato (sul punto nemmeno vi è specifica e puntuale
confutazione da parte della ricorrente).
Ha evidenziato poi, con ampio e condivisibile excursus
argomentativo (che il Collegio fa proprio): che
l’accertamento di conformità deve riguardare opere già
provviste di doppia conformità e solo formalmente abusive,
in quanto carenti di titolo ma conformi alla disciplina
urbanistica; che non è dunque ammissibile una sanatoria
mediante lavori di regolarizzazione (come appunto nella
specie) e non di semplice completamento; che circa la c.d.
sanatoria giurisprudenziale (per cui sarebbe sufficiente la
regolarità edilizia ed urbanistica solo al momento della
presentazione della domanda di sanatoria) essa è affermata
in un orientamento giurisprudenziale minoritario e non
condivisibile, rispetto a quello che postula il requisito
della doppia conformità, conformemente d’altra parte al
dettato normativo delle conferenti disposizioni statuali e
regionali (sul punto, in aggiunta a quanto sopra, questo
Collegio si limita a richiamare, per tutte, le pronunce del
CdS, V, n. 3961/2012; IV, n. 3072/2013; V, n. 3220/2013).
In quest’ultima, in particolare, correttamente si afferma,
tra l’altro, che detto istituto, di matrice
giurisprudenziale, in quanto introduce un atipico atto con
effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione
normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento,
caratterizzato dal principio di legalità dell'azione
amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività,
poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la
violazione del principio di separazione dei poteri e pena
l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate
all'Amministrazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.05.2015 n. 6371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Ritiene
il Collegio che non sia illegittimo la presizione di PGT
che, al fine della trasformazione edificatoria dell’A.T.
1.8, ponga la realizzazione della nuova infrastruttura
viaria con oneri a carico dei privati proprietari delle aree
da trasformare.
Invero, costituisce principio generale della disciplina
urbanistica quello per il quale la realizzazione di nuovi
insediamenti è sempre subordinata alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione primaria, il cui onere, in caso di
interventi attuativi convenzionati, deve ricadere sui
privati proprietari degli ambiti da trasformare.
Tale principio trova esplicita emersione, in particolare,
nell’articolo 28, quinto comma, nn. 1) e 2) della legge
1942, n. 1150 e nelle corrispondenti previsioni
dell’articolo 46, comma 1, lett. a) e b), della legge
regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, ove si
prevedono quali contenuti necessari delle convenzioni
urbanistiche sia la cessione, da parte dei privati, delle
aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, sia
l’assunzione dell’onere per la realizzazione di tali opere a
carico dei medesimi lottizzanti.
Ne discende che l’imposizione degli oneri per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria a
carico dei proprietari dell’ambito costituisce una
previsione necessitata da parte dello strumento urbanistico
generale.
A tale conclusione non osta il rilievo, evidenziato dal
ricorrente, che –nel caso di specie– la realizzazione
dell’infrastruttura viaria presenti costi molto superiori
rispetto a quelli che sarebbero teoricamente dovuti a titolo
di quota del contributo di costruzione commisurata agli
oneri di urbanizzazione primaria, in relazione alle
superfici edificatorie da realizzare.
E invero, la suddetta quota di contributo di costruzione è
funzionale alla realizzazione del principio di distribuzione
tra tutti i proprietari della spesa occorrente per le opere
necessarie alla trasformazione del territorio, che siano
state o verranno realizzate dal Comune. Come tale, essa è
dovuta a prescindere dall’esistenza o dalla necessità di
realizzare le opere di urbanizzazione e, inoltre, viene
determinata senza tener conto né della concreta utilità che
riceve il beneficiario del titolo edificatorio, né delle
spese effettivamente necessarie per l'esecuzione delle
opere.
La previsione del contributo per oneri di urbanizzazione
opera, quindi, su un piano diverso rispetto alle
disposizioni legislative sopra richiamate in tema di piani
attuativi convenzionati, le quali pongono l’infrastrutturazione
primaria dell’area, con oneri integralmente a carico del
privato, quale condizione cui è subordinata la possibilità
stessa di dare attuazione alle trasformazioni edificatorie
previste dallo strumento urbanistico.
6. Con il primo motivo il ricorrente censura la previsione
contenuta all’articolo 3.4 delle Norme di Attuazione del PGT,
relativo agli “Ambiti di trasformazione della costa di Pianazzola e delle frazioni del versante nord”, laddove,
nella “Scheda Ambito di Trasformazione 1.8. Campedello 2”
(doc. 14-F del ricorrente, p. 46) si prevede la
realizzazione, nel suddetto ambito, di una strada a carico
dei privati proprietari.
Secondo quanto allegato nel ricorso, la realizzazione della
strada comporterebbe una spesa di circa 178.000,00 euro, che
risulterebbe sproporzionata ed esorbitante a fronte degli
oneri di urbanizzazione primaria che sarebbero dovuti in
relazione alle superfici realizzabili nel medesimo ambito,
stimati in circa 25.000,00 euro.
Ad avviso del ricorrente, la previsione del PGT si porrebbe
in contrasto con l’articolo 46, comma 1, lett. b), della
legge regionale della Lombardia, il quale prevedrebbe la
necessità di corrispondere un conguaglio per le opere
eseguite in luogo del versamento degli oneri di
urbanizzazione.
Sarebbe, inoltre, violato l’articolo 23 della Costituzione,
in quanto la censurata previsione del PGT recherebbe una
prestazione patrimoniale imposta in difetto di ogni
previsione di legge.
6.1 Rileva il Collegio che dalla lettura del capitolo 4
della “Relazione illustrativa di sintesi del progetto” del
Piano delle Regole del PGT di Chiavenna risulta che la
“individuazione di un nuovo tracciato viario alternativo
all’attuale nella frazione di Campedello (Area di
Trasformazione 1.7 e 1.8) e realizzazione di un nuovo
innesto sulla strada statale” figurano tra i “servizi e le
attrezzature previste” negli ambiti di trasformazione (doc.
14-E del ricorrente, p. 14).
Nel successivo capitolo 5 della stessa Relazione, dedicato
alla “Stima di massima dei costi”, si legge inoltre che “gli
interventi previsti nelle aree di trasformazione, così come
descritti nel capitolo precedente, sono a totale carico dei
soggetti privati interessati dalle trasformazioni stesse:
tali costi non vengono quindi considerati in tale stima”
(doc. 14-E del ricorrente, p. 16).
Da questi dati si evince che il PGT ha ritenuto
indispensabile, al fine della trasformazione edificatoria
dell’A.T. 1.8, la realizzazione della nuova infrastruttura
viaria, prevedendo di porre il relativo onere a carico dei
privati proprietari delle aree da trasformare.
6.2 Ora, a fronte della indicazione della strada come
necessaria opera di urbanizzazione primaria –e
prescindendo, in questa sede, dalle censure allegate dal
ricorrente attinenti alla ragionevolezza della previsione di
tale necessità– ritiene il Collegio che non sia illegittimo
aver posto l’onere dell’opera a carico dei privati
interessati.
Ed invero, costituisce principio generale della disciplina
urbanistica quello per il quale la realizzazione di nuovi
insediamenti è sempre subordinata alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione primaria, il cui onere, in caso di
interventi attuativi convenzionati, deve ricadere sui
privati proprietari degli ambiti da trasformare.
Tale principio trova esplicita emersione, in particolare,
nell’articolo 28, quinto comma, nn. 1) e 2) della legge
1942, n. 1150 e nelle corrispondenti previsioni
dell’articolo 46, comma 1, lett. a) e b), della legge
regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, ove si
prevedono quali contenuti necessari delle convenzioni
urbanistiche sia la cessione, da parte dei privati, delle
aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, sia
l’assunzione dell’onere per la realizzazione di tali opere a
carico dei medesimi lottizzanti.
Ne discende che l’imposizione degli oneri per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria a
carico dei proprietari dell’ambito costituisce una
previsione necessitata da parte dello strumento urbanistico
generale.
A tale conclusione non osta il rilievo, evidenziato dal
ricorrente, che –nel caso di specie– la realizzazione
dell’infrastruttura viaria presenti costi molto superiori
rispetto a quelli che sarebbero teoricamente dovuti a titolo
di quota del contributo di costruzione commisurata agli
oneri di urbanizzazione primaria, in relazione alle
superfici edificatorie da realizzare.
E invero, la suddetta quota di contributo di costruzione è
funzionale alla realizzazione del principio di distribuzione
tra tutti i proprietari della spesa occorrente per le opere
necessarie alla trasformazione del territorio, che siano
state o verranno realizzate dal Comune. Come tale, essa è
dovuta a prescindere dall’esistenza o dalla necessità di
realizzare le opere di urbanizzazione e, inoltre, viene
determinata senza tener conto né della concreta utilità che
riceve il beneficiario del titolo edificatorio, né delle
spese effettivamente necessarie per l'esecuzione delle opere
(ex multis, Cons. St., Sez. VI, 15.07.2013, n. 3788; TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 23.07.2014, n. 1997).
La previsione del contributo per oneri di urbanizzazione
opera, quindi, su un piano diverso rispetto alle
disposizioni legislative sopra richiamate in tema di piani
attuativi convenzionati, le quali pongono l’infrastrutturazione
primaria dell’area, con oneri integralmente a carico del
privato, quale condizione cui è subordinata la possibilità
stessa di dare attuazione alle trasformazioni edificatorie
previste dallo strumento urbanistico.
6.3 Le considerazioni sopra esposte non sono infirmate dal
tenore dell’articolo 46, comma 1, lett. b) della legge
regionale n. 12 del 2005, richiamato dalla parte ricorrente;
previsione normativa, questa, che –al contrario– conferma
ulteriormente quanto sopra illustrato.
Nella disposizione in esame si legge, invero, che “ove la
realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli
previsti per la urbanizzazione primaria e secondaria ai
sensi della presente legge, è corrisposta la differenza” .
Il legislatore regionale ha quindi inteso chiarire che, in
occasione della stipulazione delle convenzioni relative ai
piani attuativi, il conguaglio è consentito solo laddove le
opere direttamente realizzate dalla parte privata comportino
oneri inferiori rispetto alle relative quote del contributo
di costruzione. Nessun conguaglio è, invece, previsto
nell’ipotesi inversa, ossia ove la realizzazione diretta
delle opere comporti un onere maggiore rispetto al
contributo.
Giova, inoltre, tenere presente che la stessa disposizione
richiamata prosegue stabilendo che “al comune spetta in ogni
caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione
diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata
al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al
piano attuativo, nonché all'entità ed alle caratteristiche
dell'insediamento e comunque non inferiore agli oneri
previsti dalla relativa deliberazione comunale”. Previsione,
questa, che chiarisce ancor più esplicitamente che l’impegno
economico a carico del privato per la realizzazione di
interventi attuativi debba avere ad oggetto –per quanto qui
rileva– o la realizzazione diretta delle opere di
urbanizzazione primaria o la corresponsione della somma
effettivamente necessaria per la loro realizzazione, a
prescindere da quanto sarebbe dovuto a titolo di contributo concessorio commisurato agli oneri di urbanizzazione
primaria.
6.4 Alla luce di quanto precede, le previsioni del PGT di
Chiavenna censurate dal ricorrente risultano, quindi,
rispondenti al quadro legislativo di riferimento.
Conseguentemente, esse non danno luogo neppure alla dedotta
violazione dell’articolo 23 della Costituzione, non essendo
ravvisabile alcuna prestazione patrimoniale imposta in
violazione del principio di legalità.
6.5 In definitiva, per le suesposte ragioni, va ribadito il
rigetto del primo motivo di ricorso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.05.2015 n. 1101 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico, basta la Scia per il terrazzo di casa.
Basta la Scia per installare i pannelli fotovoltaici sul
pergolato realizzato nel terrazzo di casa. Accolto il
ricorso del proprietario, bocciata la tesi del comune: il
permesso di costruire non serve perché la segnalazione di
inizio attività risulta sufficiente anche per le pertinenze
dei fabbricati. Altro che permesso di costruire.
Il comune
deve convincersi, per installare il fotovoltaico sul
terrazzo al proprietario basta la Scia, a patto che i
pannelli siano montati sul pergolato di legno: le linee
guida che disciplinano l'installazione degli impianti
energetici, infatti, prevedono che la segnalazione di inizio
attività basta e avanza per le opere realizzate sulle
pertinenze degli edifici. E dunque anche per i pergolati.
Lo stabilisce il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 27.04.2015 n. 2134.
Accolto, dunque, il ricorso del proprietario di casa contro
la sentenza sfavorevole del Tar Emilia Romagna. L'impianto «incriminato»
non è piccolo: i pannelli sono otto per un'area totale di
tredici metri quadrati.
Eppure basta il titolo edilizio più semplice, anche se il
pergolato di legno fa da sostegno alla produzione di energia
da fonti rinnovabili invece di sostenere le piante
rampicanti, come avviene di solito
(articolo ItaliaOggi del 22.05.2015).
---------------
MASSIMA
6.– In via preliminare è necessario ricostruire il quadro
normativo e gli orientamenti giurisprudenziali rilevanti.
6.1.– L’art. 6, comma 2, lettera d), del d.p.r. n. 380 del
2001 dispone che sono soggetti a comunicazione di inizio
lavori gli interventi consistenti, tra l’altro,
nell’installazione di «pannelli solari, fotovoltaici, a
servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona
A) di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici
02.04.1968, n. 1444».
Le linee guida per l’autorizzazione degli impianti in esame
prevedono che essi possono essere installati «su edifici
esistenti e loro pertinenze», inclusi, pertanto, anche i
pergolati.
L’art. 10 dello stesso decreto dispone, invece, che occorre
il permesso di costruire per: «a) gli interventi di nuova
costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione
urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino modifiche della
volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero
che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso,
nonché gli interventi che comportino modificazioni della
sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni».
6.2.– La giurisprudenza amministrativa, in
mancanza di una definizione legislativa di pergolato, ha
avuto modo di affermare che esso può essere inteso come un
manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura
leggera di legno o altro materiale di minimo peso,
facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che
funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali
realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste
dimensioni (Cons.
Stato, sez. IV, 29.09.2011, n. 5409).
Si è, inoltre, precisato che «la nozione
di pergolato non muta se alle piante si sostituiscono i
pannelli fotovoltaici, sicché gli stessi devono essere
collocati in modo tale da lasciare spazi per il filtraggio
della luce e dell’acqua e non devono caratterizzarsi come
copertura stabile e continua degli spazi sottostanti»
(Cons. Stato, sez. I, 25.06.2014, n. 2162). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
l’inequivocabile tenore della disposizione recata dall’art.
4 del D.M. n. 1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti”; la giurisprudenza anche di
questa Sezione ha avuto modo di affermare come le norme
sulle distanze di cui al D. M. 1444/1968 hanno carattere
pubblicistico ed inderogabile e vincolano i comuni in sede
di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
In particolare, la giurisprudenza in materia ha statuito che
trattandosi di norma volta ad “impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è
pertanto non eludibile”.
A tal proposito il Collegio sottolinea che “le distanze tra
le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in
via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di
modo che al giudice non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell’applicazione della disciplina in
materia di equo contemperamento degli opposti interessi”.
Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le
disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici
“anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali” dovendosi le prime ritenere
automaticamente inserite nel p.r.g. al posto della norma
illegittima.
---------------
L’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, rubricato “Limiti di
distanza tra i fabbricati”, prescrive i limiti minimi di
distanza tra edifici a seconda delle diverse zone
territoriali omogenee, e segnatamente, in ipotesi di
costruzione di “nuovi edifici ricadenti in altre zone”
(comma 1, n. 2), prevede che la distanza minima assoluta tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde
a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino
all’altezza del fabbricato finitimo più alto, se questa sia
maggiore di 10 metri (comma 2).
In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati
confinanti (l’edificio pregresso e/o quello di nuova
costruzione) presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la
distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10
metri) va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più
alto.
La misura minima della distanza, tuttavia, è derogabile in
due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2
dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori
rispetto a quelle previste dal comma 1 soltanto per i
piani particolareggiati e per le lottizzazioni
convenzionate, e non anche per gli interventi edilizi
diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi
tra i quali ricomprendere il permesso di costruire, come,
appunto, nel caso in questione.
Occorre, anzitutto, premettere che secondo l’inequivocabile
tenore della disposizione recata dall’art. 4 del D.M. n.
1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti”; la giurisprudenza anche di questa
Sezione ha avuto modo di affermare come le norme sulle
distanze di cui al D. M. 1444/1968 hanno carattere
pubblicistico ed inderogabile e vincolano i comuni in sede
di formazione e revisione degli strumenti urbanistici (cfr.
Cons. St., Sez. IV 05.12.2005 n. 6909).
In particolare, la giurisprudenza in materia ha statuito che
trattandosi di norma volta ad “impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è
pertanto non eludibile”.
A tal proposito il Collegio sottolinea che “le distanze
tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente
in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun
margine di discrezionalità nell’applicazione della
disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti
interessi” (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 6909 del 2005
cit.).
Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le
disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici
“anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali” dovendosi le prime
ritenere automaticamente inserite nel p.r.g. al posto della
norma illegittima (cfr. in tal senso Cass. civ., Sez. II,
29.05.2006, n. 12741).
In particolare, l’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
rubricato “Limiti di distanza tra i fabbricati”,
prescrive i limiti minimi di distanza tra edifici a seconda
delle diverse zone territoriali omogenee, e segnatamente, in
ipotesi di costruzione di “nuovi edifici ricadenti in
altre zone” (comma 1, n. 2), prevede che la distanza
minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento
della distanza sino all’altezza del fabbricato finitimo più
alto, se questa sia maggiore di 10 metri (comma 2).
In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati
confinanti (l’edificio pregresso e/o quello di nuova
costruzione) presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la
distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10
metri) va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più
alto.
La misura minima della distanza, tuttavia, è derogabile in
due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2
dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori
rispetto a quelle previste dal comma 1 soltanto per i
piani particolareggiati e per le lottizzazioni
convenzionate, e non anche per gli interventi edilizi
diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi
tra i quali ricomprendere il permesso di costruire, come,
appunto, nel caso in questione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2015 n. 2130 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
trova spazio nell’ordinamento (connotato da una disciplina
puntuale ed esauriente delle ipotesi di condono e sanatoria
edilizia) la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, che
ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva
sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non
anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata
realizzata.
Difatti, predicarne l’operatività, consentendo la
legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di
legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost.,
oltre che dall’art. 1 comma 1, l. n. 241 del 1990 (secondo
cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati
dalla legge”), sia in quanto svuoterebbe della sua portata
precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e
edilizia vigente al momento della commissione degli
illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo del
condono, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 32 cit.)
alle sole violazioni di ordine formale.
Si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi
sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano
correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso
convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece,
impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non
addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio.
Difatti, non trova spazio nell’ordinamento (connotato da una
disciplina puntuale ed esauriente delle ipotesi di condono e
sanatoria edilizia) la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”,
che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera
abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante,
ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è
stata realizzata.
Difatti, predicarne l’operatività, consentendo la
legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di
legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost.,
oltre che dall’art. 1 comma 1, l. n. 241 del 1990 (secondo
cui “l'attività amministrativa persegue i fini
determinati dalla legge”), sia in quanto svuoterebbe
della sua portata precettiva, certa e vincolante la
disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della
commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi
l’ambito oggettivo del condono, se ne violerebbe la tipicità
provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo
prevede (art. 32 cit.) alle sole violazioni di ordine
formale.
Si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi
sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano
correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso
convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece,
impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non
addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio (cfr. TAR Napoli Campania, sez. VIII
03/07/2012 n. 3153, con argomenti che, sia pure con riguardo
alla domanda di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380, sono riproducibili
anche nel presente giudizio)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.04.2015 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: -
Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda
"inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo del
vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio",
cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per
poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore
nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di
normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza
l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto
dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera
stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere
oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e
lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da
poter esser visto dall'esterno.
Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra
lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non
all'intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche
oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie
alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare
aria e luce all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la
"prospectio" sul contiguo fondo altrui, in modo da
determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel
fondo a tale peso. Non può sussistere veduta quando, pur
essendo possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non
possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza
pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte,
obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino.
- “Secondo l'uso corrente, che deve ritenersi recepito dal
legislatore nella definizione delle vedute (art. 900 c.c.),
l'espressione "affacciarsi" denota la posizione che
l'osservatore assume per potere, comodamente, senza pericolo
e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, vedere
obliquamente e lateralmente sul fondo altrui, tenendo il
petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello
massimo dell'opera stessa, sicché l'esistenza di un
parapetto alto soltanto cinquantacinque centimetri esclude
che un'apertura possa considerarsi veduta”.
- “la "porta-finestra" che consenta la "inspectio", ma non
la "prospectio", ossia lo sguardo frontale sul fondo del
vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non integra
veduta, sebbene permetta occasionalmente e fugacemente,
nel momento dell'uscita, la visione globale e mobile del
fondo alieno”.
---------------
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che impone la distanza
minima di dieci metri, deve osservarsi solo tra edifici
contrapposti ed anche se solo su uno di essi sono aperte le
finestre, essendo tale norma volta a stabilire
nell'interesse pubblico un'idonea intercapedine tra gli
edifici e non a salvaguardare l'interesse privato del
frontista alla riservatezza; mentre in caso di una parete
finestrata perpendicolare, la distanza va computata sulla
base dell'art. 907 c.c., che impone una distanza minima di
tre metri dalle vedute esistenti sul fondo del vicino.
Quanto al secondo profilo, occorre indagare ed accertare la
natura della porta-finestra ed in particolare se essa possa
definirsi “veduta” (come sostiene la ricorrente,
dedicando a tale qualificazione ampia parte del motivo di
ricorso) ovvero “luce”, atteso che solo in ipotesi di
veduta è applicabile l’invocato art. 907 c.c..
In punto di fatto, l’apertura in questione dà attualmente
accesso ad un solaio che non risulta munito, su tutti i
lati, di parapetto. Infatti, a seguito dell’ordinanza
collegiale del Tribunale di Bari del 28.11.2009, alla
originaria proprietaria dell’immobile dotato di
porta-finestra (dante causa dell’odierna ricorrente) è stato
ordinato di rimuovere la ringhiera apposta sul lastrico
(originariamente sprovvisto di parapetto su tutti i lati)
che, pertanto, è praticabile, dalla porta-finestra, in
totale mancanza di protezioni e presidi di sicurezza per chi
via acceda.
L’ordinanza in questione, peraltro, ha anche affermato che
l’apposizione della ringhiera ha determinato la
realizzazione di un’opera finalizzata all’esercizio di una
servitù di affaccio non preesistente e tale da turbare il
possesso della proprietà del lastrico.
Così ricostruita in fatto la situazione, deve escludersi,
per la porta-finestra, la natura di veduta atteso che essa è
sfornita di alcun parapetto che consenta di affacciare in
sicurezza sul lastrico altrui.
(“Si ha veduta quando è consentita non solo una
comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul
fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio",
cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per
poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore
nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di
normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza
l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto
dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera
stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere
oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e
lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da
poter esser visto dall'esterno. Per poter distinguere una
veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna
accertare, avuto riguardo non all'intenzione del
proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla
destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione,
normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce
all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la "prospectio"
sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un
inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale
peso. Non può sussistere veduta quando, pur essendo
possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non possa
attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli,
la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e
lateralmente sul fondo del vicino.” Tribunale Bari, sez.
I, del 18/01/2012, n. 201;
“Secondo l'uso corrente, che deve ritenersi recepito dal
legislatore nella definizione delle vedute (art. 900 c.c.),
l'espressione "affacciarsi" denota la posizione che
l'osservatore assume per potere, comodamente, senza pericolo
e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, vedere
obliquamente e lateralmente sul fondo altrui, tenendo il
petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello
massimo dell'opera stessa, sicché l'esistenza di un
parapetto alto soltanto cinquantacinque centimetri esclude
che un'apertura possa considerarsi veduta.”
(Cassazione civile sez. II, del 12/12/1980, n. 6403).
Ed ancora: “la "porta-finestra" che consenta la "inspectio",
ma non la "prospectio", ossia lo sguardo frontale sul fondo
del vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non
integra veduta, sebbene permetta occasionalmente e
fugacemente, nel momento dell'uscita, la visione globale e
mobile del fondo alieno.” Cassazione civile, sez. VI,
del 13/08/2014, n. 17950;).
Esclusa la natura di veduta per l’apertura in esame, deve
escludersi conseguentemente, l’applicabilità dell’art. 907
c.c. e della distanza legale di mt. 3 prescritta sia in
obliquo sia al di sotto delle vedute.
Parimenti infondate sono le ulteriori doglianze articolate
nell’unico motivo di ricorso.
Non risulta sussistente la violazione dell’art. 32 NTA (che
prescrive il distacco minimo dai confini di mt. 5) in quanto
tale disposizione, non vale, per sua espressa deroga, in
ipotesi di costruzione in aderenza (recita testualmente
l’art. 32 NTA: “distacco minimo dai confini (Dc)= 5 mt.
salvo aderenza”); ipotesi ricorrente nel caso in esame.
Parimenti è a dirsi per l’invocato rispetto dell’art. 9 D.M.
n. 1444/1968.
Deve rilevarsi, infatti, che l’edificio da realizzarsi non
ha alcuna parete frontistante con quella della ricorrente su
cui insiste la porta-finestra, pertanto, non può trovare
applicazione la disposizione invocata che riguarda le
costruzioni antistanti (“L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n.
1444, che impone la distanza minima di dieci metri, deve
osservarsi solo tra edifici contrapposti ed anche se solo su
uno di essi sono aperte le finestre, essendo tale norma
volta a stabilire nell'interesse pubblico un'idonea
intercapedine tra gli edifici e non a salvaguardare
l'interesse privato del frontista alla riservatezza; mentre
in caso di una parete finestrata perpendicolare, la distanza
va computata sulla base dell'art. 907 c.c., che impone una
distanza minima di tre metri dalle vedute esistenti sul
fondo del vicino” (Consiglio di Stato, sez. V, del
18/02/2003, n. 871 e TAR Genova (Liguria) sez. I ,
16/02/2005 n. 221)
(TAR Pugli-Bari, Sez. III,
sentenza 22.04.2015 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Devesi,
invero, evidenziare che la tettoia con profili in ferro e
copertura in vetro antisfondamento, realizzata dal
ricorrente a copertura della preesistente terrazza in
assenza del preventivo titolo edificatorio, è appoggiata a
dei sostegni imbullonati nel pavimento della terrazza stessa
e su un lato al muro dell’immobile a circa mt. 2,90 di
altezza, ha larghezza di metri 6,10, lunghezza di metri 5,60
e superficie di circa 30 metri quadri.
Trattasi, all’evidenza, di una tettoia di rilevanti
dimensioni, che ha comportato una modificazione della sagoma
e del prospetto dell’immobile, tale da produrre una
perdurante e visibile alterazione della parte di edificio su
cui è stata inserita e, in ogni caso, da accrescere
l’abitabilità dell’immobile di proprietà del ricorrente,
consentendovi lo svolgimento di varie attività della vita
quotidiana.
Non pare, quindi, potersi dubitare del fatto che tale
intervento -data la sua natura non precaria o pertinenziale-
fosse da assoggettare al previo rilascio del permesso di
costruire e a conseguente ingiunzione di demolizione in caso
di abusività, come, del resto, costantemente messo in
evidenza dalla giurisprudenza amministrativa, che, nel
tempo, ha avuto modo per l’appunto di chiarire la necessità
del permesso di costruire per l’esecuzione di strutture “le
cui dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile
alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui
vengono inserite; quando cioè per la loro consistenza
dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero
ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio
principale o della parte dello stesso cui accedono".
E’ stato, infatti, precisato che "gli interventi consistenti
nella installazione di tettoie o di altre strutture che
siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come
strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche
previste in un progetto assentito, possono ritenersi
sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove
la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono
evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro
o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) della parte dell'immobile cui accedono. Tali
strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza
permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite, quando quindi per la loro consistenza dimensionale
non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in
ragione della accessorietà, nell'edificio principale o nella
parte dello stesso cui accedono".
...
per l'annullamento, quanto al ricorso introduttivo, dell’ordinanza prot. P.G./E 0030637/2009 cod. ESP/8.i.2009
dd. 26.01.2010 recante ordine di rimozione o
demolizione di asserite opere abusive (segnatamente
consistenti in copertura di vetro su esistente terrazza
dell’unità immobiliare residenziale sia in via ... n. 109 e distinta al N.C.E.U. fg. 33, mapp. 12, sub
20) a firma del dirigente del Servizio Edilizia Privata del
Comune di Udine, notificata in data 11.02.2010;
...
Il ricorso e i motivi aggiunti
successivamente proposti non sono fondati.
Devesi, invero, evidenziare che la tettoia con profili in
ferro e copertura in vetro antisfondamento, realizzata dal
ricorrente a copertura della preesistente terrazza in
assenza del preventivo titolo edificatorio, è appoggiata a
dei sostegni imbullonati nel pavimento della terrazza stessa
e su un lato al muro dell’immobile a circa mt. 2,90 di
altezza, ha larghezza di metri 6,10, lunghezza di metri 5,60
e superficie di circa 30 metri quadri.
Trattasi, all’evidenza, di una tettoia di rilevanti
dimensioni, che ha comportato una modificazione della sagoma
e del prospetto dell’immobile, tale da produrre una
perdurante e visibile alterazione della parte di edificio su
cui è stata inserita e, in ogni caso, da accrescere
l’abitabilità dell’immobile di proprietà del ricorrente,
consentendovi lo svolgimento di varie attività della vita
quotidiana.
Non pare, quindi, potersi dubitare del fatto che tale
intervento -data la sua natura non precaria o pertinenziale- fosse da assoggettare al previo rilascio del permesso di
costruire e a conseguente ingiunzione di demolizione in caso
di abusività, come, del resto, costantemente messo in
evidenza dalla giurisprudenza amministrativa (in termini
C.d.S., V, 28.04.2014, n. 2196), che, nel tempo, ha
avuto modo per l’appunto di chiarire la necessità del
permesso di costruire per l’esecuzione di strutture “le cui
dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile
alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui
vengono inserite; quando cioè per la loro consistenza
dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero
ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio
principale o della parte dello stesso cui accedono" (TAR
Campania-Napoli, sez. VI, sent. 12.11.2010, n. 24047; in
questo senso anche TAR Calabria-Reggio Calabria, sez.
I, 23.08.2010, n. 915; TAR Campania-Napoli, sez. VI,
07.09.2009, n. 4899, sez. III, 19.01.2010, n. 195; sez. II,
29.01.2009, n. 492, id. 06.11.2008, n. 19292, ecc.).
E’ stato, infatti, precisato che "gli interventi consistenti
nella installazione di tettoie o di altre strutture che
siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come
strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche
previste in un progetto assentito, possono ritenersi
sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove
la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono
evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro
o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) della parte dell'immobile cui accedono. Tali
strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza
permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite, quando quindi per la loro consistenza dimensionale
non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in
ragione della accessorietà, nell'edificio principale o nella
parte dello stesso cui accedono" (TAR Campania-Napoli,
sez. II, sent. 02.12.2009, n. 8320; in questo senso anche
TAR Campania-Napoli, sez. II, 13.07.2009, n. 3870,
TAR Campania-Napoli, sez. IV, 18.11.2008, n. 19754,
Cons. St., sez. V, 13.03.2001, n. 1442).
Sulla scorta delle considerazioni dianzi svolte possono
venire, pertanto, pacificamente disattese le doglianze
svolte dal ricorrente col II, III e IV motivo del ricorso
introduttivo, essendo evidente che l’opera in concreto
realizzata ha modificato la sagoma della parte di edificio
cui accede, ha creato un nuovo spazio in termini di
superficie coperta, decisamente superiore a quella che, in
base all’art. 16, comma 1, lett. j), della l.r. 19/2009,
potrebbe consentire di ricondurre l’intervento alla cd.
attività edilizia libera. Necessitando, dunque, del previo
rilascio del permesso di costruire, soggiace alle misure
sanzionatorie stabilite dalla legge in caso di sua accertata
mancanza ovvero alla rimozione/demolizione
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 22.04.2015 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive
non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241
del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso
quale sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura
vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso
edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto,
ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere
ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera
di controllo; né si configurano particolari esigenze o
conseguenze connesse alla partecipazione procedimentale
dell’interessato.
L’abusività dell’intervento realizzato appalesa, inoltre, di
per sé l’infondatezza del I motivo di gravame.
Al di là del fatto, che, contrariamente a quanto affermato
dal ricorrente, risulta documentato che il medesimo ha
presenziato alle attività di controllo espletate dal
personale della Polizia Municipale e che può imputare solo
alla sua negligenza l’omessa (formale) conoscenza dell’avvio
del procedimento sanzionatorio, peraltro avviato con
tempestività dal Comune di Udine (vedi all. 2, 3 e 5 –
fascicolo doc. Comune), il Collegio ritiene che il vizio di
omessa comunicazione di avvio del procedimento non possa, in
ogni caso, inficiare la legittimità del provvedimento
impugnato.
Invero, pur avendo ritenuto in una recente pronuncia (TAR
FVG, I, 19.12.2014, n. 658) di poter trarre
dall’omesso invio di tale comunicazione argomenti a supporto
della fondatezza dell’impugnazione proposta avverso l’ordine
di demolizione di una pergotenda del tutto provvisoria e
aperta su tutti i lati, adibita a protezione stagionale
dalla pioggia e dal sole, questo Collegio ritiene che non
sussistono validi motivi (non essendo stati esplicitati
nemmeno nell’isolato revirement dianzi citato) per
abbandonare l’orientamento consolidato, a mente del quale
“l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve
essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990,
trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale
sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura
vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi
di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge
in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui
il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando nella propria sfera di controllo; né si
configurano particolari esigenze o conseguenze connesse alla
partecipazione procedimentale dell’interessato” (C.d.S. n.
2196/2014 cit.; in termini TAR FVG, I, n. 339/2013 e n.
498/2012)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 22.04.2015 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Valutazione dei dirigenti: diritto di accesso agli atti
dell'Organismo indipendente di valutazione
Sono ostensibili gli atti dell'OIV relativi alla valutazione
dei dirigenti allorquando gli stessi siano necessari per
poter adeguatamente tutelare la posizione giuridica
dell'istante, assunta come lesa dalle valutazioni negative
formulate dal medesimo organismo.
Il D.Lgs. 14/03/2013, n. 33 (recante il
“Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni”) all’art. 20,
rubricato “obbligo di pubblicazione dei dati relativi alla
valutazione della performance e alla distribuzione dei premi
al personale”, stabilisce che: <<Le pubbliche
amministrazioni pubblicano i dati relativi all'ammontare
complessivo dei premi collegati alla performance stanziati e
l'ammontare dei premi effettivamente distribuiti. Le
pubbliche amministrazioni pubblicano i dati relativi
all'entità del premio mediamente conseguibile dal personale
dirigenziale e non dirigenziale, i dati relativi alla
distribuzione del trattamento accessorio, in forma
aggregata, al fine di dare conto del livello di selettività
utilizzato nella distribuzione dei premi e degli incentivi,
nonché i dati relativi al grado di differenziazione
nell'utilizzo della premialità sia per i dirigenti sia per i
dipendenti>>.
L'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti
imposti dal d.lgs. 33 del 2013, ai sensi dell’art. 46 del
medesimo decreto legislativo, costituiscono elemento di
valutazione della responsabilità dirigenziale, nonché
eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine
dell'amministrazione e sono comunque valutati ai fini della
corresponsione della retribuzione di risultato e del
trattamento accessorio collegato alla performance
individuale dei responsabili.
Alla luce della richiamata normativa i dati relativi
all’ammontare delle risorse destinate al pagamento del
trattamento accessorio dei dirigenti, nonché i criteri di
valutazione utilizzati per il riparto dei fondi destinati
alle indennità di risultato dei dirigenti, sono soggetti ex
lege a pubblicazione, in ossequio al principio di
trasparenza “intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle
pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche” (art.
1, d.lgs. 33 del 2013).
Dall’attuale obbligo di pubblicazione e accessibilità totale
e generalizzata di tali dati, i quali sono soggetti
all’accesso civico per violazione degli obblighi di
trasparenza, consegue, a maggior ragione, che non possono
essere sottratti all’accesso degli interessati a norma
dell’art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241 i
documenti relativi all’ammontare delle risorse destinate al
pagamento del trattamento accessorio dei dirigenti, i
criteri di valutazione utilizzati per il riparto dei fondi
destinati alle indennità di risultato dei dirigenti, nonché
i documenti inerenti la valutazione dei dirigenti.
---------------
Né può essere invocato, al fine di escludere l’accesso alle
schede di valutazione dei dirigenti, il diritto alla
riservatezza dei dirigenti per quanto riguarda le
informazioni psico-attitudinali contenute in tali schede.
Secondo la disciplina generale dell’accesso ai documenti
amministrativi, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie rispetto a quelle alla riservatezza dei
soggetti terzi, ed in tal senso il dettato normativo
richiede che l’accesso sia garantito "comunque" a chi debba
acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura dei
propri interessi giuridicamente protetti (art. 24, comma 7,
l. n. 241/1990); la medesima norma, tuttavia, specifica con
molta chiarezza come non bastano esigenze di difesa
genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo
quest’ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di
tutela di interessi che si assumano lesi ed ammettendosi
solo nei limiti in cui sia "strettamente indispensabile" la
conoscenza di documenti, contenenti "dati sensibili e
giudiziari".
Secondo la consolidata e condivisibile giurisprudenza
amministrativa, nel caso in cui l’interesse ostensivo
dell’istante si contrapponga a quello alla riservatezza di
soggetti terzi, vale la regola enunciata dall’art. 24 comma
7 l. n. 241 del 1990, che determina la prevalenza delle
esigenze ostensive sulle esigenze di riservatezza di terzi
ove le prime siano funzionali alla difesa in giudizio delle
ragioni dell'istante; e tanto anche quando si tratti di
esigenze di riservatezza afferenti dati sensibili o
addirittura ultrasensibili della persona. Tuttavia, l’art.
24 comma 7 l. n. 241 del 1990, impone un’attenta valutazione
-da effettuare caso per caso- circa la stretta funzionalità
dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive
protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia,
attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi
coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango
costituzionale rispetto al diritto di difesa.
Applicando i principi esposti al caso di specie, il Collegio
ritiene che la conoscenza delle schede di valutazione dei
dirigenti, ivi compresi i giudizi psico-attitudinali, sia
strettamente funzionale e necessaria alla tutela
dell’interesse della ricorrente, dirigente amministrativo,
sottoposta a valutazione negativa dal competente organismo
indipendente, a conoscere le valutazioni del personale
dirigente, al fine di verificare i criteri seguiti
dall’organismo di valutazione e di sindacare l’incidenza
degli aspetti attitudinali negativi sul voto complessivo
attribuito dall’organismo indipendente di valutazione.
Sussiste, pertanto, il diritto di accesso dell’interessata a
conoscere gli atti dell’organismo di valutazione recanti le
valutazioni degli altri dirigenti, perché solo attraverso
l’accesso a tali atti, l’istante può tutelare in giudizio la
propria posizione giuridica soggettiva, asseritamente lesa
da giudizi negativi ricevuti dal medesimo organismo di
valutazione. Difatti attraverso l’esame delle schede
richieste l’istante può confrontare le valutazioni in esse
espresse con i propri giudizi e spiegare così le proprie
ragioni di censura avverso valutazioni dell’organismo di
valutazione, che eventualmente appaiano in evidente
discrepanza con i criteri di equità ed imparzialità, oltre
che con i criteri prefissati che soprassiedono alla
valutazione dei risultati conseguiti dai dirigenti.
Ritiene, pertanto, il Collegio che le esigenze defensionali
alla base dell'accesso sono da ritenere prevalenti sulla
tutela della riservatezza e pertanto il diritto di accesso
alle schede di valutazione degli altri dirigenti non può
essere negato sul presupposto che verrebbe violato il loro
diritto alla riservatezza di dati psicoattitudinali sia
perché depone, in senso contrario, l’art. 24, comma 7, della
legge n. 241 del 1990 sia perché un eventuale improprio
utilizzo delle schede da parte dell'interessato-ricorrente
può adeguatamente essere tutelato dall'ordinamento.
... per l'annullamento del provvedimento 14.05.2014, n.
30330, di rigetto dell'istanza presentata dalla ricorrente
per l'accesso ai seguenti documenti: verbali di riunione
dell'organismo indipendente di valutazione per le attività
di valutazione dei dirigenti per gli anni 2010, 2011, 2012 e
2013; schede di valutazione di tutto il personale dirigente;
indicazione dell’entità del fondo per l’indennità di
risultato e il piano di riparto dello stesso per le
annualità sopra indicate;
...
5.- Il ricorso è fondato.
5.1.- Il D.Lgs. 14/03/2013, n. 33 (recante il “Riordino
della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni”) all’art. 20, rubricato “obbligo
di pubblicazione dei dati relativi alla valutazione della
performance e alla distribuzione dei premi al personale”,
stabilisce che: <<Le pubbliche amministrazioni pubblicano
i dati relativi all'ammontare complessivo dei premi
collegati alla performance stanziati e l'ammontare dei premi
effettivamente distribuiti. Le pubbliche amministrazioni
pubblicano i dati relativi all'entità del premio mediamente
conseguibile dal personale dirigenziale e non dirigenziale,
i dati relativi alla distribuzione del trattamento
accessorio, in forma aggregata, al fine di dare conto del
livello di selettività utilizzato nella distribuzione dei
premi e degli incentivi, nonché i dati relativi al grado di
differenziazione nell'utilizzo della premialità sia per i
dirigenti sia per i dipendenti>>.
L'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti
imposti dal d.lgs. 33 del 2013, ai sensi dell’art. 46 del
medesimo decreto legislativo, costituiscono elemento di
valutazione della responsabilità dirigenziale, nonché
eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine
dell'amministrazione e sono comunque valutati ai fini della
corresponsione della retribuzione di risultato e del
trattamento accessorio collegato alla performance
individuale dei responsabili.
Alla luce della richiamata normativa i dati relativi
all’ammontare delle risorse destinate al pagamento del
trattamento accessorio dei dirigenti, nonché i criteri di
valutazione utilizzati per il riparto dei fondi destinati
alle indennità di risultato dei dirigenti, sono soggetti
ex lege a pubblicazione, in ossequio al principio di
trasparenza “intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle
pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”
(art. 1, d.lgs. 33 del 2013).
Dall’attuale obbligo di pubblicazione e accessibilità totale
e generalizzata di tali dati, i quali sono soggetti
all’accesso civico per violazione degli obblighi di
trasparenza, consegue, a maggior ragione, che non possono
essere sottratti all’accesso degli interessati a norma
dell’art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241 i
documenti relativi all’ammontare delle risorse destinate al
pagamento del trattamento accessorio dei dirigenti, i
criteri di valutazione utilizzati per il riparto dei fondi
destinati alle indennità di risultato dei dirigenti, nonché
i documenti inerenti la valutazione dei dirigenti.
5.2.- Né può essere invocato, al fine di escludere l’accesso
alle schede di valutazione dei dirigenti, il diritto alla
riservatezza dei dirigenti per quanto riguarda le
informazioni psico-attitudinali contenute in tali schede.
Secondo la disciplina generale dell’accesso ai documenti
amministrativi, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie rispetto a quelle alla riservatezza dei
soggetti terzi, ed in tal senso il dettato normativo
richiede che l’accesso sia garantito "comunque" a chi
debba acquisire la conoscenza di determinati atti per la
cura dei propri interessi giuridicamente protetti (art. 24,
comma 7, l. n. 241/1990); la medesima norma, tuttavia,
specifica con molta chiarezza come non bastano esigenze di
difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva
necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed
ammettendosi solo nei limiti in cui sia "strettamente
indispensabile" la conoscenza di documenti, contenenti "dati
sensibili e giudiziari".
Secondo la consolidata e condivisibile giurisprudenza
amministrativa, nel caso in cui l’interesse ostensivo
dell’istante si contrapponga a quello alla riservatezza di
soggetti terzi, vale la regola enunciata dall’art. 24 comma
7 l. n. 241 del 1990, che determina la prevalenza delle
esigenze ostensive sulle esigenze di riservatezza di terzi
ove le prime siano funzionali alla difesa in giudizio delle
ragioni dell'istante; e tanto anche quando si tratti di
esigenze di riservatezza afferenti dati sensibili o
addirittura ultrasensibili della persona. Tuttavia, l’art.
24 comma 7 l. n. 241 del 1990, impone un’attenta valutazione
-da effettuare caso per caso- circa la stretta funzionalità
dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive
protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia,
attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi
coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango
costituzionale rispetto al diritto di difesa (Consiglio di
Stato sez. III 05.06.2012 n. 3310; Consiglio di Stato sez.
VI 20.11.2013 n. 5515; Consiglio di Stato sez. VI 28.09.2012
n. 5153).
Applicando i principi esposti al caso di specie, il Collegio
ritiene che la conoscenza delle schede di valutazione dei
dirigenti, ivi compresi i giudizi psico-attitudinali, sia
strettamente funzionale e necessaria alla tutela
dell’interesse della ricorrente, dirigente amministrativo,
sottoposta a valutazione negativa dal competente organismo
indipendente, a conoscere le valutazioni del personale
dirigente, al fine di verificare i criteri seguiti
dall’organismo di valutazione e di sindacare l’incidenza
degli aspetti attitudinali negativi sul voto complessivo
attribuito dall’organismo indipendente di valutazione.
Sussiste, pertanto, il diritto di accesso dell’interessata a
conoscere gli atti dell’organismo di valutazione recanti le
valutazioni degli altri dirigenti, perché solo attraverso
l’accesso a tali atti, l’istante può tutelare in giudizio la
propria posizione giuridica soggettiva, asseritamente lesa
da giudizi negativi ricevuti dal medesimo organismo di
valutazione. Difatti attraverso l’esame delle schede
richieste l’istante può confrontare le valutazioni in esse
espresse con i propri giudizi e spiegare così le proprie
ragioni di censura avverso valutazioni dell’organismo di
valutazione, che eventualmente appaiano in evidente
discrepanza con i criteri di equità ed imparzialità, oltre
che con i criteri prefissati che soprassiedono alla
valutazione dei risultati conseguiti dai dirigenti.
Ritiene, pertanto, il Collegio che le esigenze defensionali
alla base dell'accesso sono da ritenere prevalenti sulla
tutela della riservatezza e pertanto il diritto di accesso
alle schede di valutazione degli altri dirigenti non può
essere negato sul presupposto che verrebbe violato il loro
diritto alla riservatezza di dati psicoattitudinali sia
perché depone, in senso contrario, l’art. 24, comma 7, della
legge n. 241 del 1990 sia perché un eventuale improprio
utilizzo delle schede da parte dell'interessato-ricorrente
può adeguatamente essere tutelato dall'ordinamento.
6.- Alla luce di tutte le considerazioni svolte il ricorso
merita accoglimento, con conseguente obbligo
dell’Amministrazione provinciale di consentire l’accesso ai
documenti richiesti (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 16.04.2015 n. 288 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sottotetti con rischio di carico. Oltre al cambio
di destinazione d’uso serve il rispetto delle norme
antisismiche.
Ristrutturazioni. Valutazioni approfondite sulla staticità
con progetto firmato da un tecnico per evitare le sanzioni
penali.
Lavori a rischio nei sottotetti, per
il cumulo di norme edilizie, sul cemento armato e zone
sismiche.
Lo sottolinea, da ultimo, la Corte di Cassazione -Sez. III
penale- con la
sentenza 15.04.2015 n. 15429, che sanziona la
posa in opera di un parquet, di un radiatore, di infissi,
serramenti e servizi igienici su impianti di scarico già
esistenti. I lavori erano avvenuti nel sottotetto di un
Comune del Salernitano, in zona sismica, senza essere
preceduti né da comunicazioni, né da adeguate progettazioni.
L’errore che ha causato la condanna penale scaturisce da una
lettura semplificata del recupero dei sottotetti, con meri
cambi di destinazione, trascurando l’insidia rappresentata
dalla portata dei solai. Un sottotetto può, ad esempio,
sopportare 80 kg per mq, mentre il pavimento di una
residenza sopporta fino a 250 chili per mq. Questa rilevante
differenza dovrebbe essere tenuta presente sempre, anche
indipendentemente da divieti e sanzioni penali che scattano
quando l’edificio è in cemento armato o in zona sismica.
I sottotetti sono quindi solo in apparenza agevolmente
trasformabili e non deve indurre ad interventi affrettati la
giurisprudenza che tollera, nel sottotetto, la presenza di
mobilio (Tar Brescia, sentenza n. 40/2004, Consiglio di
Stato, 2586/2003), o quella che esige un titolo edilizio
solo qualora vi si realizzino luci, vedute, gas, acqua,
telefono ed impianti fognari (Consiglio di Stato, sentenza
1071/1995).
Inoltre, per usare un sottotetto non basta invocare lo “sblocca
Italia” (Dl 133/2013, convertito nella legge 164/2014),
che consente sempre i cambi di destinazione all’interno di
una stessa categoria funzionale. Non ha infatti rilievo la
circostanza che il sottotetto, in un edificio di abitazione,
appartenga ad un’omogenea categoria di «residenze»
(Consiglio di Stato, sentenza 357/2015).
L’esigenza di recupero dei sottotetti ha indotto molte
Regioni a legiferare ma nemmeno le leggi regionali liberano
dalle verifiche statiche, indispensabili, quando vi è
cemento armato o sismicità. Le prime incomprensioni che
sorgono in materia riguardano la terminologia, poiché le
norme tecniche usano il termine «riparazioni»
(articoli 17-19 legge 64/1974 sul cemento armato), mentre le
norme urbanistiche sembrano di più facile applicazione,
parlando di «manutenzioni» e di «ristrutturazioni».
Ma quando si è in zona sismica o si utilizza il cemento
armato, prevalgono le norme tecniche. Tra queste vi è il Dm
infrastrutture 14.01.2008, che distingue tra interventi
strutturali o non strutturali e secondo cui ogni modifica di
destinazione d’uso da sottotetto a vano abitabile, va
classificata come ristrutturazione edilizia quando variano
in modo significativo carichi e classe d’uso dell’immobile.
Anche le Regioni hanno voce in capitolo, poiché spetta loro
individuare le “parti strutturali” di edifici su cui
si può intervenire solo rispettando le norme sismiche e sul
cemento armato. Intervento strutturale può essere, ad
esempio, l’apertura di un passaggio da un piano residenziale
al sottotetto è soggetta ad asseverazioni ed elaborati
grafici , in aggiunta al necessario titolo edilizio (Tar
Catanzaro, sentenza 125/2006).
In caso di errori o omissioni, i controlli sono affidati ai
Comuni, ad esempio utilizzando l’articolo 32 del Dpr
380/2001 (Tu edilizia), che qualifica come variante
essenziale il mero cambio di destinazione in contrasto con
la normativa sul cemento armato e sulle zone sismiche,
imponendo il permesso di costruire. Se manca il permesso di
costruire, vi sono sanzioni ripristinatorie (demolizione)
oltre che penali. La violazione di norme penali sul cemento
armato o le zone sismiche è considerata un reato permanente,
che cessa solo con il rispetto delle procedure e delle
valutazioni che escludano rischi.
---------------
In bilico anche i vecchi recuperi.
Il passato. Quando si è intervenuti con modifiche
strutturali.
Anche il recupero
dei sottotetti senza cemento armato o in epoche precedenti
il vincolo sismico, può comunque riservare sorprese. In
questi casi la modifica dell’uso dei sottotetti sembra possa
rimanere nell’ambito delle opere di manutenzione o
addirittura dei cambi di destinazione senza opere, ma vi è
il diritto degli acquirenti e inquilini di ottenere
controlli sulla qualità dell’immobile che intendono
acquistare o abitare. Basta infatti una libreria, un
tramezzo fuori posto o una vasca idromassaggio per generare
forti rischi ed incidere sull’utilizzabilità del bene.
Stesso controllo possono chiedere i condomini, per i
potenziali danni a strutture comuni. Utilizzando il
parametro delle «riparazioni» che incidono sui
carichi, si può infatti sostenere, anche senza che sia
utilizzato il cemento armato ed anche per modifiche
anteriori la sismicità, l’esistenza di rischi. Di qui
l’importanza della
sentenza 15.04.2015 n. 15429
della Corte di Cassazione, che colloca l’esecuzione di
elementi di apparente mera manutenzione quali un parquet, un
radiatore, infissi e serramenti, tra le «riparazioni»
(articoli 17-19 legge 64 del 1974) al di fuori della
manutenzione ordinaria.
Gli elementi da tener presenti per rendersi conto della
necessità di approfondimenti possono essere vari: il mancato
o tardivo allineamento catastale (Dl 78/2010), l’esistenza
di una mera comunicazione di inizio attività o di una Scia
per modifiche interne, l’assenza di un progetto di un
ingegnere o di un architetto. In questi casi, anche
modifiche poco significative sulle strutture orizzontali
(quali la realizzazione di due finestre, Cassazione,
sentenza 6460/2010), devono generare una valutazione sulla
sicurezza.
Il parametro di maggior cautela è quello della distinzione
tra opere strutturali o non strutturali (Dm Infrastrutture
14.01.2008). Tale norma colloca ogni modifica di
destinazione d’uso da sottotetto a vano abitabile, tra le
ristrutturazioni edilizie (e non tra le manutenzioni
ordinarie), tutte le volte che vi sia una variazione
significativa dei carichi variabili o della classe d’uso
della costruzione.
--------------
Sul territorio oneri urbanistici a costi
variabili. Gli altri fattori. Incentivi o penalizzazioni
locali.
Il recupero del
sottotetto è, di norma, catalogato nella categoria delle
ristrutturazioni edilizie. Il cittadino che decide di
mettere mano alla propria casa, dando nuova vita alla
mansarda inutilizzata, dovrà dunque far fronte a due tipi di
oneri: quelli di urbanizzazione primaria e secondaria (che
coprono una quota dei servizi comunali, dalle reti alle
tubature, dalla presenza di scuole e biblioteche) oltre al
costo vero e proprio di costruzione.
Non mancano, tuttavia, le eccezioni. In senso restrittivo
(più tasse per chi recupera) o di segno contrario (per
incentivare il minor consumo di suolo).
Va nella prima direzione la scelta di Lazio e Lombardia. Su
questi territori la norma regionale permette ai Comuni di
decidere se deliberare o meno un incremento del costo
urbanistico, fino a un massimo del 20 per cento. Ancora più
stringente la posizione della Sicilia: qui, oltre al
contributo di costruzione, è dovuta una somma pari al 20%
del valore catastale incrementato a seguito dell'aumento di
superficie. In Abruzzo, ancora, la legge prevede il
raddoppio dei soli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria.
Scelta di segno opposto quella di alcune regioni del
Nordovest, che invece incentivano il recupero anche sotto il
profilo economico con l’obiettivo di limitare la nuova
edificazione. In Piemonte il contributo può, infatti, essere
ridotto della metà se, nel recupero del sottotetto, non è
prevista la realizzazione di un’unità immobiliare autonoma
ed è trascritta una dichiarazione notarile di pertinenza dei
locali all’abitazione principale.
Stessa norma in Liguria, applicata anche nel caso in cui
venga recuperato un alloggio a destinazione popolare o
turistica.
Per ciò che riguarda, invece, l’osservanza della norma
nazionale che, in presenza di una nuova costruzione,
prescrive uno standard di destinazione di spazi a parcheggi
in misura pari a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione,
questa regola è riportata tout court solo dalla legge
dell’Emilia Romagna, che precisa anche la possibilità per i
Comuni di monetizzare la mancata disponibilità degli spazi.
Buona parte delle altre regioni (Abruzzo, Lazio, Liguria,
Lombardia, Molise, Piemonte e Puglia) prevede che gli spazi
siano reperiti o monetizzati solo se viene realizzata nel
sottotetto un’unità immobiliare autonoma.
La Liguria, a tal proposito, precisa anche, nella nuova
legge, che la superficie dello spazio destinato alle auto
non deve essere inferiore a 12,50 metri quadrati e su tale
parametro deve essere calcolata anche l’eventuale
corresponsione della quota parcheggi non disponibile con il
versamento di soldi alla Città. Infine, in Veneto il
rispetto dello standard è richiesto solo se il consiglio
comunale lo pretende con delibera mentre in Basilicata e
Calabria soltanto se la mansarda resa abitabile supera
rispettivamente il 15% o il 25% del volume dell’intero
edificio.
---------------
Riutilizzo facilitato per altezze e
vedute in diciotto Regioni. Le deroghe. Norme più
permissive.
I restyling più recenti delle leggi regionali sul recupero
dei sottotetti sono quelli della Liguria e delle Marche. La
prima Regione, con la legge 30/2014, ha riscritto buona
parte della precedente disciplina, in vigore da oltre 13
anni (Lr 24/2001), ma ridotta alla semi-paralisi dalla
mancanza di una direzione chiara (ora introdotta) che
superasse la troppa giurisprudenza prodotta, specie nel
savonese, sulle modalità di rilascio dei permessi. Le Marche
hanno invece affidato alla legge sulla semplificazione
edilizia (la n. 17/2015), il compito di rinnovare i
contenuti di una disciplina ferma al 2010, aggiornando il
parco edifici su cui si può intervenire dando nuova vita
alle mansarde (tutti quelli esistenti al 30.06.2014) e
ritoccando altezze minime e rapporti di aero/illuminazione.
Al di là delle modifiche più recenti, dal Sud al Nord
Italia, quasi ovunque, le Regioni hanno in vigore regole per
il recupero, a fini abitativi (e non solo), dei sottotetti
in fabbricati esistenti.
La prima Giunta a muoversi in tal senso, in Italia, è stata
la Lombardia. Poi, a poco a poco, si sono aggiunti altri
casi: oggi i territori che hanno leggi specifiche sono 18. A
questi si aggiungono la Valle d’Aosta (con norme nella legge
urbanistica) e la Provincia di Bolzano (con una delibera)
con cui si dettano regole per agevolare l’abitabilità delle
soffitte (si veda la tabella). Inoltre, pur mancando una
normativa strutturata, qualche eccezione ai limiti
urbanistici relativi alle altezze per consentire il recupero
delle mansarde è presente anche in Provincia di Trento (Dpgp
2330/2003, Dgr 28/2003 e la legge 23/1981 sui servizi
alberghieri).
La maggior parte delle leggi regionali approvate riguarda
sottotetti in edifici realizzati a una certa data prefissata
(che è stata aggiornata nel tempo, con modifiche alla legge
madre). Diversi gli elementi in comune. Primo fra tutti, la
decisione di ammorbidire i rigidi requisiti di abitabilità
prescritti dalle norme statali (legge 457/1978 e Dm Sanità
05.07.1975), che fissano l’altezza media necessaria per il
recupero a 2,7 metri e il rapporto tra le finestre e il
pavimento delle stanze a 1/8.
In genere, nelle discipline locali, ci si accontenta di
un’altezza media di 2,4 metri, ma non manca chi ne richiede
solo 2,2 metri (come la Calabria, la Campania o il Molise) o
addirittura 2 metri (il Lazio) e 1,9 metri (il Friuli). Così
il rapporto di aero-illuminazione scende a 1/10 (Molise), a
1/12 (Marche), a 1/15 (a Bolzano e in Calabria), a 1/16 (in
Emilia Romagna e Liguria, ma non solo), addirittura a 1/32
nei centri storici della Vallée.
Rispetto alle misure minime, sono in genere agevolati i
comuni delle zone montane: anche se il concetto di “montano”
varia da regione a regione, da un minimo di 300 metri fino a
1.100 metri. Fanno eccezione a questa regola la Basilicata,
la provincia di Bolzano, la Sicilia, l’Umbria e (dopo
l’ultima revisione) anche la Liguria.
Altro tratto simile è che il recupero del sottotetto deve
avvenire a fini abitativi. In Liguria, però, è ammesso anche
l’uso a fini turistici-ricettivi mentre in Umbria si amplia
al terziario e al direzionale e in Valle d’Aosta sono
agevolate tutte le destinazioni. Per consentire il riuso del
solaio non è infrequente anche la concessione di deroghe
alle norme previste per le nuove costruzioni e
l’abbattimento delle barriere architettoniche.
Se viene, infine, concessa spesso l’apertura di finestre e
lucernari per assicurare l’osservanza dei requisiti di
aero-illuminazione, quasi ovunque è invece esclusa la
possibilità di sopraelevazione e la modifica delle pendenze
dei tetti (mentre a volte è consentito l’abbassamento dei
soffitti dei locali sottostanti per recuperare spazio,
purché si preservi un minimo di 2,7 metri di altezza).
Fanno eccezione sette territori: Lombardia, Liguria, Umbria,
Lazio, Sardegna, Friuli ed Emilia Romagna che danno diritto
al sopralzo, ma solo allo scopo di raggiungere i parametri
di altezza minima per l’abitabilità. In Valle d’Aosta questa
deroga è consentita solo nei centri storici (articolo Il Sole 24 Ore del
25.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Qualsiasi
intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno
l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio amato,
diverso dalla semplice manutenzione ordinaria, deve essere
previamente denunciato al competente ufficio al fine di
consentire i preventivi controlli e necessita del rilascio
del preventivo titolo abilitativo, conseguendone, in
difetto, la violazione dell'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380.
Invero, la normativa antisismica non distingue tra opere
interne ed opere esterne, ma prescrive il controllo di
qualsiasi costruzione, riparazione o sopraelevazione. La
giurisprudenza di questa corte nel concetto di costruzione,
sotto il vigore della disciplina previgente, faceva
rientrare qualsiasi opera a prescindere dal titolo
abilitativo richiesto (concessione o autorizzazione) e dalle
sue caratteristiche o dimensioni e ciò al fine di consentire
il controllo preventivo e documentale dell'attività edile
eseguita in zone sismiche.
La vigilanza sull'attività edilizia nei comuni considerati
sismici si affianca a quella ordinaria basata sul rilascio
di un titolo abilitativo conforme alle prescrizioni
urbanistiche ed edilizie. Nelle zone sismiche l'attività
edilizia è quindi soggetta ad un duplice controllo: a
quello operato dall'ufficio tecnico regionale, riguardante
la sicurezza delle costruzioni rispetto ai fenomeni sismici,
ed a quello dell'autorità comunale, attinente all'osservanza
degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi.
Quindi, sia in base alla disciplina attuale, che a quella
previgente, qualsiasi intervento edilizio, fatta eccezione
per quelli di semplice manutenzione ordinaria, se eseguito
in zona sismica deve essere preventivamente denunciato
all'ufficio tecnico ai fine di consentire i dovuti controlli
in merito al rispetto della disciplina vigente in materia di
costruzione in zone sismiche.
---------------
La modifica della destinazione d'uso del locale sottotetto
in un vano abitabile non può essere considerata alla stregua
di un intervento di manutenzione ordinaria perché si tratta
di un intervento di ristrutturazione edilizia, in questo
caso con opere (messa in opera di parquet, apposizione di un
radiatore, installazione di infissi e serramenti,
apposizione di servizi igienici in costanza di impianti di
scarico ancorché già esistenti).
Va peraltro aggiunto che il D.M. Ministero delle
Infrastrutture del 14/01/2008 - Approvazione delle nuove
norme tecniche per le costruzioni in cemento armato ed in
zone sismiche, disciplina espressamente (capitolo 8) gli
interventi non dichiaratamente strutturali effettuati su
edifici esistenti, prescrivendo (paragrafo 8.3) che «le
costruzioni esistenti devono essere sottoposte a valutazione
della sicurezza quando ricorra anche una delle seguenti
situazioni: (...) cambio della destinazione d'uso della
costruzione o di parti di essa, con variazione significativa
dei carichi variabili e/o della classe d'uso della
costruzione».
Sottotetti ed ambienti residenziali hanno carichi variabili
diversi (capitolo 3, paragrafo 3.1.4); ne consegue che la
trasformazione del vano sottotetto non abitabile in ambiente
residenziale comporta sempre la necessaria valutazione di
sicurezza, con conseguente divieto di iniziare i lavori
senza l'autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della regione.
3. Qualsiasi intervento edilizio in zona sismica,
comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato
cementizio amato, diverso dalla semplice manutenzione
ordinaria, deve essere previamente denunciato al competente
ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e
necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo,
conseguendone, in difetto, la violazione dell'art. 95 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Sez. 3, 34604 del 17/06/2010;
cfr., altresì, Sez. 3, n. 45958 del 26/10/2005, che ha
condivisiblmente affermato che <<la normativa antisismica
non distingue tra opere interne ed opere esterne, ma
prescrive il controllo di qualsiasi costruzione, riparazione
o sopraelevazione. La giurisprudenza di questa corte nel
concetto di costruzione, sotto il vigore della disciplina
previgente, faceva rientrare qualsiasi opera a prescindere
dal titolo abilitativo richiesto (concessione o
autorizzazione) e dalle sue caratteristiche o dimensioni e
ciò al fine di consentire il controllo preventivo e
documentale dell'attività edile eseguita in zone sismiche
(Cass. n. 10640 del 1985; 21.07.1992 n. 8140; Cass. Sez. 3,
n. 7353 del 1995; 02.06.1999 n. 6923). La vigilanza
sull'attività edilizia nei comuni considerati sismici si
affianca a quella ordinaria basata sul rilascio di un titolo
abilitativo conforme alle prescrizioni urbanistiche ed
edilizie. Nelle zone sismiche l'attività edilizia è quindi
soggetta ad un duplice controllo: a quello operato
dall'ufficio tecnico regionale, riguardante la sicurezza
delle costruzioni rispetto ai fenomeni sismici, ed a quello
dell'autorità comunale, attinente all'osservanza degli
strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi. Quindi, sia
in base alla disciplina attuale, che a quella previgente,
qualsiasi intervento edilizio, fatta eccezione per quelli di
semplice manutenzione ordinaria, se eseguito in zona sismica
deve essere preventivamente denunciato all'ufficio tecnico
ai fine di consentire i dovuti controlli in merito al
rispetto della disciplina vigente in materia di costruzione
in zone sismiche>>).
La modifica della destinazione d'uso del locale sottotetto
in un vano abitabile non può essere considerata alla stregua
di un intervento di manutenzione ordinaria perché si tratta
di un intervento di ristrutturazione edilizia, in questo
caso con opere (messa in opera di parquet, apposizione di un
radiatore, installazione di infissi e serramenti,
apposizione di servizi igienici in costanza di impianti di
scarico ancorché già esistenti).
Va peraltro aggiunto che il D.M. Ministero delle
Infrastrutture del 14/01/2008 - Approvazione delle nuove
norme tecniche per le costruzioni in cemento armato ed in
zone sismiche (Pubblicato nella Gazz. Uff. 04.02.2008, n.
29, S.O.), disciplina espressamente (capitolo 8) gli
interventi non dichiaratamente strutturali effettuati su
edifici esistenti, prescrivendo (paragrafo 8.3) che «le
costruzioni esistenti devono essere sottoposte a valutazione
della sicurezza quando ricorra anche una delle seguenti
situazioni: (...) cambio della destinazione d'uso della
costruzione o di parti di essa, con variazione significativa
dei carichi variabili e/o della classe d'uso della
costruzione».
Sottotetti ed ambienti residenziali hanno carichi variabili
diversi (capitolo 3, paragrafo 3.1.4); ne consegue che la
trasformazione del vano sottotetto non abitabile in ambiente
residenziale comporta sempre la necessaria valutazione di
sicurezza, con conseguente divieto di iniziare i lavori
senza l'autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della regione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.04.2015 n. 15429). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come già ricordato da questa Sezione, per effetto
dell'art. 19, ultimo comma, della L. n. 241 del 1990, in
caso di presentazione di una DIA o di una SCIA (segnalazione
certificata di inizio attività), reputate illegittime, i
soggetti che si considerano lesi dall'attività edilizia
possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia di quest'ultima,
esperire "esclusivamente", l'azione contro il silenzio della
Pubblica Amministrazione di cui all'art. 31 del c.p.a..
Avendo questa Sezione già in precedenza affermato che la
disposizione di cui al citato art. 19 vieta sostanzialmente
l'impugnazione diretta della DIA o della SCIA -non
costituenti provvedimenti amministrativi, neppure impliciti-
ma consente la sola tutela giurisdizionale secondo il citato
meccanismo di cui all'art. 31 c.p.a.; mentre, l’art. 133,
comma 1, lett. a) n. 3, in tema di giurisdizione esclusiva,
a chiusura del sistema dei rimedi esperibili dal terzo
pregiudicato dalla D.I.A., implicitamente ammette
l’impugnazione dei “provvedimenti espressi adottati in sede
di verifica di segnalazione certificata, denuncia e
dichiarazione d’inizio attività”.
Neppure sussistono i presupposti per dichiarare l’obbligo
del Comune di ordinare il ripristino dei luoghi e la
demolizione della nuova costruzione, residuando, al di là
del portato motivazionale della presente sentenza, ancora
margini di esercizio della discrezionalità da parte del
Comune, insiti nella decisione sull’annullamento in
autotutela della DIA; tenuto conto, che nel caso di specie
gli interessi dei destinatari debbono ricevere adeguata
considerazione, accanto all’interesse pubblico, essendo
stata ultimata la costruzione del nuovo edificio.
4. Deve, invece, essere dichiarata inammissibile la domanda
di accertamento della illegittimità/inefficacia della DIA
del 22.10.2012 e della successiva SCIA del 02.07.2013.
Come già ricordato da questa Sezione con la sentenza n. 233
del 17.02.2013, resa nel precedente giudizio sul
silenzio, infatti, per effetto dell'art. 19, ultimo comma,
della L. n. 241 del 1990, in caso di presentazione di una
DIA o di una SCIA (segnalazione certificata di inizio
attività), reputate illegittime, i soggetti che si
considerano lesi dall'attività edilizia possono sollecitare
l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e,
in caso di inerzia di quest'ultima, esperire
"esclusivamente", l'azione contro il silenzio della Pubblica
Amministrazione di cui all'art. 31 del c.p.a..
Avendo
questa Sezione già in precedenza affermato che la
disposizione di cui al citato art. 19 vieta sostanzialmente
l'impugnazione diretta della DIA o della SCIA -non
costituenti provvedimenti amministrativi, neppure impliciti- ma consente la sola tutela giurisdizionale secondo il
citato meccanismo di cui all'art. 31 c.p.a. (cfr. Sez. II:
05.03.2012, n. 298; 15.02.2013, n. 230); mentre,
l’art. 133, comma 1, lett. a) n. 3, in tema di giurisdizione
esclusiva, a chiusura del sistema dei rimedi esperibili dal
terzo pregiudicato dalla D.I.A., implicitamente ammette
l’impugnazione dei “provvedimenti espressi adottati in sede
di verifica di segnalazione certificata, denuncia e
dichiarazione d’inizio attività”.
Quello appena descritto è
d’altra parte il percorso seguito dai ricorrenti, che hanno
prima reagito giudizialmente al silenzio della P.A.,
ottenendo la condanna di quest’ultima a provvedere sulla
loro diffida, e poi hanno impugnato il provvedimento del 23.04.2014 di diniego di autotutela.
5. Neppure sussistono i presupposti per dichiarare l’obbligo
del Comune di Vicenza di ordinare il ripristino dei luoghi e
la demolizione della nuova costruzione, residuando, al di là
del portato motivazionale della presente sentenza, ancora
margini di esercizio della discrezionalità da parte del
Comune, insiti nella decisione sull’annullamento in
autotutela della DIA; tenuto conto, che nel caso di specie
gli interessi dei destinatari debbono ricevere adeguata
considerazione, accanto all’interesse pubblico, essendo
stata ultimata la costruzione del nuovo edificio.
Inoltre, non risulta che nel caso in esame siano state poste
in essere falsità progettuali tali da legittimare un
vincolato intervento sanzionatorio, venendo in rilievo, come
testimoniato dalla presente motivazione, solo questioni
interpretative di norme legislative e regolamentari
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.04.2015 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi/Tar Sicilia. La tassa tardiva non
esclude dalla graduatoria.
Torna in graduatoria nel concorso pubblico il candidato
escluso perché non aveva pagato in tempo la tassa. E ciò
perché il contributo richiesto per accedere alla selezione è
solo il corrispettivo del servizio reso e non investe il
profilo dei requisiti soggettivi per partecipare al bando.
Lo precisa il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, con la
sentenza 26.03.2015 n. 752.
Si ritrova in gara per due dottorati universitari
l'ingegnere che ha avuto molte difficoltà a pagare la tassa
di partecipazione alla tornata concorsuale, a causa di
Internet che fa le bizze: solo il vecchio e caro sportello
dell'Ateneo riesce a risolvere telefonicamente il problema e
a fare ammettere con riserva il laureato alla selezione
(consigliandogli di pagare il bollettino sotto forma di «tassa
universitaria»).
Ora l'interessato riesce a far annullare la parte del bando
in base alla quale è stata decisa la sua esclusione. In
effetti il versamento del contributo risulta comunque
avvenuto prima della prova: si tratta di una mera
irregolarità che ben può essere sanata dal momento che non
altera la par condicio fra i partecipanti alla procedura.
La sanzione dell'esclusione è sproporzionata rispetto agli
scopi che la clausola del bando intendeva perseguire. Né
l'esclusione concorre alla realizzazione dell'interesse
pubblico ex articolo 97 della Costituzione, che afferma il
principio del buon andamento della pubblica amministrazione.
L'Università è condannata a pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 28.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
osservato dalla costante giurisprudenza, la circostanza che
dal punto di vista meramente pubblicistico un intervento sia
consentito, non esclude che ad esso ostino ragioni operanti
sul diverso piano dei rapporti tra privati e che
l’amministrazione nell’esercizio del potere decisionale ne
debba tener conto ove queste vengano portate alla sua
attenzione.
---------------
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, la
comunicazione del preavviso di rigetto non è applicabile
alla D.I.A./S.C.I.A., in relazione alla particolare natura
di tale procedimento, nel quale l'Amministrazione può
intervenire in un arco temporale ristretto.
Ritenuto che:
-
il ricorso sia infondato;
-
ed infatti, con riferimento al primo motivo, l’intervento
sopra descritto, insistendo su di uno spazio vuoto
soprastante la proprietà comune e su di un muro
condominiali, richiedeva l’assenso dell’effettivo
proprietario di tali beni, ovvero del Consorzio di Gestione
“I borghi di Garda Resort Village”, come rilevato dal Comune
di Peschiera del Garda in entrambi i provvedimenti
impugnati;
-
peraltro, come risulta dalla documentazione in atti, lo
Statuto del Consorzio di Gestione espressamente vieta
qualsiasi modifica alle parti comuni dell’edificio non
previamente consentite dal Consorzio;
-
correttamente il Comune, nell’intervenire sulla SCIA in
sanatoria, ha ritenuto rilevante il mancato assenso del
Consorzio; ed invero, come osservato dalla costante
giurisprudenza, la circostanza che dal punto di vista
meramente pubblicistico un intervento sia consentito, non
esclude che ad esso ostino ragioni operanti sul diverso
piano dei rapporti tra privati e che l’amministrazione
nell’esercizio del potere decisionale ne debba tener conto
ove queste vengano portate alla sua attenzione (cfr., da
ultimo, Cons. St., V, 27.05.2014, n. 2726);
-
ne consegue che l’intervento in questione, essendo stato
eseguito senza previa acquisizione di un titolo abilitativo,
doveva necessariamente essere sanzionato con l’ordine di
demolizione, mentre, la S.C.I.A. in sanatoria, in quanto
presentata da soggetto non legittimato dalla previa
autorizzazione del Consorzio, doveva essere inibita nei suoi
effetti;
-
entrambi i provvedimenti impugnati risultano quindi
legittimi in quanto basati su validi ed incontestabili
presupposti;
-
quanto alla violazione dell'art. 10-bis della L. n. 241 del
1990, dedotta con il secondo motivo di ricorso -non essendo
stato il provvedimento inibitorio impugnato preceduto dal
preavviso di rigetto- secondo costante e condivisa
giurisprudenza, la comunicazione del preavviso di rigetto
non è applicabile alla D.I.A./S.C.I.A., in relazione alla
particolare natura di tale procedimento, nel quale
l'Amministrazione può intervenire in un arco temporale
ristretto (cfr. TAR Veneto n. 875 19.06.2014; Cons.
Stato, Sez. IV, 12.09.2007, n. 4828)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.03.2015 n. 359 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il giudizio di verifica della congruità di
un'offerta sospetta di anomalia, per giurisprudenza
consolidata, ha natura globale e sintetica sulla serietà o
meno dell'offerta nel suo insieme, con irrilevanza di
eventuali singole voci di scostamento; esso non ha per
oggetto “la ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad
accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e
dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta
esecuzione dell'appalto, rilevando che l’offerta nel suo
complesso appaia “seria”.
Risulta diffusa, benché non pacifica, l’opzione
giurisprudenziale secondo cui in tema di anomalia delle
offerte, sussiste un puntuale ed analitico onere di
motivazione “solo nel caso in cui l'Amministrazione esprima
un giudizio negativo sulle giustificazioni”, mentre non
sussiste nel caso di esito positivo della relativa verifica,
essendo sufficiente in tal caso motivare il provvedimento
per relationem alle giustificazioni presentate dal
concorrente, sempre che esse non siano manifestamente
illogiche.
---------------
Nelle gare pubbliche il giudizio di anomalia o di
incongruità dell'offerta espresso dalla stazione appaltante
costituisce espressione di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l'inattendibilità
complessiva dell'offerta, potendo quindi il giudice
amministrativo sindacare tali valutazioni sotto il profilo
della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza
dell'istruttoria, “ma senza procedere ad una autonoma
verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci,
posto che ciò costituirebbe un'inammissibile invasione della
sfera propria della Pubblica amministrazione.
---------------
Dalle valutazioni effettuate dalla Cooperativa ... e
vagliate dall’Amministrazione, non può invero verosimilmente
escludersi la sussistenza di un margine pur esiguo di utile,
atteso che anche un utile apparentemente modesto può
comportare un vantaggio importante, in termini di ricadute
positive quali la qualificazione ed il fatturato per le
successive gare d’appalto specie nell’attuale contesto di
recessione economica.
3. Venendo all’esame delle suddette censure, non ritiene il
Collegio di poterle ritenere meritevoli di accoglimento,
potendosi pertanto prescindere dall’esame delle eccezioni in
rito, per ragioni di economia del giudizio.
Come noto, il giudizio di verifica della congruità di
un'offerta sospetta di anomalia, per giurisprudenza
consolidata, ha natura globale e sintetica sulla serietà o
meno dell'offerta nel suo insieme, con irrilevanza di
eventuali singole voci di scostamento; esso non ha per
oggetto “la ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad
accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e
dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta
esecuzione dell'appalto, rilevando che l’offerta nel suo
complesso appaia “seria” (ex multis Consiglio di Stato sez.
V, 27.08.2014, n. 4368; id. sez. III, 09.07.2014, n.
3492; id. sez. IV, 23.07.2012, n. 4206; id. sez. V, 22.02.2011, n. 1090; id. sez. VI, 24.08.2011, n.
4801; TAR Puglia-Bari sez. I, 08.03.2012, n. 506).
Risulta diffusa, benché non pacifica, l’opzione
giurisprudenziale secondo cui in tema di anomalia delle
offerte, sussiste un puntuale ed analitico onere di
motivazione “solo nel caso in cui l'Amministrazione esprima
un giudizio negativo sulle giustificazioni”, mentre non
sussiste nel caso di esito positivo della relativa verifica,
essendo sufficiente in tal caso motivare il provvedimento
per relationem alle giustificazioni presentate dal
concorrente, sempre che esse non siano manifestamente
illogiche (TAR Sicilia-Catania sez. III, 30.05.2012, n. 1416; Consiglio di Stato sez. III, 22.12.2014, n. 6349; id. sez. V, 18.04.2012, n. 1513; id. sez.
V, 20.06.2011, n. 3675; id. 13.02.2010, n. 741;
id. sez. V, 18.04.2012, n. 1513; TAR Puglia-Bari
sez. I, 08.03.2012, n. 506).
3.1. Muovendo da tali preliminari considerazioni, ritiene il
Collegio che, nel caso in esame, la verifica di congruità
dell’offerta sospettata di anomalia effettuata dalla
stazione appaltante -al di là di specifiche e singole
incongruenze di alcuni voci indicate nell’offerta- sia
immune dalle censure dedotte, alla luce delle
giustificazioni fornite dall’interessata, non essendo
imposto né dalla normativa né dalla lex specialis
l’indicazione espressa dell’utile in sede di offerta
economica.
3.2. Quanto ai costi per la promozione di attività culturali
(gite e visite) la Cooperativa ACTL ha fornito dimostrazione
della capacità di assorbirli al proprio interno, mediante
l’utilizzo dei propri soci lavoratori (ben 450) senza
necessità di rivolgersi al mercato esterno, così come per i
costi per l’acquisto di spazi pubblicitari, laddove è stato
parimenti chiarito che l’inserzione pubblicitaria non viene
realizzata su giornali bensì mediante articoli di promozione
del servizio sociale oggetto di affidamento, senza alcun
costo.
3.3. Non priva di profili di incongruità, invece, pare la
voce relativa ai costi c.d. amministrativi, stimati dalla
ACTL in 625 euro, relativamente alla stipulazione del
contratto, dal momento che l’art. 11, c. 13, del D.lgs.
163/2006 richiamato dalla difesa comunale, nel prevedere
come alternativa alla forma pubblica amministrativa la
stipulazione mediante scrittura privata semplice, va in
realtà integrato dal R.D. 18.11.1923 n. 2440, tutt’ora
vigente, i cui artt. 16 e 17 impongono la forma pubblica in
ipotesi di affidamento mediante evidenza pubblica, con la
conseguenza che soltanto le spese per diritti di segreteria
ammonterebbero a 517,36 euro (tenuto conto della riduzione
del 50% spettante alle Onlus) a cui aggiungersi 200,00 euro
di spese fisse di registrazione, per un totale di 717,36
euro a cui debbono aggiungersi le spese per l’accensione
delle richieste garanzie e per l’assicurazione RCO/RCT.
Trattasi comunque di scostamenti marginali e di lieve entità
del tutto irrilevanti ai fini della verifica di serietà
dell’offerta nel suo insieme.
3.4. Ad ogni modo, pare al Collegio nel caso di specie del
tutto tranciante, in punto di fatto, la sussistenza di una
differenza davvero minima tra l’offerta economica della
ricorrente (pari a 124.880,35 euro) e quella della
controinteressata (pari a 123.445,00 euro) inferiore di soli
circa 1.435,00 euro, risultando l’utile di impresa
ipotizzabile se non identico del tutto equiparabile, in
considerazione dello scopo non lucrativo delle cooperative
sociali, rilevando solo la circostanza che la struttura
dell'offerta sia tale da garantire uno svolgimento
efficiente ed efficace del servizio, nel pieno perseguimento
degli interessi pubblici della stazione appaltante (TAR
Molise 24.09.2008, n. 714).
Considerazioni analoghe possono svolgersi anche per le altri
“voci” asseritamente inattendibili, pur tenendosi sempre
presente che nelle gare pubbliche il giudizio di anomalia o
di incongruità dell'offerta espresso dalla stazione
appaltante costituisce espressione di discrezionalità
tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità
o di erroneità fattuale che rendano palese l'inattendibilità
complessiva dell'offerta, potendo quindi il giudice
amministrativo sindacare tali valutazioni sotto il profilo
della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza
dell'istruttoria, “ma senza procedere ad una autonoma
verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci,
posto che ciò costituirebbe un'inammissibile invasione della
sfera propria della Pubblica amministrazione” (Consiglio di
Stato sez. V, 22.01.2015, n. 246).
Conclusivamente, non può dirsi che la quantificazione dei
costi effettuata dall’aggiudicataria risulti in perdita
atteso che dalle valutazioni effettuate dalla Cooperativa
ACTL e vagliate dall’Amministrazione, non può invero
verosimilmente escludersi la sussistenza di un margine pur
esiguo di utile, atteso che anche un utile apparentemente
modesto può comportare un vantaggio importante, in termini
di ricadute positive quali la qualificazione ed il fatturato
per le successive gare d’appalto (Consiglio di Stato sez. IV,
23.07.2012, n. 4206; id. sez. III, 11.04.2012, n.
2073) specie nell’attuale contesto di recessione economica
(TAR Trentino Alto Adige 24.10.2013, n. 299).
Ritiene pertanto il Collegio che il giudizio di anomalia
effettuato non presenti profili di illogicità,
irragionevolezza o travisamento sindacabili da questo
giudice (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 23.07.2012, n. 4206; TAR Puglia-Bari sez. I,
08.03.2012, n. 506) con conseguente infondatezza di tutte le
censure di cui al I motivo di gravame
(TAR Umbria,
sentenza 14.03.2015 n. 114 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Come noto, la questione della possibilità per la
Commissione di gara di introduzione di sub-criteri di
valutazione predeterminati dal bando, in termini generali e
sistematici, è stata lungamente dibattuta nell’arco
temporale precedente l’entrata in vigore del Codice
contratti pubblici, avendo anche ingenerato la rimessione
alla Corte di Giustizia europea per la valutazione di
compatibilità con il diritto comunitario.
Con l’entrata in vigore del Codice contratti pubblici
approvato con D.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’art. 83, c. 4, nel
testo originario, ha previsto che “Il bando per ciascun
criterio di valutazione prescelto prevede, ove necessario, i
sub-criteri e i sub-pesi o i sub-punteggi. Ove la stazione
appaltante non sia in grado di stabilirli tramite la propria
organizzazione, provvede a nominare uno o più esperti con il
decreto o la determina a contrarre, affidando ad essi
l'incarico di redigere i criteri, i pesi, i punteggi e le
relative specificazioni, che verranno indicati nel bando di
gara. La commissione giudicatrice, prima dell'apertura delle
buste contenenti le offerte, fissa in via generale i criteri
motivazionali cui si atterrà per attribuire a ciascun
criterio e sub-criterio di valutazione il punteggio tra il
minimo e il massimo prestabiliti dal bando”.
Già in riferimento a tale primo testo normativo, parte della
giurisprudenza aveva assunto orientamento non restrittivo in
ordine ai poteri specificativi o integrativi delle
prescrizioni del bando, richiedendo comunque quantomeno la
condizione della fissazione di tali sub-parametri prima
dell’apertura delle buste contenenti le offerte.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza
24.01.2008 (proc. C-532/2006), ha precisato che "…tutti gli
elementi presi in considerazione dall’autorità
aggiudicatrice per identificare l’offerta economicamente più
vantaggiosa e la loro importanza relativa siano noti ai
potenziali offerenti al momento in cui presentano le offerte
... infatti i potenziali offerenti devono essere messi in
condizione di conoscere, al momento della presentazione
delle loro offerte, l’esistenza e la portata di tali
elementi ... pertanto un’amministrazione aggiudicatrice non
può applicare regole di ponderazione o sottocriteri per i
criteri di aggiudicazione che non abbia preventivamente
portato a conoscenza degli offerenti … gli offerenti devono
essere posti su un piano di parità durante l’intera
procedura, il che comporta che i criteri e le condizioni che
si applicano a ciascuna gara debbano costituire oggetto di
un’adeguata pubblicità da parte delle amministrazioni
aggiudicatici".
A sua volta, la Commissione CE, con nota del 30.01.2008, ha
avviato una procedura di infrazione contro lo Stato italiano
proprio in riferimento alla sospetta incompatibilità del
comma 4 dell’art. 83 Codice contratti pubblici con le
direttive comunitarie 2004/18/CE e 2004/17/CE, in quanto
consentiva alle commissione giudicatrici la fissazione di
criteri motivazionali dei punti attribuiti alle offerte, non
previsti nei documenti di gara.
Al fine di superare tale incompatibilità, il legislatore,
mediante il terzo D.lgs. correttivo del Codice contratti
pubblici (11.09.2008 n. 152) ha novellato il comma 4 del
citato art. 83, eliminandone l’ultimo capoverso ed
espungendo tout court il potere della Commissione di gara di
specificare e dettagliare i criteri di valutazione, andando
oltre anche le limitazioni imposte dal diritto comunitario.
Alla stregua della suddetta novella, tutti i criteri di
valutazione delle offerte, nessuno escluso debbono essere
dettagliatamente specificati nella lex specialis della
procedura. La giurisprudenza si è pertanto consolidata nel
ritenere illegittima la procedura di una gara di appalto per
violazione dell’art. 83, c. 4, nel caso in cui i criteri di
valutazione delle offerte non siano dettagliatamente
indicati nel bando e la commissione abbia dovuto integrare,
con più dettagliati sottocriteri la generica ripartizione
del punteggio complessivamente previsto nella lex specialis.
Più di recente, il Consiglio di Stato ha ribadito che sia
l’art. 83, c. 4, Codice contratti pubblici, nel testo
novellato, sia il diritto comunitario impediscono che la
Commissione, dopo la presentazione delle offerte, possa
stabilire elementi di specificazione dei criteri generali
previsti dalla lex specialis ai fini della valutazione delle
offerte attraverso la previsione di sottovoci integrative,
dovendo anche essi essere determinati dalla stessa
disciplina di gara, eliminando ogni margine di
discrezionalità in capo alla commissione.
Alla Commissione di gara, conclusivamente, può essere
pertanto devoluta solo un’attività meramente interpretativa
degli eventuali sottocriteri di valutazione indicati nella
lex specialis, come previsto anche dell'art. 53 della
direttiva 2004/18/Ce, che ha segnalato la mancanza di uno
specifico potere integrativo per l'organo giudicante della
gara.
5. Quanto al merito, la censura di violazione dell’art. 83,
c. 4, del Codice contratti pubblici merita condivisione.
5.1. In punto di fatto, va chiarito come nella fattispecie
per cui è causa, l’art. 24 del Capitolato speciale ha
previsto quali criteri di valutazione dell’offerta tecnica i
parametri a) “requisiti del personale” con un punteggio
massimo attribuibile di 20 punti, b) “progetto/offerta”
(max. 40 punti) e c) “progetto tecnico di sviluppo e di
informazione” (max. 10 punti).
Dal verbale di gara n. 3 del 12.09.2014 emerge
l’introduzione ex novo da parte della Commissione dei sub
parametri c1 e c2 per la valutazione del parametro c, oltre
il frazionamento del parametro b in 5 sotto voci con
l’attribuzione di un range di punteggio da 1 a 8. Per ognuno
dei sub elementi introdotti, il relativo punteggio è stato
moltiplicato per il coefficiente tra 0 ed 1 attribuito dalla
Commissione.
5.2. Ad avviso della stazione appaltante e della
controinteressata, la Commissione non avrebbe introdotto
criteri novativi di valutazione, essendosi limitata a
suddividere in parti uguali i punteggi massimi previsti
dalla lex specialis in corrispondenza degli stessi sub
elementi in cui il medesimo capitolato articola gli elementi
di valutazione.
Osserva il Collegio, quanto al parametro b, la completa
mancanza in sede di disciplinare di gara di una graduazione,
tra le diverse voci che lo compongono, del punteggio massimo
di 40 punti ivi previsto, lasciando inevitabilmente alla
Commissione un ambito di piena discrezionalità in merito
alla concreta pesatura degli stessi. Analoghe considerazioni
valgono quanto al parametro c.
5.3. Come noto, la questione della possibilità per la
Commissione di gara di introduzione di sub-criteri di
valutazione predeterminati dal bando, in termini generali e
sistematici, è stata lungamente dibattuta nell’arco
temporale precedente l’entrata in vigore del Codice
contratti pubblici, avendo anche ingenerato la rimessione
alla Corte di Giustizia europea per la valutazione di
compatibilità con il diritto comunitario (Consiglio di Stato
sez. VI, ordinanza 09.07.2004, n. 5033).
Con l’entrata in vigore del Codice contratti pubblici
approvato con D.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’art. 83, c. 4,
nel testo originario, ha previsto che “Il bando per ciascun
criterio di valutazione prescelto prevede, ove necessario, i
sub-criteri e i sub-pesi o i sub-punteggi. Ove la
stazione appaltante non sia in grado di stabilirli tramite
la propria organizzazione, provvede a nominare uno o più
esperti con il decreto o la determina a contrarre, affidando
ad essi l'incarico di redigere i criteri, i pesi, i punteggi
e le relative specificazioni, che verranno indicati nel
bando di gara. La commissione giudicatrice, prima
dell'apertura delle buste contenenti le offerte, fissa in
via generale i criteri motivazionali cui si atterrà per
attribuire a ciascun criterio e sub-criterio di valutazione
il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal
bando”.
Già in riferimento a tale primo testo normativo, parte della
giurisprudenza aveva assunto orientamento non restrittivo in
ordine ai poteri specificativi o integrativi delle
prescrizioni del bando, richiedendo comunque quantomeno la
condizione della fissazione di tali sub-parametri prima
dell’apertura delle buste contenenti le offerte (ex multis
Consiglio di Stato sez VI, 22.03.2007, n. 1369; TAR
Lombardia Milano sez III, 23.08.2006, n. 1930).
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza 24.01.2008 (proc. C-532/2006), ha precisato che "…tutti
gli elementi presi in considerazione dall’autorità
aggiudicatrice per identificare l’offerta economicamente più
vantaggiosa e la loro importanza relativa siano noti ai
potenziali offerenti al momento in cui presentano le offerte
... infatti i potenziali offerenti devono essere messi in
condizione di conoscere, al momento della presentazione
delle loro offerte, l’esistenza e la portata di tali
elementi ... pertanto un’amministrazione aggiudicatrice non
può applicare regole di ponderazione o sottocriteri per i
criteri di aggiudicazione che non abbia preventivamente
portato a conoscenza degli offerenti … gli offerenti devono
essere posti su un piano di parità durante l’intera
procedura, il che comporta che i criteri e le condizioni che
si applicano a ciascuna gara debbano costituire oggetto di
un’adeguata pubblicità da parte delle amministrazioni
aggiudicatici".
A sua volta, la Commissione CE, con nota del 30.01.2008, ha avviato una procedura di infrazione contro lo Stato
italiano proprio in riferimento alla sospetta
incompatibilità del comma 4 dell’art. 83 Codice contratti
pubblici con le direttive comunitarie 2004/18/CE e
2004/17/CE, in quanto consentiva alle commissione
giudicatrici la fissazione di criteri motivazionali dei
punti attribuiti alle offerte, non previsti nei documenti di
gara.
Al fine di superare tale incompatibilità, il legislatore,
mediante il terzo D.lgs. correttivo del Codice contratti
pubblici (11.09.2008 n. 152) ha novellato il comma 4
del citato art. 83, eliminandone l’ultimo capoverso ed
espungendo tout court il potere della Commissione di gara di
specificare e dettagliare i criteri di valutazione, andando
oltre anche le limitazioni imposte dal diritto comunitario.
5.4. Alla stregua della suddetta novella, tutti i criteri di
valutazione delle offerte, nessuno escluso debbono essere
dettagliatamente specificati nella lex specialis della
procedura. La giurisprudenza si è pertanto consolidata nel
ritenere illegittima la procedura di una gara di appalto per
violazione dell’art. 83, c. 4, nel caso in cui i criteri di
valutazione delle offerte non siano dettagliatamente
indicati nel bando e la commissione abbia dovuto integrare,
con più dettagliati sottocriteri la generica ripartizione
del punteggio complessivamente previsto nella lex specialis
(Consiglio di Stato sez V, 22.02.2011, n. 1094; id.
sez. V, 01.10.2010 n. 7256: id. sez. IV, 12.05.2008,
n. 2189; id. sez. III. 01.12.2012, n. 514).
5.5. Più di recente, il Consiglio di Stato ha ribadito che
sia l’art. 83, c. 4, Codice contratti pubblici, nel testo
novellato, sia il diritto comunitario impediscono che la
Commissione, dopo la presentazione delle offerte, possa
stabilire elementi di specificazione dei criteri generali
previsti dalla lex specialis ai fini della valutazione delle
offerte attraverso la previsione di sottovoci integrative,
dovendo anche essi essere determinati dalla stessa
disciplina di gara, eliminando ogni margine di
discrezionalità in capo alla commissione (Consiglio di Stato
sez III, 01.02.2012, n. 514; id. sez III, 29.11.2011, n. 6306; id. sez III, 22.03.2011, n. 1749; id. sez.
V, 22.02.2011, n. 1097; vedi anche TAR Lombardia
Milano sez. I, 14.02.2014, n. 473; TAR Abruzzo 19.07.2010, n. 532; TAR Lombardia-Brescia 15.07.2011, n. 1078; TAR Sicilia-Catania 29.04.2011, n.
1071).
5.6. Alla Commissione di gara, conclusivamente, può essere
pertanto devoluta solo un’attività meramente interpretativa
degli eventuali sottocriteri di valutazione indicati nella
lex specialis, come previsto anche dell'art. 53 della
direttiva 2004/18/Ce, che ha segnalato la mancanza di uno
specifico potere integrativo per l'organo giudicante della
gara (Consiglio di Stato sez. V, 22.02.2011, n. 1092).
5.7. Ciò premesso, è incontrovertibile come nel caso di
specie la Commissione abbia introdotto sub-criteri di
valutazione assolutamente non contemplati dalla lex
specialis, per giunta non solo dopo il termine di scadenza
della presentazione delle offerte, ma ad offerte già aperte
e note alla stazione appaltante, con evidente violazione
dell’art. 84, c. 3, D.lgs. 163/2006 e s.m. e del principio
comunitario ad esso sotteso di parità di trattamento, oltre
che del principio di imparzialità (art. 97 Cost.).
5.8. Non ritiene il Collegio che l’operato della Commissione
possa ritenersi legittimato dall’asserita inapplicabilità
dell’art. 83, c. 4, in relazione all’appartenenza del
servizio oggetto della gara tra quelli rientranti
nell’allegato II B al D.lgs. 163/2006 (servizi socio
sanitari) esclusi dall’applicazione delle norme del Codice
contratti pubblici ad eccezione degli artt. 68 (specifiche
tecniche) e 65 (avviso sui risultati della procedura di
affidamento).
5.9. Sotto un primo profilo, perché la regola codificata
dall’art. 83, c. 4, del Codice costituisce stretta espressione
dei generali principi di imparzialità e par condicio e come
tale risulta applicabile anche ai contratti esclusi di cui
all’allegato II B del D.lgs. 163/2006, sottratti
dall'applicazione delle norme di dettaglio dello stesso
Codice -fatta eccezione per quelle specificamente
richiamate dall'art. 20- ma al contempo assoggettati, ai
sensi del successivo art. 27, al rispetto del principi
generali di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza e proporzionalità (Consiglio di
Stato Adunanza Plenaria 03.03.2008, n. 1; TAR Piemonte
sez. I, 22.11.2013, n. 1254). La predeterminazione in
sede di norme di gara di tutti i criteri per la valutazione
delle offerte è dunque ormai pacifico principio immanente in
seno ad ogni procedimento di aggiudicazione di appalti
pubblici.
5.10. Sotto un secondo ulteriore profilo, perché il citato
art. 83 è stato espressamente richiamato dall’art. 24 del
Capitolato con conseguente auto-vincolo della stazione
appaltante (ex multis TAR Piemonte sez. I, 21.12.2012, n. 1376) non potendosi condividere quanto prospettato
dalla difesa comunale e della controinteressata in merito
alla volontà di richiamarne solo i principi in esso
contenuti, risultando tal richiamo del tutto pieno ed
incondizionato.
5.11. Conclusivamente, l’operato della Commissione si è
pertanto posto oltre che in violazione della normativa
primaria di riferimento, in aperta violazione con i principi
comunitari di par condicio e trasparenza e con il principio
di imparzialità, considerato che le offerte presentate erano
già note.
Ne consegue la fondatezza delle assorbenti censure di
violazione dell’art. 83, c. 4, del D.lgs. 163/2006 e s.m.,
oltre che di eccesso di potere, quanto alla introduzione dei
sub-criteri di valutazione di cui al Disciplinare di gara,
vizio che determina l’invalidità del bando, della fase di
valutazione delle offerte tecniche e dell’intero
procedimento di gara, ivi naturalmente compresa
l’aggiudicazione definitiva.
6. Per i suesposti motivi il ricorso è fondato e va accolto,
e per l’effetto vanno annullati gli atti impugnati
(TAR Umbria,
sentenza 14.03.2015 n. 114 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La valenza che le previsioni del Documento di
Piano sono destinate ad assumere nel contesto della
pianificazione urbanistica comunale è stata approfondita
dalla giurisprudenza dalla Sezione, la quale ha avuto modo
recentemente di chiarire che “Le previsioni contenute nel
documento di piano non producono effetto diretto perché,
trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono
sufficienti a definire in modo compiuto le regole di
carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti
di trasformazione; essendo a tal fine necessario
l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole
di dettaglio, definirà in maniera puntuale il quadro
giuridico ad essi applicabile, con norme (queste sì) aventi
carattere prescrittivo”.
In questo quadro, è stato altresì indagato il livello di
dettaglio che le previsioni del Documento di Piano possono
raggiungere, pervenendo alla conclusione che “l’art. 8,
terzo comma, della legge della Regione Lombardia n. 12 del
2005 (...) non vieta in maniera assoluta che nelle schede
relative a tali ambiti siano contenute talune singole
prescrizioni di dettaglio, ma vieta esclusivamente che la
disciplina da esse scaturenti sia nel suo complesso talmente
dettagliata da non lasciare alcun margine di adattabilità al
piano attuativo (che diverrebbe a questo punto addirittura
inutile) (...)”.
In coerenza con tale orientamento, che il Collegio
pienamente condivide, il limite alla possibilità, per il
Documento di Piano, di introdurre previsioni aventi
contenuto dettagliato va dunque rinvenuto nella funzione
propria dello strumento, che –con specifico riferimento agli
ambiti di trasformazione– consiste nell’ampio inquadramento
delle scelte attinenti alla trasformazione delle aree. Tale
inquadramento comporta –per sua stessa natura– che accanto
alla previsione di margini di flessibilità nelle modalità
per la realizzazione degli obiettivi di trasformazione, vi
possa essere spazio anche per l’individuazione delle
“invarianti”, ossia dei profili ed aspetti che, nella
visione strategica che presiede allo strumento, devono
costituire i punti fermi della successiva negoziazione
finalizzata alla predisposizione dei piani attuativi.
Tali aspetti non negoziabili, o soggetti a limitata
negoziazione, sono da ritenere legittimamente individuabili,
in particolare, in corrispondenza di scelte che assumono
carattere essenziale, costituendo il cardine per la
realizzazione degli obiettivi previsti per la trasformazione
dell’ambito, oppure laddove indicazioni puntuali siano rese
necessarie da esigenze correlate alla cura di interessi di
rilievo costituzionale primario, quali quelli attinenti alla
tutela della salute, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni
culturali.
2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione
del principio di nominatività e tipicità degli strumenti
urbanistici. Ciò in quanto, con riferimento all’ambito di
trasformazione AT 5, il Documento di Piano del Comune di
Corbetta non si limiterebbe a indicare criteri di
negoziazione e indicazioni di massima per la successiva
pianificazione attuativa, ma recherebbe disposizioni
dettagliate e vincolanti.
Tale deviazione dal modello tipico
sarebbe resa evidente, in particolare, dall’obbligo imposto
al privato di cedere un bene individuato (l’ex Consorzio
agrario). Ne deriverebbe la violazione dell’articolo 8,
comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005, in base al
quale il Documento di Piano “non contiene previsioni che
producano effetti diretti sul regime dei suoli”.
2.1 Giova tenere presente, al riguardo, che i contenuti del
Documento di Piano attinenti alla disciplina degli ambiti di
trasformazione sono stabiliti dall’articolo 8, comma 2,
lettera e), della legge regionale n. 12 del 2005. La
disposizione prevede, in particolare, che il DdP “individua,
anche con rappresentazioni grafiche in scala adeguata, gli
ambiti di trasformazione, definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le vocazioni
funzionali e i criteri di negoziazione, nonché i criteri di
intervento, preordinati alla tutela ambientale,
paesaggistica e storico-monumentale, ecologica, geologica,
idrogeologica e sismica, laddove in tali ambiti siano
comprese aree qualificate a tali fini nella documentazione
conoscitiva”.
La valenza che le previsioni del Documento di Piano sono
destinate ad assumere nel contesto della pianificazione
urbanistica comunale è stata approfondita dalla
giurisprudenza dalla Sezione, la quale ha avuto modo
recentemente di chiarire che “Le previsioni contenute nel
documento di piano non producono effetto diretto perché,
trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono
sufficienti a definire in modo compiuto le regole di
carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti
di trasformazione; essendo a tal fine necessario
l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole
di dettaglio, definirà in maniera puntuale il quadro
giuridico ad essi applicabile, con norme (queste sì) aventi
carattere prescrittivo” (così TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
05.12.2014, n. 2971).
In questo quadro, è stato altresì indagato il livello di
dettaglio che le previsioni del Documento di Piano possono
raggiungere, pervenendo alla conclusione che “l’art. 8,
terzo comma, della legge della Regione Lombardia n. 12 del
2005 (...) non vieta in maniera assoluta che nelle schede
relative a tali ambiti siano contenute talune singole
prescrizioni di dettaglio, ma vieta esclusivamente che la
disciplina da esse scaturenti sia nel suo complesso talmente
dettagliata da non lasciare alcun margine di adattabilità al
piano attuativo (che diverrebbe a questo punto addirittura
inutile) (...)” (così TAR Milano, n. 2971 del 2014, cit.).
In coerenza con tale orientamento, che il Collegio
pienamente condivide, il limite alla possibilità, per il
Documento di Piano, di introdurre previsioni aventi
contenuto dettagliato va dunque rinvenuto nella funzione
propria dello strumento, che –con specifico riferimento
agli ambiti di trasformazione– consiste nell’ampio
inquadramento delle scelte attinenti alla trasformazione
delle aree. Tale inquadramento comporta –per sua stessa
natura– che accanto alla previsione di margini di
flessibilità nelle modalità per la realizzazione degli
obiettivi di trasformazione, vi possa essere spazio anche
per l’individuazione delle “invarianti”, ossia dei profili
ed aspetti che, nella visione strategica che presiede allo
strumento, devono costituire i punti fermi della successiva
negoziazione finalizzata alla predisposizione dei piani
attuativi.
Tali aspetti non negoziabili, o soggetti a limitata
negoziazione, sono da ritenere legittimamente individuabili,
in particolare, in corrispondenza di scelte che assumono
carattere essenziale, costituendo il cardine per la
realizzazione degli obiettivi previsti per la trasformazione
dell’ambito, oppure laddove indicazioni puntuali siano rese
necessarie da esigenze correlate alla cura di interessi di
rilievo costituzionale primario, quali quelli attinenti alla
tutela della salute, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni
culturali
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.03.2015 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'istituto perequativo della cessione di aree,
pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova
il suo fondamento "in due pilastri fondamentali" del nostro
ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del
territorio di cui è titolare l'Amministrazione
nell'esercizio della propria attività di pianificazione e,
al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli
consensuali per il perseguimento di finalità di interesse
pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis
e 11 della legge n. 241 del 1990. Non è quindi necessaria la
presenza di puntuali norme che configurino in maniera
specifica i modelli secondo i quali l’istituto stesso si può
sostanziare.
Nell’esercizio della pianificazione, l’Amministrazione
dispone di un ampio potere di delineare le previsioni aventi
funzione perequativa, anche in certa misura adattando i
modelli configurati dalla legislazione regionale al fine di
renderli più aderenti alle proprie esigenze contingenti.
In conformità a tali precedenti, che il Collegio condivide,
deve quindi escludersi che le previsioni normative in
materia di perequazione urbanistica siano da reputare di
stretta interpretazione.
---------------
La Sezione ha da tempo chiarito quale sia la distinzione
intercorrente tra gli istituti della “cessione
perequativa” e della “cessione compensativa”.
Si è al riguardo affermato che “la cessione perequativa
è prevista dall’art. 11, comma 1 e 2, della L.R. 12/2005 ed
è alternativa all’espropriazione perché non prevede
l’apposizione di un vincolo pre-espropriativo sulle aree
destinate a servizi pubblici ma prevede che tutti i
proprietari, sia quelli che possono edificare sulle loro
aree sia quelli i cui immobili dovranno realizzare la città
pubblica, partecipino alla realizzazione delle
infrastrutture pubbliche attraverso l’equa ed uniforme
distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla
localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei
relativi obblighi nei confronti del Comune.
La cessione compensativa invece si caratterizza per
l’individuazione da parte del pianificatore di aree,
destinate alla costruzione della città pubblica, rispetto ai
quali l’amministrazione non può rinunciare a priori al
vincolo ed alla facoltà imperativa ed unilaterale di
acquisizione coattiva delle aree. In queste aree, il Comune
appone il vincolo pre-espropriativo ed entro il termine di
cinque anni deve fare ricorso all'espropriazione con la
possibilità di ristorare il proprietario mediante
attribuzione di ‘crediti compensativi’ od aree in permuta in
luogo dell’usuale indennizzo pecuniario”.
Ancor più esplicitamente, la Sezione ha recentemente
chiarito che “L’istituto della compensazione, a
differenza di quello della perequazione, non ha quale
precipua finalità quella di mitigare le disuguaglianze che
si producono con la pianificazione urbanistica: esso
semplicemente mira ad individuare una forma di remunerazione
alternativa a quella pecuniaria per i proprietari dei suoli
destinati all’espropriazione, consistente nell’attribuzione
di diritti edificatori che potranno essere trasferiti, anche
mediante cessione onerosa (cfr. comma 4 dell’art. 11 cit.),
ai proprietari delle aree destinate all’edificazione”.
Da tali indicazioni si evince chiaramente che il primo e
fondamentale tratto distintivo tra la cessione
perequativa e quella compensativa attiene alla
circostanza che solo la seconda presuppone l’imposizione di
una destinazione del suolo al soddisfacimento di esigenze di
interesse pubblico, che è invece estranea alla prima.
Quanto alla
natura degli istituti perequativi e delle fonti normative
che li disciplinano, giova anzitutto richiamare
l’orientamento già espresso dalla Sezione. In particolare, è
stato recentemente evidenziato che, in coerenza con i
principi enucleati dalla giurisprudenza, “(...) l'istituto
perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una
specifica previsione normativa, trova il suo fondamento "in
due pilastri fondamentali" del nostro ordinamento, e cioè
nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare
l'Amministrazione nell'esercizio della propria attività di
pianificazione e, al contempo, nella possibilità di
utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di
finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto
dagli artt. 1, comma 1-bis e 11 della legge n. 241 del 1990
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010 n. 4545; si
vedano anche TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.07.2002
n. 670, TAR Veneto sez. I, 19.05.2009, n. 1504). Non
è quindi necessaria la presenza di puntuali norme che
configurino in maniera specifica i modelli secondo i quali
l’istituto stesso si può sostanziare” (così TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 15.05.2014, n. 1282).
Si è quindi affermato che, nell’esercizio della
pianificazione, l’Amministrazione dispone di un ampio potere
di delineare le previsioni aventi funzione perequativa,
anche in certa misura adattando i modelli configurati dalla
legislazione regionale al fine di renderli più aderenti alle
proprie esigenze contingenti (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
22.07.2014, n. 1975; Id. 11.06.2014, n. 1542).
In conformità a tali precedenti, che il Collegio condivide,
deve quindi escludersi che le previsioni normative in
materia di perequazione urbanistica siano da reputare di
stretta interpretazione, come affermato invece dalla
ricorrente.
3.2 Quanto all’inquadramento della fattispecie concreta,
occorre altresì tenere presente che la Sezione ha da tempo
chiarito quale sia la distinzione intercorrente tra gli
istituti della “cessione perequativa” e della “cessione
compensativa”.
Si è al riguardo affermato che “la cessione perequativa è
prevista dall’art. 11, comma 1 e 2, della L.R. 12/2005 ed è
alternativa all’espropriazione perché non prevede
l’apposizione di un vincolo pre-espropriativo sulle aree
destinate a servizi pubblici ma prevede che tutti i
proprietari, sia quelli che possono edificare sulle loro
aree sia quelli i cui immobili dovranno realizzare la città
pubblica, partecipino alla realizzazione delle
infrastrutture pubbliche attraverso l’equa ed uniforme
distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla
localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei
relativi obblighi nei confronti del Comune.
La cessione compensativa invece si caratterizza per
l’individuazione da parte del pianificatore di aree,
destinate alla costruzione della città pubblica, rispetto ai
quali l’amministrazione non può rinunciare a priori al
vincolo ed alla facoltà imperativa ed unilaterale di
acquisizione coattiva delle aree. In queste aree, il Comune
appone il vincolo pre-espropriativo ed entro il termine di
cinque anni deve fare ricorso all'espropriazione con la
possibilità di ristorare il proprietario mediante
attribuzione di ‘crediti compensativi’ od aree in permuta in
luogo dell’usuale indennizzo pecuniario” (così TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 17.09.2009, n. 4671).
Ancor più esplicitamente, la Sezione ha recentemente
chiarito che “L’istituto della compensazione, a differenza
di quello della perequazione, non ha quale precipua finalità
quella di mitigare le disuguaglianze che si producono con la
pianificazione urbanistica: esso semplicemente mira ad
individuare una forma di remunerazione alternativa a quella
pecuniaria per i proprietari dei suoli destinati
all’espropriazione, consistente nell’attribuzione di diritti
edificatori che potranno essere trasferiti, anche mediante
cessione onerosa (cfr. comma 4 dell’art. 11 cit.), ai
proprietari delle aree destinate all’edificazione” (così
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1542 del 2014, cit.).
Da tali indicazioni si evince chiaramente che il primo e
fondamentale tratto distintivo tra la cessione perequativa e
quella compensativa attiene alla circostanza che solo
la seconda presuppone l’imposizione di una destinazione del
suolo al soddisfacimento di esigenze di interesse pubblico,
che è invece estranea alla prima (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.03.2015 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le disposizioni del precedente PRG non vincolano
il Comune in occasione del nuovo esercizio della potestà
pianificatoria, poiché l’Ente non è affatto tenuto a
“riconoscere” le potenzialità edificatorie attribuite ai
suoli dallo strumento previgente, potendo queste ultime
essere limitate o escluse, laddove ciò risulti funzionale al
perseguimento dell’interesse pubblico, in coerenza con gli
obiettivi assegnati alla nuova pianificazione.
La giurisprudenza ha del resto chiarito che “l’urbanistica,
ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione,
non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo
che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei
suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive
esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete
vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e
paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e
quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze
economico–sociali della comunità radicata sul territorio,
sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende
imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro
storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de
futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per
autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità
medesima (...)”.
Al riguardo,
deve tuttavia tenersi presente che le disposizioni del
precedente PRG non vincolano il Comune in occasione del
nuovo esercizio della potestà pianificatoria, poiché l’Ente
non è affatto tenuto a “riconoscere” le potenzialità
edificatorie attribuite ai suoli dallo strumento previgente,
potendo queste ultime essere limitate o escluse, laddove ciò
risulti funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico,
in coerenza con gli obiettivi assegnati alla nuova
pianificazione.
La giurisprudenza ha del resto chiarito che “l’urbanistica,
ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione,
non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità
edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione
alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle
concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e
paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e
quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze
economico–sociali della comunità radicata sul territorio,
sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende
imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro
storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de
futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità
medesima (...)” (così Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012,
n. 2710) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.03.2015 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ricorsi
nelle gare, basta mera conoscenza dell'esito.
La mera conoscenza dell'esito negativo di una gara è
sufficiente a far decorrere il termine per la proposizione
del ricorso avverso gli atti, rilevando la conoscenza
successiva dei motivi e dei singoli vizi di legittimità
degli stessi solo al fine della proposizione di motivi
aggiunti.
È quanto è stato ribadito dai giudici della II Sez. del TAR
Piemonte con la
sentenza 26.02.2015 n. 396.
Da tale sottolineatura, che trova concorde anche altra
giurisprudenza, ne consegue l'onere di presentare, sempre e
comunque, una tempestiva impugnazione anche nel caso in cui
non sia ancora nota l'esistenza di eventuali vizi della
procedura.
Già la Corte di giustizia, con la sentenza pronunciata
l'08/05/2014 nella causa C-161/13, si è espressa nel senso
che il principio della certezza del diritto e il favor per
la celerità delle procedure di gara impone che le
informazioni ottenute a seguito di accesso agli atti di gara
non possono servire a proporre un ricorso dopo la scadenza
del termine previsto a tale scopo dalla normativa nazionale,
ed è stato, inoltre, evidenziato che si deve ritenere
possibile la riapertura di detto termine quando alla
decisione lesiva abbia fatto seguito, successivamente, una
nuova decisione che abbia modificato quella precedente e
sempre che sia possibile affermare che il ricorrente non era
già prima in condizione di apprezzare (sulla base anche
della ordinaria diligenza) l'esistenza di eventuali
violazioni della normativa relativa alle procedure di gara.
Pertanto il termine per l'impugnazione del ricorso decorre
dal momento in cui l'interessato abbia, o debba avere, piena
conoscenza della pretesa violazione della normativa in
materia di gara d'appalto. I giudici amministrativi
piemontesi hanno, altresì, affermato che ai fini della
decorrenza del termine per proporre ricorso avverso una
decisione di aggiudicazione si rende necessaria la
conoscenza (non solo delle ragioni della decisione ma anche)
dei vizi che affliggerebbero la gara, ma d'altro canto che è
anche onere dell'interessato di attivarsi al fine di
acquisire tale conoscenza.
Secondo i giudici torinesi il legislatore ha inteso porre,
sui partecipanti alle gare, l'onere di esercitare l'accesso
agli atti di gara non appena ricevuta, dalla stazione
appaltante, la relativa comunicazione completa delle
indicazioni di cui al ricordato art. 79, comma 5-quater, del
dl 163/2006
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015).
----------------
MASSIMA
10.3.1. E’ noto che, a dispetto di quanto già la Corte di
Giustizia aveva precisato nel caso C-406/2008 Uniplex, si è
consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo il
quale la mera conoscenza dell’esito
negativo di una gara è sufficiente a far decorrere il
termine per la proposizione del ricorso avverso gli atti di
gara, rilevando la conoscenza successiva dei motivi e dei
singoli vizi di legittimità degli stessi solo al fine della
proposizione di motivi aggiunti
(ex multis: C.d.S. sez. V n. 2609/2012; C.d.S. sez.
III n. 2407/2012; C.d.S., sez. IV, n. 3583/2011):
tale orientamento, dal quale consegue l’onere di
presentare sempre e comunque una tempestiva impugnazione
anche laddove non sia ancora nota l’esistenza di eventuali
vizi della procedura, è stato tuttavia (nuovamente) messo in
discussione con ordinanza del TAR Puglia-Bari,
sez. I, n. 427/2013, che ha chiesto alla
Corte di Giustizia della Unione Europea di valutare la
conformità alla direttiva 1993/13/CEE di una norma o di una
prassi nazionale che, ai fini della proposizione di un
ricorso diretto a far valere la violazione della normativa
in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, faccia
decorrere il termine per la presentazione del ricorso dal
momento in cui il soggetto ha avuto, o avrebbe dovuto avere
contezza della violazione stessa, precludendo altresì di
dare rilevanza, ai medesimi fini, alla conoscenza dei vizi
di cui l’interessato abbia avuto conoscenza tardiva a causa
del comportamento della stazione appaltante.
10.3.2. Ebbene, la Corte di Giustizia, con sentenza
pronunciata l’08/05/2014 nella causa C-161/13, caso
Idronamica, dopo aver ricordato che nel caso Uniplex la
Corte si era già espressa nel senso che il principio della
certezza del diritto ed il favor per la celerità
delle procedure di gara impone che le informazioni ottenute
a seguito di accesso agli atti di gara non possono servire a
proporre un ricorso dopo la scadenza del termine previsto a
tale scopo dalla normativa nazionale, ha ulteriormente
precisato che si deve ritenere possibile la
riapertura di detto termine quando alla decisione lesiva
abbia fatto seguito, successivamente, una nuova decisione
che abbia modificato quella precedente e sempre che sia
possa affermare che il ricorrente non era già prima in
condizione di apprezzare -sulla base delle informazioni
ottenute a tempo debito o di quelle che avrebbe potuto
tempestivamente ottenere con l’ordinaria diligenza-
l’esistenza di eventuali violazioni della normativa relativa
alle procedure di gara.
Per chiarezza espositiva va precisato che nel caso
sottoposto alla attenzione della Corte si era verificato che
successivamente alla aggiudicazione definitiva ed alla
scadenza del termine di 30 giorni, di cui all’art. 120 comma
5 c.p.a., per l’impugnativa della medesima, la stazione
appaltante aveva consentito il recesso di una delle imprese
facenti parte del raggruppamento aggiudicatario, provvedendo
poi alla stipula del contratto con quel raggruppamento che
però, nella sopravvenuta nuova formazione, non coincideva
con quello aggiudicatario.
La Corte, pur enunciando il principio di cui sopra, non ha
mancato di rilevare che nella specie l’interessato aveva in
realtà censurato irregolarità commesse prima della
originaria aggiudicazione dell’appalto, ed ha quindi
ribadito che in linea generale, e fatto salvo il caso di
intervenuta modifica della determina di aggiudicazione
definitiva, la possibilità di spiegare ricorso deve
intendersi garantita solo entro il termine di impugnazione
riconosciuto in generale dalla normativa nazionale, fatte
salve diverse disposizioni riconosciute espressamente dal
diritto nazionale.
10.3.3. Il Collegio ritiene che dalla dianzi ricordata
sentenza della Corte di Giustizia U.E. si possa trarre un
insegnamento particolarmente interessante per il caso di
specie, segnatamente per il fatto che essa, fatta salva
l’ipotesi –non ricorrente nel caso di specie– in cui
l’aggiudicazione (o l’atto da impugnare) venga in seguito
modificata, ha confermato il principio -già espresso nel
caso Uniplex- secondo il quale il termine
per l’impugnazione del ricorso decorre dal momento in cui
l’interessato abbia, o debba avere, piena conoscenza della
pretesa violazione della normativa in materia di gara
d’appalto.
Da entrambe le pronunce si evince, più in dettaglio, che
ai fini della decorrenza del termine per proporre
ricorso avverso una decisione di aggiudicazione necessita la
conoscenza (non solo delle ragioni della decisione ma anche)
dei vizi che affliggerebbero la gara, ma d’altro canto che è
anche onere dell’interessato di attivarsi al fine di
acquisire tale conoscenza:
la Corte, infatti, parla specificamente (al punto 37 della
sentenza Idronamica) di “data in cui il ricorrente ha
conosciuto o avrebbe dovuto essere a conoscenza della
pretesa violazione di dette disposizioni”, così
evidenziando che alla conoscenza effettiva può essere
equiparata, secondo una fictio juris, anche una
conoscenza “legale”, cioè una conoscenza che, seppure
in concreto non sussistente, il soggetto avrebbe potuto
acquisire ove posto in condizione di esercitare l’accesso
alle informazioni.
10.3.4. Ciò premesso va ricordato che con la disposizione di
cui all’art. 79, comma 5-quater, del D.L.vo 163/2006,
introdotta con D.L.vo 53/2010, il legislatore ha stabilito
che “Fermi i divieti dell’accesso previsti all’art. 13,
l’accesso agli atti del procedimento in cui sono adottati
gli atti oggetto di comunicazione ai sensi del presente
articolo è consentito entro dieci giorni dall’invio della
comunicazione dei provvedimenti medesimi mediante visione ed
estrazione di copia. Non occorre istanza scritta di accesso
e provvedimento di ammissione, salvi i provvedimenti di
differimento o di esclusione dall’accesso adottati ai sensi
dell’art. 13. Le comunicazioni di cui al comma 5 indicano se
ci sono atti per i quali l’accesso é vietato o differito ed
indicano l’ufficio presso cui l’accesso può essere
esercitato, e i relativi orari, garantendo che l’accesso sia
consentito durante tutto l’orario in cui l’ufficio è aperto
al pubblico o il personale presta servizio”.
Tale disposizione, ad avviso del Collegio, denota che
il legislatore non ha semplicemente inteso
facilitare l’accesso agli atti delle gare pubbliche:
infatti, prescrivendo che nelle varie comunicazioni le
stazioni appaltanti rappresentino ai partecipanti
l’immediata possibilità di esercitare l’accesso evidenziando
comunque la natura degli atti per i quali l’accesso è
differito o non consentito; stabilendo la accessibilità a
priori di ogni documento, salvo quelli, da indicarsi
partitamente, per i quali sussistano le condizioni per
differire o non consentire l’accesso; imponendo inoltre che
detto accesso sia consentito in ogni momento durante gli
orari di servizio del personale, e dunque anche fuori dagli
orari di apertura al pubblico degli uffici;
con tutto ciò, insomma, è evidente che il
legislatore ha agito con la finalità di evitare che i
partecipanti alle gare possano posticipare l’impugnativa
delle varie decisioni accampando pretesti o scuse per
giustificare la mancata piena conoscenza delle motivazioni
di esse e dei possibili vizi della gara, il che è quanto
dire che il legislatore ha precisamente inteso porre, sui
partecipanti alle gare, l’onere di esercitare l’accesso agli
atti di gara non appena ricevuta, dalla stazione appaltante,
la relativa comunicazione completa delle indicazioni di cui
al ricordato art. 79, comma 5-quater.
L’introduzione di un tale onere, a carico del partecipante
ad una gara d’appalto, non trova, ad avviso del Collegio,
ostacolo nelle modalità di accesso garantite dalla norma da
ultimo citata: anzi il Collegio ritiene che siffatto accesso
non sia ontologicamente diverso da quello che sarebbe
garantito ove esercitato previa presentazione di apposita
istanza.
E’ quindi opinione del Collegio che non ha
senso distinguere l’accesso garantito dall’art. 79, comma
5-quater, definendolo come “semplificato” o “informale”,
dal momento che esso costituisce (per le ragioni già
precisate) un onere (di guisa che un eventuale accesso “formale”
successivo diventa irrilevante) e perché esso è comunque
idoneo a consentire all’interessato di determinarsi
compiutamente in ordine alla decisione di proporre il
ricorso.
10.3.5. Il Collegio ritiene che la norma dianzi esaminata
non si ponga in contrasto con la normativa europea in
materia di appalti, stante che nei casi Uniplex e Idronamica
la Corte di Giustizia, sia pure con specifico riferimento
alla impugnativa della aggiudicazione definitiva in un
settore specifico degli appalti, ha già avuto modo di
affermare l’equipollenza tra la conoscenza effettiva e
quella che l’interessato avrebbe potuto o dovuto conseguire
esercitando l’accesso agli atti.
Il Collegio ritiene pertanto condivisibile quella opzione
ermeneutica, già fatta propria anche da altre pronunce (come
quella del TAR Umbria, sez. I n. 448/2014, nonché del
C.d.S., sez. III, n. 4432/2014), che ha ritenuto che
il termine per impugnare l’aggiudicazione definitiva
e gli altri atti che, a norma dell’art. 79 C.C.P., debbano
essere ritualmente comunicati ai partecipanti, decorre dalla
ricezione di essi laddove tale informativa consenta di
apprezzare compiutamente sia le ragioni del provvedimento
sia la presenza di eventuali vizi della procedura; in caso
contrario il termine per l’impugnazione degli atti di gara
deve farsi comunque decorrere dal giorno in cui
l’interessato ha esercitato l’accesso agli atti, accesso che
la stazione appaltante deve, ai sensi dell’art. 79, comma
5-quater, C.C.P., garantire entro i dieci giorni successivi
a ciascuna comunicazione.
Più precisamente, laddove non sia provato
che l’interessato ha in concreto esercitato l’accesso prima
del decorso del menzionato termine di dieci giorni, il
termine decorrerà dalla scadenza di esso dovendosi a tale
momento ritenere acquisita una conoscenza “legale”
degli atti della procedura; di converso, solo dimostrando
che la stazione appaltante non ha adempiuto agli obblighi
nascenti dall’art. 79, comma 5-quater, C.C.P. l’interessato
potrà ottenere di far decorrere il termine per l’impugnativa
da un momento successivo, sempre che i provvedimenti da
impugnare non contengano già sufficienti elementi per
consentire la proposizione di un ricorso. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 29 (Responsabilità del titolare del
permesso di costruire, del committente, del costruttore e
del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per
le opere subordinate a denuncia di inizio attività), comma
1, ultima parte, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevede che
l’autore dell’abuso edilizio sia tenuto alle spese per
l'esecuzione in danno in caso di demolizione delle opere
realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili
dell'abuso.
Qui si controverte se si possa configurare la sussistenza di
questo obbligo di legge non già per lo stretto intervento di
effettiva demolizione, ma anche per precedenti interventi
(nella specie: di appaltatori dell’amministrazione comunale)
andati a vuoto per ragioni comunque imputabili
all’interessato, come quando si è dichiarato disponibile a
effettuare direttamente l’intervento ripristinatorio e così
ha dato causa alla interruzione della demolizione medesima.
Il Collegio ritiene che l’obbligo suddetto delle spese per
l’esecuzione in danno ben ricomprenda anche le spese per
siffatti precedenti interventi non portati a buon fine, pur
se diretti alla demolizione. Vi è infatti uno spontaneo
accollo di una demolizione in danno, e il fatto che questa
non venga poi realizzata non può che ridondare in oggettivo
danno dell’inadempiente accollante. Si è del resto in
presenza, da parte dell’interessato, di un implicito
riconoscimento della imputabilità del loro insuccesso, oltre
che della conferma dell’assunzione dell’obbligo.
In sostanza, l’interessata aveva essa stessa chiesto di
rinviare la demolizione, impegnandosi ad eseguire
spontaneamente la stessa in un prossimo futuro: e tanto vale
a configurare questa situazione.
---------------
L’ingiunzione di pagamento della somma occorsa per i lavori
di demolizione in danno, atto meramente esecutivo e
vincolato rispetto alle precedenti determinazioni, non
richiede un’autonoma comunicazione di inizio del
procedimento di cui all’art. 7, l. 07.08.1990, n. 241.
L’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che
l’opera acquisita sia demolita con ordinanza del dirigente o
del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei
responsabili dell'abuso.
2. L’appello è infondato nel merito.
L’art. 29 (Responsabilità del titolare del permesso di
costruire, del committente, del costruttore e del direttore
dei lavori, nonché anche del progettista per le opere
subordinate a denuncia di inizio attività), comma 1, ultima
parte, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevede che l’autore
dell’abuso edilizio sia tenuto alle spese per l'esecuzione
in danno in caso di demolizione delle opere realizzate,
salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso.
Qui si controverte se si possa configurare la sussistenza di
questo obbligo di legge non già per lo stretto intervento di
effettiva demolizione, ma anche per precedenti interventi
(nella specie: di appaltatori dell’amministrazione comunale)
andati a vuoto per ragioni comunque imputabili
all’interessato, come quando si è dichiarato disponibile a
effettuare direttamente l’intervento ripristinatorio e così
ha dato causa alla interruzione della demolizione medesima.
Il Collegio ritiene che l’obbligo suddetto delle spese per
l’esecuzione in danno ben ricomprenda anche le spese per
siffatti precedenti interventi non portati a buon fine, pur
se diretti alla demolizione. Vi è infatti uno spontaneo
accollo di una demolizione in danno, e il fatto che questa
non venga poi realizzata non può che ridondare in oggettivo
danno dell’inadempiente accollante. Si è del resto in
presenza, da parte dell’interessato, di un implicito
riconoscimento della imputabilità del loro insuccesso, oltre
che della conferma dell’assunzione dell’obbligo.
In sostanza, l’interessata aveva essa stessa chiesto di
rinviare la demolizione, impegnandosi ad eseguire
spontaneamente la stessa in un prossimo futuro: e tanto vale
a configurare questa situazione.
E’ infondato anche il motivo di appello con cui l’appellante
deduce la duplicazione di contratti del Comune con i due
contraenti, perché il secondo appaltatore Icomes ha
provveduto a demolire nell’anno 2011 le opere abusive,
mentre l’appaltatore Ati Edil Soccavo era intervenuto nei
due precedenti episodi del giugno e del luglio 2010, non
portati a compimento.
Non ha rilievo la circostanza che l’effettivo contratto tra
il Comune e l’appaltatore Ati Edil Soccavo fosse di alcuni
giorni successivo al primo intervento in quanto, come
dedotto dall’amministrazione comunale, già prima vi era
stata una consegna urgente dei lavori e riserva e successiva
stipulazione del contratto.
Allo stesso modo, non rileva la presenza eventuale di
un’altra impresa ai tentativi andati a vuoto, se ciò non ha
determinato –o non si dimostra che abbia determinato– una
duplicazione effettiva dei costi in relazione allo specifico
intervento.
E’ infondata anche la censura di appello che contesta la
corretta quantificazione, sostenendo che, nel rapporto tra
la effettiva demolizione (circa euro 28.000) e i tentativi
andati a vuoto (circa 10.000 euro) vi sarebbe una
sproporzione non giustificata.
Il Collegio osserva che talune delle voci della nota
relativa all’intervento di demolizione (smaltimento dei
rifiuti e altro) non possono essere contenute nelle note
relative agli interventi inutili. Tuttavia, è evidente che
le spese sostenute dall’appaltatore, e dovute a sua volta
dal Comune, comprendessero i costi vivi sostenuti in quelle
giornate, certo inferiori al reale intervento di
demolizione, ma non per questo indifferenti.
L’ingiunzione di pagamento della somma occorsa per i lavori
di demolizione in danno, atto meramente esecutivo e
vincolato rispetto alle precedenti determinazioni, non
richiede un’autonoma comunicazione di inizio del
procedimento di cui all’art. 7, l. 07.08.1990, n. 241 (tra
varie, Cons. Stato, IV, 27.07.2011, n. 4506).
L’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che
l’opera acquisita sia demolita con ordinanza del dirigente o
del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei
responsabili dell'abuso (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.02.2015 n. 715 -
link a www.giustizia-amminitrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul risarcimento del danno derivante dal ritardo
nel rilascio dell'autorizzazione all'installazione di un
tabellone elettronico.
... per il risarcimento del danno derivante dal ritardo nel
rilascio dell'autorizzazione all'installazione di un
tabellone elettronico.
...
Passando all’esame della domanda, questo Tribunale ha già dichiarato
illegittimo il ritardo serbato dal Comune di Angri
sull’istanza proposta dalla società ricorrente per
l’autorizzazione alla installazione di un tabellone
elettronico nel territorio comunale, il tutto con sentenza
n. 204/2007.
Non può, quindi, essere revocata in dubbio l’illegittimità
del ritardo con cui il Comune di Angri concludeva il
procedimento, avendo la società istante ottenuto il rilascio
del provvedimento favorevole solo a seguito della determina
del Commissario ad acta del 01.03.2007.
Se ciò è vero, non può, tuttavia, condividersi l’assunto
della ricorrente volto a computare, ai fini del quantum
risarcitorio richiesto, anche il tempo successivo alla
suddetta delibera commissariale, atteso che non è dato
riscontrare, ad avviso di questo Collegio, un ritardo
colpevole nella attività amministrativa che si è svolta dopo
il rilascio del provvedimento autorizzatorio.
Dalla narrazione dei fatti di causa, come contenuta in
ricorso, e dall’esame della documentazione ad esso allegata,
infatti, si evince che il Commissario ad acta subordinava
l’esecutività dell’atto di autorizzazione all’approvazione
di una apposita convenzione, da delibarsi mediante delibera
giuntale, atteso che il tabellone avrebbe dovuto avere una
prevalente finalità pubblica e rientrare nella previsione di
cui all’art. 15 del regolamento comunale per la disciplina
dell’arredo commerciale.
Risulta, poi, che con nota del 16.03.2007, il
Responsabile U.O.C. del Comune rilevava la difformità della
proposta di convenzione, trasmessa dalla società in data 14.03.2007, al punto 2 della autorizzazione, di modo che la
convenzione veniva stipulata e sottoscritta solo in data 06.06.2007.
Vi è, quindi, uno spazio temporale, nello specifico dal 01.03.2007 al novembre 2007, con riferimento al quale non
sono state sollevate specifiche censure in termini di
illegittimità e che, del resto, non è stato preso in
considerazione dalla sentenza di questo Tar n. 204/2007, né
è dato evincere, dalla lettura del ricorso, se, una volta
stipulata la convenzione, l’installazione del tabellone sia
avvenuta solo nel novembre 2007 per circostanze imputabili
ad un comportamento colpevole dell’amministrazione comunale.
Conseguentemente, la richiesta risarcitoria avanzata col
presente ricorso deve essere proporzionalmente ridotta,
andando ad escludere dal computo dei danni asseritamente
subiti quelli relativi al periodo sopra indicato
(marzo-novembre 2007) e ricomprendendovi soltanto il periodo
decorrente dalla data di iniziale presentazione dell’istanza
alla data di effettivo rilascio dell’autorizzazione con
provvedimento commissariale (17.01.2006-05.03.2007).
Passando, quindi, all’esame del quantum debeatur, il
Collegio prende atto del contenuto della relazione di parte,
regolarmente depositata in uno all’atto introduttivo della
lite, dalla quale si evince che il volume di affari per
l’attività di sviluppo e diffusione di messaggi pubblicitari
ammontava, relativamente agli anni 2008 e 2009, ad euro
16.333,35 ed euro 12.656,25, per una media annua di circa
15.000,00 euro, mentre nell’anno 2007, aveva raggiunto la
cifra di soli euro 1.200,00.
Per tali ragioni, ed in mancanza di ulteriori elementi di
prova circa il mancato guadagno lamentato dalla società
istante, il Collegio stima equo riconoscere un lucro
cessante per un solo anno di ritardo pari ad euro 10.000,00,
escludendo, dalla somma così indicata, l’ammontare
complessivo dei costi annui indicato in euro 13.800,00,
atteso che tali costi sarebbero stati sostenuti dalla
società anche in caso di tempestivo rilascio
dell’autorizzazione ed installazione del tabellone di cui
trattasi.
Il ricorso, quindi, va accolto con condanna del Comune di
Angri al pagamento, in favore della società istante, della
somma di euro 10.000,00 a titolo di risarcimento del danno
da ritardo nella conclusione del procedimento, oltre
interessi legali dalla data della comunicazione, o della
notificazione se anteriore, della presente sentenza sino al
soddisfo
(TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 26.01.2015 n. 207 - link a
www.giustizia-amminitrativa.it). |
APPALTI: L'art.
art. 51 del d.lgs. 163/2006, consente espressamente il
subentro dei soggetti risultanti da operazioni di cessione,
affitto di azienda, ovvero da trasformazione, fusione, e
scissione durante la gara, previo accertamento dei requisiti
di ordine generale, sia di ordine speciale (nei limiti
temporali di cui all’esame del precedente motivo di
ricorso).
Poiché nelle gare indette per l’aggiudicazione, l’istituto
dell’avvalimento ha portata generale ai fini della
dimostrazione del possesso dei requisiti di partecipazione,
con riguardo al possesso dei requisiti tecnici in caso di
cessione, sono certamente riconducibili al patrimonio di una
società o di imprenditori cessionari prima della
partecipazione alla gara di un ramo d’azienda i requisiti
posseduti dal soggetto cedente, giacché essi devono
considerarsi compresi nella cessione in quanto strettamente
connessi all’attività propria del ramo ceduto.
Con il quarto motivo di ricorso la
società Cosir s.r.l si duole del fatto che la società
Lavajet Global s.r.l. avrebbe dovuto essere esclusa per
mancanza dei requisiti di capacità tecnico-professionale
richiesti dal bando di gara, segnatamente del fatturato
specifico in servizi analoghi che, in base alla lex
specialis, avrebbe dovuto essere pari almeno al 60% di
quello globale, a sua volta fissato in almeno ad €
1.945.533,87 da conseguirsi nel triennio 2011-2013.
A tal riguardo la ricorrente, considerato il fatto che
l’aggiudicataria è stata costituita solo il 02.08.2011 e
che il dichiarato un fatturato specifico dalla stessa, pari
a € 1.673.896, riguarda contratti stipulati dal 2009,
conclude che “l’originaria affidataria dello stesso non
poteva che essere non la Lavajet s.r.l.”.
Come già emerso, in effetti l’aggiudicataria ha concluso
nell’anno 2011 un contratto d’affitto di ramo d’azienda
dalla predetta soc. Lavajet s.r.l. che, come riconosciuto
dalla ricorrente, ha comportato la anche la cessione dei
relativi contratti su cui si è basata la dichiarazione di
possesso dei requisiti da parte dell’aggiudicataria. E’
emerso anche che la predetta Lavajet s.r.l sia fallita nel
2012, su tale presupposto assume infatti la ricorrente che,
ai sensi dell’art. 72 legge fallimentare, si sarebbe
verificato lo “scioglimento” dei relativi contratti, nonché
la sospensione del contratto d’affitto di ramo d’azienda a
monte.
Conclude infine la ricorrente affermando che, dato il fatto
che tutti i mezzi, attrezzature, esperienze professionali e
fatturato dell’aggiudicataria dipendono da quelli posseduti
dalla società Lavajet s.r.l., il fallimento di quest’ultima
ha comportato l’inidoneità per l’aggiudicataria di avvalersi
di tali requisiti.
Il motivo è infondato per le seguenti ragioni.
Con riguardo agli eventuali pregiudizi sul possesso dei
requisiti generali che potrebbero riflettersi sulla
concorrente Lavajet Global s.r.l., in conseguenza del
fallimento della Società Lavajet s.r.l., si è già detto
nell’esame del precedente terzo motivo di ricorso.
Ciò che qui rileva è il fatto, incontestato e dunque da
ritenersi accertato, del prosieguo regolare dei due
contratti con la subentrante Lavajet Global s.r.l. in forza
del contratto d’affitto d’azienda.
Deve inoltre
sottolinearsi, come affermato da costante giurisprudenza, il
fatto che la concorrente può avvalersi dei requisiti
maturati dall’impresa cedente, infatti è stato affermato che
“detto art. 51 del d.lgs. 163/2006, consente infatti
espressamente il subentro dei soggetti risultanti da
operazioni di cessione, affitto di azienda, ovvero da
trasformazione, fusione, e scissione durante la gara, previo
accertamento dei requisiti di ordine generale, sia di ordine
speciale (nei limiti temporali di cui all’esame del
precedente motivo di ricorso). Poiché nelle gare indette per
l’aggiudicazione, l’istituto dell’avvalimento ha portata
generale ai fini della dimostrazione del possesso dei
requisiti di partecipazione, con riguardo al possesso dei
requisiti tecnici in caso di cessione, sono certamente
riconducibili al patrimonio di una società o di imprenditori
cessionari prima della partecipazione alla gara di un ramo
d’azienda i requisiti posseduti dal soggetto cedente,
giacché essi devono considerarsi compresi nella cessione in
quanto strettamente connessi all’attività propria del ramo
ceduto” (Consiglio di Stato, sez. V, 10.09.2010,
n. 5803)
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 16.01.2015 n. 91 - link a www.giustizia-amminitrativa.it). |
APPALTI: A
questo Collegio non sfugge l’orientamento costante della
giurisprudenza in base al quale, nel caso in cui gli
amministratori di una società partecipante ad una gara
abbiano subito sentenza di condanna passata in giudicato,
decreto penale di condanna irrevocabile, sentenza di
applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. e fatta eccezione
per i casi di automatica esclusione ai sensi dell’art. 38,
comma 1, lett. c), del d.lgs n. 163/2006, rientri nella
discrezionalità della stazione appaltante valutare la loro
gravità ai fini dell’esclusione del concorrente.
---------------
Come è noto, la giurisprudenza ha interpretato la incidenza
sulla moralità professionale, nel senso della rilevanza
dell'interesse dell'Amministrazione a non contrarre
obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata
moralità professionale in relazione al tipo di contratto
oggetto della gara.
Il requisito della moralità professionale richiesto per la
partecipazione alle gare pubbliche di appalto è stato
considerato mancante nell'ipotesi di commissione di un reato
specifico connesso al tipo di attività che il soggetto deve
svolgere (ex multis, Consiglio Stato, sez. V, 12.04.2007, n.
1723, Tar Lazio, Roma, Sez. III, 07.09.2011, n. 7141 proprio
rispetto alla condanna per violazione della normativa
antinfortunistica in una gara di appalto di lavori).
Anche la nozione di gravità del reato deve essere valutata
non in relazione alla considerazione penalistica del reato,
ma all’interesse dell’Amministrazione al corretto
adempimento delle obbligazioni oggetto del contratto.
Ne deriva che, come è evidente, la gravità del reato, ai
sensi dell’art. 38, non è esclusa dalla lieve pena edittale
prevista nella fattispecie penale o dalla natura
contravvenzionale dello stesso.
La gravità del reato deve essere valutata in relazione alla
incidenza dello stesso sulla moralità professionale in
relazione al contenuto del contratto oggetto della gara che
assume, quindi, importanza fondamentale al fine di
apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo
concorrente.
In definitiva, il Collegio condivide quella giurisprudenza
secondo cui è irrilevante rispetto a tale valutazione della
stazione appaltante la gravità del reato sanzionato in sede
penale in relazione alla pena edittale o al fatto che si
tratti di contravvenzioni.
Deve, a questo
punto, essere esaminato il quinto motivo di ricorso.
Con esso la società ricorrente si duole del fatto che,
nonostante il legale rappresentante della società Lavajet
Global Service s.r.l., il sig. R.D., abbia subito
condanne penali, la società predetta non sia stata esclusa
dalla procedura di gara.
Il motivo è fondato e deve essere accolto per le ragioni di
seguito indicate.
A questo Collegio non sfugge l’orientamento costante della
giurisprudenza in base al quale, nel caso in cui gli
amministratori di una società partecipante ad una gara
abbiano subito sentenza di condanna passata in giudicato,
decreto penale di condanna irrevocabile, sentenza di
applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. e fatta eccezione
per i casi di automatica esclusione ai sensi dell’art. 38,
comma 1, lett. c), del d.lgs n. 163/2006, rientri nella
discrezionalità della stazione appaltante valutare la loro
gravità ai fini dell’esclusione del concorrente.
Nel caso qui esaminato, a fronte di provvedimenti definitivi
del giudice penale a carico del sig. D., per i reati di
“Attività di gestione rifiuti non autorizzata” ai sensi
dell’art. 51, comma 1, lett. a), del d.lgs n. 22/97 e di
“violazione delle norme di attuazione delle Direttive
91/156/CE sui rifiuti, 91/6897CE sui rifiuti pericolosi e
94/62CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio” ai
sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 22/1997, risultati non
depenalizzati, estinti o per i qual operi la riabilitazione,
la decisione assunta dalla commissione di gara nella seduta
del giorno 03.04.2014, di non escludere il concorrente,
(verbale di gara n. 2) basata sulla mera constatazione che
trattasi di “ammende le quali non incidono sulla moralità
professionale” è difatti apodittica e priva di ogni sostegno
motivazionale.
Come è noto, la giurisprudenza ha interpretato la incidenza
sulla moralità professionale, nel senso della rilevanza
dell'interesse dell'Amministrazione a non contrarre
obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata
moralità professionale in relazione al tipo di contratto
oggetto della gara.
Il requisito della moralità professionale richiesto per la
partecipazione alle gare pubbliche di appalto è stato
considerato mancante nell'ipotesi di commissione di un reato
specifico connesso al tipo di attività che il soggetto deve
svolgere (ex multis, Consiglio Stato, sez. V, 12.04.2007, n. 1723, Tar Lazio, Roma, Sez. III,
07.09.2011,
n. 7141 proprio rispetto alla condanna per violazione della
normativa antinfortunistica in una gara di appalto di
lavori).
Anche la nozione di gravità del reato deve essere valutata
non in relazione alla considerazione penalistica del reato,
ma all’interesse dell’Amministrazione al corretto
adempimento delle obbligazioni oggetto del contratto.
Ne deriva che, come è evidente, la gravità del reato, ai
sensi dell’art. 38, non è esclusa dalla lieve pena edittale
prevista nella fattispecie penale o dalla natura contravvenzionale dello stesso.
La gravità del reato deve essere valutata in relazione alla
incidenza dello stesso sulla moralità professionale in
relazione al contenuto del contratto oggetto della gara che
assume, quindi, importanza fondamentale al fine di
apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo
concorrente.
In definitiva, il Collegio condivide quella giurisprudenza
secondo cui è irrilevante rispetto a tale valutazione della
stazione appaltante la gravità del reato sanzionato in sede
penale in relazione alla pena edittale o al fatto che si
tratti di contravvenzioni (Consiglio Stato, sez. VI, 04.06.2010, n. 3560).
Considerata la tipologia dei servizi da affidare,
consistenti nello spazzamento, pulizia e ritiro di rifiuti e
vista la natura dei reati per cui il sig. D. è stato
condannato, ovvero svolgimento di attività di gestione
rifiuti non autorizzata e di violazione delle norme
dell’Unione europea sui rifiuti pericolosi, era
pacificamente da effettuare una adeguata e congrua
motivazione circa la non incidenza di tali fatti di reato
sulla moralità dell’appaltatore, anche nel dovuto rispetto
del principio di “par condicio” tra concorrenti, per poter
assumere la decisione di ammettere alle successive fasi di
gara l’impresa risultata vincitrice. Cosa, quest’ultima, non
risultante dal verbale di gara n. 2 ove tale decisione è
stata formalizzata, affermando semplicemente che le sanzioni
applicate non incidono sulla moralità professionale, senza
tuttavia indicarne le ragioni.
In conclusione, alla luce dei rilievi che precedono, il
motivo è fondato
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 16.01.2015 n. 91 - link a www.giustizia-amminitrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' da escludere che possa riconoscersi natura
equivalente al rilascio della concessione alla nota con cui
il comune ha comunicato alla ricorrente il parere favorevole
della commissione edilizia, non solo perché essa lo
escludeva esplicitamente, affermandosi che: “La presente
comunicazione non costituisce titolo per l’inizio dei
lavori, né equipollente della concessione edilizia”, ma
anche perché ne condizionava espressamente il rilascio alla
produzione di ulteriori atti costituenti specifici oneri
(impegnativo di cessione di aree per pista ciclabile e atto
unilaterale d’obbligo di vincolo della destinazione d’uso).
Il collegio ritiene poi da escludere che
possa riconoscersi natura equivalente al rilascio della
concessione alla nota del 20.02.1995, con cui il
comune ha comunicato alla ricorrente il parere favorevole
della commissione edilizia, non solo perché essa lo
escludeva esplicitamente, affermandosi che: “La presente
comunicazione non costituisce titolo per l’inizio dei
lavori, né equipollente della concessione edilizia”, ma
anche perché ne condizionava espressamente il rilascio alla
produzione di ulteriori atti costituenti specifici oneri
(impegnativo di cessione di aree per pista ciclabile e atto
unilaterale d’obbligo di vincolo della destinazione d’uso).
Ritiene pertanto il collegio che non vi fosse stato il
rilascio della concessione anteriormente alla data di
adozione della delibera di variante.
L’atto di salvaguardia risulta pertanto essere stato
correttamente emanato dopo che la delibera di adozione della
variante, con il cui contenuto il progetto risultava in
contrasto, era divenuta regolarmente esecutiva, senza
contare che le misure di salvaguardia trovano comunque
applicazione a decorrere dalla data della deliberazione
comunale di adozione della pianificazione (l. 1902/1952) e
quindi ancor prima dell’esecutività. Dalle argomentazioni
che precedono si evince pertanto che il comune ha agito in
doverosa applicazione della normativa, per cui non sussiste,
per definizione, spazio per alcun eccesso di potere
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.12.2014 n. 1539 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parte ricorrente, dopo essersi limitata a
comunicare l’inizio dei lavori “di scavo e sbancamento” non
risulta effettivamente aver effettuato alcuna ulteriore
opera sicuramente riconducibile all’esecuzione della
concessione edilizia, tant’è che il verbale di sopralluogo,
in nessun modo contestato, rilevava che gli unici lavori
effettuati consistevano “in un modesto sbancamento del piano
verde dell’area, con accumulo del materiale di riporto ai
lati della stessa.
Nessun cantiere risulta impiantato, né risulta iniziata
alcuna opera, anche di minima portata. Lo stesso sbancamento
non risulta effettuato in epoca recente, visto che l’attuale
piano del terreno e i cumuli di terra ai lati sono ricoperti
di verde.”.
È evidente che quanto sopra non può ritenersi integrante un
effettivo inizio dei lavori, mancando qualsiasi elemento in
grado di far ritenere che fosse stato nei termini approntato
un cantiere; e poi evidente che la corresponsione degli
oneri dovuti, per quanto ingenti, non vale a sanare la
totale mancanza dell’avvio dei lavori edili.
Per quanto sopra è evidente che il comune non poteva
sottrarsi alla rilevazione della intervenuta decadenza, non
trattandosi di atto disponibile da parte dell’ente locale.
Per le stesse ragioni, e cioè la doverosità dell’operato
comunale, è evidente che nessuna comunicazione di avvio di
procedimento poteva ritenersi dovuta, tanto più che nessun
apporto collaborativo del privato avrebbe potuto in alcun
modo ovviare al contenuto vincolato dell’atto comunale.
Il ricorso numero 3284/1998 è infondato perché il
provvedimento impugnato, a prescindere dall’evidente errore
materiale rappresentato dal riferimento alla “mancata
esecuzione” dei lavori entro un anno dal rilascio della
concessione anziché “all’inizio dei lavori”, risulta
pienamente rispondente al disposto normativo.
Come infatti
lo stesso ricorrente ricorda, la concessione stessa
prevedeva che i lavori dovessero essere iniziati entro un
anno e parte ricorrente, dopo essersi limitata a comunicare
l’inizio dei lavori “di scavo e sbancamento” non risulta
effettivamente aver effettuato alcuna ulteriore opera
sicuramente riconducibile all’esecuzione della concessione
edilizia, tant’è che il verbale di sopralluogo, in nessun
modo contestato, rilevava che gli unici lavori effettuati
consistevano “in un modesto sbancamento del piano verde
dell’area, con accumulo del materiale di riporto ai lati
della stessa. Nessun cantiere risulta impiantato, né risulta
iniziata alcuna opera, anche di minima portata. Lo stesso
sbancamento non risulta effettuato in epoca recente, visto
che l’attuale piano del terreno e i cumuli di terra ai lati
sono ricoperti di verde.”.
È evidente che quanto sopra non
può ritenersi integrante un effettivo inizio dei lavori
(Consiglio di Stato sez. IV N. 4201/2014, TAR Palermo
(Sicilia) sez. II N. 1081/2014), mancando qualsiasi elemento
in grado di far ritenere che fosse stato nei termini
approntato un cantiere; e poi evidente che la corresponsione
degli oneri dovuti, per quanto ingenti, non vale a sanare la
totale mancanza dell’avvio dei lavori edili.
Per quanto
sopra è evidente che il comune non poteva sottrarsi alla
rilevazione della intervenuta decadenza, non trattandosi di
atto disponibile da parte dell’ente locale. Per le stesse
ragioni, e cioè la doverosità dell’operato comunale, è
evidente che nessuna comunicazione di avvio di procedimento
poteva ritenersi dovuta, tanto più che nessun apporto
collaborativo del privato avrebbe potuto in alcun modo
ovviare al contenuto vincolato dell’atto comunale.
Infine anche il ricorso 230/1999 è evidentemente infondato
per le stesse ragioni appena enunciate, con l’ulteriore
precisazione che la reiterazione della dichiarazione di
decadenza, in luogo di una correzione dell’errore materiale
come precedentemente commesso, non ha di per sé effetto
viziante dell’atto, che rimane atto vincolato e a contenuto
dichiarativo e che rimane comunque indenne da tutti i motivi
di ricorso per le ragioni già precedentemente esplicitate
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.12.2014 n. 1539 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
“sagoma” di un edificio deve intendersi, secondo un
consolidato orientamento giurisprudenziale, la
“conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale,
ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi
comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli
sporti”.
Infine, infondata è l’ultima doglianza concernente la
pretesa violazione dell’art. 9, co. 7, lett. l), del decreto
legge n. 495/1996, in quanto illegittimamente il Comune
resistente avrebbe sottoposto alla valutazione della
Commissione edilizia il progetto di realizzazione del
giardino pensile, trattandosi di mera variante a concessione
edilizia già rilasciata, come tale assoggettata a semplice
denunzia di inizio attività.
Sul punto, la confutazione della tesi del ricorrente deriva
dalla mera lettura della richiamata disposizione, che
esclude dal regime della d.i.a. gli interventi che alterino
la sagoma dei manufatti. Infatti, per “sagoma” di un
edificio deve intendersi, secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale, la “conformazione
planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro
considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il
contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le
strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”
(cfr. C.d.S., sez. VI, 15.03.2013, n. 1564).
In tal senso, sono evidenti le alterazioni della sagoma
implicate dal progetto del ricorrente, come si rileva dagli
elaborati grafici e dalla stessa relazione tecnica, in
quanto è stata prevista, tra l’altro, la realizzazione di “arcate
in cemento armato a vista” lungo tutto il perimetro del
tetto e senza soluzione di continuità
(TAR Basilicata,
sentenza 01.10.2014 n. 712 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La errata o insufficiente (non importa se dolosa
o colposa) rappresentazione di circostanze di fatto esposte
nella domanda e relativi allegati di concessione edilizia
posta alla base del rilascio dell’atto della concessione
edilizia che diversamente non sarebbe stata rilasciata,
costituisce da sola ragione sufficiente per giustificare un
provvedimento di annullamento di ufficio della concessione
medesima, tanto che in tale situazione si può prescindere
dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e
concreto.
Inoltre, come ha osservato il comune, “è stata
rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto
in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio
di legittimità del permesso di costruire n. 16/04 del
23.04.2004, determinato dallo stesso soggetto richiedente”.
La errata o insufficiente (non importa se dolosa o colposa)
rappresentazione di circostanze di fatto esposte nella
domanda e relativi allegati di concessione edilizia posta
alla base del rilascio dell’atto della concessione edilizia
che diversamente non sarebbe stata rilasciata, costituisce
da sola ragione sufficiente per giustificare un
provvedimento di annullamento di ufficio della concessione
medesima, tanto che in tale situazione si può prescindere
dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e
concreto (in tal senso anche C. Stato, V, 12.10.2004, n.
6554)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.12.2008 n. 6554 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 22.05.2015 |
ã |
Sull'interpretazione dell'art. 31 del DPR n.
380/2001 (Interventi
eseguiti in assenza di permesso di costruire, in
totale difformità o con variazioni essenziali)
e, segnatamente, sui nuovi commi 4-bis, 4-ter,
4-quater che dispongono quanto segue: |
4-bis. L'autorità competente, constatata
l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa
pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e
20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e
sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in
caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici
di cui al
comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree
soggette a rischio idrogeologico elevato o molto
elevato, è sempre irrogata nella misura massima. La
mancata o tardiva emanazione del provvedimento
sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali,
costituisce elemento di valutazione della
performance individuale nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente.
(comma
introdotto dall'art.
17, comma 1, lettera q-bis), legge n. 164 del 2014)
4-ter. I proventi delle sanzioni di cui al comma
4-bis spettano al comune e sono destinati
esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.
(comma
introdotto dall'art.
17, comma 1, lettera q-bis), legge n. 164 del 2014)
4-quater. Ferme restando le competenze delle regioni
a statuto speciale e delle province autonome di
Trento e di Bolzano, le regioni a statuto ordinario
possono aumentare l'importo delle sanzioni
amministrative pecuniarie previste dal comma 4-bis e
stabilire che siano periodicamente reiterabili
qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di
demolizione.
(comma
introdotto dall'art.
17, comma 1, lettera q-bis), legge n. 164 del 2014)
|
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Le eventuali ravvisate illegittimità
costituzionali di norme di rango primario non
esonerano le amministrazioni dalla doverosa
applicazione delle stesse norme (fino a quando non
intervenga un’abrogazione o una dichiarazione di
illegittimità costituzionale), a meno che esse non
siano “disapplicabili” in ragione di un loro
manifesto contrasto con il diritto dell’Unione
europea.
Al contempo, deve però osservarsi che anche alle
amministrazioni, come al giudice, si impone comunque
il dovere di interpretare ogni disposizione
dell’ordinamento in chiave sistematica e in modo
costituzionalmente orientato, sicché, tra più
opzioni interpretative legittimamente percorribili,
risulterà sempre preferibile quella più rispettosa
delle altre previsioni vigenti nell’ordinamento e
dei valori costituzionali che lo informano.
---------------
I nuovi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art. 31
DPR 380/2001 (con i quali è stato inserito un
ulteriore meccanismo di deterrenza rispetto
all’inadempimento delle ingiunzioni a demolire)
debbono ritenersi automaticamente applicabili in
Sicilia.
---------------
Il Consiglio ritiene che la sanzione amministrativa
pecuniaria introdotta dal nuovo comma 4-bis
dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 sia
“aggiuntiva”, ossia che essa si cumuli con le “altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti”, sulla
base delle osservazioni e delle considerazioni di
seguito sviluppate.
Invero, va rilevato che nell’alveo semantico
dell’imprecisa locuzione “altre misure e sanzioni
previste da norme vigenti” potrebbero rientrare:
a) sanzioni penali;
b) sanzioni amministrative, pecuniarie o non
pecuniarie;
c) sia misure con effetti punitivi sia di carattere
non sanzionatorio (ossia le “altre misure”).
La sanzione pecuniaria di
cui al comma 4-bis dell’art. 31 è stata introdotta,
all’evidenza, proprio al fine di incentivare la
compliance (ossia la spontanea attivazione) dei
privati rispetto all’ordine di demolizione,
attraverso una coazione indiretta rappresentata da
una reazione punitiva dell’ordinamento, incidente
sul patrimonio dei responsabili degli abusi
eventualmente rimasti inerti a fronte di un dovere
di esecuzione su di essi gravante; sicché ipotizzare
che laddove si applichi la sanzione pecuniaria non
si possa più far luogo all’acquisizione e alla
demolizione sarebbe una conclusione abrogans e
contrastante, non solo con la lettera della legge,
ma anche con la stessa, riferita politica
legislativa attuata con l’intervento normativo.
Al lume dei superiori rilievi può, nondimeno,
ritenersi che, nel caso in esame, si sia al cospetto
di un’ipotesi in cui l’ambito di applicazione del
principio di specialità sia stato perimetrato
direttamente dal Legislatore, segnatamente
attraverso il ricorso alla precisazione “salva
l’applicazione di altre misure e sanzioni previste
da norme vigenti”. In questa prospettiva, però,
il vocabolo “salva” deve essere
inevitabilmente interpretato nel senso di “fatta
comunque salva cioè applicabile”, posto che,
diversamente opinando, l’esegesi tornerebbe a quel
corto circuito logico al quale si è sopra accennato
(ossia, si finirebbe per azzerare una delle due
sanzioni).
Va da sé che la cumulabilità
tra la sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis
dell’art. 31 del Testo unico e la demolizione
d’ufficio delle opere abusive (e, ancor prima,
l’acquisizione degli immobili oggetto degli illeciti
edilizi) risulterebbe una soluzione ancor più
convincente, qualora la seconda fosse in ipotesi
qualificabile come “misura” e non come “sanzione”,
dal momento che, in tale evenienza, nemmeno si
porrebbero i problemi giuridici, sopra approfonditi,
correlati all’operare del principio di specialità
tra le sanzioni.
In conclusione, l’avviso del
Collegio è che la sanzione pecuniaria di cui al
comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le
sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso
reale) a tutte le altre sanzioni e misure
eventualmente previste per lo stesso “fatto”, come
sopra definito, con la sola eccezione delle
eventuali previsioni che dovessero comminare una
sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di
cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale
residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è
giustificata dal termine “altre” contenuto
nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il
principio di specialità, qualora ne ricorressero in
concreto i presupposti di operatività.
Infine, per completezza dell’esame, va osservato
che, nonostante l’atecnica (almeno per il diritto
italiano) e generica terminologia utilizzata dal
Legislatore (non comprendendosi a quale istituto i
conditores iuris abbiano inteso far riferimento con
l’uso della locuzione “altre misure”),
deve ritenersi che nell’insieme delle
“altre misure” rientrino tutti gli effetti e gli
atti di natura penale, amministrativa o civile
correlati all’inottemperanza a un’ordinanza di
demolizione.
Non potendo, peraltro, compiersi in questa sede
un’accurata ed esaustiva disamina di tutte le
possibili fattispecie, spetterà alle singole
amministrazioni verificare di volta in volta
l’esatta natura giuridica e l’eventuale cumulabilità
delle “altre misure” con la sanzione pecuniaria di
cui al comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico.
---------------
Questo Consiglio osserva
che:
- la sanzione in discorso non costituisce affatto
–almeno dal punto di vista giuridico–
un’anticipazione a titolo risarcitorio delle spese
necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, ma
consiste piuttosto in uno strumento sia di coazione
(indiretta dei responsabili degli abusi dei quali
sia stata constata l’omessa demolizione) e di
repressione delle condotte omissive prese in
considerazione dal precetto della disposizione;
- il comma 4-ter dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001
si limita ad indicare la destinazione esclusiva e
obbligatoria delle somme derivanti dalla riscossione
delle sanzioni, ma non influisce sul regime
giuridico della relativa dosimetria, che è quello
dettato dall’art. 11 della L. n. 689/1981;
- non è affatto opportuna –e, anzi, potrebbe
costituire un indice sintomatico di eccesso di
potere per sviamento- l’indicazione, da parte delle
amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di
demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione
pecuniaria.
Si presti attenzione: non si allude all’indicazione
del testo dell’art. 31, comma 4-bis, del Testo
unico, ossia non si sta facendo riferimento alla
comminatoria della sanzione per il caso di constata
inottemperanza (monito che sicuramente deve trovare
collocazione all’interno dell’ingiunzione a
demolire); piuttosto si intende richiamare e
stigmatizzare le soluzioni, prospettate:
a) della quantificazione presuntiva della sanzione e
b) della commisurazione del quantum dovuto in
rapporto alle spese necessarie per far fronte alla
demolizione e sistemazione dei luoghi, sulla base
delle relative voci riportate nel "prezzario unico
regionale per i lavori pubblici" vigente.
Contro la prima proposta, si osserva che la
sanzione è un dispositivo giuridico consistente in
una reazione dell’ordinamento a una condotta
antigiuridica ritenuta meritevole di punizione; da
ciò discende che la concreta misura
della sanzione da irrogare deve essere stabilita
sempre successivamente alla condotta e non può mai
essere predeterminata
(fatte salve le ipotesi di sanzione pecuniaria
stabilita ex ante dalla legge in misura fissa),
pena il frontale contrasto con i
fondamentali principi della personalità e della
proporzionalità della sanzione, sui quali riposa
anche il dettato del surricordato art. 11.
Contro la seconda proposta
vanno poi richiamati i precedenti rilievi sul ruolo
dell’art. 11, nella cui economia applicativa
l’eventuale costo, sostenuto dall’amministrazione,
per la demolizione e la risistemazione dei luoghi,
può unicamente rilevare nei termini della
valutazione pro reo da effettuare, in relazione
all'opera eventualmente svolta dall'agente per
l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze
della violazione.
D’altra parte il comma 5 dello stesso art. 31
accolla ai responsabili le spese della demolizione
(ove effettuata) e, quindi, anche dal punto di vista
della logica giuseconomica, sarebbe quantomeno
ingiusta la duplicazione della relativa pretesa
dell’amministrazione, una prima volta in sede di
sanzione ai sensi del comma 4-bis e poi, una seconda
volta, in via di rivalsa a demolizione (d’ufficio)
avvenuta.
---------------
Questo
Consiglio osserva che la
demolizione (ex art. 31) non si configura come un
esito obbligato dell’acquisizione delle opere
edilizie abusive e della relativa area di sedime.
Lo stesso comma 5 dell’art. 31 prevede
difatti la possibilità della conservazione delle
opere in presenza di dichiarati interessi pubblici
non contrastanti con quelli urbanistici e
ambientali.
---------------
Può tranquillamente
affermarsi che la sanzione
di cui al comma
4-bis dell’art. 31 non possa
trovare applicazione ai casi previsti e disciplinati
dall’art. 34 del Testo unico. Sebbene, infatti,
anche quest’ultima previsione contempli un’ipotesi
di demolizione, nondimeno prevale il principio di
tassatività delle sanzioni amministrative, scolpito
dall’art. 1, secondo comma, della citata L. n.
689/1981, in base al quale: “Le leggi che prevedono
sanzioni amministrative si applicano soltanto nei
casi e per i tempi in esse considerati.”.
Orbene, non vi è dubbio che, tenuto conto della
ratio ispiratrice del nuovo comma 4-bis dell’art. 31
e della sua collocazione topografica,
non possano esistere dubbi di sorta circa
la riferibilità della sanzione soltanto
all’evenienza di un’inottemperanza, del responsabile
dell’abuso, a un’ingiunzione a demolire relativa a
illeciti interventi edilizi eseguiti in assenza di
permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali.
La condotta sanzionata dalla
previsione di cui al sunnominato comma 4-bis è di
natura omissiva, ossia concerne la mancata
demolizione, da parte del responsabile dell’abuso,
entro il termine finale fissato dalla legge, delle
opere in cui si siano concretati gli illeciti
interventi edilizi.
Tale condotta si perfeziona e si
colloca –sotto i profili logico, cronologico e
giuridico– prima della eventuale demolizione
eseguita d’ufficio dal comune (demolizione
contemplata dal comma 5 dell’art. 31) e, di norma,
anche prima della notificazione all’interessato
dello stesso verbale di accertamento
dell’inottemperanza, da cui scaturisce l’effetto
legale dell’acquisizione delle opere, non demolite
spontaneamente, al patrimonio comunale (ipotesi
prevista dai commi 2 e 3 del medesimo articolo).
In altri termini, sulla base del
combinato disposto dei commi 3, 4, 4-bis e 5
dell’art. 31 del Testo unico e dell’art. 4 della
L.R. n. 17/1994, a seguito dell’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire delle
opere di cui all’art. 31, comma 1, del Testo unico,
si innesca una sequenza procedimentale, a più esiti,
i cui snodi possono essere così ricostruiti:
I.) obbligo di applicare la sanzione di cui al comma
4-bis;
II.) acquisizione delle opere e delle aree al
patrimonio comunale;
III.) in alternativa a II.), a) demolizione delle
opere; b) conservazione delle opere in ragione di
prevalenti interessi pubblici; c) ricorrendone i
presupposti, concessione del diritto di abitazione
degli immobili al responsabile dell’abuso.
---------------
Questo Consiglio
reputa di dover spendere alcune
brevi, considerazioni anche sul tema dell’”autorità
competente” a irrogare la sanzione di cui al comma
4-bis.
Ebbene, l’avviso di questo Consiglio è che detta
autorità sia da individuarsi, di regola, nel comune.
A tale conclusione si perviene sulla base delle
seguenti argomentazioni:
- depone nel senso sopra indicato la collocazione
della previsione nell’ambito di una disposizione che
disciplina l’attività procedimentale dei comuni;
- concorre a siffatto esito interpretativo, in
assenza di differenti indicazioni ricavabili dal
dato positivo, il principio di concentrazione delle
competenze amministrative, che risulterebbe
gravemente vulnerato qualora l’attività di
repressione degli illeciti edilizi di cui all’art.
31 del Testo unico fosse frammentata tra varie
autorità;
- è, infine, coerente con detto approdo esegetico la
L. n. 689/1981, laddove il combinato disposto degli
artt. 13, primo comma (che recita: “Gli organi
addetti al controllo sull'osservanza delle
disposizioni per la cui violazione è prevista la
sanzione amministrativa del pagamento di una somma
di denaro …“) e dell’art. 17, primo comma (che
indica il prefetto quale autorità di competenza
residuale nelle sole materie di competenza statale),
conduce a ritenere che il potere di irrogare la
sanzione si imputi in capo all’ente tenuto al
rilascio del permesso di costruire e, comunque,
incaricato della potestà di vigilanza sul corretto
uso del territorio comunale.
---------------
OGGETTO: Applicazione dell’art. 31 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, come integrato dall'art. 17,
lettera q-bis), del decreto-legge 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla legge
11.11.2014, n. 164 - Sanzioni conseguenti alla
inottemperanza all'ordinanza di demolizione di opere
abusivamente eseguite - Proposta di circolare.
...
PREMESSO
A. – Con nota prot. n. 2324, del 02.02.2015, pervenuta il
03.02.2015 e recante in calce il “visto”
dell’Assessore, il Dirigente generale del
Dipartimento dell’urbanistica dell’Assessorato
regionale del territorio e dell’ambiente (nel
prosieguo: Assessorato) ha richiesto a questo
Consiglio di esprimere un parere sulla questione
succintamente descritta in oggetto e, in
particolare, sulle soluzioni offerte nella bozza di
circolare allegata alla predetta nota.
B. – Per una migliore intelligenza delle problematiche sottoposte
al vaglio di questo Consiglio giova riferire che:
- con il decreto-legge 12.09.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge
11.11.2014, n. 164, sono state emanate, tra l’altro,
misure urgenti anche relative al settore
dell'edilizia, con l'intento di favorire la ripresa
economica e delle attività produttive.
In particolare, l'art. 17 del citato decreto,
rubricato “Semplificazioni ed altre misure in
materia edilizia”, al comma 1, lettera q-bis)
–lettera aggiunta dalla legge di conversione- ha
introdotto talune integrazioni all'art. 31 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, d’ora in poi: Testo unico), relativo agli
“Interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni
essenziali”, intese ad incentivare le attività
di vigilanza urbanistico-edilizia e la
semplificazione delle procedure volte
all'irrogazione di sanzioni ripristinatorie, a
fronte della consumazione e dell’accertamento di
illeciti legati all'abusivismo edilizio;
- le interpolazioni incidenti sull’art. 31 del Testo
unico sono state operate con il metodo della “novellazione”
e sono consistite, nell’inserimento –dopo il comma
4– di tre ulteriori commi dal seguente tenore: “4-bis.
L'autorità competente, constatata l'inottemperanza,
irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di
importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva
l'applicazione di altre misure e sanzioni previste
da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi
realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al
comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree
soggette a rischio idrogeologico elevato o molto
elevato, è sempre irrogata nella misura massima. La
mancata o tardiva emanazione del provvedimento
sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali,
costituisce elemento di valutazione della
performance individuale nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente.
4-ter. I proventi delle sanzioni di cui al comma
4-bis spettano al comune e sono destinati
esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.
4-quater. Ferme restando le competenze delle regioni
a statuto speciale e delle province autonome di
Trento e di Bolzano, le regioni a statuto ordinario
possono aumentare l'importo delle sanzioni
amministrative pecuniarie previste dal comma 4-bis e
stabilire che siano periodicamente reiterabili
qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di
demolizione.”;
- in conseguenza e per effetto delle riferite,
recenti modifiche legislative,
l’art. 31
–che, come sopra accennato, disciplina la procedura
dell’ingiunzione a demolire e delle conseguenze
dell’eventuale inottemperanza a detta ingiunzione,
nel caso di interventi edilizi eseguiti in assenza
di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali– si è
arricchito della previsione di una sanzione
amministrativa pecuniaria, di importo compreso tra
2.000 euro e 20.000 euro, da comminarsi a carico del
responsabile dell'abuso una volta decorso il temine
perentorio di novanta giorni dall'ingiunzione, per
il caso di “constatata … inottemperanza”
all’ordine di demolizione e al ripristino dello
stato dei luoghi.
C. – L’Assessorato richiedente, con la bozza di circolare in parola
–affermata l’appartenenza della materia
sanzionatoria all’esclusiva competenza legislativa
statale (con la conseguenza della diretta
applicabilità delle nuove disposizioni
nell’ordinamento regionale siciliano, senza
necessità di alcuna norma di recepimento)–, intende
rispondere all’esigenza di fornire chiarimenti in
ordine alle perplessità, rappresentate dal alcune
amministrazioni locali dell’Isola, circa la natura
della sanzione prevista dal nuovo comma 4-bis del su
richiamato art. 31 del Testo unico.
Più in dettaglio, nella ridetta
bozza di circolare, l’Assessorato
–oltre a richiamare le amministrazioni interessate a
una puntuale e tempestiva osservanza del sunnominato
art. 31, siccome novellato- ha
esposto le seguenti considerazioni:
1) la sanzione amministrativa
pecuniaria, prevista oggi dal comma 4-bis dell’art.
31, dovrebbe reputarsi aggiuntiva rispetto ad altre
sanzioni eventualmente stabilite, per la medesima
violazione, dall’ordinamento
(dovendosi interpretare in questo senso l’inciso
normativo "… salva l'applicazione di altre misure
e sanzioni previste da norme vigenti", contenuto
nel primo periodo del sunnominato comma 4-bis);
2) la sanzione in discorso
costituirebbe una sorta di anticipazione, a titolo
risarcitorio, delle spese necessarie al ripristino
dello stato dei luoghi; la nuova sanzione
pecuniaria, difatti, sarebbe stata introdotta al
fine di assicurare ai bilanci dei Comuni adeguate
risorse finanziarie per far fronte tempestivamente
alle demolizioni d'ufficio,
come si desumerebbe dal comma 4-ter che riserva i
proventi derivanti dalla sanzione "alla
demolizione e rimessione in pristino delle opere
abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree
destinate a verde pubblico";
3) alla demolizione, in caso di
inerzia del responsabile dell’abuso, dovranno
provvedere direttamente le amministrazioni locali,
con potere di rivalsa, per le spese sostenute, nei
confronti del contravventore rimasto inadempiente;
4) per ragioni di opportunità le
amministrazioni competenti dovrebbero aver cura di
evidenziare in seno all'ordinanza di demolizione,
oltre alle conseguenze (come l’acquisizione gratuita
delle opere e delle aree) derivanti dall’eventuale
inottemperanza all’ingiunzione entro il termine
previsto dalla legge, anche l'ammontare della
ulteriore sanzione pecuniaria da quantificare (fatti
salvi i casi previsti dall'art. 2, comma 27, del
Testo unico, per i quali si applicherà sempre la
misura massima) in forma presuntiva e da commisurare
alle spese necessarie per far fronte alla
demolizione e alla sistemazione dei luoghi, sulla
base delle relative voci riportate nel "prezzario
unico regionale per i lavori pubblici" vigente;
5) la previsione sanzionatoria in
argomento troverebbe applicazione anche con riguardo
alle fattispecie previste, rispettivamente, dal
comma 5 dello stesso art. 31 e dall'art. 4 della
L.R. 31.05.1994, n. 17 (diritto di abitazione), ma
non al caso degli interventi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire, di cui
all’art. 34 del Testo unico
(ferma restando, anche in quest’ultima ipotesi,
l'imputazione a carico del responsabile dell'abuso
delle spese di demolizione e di inottemperanza
all'ordinanza).
L’Assessorato ha chiesto di conoscere il parere di
questo Consiglio in ordine al riferito contenuto
della futura circolare.
CONSIDERATO
1. – In via preliminare questo Consiglio non può astenersi dal
richiamare l’attenzione dell’Assessorato sulla
necessità che le circolari amministrative, al pari
di tutti gli atti amministrativi, siano ben scritte,
correndosi altrimenti il rischio di insinuare, nei
destinatari, dubbi anche sulla attendibilità delle
soluzioni giuridiche proposte.
Affinché un qualunque testo di contenuto giuridico
possa ritenersi ben scritto occorre, tra l’altro,
eliminare -ovunque ricorrano- gli errori
grammaticali (nella fattispecie, “provincie”
in luogo di “province”, negli indirizzi
contenuti nell’incipit della circolare),
bisogna poi utilizzare un preciso lessico giuridico
(nella bozza l’uso dell’espressione “reati penali”,
invece di “reati”, sottintende un grave
errore concettuale, non conoscendo il nostro
ordinamento figure di reati “non penali”), si
deve controllare poi l’esattezza degli estremi delle
fonti normative citate (ad esempio, “art. 27,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001” al posto
dell’inesistente “art. 2, comma 27, del D.P.R.
380/2001”) e, infine, è indispensabile curare
gli aspetti formali e “protocollari”
dell’atto (nel caso in esame, balza agli occhi,
nell’elenco delle Autorità alle quali dovrebbe
essere indirizzata la futura circolare, l’errata
indicazione delle corrette denominazioni di “Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia”, per la
sede di Palermo, e di “Tribunale amministrativo
regionale per la Sicilia – Sezione staccata di
Catania”).
Non ultimo si richiama l’attenzione sul rispetto
delle disposizioni impartite con la circolare del
Presidente del Consiglio dei Ministri del
02.05.2001, n. 1088, recante la “Guida alla
redazione dei testi normativi”, pubblicata nella
G.U.R.I., Serie Generale, n. 101 del 03.05.2001,
S.O. n. 105.
2. – Esaurite le doverose (ma non irrilevanti) considerazioni in
ordine al drafting della bozza di circolare,
può passarsi ad esaminare il merito dei quesiti, non
senza previamente precisare in via generale che
questo Consiglio, rispettivamente, può e deve
esprimere il proprio parere su “affari” che
gli siano sottoposti dalla Regione siciliana e sui “regolamenti”
regionali, ma non anche sulle “circolari”.
Sennonché, all’insegna della leale collaborazione
che sempre ha ispirato i rapporti tra Regione
siciliana e questo Consiglio, si reputa di poter
considerare la bozza di circolare in discorso alla
stregua di un mero veicolo di questioni giuridiche
di interesse generale. In questa prospettiva
l’affare può essere, pertanto, esaminato.
3. – Seguendo un rigoroso ordine logico, la
prima questione da affrontare, sebbene non
prospettata dall’Assessorato, concerne l’effettiva
applicabilità, nell’ordinamento isolano, delle
disposizioni recate dal sunnominato art. 17 del D.L.
n. 133/2014. Sul punto, come sopra riferito,
l’Assessorato in sostanza ha mostrato di
ritenere
(nel primo paragrafo della circolare)
che la lett. q-bis) del ridetto art. 17
rechi previsioni afferenti, sia pur indirettamente,
alla materia penale e, quindi, come tali riservate
all’esclusiva competenza legislativa statale.
Al riguardo questo Consiglio
ritiene che l’argomentare dell’Assessorato non sia
condivisibile né convincente, apparendo al contrario
evidente che l’introduzione di una sanzione
amministrativa per una condotta che concerne un
posterius rispetto all’illecito costituito
dall’edificazione in assenza del permesso di
costruire (o in difformità o con variazione
essenziale rispetto a quest’ultimo) non giustifichi
affatto l’evocazione della riserva statale in
materia penale.
In proposito, è sufficiente
osservare che, nella più parte delle fattispecie di
illeciti edilizi, la normativa urbanistica di ogni
livello –da quella statale o regionale di rango
primario, passando per le prescrizioni contenute nei
piani e regolamenti comunali, fino a quanto sia
dettagliato nel singolo provvedimento concessorio
rilasciato al contravventore
(v. l’art. 44, comma 1, lett. a) e b), del Testo
unico, che punisce “l’inosservanza delle norme,
prescrizioni e modalità esecutive previste … dai
regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e
dal permesso di costruire”, nonché la “esecuzione
dei lavori in totale difformità o assenza del
permesso” stesso)– costituisce
un c.d. “elemento integrativo” del precetto
penale, ossia un dato sostanzialmente esterno al
precetto sanzionatorio che quest’ultimo si limita a
presupporre e presidiare ab extra
(C.G.A., sez. riun., del 19.02.2013, n. 206/11).
Non vale tuttavia indugiare su una diffusa
confutazione delle riferite tesi patrocinate
dall’Assessorato (in relazione alle quali difetta,
peraltro, una richiesta di parere) e occorre,
invece, verificare unicamente se possano ritenersi
vigenti, anche in Sicilia, in assenza di una norma
legislativa regionale di recepimento, le previsioni
di cui alla lett. q-bis) del ridetto art. 17 del
D.L. n. 133/2014.
Deve, invero, ritenersi che la soluzione di tale
questione, investendo un profilo pregiudiziale,
condizioni lo scrutinio delle altre espressamente
prospettate dall’Assessorato: risulterebbe, invero,
inutile affrontare l’esegesi di una disposizione
statale che fosse inapplicabile nell’Isola.
Al riguardo si impone di principiare dall’esame
della giurisprudenza di questo Consiglio che, in
sede giurisdizionale e consultiva, ha affermato
–diversamente da quanto opinato dall’Assessorato-
l’inapplicabilità, in sé, del Testo unico n. 380 del
2001 nel territorio siciliano. Occorre difatti
considerare che lo Statuto della Regione siciliana,
all’art. 14, attribuisce alla competenza legislativa
esclusiva della stessa Regione la materia “urbanistica”
(lett. f); nonché altresì anche le ulteriori materie
concernenti: “tutela del paesaggio; conservazione
delle antichità e delle opere artistiche” (lett.
n).
In tali ambiti, ai quali va ricondotta anche la
materia dell’edilizia (oltre a quella
dell’urbanistica), le leggi statali non si applicano
in Sicilia, se non in quanto siano richiamate –ed
eventualmente in tale sede anche modificate– da una
legge regionale (C.G.A., sez. riun., del 19.02.2013,
n. 206/11, cit.).
Orbene, mentre non risulta ancora recepito
nell’ordinamento isolano il Testo unico, è stata
invece recepita la legge 28.02.1985, n. 47, mercé la
L.R. 10.08.1985, n. 37 (nuove norme in materia di
controllo dell’attività urbanistico-edilizia,
riordino urbanistico e sanatoria delle opere
abusive), il cui art. 1, comma 1, testualmente
recita: “La legge 28.02.1985, n. 47, … e
successive modifiche ed integrazioni, ad eccezione
degli articoli 3, 5, 23, 24, 25, 29 e 50, si applica
nella Regione siciliana con le sostituzioni,
modifiche ed integrazioni di cui alla presente legge”.
Questo Consiglio ha chiarito, in
più occasioni
(anche nel parere in ultimo citato, ma pure in
C.G.A., sez. giurisd., 25.05.2009, n. 488),
che la formula “successive modifiche ed
integrazioni” (o analoga) con cui il Legislatore
regionale opera, talora, il rinvio alla disciplina
statale di rango primario, costituisce un indice di
un’obiettivata volontà di effettuare un rinvio “mobile”
e “dinamico” alla fonte statale di volta in
volta menzionata; ossia un rinvio che si estende,
automaticamente, a tutte le modificazioni e
integrazioni future della disciplina evocata e,
pertanto, anche alle modifiche e integrazioni
sopravvenute all’introduzione del dispositivo
normativo di rinvio: ciò al fine di consentire un
continuo adeguamento dell’ordinamento regionale
all’evoluzione normativa in ambito statale,
attraverso una disciplina elastica e costantemente
raccordata con il contesto giuridico di riferimento.
D’altronde anche il rinvio “mobile” alla
legislazione statale (e il conseguente adeguamento “dinamico”
a essa della legislazione regionale che opera il
rinvio) è una valida modalità di esercizio delle
potestà normative regionali, dal momento che il
meccanismo di rinvio può essere in ogni momento
revocato (mediante successiva legge regionale).
Nel riferito quadro di principi va calata
l’ulteriore considerazione che nell’art. 31 del
Testo unico, nel quale sono stati interpolati i
nuovi commi introdotti dalla lett. q-bis)
sunnominata, è transitato tutto il contenuto
precettivo dell’art. 7 della legge n. 47/1985.
Ebbene, l’art. 7, fino all’originario settimo comma,
è stato recepito il Sicilia per effetto della
sunnominata L.R. n. 37/1985, il cui art. 3 ha
sostituito con tre commi l’originario comma ottavo
della legge n. 47/1985.
Si può quindi affermare che, in
relazione a quella parte della disciplina recata
dall’art. 7 -ossia alla dispositivo che va dal primo
al quinto comma e che più interessa l’oggetto della
richiesta di parere- l’art. 31 del Testo unico deve
reputarsi un mero aggiornamento dell’art. 7 della
legge n. 47/1985 e che, dunque, anche l’art. 31
(nella ridetta parte) è sicuramente applicabile in
Sicilia e che di siffatto articolo in parte qua
devono reputarsi applicabili anche le “successive
modifiche e integrazioni”.
Completa il ragionamento fin qui sviluppato
l’osservazione che la volontà esternata dal
Legislatore statale e la stessa tecnica utilizzata (id
est, quella della novellazione) evidenziano il
chiaro intento di intervenire sull’assetto normativo
dei primi commi dell’art. 31 e, segnatamente, sulla
disciplina del procedimento repressivo degli
interventi eseguiti in assenza di premesso di
costruire o in totale difformità o con variazioni
essenziali.
Da ciò discende conclusivamente che
pure i nuovi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art.
31 (con i quali è stato inserito un ulteriore
meccanismo di deterrenza rispetto all’inadempimento
delle ingiunzioni a demolire) debbono ritenersi
automaticamente applicabili in Sicilia per effetto
di quel sistema di rinvio dinamico del quale si è
dato sopra conto.
Stante l’autonomia valutativa dell’Autorità
richiedente e la natura non vincolante del presente
parere, si rimette, quindi, all’Assessorato la
scelta in ordine alla conservazione –nel terzo
periodo del primo paragrafo della bozza di
circolare- delle (erronee, ad avviso di questo
Consiglio) motivazioni per le quali le nuove norme
statali sarebbero applicabili anche in Sicilia,
oppure alla riformulazione del paragrafo in
questione, attraverso il recepimento, sia pur in
forma sintetica (tramite, ad esempio, rinvio per
relationem al presente parere), degli argomenti
giuridici sopra spiegati.
4. - Con il quesito riportato sub C.1),
l’Assessorato ha chiesto, in sostanza, a questo
Consiglio di rendere un’interpretazione della
clausola normativa, riportata nel nuovo comma 4-bis
dell’art. 31 ("… salva l'applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti"):
in particolare, l’Assessorato si è interrogato sulla
natura “aggiuntiva”, o no, della sanzione
amministrativa ivi disciplinata, ossia delle sua
cumulabilità, o no, rispetto alle altre misure e
sanzioni previste dall’ordinamento.
Per rispondere ai dubbi esegetici prospettati
dall’Assessorato, occorre dapprima soffermare
l’attenzione sulla circostanza che la sanzione in
parola è stata espressamente definita dal
Legislatore come “amministrativa pecuniaria”.
Siffatta qualificazione, sul versante sistematico,
porta l’interprete a rinvenire nella L. 24.11.1981,
n. 689 il quadro dei principi generali della
relativa disciplina. Come si avrà modo di
argomentare nel prosieguo, tale inquadramento
sistematico dell’istituto consente di far luce su
alcune criticità segnalate dall’Autorità
richiedente.
Tanto premesso, va poi ulteriormente osservato come
la redazione normativa del nuovo comma 4-bis non
brilli obiettivamente per chiarezza. Le perplessità
manifestate dall’Assessorato poggiano, in effetti,
su un dato letterale obiettivamente opaco il cui
portato interpretativo è anfibologico: il vocabolo “salva”
potrebbe invero sorreggere due esegesi completamente
divergenti e tra loro incompatibili.
Più in dettaglio, il termine “salva” potrebbe
intendersi nel senso di “a meno che” (nei
termini, cioè, di una c.d. “clausola di riserva”)
e, quindi, significare che la sanzione non si
applichi laddove l’ordinamento preveda “altre
misure e sanzioni” (e in questa prospettiva la
sanzione sarebbe “alternativa”); oppure il
termine “salva” potrebbe voler dire “fatta
comunque applicabile”, sicché –oltre alla
sanzione amministrativa pecuniaria (che risulterebbe
pertanto “aggiuntiva”)- troverebbero
applicazione anche le “altre misure e sanzioni”.
Le incertezze si addenserebbero soprattutto attorno
a detto secondo approdo interpretativo, avendo
l’Assessorato ritenuto (si fa qui riferimento al
contenuto della surricordata nota, prot. n. 2324,
del 02.02.2015) che un eventuale cumulo della
demolizione coattiva, della sanzione amministrativa
pecuniaria e delle “altre misure e sanzioni”
finisca per dare luogo a un potenziale repressivo
non proporzionato per eccesso e, dunque, come tale,
in odore di illegittimità costituzionale, anche per
contrasto con ben noti principi, valevoli per tutto
il diritto punitivo (senza distinzione tra sanzioni
penali o amministrative) enunciati in sede europea.
A tal riguardo, pur non apparendo privi di
suggestione alcuni dei dubbi sollevati
dall’Assessorato, va tuttavia ricordato che,
ovviamente, le eventuali, ravvisate
illegittimità costituzionali di norme di rango
primario non esonerano le amministrazioni dalla
doverosa applicazione delle stesse norme (fino a
quando non intervenga un’abrogazione o una
dichiarazione di illegittimità costituzionale), a
meno che esse non siano “disapplicabili” in
ragione di un loro manifesto contrasto con il
diritto dell’Unione europea.
Al contempo, deve però osservarsi che anche alle
amministrazioni, come al giudice, si impone comunque
il dovere di interpretare ogni disposizione
dell’ordinamento in chiave sistematica e in modo
costituzionalmente orientato, sicché, tra più
opzioni interpretative legittimamente percorribili,
risulterà sempre preferibile quella più rispettosa
delle altre previsioni vigenti nell’ordinamento e
dei valori costituzionali che lo informano.
Muovendo dalle coordinate esegetiche sopra
tratteggiate, il Consiglio ritiene
che la sanzione amministrativa pecuniaria introdotta
dal nuovo comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001 sia “aggiuntiva”, ossia che essa si
cumuli con le “altre misure e sanzioni previste
da norme vigenti”, sulla base delle osservazioni
e delle considerazioni di seguito sviluppate.
Innanzitutto va rilevato che
nell’alveo semantico dell’imprecisa locuzione “altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti”
potrebbero rientrare:
a) sanzioni penali;
b) sanzioni amministrative, pecuniarie o non
pecuniarie;
c) sia misure con effetti punitivi sia di carattere
non sanzionatorio (ossia le “altre misure”).
In via generale e in primo luogo i rapporti tra le
sanzioni indicate nelle precedenti lettere a) e b)
rinvengono una, non esaustiva, disciplina nell’art.
9 della su richiamata L. n. 689/1981, rubricato “Principio
di specialità”, i cui primi due commi
dispongono: “Quando uno stesso fatto è punito da
una disposizione penale e da una disposizione che
prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una
pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni
amministrative, si applica la disposizione speciale.
Tuttavia quando uno stesso fatto è punito da una
disposizione penale e da una disposizione regionale
o delle province autonome di Trento e di Bolzano che
preveda una sanzione amministrativa, si applica in
ogni caso la disposizione penale, salvo che
quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di
altre disposizioni penali.”.
Il fondamentale criterio applicativo del sunnominato
art. 9 –dedicato al c.d. “concorso apparente di
norme”– si basa, all’evidenza, sul concetto di “stesso
fatto”, in relazione al quale la giurisprudenza
ha avuto ripetute occasioni per affermare, anche in
tempi risalenti, che:
- il concorso apparente, previsto dall'art. 9, è
soggetto al principio di specialità, cioè
all'applicazione della disposizione di natura
speciale, e presuppone che le norme medesime
prendano in considerazione e puniscano lo "stesso
fatto", così che, in presenza di fattispecie che
presentino un elemento di diversità, ancorché
coincidenti in tutto od in parte con riguardo alla
condotta del trasgressore, si deve ravvisare un
concorso effettivo, non apparente, con applicazione
delle rispettive sanzioni (ovvero, se si tratti di
concorso formale, ai sensi dell'art. 8 della citata
legge, della sanzione per la violazione più grave
aumentata sino al triplo; v. Cass. civ., sez. I,
10.09.1991, n. 9494);
- lo “stesso fatto” ricorre allorquando il
medesimo accadimento concreto, inteso come evento
storicamente determinato, possa integrare il
contenuto descrittivo di diverse previsioni
legislative astratte a carattere sanzionatorio, con
la conseguenza che il concorso apparente è escluso
nel caso in cui i fatti ipotizzati dalla fattispecie
astratta siano diversi nella loro materialità, nella
loro oggettività giuridica, ovvero quando la norma
che regola un fatto contenga una clausola di riserva
o, infine, quando la norma che prevede una
fattispecie di illecito faccia riferimento solo
quoad poenam ad altra norma prevedente diversa
fattispecie (Cass. civ., sez. II, 16.02.2009, n.
3745).
Ebbene, soprattutto alla stregua dei principi
enunciati dal Supremo Collegio e da ultimo
richiamati, è possibile
ricostruire, in via sistematica, la trama delle
relazioni che legano la sanzione, il cui ambito di
applicazione costituisce oggetto della richiesta di
parere, alle altre previsioni sanzionatorie in
astratto applicabili.
Invero, generalizzando i suddetti principi, si
giunge alla conclusione secondo cui
la specialità di cui all’art. 9 della L. n.
689/1981 (si noti che la disposizione non distingue,
quanto alla sua applicabilità, tra sanzioni
amministrative pecuniarie e non pecuniarie) non
operi allorquando:
a) sia diverso il “fatto” da punire oppure
b) sia lo stesso ordinamento a precluderne in via
normativa gli effetti.
Sicuramente, nella fattispecie, non viene in rilievo
la prima causa ostativa all’operare del principio di
specialità. Non è seriamente controvertibile,
infatti, che la demolizione d’ufficio dei manufatti
acquisiti (in conseguenza dell’inottemperanza a un
ordine di demolizione) consista in una sanzione
amministrativa, ancorché non pecuniaria, dal momento
che siffatta demolizione mutua la natura del
relativo ed omologo ordine disposto dal giudice
penale a norma del comma 9 dell’art. 31 del Testo
unico (a proposito della quale la Corte di
cassazione ha avuto modo di affermare che si tratta
di sanzione amministrativa a carattere reale e a
contenuto ripristinatorio; v., tra le altre
decisioni, Cass. pen., sez. III, 21.10.2009, n.
47281); nemmeno può, del resto, obliterarsi la
circostanza, nel caso che occupa il Consiglio, il “fatto”
perseguito sia assai specifico e ben descritto dalla
legge; si tratta infatti dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, constata
dall’amministrazione procedente.
Se, dunque, si facesse riferimento soltanto a tale
aspetto, non si ravviserebbe alcun ostacolo
all’applicazione del principio di specialità, con la
conseguenza di rendere comunque inapplicabile o il
comma 4-bis o il comma 5 dell’art. 31 del Testo
unico (a seconda delle valutazioni circa
l’individuazione della norma speciale tra le due
indicate).
Qualunque interprete non potrebbe, tuttavia, non
convenire sull’assurdità di una conclusione
siffatta, atteso che essa si porrebbe manifestamente
in contrasto sia con la lettera della legge (che
colloca, all’interno di un unico articolo, la
sanzione amministrativa pecuniaria e pure quella
amministrativa “ripristinatoria”) sia con la
fondamentale ratio di supporto del recente
intervento legislativo che, all’evidenza, è stata
quella di rafforzare -colpendo con la comminatoria
di una punizione di natura pecuniaria le inerzie dei
destinatari sanzionati- i presidi normativi a
garanzia dell’ottemperanza alle ingiunzioni a
demolire: la sanzione pecuniaria di
cui al comma 4-bis dell’art. 31 è stata introdotta,
all’evidenza, proprio al fine di incentivare la
compliance (ossia la spontanea attivazione) dei
privati rispetto all’ordine di demolizione,
attraverso una coazione indiretta rappresentata da
una reazione punitiva dell’ordinamento, incidente
sul patrimonio dei responsabili degli abusi
eventualmente rimasti inerti a fronte di un dovere
di esecuzione su di essi gravante; sicché ipotizzare
che laddove si applichi la sanzione pecuniaria non
si possa più far luogo all’acquisizione e alla
demolizione sarebbe una conclusione abrogans
e contrastante, non solo con la lettera della legge,
ma anche con la stessa, riferita politica
legislativa attuata con l’intervento normativo.
Al lume dei superiori rilievi può, nondimeno,
ritenersi che, nel caso in esame, si sia al cospetto
di un’ipotesi in cui l’ambito di applicazione del
principio di specialità sia stato perimetrato
direttamente dal Legislatore, segnatamente
attraverso il ricorso alla precisazione “salva
l’applicazione di altre misure e sanzioni previste
da norme vigenti”. In questa prospettiva, però,
il vocabolo “salva” deve essere
inevitabilmente interpretato nel senso di “fatta
comunque salva cioè applicabile”, posto che,
diversamente opinando, l’esegesi tornerebbe a quel
corto circuito logico al quale si è sopra accennato
(ossia, si finirebbe per azzerare una delle due
sanzioni).
Va da sé che la cumulabilità tra la
sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis
dell’art. 31 del Testo unico e la demolizione
d’ufficio delle opere abusive (e, ancor prima,
l’acquisizione degli immobili oggetto degli illeciti
edilizi) risulterebbe una soluzione ancor più
convincente, qualora la seconda fosse in ipotesi
qualificabile come “misura” e non come “sanzione”,
dal momento che, in tale evenienza, nemmeno si
porrebbero i problemi giuridici, sopra approfonditi,
correlati all’operare del principio di specialità
tra le sanzioni.
In conclusione, l’avviso del
Collegio è che la sanzione pecuniaria di cui al
comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le
sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso
reale) a tutte le altre sanzioni e misure
eventualmente previste per lo stesso “fatto”,
come sopra definito, con la sola eccezione delle
eventuali previsioni che dovessero comminare una
sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di
cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale
residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è
giustificata dal termine “altre” contenuto
nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il
principio di specialità, qualora ne ricorressero in
concreto i presupposti di operatività.
Infine, per completezza dell’esame, va osservato
che, nonostante l’atecnica (almeno per il diritto
italiano) e generica terminologia utilizzata dal
Legislatore (non comprendendosi a quale istituto i
conditores iuris abbiano inteso far
riferimento con l’uso della locuzione “altre
misure”), deve ritenersi che
nell’insieme delle “altre misure” rientrino
tutti gli effetti e gli atti di natura penale,
amministrativa o civile correlati all’inottemperanza
a un’ordinanza di demolizione.
Non potendo, peraltro, compiersi in questa sede
un’accurata ed esaustiva disamina di tutte le
possibili fattispecie, spetterà alle singole
amministrazioni verificare di volta in volta
l’esatta natura giuridica e l’eventuale cumulabilità
delle “altre misure” con la sanzione
pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 del
Testo unico,
invocando semmai nei casi dubbi, per tramite
dell’Assessorato, un nuovo intervento consultivo di
questo Consiglio.
5. – I quesiti formulati sub C.2) e C.3) -la cui stretta
embricazione logica ne consente una trattazione
congiunta– intercettano essenzialmente problematiche
di dosimetria sanzionatoria. L’Assessorato ritiene
che la previsione punitiva in discorso consista in
una sorta di anticipazione, a titolo risarcitorio,
delle spese necessarie al ripristino dello stato dei
luoghi e tale finalismo normativo risulterebbe
evidente dalla circostanza che l’introduzione della
sanzione avrebbe lo scopo di fornire ai Comuni
adeguate risorse finanziarie per far fronte alle
demolizioni d'ufficio, come si desumerebbe dal
successivo comma 4-ter del medesimo art. 31.
Muovendo da tale premessa, l’Assessorato suggerisce
come opportuna l’indicazione, da parte delle
amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di
demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione
pecuniaria, da quantificare in forma presuntiva e da
commisurare alle spese necessarie per far fronte
alla demolizione e alla sistemazione dei luoghi,
sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario
unico regionale per i lavori pubblici" vigente.
Questo Consiglio dissente recisamente sia dalla
premessa sia dalle conclusioni del riferito
argomentare. Appare evidente come le considerazioni
sviluppate dall’Assessorato poggino su un’indebita
sovrapposizione di piani che, invece, dal punto di
vista giuridico, devono rimanere del tutto distinti.
Segnatamente l’Assessorato ritiene che lo scopo
della previsione della sanzione sia quello di
procurare entrate ai bilanci delle amministrazioni
comunali onde consentire loro di provvedere alle
esecuzioni d’ufficio delle demolizioni.
Orbene, questo Consiglio non esclude che quello
appena indicato possa esser stato l’obiettivo di
politica legislativa che abbia giustificato
l’introduzione della sanzione in esame, ma la
circostanza, quand’anche ipoteticamente rispondente
al vero, sarebbe in ogni caso poco rilevante, in
quanto –una volta entrate a far parte
dell’ordinamento giuridico- le disposizioni vivono
di vita propria, cioè dispongono in modo autonomo
rispetto alle finalità ipoteticamente avute di mira
dal Legislatore e pure spiegano gli effetti che sono
ad esse obiettivamente riconducibili sulla base
dell’applicazione delle regole che governano
l’interpretazione della legge.
Tanto chiarito, va osservato che
gli unici scopi, costituzionalmente legittimi, che
può avere una sanzione, amministrativa o penale,
sono quelli della retribuzione giuridica del
responsabile, nonché della prevenzione generale e
speciale (mentre la primaria finalità delle pene è
la rieducazione del condannato ex art. 27 Cost.). In
nessun caso la sanzione può trovare giustificazione
nell’esigenza di fronteggiare immediate finalità di
bilancio.
Sebbene la cronaca offra spesso esempi di improprio
utilizzo delle sanzioni per esigenze di copertura
dei disavanzi degli enti locali (specialmente nella
materia della circolazione stradale),
deve tuttavia ritenersi che applicare le
previsioni sanzionatorie per la soddisfazione di
dette esigenze non sia semplicemente inopportuno, ma
del tutto abnorme e in radicale contrasto con i
principi sui quali si fonda l’intero diritto
punitivo.
Ai bisogni finanziari di un ente pubblico deve
piuttosto provvedersi con il ricorso agli strumenti
predisposti a tal fine quali il procacciamento di
entrate tributarie o l’alienazione di cespiti
patrimoniali o il ricorso all’indebitamento, ove
consentito; l’uso per questo fine delle sanzioni
potrebbe ridurre, anzi, l’efficacia dissuasiva delle
medesime, posto che i destinatari di esse
percepirebbero il relativo esercizio del potere
repressivo come ingiusto e non proporzionato.
Ciò non significa, si badi bene, che non si possa
stabilire in via legislativa quale debba essere la
destinazione dei proventi delle sanzioni irrogate e
riscosse (siccome dispone, nel caso in esame, il
comma 4-ter del novellato art. 31) e, però, il alcun
modo siffatta destinazione può interferire,
all’inverso, sul regime legale di determinazione e
di quantificazione della sanzione.
Tale regime, nell’ordinamento italiano, trova
infatti una compiuta disciplina generale nell’art.
11 della citata L. n. 689/1981, rubricato “Criteri
per l'applicazione delle sanzioni amministrative
pecuniarie”, secondo cui: “Nella
determinazione della sanzione amministrativa
pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo
ed un limite massimo e nell'applicazione delle
sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla
gravità della violazione, all'opera svolta
dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle
conseguenze della violazione, nonché alla
personalità dello stesso e alle sue condizioni
economiche.”.
Riesaminate pertanto, alla stregua dei superiori
rilievi, le affermazioni contenute nella bozza di
circolare, questo Consiglio osserva
che:
- la sanzione in discorso non costituisce affatto
–almeno dal punto di vista giuridico–
un’anticipazione a titolo risarcitorio delle spese
necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, ma
consiste piuttosto in uno strumento sia di coazione
(indiretta dei responsabili degli abusi dei quali
sia stata constata l’omessa demolizione) e di
repressione delle condotte omissive prese in
considerazione dal precetto della disposizione;
- il comma 4-ter dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001
si limita ad indicare la destinazione esclusiva e
obbligatoria delle somme derivanti dalla riscossione
delle sanzioni, ma non influisce sul regime
giuridico della relativa dosimetria, che è quello
dettato dall’art. 11 della L. n. 689/1981;
- non è affatto opportuna –e, anzi, potrebbe
costituire un indice sintomatico di eccesso di
potere per sviamento- l’indicazione, da parte delle
amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di
demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione
pecuniaria.
Si presti attenzione: non si allude all’indicazione
del testo dell’art. 31, comma 4-bis, del Testo
unico, ossia non si sta facendo riferimento alla
comminatoria della sanzione per il caso di constata
inottemperanza (monito che sicuramente deve trovare
collocazione all’interno dell’ingiunzione a
demolire); piuttosto si intende richiamare e
stigmatizzare le soluzioni, prospettate:
a) della quantificazione presuntiva della sanzione e
b) della commisurazione del quantum dovuto in
rapporto alle spese necessarie per far fronte alla
demolizione e sistemazione dei luoghi, sulla base
delle relative voci riportate nel "prezzario
unico regionale per i lavori pubblici" vigente.
Contro la prima proposta, si osserva che la
sanzione è un dispositivo giuridico consistente in
una reazione dell’ordinamento a una condotta
antigiuridica ritenuta meritevole di punizione; da
ciò discende che la concreta misura
della sanzione da irrogare deve essere stabilita
sempre successivamente alla condotta e non può mai
essere predeterminata
(fatte salve le ipotesi di sanzione pecuniaria
stabilita ex ante dalla legge in misura
fissa), pena il frontale contrasto
con i fondamentali principi della personalità e
della proporzionalità della sanzione, sui quali
riposa anche il dettato del surricordato art. 11.
Contro la seconda proposta
vanno poi richiamati i precedenti rilievi sul ruolo
dell’art. 11, nella cui economia applicativa
l’eventuale costo, sostenuto dall’amministrazione,
per la demolizione e la risistemazione dei luoghi,
può unicamente rilevare nei termini della
valutazione pro reo da effettuare, in relazione
all'opera eventualmente svolta dall'agente per
l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze
della violazione.
D’altra parte il comma 5 dello stesso art. 31
accolla ai responsabili le spese della demolizione
(ove effettuata) e, quindi, anche dal punto di vista
della logica giuseconomica, sarebbe quantomeno
ingiusta la duplicazione della relativa pretesa
dell’amministrazione, una prima volta in sede di
sanzione ai sensi del comma 4-bis e poi, una seconda
volta, in via di rivalsa a demolizione (d’ufficio)
avvenuta.
6. – L’ultima considerazione introduce al punto sub C.3), laddove
l’Assessorato ha ritenuto di dover chiarire che alla
demolizione, in caso di inerzia del responsabile
dell’abuso, dovranno provvedere direttamente le
amministrazioni locali, con potere di rivalsa, per
le spese sostenute, nei confronti del contravventore
rimasto inadempiente.
Sul punto questo Consiglio osserva unicamente che
la demolizione non si configura come un
esito obbligato dell’acquisizione delle opere
edilizie abusive e della relativa area di sedime
(v., infra, il §. 7). Lo stesso
comma 5 dell’art. 31 prevede difatti la possibilità
della conservazione delle opere in presenza di
dichiarati interessi pubblici non contrastanti con
quelli urbanistici e ambientali.
7. – Con il quesito sub C.5), l’Assessorato ha chiesto una conferma
in merito all’applicabilità della sanzione di cui al
comma 4-bis dell’art. 31 anche con riguardo:
a) alle fattispecie previste dal comma 5 dello
stesso art. 31;
b) alla fattispecie di cui all'art. 4 della legge
regionale 31.05.1994, n. 17.
L’Assessorato ha, poi, osservato che la medesima
sanzione non sarebbe invece applicabile al caso
degli interventi eseguiti in parziale difformità dal
permesso di costruire, di cui all’art. 34 del Testo
unico (ferma restando però l'imputazione a carico
del responsabile dell'abuso delle spese di
demolizione e di inottemperanza all'ordinanza).
Sovvertendo, per esigenze di economia motivazionale,
l’ordine delle questioni sollevate dall’Assessorato
può tranquillamente affermarsi che la
sanzione non possa trovare applicazione ai casi
previsti e disciplinati dall’art. 34 del Testo
unico. Sebbene, infatti, anche quest’ultima
previsione contempli un’ipotesi di demolizione,
nondimeno prevale il principio di tassatività delle
sanzioni amministrative, scolpito dall’art. 1,
secondo comma, della citata L. n. 689/1981, in base
al quale: “Le leggi che prevedono sanzioni
amministrative si applicano soltanto nei casi e per
i tempi in esse considerati.”.
Orbene, non vi è dubbio che, tenuto conto della
ratio ispiratrice del nuovo comma 4-bis
dell’art. 31 e della sua collocazione topografica,
non possano esistere dubbi di sorta circa la
riferibilità della sanzione soltanto all’evenienza
di un’inottemperanza, del responsabile dell’abuso, a
un’ingiunzione a demolire relativa a illeciti
interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso
di costruire, in totale difformità o con variazioni
essenziali.
I quesiti di cui sub a) e b) impongono una risposta
affermativa nei termini di seguito specificati. Ed
invero, oltre a richiamare quanto sopra osservato
(v., supra, il §. 4), vale in aggiunta
ribadire che la condotta sanzionata
dalla previsione di cui al sunnominato comma 4-bis è
di natura omissiva, ossia concerne la mancata
demolizione, da parte del responsabile dell’abuso,
entro il termine finale fissato dalla legge, delle
opere in cui si siano concretati gli illeciti
interventi edilizi.
Tale condotta si perfeziona e si
colloca –sotto i profili logico, cronologico e
giuridico– prima della eventuale demolizione
eseguita d’ufficio dal comune (demolizione
contemplata dal comma 5 dell’art. 31) e, di norma,
anche prima della notificazione all’interessato
dello stesso verbale di accertamento
dell’inottemperanza, da cui scaturisce l’effetto
legale dell’acquisizione delle opere, non demolite
spontaneamente, al patrimonio comunale (ipotesi
prevista dai commi 2 e 3 del medesimo articolo).
In altri termini, sulla base del
combinato disposto dei commi 3, 4, 4-bis e 5
dell’art. 31 del Testo unico e dell’art. 4 della
L.R. n. 17/1994, a seguito dell’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire delle
opere di cui all’art. 31, comma 1, del Testo unico,
si innesca una sequenza procedimentale, a più esiti,
i cui snodi possono essere così ricostruiti:
I.) obbligo di applicare la sanzione di cui al comma
4-bis;
II.) acquisizione delle opere e delle aree al
patrimonio comunale;
III.) in alternativa a II.), a) demolizione delle
opere; b) conservazione delle opere in ragione di
prevalenti interessi pubblici; c) ricorrendone i
presupposti, concessione del diritto di abitazione
degli immobili al responsabile dell’abuso.
8. – Infine, sebbene la questione non abbia costituito oggetto
della richiesta di parere, questo
Consiglio
-ritenendo di meglio assolvere in tal modo ai propri
compiti istituzionali di organo di consulenza
giuridico-amministrativa della Regione siciliana–
reputa di dover spendere alcune brevi,
considerazioni anche sul tema dell’”autorità
competente” a irrogare la sanzione di cui al
comma 4-bis.
Ebbene, l’avviso di questo Consiglio è che detta
autorità sia da individuarsi, di regola, nel comune.
A tale conclusione si perviene sulla base delle
seguenti argomentazioni:
- depone nel senso sopra indicato la collocazione
della previsione nell’ambito di una disposizione che
disciplina l’attività procedimentale dei comuni;
- concorre a siffatto esito interpretativo, in
assenza di differenti indicazioni ricavabili dal
dato positivo, il principio di concentrazione delle
competenze amministrative, che risulterebbe
gravemente vulnerato qualora l’attività di
repressione degli illeciti edilizi di cui all’art.
31 del Testo unico fosse frammentata tra varie
autorità;
- è, infine, coerente con detto approdo esegetico la
L. n. 689/1981, laddove il combinato disposto degli
artt. 13, primo comma (che recita: “Gli organi
addetti al controllo sull'osservanza delle
disposizioni per la cui violazione è prevista la
sanzione amministrativa del pagamento di una somma
di denaro …“) e dell’art. 17, primo comma (che
indica il prefetto quale autorità di competenza
residuale nelle sole materie di competenza statale),
conduce a ritenere che il potere di irrogare la
sanzione si imputi in capo all’ente tenuto al
rilascio del permesso di costruire e, comunque,
incaricato della potestà di vigilanza sul corretto
uso del territorio comunale
(C.G.A.R.S.,
parere 15.04.2015 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
possibilità che il PRG inibisca la demolizione di un
fabbricato, ancorché lesionato dal sisma, avente
interesse storico riconosciuto dal medesimo strumento
urbanistico e
sulla possibilità che quest'ultimo obblighi la ricostruzione
dell'immobile illegittimamente demolito.
Nel merito deve riconoscersi che la demolizione non potesse
venire effettuata, nonostante le documentate lesioni
strutturali dell’immobile causate dal sisma.
Invero, non è contestato come l'immobile ricadesse in zona
classificata “A2”, definita dall’art. 59 delle norme
tecniche di attuazione del P.R.G. “complessi edilizi ed
edifici di interesse storico, architettonico e ambientale
diffusi sul territorio”, e più specificamente in zona “A2.1
– Ville e parchi”. Nel medesimo art. 59 è specificato come
ciascun organismo edilizio fosse stato “identificato e
perimetrato” e che quando “individuato nelle tavole in scala
1:2000 con apposita retinatura, l’edificio principale
conservato è classificato di interesse storico”.
E costituisce d’altra parte fatto notorio –ai sensi e per
gli effetti dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ.,
applicabile anche al processo amministrativo– la possibilità
di salvaguardare le strutture di immobili pericolanti con
diverse soluzioni progettuali, anche a carattere cautelativo
e provvisorio (tramite puntellamenti, in legno o metallo,
fasciature o cerchiature esterne), fino a veri e propri
interventi di stabile consolidamento, che nel caso di specie
avrebbero potuto essere concordati con l’Amministrazione, se
il privato interessato –benché preavvertito per le vie brevi
dell’illegittimità dell’iniziativa– non avesse anticipato un
intervento di integrale demolizione di una struttura, ancora
presente sull’area (non essendo controverso che gli eventi
sismici non avessero determinato il crollo totale
dell’edificio).
Tenuto conto di quanto in precedenza esposto, il primo
motivo di gravame può essere respinto, sotto il profilo
dell’effettiva non conformità della demolizione dell’intero
fabbricato, in rapporto alle norme di tutela allo stesso
applicabili, anche in presenza di pur gravi lesioni, che
tuttavia non impedivano l’immediata salvaguardia ed il
successivo recupero di quanto ancora esistente, in ogni caso
con progetto da sottoporre all’approvazione comunale.
---------------
La legge regionale dispone:
- da un lato che "su motivata richiesta dell’interessato,
viene disposto che lo Sportello unico per l’edilizia possa
limitarsi ad irrogare una “sanzione pecuniaria pari al
doppio dell’aumento del valore dell’immobile, conseguente
alla realizzazione delle opere….qualora accerti, con
apposita relazione tecnica, l’impossibilità della
restituzione in pristino, a causa della compromissione del
bene tutelato”;
- dall'altro che "Qualora le opere abusive siano state
eseguite su immobili vincolati, in base alle previsioni
degli strumenti urbanistici comunali, lo Sportello unico per
l’edilizia ordina la sospensione dei lavori e dispone,
acquisito il parere della Commissione per la qualità
architettonica ed il paesaggio, la restituzione in pristino
a cura e spese del responsabile dell’abuso, indicando
criteri e modalità, diretti a ricostituire l’originario
organismo edilizio ed irroga una sanzione pecuniaria da
2.000 a 20.000 euro”.
In entrambi i casi ogni apprezzamento sulla via più
opportuna da seguire è rimesso all’Amministrazione comunale.
La richiamata legge regionale, peraltro, riproduce nella
parte sostanziale il contenuto dell’art. 160 del d.lgs. n.
42 del 22.01.2004 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio), che richiama gli obblighi di “protezione e
conservazione”, gravanti su chi detenga un bene culturale,
con obbligo di reintegrazione a spese del responsabile, per
eventuali danni subiti dal bene stesso e pagamento di una
somma, “pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione
di valore subita dalla cosa….quando la reintegrazione non
sia possibile”.
Nella situazione in esame si segnalano, in effetti, cause di
forza maggiore, riconducibili ad eventi sismici verificatisi
nella Regione, ma non è controverso un conclusivo intervento
umano, che ha impedito ulteriori verifiche da parte dei
competenti organi amministrativi.
Si tratta di stabilire, in ogni caso, se il ripristino dello
stato dei luoghi –se inteso come recupero del precedente
tessuto edificatorio– possa definirsi “impossibile”, in
presenza di totale demolizione di uno stabile.
Ad avviso del Collegio, tale valutazione deve essere rimessa
al prudente apprezzamento dei predetti organi
amministrativi: un apprezzamento che –soprattutto con
riferimento ad immobili vincolati– ben potrebbe estendersi
dal “ripristino tipologico” (come definito dall’art. 34
N.T.A ed ammesso per tale categoria di beni), alla
fattispecie di ristrutturazione, prevista dall’art. 3, comma
1, lettera d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia), nella parte in cui detta norma inserisce tra gli
interventi a carattere ristrutturativo "anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione” di un
edificio, “con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento
alla normativa antisismica”; la norma considera altresì
l’ipotesi di immobili “eventualmente crollati o demoliti” e
ne ammette la ricostruzione, “purchè sia possibile
accertarne la preesistente consistenza”, con riproduzione
anche della medesima sagoma, ove gli edifici da ricostruire
fossero stati soggetti a vincoli, ai sensi del citato d.lgs.
n. 42 del 2004.
La distruzione, volontaria o accidentale, di un fabbricato
non impedisce dunque, di per sé, la remissione in pristino,
anche intesa come integrale ricostruzione, ove siano note o
facilmente desumibili le caratteristiche tipologiche
dell’immobile: quanto sopra, soprattutto in presenza di
edifici vincolati, la cui presenza sul territorio (anche con
identità diversa da quella originaria, ma fedelmente
riprodotta) sia comunque ritenuta significativa, nonché
idonea a garantire la persistenza dei valori protetti.
Non sembra inutile ricordare, a tale riguardo, come la
puntuale riproduzione di strutture, di per sé
irrimediabilmente compromesse, sia stata ritenuta
ammissibile anche per un immobile di altissimo valore
artistico e storico, come il settecentesco teatro “La
Fenice” di Venezia, distrutto da un incendio alla fine degli
anni novanta del secolo scorso e ricostruito, con totale
ripristino delle caratteristiche antecedenti all’evento.
Nella situazione in esame, analoga dimensione della
restituzione in pristino appare prefigurata dal citato art.
10, comma 2, della legge regionale n. 23 del 2004, che, per
“opere abusive eseguite su immobili vincolati” (opere, fra
cui non può non essere compresa la demolizione, ove non
previamente autorizzata) prevede che si imponga al
responsabile dell’abuso di “ricostituire l’originario
organismo edilizio”, senza alcun limite circa l’attuale
sussistenza dello stesso, in tutto o in parte.
Talché, il Collegio ritiene che la demolizione –benché
integrale e da qualunque evento causata– non sia
ontologicamente inconciliabile con la rimessa in pristino
dello stato dei luoghi, anche sotto il profilo della
ricostruzione di fabbricati preesistenti interamente
demoliti, purché di conosciute caratteristiche e
consistenza: quanto sopra, soprattutto con riferimento agli
edifici vincolati, la cui presenza sul territorio riveste
particolare importanza per l’interesse pubblico, tanto da
giustificare la riproduzione delle strutture originali, di
per sé non recuperabili.
... per la riforma della sentenza del TAR EMILIA
ROMAGNA–sezione staccata di Parma, sez. I, n. 374/2014, resa
tra le parti, concernente sanzione pecuniaria e ordine di
rimessa in pristino stato dei luoghi;
...
Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per
l’Emilia Romagna, Parma, n. 374/14 del 22.10.2014 è stato
respinto il ricorso proposto avverso l’ordinanza n. 8 del
04.02.2013, con cui veniva irrogata una sanzione pecuniaria
di €. 20.000,00 e disposto il ripristino dello stato dei
luoghi, a seguito dell’avvenuta demolizione di un edificio
di interesse storico, parzialmente crollato a seguito di
eventi sismici.
Nella citata sentenza si ricostruiva la seguente cronologia
dei fatti:
- 13.06.2012, registrazione, nel protocollo del Comune di
Casalgrande, della comunicazione –depositata il giorno
precedente– di avvenuto, parziale crollo dell’edificio in
questione, del cui rudere si preannunciava la demolizione;
- 12.06.2012, diffida verbale del Responsabile del Servizio
Urbanistica ed edilizia privata del Comune a non effettuare
detta demolizione;
- 15.06.2012, diffida formale a non demolire, notificata il
successivo giorno 19;
- 21.06.2012, comunicazione di già avvenuta demolizione,
completata il precedente giorno 14;
- 09.10.2012, comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio e ripristinatorio;
- 04.02.2013, emissione dell’atto impugnato.
Nella medesima sentenza l’impugnazione dell’atto da ultimo
indicato era ritenuta manifestamente infondata, essendo la
demolizione di cui trattasi vietata dagli strumenti
urbanistici (art. 49, comma 7, NTA al PRG); la rimessa in
pristino, in presenza di opere abusive su immobili
vincolati, risultava inoltre prevista dall’art. 10 della
legge regionale n. 23 del 21.10.2004, che sarebbe stata
puntualmente applicata nel caso di specie.
La fedele
ricostruzione, infine, avrebbe dovuto ritenersi possibile,
oltre ad essere conforme al citato art. 49, comma 7, NTA.
...
La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne la legittimità, o
meno, della completa demolizione di un fabbricato –già
gravemente lesionato per eventi sismici– nonostante una
previa comunicazione del competente ufficio comunale di
inammissibilità di tale intervento, con riferimento alla
normativa di zona (classificata A2.1 –“ville e parchi”–
nel vigente piano regolatore generale - P.R.G.), nonché
all’interesse storico dell’edificio, riconosciuto dal
medesimo P.R.G..
Posto, inoltre, che detta demolizione
risultasse non consentita, deve ulteriormente essere
stabilito se, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, potesse
anche venire disposta la ricostruzione del fabbricato, pur
essendo lo stesso, ovviamente, non ripristinabile nella
propria autentica identità, ma solo riproducibile “nello
stesso luogo, con le stesse dimensioni (altezza, larghezza,
lunghezza) e analoghe caratteristiche formali e
architettoniche, relativamente alla parte esterna” con
“tecniche costruttive” e “materiali edilizi” rapportati
all’”edificio originario, salvo gli adeguamenti richiesti
dalla normativa di settore”, come si legge nell’impugnata
ordinanza n. 1684 del 04.02.2013, che recepiva in tal
modo il parere della Commissione per la qualità
architettonica e per il paesaggio.
In rapporto a quanto sopra deve essere esaminata, in via
preliminare, l’eccezione di inammissibilità, sollevata dal
Comune di Casalgrande, per omessa enunciazione di censure
avverso la sentenza appellata, come previsto dall’art. 101,
comma 1, cod. proc. amm. Detta eccezione (oltre a non
trovare concreto riscontro nell’atto di appello) risulta
comunque infondata, in quanto la citata norma del codice del
processo amministrativo –secondo cui “il ricorso in appello
deve contenere….le specifiche censure contro i capi della
sentenza gravata”– deve trovare lettura coordinata con
l’effetto devolutivo del gravame e con il principio di
sinteticità, di cui all’art. 3, comma 2, dello stesso
codice, nella misura in cui le censure avverso la sentenza
appellata si traducano in mere contestazioni, riferite alla
motivazione di quest’ultima: l’effetto devolutivo
dell’appello, che comporta integrale rivalutazione delle
questioni controverse, che vengano in tale sede riproposte,
implica infatti modifica o integrazione di detta motivazione
ove necessario (cfr. in tal senso Cons. St., sez. IV, 19.09.2012, n. 4974; Cons. St., sez. V, 17.09.2012, n. 4915; Cons. St., sez. VI,,
08.10.2013, n. 4934
e 22.07.2014, n. 3903; Cons. St., sez. III, 10.04.2012, n. 2057).
Va dunque precisato che l’inciso, contenuto
nell’art. 101, comma 1, c.p.a. non deve ritenersi impositivo
di tali censure anche in assenza di contestazioni,
propriamente riferibili al contenuto della sentenza stessa
(come nel caso di ravvisate ragioni di inammissibilità o
irricevibilità dell’impugnativa, la cui omessa contestazione
implicherebbe formazione di giudicato parziale), fermo
restando che i motivi di appello, riproduttivi delle censure
prospettate in primo grado, possono contenere in modo più o
meno esplicito argomentazioni –nella fattispecie ampiamente
presenti– contrarie a quelle espresse nella sentenza
appellata.
Nel merito –e con riferimento alla prima questione, in
precedenza prospettata– deve poi riconoscersi che la
demolizione non potesse venire effettuata, nonostante le
documentate lesioni strutturali dell’immobile.
Non è contestato, in effetti, che quest’ultimo ricadesse in
zona classificata “A2”, definita dall’art. 59 delle norme
tecniche di attuazione del P.R.G. “complessi edilizi ed
edifici di interesse storico, architettonico e ambientale
diffusi sul territorio”, e più specificamente in zona “A2.1
– Ville e parchi”. Nel medesimo art. 59 è specificato come
ciascun organismo edilizio fosse stato “identificato e perimetrato” e che quando “individuato nelle tavole in
scala 1:2000 con apposita retinatura, l’edificio principale
conservato è classificato di interesse storico”.
Nel provvedimento impugnato (ordinanza n. 1684/2013 cit.),
in effetti, si fa specifico richiamo alla “retinatura
grafica” apposta sull’edificio di cui trattasi “nella
cartografia di base dello strumento urbanistico comunale
vigente”; il valore storico dell’edificio era poi
sottolineato nella diffida a non operare la totale
demolizione del medesimo: diffida espressa con atto n. prot.
8642, trasmesso dal comune all’attuale appellante il 15.06.2012 e non reso oggetto di impugnativa. Nella
medesima diffida si invitava il dott. V. alla “messa
in sicurezza dell’area, al fine di salvaguardare
l’incolumità delle persone”, che potessero accedervi, nonché
alla “messa in sicurezza dell’edificio, al fine di evitare
nuovi crolli”.
Costituisce d’altra parte fatto notorio –ai
sensi e per gli effetti dell’art. 115, comma 2, cod. proc.
civ., applicabile anche al processo amministrativo– la
possibilità di salvaguardare le strutture di immobili
pericolanti con diverse soluzioni progettuali, anche a
carattere cautelativo e provvisorio (tramite puntellamenti,
in legno o metallo, fasciature o cerchiature esterne), fino
a veri e propri interventi di stabile consolidamento, che
nel caso di specie avrebbero potuto essere concordati con
l’Amministrazione, se il privato interessato –benché
preavvertito per le vie brevi dell’illegittimità
dell’iniziativa– non avesse anticipato un intervento di
integrale demolizione di una struttura, ancora presente
sull’area (non essendo controverso che gli eventi sismici
non avessero determinato il crollo totale dell’edificio).
Tale intervento non era consentito dal già citato art. 59
N.T.A., che nell’intera zona A2 ammette solo “manutenzione
ordinaria, straordinaria, restauro scientifico, restauro e
risanamento conservativo”, con limitata possibilità di
ristrutturazione edilizia, nel “rispetto dei caratteri
architettonici e ambientali del luogo”, nonché di quelli
dell’“edificio esistente”; negli edifici classificati di
interesse storico, inoltre, sono consentiti “interventi di
manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro scientifico,
restauro e risanamento conservativo, ripristino tipologico e
demolizione”.
Quanto al tipo di demolizione, cui da ultimo
la norma fa riferimento, deve ritenersi che la disposizione
sia riferita solo a superfetazioni o singole parti
pericolanti, in coordinamento logico con quanto prescritto
dall’art. 49, comma 7, delle medesime N.T.A,, secondo cui, in
zona A, “Nel caso di fabbricati parzialmente crollati è
possibile provvedere alla totale demolizione, senza
possibilità di recupero dei volumi e delle superfici
esistenti. Tale possibilità è limitata agli edifici
incongrui e non è consentita per i beni storici o per gli
edifici vincolati dal P.R.G.”.
Nella situazione in esame, la documentazione fotografica
prodotta mostra un edificio lesionato, ma ben identificabile
sotto il profilo strutturale, il cui valore storico si
afferma (senza puntuali contestazioni di controparte)
evidenziato da apposita retinatura grafica sulla cartografia
di base, come previsto dall’art. 59, comma 2 N.T.A.; nel
provvedimento impugnato, peraltro, il responsabile del
settore precisa di avere illustrato il significato di tale
retinatura al dott. V. nell’incontro in data 12.06.2012, ancora una volta senza che tale circostanza venga
smentita (con gli effetti, di cui all’art. 64, comma 2, cod.
proc. amm.).
Il citato dott. V., a sua volta, produce “quattro
schede, servite per la predisposizione del P.R.G.”, con
descrizione della proprietà di cui trattasi, il cui “valore
morfologico” risulta definito “nullo”, con possibilità di
effettuazione di qualsiasi intervento edilizio.
Dette
schede, tuttavia, non possono integrare né modificare le
norme di piano, già in precedenza ricordate, circa la natura
degli interventi effettuabili nell’area di cui trattasi,
fermo restando che il valore morfologico (ovvero
architettonico o artistico) appare indipendente
dall’affermato valore storico-testimoniale dell’edificio,
riconosciuto sul piano cartografico nei termini in
precedenza illustrati e ribadito, con parere in data 29.10.2012, dalla Commissione per la qualità
architettonica e per il paesaggio, che –previa approfondita
indagine– ha riconosciuto all’edificio demolito “un
interesse storico, in quanto testimone di un’architettura
destinata a sede di un’attività casearia, tipica del periodo
successivo alla seconda guerra mondiale”.
In tale contesto,
sembra appena il caso di sottolineare l’irrilevanza di
considerazioni puramente soggettive, esposte dalla difesa
dell’appellante, circa il “valore nullo” ed il carattere di
mera “superfetazione” dell’edificio demolito, in contrasto
con l’apprezzamento di merito dell’Autorità competente,
trasfuso nella disciplina urbanistica sia dell’area che dei
singoli edifici.
Tenuto conto di quanto in precedenza esposto, il primo
motivo di gravame può essere respinto, sotto il profilo
dell’effettiva non conformità della demolizione dell’intero
fabbricato, in rapporto alle norme di tutela allo stesso
applicabili, anche in presenza di pur gravi lesioni, che
tuttavia non impedivano l’immediata salvaguardia ed il
successivo recupero di quanto ancora esistente, in ogni caso
con progetto da sottoporre all’approvazione comunale.
Gli altri motivi di gravame investono la possibilità –fattuale e giuridica– di procedere ad integrale
riedificazione di un edificio non più esistente, di cui non
sarebbero ipotizzabili la restituzione in pristino, né il
recupero dei valori tutelati, connessi all’identità
originaria.
A sostegno di tali argomentazioni, l’appellante richiama il
secondo comma dell’art. 10 della legge regionale dell’Emilia
Romagna n. 23 del 21.10.2004 (Vigilanza e controllo
dell’attività edilizia), nella parte in cui –su motivata
richiesta dell’interessato– viene disposto che lo Sportello
unico per l’edilizia possa limitarsi ad irrogare una
“sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore
dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle
opere….qualora accerti, con apposita relazione tecnica,
l’impossibilità della restituzione in pristino, a causa
della compromissione del bene tutelato”.
Il Comune
resistente, invece, richiama la prima parte del medesimo
comma, in cui è previsto quanto segue: “Qualora le opere
abusive siano state eseguite su immobili vincolati, in base
alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, lo
Sportello unico per l’edilizia ordina la sospensione dei
lavori e dispone, acquisito il parere della Commissione per
la qualità architettonica ed il paesaggio, la restituzione
in pristino a cura e spese del responsabile dell’abuso,
indicando criteri e modalità, diretti a ricostituire
l’originario organismo edilizio ed irroga una sanzione
pecuniaria da 2.000 a 20.000 euro”.
In entrambi i casi, come
è reso evidente dal testo delle norme richiamate, ogni
apprezzamento sulla via più opportuna da seguire è rimesso
all’Amministrazione, cui non è stato invece consentito, nel
caso di specie, di valutare direttamente la situazione di
fatto, conseguente ai danni provocati dal sisma, per
circostanze sopravvenute imputabili all’appellante.
La
stessa documentazione fotografica da quest’ultimo prodotta,
infatti, dimostra l’esistenza –prima dell’ultima
demolizione– di un edificio interessato da parziali crolli
e in apparenza pericolante, ma dai tratti identificativi
chiaramente ancora presenti, tali da rendere ipotizzabili
sia il consolidamento che la fedele riproduzione della
struttura. La disposizione normativa invocata
dall’appellante, d’altra parte, richiedeva “motivata
richiesta dell’interessato” (come sottolineato dal Comune
resistente), nonché “apposita relazione tecnica” dello
Sportello unico per l’edilizia: presupposti insussistenti
nel caso di specie e non più ipotizzabili, avendo
l’interessato operato, di propria iniziativa, la rimozione
delle strutture rimaste.
La richiamata legge regionale, peraltro, riproduce nella
parte sostanziale il contenuto dell’art. 160 del d.lgs. n.
42 del 22.01.2004 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio), che richiama gli obblighi di “protezione e
conservazione”, gravanti su chi detenga un bene culturale,
con obbligo di reintegrazione a spese del responsabile, per
eventuali danni subiti dal bene stesso e pagamento di una
somma, “pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione
di valore subita dalla cosa….quando la reintegrazione non
sia possibile”. Nella situazione in esame si segnalano, in
effetti, cause di forza maggiore, riconducibili ad eventi
sismici verificatisi nella Regione, ma non è controverso un
conclusivo intervento umano, che ha impedito ulteriori
verifiche da parte dei competenti organi amministrativi.
Si tratta di stabilire, in ogni caso, se il ripristino dello
stato dei luoghi –se inteso come recupero del precedente
tessuto edificatorio– possa definirsi “impossibile”, in
presenza di totale demolizione di uno stabile.
Ad avviso del
Collegio, tale valutazione deve essere rimessa al prudente
apprezzamento dei predetti organi amministrativi: un
apprezzamento che –soprattutto con riferimento ad immobili
vincolati– ben potrebbe estendersi dal “ripristino
tipologico” (come definito dall’art. 34 N.T.A ed ammesso per
tale categoria di beni), alla fattispecie di
ristrutturazione, prevista dall’art. 3, comma 1, lettera d),
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia), nella parte in cui detta norma inserisce tra gli
interventi a carattere ristrutturativo "anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione” di un
edificio, “con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento
alla normativa antisismica”; la norma considera altresì
l’ipotesi di immobili “eventualmente crollati o demoliti” e
ne ammette la ricostruzione, “purchè sia possibile
accertarne la preesistente consistenza”, con riproduzione
anche della medesima sagoma, ove gli edifici da ricostruire
fossero stati soggetti a vincoli, ai sensi del citato d.lgs.
n. 42 del 2004.
La distruzione, volontaria o accidentale, di
un fabbricato non impedisce dunque, di per sé, la remissione
in pristino, anche intesa come integrale ricostruzione, ove
siano note o facilmente desumibili le caratteristiche
tipologiche dell’immobile: quanto sopra, soprattutto in
presenza di edifici vincolati, la cui presenza sul
territorio (anche con identità diversa da quella originaria,
ma fedelmente riprodotta) sia comunque ritenuta
significativa, nonché idonea a garantire la persistenza dei
valori protetti.
Non sembra inutile ricordare, a tale
riguardo, come la puntuale riproduzione di strutture, di per
sé irrimediabilmente compromesse, sia stata ritenuta
ammissibile anche per un immobile di altissimo valore
artistico e storico, come il settecentesco teatro “La
Fenice” di Venezia, distrutto da un incendio alla fine degli
anni novanta del secolo scorso e ricostruito, con totale
ripristino delle caratteristiche antecedenti all’evento.
Nella situazione in esame, analoga dimensione della
restituzione in pristino appare prefigurata dal citato art.
10, comma 2, della legge regionale n. 23 del 2004, che, per
“opere abusive eseguite su immobili vincolati” (opere, fra
cui non può non essere compresa la demolizione, ove non
previamente autorizzata) prevede che si imponga al
responsabile dell’abuso di “ricostituire l’originario
organismo edilizio”, senza alcun limite circa l’attuale
sussistenza dello stesso, in tutto o in parte.
In contrario avviso rispetto a quanto sostenuto
dall’appellante, pertanto, il Collegio ritiene che la
demolizione –benché integrale e da qualunque evento causata– non sia ontologicamente inconciliabile con la rimessa in
pristino dello stato dei luoghi, anche sotto il profilo
della ricostruzione di fabbricati preesistenti interamente
demoliti, purché di conosciute caratteristiche e
consistenza: quanto sopra, soprattutto con riferimento agli
edifici vincolati, la cui presenza sul territorio riveste
particolare importanza per l’interesse pubblico, tanto da
giustificare la riproduzione delle strutture originali, di
per sé non recuperabili.
Anche il secondo e il terzo motivo
di gravame –riferiti ad accesso di potere e violazione di
legge (N.T.A. del P.R.G. –artt. 46 e 59–, art. 10, comma
2, L.reg. n. 23 del 2004; art. 160, comma 4, del d.lgs. n.
42 del 2004, già in precedenza esaminati)– non possono
quindi trovare accoglimento, sotto profili che sorreggono
adeguatamente la legittima emanazione del provvedimento
impugnato in primo grado, con assorbimento di ogni ulteriore
ragione difensiva e conclusivo rigetto dell’appello
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2015 n. 2139 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima l'ordinanza comunale di ingiunzione di sanzione
pecuniaria e di ripristino dello stato dei luoghi
(ricostruzione) a fronte dell'avvenuta abusiva demolizione
di fabbricato, ancorché lesionato dal sisma.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 8 in data
04.02.2013 del Comune di Casalgrande di ingiunzione di
sanzione pecuniaria e di ripristino dello stato dei luoghi.
...
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
L’immobile demolito dal ricorrente V.V.
insiste su area classificata dal PRG comunale come zona A2
“Complessi edilizi ed edifici di interesse storico,
architettonico e ambientale diffusi nel territorio” e, in
particolare in sottozona A2.1 “Ville e parchi”; la
circostanza è documentata dal Comune e non è contestata dal
ricorrente.
L’art. 49 delle NTA, nel dettare prescrizioni generali per
le zone A, al comma 7 stabilisce: “Nel caso di fabbricati
parzialmente crollati è possibile provvedere alla totale
demolizione senza possibilità di recupero dei volumi e delle
superfici esistenti. Tale possibilità è limitata agli
edifici incongrui e non è consentita per i beni storici o
per gli edifici vincolati dal PRG” (cfr. doc. 16 id.).
E’ certo, dunque, che la demolizione dell’immobile in
discorso fosse vietata dagli strumenti urbanistici.
L’art. 10 della L.R. 21.10.2004, n. 23, sotto la rubrica
“Salvaguardia degli edifici vincolati”, al comma 2, prevede:
“Qualora le opere abusive siano state eseguite su immobili
vincolati in base alle previsioni degli strumenti
urbanistici comunali, lo Sportello unico per l'edilizia
ordina la sospensione dei lavori e dispone, acquisito il
parere della Commissione per la qualità architettonica e il
paesaggio, la restituzione in pristino a cura e spese del
responsabile dell'abuso, indicando criteri e modalità
diretti a ricostituire l'originario organismo edilizio, ed
irroga una sanzione pecuniaria da 2.000 a 20.000 euro. Su
richiesta motivata dell'interessato presentata a seguito
della avvenuta sospensione dei lavori, lo Sportello unico
per l'edilizia irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio
dell'aumento del valore dell'immobile conseguente alla
realizzazione delle opere, determinato ai sensi
dell'articolo 21, comma 2, qualora accerti, con apposita
relazione tecnica, l'impossibilità della restituzione in
pristino a causa della compromissione del bene tutelato. In
tale ipotesi il Comune può prescrivere l'esecuzione di opere
dirette a rendere l'intervento consono al contesto
ambientale, assegnando un congruo termine per l'esecuzione
dei lavori. Lo Sportello unico per l'edilizia si pronuncia
sulla richiesta entro novanta giorni, decorsi i quali la
richiesta stessa si intende rifiutata”.
Nel caso di specie il Comune ha fatto pedissequa
applicazione della norma innanzi richiamata applicando la
sanzione pecuniaria e disponendo il ripristino dell’immobile
abusivamente demolito.
4.1. Infondato è il primo ordine di censure riferito
all'errata interpretazione ed applicazione degli artt. 49 e
59 delle NTA e dell’art. 10 L.R. 23/2004; infatti,
contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, tale speciale
disciplina, riferita ai complessi edilizi di interesse
storico, architettonico ed ambientale diffusi nel
territorio, siti nelle zone classificate dal vigente P.R.G.
come A2, non consente la demolizione.
In questo caso, pertanto, l'immobile per cui è causa è stato
abusivamente demolito, in palese contrasto con le norme
sopra indicate.
Al riguardo giova precisare che il V., dopo aver
comunicato al Comune il crollo di parte dell'edificio e
l’intenzione di demolirlo, era stato informato
dell’impossibilità di procedere alla demolizione e diffidato
dapprima verbalmente (nel corso dell’incontro del 12.06.2012) e successivamente per iscritto (con nota del 16.06.2012).
Ciononostante ha proceduto alla demolizione in spregio alla
normativa a lui nota nonché all’espressa diffida
formalizzatagli dal Comune.
4.2. Infondato è il secondo ordine di censure atteso che,
dalla semplice lettura della norma di cui all’art. 10 L.R.
23/2004, si ricava senza possibilità di equivoci che la
sanzione pecuniaria va applicata congiuntamente all’ordine
di ripristino.
Viceversa la possibilità di irrogare una sanzione doppia è
lasciata all’ipotesi residuale in cui si accerti
l’impossibilità della ricostruzione e vi sia una richiesta
motivata dell’interessato: presupposti, questi, del tutto
assenti nel caso di specie.
4.3. Infondato è, infine, il terzo ordine di censure
riferito all'asserita impossibilità di ordinare il recupero
di un immobile non più esistente, poiché demolito.
La disposizione contenuta nell'art. 49, comma 7, delle NTA
del P.R.G. del comune di Casalgrande, innanzi riportata, nel
prescrivere che la demolizione non è consentita per i beni
storici o per gli edifici vincolati dal PRG, anche se
parzialmente crollati, implicitamente ammette anche la
fedele integrale ricostruzione di questi ultimi;
ricostruzione che, nel caso di specie, il Comune ha ordinato
previa presentazione di una proposta progettuale da
assoggettare a valutazione preventiva ai sensi dell’art. 16 L.R. 31/2002.
Per quanto precede il ricorso deve essere respinto
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 22.10.2014 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Di nuovo sulla mobilità volontaria riservata agli
enti di area vasta (Province)
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 14.05.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Informazioni ai Sindaci in merito al personale delle
Amministrazioni Comunali legittimato a svolgere funzioni di
polizia giudiziaria. Direttive di polizia giudiziaria alla
Polizia Municipale
(Procura della Repubblica di Lecce,
nota 05.05.2015 n. 3287/15 d prot.). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto:
Competenze dei Geometri - Decisione Consiglio di Stato n.
883/2015, annullamento delibera Comune di Torri del Benaco
n. 96/2012
(Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
nota 07.05.2015 n. 5126 di prot.). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Lavori
in quota, le misure per il rischio caduta dall'alto.
Suva ha pubblicato il documento “Lavori sui tetti”
sui lavori in quota con le misure per il rischio caduta
dall'alto.
Il rischio di caduta dall’alto non va mai sottovalutato
quando si lavora in quota; è sempre opportuno adoperare
tutte le misure di prevenzione e protezione opportune.
In questo articolo proponiamo la guida Suva su “Lavori
sui tetti”, rivolta sia a coloro che svolgono attività
lavorative sui tetti che ai progettisti, contenente le
indicazioni e le misure di sicurezza da adottare per ridurre
i rischi nei lavori in quota.
La pubblicazione illustra attraverso immagini, schemi
esplicativi e tabelle le principali misure di protezione da
adottare quando si lavora su un’impalcatura o su un tetto,
analizzando i diversi dispositivi di protezione individuale.
Nel dettaglio sono affrontati i seguenti argomenti:
●
Pianificazione, coordinamento, responsabilità
●
Panoramica delle misure di protezione prescritte
●
Dispositivi anticaduta su tetti inclinati (a partire da una
pendenza di 10°)
●
Dispositivi anticaduta su tetti piani
●
Materiale informativo
(14.05.2015 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Lana
di roccia e lana di vetro: tutti i pericoli, gli effetti
sulla salute e le modalità di smaltimento.
La Conferenza Stato Regioni ha approvato le linee guida per
la riduzione del rischio da esposizione alle fibre
artificiali vetrose (FAV).
Con il termine FAV (fibre artificiali vetrose) si intende
una serie di prodotti e materiali costituiti da fibre che
includono una larga varietà di prodotti inorganici fibrosi
ottenuti sinteticamente, come le lane di vetro, di scoria e
di roccia (utilizzate per l’isolamento termico, acustico e
la protezione incendio) o le fibre ceramiche refrattarie,
fibre di silicato.
Linee guida lana di roccia, lana di vetro e fibre vetrose
In considerazione del largo impiego delle FAV in edilizia,
grazie alle loro buone caratteristiche di isolamento termico
e acustico, e dei possibili effetti anche gravi che possono
provocare alla salute (effetti irritativi, all’apparato
respiratorio, ecc.), la Conferenza permanente per i rapporti
tra Stato e Regioni ha approvato le linee guida finalizzate
alla riduzione del rischio da esposizione a fibre
artificiali vetrose (FAV).
Il documento fornisce le procedure utili a consentire una
corretta valutazione dei rischi e l'individuazione delle
misure di prevenzione da adottare al fine di tutelare la
salute della popolazione e dei lavoratori, sia in ambienti
di lavoro che di vita.
Le Linee guida contengono le indicazioni per una corretta
modalità di impiego, uso e manutenzione da rispettare.
Questi gli argomenti trattati:
►
le proprietà chimico-fisiche
►
la classificazione di pericoli e aspetti normativi
►
i metodi di prova ai fini della classificazione delle fibre
►
la tipologia di utilizzo e settori di impiego
►
gli effetti sulla salute
►
l'esposizione a fibre vetrose artificiali nei luoghi di
lavoro (D.Lgs. 81/2008)
►
i valori di riferimento e dati di esposizione
►
la gestione operativa dei rifiuti contenenti fibre minerali
►
le indicazioni operative
Gli allegati contengono la Nota metodologica relativa
all'analisi del materiale fibroso in massa e gli obblighi e
le responsabilità del medico competente
(14.05.2015 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 22.05.2015, "Aggiornamento
albo delle imprese boschive (L.r. 31/2008 – art. 57)"
(decreto
D.S. 15.05.2015 n. 3930). |
PATRIMONIO:
G.U. 20.05.2015 n. 115 "Procedure di alienazione del
patrimonio di edilizia residenziale pubblica" (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 24.02.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 19.05.2015, "Definizione
dei criteri e delle modalità per l’erogazione del contributo
regionale finalizzato al completamento della pianificazione
territoriale e urbanistica locale (PGT) per i comuni
commissariati con d.g.r. X/3195 del 26.02.2015" (deliberazione
G.R. 14.05.2015 n. 3580). |
PATRIMONIO:
G.U. 15.05.2015 n. 111 "Modalità per l’individuazione di
un modello unico di rilevamento e potenziamento della rete
di monitoraggio e di prevenzione del rischio sismico per la
predisposizione del piano di messa in sicurezza degli
edifici scolastici" (D.P.C.M.
02.04.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 20 del 15.05.2015, "Modifica
dell’articolo 14 del regolamento regionale 08.02.2010, n. 3
- «Regolamento di polizia idraulica ai sensi dell’articolo
85, comma 5, della legge regionale 05.12.2008, n. 31 -
‘Testo unico delle leggi regionali in materia di
agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale’»" (Regolamento
Regionale 12.05.2015 n. 4). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 15.05.2015, "Criteri
per l’attivazione di servizi di rimozione e smaltimento
dell’amianto in matrice compatta proveniente da utenze
domestiche nel territorio dei comuni della Lombardia ai
sensi dell’art. 30 della l.r. 08.07.2014 n. 19" (deliberazione
G.R. 30.04.2015 n. 3494). |
PATRIMONIO: G.U.
13.05.2015 n. 109 "Misure per l’efficientamento
energetico degli edifici scolastici"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
decreto 14.04.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 19 dell'08.05.20158, "Modifiche
alla legge regionale 21.10.2013, n. 8 (Norme per la
prevenzione e il trattamento del gioco d’azzardo
patologico), alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge
per il governo del territorio) e alla legge regionale
02.02.2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in
materia di commercio e fiere)" (L.R.
06.05.2015 n. 11).
---------------
Di interesse si legga:
►
Art. 2 - (Modifiche agli articoli 33, 41 e 52 della l.r.
12/2005) |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
R. Panozzo,
La decadenza del consigliere comunale per mancata
partecipazione alle sedute – Massimario minimo (18.05.2015
- tratto da www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G. Sgueo,
Il diritto di accesso agli atti (Giornale di
diritto amministrativo n. 3/2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
V. Giannotti,
Collaudo affidato a dipendenti di altre p.a. Ricostruzione
della normativa per i compensi e le incompatibilità di
diritto (Azienditalia - il Personale n. 1/2014). |
URBANISTICA:
Il comune può speculare sulle aree a standards ricevute con
i piani attuativi (14.09.2011 - link a
http://venetoius.myblog.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Dimissioni, parla la
legge. Efficaci dall'assunzione al protocollo dell'ente.
Lo statuto comunale non può derogare alla
competenza statale.
Può essere modificato lo statuto comunale introducendo una
specifica procedura in ordine alla decorrenza del termine di
efficacia delle dimissioni rese dal sindaco, previsto
dall'art. 53, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000?
Secondo un costante orientamento, il dies a quo per il
computo del termine di cui al predetto art. 53 è
identificato nel giorno in cui le dimissioni vengono assunte
al protocollo dell'ente.
In merito alla possibilità da parte dello statuto comunale
di disciplinare la suddetta materia, in linea generale lo
Stato ha competenza esclusiva, ai sensi dell'art. 117, comma
2, lett. p), in ordine alla potestà legislativa in materia
di disciplina elettorale, organi di governo e funzioni
fondamentali di comuni, province e città metropolitane.
La
legge n. 131/2003, all'art. 4, comma 2, prescrive che lo
statuto, in armonia con la Costituzione e con i principi
generali in materia di organizzazione pubblica, stabilisce i
principi di organizzazione e funzionamento dell'ente, le
forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie
delle minoranze e le forme di partecipazione popolare, nel
rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in
attuazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera p),
della Costituzione.
Il Consiglio di stato con sentenza n.
832, del 03.03.2005, alla luce proprio degli artt. 114 e
117 della Costituzione, ha ribadito la competenza esclusiva
dello stato in materia di organi di governo che
evidentemente non può essere autonomamente disciplinata dal
comune, neppure in sede statutaria, in mancanza di una norma
legislativa statale che ne delimiti l'intervento
integrativo.
Con sentenza n. 492/2008, il Tar Calabria ha osservato che
«lo statuto comunale, anche a seguito della riforma del
Titolo V della Costituzione, è da qualificarsi come atto
normativo secondario, capace, entro certi limiti, di
innovare l'ordinamento e che, nell'ambito della gerarchia
delle fonti, può essere considerato come fonte subprimaria,
incapace di derogare o di modificare una legge e collocata
appena al disopra delle fonti regolamentari».
Pertanto la modifica in parola, concernente la disciplina
relativa alle dimissioni del sindaco, esula completamente
dalla materia riservata alla disciplina statutaria dell'ente
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Atti di sindacato ispettivo.
Quali sono le materie sulle quali può essere esercitato il
diritto dei consiglieri di svolgere atti di sindacato
ispettivo? È ammissibile lo svolgimento di mozioni aventi ad
oggetto specifiche attività di carattere strettamente
gestionale, sottratte alla competenza dell'organo
consiliare?
Tale diritto è previsto dall'art. 43 del decreto legislativo
n. 267/2000 che, al comma 3, demanda allo statuto e al
regolamento la disciplina concernente le modalità di
presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le
relative risposte.
La dottrina definisce «mozioni» gli atti approvati dal
consiglio per esercitare un'azione di indirizzo, esprimere
posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la
propria attività, disciplinare procedure e stabilire
adempimenti dell'amministrazione nei confronti del
Consiglio.
Il Tar Puglia–sezione di Lecce– I sez., sentenza n.
1022/2004, individua la mozione quale «istituto a contenuto
non specificato, trattandosi di un potere a tutela della
minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di
altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali
l'interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di
«introduzione a un dibattito» che si conclude con un voto
che è ragione ed effetto proprio della mozione».
Il regolamento del consiglio del comune in questione
definisce la mozione «una proposta concreta tendente a
provocare l'indirizzo di una condotta o azione del sindaco,
o della giunta o di un singolo assessore, oppure a fissare
criteri da seguire nella contrattazione di un determinato
affare, oppure a far pronunciare il consiglio comunale circa
importanti fatti politici od amministrativi».
La normativa
regolamentare non sembrerebbe, pertanto, porre limiti di
materia al diritto dei consiglieri di presentare mozioni
che, in quanto atti preordinati a promuovere una
deliberazione del consiglio, costituiscono una delle
modalità attraverso cui quest'ultimo esercita la funzione di
indirizzo e di controllo politico–amministrativo prevista,
ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n.
267/2000, tra le attribuzioni dell'organo rappresentativo
dell'ente
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2015). |
APPALTI:
Il termine per la stipula del contratto di appalto.
DOMANDA:
Parcheggi a pagamento per il solo periodo estivo cioè 90
giorni (giugno-agosto) secondo il codice contratti che
prevede la stipula del contratto entro 60 giorni dalla
aggiudicazione definitiva, essendo già a maggio significa
che il servizio inizierà dopo giugno e quindi non è
possibile assicurare i 90 giorni previsti dal bando creando
un danno all'aggiudicatario che si rivarrà contro il Comune.
E' possibile aggiudicare subito sotto riserva di legge in
tale caso il servizio, motivando che in caso contrario
scaturisce un danno certo per l'ente?
RISPOSTA:
Il termine di 60 giorni tra la aggiudicazione definitiva e
la stipulazione del contratto di appalto è un termine
perentorio, non dilatorio. Ciò comporta che la stipula deve
avvenire entro e non oltre il termine di sessanta giorni,
altrimenti l'aggiudicatario può, mediante atto notificato
alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o
recedere dal contratto.
Ma il fatto che il termine non sia dilatorio, significa che
non debbano necessariamente trascorrere 60 giorni prima che
sia compiuto l’atto, potendosi procedere alla stipula del
contratto anche prima, purché si sia proceduto -da parte
dell'amministrazione- alla verifica del possesso dei
requisiti prescritti ("Divenuta efficace l'aggiudicazione
definitiva, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di
autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la
stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha
luogo entro il termine di sessanta giorni, salvo diverso
termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero
l'ipotesi di differimento espressamente concordata con
l'aggiudicatario", art. 11, comma 9, Codice contratti)
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di agibilità parziale.
DOMANDA:
Si chiede un parere in merito alla possibilità di rilasciare
il certificato di agibilità parziale di una unità
immobiliare residenziale posta al piano primo di un immobile
plurifamiliare composto da più livelli, nel quale esiste
l’ascensore seppure al momento attuale non funzionate e mai
collaudato.
Nel particolare anche alla luce delle disposizioni
specifiche introdotte dalla legge n. 98/2013, di conversione
del D.L. n. 69/2013 (Decreto del Fare), che stabilisce per
il certificato di agibilità l’introduzione del comma 4-bis
all’art. 24 del Testo unico dell’edilizia, che prevede il
rilascio di agibilità parziale degli edifici.
In concreto, secondo la recente disciplina il certificato di
agibilità può essere rilasciato per singoli edifici o
singole porzioni della costruzione, purché funzionalmente
autonomi, qualora siano state realizzate e collaudate le
opere di urbanizzazione primaria relative all’intero
intervento edilizio e siano state completate e collaudate le
parti strutturali connesse, nonché collaudati e certificati
gli impianti relativi alle parti comuni, oppure per singole
unità immobiliari, purché siano completate e collaudate le
opere strutturali connesse, siano certificati gli impianti e
siano completate le parti comuni e le opere di
urbanizzazione primaria dichiarate funzionali rispetto
all’edificio oggetto di agibilità parziale.
Pertanto atteso che relativamente al caso specifico non
risultano collaudati e certificati gli impianti relativi
alle parti comuni (ascensore), mentre risultano certificati
gli impianti della singola unità immobiliare, che è
posizionata al piano primo e pertanto ad un livello per il
quale singolarmente non sarebbe essenziale l’esistenza
dell’ascensore, si chiede parere in merito alla possibilità
di rilasciare il certificato di agibilità parziale per tale
unità immobiliare.
RISPOSTA:
Si ritiene che, sul punto, la normativa sia abbastanza
chiara, né suscettibile di interpretazioni estensive, dal
momento che si tratta di una normativa "derogatoria".
L'articolo 30 del decreto legge n. 69/2013, integrando
l'articolo 24 del Testo Unico Edilizia D.P.R. n. 380/2001,
ha introdotto la possibilità del rilascio del certificato di
agibilità parziale che, nel caso di edifici singoli o
singole porzioni della costruzione (caso di specie), può
essere rilasciato a condizione che: - siano funzionalmente
autonomi; - siano state realizzate e collaudate le opere di
urbanizzazione primaria relative all'intero intervento
edilizio; - siano state completate e collaudate le parti
strutturali connesse, nonché collaudati e certificati gli
impianti relativi alle parti comuni.
Nella fattispecie concreta, la concessione edilizia è stata
rilasciata in virtù di un progetto che contempla, tra gli
impianti relativi alle parti comuni, anche l’ascensore (che,
attualmente, non funziona, né è stato oggetto di collaudo).
Mancando quindi uno dei presupposti richiesti dalla
richiamata normativa, sarebbe illegittimo il rilascio del
certificato di agibilità parziale, ponendosi come
irrilevante, sotto il profilo giuridico, il fatto che
l'immobile sia ubicato al primo piano e quindi non sia
essenziale l'utilizzo dell’ascensore (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sulle attività extra non autorizzate dal datore di lavoro
del pubblico dipendente.
Il
rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente
caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d.
regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente
pubblico, nei limiti infraprecisati, è preclusa la
possibilità di svolgere attività extralavorative.
La ratio
di tale divieto, che permane anche in un sistema
“depubblicizzato” a rimarcare la peculiarità dell’impiego
presso la p.a., va rinvenuta nel principio costituzionale di
esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore
pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo
della Nazione” art. 98 cost.), per preservare le energie del
lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che
risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri
dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un
nesso tra lavoro, rischio e profitto.
Centri di interesse
alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti
un’attività caratterizzata da intensità, continuità e
professionalità, potrebbero turbare la regolarità del
servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico
e il prestigio della p.a..
Tuttavia, nell’impiego pubblico il divieto di espletare
incarichi extraistituzionali non è così assoluto. Difatti,
il regime vigente, codificato dall’art. 53 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165, pur individuando, al primo comma,
situazioni di incompatibilità assoluta (sancite dagli artt.
60 e seguenti del d.P.R. 10.01.1957, n. 3 per lo
svolgimento di attività imprenditoriali, agricole,
commerciali, libero-professionali, ed altri lavori pubblici
o privati, il cui espletamento porta alla decadenza
dall’impiego previa diffida, prevede anche, al comma 7 del cennato art. 53, attività occasionali espletabili dal
dipendente pubblico previa autorizzazione datoriale ed anche
attività “liberalizzate”, ovvero liberamente esercitabili
senza previa autorizzazione, in quanto espressive di
basilari libertà costituzionali (art. 53, co. 6, d.lgs. n.
165 cit.).
---------------
Nel caso di attività extra
espletabili (ergo non vietate in assoluto) per la loro occasionalità e “non professionalità”,
ma previa autorizzazione datoriale,
tale autorizzazione è ragionevolmente prescritta dall’art.
53, co. 7, al fine di verificare in concreto:
a) se l’espletamento dell’incarico possa ingenerare, anche in via solo ipotetica o
potenziale, situazione di conflittualità con gli interessi
facenti capo all’amministrazione e, quindi, con le funzioni
(ad essi strumentali) assegnate sia al singolo dipendente
che alla struttura di appartenenza;
b) la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di
lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza (che
dovrà comunque non solo essere svolto fuori dall’orario di
lavoro, ma pure compatibilmente con le esigenze di
servizio), nonché con le mansioni e posizioni di
responsabilità attribuite al dipendente, interpellando
eventualmente a tal fine il responsabile dell’ufficio di
appartenenza, che dovrà esprimere il proprio parere o
assenso circa la concessione dell’autorizzazione richiesta;
c) la occasionalità o saltuarietà, ovvero non prevalenza
della prestazione sull’impegno derivante dall’orario di
lavoro ovvero l’impegno complessivo previsto dallo specifico
rapporto di lavoro, con riferimento ad un periodo
determinato;
d) la materiale compatibilità dello specifico incarico con
il rapporto di impiego, tenuto conto del fatto che taluni
incarichi retribuiti sono caratterizzati da una particolare
intensità di impegno;
e) specificità attinenti alla posizione del dipendente
stesso (incarichi già autorizzati in precedenza, assenza di
procedimenti disciplinari recenti o note di demerito in
relazione all’insufficiente rendimento, livello culturale e
professionale del dipendente);
f) corrispondenza fra il livello di professionalità
posseduto dal dipendente e la natura dell’incarico esterno a
lui affidato.
Questo generale regime autorizzatorio
ha una evidente e condivisibile ratio sia
civilistica-lavoristica che pubblicistica: consentire al
datore di valutare la compatibilità di tale attività
extralavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in
modo terzo ed imparziale, della prestazione contrattualmente
dovuta dal lavoratore alla P.A., in ossequio anche al
principio costituzionale di tendenziale esclusività (98
cost.) e di buon andamento ed imparzialità dell’azione
amministrativa (art. 97 cost.).
Tali considerazioni escludono profili di possibile
incostituzionalità ex artt. 97 e 98 cost., essendo
indefettibile sia la richiesta di autorizzazione, sia la
ragionevole discrezionalità del dirigente nel concederla
alla stregua dei suddetti parametri. Il non richiederla
comporta dunque ragionevoli sanzioni, disciplinari e
pecuniarie, tese a tutelare proprio i sunteggiati principi
costituzionali.
Tale regime pubblicistico di esclusività
opera anche per il personale in
part-time. Difatti, le liberalizzazioni negli incarichi
esterni per il personale in part-time (ma solo per quello al
50% della prestazione lavoristica) si sono avute solo con la
successiva legge 23.12.1996, n. 662, il cui articolo
1, co. 56, statuisce che “le disposizioni di cui all'articolo
58, comma 1, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29
(oggi art. 53, c. 1, d.lgs. n. 165 N.D.R.), e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di
legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi
professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con
prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di
quella a tempo pieno”.
L’inosservanza di tale basilare precetto sulla previa
doverosa autorizzazione comporta dunque per tutti i
dipendenti, compresi quelli in part-time, sia sanzioni
disciplinari che la sanzione pecuniaria oggetto del
contendere in questa sede. Recita infatti l’art. 53, co. 7,
d.lgs. n. 165 che “il compenso dovuto per le prestazioni
eventualmente svolte deve essere versato, a cura
dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto
dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi
equivalenti”.
Soggiunge il novello comma 7-bis del d.lgs. n. 165
(introdotto dalla l. n. 190 del 2012) che “L'omissione del
versamento del compenso da parte del dipendente pubblico
indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità
erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”:
trattasi di norma, quest’ultima, non innovativa, ma
meramente ricognitiva di un pregresso prevalente indirizzo
tendente a radicare in
capo alla Corte dei Conti la giurisdizione in materia nel
termine prescrizionale quinquennale, escludendo quella del
giudice ordinario propugnata da un minoritario indirizzo
giurisprudenziale sulla base di una qualificazione della pretesa in
chiave civilistica-lavoristica.
Si tratta invero di una ipotesi di responsabilità tipica, in
cui la sanzione (integrale riversamento di quanto percepito contra legem) è predeterminata per legge, ma la stessa
soggiace comunque agli altri presupposti del giudizio di
responsabilità erariale (in primis elemento soggettivo)
nonché alla limitazione derivante dalla prescrizione
quinquennale.
---------------
1. La fattispecie al vaglio della
Sezione, già oggetto di sentenze 25.11.2014 n. 216 e
30.12.2014 n. 233 di questa Corte, attiene alla
pretesa risarcitoria avanzata dalla Procura Regionale nei
confronti di una dipendente pubblica che, nell’arco
temporale 2003-2007, ha svolto attività retribuita presso
terzi senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 53, co. 7,
d.lgs. n. 165 del 2001.
La norma, nel testo vigente anteriormente all’entrata in
vigore dell’art. 1, comma 42, della legge 190 del 2012 (c.d.
legge anticorruzione) avvenuta il 28.11.2012,
disponeva: “I dipendenti pubblici non possono svolgere
incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o
previamente autorizzati dall'amministrazione di
appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a
tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei
disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio
dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto.
In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi
sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il
compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve
essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del
percettore, nel conto dell'entrata del bilancio
dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per
essere destinato ad incremento del fondo di produttività o
di fondi equivalenti”.
Con l’entrata in vigore della legge anticorruzione il primo
inciso è stato completato dalla previsione: “Ai fini
dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica
l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di
conflitto di interessi”.
2. Giova premettere, sul piano sistematico, che, come già
rimarcato in sentenza n. 216 del 2014 della Sezione,
il
rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente
caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d.
regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente
pubblico, nei limiti infraprecisati, è preclusa la
possibilità di svolgere attività extralavorative.
La ratio
di tale divieto, che permane anche in un sistema
“depubblicizzato” a rimarcare la peculiarità dell’impiego
presso la p.a., va rinvenuta nel principio costituzionale di
esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore
pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo
della Nazione” art. 98 cost.), per preservare le energie del
lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che
risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri
dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un
nesso tra lavoro, rischio e profitto.
Centri di interesse
alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti
un’attività caratterizzata da intensità, continuità e
professionalità, potrebbero turbare la regolarità del
servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico
e il prestigio della p.a..
Un simile obbligo di esclusività non è rinvenibile
nell’impiego privato, nel quale il codice civile si limita a
vietare esclusivamente attività extralavorative del
dipendente che si pongano in concorrenza con l’attività del
datore (art. 2105 c.c.).
Tuttavia, nell’impiego pubblico il divieto di espletare
incarichi extraistituzionali non è così assoluto. Difatti,
il regime vigente, codificato dall’art. 53 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165, pur individuando, al primo comma,
situazioni di incompatibilità assoluta (sancite dagli artt.
60 e seguenti del d.P.R. 10.01.1957, n. 3 per lo
svolgimento di attività imprenditoriali, agricole,
commerciali, libero-professionali, ed altri lavori pubblici
o privati: su tale ipotesi da ultimo C. conti, sez. Sicilia,
24.07.2014 n. 927), il cui espletamento porta alla decadenza
dall’impiego previa diffida, prevede anche, al comma 7 del cennato art. 53, attività occasionali espletabili dal
dipendente pubblico previa autorizzazione datoriale ed anche
attività “liberalizzate”, ovvero liberamente esercitabili
senza previa autorizzazione, in quanto espressive di
basilari libertà costituzionali (art. 53, co. 6, d.lgs. n.
165 cit.).
Nel caso in esame non si verte né nella prima ipotesi
(attività assolutamente vietate ex art. 53, co. 1, d.lgs. n.
165), stante la saltuarietà e non professionalità dei lavori
svolti dalla convenuta, né nella terza (attività
liberalizzate ex art. 53, co. 6), non rientrando le attività
svolte dalla convenuta nel numerus clasusus di quelle che
non richiedono autorizzazione.
Pertanto, nella specie, la condotta della M. rientra
pacificamente nella seconda tipologia, ovvero tra quelle
espletabili (ergo non vietate in assoluto) per la loro occasionalità e “non professionalità”, ma previa
autorizzazione datoriale.
Tale autorizzazione è ragionevolmente prescritta dall’art.
53, co. 7, al fine di verificare in concreto:
a) se l’espletamento dell’incarico, già prima della legge n.
190 del 2012 (e del d.P.R. n. 62 del 2013, che esaltano
l’antico e già preesistente problema dei conflitti di
interesse) possa ingenerare, anche in via solo ipotetica o
potenziale, situazione di conflittualità con gli interessi
facenti capo all’amministrazione e, quindi, con le funzioni
(ad essi strumentali) assegnate sia al singolo dipendente
che alla struttura di appartenenza (problema particolarmente
delicato nel comparto Sanità);
b) la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di
lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza (che
dovrà comunque non solo essere svolto fuori dall’orario di
lavoro, ma pure compatibilmente con le esigenze di
servizio), nonché con le mansioni e posizioni di
responsabilità attribuite al dipendente, interpellando
eventualmente a tal fine il responsabile dell’ufficio di
appartenenza, che dovrà esprimere il proprio parere o
assenso circa la concessione dell’autorizzazione richiesta;
c) la occasionalità o saltuarietà, ovvero non prevalenza
della prestazione sull’impegno derivante dall’orario di
lavoro ovvero l’impegno complessivo previsto dallo specifico
rapporto di lavoro, con riferimento ad un periodo
determinato;
d) la materiale compatibilità dello specifico incarico con
il rapporto di impiego, tenuto conto del fatto che taluni
incarichi retribuiti sono caratterizzati da una particolare
intensità di impegno;
e) specificità attinenti alla posizione del dipendente
stesso (incarichi già autorizzati in precedenza, assenza di
procedimenti disciplinari recenti o note di demerito in
relazione all’insufficiente rendimento, livello culturale e
professionale del dipendente);
f) corrispondenza fra il livello di professionalità
posseduto dal dipendente e la natura dell’incarico esterno a
lui affidato.
Questo generale regime autorizzatorio, a cui sottostanno
anche le categorie di pubblici dipendenti non privatizzati
(magistrati, militari, polizia, diplomatici, prefetti etc.),
ha una evidente e condivisibile ratio sia
civilistica-lavoristica che pubblicistica: consentire al
datore di valutare la compatibilità di tale attività
extralavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in
modo terzo ed imparziale, della prestazione contrattualmente
dovuta dal lavoratore alla P.A., in ossequio anche al
principio costituzionale di tendenziale esclusività (98
cost.) e di buon andamento ed imparzialità dell’azione
amministrativa (art. 97 cost.).
Tali considerazioni escludono profili di possibile
incostituzionalità ex artt. 97 e 98 cost., essendo
indefettibile sia la richiesta di autorizzazione, sia la
ragionevole discrezionalità del dirigente nel concederla
alla stregua dei suddetti parametri. Il non richiederla
comporta dunque ragionevoli sanzioni, disciplinari e
pecuniarie, tese a tutelare proprio i sunteggiati principi
costituzionali.
Tale regime pubblicistico di esclusività, osserva
incidentalmente il Collegio, opera anche per il personale in
part-time. Difatti, le liberalizzazioni negli incarichi
esterni per il personale in part-time (ma solo per quello al
50% della prestazione lavoristica) si sono avute solo con la
successiva legge 23.12.1996, n. 662, il cui articolo
1, co. 56, statuisce che “le disposizioni di cui all'articolo
58, comma 1, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29
(oggi art. 53, ci. 1, d.lgs. n. 165 N.D.R.), e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di
legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi
professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con
prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di
quella a tempo pieno”.
L’inosservanza di tale basilare precetto sulla previa
doverosa autorizzazione comporta dunque per tutti i
dipendenti, compresi quelli in part-time, sia sanzioni
disciplinari che la sanzione pecuniaria oggetto del
contendere in questa sede. Recita infatti l’art. 53, co. 7,
d.lgs. n. 165 che “il compenso dovuto per le prestazioni
eventualmente svolte deve essere versato, a cura
dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto
dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi
equivalenti”.
Soggiunge il novello comma 7-bis del d.lgs. n. 165
(introdotto dalla l. n. 190 del 2012) che “L'omissione del
versamento del compenso da parte del dipendente pubblico
indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità
erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”:
trattasi di norma, quest’ultima, non innovativa, ma
meramente ricognitiva di un pregresso prevalente indirizzo
(Cass., sez. un., 02.11.2011 n. 22688) tendente a radicare in
capo alla Corte dei Conti la giurisdizione in materia nel
termine prescrizionale quinquennale, escludendo quella del
giudice ordinario propugnata da un minoritario indirizzo
giurisprudenziale (C. conti, Sez. Lombardia, 27.01.2012 n.
31, riformata in appello da C conti, Sez. I, 13.03.2014 n.
406) sulla base di una qualificazione della pretesa in
chiave civilistica-lavoristica.
Si tratta invero di una ipotesi di responsabilità tipica, in
cui la sanzione (integrale riversamento di quanto percepito
contra legem) è predeterminata per legge, ma la stessa
soggiace comunque agli altri presupposti del giudizio di
responsabilità erariale (in primis elemento soggettivo)
nonché alla limitazione derivante dalla prescrizione
quinquennale. Tale ultima affermazione è in linea con
precedenti di questa Corte (Sez. Toscana, 08.09.2014 n. 159;
Sez. Calabria 10.05.2013 n. 161; Sez. I, 13.03.2014 n. 406).
3. Tale conclusione, come già statuito dalla Sezione con
sentenza n. 216 del 2014, porta ad escludere qualsiasi
profilo di difetto di giurisdizione: difatti, quale che sia
la sua portata temporale, il novello comma 7-bis del d.lgs.
n. 165 introdotto dalla l. n. 190 del 2012 è meramente
ricognitivo ed esplicativo della pregressa giurisdizione
contabile in materia, già desumibile dai principi generali e
statuita dalla giurisprudenza, per cui la fattispecie sub iudice è ben giudicabile da questa Corte.
4. Ciò chiarito sul piano sistematico, e ribadita la
giurisdizione di questa Corte, va sviluppata qualche
ulteriore preliminare considerazione rispetto al merito.
E’ incontestato che la sig.ra M., per sua stessa
ammissione, non abbia mai richiesto al datore alcuna
autorizzazione a fronte del pluriennale espletamento di
occasionali attività extralavorative.
Come già segnalato in sentenza n. 216 del 2014 della
Sezione, la previsione normativa alla base della pretesa
della Procura, ad avviso del Collegio (che non condivide la
rimessione alla Consulta operata da TAR Puglia, Sezione di
Lecce in data 30.05.2013), non appare in primo luogo in
contrasto con nessun parametro costituzionale: non certo con
l’art. 36 cost., cui fa riferimento il Tar Puglia, in quanto
l’art. 53, co. 7, nell’imporre la refusione di quanto
introitato contra legem, non viola affatto il precetto
secondo cui «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ....»,
ma regola legittimamente il prevalente buon funzionamento
dell’azione pubblica e del leale ed imparziale rapporto tra
datore pubblico e suoi dipendenti, in ossequio
all’esclusività tendenziale sancita dall’art. 98 cost..
Né la
norma urta con l’art. 97 cost., come parimenti adombrato dal
Tar Puglia, in quanto, al contrario, ne esalta e concretizza
la portata, regolando e sanzionando un profilo lavoristico
dell’impiego pubblico proprio in vista del buon andamento e
della imparzialità dell’azione pubblica. In buona sostanza,
l’aggiunta di una sanzione amministrativa a quella
disciplinare rafforza la finalità sottesa all’art. 53, co. 7,
ed all’art. 98 cost., ovvero prevenire e reprimere condotte
che possono porsi in contrasto con il buon andamento e
l’imparzialità della p.a. e dei suoi funzionari.
Pertanto la questione, pur se rilevante, si ritiene
manifestamente infondata. Il presente giudizio non va dunque
sospeso in attesa del pronunciamento della Corte
costituzionale sul punto.
Né vengono lesi con tale norma (art. 53, co. 7 cit.) altri
principi stabiliti dalla Convenzione Europea: non vi è
alcuna “ingiustificata ingerenza dell’autorità pubblica nel
godimento del diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU)”, ma una mera regolamentazione di esercizio di alcuni
profili della prestazione lavoristica con la PA per
preservarne l’integrità ed indipendenza nello svolgere
attività in possibile contrasto; non vi è lesione alcuna del
“rispetto del principio di legalità (art. 7 CEDU)”, essendo
la sanzione amministrativa de qua rispettosa del principio
nella sua formulazione ex lege; non vi è infine alcuna
“arbitrarietà dell’ingerenza dello Stato e giusto equilibrio
tra gli interessi generali e la salvaguardia dei diritti
dell’individuo (artt. 6 – 8 e 14 CEDU)”, essendo ben
ragionevole l’intervento legislativo statale nel bilanciare
l’interesse pubblico al buon funzionamento e
all’imparzialità della PA con le pretese del lavoratore ad
agire in contesti extralavorativi.
L’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165 introduce dunque una sanzione
amministrativa (tra l’altro rispondente ai doverosi canoni
di riserva di legge, (tipicità, tassatività, offensività),
rafforzativa di quella disciplinare ed avente una
ragionevole ratio preventiva e dissuasiva.
5. Venendo alle componenti strutturali dell’illecito
amministrativo in esame, evidenti, riconosciuti ed
incontestati appaiono la condotta ed il danno ex lege
determinato dalla convenuta. Parimenti sussistente è la
colpa grave della M. a fronte del chiaro precetto
normativo, un tempo contenuto nell’art. 58 del d.lgs. n. 29
del 1993 e poi nell’art. 53, co. 1, d.lgs. n. 165 del 2001.
La limpida formulazione, unita al noto principio ignorantia
legis non excusat (nella specie l’ignoranza è
ingiustificabile per la chiarezza testuale), rende non
ipotizzabile una buona fede della convenuta (per mancata
divulgazione dei precetti in materia da parte del datore di
lavoro, opportuna ma non certo doverosa).
Né assume rilievo
la eccellente resa della prestazione di lavoro presso
l’Azienda San Gerardo della M. nel periodo di
espletamento, in orari extralavorativi, di altre attività,
in quanto tale circostanza non ha alcun valore ai fini della
previa autorizzazione datoriale, la cui ratio, come sopra
rimarcato, non attiene solo alla valutazione (ex ante e non
certo ex post come implicitamente vorrebbe la difesa) sulla
fisica compatibilità tra attività lavorativa e
extralavorativa, ma anche alla sussistenza di conflitti,
anche potenziali, di interesse (che nel comparto Sanità
vanno valutati con particolare rigore).
6. Venendo dunque al danno ed alla sua quantificazione, va
preliminarmente individuata la pretesa risarcitoria
azionata, essendo stata eccepita la prescrizione
quinquennale dalla difesa della convenuta, secondo la quale,
a fronte delle date degli introiti (2003-2007), il primo
atto con cui è stata reclamata dall’amministrazione la
refusione degli stessi risale all’11.02.2013.
Tuttavia, nella specie è da ritenere inapplicabile la regola
della decorrenza della prescrizione dalla scoperta del fatto
in caso di doloso occultamento (art. 1, co. 2, l. n. 20 del
1994), in quanto, come statuito da questa Corte “Il doloso
occultamento non coincide con la commissione dolosa del
fatto dannoso ma richiede un’ulteriore condotta indirizzata
a impedire la conoscenza del fatto e che, comunque, perché
di occultamento doloso si possa parlare, occorre un
comportamento che, pur se può comprendere la causazione del
fatto dannoso, deve tuttavia includere atti specificamente
volti a prevenire il disvelamento di un danno ancora in
fieri oppure a nascondere un danno ormai prodotto” “un
comportamento volto al raggiro, callido, teso con atti
commissivi al nascondimento, di cui deve lasciar baluginare
l’intenzionalità” (Sez. III, 20.12.2012 n. 830).
Come
già statuito con la già citata sentenza n. 216 del 2014,
perché di occultamento doloso si possa parlare, occorre un
comportamento che, pur se può comprendere la causazione del
fatto dannoso, deve tuttavia includere atti specificamente
volti a prevenire il disvelamento di un danno ancora in
fieri oppure a nascondere un danno ormai prodotto (Sez.
Liguria, 02.07.2014 n. 85; Sez. Lombardia, 29.01.2014 n. 23; Sez. III n. 830/2012; Sez. I n. 85/2012; Sez.
Sicilia n. 1/2012; Sez. II n. 27/2009; Sez. III n. 32/2002;
Sez. I, n. 40/2009; Sez. III n. 474 del 2006, Sez. Liguria
11.06.2009, n. 287; Sez. Veneto, 07.07.2005, n. 992; Sez.
Lombardia, 12.12.2005, n. 728).
In sintesi, l’occultamento
doloso del danno non può considerarsi provato dal solo
silenzio serbato dal dipendente sulle attività
extralavorative prestate.
Nella specie è invece applicabile la regola della decorrenza
della prescrizione da quando il fatto dannoso diviene
conoscibile secondo ordinari criteri di diligenza (c.d.
conoscibilità obiettiva). In altre parole, pur non
vertendosi in materia di doloso occultamento del danno da
parte della convenuta, non riscontrandosi condotte maliziose
tese a celare i proventi aliunde percepiti, appare ben
evidente, alla luce del basilare parametro dell’art. 2935
c.c., alla cui stregua va letto l’art. 1, co. 2, della legge
14.01.1994 n. 20 (“il diritto al risarcimento del danno si
prescrive in ogni caso in 5 anni decorrenti dalla data in
cui è stata realizzata la condotta produttiva del danno“),
che la percepibilità, intesa come “conoscibilità obiettiva”
(e non certo soggettiva, ancorata cioè a possibili indolenti
riscontri subiettivi tardivi) del danno erariale arrecato
dalla convenuta da parte dell’amministrazione danneggiata,
va individuata nella data dell’ispezione svolta dalla
Guardia di Finanza nel 2012.
Nella specie, a fronte del non palesato (in quanto non
autorizzato) espletamento di dette prestazioni
extralavorative da parte della M. non risulta
provata una pregressa conoscenza da parte del datore di
lavoro (come avvenuto invece in analoga fattispecie vagliata
da questa Sezione con sentenza 216/214) prima della formale
messa in mora aziendale inoltrata con nota informativa
11.02.2013 prot. 2662, inviata alla convenuta sulla base
della comunicazione 17.12.2012 n. 2276 alla Azienda San
Gerardo degli esiti della suddetta verifica ispettiva della
Guardia di Finanza 05.11.2012 n. 156592/12, momento della
“conoscibilità” del fatto dannoso.
E’ incontestato dunque che le prestazioni extralavorative
della convenuta si siano svolte in un arco temporale dal
2003 al 2007 e chi siano state rese conoscibili solo nel
2012: l’azione della Procura è dunque tempestiva.
Ciò chiarito, l’importo introitato contra legem dalla
convenuta, e che andava riversato all’amministrazione ex
art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165, va dunque determinato in euro
37.542,20 lordi indicati dalla Procura a seguiti di
analitici conteggi della Guardia di Finanza agli atti.
Circa il suo computo al netto o al lordo della tassazione,
ritiene il Collegio, in consapevole contrasto con minoritari
indirizzi di questa Corte (Sez. Campania n. 14 del 14.01.2010; Sez. Liguria n. 50 del 29.03.2013; Sez.
Puglia n. 1558 del 27.11.2013), e in sintonia con un
prevalente e più ragionevole indirizzo giurisprudenziale (v.
Cons. Stato, Sez. III, 04.07.2011 n. 3984; Cons. Stato,
Sez. VI, 02.03.2009 n. 1164; TAR Lombardia, Sez. IV, 07.03.2013 n. 614; C. conti, Sez. III, 27.03.2014 n. 167, e
n. 273 del 06.05.2014; Sez. Toscana, 08.09.2014 n. 159;
Sez. Lazio n. 897 del 16.12.2013; Sez. Lombardia 25.11.2014 n. 216 e 30.12.2014 n. 233), che
l'interpretazione dell'art. 53, co. 7, d.lgs. 165/2001 deve
essere nel senso che la somma da recuperare è quella al
netto delle imposte già corrisposte dalla convenuta a titolo
di ritenuta d’acconto, ovvero l’importo effettivamente
entrato nella sfera patrimoniale del dipendente. Pertanto,
dall’importo lordo di Euro 37.542,20 reclamato dalla
Procura, va detratta la ritenuta d’acconto del venti per
cento già operata dall’erogatore, come rettamente richiesto
dalla difesa, con conseguente riduzione ad euro 30.033,76
netti l’importo dovuto al datore.
Tale importo non può essere ulteriormente ridotto, a seguito
della tassazione sul reddito imponibile, non risultando
depositate le dichiarazioni dei redditi della convenuta tese
ad evidenziare tasse ulteriori eventualmente pagate dalla
convenuta nel periodo 2003-207 a seguito degli introiti
extralavorativi de quibus.
In ogni caso la convenuta, ove ritenga, sulla base di questa
sentenza dagli effetti restitutori, di aver versato al
Fisco, per gli anni tributari pertinenti, somme in più, in
quanto derivanti da redditi da lavori extra poi versati al
proprio datore ex art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165, potrà
reclamarne la refusione nelle pertinenti sedi tributarie.
Peraltro, tenuto conto dell’ineccepibile curriculum
professionale, del suo leale riconoscimento della condotta
contra legem, della qualifica non apicale della M.,
che può comportare una non adeguata conoscenza della
applicazione concreta del regime delle incompatibilità (sul
quale la Azienda sanitaria non ha inopportunamente svolto
attività formativa/divulgativa), l’importo può
equitativamente essere ridotto, nell’esercizio ragionevole
del potere riduttivo dell’addebito, ad euro 22.500,00, ad
oggi già rivalutati, oltre interessi legali dal deposito
della sentenza al saldo effettivo.
Alla refusione del predetto danno all’Azienda Ospedaliera
“Ospedale di San Gerardo” di Monza va dunque condanna la
convenuta.
La convenuta va altresì condannata al pagamento delle spese
di giudizio, liquidate come da dispositivo (Corte dei Conti,
Sez. giursdiz. Lombardia,
sentenza
16.04.2015 n. 54). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
La regola secondo cui i debiti per incarichi a legali
esterni, ove maggiori rispetto a quelli contabilizzati senza
una causa di oggettiva imprevedibilità, con una non
ingiustificata “irrisorietà” o “non congruità” dell’importo
contabilizzato, devono essere riconosciuti attraverso la
procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio deve
essere confermata anche nel mutato quadro normativo, per
effetto dell’entrata in vigore, dal 01.01.2015, della
nuova contabilità pubblica (Dlgs. n. 118/2011).
Nel caso di impegni per incarichi a legali esterni risalenti
ad annualità anteriori al 2015, per cui la prestazione per
il corrispettivo non sia ancora esigibile, il residuo va
riaccertato ai sensi dell’articolo 3, comma 4, del D.lgs.
n. 118/2011 per addivenire alla ricollocazione temporale
dello stesso secondo il principio della competenza
finanziaria rafforzata: infatti, «se l’obbligazione non è
esigibile, si provvede alla cancellazione dell’impegno ed
alla sua immediata re-imputazione all’esercizio in cui si
prevede che sarà esigibile, anche sulla base delle
indicazioni presenti nel contratto di incarico al legale».
---------------
In pratica, a partire dal 2015, ove l’impegno sia stato in
origine sottostimato, per cause oggettive, in sede di
bilancio preventivo, annualmente, deve essere adeguato
l’’importo stanziato, di modo che vi siano risorse
sufficienti per l’impegno ed il pagamento del corrispettivo,
consentendo al Consiglio di controllare costantemente
l’evolversi della spesa a fronte di fatti nuovi e
imprevedibili.
Ove peraltro emergesse una non congruità dell’impegno
originario imputabile a circostanze soggettive, imputabili
al professionista o al funzionario che ha consentito alla
spesa, la maggior somma dovrà invece essere oggetto della
procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio ai
sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), nei limiti del
valutato “arricchimento” per l’ente.
Altrimenti opinando, infatti, il funzionario che ha operato
in modo incauto o non diligente potrebbe facilmente
sottrarsi alla responsabilità diretta (art. 191, comma 4,
TUEL) e al filtro valutativo che la legge prevede che il
Consiglio eserciti in sede di riconoscimento del debito per
prestazioni per beni e servizi, a garanzia della propria
competenza autorizzativa delle spesa.
---------------
Con la nota richiamata in epigrafe il Sindaco di Santa Maria La
Carità (NA) ha chiesto alla Sezione un parere in ordine alla
corretta procedura per l’imputazione in bilancio dei
maggiori oneri per parcelle professionali presentate a
conclusione di un giudizio da parte degli avvocati
incaricati della difesa tecnica del Comune.
L’Ente fa l’ipotesi di un impegno a suo tempo assunto in
bilancio all’atto del conferimento dell’incarico in una
misura “irrisoria”, «senza pattuire condizioni e modalità di
espletamento dell'incarico e senza indicare i criteri di
determinazione della parcella da presentare a saldo, a
conclusione del giudizio».
Chiede pertanto di sapere, nel caso in cui «la parcella
presentata dal professionista incaricato, a conclusione del
giudizio, si [discostasse] significativamente dall'impegno
iniziale assunto» quale sia la procedura corretta da seguire
tra:
«a) attivazione del procedimento per il riconoscimento del
debito fuori bilancio ai sensi dell'art. 194, comma 1, lett.
e), del T.U.E.L 18.08.2000, n. 267, per provvedere al
pagamento della quota della spesa eccedente l'impegno
assunto al momento del conferimento dell'incarico, "nei
limiti degli accertati e dimostrali utilità e arricchimento
per l'ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza";
b) la semplice integrazione dell'impegno assunto per la
quota di spesa eccedente».
Il Comune soggiunge un ulteriore quesito, subordinato al
primo sopra esposto. Segnatamente, nel caso in cui si
ritenesse corretto procedere nel senso del riconoscimento
del debito fuori bilancio (ipotesi sub. a), «chiede di
conoscere come debba essere determinato il requisito
dell'arricchimento. In particolare, si chiede di conoscere
se l'arricchimento deve essere stabilito secondo i valori
minimi dei nuovi parametri professionali approvati con D.M.
n. 55/2014 e se, dunque, qualora la parcella presentata dal
professionista (tenuto conto dell'esito positivo del
giudizio, del numero delle udienze, del valore della causa
prossimo al limite massimo dello scaglione) superi tali
valori minimi, il Comune sia legittimato a rideterminarla
d'ufficio secondo i minimi tariffari senza correre il
rischio di essere citato in giudizio dal professionista ed
essere condannato al pagamento della parcella così come
dallo stesso redatta con l'ulteriore aggravio della
rifusione delle spese legali».
...
1. Il thema quaestionandi riguarda la corretta procedura
contabile da seguire nel caso in cui emerga un debito per
parcelle professionali emesse da legali a conclusione di un
giudizio, in misura superiore al quantum a suo tempo
impegnato al momento del conferimento dell’incarico, impegno
poi confluito tra i residui del bilancio dell’ente locale.
In particolare si chiede di sapere se, in tal caso, la
maggiore prestazione, debba ritenersi un debito
contabilmente nuovo, da impegnarsi, per competenza,
nell’esercizio finanziario di presentazione della parcella
sul pertinente capitolo di bilancio, nei limiti dello
stanziamento (con la procedura ordinaria di cui all’art. 191
TUEL), ovvero debba ritenersi lo stesso un debito per
competenza riferibile all’esercizio in cui è stato conferito
l’incarico che, pertanto, non può che essere riconosciuto
con l’eccezionale procedura dei debiti fuori bilancio (ex
art. 194 TUEL, sub specie di debito per prestazioni e
servizi ai sensi della lett. e).
Il tema è stato abbondantemente esaminato dalla
giurisprudenza contabile (cfr., ex plurimis, SCRC Emilia
Romagna
parere 25.07.2013 n.
256 e 311/2012/PAR nonché SRC Campania
nn. 261/2014/PAR, 241/2014/PRSP e 35/2014/PRSP) nel
precedente sistema di contabilità basato sul principio della
competenza finanziaria “semplice”, prima dell’entrata in
vigore, per tutti gli enti locali, del D.lgs. n. 118/2011,
a partire dal 01.01.2015. Tale giurisprudenza,
peraltro, per i principi che esprime rimane per gran parte
attuale, salvo le precisazioni che seguono.
2. Secondo tale pregressa giurisprudenza, i debiti per
prestazioni professionali devono essere imputati
nell’esercizio in cui è stato conferito l’incarico legale,
nel rispetto del principio di prudenza e di sana gestione
finanziaria, in una misura pari ad una stima, la più precisa
possibile, del costo finale della prestazione. Ciò in
aderenza al principio contabile n. 2, cpv. 108, del Testo
approvato dall’Osservatorio del Ministero dell’Interno il 12.03.2008, ai sensi del quale «l’ente deve determinare
compiutamente, anche in fasi successive temporalmente,
l’ammontare del compenso (esempio gli incarichi per
assistenza legale) al fine di evitare la maturazione di
oneri a carico del bilancio non coperti dall’impegno di
spesa inizialmente assunto. Il regolamento di contabilità
dell’ente potrà disciplinare l’assunzione di ulteriore
impegno, per spese eccedenti l’impegno originario, dovute a
cause sopravvenute ed imprevedibili».
L’obbligo di procurarsi un congruo preventivo del
corrispettivo, oltre a gravare sulla pubblica
amministrazione e discendere da principi di sana gestione
contabile, è oggi un espresso obbligo gravante sullo stesso
professionista per effetto delle innovative disposizioni di
cui all’art. 9 del D.L. n. 1/2012 conv. L. n. 27/2012. Tale
norma ha abrogato le tariffe professionali e ha stabilito
che «Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito
al momento del conferimento dell'incarico professionale. Il
professionista deve rendere noto al cliente il grado di
complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni
utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del
conferimento alla conclusione dell'incarico […]».
Detto in altri termini, l’ente, da un lato, è tenuto in sede
di incarico a concordare nel titolo il corrispettivo
affinché il suo ammontare risulti definito o, quantomeno,
sufficientemente determinabile, di modo che, a scadenza, la
liquidazione dell’onorario e della spesa trovi preventiva e
sufficiente provvista nella contabilità dell’ente, evitando
la formazione di debiti fuori bilancio.
Nel vecchio sistema contabile, in base al principio della
competenza finanziaria “semplice”, tale stima preventiva si
traduceva, di norma, nell’impegno nell’anno d’incarico e
nella traslazione di tale impegno in conto residui negli
anni successivi.
Diversamente la sottostima del compenso, la mancanza
assoluta di stima o la sua contabilizzazione per importi
irrisori non poteva che comportare e comporta la formazione
di un debito extra-bilancio.
Infatti, in caso di stima mancante in assoluto o
oggettivamente inadeguata in relazione alle caratteristiche
della causa (mediante l’impegno di una somma “irrisoria” o
comunque ingiustificatamente incongrua), l’unica via
perseguibile per la riconduzione del debito al bilancio
dell’ente è quella del ricorso alla procedura del
riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell’art.
194, comma 1, lett. e) (sussistendo il debito, in
alternativa, direttamente in capo al funzionario che ha
consentito la prestazione, ex art. 191, comma 4, TUEL).
In tale ipotesi, infatti, sarebbero state violate le norme
contabili che presidiano la corretta imputazione in bilancio
della spesa; il titolo e la fattispecie generativa
dell’obbligazione, inoltre, riguarderebbero integralmente un
esercizio precedente nel quale l’ammontare della spesa non è
stato correttamente rilevato.
In definitiva, l'adozione di una formale deliberazione di
riconoscimento consente la verifica sull'utilità del
patrocinio, nonché di attivare il controllo in relazione a
possibili profili di responsabilità erariale, stante
l'obbligo di trasmissione delle deliberazioni di
riconoscimento dei debiti fuori bilancio alla competente
Procura presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei
conti (art. 23 della Legge n. 289/2002).
Infatti, come è noto, il procedimento di riconoscimento dei
debiti fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare
un’obbligazione giuridicamente perfezionata all’interno
della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo il debito
insorto con la volontà amministrativa (SRC Lombardia
parere 22.07.2013 n. 339 e n. 482/2013/PAR).
Il procedimento mira, da un
lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità
del titolo (verificando, in primo luogo, la sussunzione in
una delle fattispecie tipizzate dall’art. 194 TUEL) e,
dall’altro, a reperire modalità di copertura finanziaria
(indicate sempre nell’art. 194 TUEL).
Si ricorda poi come la giurisprudenza contabile (SRC
Lombardia n. 65/2013 e n. 436/2013, SCR Liguria n. 122/2010
e n. 56/2011) abbia costantemente ritenuto eccezionale la
disciplina dell’art. 194 TUEL, salva l’interpretazione
estensiva delle ipotesi ivi considerate quando funzionale al
non aggravamento della situazione debitoria dell’ente (ad
esempio in tema di provvedimenti giurisdizionali
legittimanti il riconoscimento, cfr. SRC Campania n.
42/2014/PRSP).
Per altro verso, eccezionalmente, la giurisprudenza ha
talvolta ammesso che eventuali maggiori oneri
successivamente liquidati, esclusivamente per fatti
sopravvenuti ed imprevedibili, quali lo sviluppo del
processo in termini di maggiore tempo e complessità
procedimentale causata dalla peculiarità della causa,
avrebbero potuto essere impegnati per competenza
nell’esercizio di manifestazione degli stessi, secondo
l’ordinaria procedura di spesa (art. 191 TUEL), integrando
l’originario impegno a residuo, con un nuovo impegno nel
pertinente capitolo di spesa (cfr. Sez. Lombardia,
deliberazioni nn. 19/2009/PAR e 441/2012/PAR; SRC Campania
n. 9/2007/PAR; SRC Sardegna deliberazione n. 2/2007/PAR).
La ratio di tale orientamento, da un lato, è che l’ente,
ricorrendo tali eccezionali presupposti (fatti sopravvenuti
ed imprevedibili) non avrebbe violato le norme che
presidiano la procedura di spesa e, per altro verso, il
titolo giuridico alla base del residuo originario rimarrebbe
immutato e non coinciderebbe con la “causa” del nuovo
debito; detto in altri termini, si sarebbe in presenza di
una nuova obbligazione giuridica, sorta in un esercizio
successivo a fronte di fatti nuovi, imputabili secondo il
principio della competenza finanziaria in un esercizio
finanziario diverso da quello in cui l’incarico è stato
assunto.
In relazione a queste tipologie di debiti sopravvenuti,
scaturenti da un titolo a suo tempo regolarmente registrato
e imputato ma che, per fatti oggettivamente non
preventivabili, si fossero manifestati in sede di
liquidazione in un importo superiore a quello a suo tempo
impegnato, la giurisprudenza contabile ha parlato di
“passività pregresse” (cfr. SRC Lombardia
parere 22.07.2013 n. 339 e
n. 482/2013/PAR).
3. La regola secondo cui i debiti per incarichi a legali
esterni, ove maggiori rispetto a quelli contabilizzati senza
una causa di oggettiva imprevedibilità, con una non
ingiustificata “irrisorietà” o “non congruità” dell’importo
contabilizzato, devono essere riconosciuti attraverso la
procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio deve
essere confermata anche nel mutato quadro normativo, per
effetto dell’entrata in vigore, dal 01.01.2015, della
nuova contabilità pubblica (Dlgs. n. 118/2011).
Peraltro, i sopra richiamati principi elaborati in sede
ermeneutica vanno arricchiti dal sistema di regole oggi
espressamente previsto per gli incarichi a legali eterni, in
adattamento al nuovo principio della competenza finanziaria
“potenziata” o “rafforzata”, articolatamente disciplinato
negli allegati di cui al richiamato decreto, sia in sede di
principi generali (Allegato 1, punto 16) che in sede di
principi “applicati” (Allegato 4.2, §2).
Secondo tali principi, come è noto, le obbligazioni devono
essere registrate in bilancio tenendo conto non solo del
perfezionamento del titolo, ma anche della scadenza
(esigibilità) della prestazione che, nel caso di spesa per
l’acquisto di beni e servizi, di norma, coincide con
l’adempimento della prestazione da parte del fornitore
(Allegato 4.2, al § 5.2., lett. b).
Nel caso di impegni per incarichi a legali esterni risalenti
ad annualità anteriori al 2015, per cui la prestazione per
il corrispettivo non sia ancora esigibile, il residuo va
riaccertato ai sensi dell’articolo 3, comma 4, del D.lgs.
n. 118/2011 per addivenire alla ricollocazione temporale
dello stesso secondo il principio della competenza
finanziaria rafforzata: infatti, «se l’obbligazione non è
esigibile, si provvede alla cancellazione dell’impegno ed
alla sua immediata re-imputazione all’esercizio in cui si
prevede che sarà esigibile, anche sulla base delle
indicazioni presenti nel contratto di incarico al legale».
Inoltre, in deroga al principio secondo cui nel fondo
pluriennale vincolato confluiscono solo entrate correnti
vincolate ed entrate destinate al finanziamento di
investimenti (Allegato 4.2., § 5.4) «Nell’esercizio in cui
l’impegno è cancellato si iscrive, tra le spese, il fondo
pluriennale vincolato al fine di consentire la copertura
dell’impegno nell’esercizio in cui l’obbligazione è
imputata».
Cionondimeno, il richiamato principio subisce una deroga (in
sostanza continuando ad applicare il pregresso criterio
della competenza finanziaria “semplice”) nel caso di
incarichi a legali esterni dal cui contesto non sia
possibile desumere la scadenza: ai sensi del principio
contabile applicato di cui all’Allegato 4.2, al § 5.2.,
lett. g), infatti, «gli impegni derivanti dal conferimento
di incarico a legali esterni, la cui esigibilità non è
determinabile, sono imputati all’esercizio in cui il
contratto è firmato, in deroga al principio della competenza
potenziata, al fine di garantire la copertura della spesa».
Tale imputazione, peraltro, presuppone la necessità che la
spesa sia stata congruamente stimata «al fine di evitare la
formazione di debiti fuori bilancio». Tale necessità viene
resa costante, imponendo un obbligo di verifica annuale; il
§ 5.2, lett. c), infatti, prevede che l’ente chieda «ogni
anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa
sulla base della quale è stato assunto l’impegno e, di
conseguenza, provvede ad assumere gli eventuali ulteriori
impegni».
In pratica, a partire dal 2015, ove l’impegno sia stato in
origine sottostimato, per cause oggettive, in sede di
bilancio preventivo, annualmente, deve essere adeguato
l’’importo stanziato, di modo che vi siano risorse
sufficienti per l’impegno ed il pagamento del corrispettivo,
consentendo al Consiglio di controllare costantemente
l’evolversi della spesa a fronte di fatti nuovi e
imprevedibili.
Ove peraltro emergesse una non congruità dell’impegno
originario imputabile a circostanze soggettive, imputabili
al professionista o al funzionario che ha consentito alla
spesa, la maggior somma dovrà invece essere oggetto della
procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio ai
sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), nei limiti del
valutato “arricchimento” per l’ente.
Altrimenti opinando, infatti, il funzionario che ha operato
in modo incauto o non diligente potrebbe facilmente
sottrarsi alla responsabilità diretta (art. 191, comma 4,
TUEL) e al filtro valutativo che la legge prevede che il
Consiglio eserciti in sede di riconoscimento del debito per
prestazioni per beni e servizi, a garanzia della propria
competenza autorizzativa delle spesa (Corte dei Conti, Sez.
controllo Campania,
parere 01.04.2015 n. 110). |
PUBBLICO IMPIEGO:
I giornalisti in pensione collaborano con la p.a..
I giornalisti in quiescenza possono continuare a collaborare
con la pubblica amministrazione. Alle predette attività,
infatti, non si applica il divieto imposto dall'articolo 6
del dl n. 90/2014 il quale è circoscritto ai soli incarichi
di studio, consulenza e a quelli dirigenziali.
È quanto si legge nel testo della deliberazione n. 15/2015, con cui la Corte dei conti
-Sez. centrale di controllo di legittimità sugli atti
delle amministrazioni pubbliche- ha fatto chiarezza sulla
portata normativa delle disposizioni introdotte al citato
articolo 6, dove si prescrive che è fatto divieto alle
pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio
e consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici
collocati in quiescenza.
Oggetto del casus belli è un
contratto di attività giornalistica, consistente nella cura
della comunicazione ed informazione istituzionale, stipulato
nel dicembre dello scorso anno tra il Ministero dello
sviluppo economico ed una giornalista in pensione.
Analizzando lo stesso, il collegio della magistratura
contabile ha preliminarmente rilevato che, per ascrivere o
meno tale contratto nell'alveo del divieto normativo
imposto, occorre individuarne la natura e che, in dettaglio,
questo viene espressamente intestato quale «contratto di
collaborazione ex art. 2 Ccnl giornalisti del 26.03.2009».
A seguito delle osservazioni formulate in
istruttoria, il Mise rilevava che l'incarico esaminato non
ammette alcun vincolo di subordinazione, lo svolgimento di
responsabilità gestionali né l'assegnazione di risorse umane
o di capitoli di spesa dell'Amministrazione, prevedendo
esclusivamente lo svolgimento dell'attività giornalistica.
Sul punto, la Corte ha osservato che la norma limitatrice si
esprime nel senso che il divieto si circoscrive ai soli «incarichi
di studio» ed «incarichi di consulenza», oltre
che agli «incarichi dirigenziali». Pertanto, un
contratto di natura giornalistica non può rientrare nel
divieto normativo sopra citato.
La limitazione imposta dal legislatore, infatti, è da
valutare come criterio di stretta interpretazione e, quindi,
non è possibile estenderne gli effetti fondandosi su
semplici analogie. In poche parole, il divieto di conferire
incarichi a soggetti in quiescenza è applicabile ai soli
casi espressamente indicati all'articolo 6 del dl n. 90/2014
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2015). |
NEWS |
CONDOMINIO: Non è un obbligo inviare il rogito.
Anagrafe condominiale. I documenti.
Il garante si
pronuncia sulla legittimità della richiesta al condòmino di
copia del titolo di proprietà ai fini della compilazione dei
registri previsti dall’'articolo 1130 n. 6 del Codice
civile, ritenendo che l’amministratore non abbia il potere
di pretendere tale documento e che pertanto la richiesta sia
non fondata e il relativo trattamento di dati eccessivo
rispetto alle finalità perseguite.
La pronuncia appare condivisibile, poiché la norma richiede
che l’amministratore conosca i dati relativi al titolare di
diritti reali e non autorizza affatto a richiedere più di
tali elementi, rispetto ai quali la copia dell’atto di
acquisto è sicuramente qualcosa di più, che contiene dati
estranei alle finalità di compilazione dei registri. Anche
ove il condòmino non adempia alla richiesta di comunicazione
di tali dati, l’amministratore potrà ricavarli dai pubblici
registri con una semplice visura e addebitandone i relativi
costi, ma non potrà procurarsi copia del titolo se non
eccedendo i limiti del Codice della privacy e,
plausibilmente, anche quelli previsti dallo stesso codice
civile.
L’indicazione di ragionevolezza e adeguatezza, con invito
all’amministratore di attenersi a quanto strettamente
indicato dalla legge, può essere spunto di riflessione
interessante anche per ciò che attiene alla questione dei
dati relativi alle condizioni di sicurezza.
Diversa è l’ipotesi prevista dall’articolo 63 delle
Disposizioni di attuazione del Codice civile che, all’ultimo
comma, pone in capo al soggetto che vende l’unità
immobiliare l’obbligo di trasmettere copia autentica
dell’atto ove voglia liberarsi dal vincolo di solidarietà
con l’acquirente. In tal caso l’obbligo è espressamente
previsto dalla legge ed ha tutt’altra ragione, prima fra
tutte quella di dare data certa al venir meno della
responsabilità patrimoniale del cedente nei confronti del
condominio (articolo IL Sole 24 Ore del
19.05.2015). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Cemento armato per i geometri.
La pronuncia del Cds non è vincolante.
Geometri contro il Consiglio di stato. La recente sentenza
(n. 883/2015) che ne ha escluso la competenza nel progettare
opere in cemento armato, sostenendone la riserva per
ingegneri e architetti, non ha infatti «un valore assoluto».
E i professionisti devono continuare a regolarsi come hanno
sempre fatto.
Con una circolare ah hoc (nota 07.05.2015 n. 5126 di prot.)
il Consiglio nazionale dei geometri interviene sul tema
delle competenze in materia di costruzioni civili, dopo che
i giudici di palazzo Spada avevano annullato la delibera di
un comune che gli riconosceva la possibilità di progettare
modeste costruzioni in cemento armato (si veda ItaliaOggi
del 03/03/2015).
Il punto di partenza per i geometri è semplice: la decisione
del Cds è in contrasto con diverse altre pronunce precedenti
e oltretutto la sentenza «di primo grado aveva tracciato
un orientamento del tutto contrario a quello oggi
manifestato dal Cds». Secondo i Cng «non si può fare
a meno di osservare come giudici diversi ma appartenenti a
diversi gradi della medesima giustizia amministrativa
seguano differenti e contrapposti giudizi». Non solo,
perché secondo il consiglio nazionale di categoria ha avuto
un orientamento interpretativo restrittivo sulle competenze
dei geometri «considerate immotivatamente insussistenti
anche in mancanza di norme espresse».
E in questo senso, si legge ancora nella circolare, il Cds
non ha tenuto nel giusto conto neanche «l'espressa
abrogazione della riserva per le opere in cemento armato in
favore di ingegneri e architetti recentemente operata dal
dlgs 212/2010 in quanto ritenuta norma inutile e di cui
anche la Corte suprema di cassazione ha preso espressamente
atto». Ma, soprattutto, c'è una giurisprudenza
ampiamente contrastante, che va avanti da anni e che non può
essere cancellata da una sola sentenza negativa.
E il documento del Cng lo dice chiaramente: «si invitano
codesti collegi a non assegnare un valore assoluto alla
pronuncia in esame, collegandovi effetti eccessivamente
negativi, in considerazione del fatto che tale sentenza è
una in un ambito, come detto, di pronunzie contrastanti».
Tutte le decisioni nascono da «liti giudiziarie, spesso
intraprese per questioni di compenso professionale».
Riguardano, quindi, casi particolari e non l'intera
categoria
(articolo ItaliaOggi del 19.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus 65%, documenti doppi.
Occorrono scheda informativa e asseverazione tecnica.
Le risposte dell'Enea per usufruire della detrazione in caso
di sostituzione di finestre.
Per usufruire della detrazione del 65% in caso di
sostituzione di finestre per immobili adibiti a impresa o ad
abitazione privata occorre l'asseverazione di un tecnico
abilitato, corredata da una scheda informativa semplificata.
L'asseverazione di un tecnico abilitato, deve specificare il
valore della trasmittanza termica degli infissi dismessi
(eventualmente stimandola in base alle caratteristiche del
profilato e della tipologia del vetro) e di quelli nuovi.
La scheda informativa semplificata (o allegato F al «decreto
edifici») va invece compilata a video, anche a cura
dell'utente finale senza l'ausilio del tecnico, e va inviata
all'Enea via web. Tutto questo si applica anche per le unità
immobiliari a destinazione d'uso diversa da quella
residenziale (aziende, uffici, attività commerciali e
produttive) purché univocamente definite come singola unità.
Questa una delle risposte contenute nelle
Faq Enea
aggiornate al 30.04.2015.
Dal 2008 sono ammesse a
detrazione anche le pompe di calore ad alta efficienza e gli
impianti geotermici a bassa entalpia, purché questi
rispondano ai requisiti prestazionali previsti dall'allegato
I del «decreto edifici». Inoltre dal 2015 sono ammessi anche
i generatori di calore a biomassa. Quindi, anche per le
pompe di calore, gli impianti geotermici e le caldaie a
biomassa, come per le caldaie a condensazione, è possibile
trasmettere a Enea solo l'allegato E.
Nel caso invece di altri tipi di impianti termici, si può
usufruire delle detrazioni fiscali, sempre che, al termine
dei lavori, gli stessi assicurino un indice di prestazione
energetica per la climatizzazione invernale non superiore a
quanto tabellato nell'allegato A al dm 11/03/2008. In
quest'ultimo caso, la documentazione da trasmettere a Enea
non è stata semplificata nel tempo e rimane ancora
costituita dall'allegato A e dall'allegato E.
- Comunicazione preventiva. Non occorre inviare alcuna
comunicazione preventiva. La normativa vigente impone
solamente che entro 90 giorni dal termine dei lavori debba
essere trasmessa a Enea, per via telematica tramite
l'applicativo raggiungibile dalla homepage del sito,
cliccando sul link «invio», la documentazione costituita
dall'attestato di qualificazione energetica e la scheda
descrittiva degli interventi realizzati o in alcuni casi,
una documentazione semplificata, costituita dal solo
allegato E (nel caso di sostituzione di impianti termici con
caldaie a condensazione, pompe di calore ad alta efficienza
o impianti geotermici a bassa entalpia o di sostituzione di
scaldacqua di tipo tradizionale con scaldacqua a pompa di
calore o di sostituzione o nuova installazione di generatori
di calore a biomassa, o dal solo allegato F (nel caso di
sostituzione di infissi in singole unità immobiliari o di
installazione di pannelli solari o di schermature solari).
Effettuata la trasmissione, in automatico ritorna al
mittente da Enea una ricevuta informatica con il Cpid
(codice personale identificativo), valida a tutti gli
effetti come prova dell'avvenuto invio
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sostanze e rifiuti da rielencare.
Riflessi per sicurezza sul lavoro e rischi ambientali.
Dal 1° giugno diventano operative a livello nazionale le
norme Ue sugli inquinanti.
Il 01.06.2015 entra a pieno regime l'operatività delle
nuove norme comunitarie sulla classificazione di sostanze
chimiche e rifiuti, che chiamerà imprese e operatori del
settore ad aggiornare anche i propri adempimenti in materia
di sicurezza sul lavoro e prevenzione dei pericoli di
incidenti industriali.
Saranno, infatti, direttamente applicabili sul territorio
nazionale (in quanto provvedimenti di natura «self executing»,
dunque pure in assenza di un intervento di adeguazione del
legislatore interno) i regolamenti europei 1272/2008,
1357/2014 e 1342/2014 nonché la decisione 2014/995 recanti,
rispettivamente, la nuova disciplina su: classificazione,
etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele;
attribuzione delle caratteristiche di pericolo ai rifiuti;
gestione dei rifiuti contenenti inquinanti organici
persistenti; elenco europeo dei rifiuti.
A cascata, le
prescrizioni comunitarie imporranno un aggiornamento delle
misure di prevenzione e protezione da adottare ex dlgs
81/2008 per i lavoratori esposti alle sostanze chimiche e
una verifica delle soglie di rischio che fanno scattare la
normativa Seveso per gli stabilimenti che le utilizzano.
Classificazione sostanze. A eccezione di quelle già immesse
sul mercato e di quelle oggetto di specifica proroga al 2016
(ex regolamento 2015/491/Ue), dal 01.06.2015
classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e
miscele dovranno avvenire secondo i dettami del regolamento
Ce 1272/2008 (c.d. disciplina «Clp», acronimo di
classification, labelling and packaging).
Salve le citate
eccezioni, il regolamento del 2008 sostituirà, infatti,
pienamente dalla citata data le analoghe disposizioni
dettate dalle direttive 67/548/Cee e 1999/45/Ce e integrerà
quelle del regolamento Ce 1907/2006 su registrazione,
valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze
chimiche (c.d. disciplina «Reach», acronimo di registration,
evaluation, authorisation and restriction of chemicals).
Caratteristiche di pericolo rifiuti. Dal
01.06.2015
l'attribuzione ai rifiuti delle caratteristiche di pericolo
dovrà essere effettuata in base al nuovo allegato III della
direttiva 2008/98/Ce, riformulato dall'Ue mediante il
regolamento Ue 1357/2014 per adeguare la normativa
comunitaria al citato provvedimento del 2008.
Le novità
coincidono con una riformulazione delle classi generali di
pericolo (che passano da «H» ad «Hp»), il rimodellamento di
alcune categorie e valori limite, la rivisitazione degli
specifici criteri per l'attribuzione delle caratteristiche
di rischio. In assenza di un intervento del legislatore
nazionale, non si potrà dunque più far riferimento
all'attuale allegato I alla Parte quarta del dlgs 152/2006,
nel quale appaiono a oggi i criteri ereditati dalla
precedente versione della direttiva 2008/98/Ce.
Elenco europeo dei rifiuti. Sempre dal
01.06.2015 il
nuovo elenco cui fare riferimento per l'attribuzione ai
rifiuti dei codici europei sarà quello dettato (sempre per
ragioni di armonizzazione con il regolamento Ce 1272/2008)
dalla decisione 2014/995/Ue in sostituzione di quello recato
dalla decisione 2000/532/Ce. Il nuovo elenco fa, infatti,
espresso riferimento al regolamento del 2008 sia per la
classificazione delle sostanze pericolose che per le classi
«Hp».
Ritoccati anche i codici dei rifiuti, con
l'introduzione di nuove voci (la «010310*» relativa ad
alcuni fanghi da attività estrattive, le «160307*» e
«190308*» per il mercurio) e la riformulazione di altre
(«010309» e «190304*»). Anche in questo caso il prevalere
delle norme Ue renderà obsolete, in caso d'inerzia del
legislatore nazionale, le regole dell'attuale allegato «D»
alla Parte quarta del dlgs 152/2006 che ospita l'elenco dei
rifiuti tradotto dalla previgente decisione 2000/532/Ce.
Rifiuti con Pop. A incidere sulla classificazione dei
rifiuti, in questo caso dal successivo 18.06.2015, sarà
anche la diretta applicabilità del nuovo regolamento Ue
1342/2014 di rivisitazione del novero dei c.d. Pop (persistent
organic pollutants, ossia inquinanti organici persistenti
rilasciati da alcuni processi industriali e altamente nocivi
per salute e ambiente) che ai sensi del regolamento Ce
850/2004 fanno scattare particolari oneri gestori per i
rifiuti che li contengono.
Secondo la nuova decisione
2014/995/Ue devono senz'altro essere classificati come
pericolosi i rifiuti contenenti dibenzo-p-diossine,
dibenzofurani policlorurati, Ddt, clordano,
esaclorocicloesani (compreso lindano), dieldrin, endrin,
eptacloro, esaclorobenzene, clordecone, aldrin,
pentaclorobenzene, mirex, toxafene esabromobifenile e/o pcb
in quantità superiori ai limiti di concentrazione ex
allegato IV del citato regolamento Ce 850/2004.
Sicurezza sul lavoro. Le nuove regole su classificazione,
etichettatura e imballaggio di sostanze chimiche ex
regolamento Ce 1272/2008 imporranno dal 01.06.2015 anche
l'aggiornamento delle misure di prevenzione e protezione dei
lavoratori. Come già anticipato dal MinLavoro con circolare
30.06.2011 n. 14877, ai sensi del dlgs 81/2008 dovranno
essere riviste alla luce di tali novità valutazione dei
rischi, informazione e formazione dei lavoratori,
sorveglianza sanitaria e segnaletica di sicurezza in
relazione alle sostanze chimiche pericolose, cancerogene e
mutagene presenti nei luoghi di lavoro.
Disciplina Seveso. Anche in assenza dell'attesa
riformulazione della disciplina sul controllo dei pericoli
di incidenti rilevanti connessi con l'uso di determinate
sostanze pericolose, dal 01.06.2015 il pieno regime del
regolamento Ce 1272/2008 appare comunque produrre effetti
sull'applicazione dell'attuale dlgs 334/1999, laddove nelle
note del suo allegato I è indicato che le sostanze o i
preparati non classificati come pericolosi ma rilevanti ai
fini del rischio devono essere oggetto di «classificazione
provvisoria» ai sensi della normativa Ue.
Entro la stessa data del 01.06.2015 (dead line stabilita
dall'Ue) il legislatore nazionale dovrebbe comunque recepire
la nuova direttiva Seveso rubricata come 2012/18/Ue,
direttiva fondata proprio sulla nuova classificazione delle
sostanze ex regolamento Ce 1272/2008.
In base allo schema di
decreto legislativo in itinere (già licenziato in prima
lettura dal governo lo scorso marzo) gli stabilimenti
obbligati agli stringenti parametri di sicurezza Seveso
saranno quelli che utilizzano determinate sostanze chimiche
(ora categorizzate in base al regolamento del 2008) sopra
determinate soglie e suddivisi in due categorie:
stabilimenti «di soglia inferiore» (tenuti a notifica della
propria posizione alle Autorità pubbliche e redazione del
documento di politica di prevenzione, pedissequamente a
quelli individuati dagli articoli 6 e 7 dell'attuale dlgs
334/1999); stabilimenti «di soglia superiore» (onerati anche
dalla redazione del rapporto di sicurezza, come previsto
dall'attuale articolo 8 del dlgs 334/1999).
Il tutto, a
differenza però dell'uscente dlgs 334/1999, con la
previsione della totale esenzione dagli obblighi Seveso che
utilizzano le citate sostanze sotto i limiti previsti (c.d.
impianti «sotto soglia»)
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Il nuovo Durc si prepara al debutto. La verifica
verrà compiuta direttamente da parte dei destinatari della
certificazione.
Adempimenti. Giovedì prossimo il ministero presenterà la
procedura semplificata per il documento di regolarità
contributiva.
La nuova procedura di rilascio online
del documento unico di regolarità contributiva (Durc) «sarà
presto attiva».
Ad annunciarlo è il ministero del Lavoro che giovedì
prossimo presenterà ufficialmente le novità in una
conferenza stampa.
Sembra dunque prossimo al completamento il percorso indicato
dal decreto legge 34/2014 con cui è stata prevista una
semplificazione per il rilascio del Durc. Un percorso che ha
richiesto molto più tempo di quanto stabilito, dato che in
base allo stesso Dl 34/2014 il ministero del Lavoro avrebbe
dovuto emanare entro il 20 maggio dell’anno scorso un
decreto attuativo.
Rispetto al sistema attualmente vigente, infatti, le linee
guida a cui si dovrà conformare il provvedimento di
regolamentazione prevedono la creazione di una piattaforma
telematica attraverso la quale chiunque vi abbia interesse,
compresa l’impresa stessa, potrà verificare in tempo reale
la regolarità contributiva nei confronti dell’Inps,
dell’Inail e delle Casse edili (per le imprese del relativo
comparto).
In sostanza, l’interrogazione fornirà una sorta di visto che
avrà validità di 120 giorni dalla data di acquisizione:
questo impianto porterà, di fatto, a sostituire a ogni
effetto il documento unico di regolarità contributiva,
ovunque previsto, salvo specifiche ipotesi di esclusione,
che verranno espressamente individuate dal decreto
attuativo.
Finora è la singola azienda che ha necessità di utilizzare
il Durc, perché per esempio gestisce un servizio in
convenzione, a dover richiedere il documento e poi, una
volta ricevuto, inviarlo al soggetto richiedente. In futuro,
invece, dovrebbe essere direttamente il soggetto
destinatario a effettuare la verifica accedendo al sistema
online.
Il vantaggio maggiore consiste nel fatto che la nuova “certificazione”
sarà praticamente a 360 gradi poiché -nelle ipotesi di
godimento di benefici normativi e contributivi- il sistema
dovrebbe individuare anche le tipologie di pregresse
irregolarità di natura previdenziale e in materia di tutela
delle condizioni di lavoro, da considerare ostative alla
regolarità (articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006).
Inoltre l’interrogazione assolverà all’obbligo di verificare
la sussistenza del requisito di ordine generale previsto
dall’articolo 38, comma 1, del codice degli appalti pubblici
(Dlgs 163/2006).
In effetti la prossima attivazione del Durc online, però,
suscita qualche perplessità presso i consulenti del lavoro.
«Ancora oggi gli archivi Inps non sono perfettamente
aderenti alle posizioni delle aziende e quindi capita che il
sistema rilevi irregolarità anche quando non ci sono
–osserva Vincenzo Silvestri, vicepresidente con delega ai
rapporti con l’Inps del Consiglio nazionale dell’Ordine dei
consulenti del lavoro–. Con la procedura attuale un datore
di lavoro riceve una notifica e ha tempo per mettersi in
regola. Nel momento in cui saranno le amministrazioni
interessate a verificare direttamente la regolarità
contributiva dei fornitori, tutto sarà affidato
all’automatismo della procedura Durc online, con il rischio
che le presunte anomalie che produrrà il sistema andranno a
complicare sempre di più la vita delle aziende invitate a
regolarizzare posizioni fantasma».
Per un efficace funzionamento della nuova procedura non solo
sarà necessaria una puntuale interconnessione tra le banche
date degli enti coinvolti ma occorrerà, altresì, che la
stessa preveda il raccordo con la disciplina che attualmente
regola il processo di rilascio del Durc, ad esempio in
materia di preavviso di irregolarità. Dovrà, quindi, essere
sempre esperibile –prima di dichiarare l’eventuale
irregolarità- l’invito al soggetto inadempiente di “sistemare”
la propria posizione nel termine di 15 giorni o di far
valere la sussistenza di eventuali crediti da compensare.
Il completamento del percorso di semplificazione del Durc
era stato sollecitato una decina di giorni fa dal Consiglio
nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti
contabili. «Nei giorni scorsi -afferma il consigliere
Vito Jacono- abbiamo presentato all’Inps una richiesta di
chiarimenti sul Durc all’Inps, ma dall’istituto di
previdenza ci hanno risposto che tutti i problemi erano
stati risolti. Siamo in attesa di testare con mano questa
innovazione» (articolo IL Sole 24 Ore del
16.05.2015). |
APPALTI:
Appalti, così le centrali uniche. Illegittima la
presenza, anche indiretta, di società private.
L'Anci ha raccolto le ultime pronunce Anac.
Ammessi gli enti con meno di 10 mila abitanti.
Nelle centrali di committenza è illegittima la presenza,
seppur indiretta, di società private. È obbligatorio
l'affidamento tramite centrale anche per le concessioni di
costruzione e gestione (o di lavori pubblici). È possibile
avvalersi delle stazioni uniche appaltanti anche da parte
dei comuni con meno di 10.000 abitanti. Non è conforme a
legge la richiesta a pena di esclusione del pagamento di un
corrispettivo all'aggiudicatario del contratto.
Sono questi alcuni dei principali orientamenti espressi
negli ultimi mesi dall'Autorità nazionale anticorruzione in
tema di centrali di committenza che l'Anci ha raccolto in un
documento messo a disposizione di tutti i comuni.
L'obiettivo è quello di orientarsi su come l'organismo di vigilanza
presieduto da Raffaele Cantone interpreta alcuni profili
applicativi dell'art. 33, comma 3-bis, del codice dei
contratti pubblici sull'obbligo di ricorso alle centrali di
committenza e alle altre forme di aggregazione della
domanda.
La sintesi ha come riferimento anche il recente documento di
consultazione predisposto il 29 aprile dall'Anac che, si
ricorda, gestisce l'elenco delle centrali di committenza
(aperto a città metropolitane e unioni o consorzi di comuni
che, negli ultimi tre anni hanno avviato appalti per almeno
260 mln di euro, con un minimo di 50 mila euro l'anno). A
tale riguardo la sintesi Anci sottolinea il fatto che nel
documento che sarà in consultazione fino a fine mese si
chiarisce che le società «in house»
partecipate/controllate da enti locali sono anche esse
assoggettate all'obbligo di ricorso alle centrali di
committenza se affidano a terzi contratti di lavori,
forniture e servizi.
Venendo però ai veri e propri provvedimenti dell'Autorità,
l'Anci prende le mosse dalla determina Anac n. 3/2015 nella
quale innanzitutto si precisa che formalmente sia le Sua
(Stazioni uniche appaltanti), sia i «soggetti aggregatori»
altro non sono che centrali di committenza che, dal punto di
vista operativo, si caratterizzano come organizzazione «a
rete» (con l'ulteriore precisazione che della Sua
possono avvalersi anche i comuni con popolazione inferiore
ai 10 mila abitanti).
Dal punto di vista dell'ambito di applicazione oggettivo, l'Anci
mette in evidenza anche il passaggio della determina n. 3 in
cui l'Anac afferma l'esclusione dei servizi sanitari,
ricreativi, legali, di investigazione, di trasporto e
alberghieri, dall'obbligo di affidamento tramite centrale di
committenza di cui all'art. 33, comma 3-bis, del codice dei
contratti pubblici. Diversamente l'obbligo esiste per le
concessioni di costruzione e gestione. L'Anac, ricorda
sempre l'Anci, ha inoltre stabilito che nell'ambito di una
Unione dei comuni già costituita non esiste la necessità di
costituire una centrale unica di committenza e che i comuni
che hanno aderito a una centrale di committenza non sono
obbligati a far parte di uno stesso ambito provinciale ma
possono quindi appartenere anche a più province.
Molto articolato è poi il riferimento al profilo del
pagamento del corrispettivo per le prestazioni svolte dalle
centrali di committenza, che è stato oggetto di una
segnalazione a governo e parlamento in quanto materia da
chiarire e sulla quale intervenire per presunte
illegittimità rilevate dall'Anac.
In sostanza l'Autorità ha ritenuto che non possa essere
previsto negli atti di gara, a pena esclusione (ma in
violazione del principio di tassatività delle cause di
esclusione), l'obbligo di pagamento di un corrispettivo da
parte dell'aggiudicatario del contratto.
Per l'Anac manca infatti una norma che abiliti una stazione
appaltante a richiedere il pagamento di una commissione agli
aggiudicatari delle proprie gare di appalti (anche se ciò è
previsto per l'uso del sistema informatico di negoziazione
del Mef in Asp (Application service provider) e per
Consip). Eventualmente, dice l'Anac, il rimborso dovrebbe
essere comunque determinato in maniera fissa e non variabile
in funzione del prezzo offerto in sede di gara (ribasso)
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Procura Lecce. Ai vigili i controlli edilizi.
Nessuna interferenza dei tecnici comunali con le indagini
penali in materia edilizia. Qualsiasi determinazione nella
delicata materia spetta solo alla polizia municipale che
deve riferire direttamente all'autorità giudiziaria. E in
caso di negligenza sono guai grossi per i primi cittadini.
Lo ha messo nero su bianco la Procura di Lecce con la
nota 05.05.2015 n. 3287/15 di prot..
Nell'ambito dei controlli urbanistici non appare sempre
chiaro il ruolo e la qualifica dei tecnici comunali. A
parere della procura di Lecce non ci sono dubbi. Gli
operatori degli uffici tecnici, pur se qualificati e
senz'altro coinvolti nei controlli e nelle verifiche
edilizie, sono dei pubblici ufficiali e non hanno alcuna
qualifica di polizia giudiziaria.
La questione è esplosa nel
territorio pugliese a seguito di un sequestro preventivo
penale effettuato, senza titolo, da un tecnico comunale. La
procura ha quindi ritenuto di chiarire definitivamente i
ruoli e le qualifiche di tutti i soggetti coinvolti nelle
attività di vigilanza locale. Tutto il personale tecnico
comunale non può avere alcuna qualifica di polizia
giudiziaria e deve limitarsi a effettuare attività
amministrativa. Spetta solo ai vigili urbani intervenire con
le rispettive qualifiche di agente o ufficiale di polizia
giudiziaria nell'ambito di un controllo per un abuso
edilizio. I tecnici possono essere nominati ausiliari di pg
ma non possono interferire con le pratiche penali.
La normativa a parere della procura è molto chiara. Sia il
dpr 380/2001 che la legge 64/1974 non attribuiscono alcuna
qualifica di polizia giudiziaria agli organi tecnici dei
comuni. I sindaci a loro volta, prosegue la nota, non
possono attribuire la qualifica di comandante della polizia
municipale (e quindi indirettamente le relative funzioni di
polizia giudiziaria) a soggetti diversi dagli operatori di
vigilanza.
Nella provincia di Lecce, prosegue la circolare,
un comandante è stato infatti sostituito con un architetto,
funzionario dell'ufficio tecnico comunale. Questa pratica
deve immediatamente essere segnalata alla procura come ogni
altra indebita intromissione nell'attività di polizia
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2015). |
ENTI LOCALI: Mini-enti,
Dup semplice. Piccoli comuni liberi sulla programmazione.
Primo restyling per l'ordinamento contabile delle autonomie
locali.
Dup semplificato (ma non troppo) per i piccoli comuni.
È una
delle novità contenute nel primo decreto correttivo al nuovo
ordinamento contabile degli enti territoriali (dlgs
118/2011) licenziato dall'apposita commissione ministeriale
e al momento consultabile sul sito Arconet.
Il Dup (Documento unico di programmazione) è disciplinato
dal principio contabile applicato sulla programmazione
(allegato 4/1 del dlgs 118), che lo definisce come «il
presupposto necessario di tutti gli altri documenti di
programmazione», facendone, quindi, il cardine dell'intera
architettura contabile dell'ente locale. Il Dup si compone
di due sezioni: da un lato, la sezione strategica, che ha un
orizzonte temporale di riferimento pari a quello del mandato
amministrativo ed è chiamata a individuare, in coerenza con
il quadro normativo di riferimento, gli indirizzi di policy
dell'ente; dall'altro lato, la sezione operativa, che
contiene la programmazione operativa riferita ad un arco
temporale pari a quello del bilancio di previsione
(triennale).
L'art. 170, comma 6, del Tuel prevede che gli enti locali
con popolazione fino a 5.000 abitanti presentino un Dup
semplificato secondo le modalità indicate nel principio
applicato, ma quest'ultimo prevede al momento una
semplificazione estremamente limitata. In pratica, viene
solo alleggerita la sezione strategica (che può limitarsi a
declinare «gli indirizzi generali di natura strategica
relativi alle risorse e agli impieghi e sostenibilità
economico finanziaria attuale e prospettica» e le correlate
risorse umane), ma per il resto il documento presenta la
stessa struttura imposta per gli enti maggiori.
Con le modifiche introdotte dalla commissione, invece, viene
inserito un nuovo paragrafo ad hoc (il n. 8.4) dedicato
specificamente al Dup semplificato. Esso lascia maggiore
libertà agli enti di minori dimensioni demografiche
(principalmente comuni, ma anche unioni) nella costruzione
del documento, abbandonando la divisione in sezioni.
Tuttavia, i contenuti minimi richiesti non cambiano di
molto: occorre infatti individuare le principali scelte che
caratterizzano il programma dell'amministrazione da
realizzare nel corso del mandato amministrativo e gli
indirizzi generali di programmazione riferiti a tale
periodo, in coerenza con il quadro normativo di riferimento
e con gli obiettivi generali di finanza pubblica e tenendo
conto della situazione socio-economica del proprio
territorio.
Anzi, il Dup si arricchisce dell'analisi delle
modalità di organizzazione e gestione dei servizi pubblici
ai cittadini (tenuto conto dei fabbisogni e dei costi
standard e del ruolo degli eventuali organismi, enti
strumentali e società controllate e partecipate) e della
verifica sulla coerenza e compatibilità della gestione
presente e futura con le disposizioni del patto di stabilità
interno e con i vincoli di finanza pubblica.
Ricordiamo che, per tutti gli enti locali che non hanno
partecipato alla sperimentazione, il primo Dup riguarderà
gli esercizi 2016 e successivi (per quest'anno, invece,
rimane la vecchia relazione previsionale e programmatica) e
dovrà essere predisposto dalla giunta e presentato al
consiglio entro il prossimo 31 luglio
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2015). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing, il datore risponde per colpa.
Per la Cassazione è responsabile nel caso di inerzia
rispetto a comportamenti noti.
Contenzioso. Risarcimento dei danni a carico dell’azienda
anche se le iniziative vessatorie sono opera di un superiore
gerarchico.
La circostanza che le iniziative vessatorie riconducibili
al mobbing siano state compiute da un dipendente in
posizione di superiorità gerarchica rispetto alla vittima
non costituisce una situazione idonea ad escludere la
responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’articolo
2049 del codice civile, ove quest’ultimo sia rimasto
colpevolmente inerte rispetto alla reiterazione del
comportamento illecito.
La Corte di
Cassazione, Sez. lavoro, afferma questo principio con la
sentenza 15.05.2015 n. 10037, nella quale si ricollega il
coinvolgimento datoriale per i danni arrecati da fatto
illecito dei propri dipendenti ad una forma di
responsabilità per colpa riconducibile al fatto che non
erano state adottate misure volte ad eliminare il compimento
delle iniziative vessatorie.
La Corte rimarca che la durata e la reiterazione delle
azioni persecutorie, unitamente alle modalità attraverso cui
il responsabile gerarchico aveva posto in essere la condotta
mobbizzante, erano tali da far ritenere che il datore di
lavoro fosse a conoscenza delle iniziative ostili a cui era
sottoposta la vittima. Da tale assunto deriva, per la
Cassazione, che il datore di lavoro risulta responsabile per
essere rimasto inerte a fronte del compimento dei fatti
lesivi e che, pertanto, allo stesso sia direttamente
ascrivibile, in aggiunta al soggetto aggressore, la condanna
per il risarcimento dei danni sul piano psico-fisico
sopportati dal dipendente/vittima.
La Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi sul caso di
una dipendente di un ente comunale, esposta alla sottrazione
delle proprie mansioni, all’ingiustificato spostamento
presso un ufficio aperto al pubblico, alla diretta
subordinazione ad un funzionario prima a lei sottoposto e ad
una più generale emarginazione dal contesto lavorativo ed
ambientale, con riflessi di cocente umiliazione per la
dipendente. A causa delle iniziative vessatorie subite, la
dipendente del Comune era rimasta vittima, tra gli altri
effetti, di una psicosi paranoide di cui non aveva mai
sofferto in passato.
Nella sentenza 10037/2015 viene riconosciuto che sussistono i
tipici elementi che contraddistinguono e caratterizzano il
“mobbing”, individuati dalla Suprema corte nei parametri
costituiti dall’instaurazione di un ambiente ostile, dalla
durata protratta nel tempo delle azioni vessatorie e dalla
loro frequente ripetizione, dalla presenza di un intento
persecutorio e dalla subordinazione gerarchica della vittima
all’aggressore. La Cassazione ha attribuito, inoltre,
rilievo alla dequalificazione professionale subita dalla
dipendente del Comune non in quanto condotta passibile di
autonoma risarcibilità, ma in quanto elemento teso a
confermare la sottoposizione della vittima ad una più
complessiva volontà mobbizzante dell'aggressore.
Sulla scorta di queste valutazioni, la Cassazione ha
confermato la sentenza resa dalla Corte d’appello de
L’Aquila, che aveva esteso all’ente comunale, in qualità di
datore di lavoro, il risarcimento dei danni sopportati dalla
dipendente.
È interessante rimarcare come la Cassazione pervenga a
queste conclusioni facendo applicazione dell’articolo 2049
del codice civile, laddove tale disposizione viene
generalmente interpretata dalla giurisprudenza di
legittimità nel senso che la responsabilità datoriale per i
danni arrecati dal fatto illecito dei dipendenti possa
essere esclusa solo in assenza di un nesso di occasionalità
necessaria tra il fatto illecito e le mansioni del
dipendente aggressore.
L’unico limite alla risarcibilità del
danno a carico del datore di lavoro, in forza di tale
indirizzo giurisprudenziale, risiede nel fatto che la
condotta persecutoria sia totalmente svincolata dal rapporto
di lavoro e dalle mansioni del soggetto aggressore. Tale prospettazione
risulta abbandonata dalla sentenza in esame, che ricollega,
invece, la responsabilità datoriale alla presenza di una
colpevole inerzia per non aver rimosso il fatto lesivo
(articolo IL Sole 24 Ore del
20.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: In
via generale, più volte questo Consiglio di Stato ha
puntualizzato che, al fine di individuare se un manufatto
sia o meno interrato va fatto riferimento al livello
naturale del terreno.
Sul punto, è poi appena il caso di osservare che non spetta
al verificatore, ma solo al giudice, trarre dal risultato
dell’accertamento le conclusioni in ordine
all’individuazione e all’interpretazione del parametro
normativo e alla sua applicazione alla specifica
fattispecie.
La questione chiave della controversia in esame è
rappresentata dalla definizione di “piano interrato”,
alla luce della normativa edilizia vigente nel Comune di
Folignano e dei concetti generali, poiché dalla
considerazione del solaio come interrato o meno deriva la
conformità, o meno, del manufatti ai parametri urbanistici.
Occorre quindi ricordare che all’art. 13, comma 1, lettera
u), del locale regolamento edilizio, approvato dalla regione
Marche il 28.09.1992, definisce piano interrato “il piano
sito al piede dell’edificio quando le pareti perimetrali
sono completamente comprese entro la linea di terra, salvo
le porzioni strettamente necessarie per bocche di lupo,
accessi, carrabili e pedonali, purché realizzati in trincea
rispetto alla linea di terra”.
A sua volta, la definizione di linea di terra è contenuta
nel medesimo art. 13, alla lettera m: “la linea di terra
è definita dall’intersezione della parete prospetto con il
piano stradale o il piano del marciapiede o il piano del
terreno a sistemazione definitiva”.
Ne consegue, secondo il Tribunale amministrativo, che è
comunque possibile utilizzare come parametro il terreno a
sistemazione definitiva: quindi, come ha osservato il
verificatore, il piano in questione è qualificabile come
interrato ai sensi del regolamento edilizio.
Tale ricostruzione non può essere condivisa, innanzitutto
perché, come è evidente, àncora la definizione rilevante (e
le importanti conseguenze in termini di controllo
dell’attività edilizia) ad una circostanza che è nella piena
disponibilità dell’interessato modificare. Se la linea di
terra può essere quella derivante dalla sistemazione del
terreno, è infatti palese che rientra nella facoltà di chi
vuole costruire innalzarne la quota mediante riempimenti del
terreno, e usufruire quindi dei più favorevoli parametri, in
termini di altezza, di cubatura, distanza dal confine, di
volumetria e di standards validi per le costruzioni
interrate.
Questa conclusione manifesta l’illogicità delle premesse:
occorre quindi interpretare la definizione di cui al
rammentato art. 13 in termini che ne consentano la
riconduzione al sistema, operazione che postula la
considerazione del “piano del terreno a sistemazione
definitiva” negli stessi termini “piano stradale”
e del “piano del marciapiede”.
Tutti tali elementi, in altre parole, per essere considerati
quali validi parametri per l’attività edilizia, devono
preesistere alla realizzazione dell’opera considerata,
dovendone regolare ex ante le caratteristiche
ammissibili: se ciò è evidente per il piano stradale e per
il marciapiede, anche la sistemazione definitiva deve essere
quella esistente prima dell’attività costruttiva, e
indipendente dalla stessa.
In altre parole, la sistemazione definitiva da assumere a
parametro secondo l’art. 13 lettera m non può essere quella
realizzata mediante riempimento del terreno da parte del
costruttore, come è avvenuto nel caso di specie, secondo
quanto si legge nella relazione della verificazione al quale
il primo giudice aveva affidato la descrizione dello stato
dei luoghi: “se si dovesse ritenere che la linea di terra
è rappresentata dalla originaria morfologia del terreno, si
dovrebbe conseguentemente affermare che porzioni delle
murature perimetrali del piano si trovino fuori delle linea
originaria del terreno…rendendo conseguentemente tale
livello un piano seminterrato”, mentre solo “se si
dovesse ritenere che la linea di terra è rappresentata dalla
morfologia del terreno modificata a seguito dell’attività
progettuale si dovrebbe affermare che il piano è interamente
delimitato da cavedi interrati” (pagina 13).
La presenza di terrapieni artificiali è poi evidenziata
(pagine 15 e 16 della relazione) come “particolarmente
evidente” sui lati nord ed est dell’edificio.
Da tale descrizione emerge che del tutto erroneamente il
Comune, prima, e il Tribunale amministrativo, poi, hanno
considerato il manufatto come interrato, utilizzando la
linea di terra come modificata dallo stesso costruttore.
Del resto, in via generale, più volte questo Consiglio di
Stato ha puntualizzato che, al fine di individuare se un
manufatto sia o meno interrato va fatto riferimento al
livello naturale del terreno (cfr. sez. V, 06.12.2010, n.
8547).
Sul punto, è poi appena il caso di osservare che non spetta
al verificatore, ma solo al giudice, trarre dal risultato
dell’accertamento le conclusioni in ordine
all’individuazione e all’interpretazione del parametro
normativo e alla sua applicazione alla specifica
fattispecie; così come alla tesi delle parti resistenti
secondo cui la sistemazione del terreno è stata necessaria
per ovviare alla particolare conformazione del luogo,
particolarmente acclive, è agevole osservare che
dall’ammissibilità della sistemazione non può derivare
l’applicazione di misure applicative relative a particolari
e diverse definizioni edilizie
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.05.2015 n. 2477 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa, pur evidenziando la
preminenza della tutela paesaggistica nella valutazione dei
contrapposti interessi che vengono in gioco nel governo del
territorio, non ha tuttavia mancato di conferire rilevanza
al profilo della concreta compromissione dei luoghi, nel
senso di escludere che le competenti autorità possano
limitarsi ad una aprioristica negazione della legittimità di
qualsiasi intervento sul territorio senza valutare,
soprattutto per i c.d. abusi edilizi minori, la ricorrenza
di un reale pregiudizio al paesaggio.
In particolare, si è ritenuto che il provvedimento
amministrativo che neghi all’interessato il rilascio di
un’autorizzazione paesaggistica deve rendere intelligibili
le ragioni del ritenuto contrasto dell'opera con il
paesaggio circostante, così da consentire, se del caso,
l'adozione di eventuali accorgimenti volti a consentire il
recupero della compatibilità ambientale e paesaggistica.
Più in generale, si è posto l’accento sul dovere di
motivazione dell’autorità procedente che, vieppiù con
riguardo ad opere di modesto impatto visivo, deve
evidenziare con chiarezza i profili del ritenuto contrasto
con gli interessi paesaggistici.
Ciò, del resto, è in linea con l’evoluzione normativa: se
originariamente l’art. 146, comma 10, lett. c, del d.lgs. n.
42 del 2004 in nessuna ipotesi consentiva il rilascio in
sanatoria dell’autorizzazione paesaggistica successivamente
alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, a
seguito del primo correttivo introdotto con il d.lgs. n. 157
del 2006 (poi ulteriormente modificato dal d.lgs. n. 63 del
2008) è adesso possibile la sanatoria paesaggistica, anche
successivamente alla realizzazione degli interventi, nelle
ipotesi di cui al (nuovo) art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs.
n. 42 del 2004, ossia anche per l’ipotesi in cui si tratti
di intervento di modeste dimensioni che non incida sulle
superfici o sui volumi.
4. Il ricorso è fondato solo in parte, con riguardo
all’impugnazione della sola determinazione (la n. 3, del
15.10.2013) con la quale è stata ordinata la demolizione dei
manufatti per motivi di tutela ambientale.
La giurisprudenza amministrativa, pur evidenziando la
preminenza della tutela paesaggistica nella valutazione dei
contrapposti interessi che vengono in gioco nel governo del
territorio, non ha tuttavia mancato di conferire rilevanza
al profilo della concreta compromissione dei luoghi, nel
senso di escludere che le competenti autorità possano
limitarsi ad una aprioristica negazione della legittimità di
qualsiasi intervento sul territorio senza valutare,
soprattutto per i c.d. abusi edilizi minori, la ricorrenza
di un reale pregiudizio al paesaggio (cfr., in tal senso,
Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1117 del 2013; TAR Campania,
Salerno, sez. I, sent. n. 624 del 2014).
In particolare, si è ritenuto che il provvedimento
amministrativo che neghi all’interessato il rilascio di
un’autorizzazione paesaggistica deve rendere intelligibili
le ragioni del ritenuto contrasto dell'opera con il
paesaggio circostante, così da consentire, se del caso,
l'adozione di eventuali accorgimenti volti a consentire il
recupero della compatibilità ambientale e paesaggistica
(cfr., ex multis, TAR Campania, Salerno, sez. I,
sent. n. 1236 del 2012).
Più in generale, si è posto l’accento sul dovere di
motivazione dell’autorità procedente che, vieppiù con
riguardo ad opere di modesto impatto visivo, deve
evidenziare con chiarezza i profili del ritenuto contrasto
con gli interessi paesaggistici (si vd., ad esempio, TAR
Lombardia, Brescia, sez. II, sent. n. 530 del 2011, con
riferimento ad una recinzione; TAR Sardegna, sez. II, sent.
n. 241 del 2014, con riferimento ad una modesta tettoia).
Ciò, del resto, è in linea con l’evoluzione normativa: se
originariamente l’art. 146, comma 10, lett. c, del d.lgs. n.
42 del 2004 in nessuna ipotesi consentiva il rilascio in
sanatoria dell’autorizzazione paesaggistica successivamente
alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, a
seguito del primo correttivo introdotto con il d.lgs. n. 157
del 2006 (poi ulteriormente modificato dal d.lgs. n. 63 del
2008) è adesso possibile la sanatoria paesaggistica, anche
successivamente alla realizzazione degli interventi, nelle
ipotesi di cui al (nuovo) art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs.
n. 42 del 2004, ossia anche per l’ipotesi in cui si tratti
di intervento di modeste dimensioni che non incida sulle
superfici o sui volumi.
L’impugnata ordinanza di demolizione non si mostra in linea
con le coordinate appena tracciate. Essa infatti, nel
sanzionare la realizzazione di manufatti di scarsa rilevanza
edilizia, non ha indicato le ragioni per le quali si
rinveniva, nella specie, la compromissione del paesaggio o
dell’ambiente, limitandosi a ritenere integrato, in modo del
tutto apodittico, un illecito paesaggistico-ambientale.
Significativa, nella sua assoluta carenza di motivazione, è
invero la lapidaria affermazione (che si legge nella
determinazione n. 3) secondo cui “gli interventi di che
trattasi non possono beneficiare della compatibilità
paesaggistica di cui all’art. 167, comma 4, del D.Lgs.
42/2004 e s.m.i.”, senza che si spieghi in base a quali
elementi di fatto si sia giunti a siffatta conclusione.
Le opere contestate, invero, come si evince dalle fotografie
depositate in giudizio, sono assolutamente modeste e di
scarso impatto visivo, trattandosi di manufatti costruiti
esclusivamente all’interno della proprietà dei ricorrenti (e
difficilmente visibili dall’esterno, come attendibilmente
sostenuto dai ricorrenti, senza che dagli atti, neppure dal
verbale di sopralluogo compiuto dai tecnici comunali,
emergano evidenze contrarie), facilmente amovibili, non in
grado di incidere sulle superfici o sui volumi esistenti
(ciò, anche con riferimento a quello che l’amministrazione
ha denominato “basso fabbricato” il quale, però, è in
realtà assimilabile ad un pergolato, pur se realizzato in
struttura non leggera ed ancorato al suolo: cfr. fotografie
nn. 3 e 4 dei ricorrenti) ed aventi dimensioni di scarso
rilievo
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 15.05.2015 n. 841 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
vero che ai sensi dell’art. 4 del d.m. 26.09.1997
l’applicazione dell’indennità risarcitoria è obbligatoria
anche se dalla predetta valutazione emerga che il parametro
danno sia pari a zero, ma ciò non toglie che la sanzione, ai
sensi dell’art. 167, comma 5, è stabilita in un importo
equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il
profitto conseguito mediante la trasgressione.
La giurisprudenza, al riguardo, ha in più occasioni
affermato che il computo del quantum della sanzione
amministrativa in relazione al “profitto conseguito”, a
differenza di quello effettuato sulla base del “danno
ambientale”, deve avvenire mediante una disamina compiuta ed
esaustiva della documentazione che si profili utile al fine
di ricostruire il vantaggio economico che il trasgressore ha
tratto dall’illecito commesso (da acquisire eventualmente
anche presso quest’ultimo), ossia avvalendosi di elementi
oggettivi di valutazione, di modo che la quantificazione
operata possa essere oggetto di una dimostrazione articolata
ed analitica.
Il profitto conseguito non può essere presunto, in quanto va
identificato nell’incremento del valore venale che gli
immobili acquistano per effetto della trasgressione,
incremento che viene determinato come differenza tra il
valore attuale ed il valore dell’immobile prima
dell’esecuzione delle opere abusive.
Detto in altre termini, il meccanismo di quantificazione del
profitto enucleato dall’art. 3 del d.m. 26.09.1997
ovviamente non prescinde dalla dimostrazione dell’esistenza
di tale arricchimento ottenuto con la realizzazione
dell’abuso, come bene dimostra anche il ricorso allo
strumento della perizia di stima al fine della
determinazione della sanzione pecuniaria, perizia che, nella
vicenda controversa, non risulta essere intervenuta.
---------------
L’indennità di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 ha
carattere restitutorio e non meramente afflittivo, come si
desume dalla sua alternatività rispetto alla demolizione, e
dal fatto che l’art. 167, comma 6, stabilisce che le somme
riscosse «sono utilizzate per finalità di salvaguardia,
nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e
di riqualificazione degli immobili e delle aree degradati».
Tale natura della sanzione in esame la distingue dalle altre
sanzioni pecuniarie, con diversa finalità punitiva, e
preclude l’applicazione di talune delle disposizioni di cui
alla legge n. 689 del 1981, tra cui, appunto, quella sul
cumulo giuridico, presupponente peraltro un’unica azione od
omissione, non postulabile, peraltro, in forza della sola
affermazione dell’unicità della lottizzazione.
---------------
E’ assolutamente prevalente la giurisprudenza secondo cui la
prescrizione della sanzione ex art. 167 dlgs 42/2004
comincia a decorrere dalla cessazione della situazione di
illiceità (e dunque dal giorno del conseguimento
dell’autorizzazione, anche in via di sanatoria, nel caso di
specie risalente al giugno 2010), sicché l’indennità de qua,
riguardando illeciti permanentemente rilevanti, può essere
irrogata anche a distanza di tempo e senza la necessità di
motivazione in ordine al ritardo dell’esercizio del potere.
3. - Con il secondo motivo si deduce poi che i provvedimenti
gravati non hanno quantificato il profitto conseguito dal
proprietario per la realizzazione dell’opera abusiva,
peraltro inesistente, senza neppure effettuare la perizia di
stima.
Il motivo appare meritevole di positiva valutazione, nei
termini che seguono.
Si evince dai provvedimenti impugnati che le opere abusive
non hanno prodotto un danno ambientale, mentre è affermato
il conseguimento di un profitto, senza peraltro darne alcuna
indicazione e, tanto meno, motivazione.
Ora, è vero che ai sensi dell’art. 4 del d.m. 26.09.1997
l’applicazione dell’indennità risarcitoria è obbligatoria
anche se dalla predetta valutazione emerga che il parametro
danno sia pari a zero (in termini anche TAR Umbria,
28.02.2013, n. 126), ma ciò non toglie che la sanzione, ai
sensi dell’art. 167, comma 5, è stabilita in un importo
equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il
profitto conseguito mediante la trasgressione.
Parte ricorrente allega che profitto non vi sia stato, in
quanto le modifiche apportate rispetto agli originari atti
abilitativi hanno riguardato opere interne, la cui
realizzazione non produce un incremento di valore degli
immobili.
Anche tale assunto, evidentemente, non ha un valore
assoluto, ma ciò che inequivocabilmente difetta nei
provvedimenti gravati è la motivazione/giustificazione in
ordine al profitto conseguito, che non può evidentemente
essere presunto, od affermato in modo indimostrato.
La giurisprudenza, al riguardo, ha in più occasioni
affermato che il computo del quantum della sanzione
amministrativa in relazione al “profitto conseguito”,
a differenza di quello effettuato sulla base del “danno
ambientale”, deve avvenire mediante una disamina
compiuta ed esaustiva della documentazione che si profili
utile al fine di ricostruire il vantaggio economico che il
trasgressore ha tratto dall’illecito commesso (da acquisire
eventualmente anche presso quest’ultimo), ossia avvalendosi
di elementi oggettivi di valutazione, di modo che la
quantificazione operata possa essere oggetto di una
dimostrazione articolata ed analitica (in termini TAR Lazio,
I-quater, 13.02.2009, n. 1450).
Il profitto conseguito non può essere presunto, in quanto va
identificato nell’incremento del valore venale che gli
immobili acquistano per effetto della trasgressione,
incremento che viene determinato come differenza tra il
valore attuale ed il valore dell’immobile prima
dell’esecuzione delle opere abusive (TAR Toscana, Sez. III,
16.04.2012, n. 724). Detto in altre termini, il meccanismo
di quantificazione del profitto enucleato dall’art. 3 del
d.m. 26.09.1997 ovviamente non prescinde dalla dimostrazione
dell’esistenza di tale arricchimento ottenuto con la
realizzazione dell’abuso, come bene dimostra anche il
ricorso allo strumento della perizia di stima al fine della
determinazione della sanzione pecuniaria, perizia che, nella
vicenda controversa, non risulta essere intervenuta.
Ne consegue che i provvedimenti impugnati risultano
illegittimi in quanto inficiati dai denunciati vizi di
difetto di motivazione e di istruttoria.
4. - Per completezza, si procede, in sintesi, alla disamina
delle restanti censure.
In particolare, con il terzo motivo si deduce la violazione
dell’art. 8 della legge n. 689 del 1981, nell’assunto che
l’unitarietà delle condotte contestate, interessanti
un’unica lottizzazione, avrebbe dovuto indurre
all’applicazione del più favorevole trattamento del cumulo
giuridico delle sanzioni.
Il motivo non appare persuasivo, in quanto l’indennità di
cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 ha carattere
restitutorio e non meramente afflittivo, come si desume
dalla sua alternatività rispetto alla demolizione, e dal
fatto che l’art. 167, comma 6, stabilisce che le somme
riscosse «sono utilizzate per finalità di salvaguardia,
nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e
di riqualificazione degli immobili e delle aree degradati».
Tale natura della sanzione in esame la distingue dalle altre
sanzioni pecuniarie, con diversa finalità punitiva, e
preclude l’applicazione di talune delle disposizioni di cui
alla legge n. 689 del 1981, tra cui, appunto, quella sul
cumulo giuridico, presupponente peraltro un’unica azione od
omissione, non postulabile, peraltro, in forza della sola
affermazione dell’unicità della lottizzazione.
5. - Deve essere infine disatteso anche l’ultimo mezzo, con
cui si deduce, in via di mero tuziorismo, la prescrizione
quinquennale della sanzione ai sensi dell’art. 28 della
legge n. 689 del 1981, invocando un precedente del TAR
Campania, che la farebbe decorrere dal momento
dell’accertamento dell’illecito.
E’ invero assolutamente prevalente la giurisprudenza, anche
di questo Tribunale Amministrativo (TAR Umbria, 31.03.2011,
n. 97), secondo cui la prescrizione comincia a decorrere
dalla cessazione della situazione di illiceità (e dunque dal
giorno del conseguimento dell’autorizzazione, anche in via
di sanatoria, nel caso di specie risalente al giugno 2010),
sicché l’indennità prevista dall’art. 167, riguardando
illeciti permanentemente rilevanti, può essere irrogata
anche a distanza di tempo e senza la necessità di
motivazione in ordine al ritardo dell’esercizio del potere
(in termini anche Cons. Stato, Sez. I, 31.03.2011, n. 97)
(TAR Umbria,
sentenza 15.05.2015 n. 213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Pa, l’impresa va informata degli ostacoli al
contratto. Appalti. Enti con responsabilità precontrattuale
piena.
La Pubblica amministrazione deve
tenere un comportamento corretto in tutte le fasi della
procedura pubblica che portano al consenso contrattuale e
informare il contraente privato delle circostanze che
potrebbero determinare l’invalidità o l’inefficacia del
contratto. Se non avviene la responsabilità precontrattuale
è dell’ente pubblico.
Lo ha affermato la
Corte di Cassazione, Sez. I civile, nella
sentenza 12.05.2015 n. 9636.
La vicenda che ha dato modo di precisare la portata
applicativa degli articoli 1337 e 1338 del Codice civile
quando uno dei contraenti è una Pa ha visto contrapporsi una
società di costruzioni e il vecchio ministero dei Lavori
pubblici (oggi accorpato a quello dei Trasporti) che, in
seguito a licitazione privata, avevano stipulato un
contratto di appalto per la costruzione per opere nella
laguna di Venezia e sul naviglio Brenta.
Il ministero aveva
proceduto alla consegna immediata dei lavori per ragioni di
urgenza, salvo sospenderli dopo 17 mesi per il no della
Corte dei conti alla registrazione, rendendo il contratto
inefficace. I giudici accogliendo il ricorso dell’impresa
hanno affermato la responsabilità precontrattuale dell'ente
pubblico sottolineando che a questi fini è rilevante la
«correttezza del comportamento complessivamente tenuto» in
tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica che «si
pongono quale strumento di formazione progressiva del
consenso contrattuale».
E in questo contesto, la consegna
dei lavori d’urgenza per un’opera poi divenuta ineseguibile
avrebbe ingenerato nell’impresa «un ragionevole affidamento
in ordine alla regolare esecuzione», mentre il ministero
avrebbe dovuto informare il contraente privato della
possibilità che i giudici contabili negassero la
registrazione, e su eventuali altre incognite per quali il
contratto poteva non andare a buon fine (articolo IL Sole 24 Ore del
13.05.2015). |
PATRIMONIO:
Incidenti, se manca guard-rail paga il gestore
della strada. Sentenza della Cassazione potrebbe pesare sui
bilanci dei comuni.
Le casse dei gestori delle strade, in particolare quelle
delle amministrazioni locali, potrebbero essere messe a
rischio da una recente pronuncia della Corte di Cassazione.
Nella
sentenza 12.05.2015 n. 9547, la III Sez. civile
ha stabilito la responsabilità di un comune per le
conseguenze di un incidente che ha visto finire fuori strada
un autobus in un punto privo di guard-rail. Nel rimettere la
causa alla Corte di Appello competente, il supremo organo
giurisdizionale ha evidenziato la necessità di una
consulenza tecnica che stabilisca se la presenza di adeguate
protezioni avrebbe potuto attutire le conseguenze del fatto
funesto. In questo caso, l'assenza o l'inadeguatezza del
guard-rail, può essere il presupposto per una richiesta di
risarcimento danni.
Nelle motivazioni della sentenza, poi, la Corte di
Cassazione ha sottolineato come la possibilità che un
veicolo esca di strada lungo un tratto pericoloso debba
essere tenuta in considerazione dal gestore dell'arteria,
indipendentemente dal atto che questa evenienza si verifichi
per un'infrazione al Codice da parte del conducente. In tali
casi, l'assenza o l'inadeguatezza del guard-rail, può essere
considerata motivo di responsabilità civile ed essere così
il presupposto per una richiesta di risarcimento danni,
anche, appunto, in presenza di concorso di colpa di chi si
trovava alla guida o di altri soggetti coinvolti.
Infatti, l'attuale dettato normativo e la giurisprudenza
impongono proprio al custode della strada di provvedere
all'installazione e alla manutenzione della segnaletica e
delle pertinenze previste da leggi e regolamenti tecnici,
comprese le protezioni quali i guard-rail o i "new jersey"
(commento tratto
da www.ansa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
necessaria la preventiva acquisizione del permesso di
costruire per la realizzazione di un muro di recinzione
allorquando, avuto riguardo alla sua struttura e
all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da
modificare, come nel caso di specie sia per dimensioni che
per materiali impiegati (muro alto 1,10 m. con sovrastante
ringhiera in metallo di metri 0,80), l'assetto urbanistico
del territorio, rientrando nel novero degli interventi di
nuova costruzione di cui all'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Per quel che concerne, infine, le opere di cui al punto 3,
il Collegio non può che riaffermare, tenuto conto della
consistenza dell’opere di recinzione (muro alto 1,10 m. con
sovrastante ringhiera in metallo di metri 0,80) la
necessaria preventiva acquisizione del permesso di
costruire, tenuto conto che la realizzazione di un muro di
recinzione necessita del previo rilascio del permesso a
costruire allorquando, avuto riguardo alla sua struttura e
all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da
modificare, come nel caso di specie sia per dimensioni che
per materiali impiegati, l'assetto urbanistico del
territorio, rientrando nel novero degli interventi di nuova
costruzione di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R.
06.06.2001 n. 380
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 12.05.2015 n. 6886 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la posa in opera di un cancello in ferro in sostituzione di
un pregresso cancello in materiale ligneo:
- non comporta trasformazione urbanistica ed edilizia tale
da richiedere il rilascio del permesso di costruire;
- in quanto attività edilizia libera o al più integrante
intervento di mera manutenzione ordinaria, esula
dall’assoggettamento ad autorizzazione paesaggistica in
ossequio all’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004, non potendosi
conseguentemente comminare ex art. 167 stesso decreto, la
sanzione della riduzione in pristino per la sua mancata
previa acquisizione.
- Premesso che il ricorrente ha realizzato la posa in opera
di un cancello in ferro in sostituzione di un pregresso
cancello in materiale ligneo;
- Considerato che il ricorrente nella comunicazione inizio
lavori del 05.11.2014, contrariamente a quanto assume il
Comune nel gravato provvedimento, ha indicato la posa del
nuovo cancello in ferro in sostituzione del precedente quale
uno degli oggetti dell’attività che stava ponendo in essere;
- ritenuto che l’apposizione di un cancello non comporta
trasformazione urbanistica ed edilizia (TAR Marche,
08.07.2014 n. 706; TAR Emilia-Romagna – Parma, Sez. I
13.03.2014 n. 81) tale da richiedere il rilascio del
permesso di costruire (TAR Lazio–Latina, 26.10.2011 n. 840;
TAR Molise, 30.05.2013 n. 351);
- ritenuto pertanto che non sussistono i presupposti per
l’applicazione della sanzione demolitoria irrogata ai sensi
dell’art. 31 del DPR n. 380/2001;
- evidenziato che l’apposizione di un cancello, in quanto
attività edilizia libera o al più integrante intervento di
mera manutenzione ordinaria, esula dall’assoggettamento ad
autorizzazione paesaggistica in ossequio all’art. 149 del
d.lgs. n. 42/2004, non potendosi conseguentemente comminare
ex art. 167 stesso decreto, la sanzione della riduzione in
pristino per la sua mancata previa acquisizione
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.05.2015 n. 2600 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Urbanistica, abusivo il titolo edilizio contro i
concorrenti.
L'azienda può bloccare l'insediamento di un concorrente
nella sua zona se ritiene che il competitor abbia ottenuto
un permesso di costruire irregolare: il tutto per il
soppalco che intendere realizzare in sede. Chi teme la
riduzione delle vendite risulta infatti autorizzato a
ricorrere al Tar come portatore di un interesse legittimo,
che la legge indica come vicinanza all'abuso edilizio, ma
che in base a un'interpretazione estensiva ben può essere
ritenuto anche di carattere commerciale.
È quanto emerge dalla
sentenza 11.05.2015 n. 1495, pubblicata dalla III
Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Parcheggio sufficiente. La legittimazione del concorrente a
impugnare il titolo edilizio dell'azienda rivale davanti
deve ritenersi frutto di una lettura «ampliata ed
eccezionale», ma pur sempre sussistente, della nozione
di interesse ad agire.
La normativa indica come requisito per adire il giudice solo
il collegamento con l'area del presunto abuso senza
specificare altro: l'interesse, dunque, ben può essere
patrimoniale invece che alla tutela del paesaggio, laddove
risulta in grado di distinguere la posizione della società
che vuole l'off limits della concorrenza da tutti gli
altri che vivono o operano nell'area.
Nella specie, però, l'operazione non riesce perché il
parcheggio pertinenziale predisposto dall'agenzia
immobiliare concorrente risulta sufficiente anche se a circa
un chilometro di distanza dalla sede. Bisognerà però vedere
se la nuova società utilizzerà davvero il soppalco come
archivio e non come bagno, secondo i sospetti del rivale: in
tal caso potrebbe scattare una nuova causa
(articolo ItaliaOggi del 19.05.2015).
---------------
MASSIMA
Appartiene infatti ad una
giurisprudenza pressoché consolidata il principio secondo
cui l’impugnazione dei titoli edilizi è consentita in capo a
chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento
con la zona interessata dalla costruzione assentita, a
prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di uno
specifico interesse, essendo sufficiente la “vicinitas”
quale elemento che distingue la posizione giuridica di un
soggetto da quella della generalità dei consociati
(Cons. St. IV sez. 18/04/2014 n. 1995; Cons. St. V sez.
21/05/2013 n. 2757; TAR Molise 26/05/2014 n. 346; TAR
Campania–Salerno I sez. 01/10/2012 n. 1750).
Peraltro, un interesse commerciale
declinato in termini di vicinitas determina “un’ipotesi
allargata ed eccezionale di legittimazione che supera i
tradizionali confini della vicinitas per ampliarla a tutela
dell’interesse commerciale”
(TAR Liguria I sez. 26/11/2012 n. 1507). |
EDILIZIA PRIVATA: Sullo
stereotipato (illegittimo) parere contrario del tipo
“Considerato che le modifiche del territorio, consistenti
in profonde trasformazioni morfologiche, alterazione dei
profili e dei pendii naturali, nonché dei muri di sostegno,
appaiono comunque tali da essere incompatibili con la tutela
dei valori paesistico-ambientali”.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che, nel
procedimento per il rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica ridisegnato dal d.lgs. n. 42 del 2004,
l’apporto della Soprintendenza si qualifica, non tanto quale
esercizio di una funzione meramente consultiva, quanto come
espressione di un potere decisorio complesso, cosicché si
richiede una compiuta esposizione delle eventuali ragioni
logico-giuridiche ostative.
Ne consegue che l’eventuale parere negativo deve essere
assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti
e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano di
ammettere un determinato intervento.
Sicché è illegittimo il parere negativo della Soprintendenza
che si è limitata a formulare un’apodittica valutazione di
contrasto con le esigenze di tutela, senza operare puntuali
riferimenti alle caratteristiche concrete del contesto
paesaggistico nel quale si colloca l’iniziativa edificatoria
né agli specifici valori ambientali che ne sarebbero
risultati compromessi.
5) Il terzo e ultimo motivo posto a fondamento del parere
negativo della Soprintendenza è così formulato: “Considerato
che le modifiche del territorio, consistenti in profonde
trasformazioni morfologiche, alterazione dei profili e dei
pendii naturali, nonché dei muri di sostegno, appaiono
comunque tali da essere incompatibili con la tutela dei
valori paesistico-ambientali”.
Come dedotto con il quinto motivo di gravame, anche questa
ragione di diniego (che parrebbe comprendere le opere di
scavo per la realizzazione del nuovo percorso carrabile,
seppure non espressamente menzionate) appare inficiata per
carenza di motivazione.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che, nel
procedimento per il rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica ridisegnato dal d.lgs. n. 42 del 2004,
l’apporto della Soprintendenza si qualifica, non tanto quale
esercizio di una funzione meramente consultiva, quanto come
espressione di un potere decisorio complesso, cosicché si
richiede una compiuta esposizione delle eventuali ragioni
logico-giuridiche ostative (cfr., fra le molte, Cons. Stato,
sez. VI, 25.02.2008, n. 653).
Ne consegue che l’eventuale parere negativo deve essere
assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti
e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano di
ammettere un determinato intervento (TAR Liguria, sez. I,
22.12.2008, n. 2187).
Nel caso in esame, la Soprintendenza si è limitata a
formulare un’apodittica valutazione di contrasto con le
esigenze di tutela, senza operare puntuali riferimenti alle
caratteristiche concrete del contesto paesaggistico nel
quale si colloca l’iniziativa edificatoria né agli specifici
valori ambientali che ne sarebbero risultati compromessi.
Tanto più che il regime di mantenimento (IS-MA) previsto dal
vigente piano paesistico nella zona in cui ricade
l’intervento ammette anche interventi di nuova edificazione,
ritenendo “compatibile con la tutela dei valori
paesistico-ambientali, o addirittura funzionale ad essa, un
incremento della consistenza insediativa o della dotazione
di attrezzature ed impianti”
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 08.05.2015 n. 462 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla
domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come
nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con
vincoli d’inedificabilità assoluta.
Quanto al primo motivo, va ribadito che, così come ha avuto
occasione di affermare questo Tribunale in fattispecie
analoghe alla presente (fra le tante, sez. III, 30.07.2009
n. 1392; sez. III, 14.12.2005, n. 1593; sez. I, 10.12.2001,
n. 180) non può legittimamente formarsi il silenzio-assenso
sulla domanda di condono edilizio relativamente ad opere
che, come nel caso in esame, siano state realizzate in
contrasto con vincoli d’inedificabilità assoluta (cfr.,
altresì, C.G.A., 28.01.2002, n. 39).
Il 16° comma dell'art. 26 della legge regionale 10.08.1985,
n. 37, infatti, esclude espressamente che possa formarsi un
provvedimento implicito di silenzio-assenso sulle istanze di
condono "nei casi di insanabilità di cui al decimo comma"
dell'art. 23, e cioè nelle ipotesi in cui, appunto, le opere
abusivamente realizzate ricadano nella fascia di
inedificabilità assoluta dei 150 metri dalla battigia
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere
preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento,
trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati,
considerato, altresì, che i provvedimenti sanzionatori
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito
delle medesime.
Con riguardo al dedotto vizio di violazione delle garanzie
partecipative, è sufficiente richiamare, sul punto, la
consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale,
secondo cui i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del
procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e
vincolati, considerato, altresì, che i provvedimenti
sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul
carattere non assentito delle medesime (cfr. ex plurimis:
Cons. Stato, IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Sicilia, Palermo,
II, 06.06.2007, n. 1617; 27.03.2007, n. 979; III,
20.03.2006, n. 608; 20.04.2005, n. 577; Catania, III,
03.03.2003, n. 374; TAR Campania, IV, 12.02.2003, n. 797;
14.06.2002, n. 3499; 28.03.2001, n. 1404)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' principio vigente nella materia de qua,
confermato dalla recente legislazione (art. 36, D.P.R.
06.06.2001, n. 380) che esplicitamente richiede la cd.
“doppia conformità” -valevole anche riguardo al caso in
esame- quello secondo cui la concessione edilizia in
sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo
agli strumenti urbanistici vigenti, sia al tempo della sua
realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio
del provvedimento di sanatoria o condono..
L'accertamento di conformità previsto dall'art. 13 della l.
28.02.1985, n. 47, poi confluito nel citato art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, è diretto a sanare le
opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il
previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla
disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui
sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione,
sia al momento della presentazione dell'istanza di
sanatoria.
Il provvedimento di accertamento di conformità assume,
pertanto, una connotazione eminentemente oggettiva e
vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo
l'autorità procedente valutare l'assentibilità dell'opera
eseguita senza titolo, sulla base della normativa
urbanistica e edilizia vigente, in relazione ad entrambi i
momenti considerati dalla norma.
---------------
Alla luce del costante orientamento della giurisprudenza,
non è obbligatorio il parere della commissione edilizia
comunale, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie di
sanatoria, in quanto, tra l’altro, non espressamente
previsto dalla normativa specifica in materia.
Quanto al secondo motivo: la questione essenziale è se
l’immobile di cui trattasi si trovasse sia al tempo della
sua edificazione, sia a quello della richiesta di sanatoria,
secondo la regola della cd. doppia conformità -di cui in
seguito si dirà e che parte ricorrente ha del tutto omesso
di considerare- entro la fascia d’inedificabilità assoluta
dei 150 metri dalla battigia ai sensi del combinato disposto
degli artt. 23 della l.r. n. 37 del 1985 e 15, lett. a),
della l.r. n. 78 del 1976, e, in caso affermativo, se la
costruzione sia stata iniziata prima dell' entrata in vigore
della medesima legge (16.06.1976) e le sue strutture
essenziali portate a compimento entro il 31.12.1976.
Ebbene, va rilevato che parte ricorrente, su cui gravava
tale prova, non ha assolto detto onere, essendosi limitata a
contestare labialmente e genericamente l’attendibilità
probatoria del fotopiano cui ha fatto riferimento il Comune
intimato per accertare che alla data del 15.06.1976
l’immobile de quo non era ancora esistente e neanche in fase
di avvio di edificazione: ne discende, quanto meno, che la
dichiarazione resa sul punto dalla prima proprietaria al
fine dell’ottenimento del titolo edilizio in sanatoria, non
sarebbe veritiera.
Nessuna documentazione ha allegato parte ricorrente (ad es.
atto di acquisto, perizie tecniche, planimetrie, fotografie
aeree, fatture, ricevute, bolle di consegna, relative
all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali,
sopralluoghi, e così via), da valere almeno quale principio
di prova, volto a dimostrare che alla data di commissione
dell’abuso edilizio, e al momento della domanda di
sanatoria, l’immobile non si trovasse entro la fascia dei
150 dalla battigia, non potendo limitarsi a contestare i
dati in possesso del Comune acquisiti, verosimilmente, anche
sulla base della documentazione prodotta in seno all’istanza
di sanatoria, richiamata nella motivazione del diniego di
sanatoria, dalla quale evincere anche la localizzazione
dell’opera (in materia di ripartizione dell'onere della
prova, rispetto al profilo specifico della data di
realizzazione delle opere da sanare, ex multis v. Cons.
Stato, sez. IV, 02.02.2011, n. 752; sez. V, 06.02.1999, n. 124; 24.10.1996, n. 1275; TAR Lazio, Roma,
sez. II, 03.05.2011, n. 3813; TAR Campania, Napoli,
sez. VI, 27.04.2011, n. 2365; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 19.04.2011, n. 1003).
Resta pertanto incontestabile che dalla ripresa aerea del 15.06.1976, sull’area in questione non è stata rilevata
l’esistenza di alcun manufatto, magari in fase di iniziale
edificazione, restando irrilevante l’asserita finalità di
studio per la quale tale ripresa aerea sarebbe stata
originariamente effettuata, poiché ciò, ovviamente, non
incide sul dato notorio che l’aerofotogrammetria è
attualmente il sistema di rilevamento più utilizzato nella
realizzazione di cartografia per uso tecnico attesa la
velocità di tracciamento dei particolari del terreno e la
precisione geometrica che la caratterizza, relativamente a
zone molto ampie di territorio da cartografare.
A fronte di tale omesso principio di prova, ritiene il
Collegio di non poter far uso del proprio potere
acquisitivo, seppur sollecitato dalla ricorrente.
Giova, a questo punto, ricordare che è principio vigente
nella materia de qua, confermato dalla recente legislazione
(art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) che esplicitamente
richiede la cd. “doppia conformità” -valevole anche
riguardo al caso in esame- quello secondo cui la
concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità
del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti,
sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui
si chiede il rilascio del provvedimento di sanatoria o
condono (cfr. TAR Sicilia, Palermo, III, 09.11.2009,
n. 1743; II, 11.02.2003, n. 805; TAR Sicilia,
Catania, I, 09.01.2009, n. 5).
L'accertamento di conformità previsto dall'art. 13 della l.
28.02.1985, n. 47, poi confluito nel citato art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, è diretto a sanare le
opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il
previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla
disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui
sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione,
sia al momento della presentazione dell'istanza di
sanatoria.
Il provvedimento di accertamento di conformità assume,
pertanto, una connotazione eminentemente oggettiva e
vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo
l'autorità procedente valutare l'assentibilità dell'opera
eseguita senza titolo, sulla base della normativa
urbanistica e edilizia vigente, in relazione ad entrambi i
momenti considerati dalla norma.
E’ altrettanto privo di fondamento l’assunto che vorrebbe
attribuire effetto viziante alla mancanza del parere della
Commissione edilizia comunale, alla luce del costante
orientamento della giurisprudenza, anche di questo
Tribunale, secondo il quale non è obbligatorio il parere
della commissione edilizia comunale, ai fini del rilascio
delle concessioni edilizie di sanatoria, in quanto, tra
l’altro, non espressamente previsto dalla normativa
specifica in materia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.10.1998, n. 1306; TAR Sicilia, Palermo, III,
03.05.2012,
n. 906; TAR Lazio, Roma, II-bis, 21.01.2013, n. 646)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio, pur conoscendo quell’orientamento
espresso da una parte della giurisprudenza sulla specifica
questione della rilevanza del lunghissimo lasso di tempo
trascorso tra la commissione dell’abuso e l’esercizio del
potere repressivo che ravvisa un onere di congrua
motivazione -avuto riguardo anche alla entità e alla
tipologia dell'abuso- circa la sussistenza di un pubblico
interesse diverso da quello al ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato, aderisce al diverso indirizzo
giurisprudenziale maggioritario secondo cui il potere di
applicare misure repressive in materia urbanistica può
essere esercitato in ogni tempo e i relativi provvedimenti
non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine
all'interesse pubblico a disporre il ripristino della
situazione antecedente alla violazione, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso allo scopo di
ripristinare l'assetto urbanistico-edilizio violato, anche
nel caso in cui l'abuso sia commesso in data risalente, non
sussistendo alcun affidamento legittimo del contravventore a
vedere conservata una situazione di fatto contra jus che il
tempo non può consolidare, né legittimare l'interessato a
dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in
data antecedente i dovuti atti repressivi.
Quanto al quinto motivo, il Collegio, pur conoscendo
quell’orientamento espresso da una parte della
giurisprudenza sulla specifica questione della rilevanza del
lunghissimo lasso di tempo trascorso tra la commissione
dell’abuso e l’esercizio del potere repressivo che ravvisa
un onere di congrua motivazione -avuto riguardo anche alla
entità e alla tipologia dell'abuso- circa la sussistenza di
un pubblico interesse diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato (v. Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705), aderisce, anche rispetto al caso di
specie, al diverso indirizzo giurisprudenziale maggioritario
secondo cui il potere di applicare misure repressive in
materia urbanistica può essere esercitato in ogni tempo e i
relativi provvedimenti non necessitano di alcuna specifica
motivazione in ordine all'interesse pubblico a disporre il
ripristino della situazione antecedente alla violazione,
essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso allo scopo di ripristinare l'assetto urbanistico-edilizio violato, anche nel caso in cui l'abuso sia
commesso in data risalente, non sussistendo alcun
affidamento legittimo del contravventore a vedere conservata
una situazione di fatto contra jus che il tempo non può
consolidare, né legittimare l'interessato a dolersi del
fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781; V, 11.01.2011, n. 79; IV, 31.08.2010, n. 3955; IV,
01.10.2007, n. 5049 e n.
5050; V, 07.09.2009, n. 5229; IV, 10.12.2007, n.
6344; VI, 19.10.1995, n. 1162; V, 12.03.1996).
Ne consegue, anche, che, nel caso di specie, non è
configurabile la responsabilità ex art. 1218 c.c. in capo al
Comune intimato
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo un consolidato e condiviso orientamento
giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di
demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva,
non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12
comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, D.P.R.
n. 380 del 2001) che comporta l'applicazione della sola
sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione
non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo, perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla
restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione
dell'intera stabilità del manufatto.
RITENUTO che il secondo ricorso per motivi aggiunti è
infondato.
Parte ricorrente, invero, reitera le stesse censure proposte
avverso il presupposto diniego di sanatoria, di cui è stato
già effettuato il vaglio con esito negativo.
Residua l’esame della censura specifica, di cui al secondo
motivo, con la quale si aggiunge che solo una porzione
dell’immobile in cui è inserita l’unità abitativa di
proprietà di parte ricorrente, ricadrebbe entro i 150 m
dalla battigia e che l’eventuale demolizione della parte non
sanabile pregiudicherebbe la staticità dell’edificio nella
sua interezza e, per tale ragione, sarebbe applicabile la
sanzione pecuniaria in alternativa a quella demolitoria.
Invero, secondo un consolidato e condiviso orientamento
giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di
demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva,
non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12
comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, D.P.R. n.
380 del 2001) che comporta l'applicazione della sola
sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione
non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo, perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla
restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione
dell'intera stabilità del manufatto (per tutte TAR
Sicilia, Palermo, III, 11.06.2014, n. 1503).
Nella specie nessuna dimostrazione di tal fatta è stata
fornita dalla ricorrente, che si è limitata ad affermazioni
generiche
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
è il solo rilascio del titolo edilizio a determinare
l’obbligo di versamento degli oneri concessori, dato che
rileva anche l’esecuzione dell’attività edilizia assentita,
con la conseguenza che “ove ci sia stata voltura a favore di
terzi del titolo edilizio da parte dell'originario titolare,
unita al mancato avvio da parte di costui di alcuna attività
edificatoria, l'intestatario iniziale della concessione deve
essere ritenuto libero da ogni obbligo pecuniario nei
confronti dell'ente concedente per oneri concessione e per
contributo di costruzione”, in considerazione del rilievo
che l’avvenuta voltura del titolo edilizio accettata dal
Comune, estingue il rapporto con l’originario dante causa,
perché la voltura del titolo edilizio opera “come una
novazione soggettiva liberatoria del debitore originario per
accettazione del Comune”.
... per l'annullamento:
A) quanto al ricorso introduttivo:
- richiesta di accertamento della insussistenza in capo al
Comune di Tezze sul Brenta del credito di € 4.885,41 di cui
il medesimo Comune si è dichiarato titolare nei confronti
della signora T.G. ed ha chiesto il pagamento alla
ricorrente con lettera del 24.05.2012 prot. n. 6321 e
successiva lettera del 30.05.2013 prot. 6774;
- richiesta di accertamento della insussistenza in capo al
Comune di Tezze sul Brenta del credito di € 235,93 di cui il
medesimo Comune si è dichiarato titolare nei confronti della
signora T.G. per interessi maturati sulla somma di €
4.885,41 e di cui ha chiesto il pagamento mediante cartella
di pagamento n. 12420140004298334 emessa da Equitalia Nord
spa e notificata dalla medesima in data 09.06.2014;
- richiesta di annullamento della cartella di pagamento n.
12420140004298334 emessa da Equitalia Nord spa e notificata
dalla medesima Equitalia Nord spa alla signora T.G. in data
09.06.2014;
...
La ricorrente ha ottenuto dal Comune di Tezze sul Brenta il
permesso di costruire n. 7925 del 02.01.2004 per realizzare
un fabbricato residenziale.
Il Comune ha determinato nella somma di € 4.885,41 l’importo
del contributo per costi di costruzione che sono stati
regolarmente versati.
In data 16.02.2004 i terreni sono stati venduti alla ditta
“l’immobiliare Srl” prima che iniziassero i lavori, e
l’11.03.2004, il Comune ha effettuato la voltura del
permesso di costruire.
Con nota del 24.05.2012, il Comune ha chiesto alla
ricorrente il pagamento di ulteriori somme a titolo di
contributo per il costo di costruzione, a causa del
mutamento di orientamento interpretativo consolidatosi in
giurisprudenza circa la necessità di applicare la misura
minima del 5% prevista dall’art. 16 del DPR 06.06.2001, n.
380, in luogo di quella del 2,5% prevista dalla normativa
regionale da ritenersi implicitamente abrogata per effetto
della sopravvenuta norma statale di principio.
La ricorrente ha prodotto memorie al Comune deducendo di non
essere tenuta al pagamento perché il titolo edilizio era
stato volturato a terzi, senza ottenere alcun riscontro.
Con cartella di pagamento n. 12420140004298334 notificata il
09.06.2014, Equitalia ha chiesto la somma di € 5.365,36, di
cui 4.885,41 per mancato pagamento del contributo di
costruzione, ed € 235,93 per interessi e il resto per spese
di esazione.
...
Il ricorso è fondato per la censura, che ha carattere
assorbente, contenuta nel primo motivo del ricorso
introduttivo e dei motivi aggiunti.
Infatti nel caso all’esame l’ulteriore richiesta di
pagamento degli oneri non poteva essere rivolta nei
confronti della ricorrente che ha ceduto i terreni e ha
provveduto a volturare il titolo edilizio in favore di un
soggetto terzo prima dell’inizio dei lavori.
Sul punto è sufficiente richiamare l’orientamento
giurisprudenziale, che il Collegio condivide, secondo cui
non è il solo rilascio del titolo edilizio a determinare
l’obbligo di versamento degli oneri concessori, dato che
rileva anche l’esecuzione dell’attività edilizia assentita,
con la conseguenza che “ove ci sia stata voltura a favore
di terzi del titolo edilizio da parte dell'originario
titolare, unita al mancato avvio da parte di costui di
alcuna attività edificatoria, l'intestatario iniziale della
concessione deve essere ritenuto libero da ogni obbligo
pecuniario nei confronti dell'ente concedente per oneri
concessione e per contributo di costruzione” (cfr. Tar
Sicilia, Catania, Sez. I 12.10.2010, n. 4104; id. 26.03.2009
n. 60; Tar Toscana, Sez. III, 12.06.2012 n. 1126), in
considerazione del rilievo che l’avvenuta voltura del titolo
edilizio accettata dal Comune, estingue il rapporto con
l’originario dante causa, perché la voltura del titolo
edilizio opera “come una novazione soggettiva liberatoria
del debitore originario per accettazione del Comune”
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.11.2011, n. 6033;
Consiglio Giust. Amm. Sic., 13.10.2011, n. 666; Tar Veneto,
Sez. II, 16.06.2011, n. 1042, punto 5.2 in diritto; Tar
Puglia, Lecce, Sez. II, 14.07.2003, n. 4731; Tar Campania,
Napoli, Sez. V, 12.03.2008, n. 1220).
In definitiva il ricorso deve essere accolto per il primo
dei motivi del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti
che, comportando l’accertamento che la ricorrente non è il
soggetto passivo della pretesa creditoria che il Comune ha
avanzato con le note del 25.05.2012 e del 30.05.2013, e
quindi l’annullamento degli atti impugnati perché rivolti
nei confronti della ricorrente anziché nei confronti della
Società in cui favore è stato volturato il titolo edilizio
ed ha eseguito i lavori, ha carattere assorbente delle
ulteriori censure, con le quali la ricorrente contesta nel
merito la pretesa creditoria del Comune, ed anche della
domanda di risarcimento, formulata espressamente in via
subordinata all’eventuale reiezione di tutte le censure
proposte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 485 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di misure demolitorie il principio generale è che
non sia necessaria alcuna specifica motivazione
sull'esistenza di un interesse pubblico in quanto è
pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera
edilizia, costituisce già di per sé presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire
manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita
di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione.
---------------
E' stata in giurisprudenza dibattuta la particolare
ipotesi in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo tra
la commissione dell'abuso, il suo accertamento e l'adozione
della misura sanzionatoria e sul punto sono emersi diversi
orientamenti giurisprudenziali.
Il Collegio aderisce alla prevalente tesi che non richiede
alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico
indipendentemente dal passaggio del tempo dall'abuso o dal
suo accertamento e il provvedimento sanzionatorio non
potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non
potendo l'interessato dolersi del fatto che
l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi.
Nel caso di abusi edilizi, infatti, vi è un soggetto che
pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell'ordinamento e che confida nell'omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza:
di contro, l'abuso edilizio rappresenta un illecito
permanente integrato dalla violazione dell'obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento
repressivo dell'Amministrazione non è emanato a distanza di
tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una
situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Si rileva poi che consentire la possibilità di non
sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di
un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione,
significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso
elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un
dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa
all'apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto
pressoché impossibile da sindacare nella presente sede
giurisdizionale, con intuibile possibilità di
strumentalizzazioni.
Inoltre, nel caso di specie, i manufatti abusivi ricadono in
zona sottoposta oltre che a vincolo paesaggistico, a vincolo
assoluto d’inedificabilità e ciò induce a escludere, già in
via autonoma, la necessità di motivare l'esistenza di un
interesse pubblico alla demolizione la cui prevalenza
sull'interesse privato deve considerarsi in re ipsa.
Altrettanto destituito di fondamento è il quarto e ultimo
motivo.
In materia di misure demolitorie il principio generale è che
non sia necessaria alcuna specifica motivazione
sull'esistenza di un interesse pubblico in quanto è
pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera
edilizia, costituisce già di per sé presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire
manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis Cons.
Stato, VI, 28/06/2004, n. 4743; id., sez. V, 10/07/2003, n.
4107; TAR Napoli, Sez. IV, 04/02/2003, n. 617; 15/07/2003,
n. 8246) e come tale non necessita di una puntuale
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un
bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti
e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione
(Cons. Stato Sez. VI, 28/01/2013, n. 496; id. Sez. IV,
28/12/2012, n. 6702).
Stante questo principio generale, è stata in giurisprudenza
dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un
notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso, il
suo accertamento e l'adozione della misura sanzionatoria e
sul punto sono emersi diversi orientamenti
giurisprudenziali.
Il Collegio, anche riguardo al caso di specie, aderisce alla
prevalente tesi che non richiede alcuna specifica
motivazione sull'interesse pubblico indipendentemente dal
passaggio del tempo dall'abuso o dal suo accertamento e il
provvedimento sanzionatorio non potendo ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare e non potendo
l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non
abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi
(Cons. Stato, Sez. VI, 21/10/2013, n. 5088; id., Sez. VI,
04/10/2013, n. 4907; Cons. Stato Sez. VI, 28/01/2013, n.
496; id., Sez. IV, 16/04/2012, n. 2185; id. Sez. IV,
28/12/2012, n. 6702, id., Sez. VI, 27/03/2012, n. 1813; id.,
Sez. IV, 27/10/2011, n. 5758; id., Sez. IV, 20/07/2011, n.
4403; id., Sez. V, 27/04/2011, dalla n. 2497 alla n. 2527;
id., Sez. V, 11/01/2011, n. 79; id., Sez. V, 09/02/2010, n.
628; TAR Milano Sez. II, 08/09/2011, n. 2183; TAR Lazio Sez.
I-quater, 23/06/2011, n. 5582; TAR Napoli Sez. III,
16/06/2011, n. 3211; id., Sez. VIII, 09/06/2011, n. 3029).
Nel caso di abusi edilizi, infatti, vi è un soggetto che
pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell'ordinamento e che confida nell'omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza:
di contro, l'abuso edilizio rappresenta un illecito
permanente integrato dalla violazione dell'obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento
repressivo dell'Amministrazione non è emanato a distanza di
tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una
situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento
(TAR Brescia, Sez. I, 22/02/2010, n. 860).
Si rileva poi che consentire la possibilità di non
sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di
un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione,
significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso
elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un
dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa
all'apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto
pressoché impossibile da sindacare nella presente sede
giurisdizionale, con intuibile possibilità di
strumentalizzazioni (TAR Napoli, Sez. IV, 22.05.2013, n.
2679).
Inoltre, nel caso di specie, i manufatti abusivi ricadono in
zona sottoposta oltre che a vincolo paesaggistico, a vincolo
assoluto d’inedificabilità e ciò induce a escludere, già in
via autonoma, la necessità di motivare l'esistenza di un
interesse pubblico alla demolizione la cui prevalenza
sull'interesse privato deve considerarsi in re ipsa
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 05.05.2015 n. 1080 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla veranda non si bluffa. Consiglio di stato:
manufatti metallici addio.
Altro che volume tecnico. Quel manufatto in alluminio sul
balcone è una vera e propria veranda e deve essere abbattuta
perché realizzata senza permesso di costruire: il fatto che
la struttura contenga davvero la caldaia non basta di per sé
a trasformarla in un locale «servente», quasi fosse una
pertinenza, se le dimensioni risultano ben maggiori rispetto
alla superficie sufficiente a contenere gli impianti
tecnologici.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 04.05.2015 n. 2226.
Funzione e natura
Niente da fare per il proprietario: dovrà rassegnarsi a
smantellare il manufatto in alluminio che ha realizzato sul
balcone, addossandolo al muro perimetrale dell'edificio. E
ciò perché l'opera costituisce un vero abuso edilizio: è a
tutti gli effetti una veranda realizzata contro legge.
A
fare di un manufatto una veranda, infatti, non conta se
l'opera risulta chiusa da tutti i lati. Ciò che rileva
invece è la funzione svolta, mentre bastano l'incremento dei
volumi e la modifica della sagoma dell'edificio a integrare
la violazione delle norme edilizie: i locali hanno anche
l'impianto idrico ed elettrico e dunque non possono affatto
essere considerati una centrale termica.
Le dimensioni del
locale «incriminato» -che misura un metro e mezzo, per
quasi un metro e tre metri e venti- confermano che si
tratta di una veranda che è soltanto «travestita» da locale
caldaia. Al proprietario non resta che pagare 3 mila euro di
spese per i due gradi di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la giurisprudenza le risultanze catastali costituiscono
sempre un elemento probatorio generico e di carattere
sussidiario, al quale si può ricorrere solo nei casi di
obiettiva e assoluta mancanza di altri elementi e che non
può assumere una rilevanza probatoria assoluta, quale è
quella che, invece, illegittimamente ha inteso attribuirgli
il Comune.
E nel caso di specie, a supporto dell’ordinanza di
demolizione gravata il Comune ha indicato il mero confronto
tra mappe catastali da cui risulterebbero incongruenze che
secondo il Comune stesso testimonierebbero l’esecuzione di
opere abusive oltre che su di una CTU dalla quale
emergerebbe la natura abusiva delle opere realizzate sui
lotti in questione.
Il Comune, tuttavia, non ha ritenuto di effettuare nemmeno
un sopralluogo per verificare la situazione di fatto ed
accertare se la differenza tra le mappe catastali osservate
fosse effettivamente dovuta ad un intervento abusivo ovvero
ad un’imperfetta rappresentazione operata in sede di
redazione grafica delle tavole catastali.
---------------
Nella relazione del CTU, depositata nel giudizio pendente
innanzi al Tribunale civile, si afferma che all’esito del
sopralluogo compiuto dal CTU in data 10.03.2014: <<si è
osservato, oltre allo stato dei luoghi in riferimento alle
planimetrie catastali in possesso finora descritto e
graficizzato, anche lo stato delle murature che
costituiscono i fabbricati oggetto di causa per riuscire a
fare un’esatta analisi storica. Si è riscontrata l’antichità
della costruzione che presenta pareti in muratura formate da
ciottoli e si può affermare, pertanto, che data l’antica
tipologia costruttiva il fabbricato è sicuramente precedente
al 1967>>.
Nella successiva relazione depositata in data 01.12.2014 nel
medesimo giudizio civile, lo stesso CTU rileva inoltre la
scarsa affidabilità delle planimetrie catastali, ribadendo
che l’edificio non ha subito ampliamenti negli ultimi 50
anni.
Il presupposto del gravato provvedimento consistente nella
realizzazione di interventi non autorizzati in epoca
successiva al 1967 risulta contraddetto in modo convincente
e circostanziato nella ripetuta relazione di CTU che ha
posto in evidenza taluni elementi fattuali (stile
architettonico e materiali adoperati) che depongono
univocamente per la conclusione ivi raggiunta dal CTU,
secondo cui gli ultimi interventi sul fabbricato di
proprietà del ricorrente risalgono ad oltre 50 anni fa.
---------------
La giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di
richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire)
per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto
dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942
esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n.
765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo
ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale.
... per l'annullamento dell’ordinanza del Responsabile del
Settore Urbanistica del Comune di Bojano n. 8 del
22.01.2014, successivamente notificata in data 27.01.2014
con cui viene ingiunta al ricorrente la demolizione e
rimessa in pristino di una parte del fabbricato di proprietà
e di ogni ulteriore atto presupposto, consequenziale e
comunque connesso;
- nonché per la condanna del Comune di Bojano al
risarcimento dei danni subiti e subendi dal ricorrente per
effetto dei provvedimenti impugnati e della condotta
gravemente colposa dell'Amministrazione.
...
Il motivo di ricorso è meritevole di accoglimento alla
stregua delle puntualizzazioni che di seguito si espongono.
In effetti a supporto dell’ordinanza gravata il Comune di
Bojano ha indicato il mero confronto tra mappe catastali da
cui risulterebbero incongruenze che secondo il Comune
testimonierebbero l’esecuzione di opere abusive oltre che su
di una CTU dalla quale emergerebbe la natura abusiva delle
opere realizzate sui lotti in questione.
Il Comune, tuttavia, non ha ritenuto di effettuare nemmeno
un sopralluogo per verificare la situazione di fatto ed
accertare se la differenza tra le mappe catastali osservate
fosse effettivamente dovuta ad un intervento abusivo ovvero
ad un’imperfetta rappresentazione operata in sede di
redazione grafica delle tavole catastali.
A tale proposito il Collegio rileva che secondo la
giurisprudenza le risultanze catastali costituiscono sempre
un elemento probatorio generico e di carattere sussidiario,
al quale si può ricorrere solo nei casi di obiettiva e
assoluta mancanza di altri elementi e che non può assumere
una rilevanza probatoria assoluta, quale è quella che,
invece, illegittimamente ha inteso attribuirgli il Comune di
Bojano (cfr. ex multis TAR Basilicata, 14.09.2014, n.
584).
Vero è che l’ordinanza richiama anche una relazione
peritale, ma dalle risultanze ivi rassegnate il Collegio
ritiene non potersi giungere ad alcuna conclusione che
avvalori la pretesa natura abusiva delle opere indicate nel
gravato provvedimento.
Diversamente la relazione del medesimo CTU, depositata nel
giudizio pendente innanzi al Tribunale civile di Bucarest
(RG n. 1111/2010) depone per la conclusione esattamente
opposta. Nella relazione si afferma che all’esito del
sopralluogo compiuto dal CTU in data 10.03.2014: <<si è
osservato, oltre allo stato dei luoghi in riferimento alle
planimetrie catastali in possesso finora descritto e
graficizzato, anche lo stato delle murature che
costituiscono i fabbricati oggetto di causa per riuscire a
fare un’esatta analisi storica. Si è riscontrata l’antichità
della costruzione che presenta pareti in muratura formate da
ciottoli e si può affermare, pertanto, che data l’antica
tipologia costruttiva il fabbricato è sicuramente precedente
al 1967>>. Nella successiva relazione depositata in data
01.12.2014 nel medesimo giudizio civile, lo stesso CTU
rileva inoltre la scarsa affidabilità delle planimetrie
catastali, ribadendo che l’edificio non ha subito
ampliamenti negli ultimi 50 anni.
Il presupposto del gravato provvedimento consistente nella
realizzazione di interventi non autorizzati in epoca
successiva al 1967 risulta contraddetto in modo convincente
e circostanziato nella ripetuta relazione di CTU che ha
posto in evidenza taluni elementi fattuali (stile
architettonico e materiali adoperati) che depongono
univocamente per la conclusione ivi raggiunta dal CTU,
secondo cui gli ultimi interventi sul fabbricato di
proprietà del ricorrente risalgono ad oltre 50 anni fa.
Ciò sottrae eventuali ampliamenti realizzati sul corpo di
fabbrica del ricorrente alla disciplina edilizia
autorizzativa introdotta a partire dalla l. n. 765/1967.
E infatti, la giurisprudenza consolidata evidenzia che
l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di
costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato
introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942
esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n.
765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo
ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale
(TAR Umbria, Sez. I, 10.05.2013, n. 281; TAR Campania, sez.
VI, 15.09.2010, n. 17416; TAR Umbria, sez. I, 14.07.1981, n.
250).
Tali rilievi, unitamente all’evidenziato deficit
dell’istruttoria comunale sottesa al gravato provvedimento
conducono all’accoglimento del gravame, non potendosi
riscontrare alcuna mancanza di titoli abilitativi, come
invece ritenuto nell’impugnato provvedimento.
Né potrebbe disporsi la sospensione del presente
procedimento, come richiesto da parte resistente, atteso che
esso non “dipende” in alcun modo da quello pendente
innanzi al Tribunale civile di Campobasso.
Nel presente giudizio, assume rilievo la CTU predisposta nel
procedimento pendente innanzi al Tribunale di Campobasso
limitatamente all’analisi e descrizione della situazione di
fatto, senza che assuma rilievo l’esito di quel giudizio del
tutto distinto ed autonomo dal presente.
Peraltro, la ragionevolezza degli argomenti impiegati e
l’assenza di evidenti vizi logici, consentono al Collegio di
utilizzare le medesime risultanze anche per fondare il
proprio convincimento, senza la necessità di esperire un
analogo accertamento sulla datazione delle opere oggetto di
causa anche nel presente giudizio.
Il ricorso deve pertanto essere accolto e il diniego
impugnato dichiarato illegittimo ed annullato
(TAR Molise,
sentenza 04.05.2015 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In virtù dell’art. 2043 del codice civile,
qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un
danno ingiusto, obbliga colui che lo ha commesso a risarcire
il danno, conseguendone che sono elementi costitutivi
dell’illecito extracontrattuale: il fatto illecito, il nesso
di causalità, l’ingiustizia (o antigiuridicità) del danno,
la colpevolezza e il danno.
Dal punto di vista processuale va, peraltro, osservato che
anche il processo amministrativo è regolato dal principio
dell'onere della prova, contenuto nell'art. 2697 c.c., in
base al quale chi vuole far valere in giudizio un diritto
deve indicare e provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento, come, del resto, ora chiaramente disposto
dall’art. 64 c.p.a., che stabilisce, per l’appunto, che
“Spetta alle parti l'onere di fornire gli elementi di prova
che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti
a fondamento delle domande e delle eccezioni” (comma 1) e
che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve
porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle
parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle
parti costituite” (comma 2).
Grava, conseguentemente, su chi si pretende danneggiato il
preciso onere di allegare e provare i citati elementi
costitutivi della domanda di risarcimento del danno per
fatto illecito dato che, in presenza di fattispecie di danno
risarcibile, la condanna all’effettivo risarcimento non è
conseguenza automatica dell’illegittimità dell’atto.
La domanda risarcitoria va, invece, respinta, in quanto,
nella fattispecie portata all’attenzione di questo giudice,
non si ravvisano i presupposti per darvi corso.
Al riguardo, non appare ultroneo rammentare che, in virtù
dell’art. 2043 del codice civile, qualunque fatto doloso o
colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga
colui che lo ha commesso a risarcire il danno, conseguendone
che sono elementi costitutivi dell’illecito
extracontrattuale: il fatto illecito, il nesso di causalità,
l’ingiustizia (o antigiuridicità) del danno, la colpevolezza
e il danno.
Dal punto di vista processuale va, peraltro, osservato che
anche il processo amministrativo è regolato dal principio
dell'onere della prova, contenuto nell'art. 2697 c.c., in
base al quale chi vuole far valere in giudizio un diritto
deve indicare e provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento, come, del resto, ora chiaramente disposto
dall’art. 64 c.p.a., che stabilisce, per l’appunto, che “Spetta
alle parti l'onere di fornire gli elementi di prova che
siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a
fondamento delle domande e delle eccezioni” (comma 1) e
che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve
porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle
parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle
parti costituite” (comma 2).
Grava, conseguentemente, su chi si pretende danneggiato il
preciso onere di allegare e provare i citati elementi
costitutivi della domanda di risarcimento del danno per
fatto illecito dato che, in presenza di fattispecie di danno
risarcibile, la condanna all’effettivo risarcimento non è
conseguenza automatica dell’illegittimità dell’atto.
Nella fattispecie nessun elemento specifico è stato addotto
dal ricorrente e conseguentemente la pretesa risarcitoria
non può essere accolta
(TAR Molise,
sentenza 04.05.2015 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’onere
della prova circa la data di realizzazione di un immobile
abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso: secondo il
principio generale previsto dall'art. 2697 del codice
civile, infatti, <<chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento>>, e con riguardo alla data di realizzazione di
opere, si è affermato che è onere del privato fornire la
prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la
pubblica Amministrazione non può di solito materialmente
accertare quale fosse la situazione dell'intero suo
territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato
è normalmente in grado di esibire idonea documentazione
comprovante la conclusione dell’opera.
---------------
La giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di
richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire)
per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto
dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942
esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n.
765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo
ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale.
Elemento centrale del giudizio odierno consiste nello
stabilire se le opere indicate nell’istanza di Permesso di
costruire e, precedentemente, nell’ordine di demolizione n.
28 del 20.09.2010 costituiscano o meno manufatti abusivi,
realizzati, cioè, ex novo in violazione delle
disposizioni urbanistiche ovvero, come sostenuto dal
ricorrente, si tratti solo di parti dell’edificio
preesistenti oggetto di semplici interventi di manutenzione.
Ciò premesso, in linea di principio l’onere della prova
circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta
a chi ha commesso l'abuso (Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2012,
n. 478): secondo il principio generale previsto dall'art.
2697 del codice civile, infatti, <<chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento>>, e con riguardo alla data
di realizzazione di opere, si è affermato che è onere del
privato fornire la prova sulla data di ultimazione
dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può di
solito materialmente accertare quale fosse la situazione
dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge,
mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea
documentazione comprovante la conclusione dell’opera (cfr.
da ultimo TAR Molise, 13.03.2015, n. 107; TAR Lombardia
Brescia, Sez. II, 02.10.2013, n. 814; Consiglio di Stato,
sez. IV, 27.11.2010 n. 8298; si veda anche TAR Campania,
sez. VIII – 02.07.2010 n. 16569; TAR Lombardia Brescia, sez.
I – 08.04.2010, n. 1506; TAR Lombardia Brescia, Sez. II,
02.10.2013, n. 814).
Ritiene il Collegio che tale onere sia stato assolto nella
fattispecie con il deposito da parte della ricorrente in
data 02.01.2015 della Consulenza Tecnica d’Ufficio eseguita
nell’ambito del procedimento civile (contrassegnato dal
numero di RG 1111/2010) pendente innanzi al Tribunale di
Campobasso civile tra lo stesso sig. -OMISSIS- e la società
proprietaria di un terreno confinante, avente ad oggetto i
terreni e le opere su cui verte anche il presente giudizio.
La relazione preparata dal CTU incaricato dal Tribunale,
esamina dettagliatamente lo stato dei luoghi, confrontandoli
con le risultanze catastali ed evidenzia che queste ultime
non corrispondono perfettamente ai primi. Con particolare
riferimento alla particella catastale 564 (fg. 24) su cui in
particolare insisterebbero, secondo quanto rilevato
nell’ordinanza di demolizione n. 28/2010, gli ampliamenti
abusivamente realizzati per i quali è stato richiesto il
Permesso in sanatoria, la relazione premette che i rilievi
aerofotogrammetrici eseguiti nel 1963 testimoniano
l’esistenza, già a quel tempo, di una costruzione nella zona
in questione.
Ciò che più rileva, però, è la specifica considerazione del
consulente tecnico (contenuta alla pag. 12 della relazione
de 14.09.2014) secondo cui la contestazione effettuata in
quel giudizio in base alla quale sarebbero stati realizzati
sulla particella 564 interventi edilizi successivi alla
costruzione “non è stata riscontrata, in quanto,
dall’analisi del fabbricato, non risultano effettuati di
recente ampliamenti o opere rientranti nella straordinaria
manutenzione, ma solo opere, sia interne che esterne,
ordinaria manutenzione come riscontrato anche dal tecnico
comunale”.
Ne consegue che il presupposto dell’assenza di titoli
abilitativi per gli interventi realizzati sulla predetta
particella su cui si fonda l’ordine di demolizione e, per
quello che interessa nel presente giudizio, anche il gravato
diniego di rilascio del Permesso in sanatoria risultano
smentiti dalla ripetuta relazione di CTU, in modo
convincente e circostanziato evidenziando taluni elementi
fattuali (stile architettonico e materiali adoperati) che
depongono univocamente per la conclusione secondo cui gli
ultimi interventi edilizi sul fabbricato di proprietà del
ricorrente risalirebbero ad oltre 50 anni fa.
Ciò sottrae eventuali ampliamenti realizzati sul corpo di
fabbrica del ricorrente alla disciplina edilizia
autorizzativa introdotta a partire dalla l. n. 765/1967 e
dal conseguente obbligo di munirsi di eventuali titoli
abilitativi.
E infatti, la giurisprudenza consolidata evidenzia che
l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di
costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato
introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942
esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n.
765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo
ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale
(TAR Umbria, Sez. I, 10 maggio 2013, n. 281; TAR Campania,
sez. VI, 15 settembre 2010, n. 17416; TAR Umbria, sez. I, 14
luglio 1981, n. 250)
(TAR Molise,
sentenza 04.05.2015 n. 182 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Impianti, chi si distacca paga.
Il condominio non può sopportare i costi di adattamento.
La Cassazione sul riparto spese di riscaldamento autonomo e
valvole termostatiche.
Nel caso in cui un condomino abbia provveduto a installare
nel proprio appartamento un impianto autonomo di
riscaldamento aggiuntivo a quello centralizzato, la
successiva installazione delle valvole termostatiche che
comporti la difficoltà di tenere distinti i consumi relativi
ai diversi impianti può essere corretta dal punto di vista
tecnico, ma gli eventuali maggiori costi derivanti da tale
adattamento rimangono interamente a carico del condomino che
vi ha dato causa.
Questo il principio che si può evincere
dalla
sentenza
29.04.2015 n. 8724 della II Sez. civile della
Corte di Cassazione.
Nel caso di specie un condomino aveva impugnato la delibera
con cui l'assemblea aveva deciso di installare le valvole
termostatiche sui singoli elementi radianti collegati al
riscaldamento centralizzato e di ripartire i consumi annuali
per il 20% in base alla tabella millesimale e per l'80%
secondo i consumi effettivi rilevati dai contatori. Il
condomino, che sosteneva di avere installato un impianto
aggiuntivo autonomo nel proprio appartamento, si lamentava
del fatto che così facendo sarebbe stato tecnicamente
impossibile distinguere i consumi dell'impianto comune da
quelli dell'impianto autonomo, così di fatto privandolo del
diritto di utilizzare anche quest'ultimo in alternativa a
quello centralizzato, pena l'addebito di spese
ingiustificate e comunque non controllabili.
L'impugnazione, disattesa in primo grado, era invece stata
accolta dai giudici di appello, costringendo quindi il
condominio a portare la questione dinanzi alla Suprema
corte.
I giudici di legittimità hanno quindi avuto modo di chiarire
in primo luogo il fatto che la scelta (libera) di ogni
condomino di distaccarsi dall'impianto centralizzato, oltre
a dover essere esercitata con le modalità volta per volta
previste dalla normativa temporalmente e territorialmente
applicabile, non può mai concretarsi in un aggravio di costi
per la collettività condominiale, essendo finalizzata a
soddisfare interessi personali. Tuttavia, ferma restando la
legittimità della delibera condominiale con la quale si
adotti il sistema di termoregolazione, la Cassazione ha
parimenti osservato come sia nel diritto del condomino che
si sia distaccato dall'impianto centralizzato ottenere, ove
tecnicamente possibile, di eliminare il rischio di una
sovrapposizione dei consumi con soluzioni che non comportino
maggiori costi per la compagine condominiale.
Di qui la decisione di cassare la sentenza impugnata e di
rinviarla ad altra sezione della corte di appello, proprio
allo scopo di appurare nello specifico la possibilità
tecnica di installare, a parità di spesa, le valvole
termostatiche con modalità tali da rendere trasparenti i
consumi dell'impianto centralizzato e di quello autonomo. In
caso contrario, infatti, ove cioè detta soluzione comporti
maggiori spese per gli altri condomini, i giudici sono stati
chiari nell'evidenziare come i relativi costi non possano
che essere sopportati dal condomino nell'interesse esclusivo
del quale sia stato installato l'impianto autonomo.
---------------
L'iter corretto da seguire.
La riforma del condominio ha inserito nell'ambito della
normativa condominiale una nuova disposizione che consente
il distacco dall'impianto centralizzato. Questa possibilità
era già stata ammessa dai giudici, che avevano anche
precisato le condizioni per distaccarsi dall'impianto
comune.
La legge di riforma si è limitata a recepire i principi
affermati dalla giurisprudenza, senza precisare però il
corretto iter da seguire per evitare un distacco
illegittimo. Si deve considerare, infatti, che l'impianto di
riscaldamento viene dimensionato e progettato per servire un
determinato numero di unità immobiliari. Di conseguenza il
distacco (soprattutto se multiplo) può determinare problemi
tecnici tali da non garantire condizioni climatiche adeguate
nei vari alloggi. Il problema è che la legge non prevede
l'obbligo di preventiva informazione all'amministratore o
all'assemblea.
Tuttavia, se si vuole scongiurare il pericolo
di interminabili liti giudiziarie, il condomino che intende
distaccarsi (prima di iniziare le operazioni) dovrà
informare l'amministratore (che a questo punto dovrà
rimettere la questione all'assemblea), dimostrando la
sussistenza delle condizioni di legge e, cioè, l'assenza di
notevole squilibrio termico e la mancanza di aggravio delle
spese.
In ogni caso il condomino rinunciante, mentre è esonerato
dal dover sostenere le spese per l'uso del servizio
centralizzato, è invece obbligato a concorrere nelle spese
di conservazione e manutenzione (e messa a norma)
dell'impianto centralizzato. È vero, infatti, che il
condomino non perde la proprietà proporzionale
dell'impianto, bensì ne rinuncia al solo godimento.
- Il notevole squilibrio termico. Bisogna rilevare che se
l'abitazione del condominio che si vuole distaccare si
trova, per esempio, al primo piano dello stabile, confinante
sopra e sotto e su tutti i lati con vani di proprietà di
altri condomini che usufruiscono dello stesso impianto di
riscaldamento, ne deriva, per immediata percezione, che
l'interruzione del riscaldamento nei locali al primo piano
comporterà per i vicini una diminuzione di calore.
Come
hanno chiarito i giudici, però, la diminuzione di calore che
subiscono i condomini confinanti con il distaccato non può
essere considerata come notevole squilibrio termico.
Tuttavia se lo squilibrio può non essere notevole con un
distacco o due, potrebbe quasi sicuramente esserlo al terzo
o al quarto (dipendendo dal numero delle unità servite).
Pertanto i primi condomini potranno distaccarsi, mentre
quelli successivi, incorrendo nel divieto, dovranno
astenersene. Occorrerà pertanto valutare caso per caso a
seconda dei singoli impianti interessati.
- L'aggravio delle spese. Secondo la legge è sufficiente
l'aumento di pochi centesimi di spesa a carico degli altri
condomini perché si concretizzi l'aggravio di spesa e quindi
il distacco sia da considerarsi illegittimo. Pertanto,
seppure lo squilibrio funzionale fosse minimo, ma il
distacco determinasse un piccolo aumento di spesa, la
rinuncia al servizio sarebbe illegittima. Di conseguenza i
soggetti che si distaccano rimangono obbligati alla
corresponsione anche delle spese di esercizio (carburante,
corrente elettrica ecc.) se e nella misura in cui dal loro
distacco non consegua una diminuzione di tali oneri a carico
degli altri condomini: se le spese rimangono uguali non è
corretto che i rimanenti fruitori del servizio si facciano
carico anche delle spese di chi non ne fruisce.
- Il problema del contrasto tra legislazione nazionale e
regionale. La legge di riforma del condominio si è quindi
preoccupata che dall'intervento non derivino squilibri
all'impianto termico o aggravi di spesa per gli altri
condomini, ma ha totalmente ignorato di considerare se
l'intervento (o gli interventi nel medesimo palazzo) non
vadano a inquinare o a consumare di più rispetto a quanto
già faceva l'impianto centralizzato.
In altre parole, la
nuova norma che consente il distacco non è inserita in una
disciplina organica avente a oggetto il contenimento dei
consumi energetici e, pertanto, non è preordinata al
perseguimento di finalità di risparmio energetico né di
riduzione delle emissioni inquinanti. Tutto questo in
controtendenza rispetto a quanto prevede quella diversa
legislazione nazionale che ha recepito le direttive europee
in materia di contenimento de consumi energetici, la quale
preferisce il mantenimento degli impianti centralizzati
rispetto alla creazione di nuovi impianti autonomi.
Del resto, emerge come anche nella disciplina regionale si
ritenga preferibile -dal punto di vista tecnico- il
mantenimento degli impianti centralizzati negli edifici
esistenti, impedendo la loro trasformazione in impianti
autonomi, a meno che non esistano cause tecniche o di forza
maggiore che rendono necessaria tale trasformazione. In
particolare le regioni più virtuose, esercitando la
concorrente potestà legislativa loro spettante in materia,
hanno introdotto da tempo divieti o limitazioni
all'installazione di impianti termici individuali.
Così la regione Piemonte ha ritenuto, nell'ambito della sua
potestà legiferante, di vietare, in un'ottica di
salvaguardia dell'aria e del miglioramento delle prestazioni
energetiche degli edifici piemontesi, gli interventi
finalizzati al distacco e alla trasformazione di impianti
centralizzati in autonomi negli edifici che hanno più di 4
unità abitative.
Nella legislazione della regione Lombardia,
nel caso di edifici costituiti da o più unità immobiliari
nelle quali si sia optato per l'installazione di impianti
termici indipendenti per ciascuna unità immobiliare, anche a
seguito di decisione condominiale di dismissione
dell'impianto termico centralizzato o di decisione autonoma
del singoli, permane invece l'obbligo di produrre, oltre a
una relazione tecnica, l'attestato di prestazione
energetica.
In altre parole è fatto obbligo al responsabile
dell'impianto autonomo di realizzare preliminarmente una
verifica energetica che metta a confronto diverse soluzioni
impiantistiche, redigendo altresì una relazione con le
motivazioni della soluzione prescelta. E quando la somma dei
singoli impianti è uguale o maggiore di 100 kW, oltre alla
relazione tecnica e all'Ace, bisogna produrre anche la
diagnosi energetica
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’annullamento
d’ufficio di provvedimenti amministrativi (come, nel caso di
specie, quelli abilitativi all’edificazione) è disciplinato
dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 07.08.1990, nel
testo introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005, n. 15,
come successivamente modificato ed integrato, in termini che
confermano (richiedendo la sussistenza di ragioni di
interesse pubblico, da far valere entro un “termine
ragionevole”, nonché “tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati”) il pacifico indirizzo
giurisprudenziale, secondo cui l’autotutela costituisce
espressione di un potere discrezionale dell’Amministrazione,
sindacabile (per quanto riguarda la ragionevolezza del
termine, l’avvenuto bilanciamento di interessi e la
motivazione fornita) nei noti limiti, che circoscrivono al
riguardo il giudizio di legittimità.
Non appaiono condivisibili, pertanto, alcune delle
argomentazioni difensive del comune resistente, secondo cui
l’annullamento in via di autotutela di titoli abilitativi,
come quelli di cui si discute, non richiederebbe “una
motivazione dell’interesse pubblico, diversa dalla necessità
di ripristinare la legalità violata, stante la natura di
illecito permanente dell’abuso”, così come non potrebbe
ammettersi “alcun affidamento tutelabile alla conservazione
di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
avere legittimato”.
Così argomentando, in effetti, l’Amministrazione comunale
esclude qualsiasi differenza fra repressione degli abusi
edilizi (per i quali valgono le regole sopra enunciate) ed
intervento in via di autotutela su titoli abilitativi che,
anche se illegittimi, sono assistiti da autoritarietà ed
efficacia fino al relativo annullamento, con conseguente
carattere non abusivo dell’edificazione, realizzata in
conformità.
Non sembra inutile ricordare, al riguardo, le pronunce della
Corte Costituzionale che –prima assicurando la congruità
dell’indennizzo rispetto al valore del bene espropriato, poi
escludendo la reiterabilità “sine die” dei vincoli
preordinati all’esproprio– hanno in pratica ribadito la
concezione dello “ius aedificandi” come facoltà insita nel
diritto di proprietà, attribuendo alla concessione edilizia
–al di là del “nomen iuris”, poi modificato dal T.U.
approvato con D.P.R. n. 380/2001– natura sostanzialmente
autorizzativa.
Premesso quanto sopra, sembra opportuno ricordare che
l’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi
(come, nel caso di specie, quelli abilitativi
all’edificazione) è disciplinato dall’art. 21-nonies della
legge n. 241 del 07.08.1990, nel testo introdotto dall’art.
14 della legge 11.02.2005, n. 15, come successivamente
modificato ed integrato, in termini che confermano
(richiedendo la sussistenza di ragioni di interesse
pubblico, da far valere entro un “termine ragionevole”,
nonché “tenendo conto degli interessi dei destinatari e
dei controinteressati”) il pacifico indirizzo
giurisprudenziale, secondo cui l’autotutela costituisce
espressione di un potere discrezionale dell’Amministrazione,
sindacabile (per quanto riguarda la ragionevolezza del
termine, l’avvenuto bilanciamento di interessi e la
motivazione fornita) nei noti limiti, che circoscrivono al
riguardo il giudizio di legittimità (cfr. in tal senso, fra
le tante, Cons. St., sez. VI, 02.09.2013, n. 4352; Cons.
St., sez. V, 22.01.2014, n. 322 e 25.07.2014, n. 3964; Cons.
St., sez. IV, 07.07.2014, n. 3426).
Non appaiono condivisibili, pertanto, alcune delle
argomentazioni difensive del comune resistente, secondo cui
l’annullamento in via di autotutela di titoli abilitativi,
come quelli di cui si discute, non richiederebbe “una
motivazione dell’interesse pubblico, diversa dalla necessità
di ripristinare la legalità violata, stante la natura di
illecito permanente dell’abuso”, così come non potrebbe
ammettersi “alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può avere legittimato”.
Così argomentando, in effetti, l’Amministrazione comunale
esclude qualsiasi differenza fra repressione degli abusi
edilizi (per i quali valgono le regole sopra enunciate) ed
intervento in via di autotutela su titoli abilitativi che,
anche se illegittimi, sono assistiti da autoritarietà ed
efficacia fino al relativo annullamento, con conseguente
carattere non abusivo dell’edificazione, realizzata in
conformità.
Non sembra inutile ricordare, al riguardo, le pronunce della
Corte Costituzionale che –prima assicurando la congruità
dell’indennizzo rispetto al valore del bene espropriato, poi
escludendo la reiterabilità “sine die” dei vincoli
preordinati all’esproprio– hanno in pratica ribadito la
concezione dello “ius aedificandi” come facoltà
insita nel diritto di proprietà, attribuendo alla
concessione edilizia –al di là del “nomen iuris”, poi
modificato dal T.U. approvato con D.P.R. n. 380/2001– natura
sostanzialmente autorizzativa (cfr. in tal senso Corte Cost.
30.01.1980, n. 5, 21.04.1983, n. 127 e 20.05.1999, n. 179
cit.).
La medesima confusione, fra opere abusive e opere realizzate
in attuazione di ius aedificandi debitamente
autorizzato, si rinviene nel richiamo –operato ancora dalla
difesa comunale– al principio della “doppia conformità”,
prescritto in materia di sanatoria (essendo le opere abusive
regolarizzabili “ex post”, ma solo se conformi alla
disciplina vigente sia alla data di realizzazione delle
stesse, sia a quella dell’istanza di sanatoria): tale
principio, tuttavia, può riguardare la fase successiva
all’atto di annullamento in via di autotutela, ma non può
anche giustificare l’emanazione di tale atto.
Nella situazione in esame, infatti, l’Amministrazione
giustifica l’autoannullamento anche con l’attuale non
sanabilità delle opere, in quanto non potrebbe esservi
autorizzazione paesaggistica successiva e non rileverebbe la
nuova disciplina urbanistica della ristrutturazione –ora
consentita dal Comune anche con dislocazione dell’area di
sedime– poiché quest’ultima disciplina non era ancora
vigente alla data di realizzazione delle opere di cui
trattasi.
Tali considerazioni non possono ritenersi attinenti al
legittimo esercizio della potestà di autotutela, che deve
considerare la legittimità del provvedimento che ne è
oggetto in base al principio “tempus regit actum” e
–una volta accertata l’effettiva sussistenza di vizi,
rapportabili all’emanazione dell’atto– è poi chiamata a
valutare discrezionalmente la sussistenza degli ulteriori
presupposti per intervenire, previo bilanciamento degli
interessi sia pubblici che privati.
Sulla base delle predette argomentazioni, il Collegio
ritiene che l’appello meriti parziale accoglimento
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2015 n. 2123 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ritardi.
La notifica postale è esimente.
Se per la notifica l'avvocato si affida all'ufficio postale,
non ha responsabilità circa l'esito della notifica medesima.
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
24.04.2015 n. 8395.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati ad esprimersi
su un caso in cui veniva considerato negligente il
comportamento del professionista legale che affidava al
servizio postale la notifica di un atto di opposizione a
decreto ingiuntivo, a soli cinque giorni dalla scadenza dei
termini perentori e si chiedeva il riconoscimento della
responsabilità del medesimo avvocato per il ritardo dovuto
alle dinamiche postali.
Gli Ermellini ribadendo, quindi, che gli effetti della
notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati, per
quanto riguarda il notificante, al solo compimento delle
attività a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla
consegna dell'atto da notificare all'ufficiale giudiziario;
hanno, poi, evidenziato come già la Corte costituzionale
(Corte cost., 22.10.2002, n. 477) ha stabilito che è
costituzionalmente illegittimo il combinato disposto
dell'art. 149 del codice di procedura civile e dell'art. 4,
comma terzo, della legge 20.11.1982, n. 890, nella
parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per
il notificante, alla data di ricezione dell'atto da parte
del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna
dell'atto all'ufficiale giudiziario.
Pertanto è da ritenersi irragionevole, oltre che lesivo del
diritto di difesa del notificante, che un effetto di
decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di
un'attività riferibile non al notificante, ma a soggetti
diversi (l'ufficiale giudiziario e l'agente postale come
ausiliario di questo), e perciò del tutto estranea alla
sfera di disponibilità del primo.
È altresì evidente che il destinatario ha il dovere, secondo
il principio del perfezionamento della notificazione di fare
attenzione solo alla data di ricezione dell'atto, attestata
dall'avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da
quella stessa data di qualsiasi termine imposto al
destinatario medesimo
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015). |
CONDOMINIO: CONTENZIOSO/
L’avvocato lo sceglie l’amministratore.
L’amministratore può incaricare un avvocato di fiducia per
rappresentare in giudizio il condominio senza bisogno di
alcuna autorizzazione, purché la difesa attenga a questioni
rientranti nelle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130
del Codice civile o nei maggiori poteri conferitegli dal
regolamento o dall’assemblea.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. II civile
(sentenza
23.04.2015 n. 8309), dando torto a un condòmino che
eccepiva il difetto di rappresentanza dell’amministratore in
quanto aveva conferito il mandato difensivo ad un avvocato
senza alcuna delibera dell'assemblea che a ciò lo
autorizzasse e senza alcuna ratifica successiva
(articolo IL Sole 24 Ore del
19.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla questione relativa alla durata quinquennale
dell’autorizzazione paesaggistica ed alla possibilità -o
meno- per la stessa di subire sospensioni per fatti non
imputabili al suo titolare quali il factum principis.
L’art. 146, c. 4, del d.lgs. 42/2004,
nella parte in cui prevede la durata quinquennale
dell’autorizzazione paesaggistica, secondo principi di
logicità, coerenza e ragionevolezza del sistema giuridico,
non può non tener conto del factum principis sopravvenuto.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale che
ritiene che il decorso del termine quinquennale di efficacia
produca, ex se, la caducazione ex lege, totale ed
automatica, degli effetti dell’autorizzazione, senza trovare
alcun ostacolo in fatti impeditivi anche di carattere
assoluto, quali il factum principis o la causa di forza
maggiore, compresi i provvedimenti di sequestro; tuttavia
ritiene che tale orientamento debba essere rimeditato alla
luce della nuova formulazione dell’art. 146 del d.lgs.
42/2004, vigente al momento di adozione del provvedimento
impugnato.
Il 4° comma dell’art. 146 del d.lgs. 42/2004, come
modificato dall'art. 4, comma 16, lett. e), n. 1), D.L.
13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla L.
12.07.2011, n. 106, vigente ratione temporis, stabilisce che
“L'autorizzazione è efficace per un periodo di cinque anni,
scaduto il quale l'esecuzione dei progettati lavori deve
essere sottoposta a nuova autorizzazione.”
La nuova formulazione della norma avvenuta ad opera
dell'art. 4, comma 16, lett. e), n. 1), D.L. 13.05.2011, n.
70, al dichiarato intento di semplificare i procedimenti
amministrativi relativi ad interventi edilizi nei Comuni che
adeguano gli strumenti urbanistici alle prescrizioni dei
piani paesaggistici regionali, al Codice dei beni, ha
sostituito il termine “valida” con quello di “efficace”,
così dando rilievo alla possibilità dell’atto di produrre
effetti giuridici.
In particolare, secondo quieti principi di carattere
generale, l'efficacia del provvedimento amministrativo
indica l'idoneità dello stesso a produrre l’effetto
giuridico voluto.
La validità del provvedimento non attiene invece al profilo
propriamente degli effetti e/o conseguenze giuridiche,
occupandosi piuttosto dei requisiti di legittimità dello
stesso.
Nel caso dell’autorizzazione paesaggistica, la previgente
formulazione, nello stabilire la sua validità quinquennale,
esprimeva quindi un valore assoluto che non ammetteva
deroghe, sicché non poteva ritenersi rilevante il factum
principis.
La nuova accezione “efficace” ha ovviamente inteso apportare
una modificazione evidente dell’istituto, dato che
altrimenti non avrebbe senso la “novella” legislativa,
spostando l’attenzione sugli effetti e quindi sulla capacità
dell’autorizzazione a spiegare effetti giuridici, con le
ovvie conseguenze anche in caso di cessazione temporanea
dell'efficacia, cioè di sospensioni dell’idoneità del
provvedimento a produrre effetti, sospensioni che –in quanto
tali– non influiscono sulla durata quinquennale
dell’efficacia, prevista dalla norma.
2. il ricorso è fondato e deve essere accolto.
2.1. Viene all’attenzione del Collegio la questione relativa
alla durata dell’autorizzazione paesaggistica e alla
possibilità o meno per la stessa di subire sospensioni per
fatti non imputabili al suo titolare quali il factum
principis.
Secondo la ricostruzione della ricorrente, condivisa dalla
sezione nell’ordinanza
cautelare 07.11.2014 n. 577, l’art. 146, c. 4,
del d.lgs. 42/2004, nella parte in cui prevede la durata
quinquennale dell’autorizzazione paesaggistica, secondo
principi di logicità, coerenza e ragionevolezza del sistema
giuridico, non può non tener conto del factum principis
sopravvenuto.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale che
ritiene che il decorso del termine quinquennale di efficacia
produca, ex se, la caducazione ex lege, totale
ed automatica, degli effetti dell’autorizzazione, senza
trovare alcun ostacolo in fatti impeditivi anche di
carattere assoluto, quali il factum principis o la
causa di forza maggiore, compresi i provvedimenti di
sequestro (cfr. Cons. St., VI, 20.12.2012, n. 6576; Tar
Sardegna, II, n. 33/2013 cit., Tar Salerno, II, 25.03.2010,
n. 2351, Tar Veneto, II, 16.11.1998, n. 2072); tuttavia
ritiene che tale orientamento debba essere rimeditato alla
luce della nuova formulazione dell’art. 146 del d.lgs.
42/2004, vigente al momento di adozione del provvedimento
impugnato.
Il 4° comma dell’art. 146 del d.lgs. 42/2004, come
modificato dall'art. 4, comma 16, lett. e), n. 1), D.L.
13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla L.
12.07.2011, n. 106, vigente ratione temporis,
stabilisce che “L'autorizzazione è efficace per un
periodo di cinque anni, scaduto il quale l'esecuzione dei
progettati lavori deve essere sottoposta a nuova
autorizzazione.”
La nuova formulazione della norma avvenuta ad opera
dell'art. 4, comma 16, lett. e), n. 1), D.L. 13.05.2011, n.
70, al dichiarato intento di semplificare i procedimenti
amministrativi relativi ad interventi edilizi nei Comuni che
adeguano gli strumenti urbanistici alle prescrizioni dei
piani paesaggistici regionali, al Codice dei beni, ha
sostituito il termine “valida” con quello di “efficace”,
così dando rilievo alla possibilità dell’atto di produrre
effetti giuridici.
In particolare, secondo quieti principi di carattere
generale, l'efficacia del provvedimento amministrativo
indica l'idoneità dello stesso a produrre l’effetto
giuridico voluto.
La validità del provvedimento non attiene invece al profilo
propriamente degli effetti e/o conseguenze giuridiche,
occupandosi piuttosto dei requisiti di legittimità dello
stesso.
Nel caso dell’autorizzazione paesaggistica, la previgente
formulazione, nello stabilire la sua validità quinquennale,
esprimeva quindi un valore assoluto che non ammetteva
deroghe, sicché non poteva ritenersi rilevante il factum
principis.
La nuova accezione “efficace” ha ovviamente inteso
apportare una modificazione evidente dell’istituto, dato che
altrimenti non avrebbe senso la “novella”
legislativa, spostando l’attenzione sugli effetti e quindi
sulla capacità dell’autorizzazione a spiegare effetti
giuridici, con le ovvie conseguenze anche in caso di
cessazione temporanea dell'efficacia, cioè di sospensioni
dell’idoneità del provvedimento a produrre effetti,
sospensioni che –in quanto tali– non influiscono sulla
durata quinquennale dell’efficacia, prevista dalla norma.
2.2. Nella specie, l’autorizzazione paesaggistica del
31.01.2008 è stata annullata dalla Soprintendenza:
a) con decreto 17.06.2008, impugnato con ricorso dinanzi a
questo Tar n. 1463/2008 definito con sentenza n. 797/2010,
gravata dinanzi al Consiglio di Stato che si è pronunciato
con sentenza n. 657/2010;
b) con decreto dell’11.02.2011 impugnato con ricorso n.
530/2011 dinanzi a questo Tar, accolto con sentenza n.
1583/2011.
Gli atti della Soprintendenza hanno indubbiamente provocato
la sospensione degli effetti dell’autorizzazione, e quindi
della sua efficacia, dalla adozione degli atti di
annullamento fino alla data di deposito delle sentenze di
accoglimento dei ricorsi avverso gli annullamenti citati,
per un periodo di circa un anno e nove mesi la prima volta e
sette mesi la seconda volta.
Dal che discende che tale periodo di sospensione del tutto
illegittimamente è stato pretermesso dall’A.C. intimata.
Il ricorso, sotto l’aspetto suindicato, merita quindi
accoglimento (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 23.04.2015 n. 1361 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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Web ko? Si torna al bando.
Tar Trento dà ragione a un farmacista.
Torna in corsa per il bando il farmacista che vuole
concorrere all'assegnazione di una nuova sede: è stato
escluso solo perché la pagina web dedicata
dall'amministrazione non risponde secondo le regole fissate
per la procedura. E per il malfunzionamento della
piattaforma tecnologica la responsabilità non è soltanto di
chi ha realizzato il progetto ma anche del dipendente che,
venuto a conoscenza dei fatti, non si è attivato per
ripristinare la legalità.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.04.2015 n. 149, pubblicata dal TRGA Trentino Alto
Adige-Trento.
Sistema fallato
Il farmacista ha già partecipato a due bandi in altre
Regioni ma la domanda è scartata perché manca l'indicazione
della Pec. Ci riprova a Trento, ma la pagina web dedicata
non risponde: al sistema risulta che il candidato ha già
esaurito le possibilità di partecipare al bando per nuove
farmacie riconducibile al Cresci Italia.
Il punto è che, disciplinare alla mano, non è così: la
piattaforma tecnologica non ha previsto che la semplice
presentazione di domande inammissibili consente la
presentazione di ulteriori istanze di partecipazione.
Insomma: la mancata risposta online dell'ente costituisce un
provvedimento implicito che è senz'altro ricorribile davanti
al giudice amministrativo. E soprattutto la falla nel
sistema risulta imputabile all'amministrazione «come
plesso» e alle persone che la compongono.
I dipendenti dell'ente non soltanto devono accorgersi quando
lo strumento informatico contrasta con la disciplina legale
della procedura ma sono pure tenuti a intervenire per
soddisfare le legittime pretese dell'istante
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2015).
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MASSIMA
3.2.1. Orbene, osserva il Collegio come
l’informatica costituisca sicuramente, per la pubblica
Amministrazione, uno strumento ormai doveroso e
imprescindibile, puntualmente disciplinato dall’ordinamento
(d.lgs. 07.03.2005, n. 82, e relative norme attuative)
al fine di raggiungere crescenti obiettivi di efficienza e
efficacia dell’azione amministrativa.
3.2.2.
Sarebbe nondimeno gravemente errato vedere nel procedimento
informatico una sorta di amministrazione parallela, che
opera in piena indipendenza dai mezzi e dagli uomini, e che
i dipendenti si devono limitare a osservare con passiva
rassegnazione (se non con il sollievo che può derivare dal
discarico di responsabilità e decisioni): le risposte del
sistema informatico sono invece oggettivamente imputabili
all’Amministrazione, come plesso, e dunque alle persone che
ne hanno la responsabilità.
3.2.3. Così,
se lo strumento informatico determina situazioni anomale, vi
è anzitutto una responsabilità di chi ne ha predisposto il
funzionamento senza considerare tali conseguenze; ma v’è
altresì la responsabilità, almeno omissiva, del dipendente
che, tempestivamente informato, non si è adoperato per
svolgere, secondo i principi di legalità e imparzialità,
tutte quelle attività che, in concreto, possano soddisfare
le legittime pretese dell’istante, nel rispetto, comunque
recessivo, delle procedure informatiche. |
PUBBLICO IMPIEGO: Corte di cassazione.
Dirigente infedele, anche la p.a., paga.
La responsabilità risarcitoria della pubblica
amministrazione per illeciti commessi dai propri dipendenti
sussiste anche laddove il funzionario agisca con dolo e per
fini esclusivamente personali. Per la condanna
dell'amministrazione, infatti, è sufficiente che la condotta
del reo sia resa possibile in ragione del contesto di
adempimento di una specifica mansione pubblica, a nulla
rilevando che l'intento perseguito non possa, in alcun modo,
essere ricondotto alla finalità istituzionale pubblica.
Lo
ha stabilito la VI Sez. penale della Corte di
Cassazione con la
sentenza
31.03.2015 n. 13799.
Nel caso concreto una dirigente pubblica è stata rinviata a
giudizio con l'accusa di aver commesso i reati di peculato,
truffa aggravata e falso. In particolare, i fatti contestati
all'imputata si riferivano a reiterate appropriazioni di
titoli di credito, effetti cambiari e varie altre somme in
suo possesso per ragioni di servizio.
Nell'ambito del giudizio di primo grado è stato richiesto
l'intervento in giudizio del ministero della giustizia,
quale responsabile civile per i danni cagionati
dall'imputata in conseguenza della commissione dei reati.
Il tribunale di primo grado, pur condannando la dirigente,
ha escluso ogni addebito per mancata vigilanza nei confronti
del ministero, esito poi confermato dalla Corte d'appello.
Per entrambi i giudici di merito, infatti, l'agente avrebbe
agito nel proprio esclusivo interesse, e tanto bastava per
manlevare da rimproveri l'amministrazione di appartenenza:
nelle parole della Corte «in tema di responsabilità della
pubblica amministrazione per fatto illecito del dipendente
non è sufficiente la sola contestualità tra condotta
criminosa e lo svolgimento delle mansioni affidate»,
dovendosi riscontrare una sovrapposizione tra l'intento
perseguito dal reo e l'interesse istituzionale dell'ufficio,
i.e. il fatto di reato deve risultare finalizzato anche al
raggiungimento dei fini istituzionali.
La parte civile, non condividendo la tesi svolta dalla Corte
territoriale, ha dunque proposto ricorso per cassazione,
insistendo per la condanna al risarcimento del danno in via
solidale del ministero.
La Corte capitolina, nel pronunciarsi sulla vicenda, è
tornata ad occuparsi del delicato problema inerente la
responsabilità dell'amministrazione per i reati dolosi
commessi dai propri dipendenti in occasione del loro ufficio
ai sensi dell'art. 28, Cost.: tale norma, infatti, da un
lato prevede la diretta responsabilità di dipendenti e
funzionari dello Stato e degli enti pubblici secondo (anche)
le leggi penali; dall'altro prevede la responsabilità civile
dello Stato e degli enti pubblici «in tali casi», e quindi
senza alcuna distinzione tra inosservanza di leggi civili o
penali.
Con una sentenza tanto severa quanto chirurgica gli
ermellini hanno ribaltato il verdetto della Corte d'appello,
affermando la responsabilità risarcitoria -per omessa
vigilanza- del ministero.
Secondo gli ermellini, infatti, l'interpretazione resa dai
giudici della Corte d'appello porta a restringere (per non
dire cancellare) gli spazi in cui -pur a fronte di delitti
dolosi dei dipendenti- residua una responsabilità
risarcitoria della p.a. di appartenenza: in tal senso -si
spiega- «poiché nessuno scopo o interesse di dolosa
violazione di legge, e tantomeno di dolosa commissione di
reati che tale tipologia di elemento soggettivo pretendono,
potrebbe mai essere, per definizione, riconducibile a
finalità istituzionale propria della pubblica
amministrazione, questa non dovrebbe (o addirittura
potrebbe) mai rispondere dei danni che un proprio
appartenente abbia cagionato dolosamente, pur quando abbia
agito in un contesto in cui proprio e solo l'adempimento di
una mansione pubblica gli abbia permesso di perseguire il
proprio intento, ancorché personale».
Al contrario -si osserva- la responsabilità dell'apparato
pubblico deve considerarsi un principio di ordine generale
posto che all'amministrazione, e solo ad essa, spettano la
selezione e l'organizzazione delle persone che in concreto
svolgono le sue proprie funzioni.
In conclusione, ad avviso della Corte, permane la «potenziale»
responsabilità civile della p.a. per le condotte di propri
dipendenti che, sfruttando l'adempimento di funzioni
pubbliche ad essi espressamente attribuite, e in esclusiva
ragione di un tale adempimento che quindi costituisce
l'occasione necessaria e strutturale del contatto, tengano
condotte, anche di rilevanza penale e pur volte a perseguire
finalità esclusivamente personali, che cagionino danni a
terzi, ogniqualvolta le condotte che cagionano danno
risultino non imprevedibile ed eterogeneo sviluppo di un non
corretto esercizio di tali funzioni
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015). |
CONDOMINIO: Sì alle clausole se sono «trasparenti». Per la Cassazione la
«trascrizione» non è più elemento obbligatorio.
Regolamento. I vincoli contrattuali limitano poteri e
facoltà: devono essere conoscibili per i condomini.
Senza una reale conoscenza delle clausole il regolamento
condominiale contrattuale è zoppo. Le clausole
“contrattuali” inserite all’interno di un regolamento di
condominio, a differenza di quelle “regolamentari”, che
disciplinano la gestione e l’uso delle cose comuni,
impongono pesi, limitazioni ai poteri e alle facoltà
spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva
proprietà (o sulle parti comuni). E per avere efficacia
vincolante per gli acquirenti dei singoli appartamenti è
necessario che siano inserite in modo chiaro ed esplicito e
vengano rese note, ossia conoscibili, per essere accettate,
assumendo così carattere di convenzione.
Saranno sicuramente vincolanti quelle clausole di natura
contrattuale che fanno parte del regolamento redatto dal
costruttore-venditore e sottoscritte e accettate dagli
iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari ai cui
atti di acquisto è stato allegato il regolamento, così come
avranno efficacia vincolante per tutti i condòmini che lo
abbiano approvato all’unanimità in assemblea.
Affinché però tali clausole siano vincolanti per gli eredi e
gli altri aventi causa è necessario che delle clausole
abbiano avuto conoscenza e siano state accettate, cosa che
normalmente si ottiene mediante l’istituto della
trascrizione.
Il regolamento non è un atto di per sé trascrivibile, in
quanto non rientra tra quelli indicati nell’articolo 2643
del Codice civile che costituiscono, modificano o
trasferiscono diritti reali.
La presenza di eventuali limitazioni richiede che esse siano
rese note e accettate anche dai terzi, cosa possibile con la
trascrizione del regolamento quale allegato all’atto di
acquisto o ad altri atti trascrivibili, indicano nella nota
di trascrizione, per ciascun condominio, tra l’altro,
l’eventuale denominazione, l’ubicazione e il codice fiscale
(articolo 2959 n. 1 del Codice civile post riforma).
A tal proposito la Corte di Cassazione ha di recente precisato che le
clausole di natura contrattuale sono vincolanti per gli
acquirenti dei singoli appartamenti qualora
«indipendentemente dalla trascrizione del regolamento,
nell’atto di acquisto si sia fatto riferimento al
regolamento di condominio che –seppur non inserito
materialmente- deve ritenersi conosciuto o accettato in
base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto»
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
27.03.2015 n. 6299).
Deve trattarsi di conoscenza effettiva del regolamento
perché «allorché nell’atto di acquisto è previsto l’obbligo
di rispettare il regolamento da redigere in futuro, questo
non sarà vincolante mancando, in tal caso, uno schema
negoziale definitivo suscettibile di essere compreso, per
comune volontà delle parti, nell’oggetto del contratto». In
quest’ultima ipotesi, pertanto, il regolamento può vincolare
l’acquirente solo se, successivamente alla sua redazione,
quest’ultimo vi presti «volontaria adesione» (Cassazione,
sentenza 856/2000).
Prima della redazione, questo impegno non costituisce
adesione e, quindi, non produce effetti vincolanti, così
come non può valere come approvazione di un regolamento allo
stato inesistente, in quanto è solo il corretto richiamo dei
singoli atti di acquisto a un determinato regolamento già
esistente, che consente di ritenere quest’ultimo come
facente parte per relationem di ogni singolo atto
(Cassazione, sentenza 7359/1992).
I divieti e i limiti alle facoltà inseriti nei regolamenti,
possono essere espressi anche mediante l’ elencazione di
attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si
intende evitare.
In quest’ultimo caso i divieti e i limiti devono risultare
da espressioni chiare, «avuto riguardo più che alla clausola
in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi che la
previsione regolamentare intende impedire, consentendo di
apprezzare se la compromissione delle facoltà (…)corrisponda
ad un interesse meritevole di tutela» (Cassazione, sentenza
19229/2014) (articolo IL Sole 24 Ore del
19.05.2015). |
TRIBUTI:
Le aree verdi attrezzate non pagano l'Imu.
Le aree destinate a verde pubblico non essendo suscettibili
di sfruttamento edilizio non possono essere sottoposte al
pagamento dell'Ici.
È il principio ribadito dalla Corte di Cassazione, con la
sentenza 25.03.2015 n. 5992, Sez. V civile; è
chiaro che quest'ultimo principio, oggi deve ritenersi
valido per l'Imu, che ha sostituito l'Ici.
La vicenda riguardava il comune di Pineto, che aveva
impugnato la sentenza della Commissione tributaria regionale
dell'Abruzzo, la quale aveva confermato la decisione dei
giudici di primo grado con cui avevano annullato gli avvisi
di accertamento Ici, inerenti agli anni 1998-2003.
L'adita Corte di cassazione ha nuovamente precisato che
un'area destinata dal Prg a verde pubblico attrezzato
impedisce ai privati ogni trasformazione del suolo
riconducibile alla nozione tecnica di area edificabile, come
definita dagli stessi giudici di legittimità con sentenza n.
13917 del 2007.
Questi tipi di aree (ossia le aree verdi vincolate a verde
pubblico attrezzato) non rientrano tra quegli spazi urbani
aventi le caratteristiche per essere sottoposti
all'imposizione fiscale dell'Ici, oggi Imu, come stabilito,
per esempio, per le aree fabbricabili, dall'art. 1, comma 2,
del dlgs n. 504, del 1992
(articolo ItaliaOggi del 19.05.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro con la p.a. tra Tar e
Tribunale.
In materia di controversie relative al rapporto di lavoro
con la pubblica amministrazione, spetta al giudice
amministrativo la giurisdizione solo in relazione alle
controversie relative al personale in regime di diritto
pubblico e a quelle sui procedimenti concorsuali volti alla
successiva instaurazione del rapporto di lavoro.
Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, con la
sentenza
06.03.2015 n. 493.
I giudici amministrativi calabresi hanno, altresì, osservato
che nel caso in cui la procedura di assunzione, pur se
preceduta da verifiche attinenti al possesso dei requisiti
legittimanti un titolo preferenziale all'impiego, fosse
svincolata dal meccanismo concorsuale, la cognizione
apparterrebbe, invece, al giudice ordinario, anche in
ossequio a un consolidato orientamento giurisprudenziale (si
veda in proposito Cassazione civile, sezioni unite, 23.11.2000 n. 1203).
Circa il caso sul quale i giudici calabresi sono stati
chiamati a esprimersi, i provvedimenti oggetto di
impugnativa erano tutti inseriti in una procedura di
stabilizzazione di lavoratori di pubblica utilità, la cui
natura è equipollente a una assunzione senza espletamento di
concorso pubblico, pertanto, hanno osservato i magistrati,
riconducibile alla ipotesi di costituzione del rapporto
lavorativo tra il singolo lavoratore e l'amministrazione
pubblica datoriale.
Quindi, poiché ai sensi dell'articolo 63, comma 1, del
decreto legislativo del 30.03.2001, n. 165, è stato
devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario il
contenzioso inerente ai rapporti di lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche, ivi comprese le
controversie «concernenti l'assunzione al lavoro», occorre,
secondo il Tar catanzarese declinare la giurisdizione in
favore del competente giudice ordinario (in termini, cfr.
anche Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 11.02.2008, n.
151; Tar Calabria, Catanzaro, 12.04.2010, n. 447, che
fanno riferimento a Cass. civ., sez. un., 29.11.2006,
n. 25276), d'innanzi al quale la causa potrà essere
riproposta ai sensi dell'art. 11 c.p.a. e 59 legge
28.06.2009, n. 69
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015).
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MASSIMA
Deve affermarsi il difetto di giurisdizione
di questo plesso di giustizia amministrativa sulla vicenda
controversa.
Osserva questo Tribunale che in materia di
controversie relative al rapporto di lavoro con la pubblica
amministrazione, il giudice amministrativo ha mantenuto la
giurisdizione solo in relazione alle controversie relative
al personale in regime di diritto pubblico e a quelle sui
procedimenti concorsuali volti alla successiva instaurazione
del rapporto di lavoro.
Pertanto, quando la procedura di
assunzione, pur se preceduta da verifiche attinenti al
possesso dei requisiti legittimanti un titolo preferenziale
all'impiego, è svincolata dal meccanismo concorsuale, la
cognizione appartiene al giudice ordinario
(cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 23.11.2000 n. 1203).
Orbene, nel caso di specie, i provvedimenti oggetto di
impugnativa sono tutti inseriti in una procedura di
stabilizzazione di lavoratori di pubblica utilità, la cui
natura è equipollente ad una assunzione senza espletamento
di concorso pubblico, quindi riconducibile alla ipotesi di
costituzione del rapporto lavorativo tra il singolo
lavoratore e l'amministrazione pubblica datoriale.
Ed allora, poiché ai sensi dell'art. 63,
comma 1, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, è stato devoluto alla
giurisdizione del giudice ordinario il contenzioso inerente
ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche, ivi comprese le controversie “concernenti
l'assunzione al lavoro”, occorre, dunque, declinare la
giurisdizione in favore del competente giudice ordinario
(in termini, cfr. anche TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II,
11.02.2008, n. 151; TAR Calabria, Catanzaro, 12.04.2010, n.
447, che fanno riferimento a Cass. Civ., Sez. Un.,
29.11.2006, n. 25276), d’innanzi al quale la causa potrà
essere riproposta ai sensi dell’art. 11 c.p.a. e 59 l.
28.06.2009, n. 69. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio ritiene di aderire all’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale sia gli oneri di
urbanizzazione che il costo di costruzione gravanti sul
titolare di una concessione edilizia abbiano natura
giuridica di corrispettivi di diritto pubblico, e vadano,
quindi, inquadrati nell’ambito delle prestazioni
patrimoniali imposte, con la conseguenza che non può
prescindersi da un’espressa previsione di legge.
Ciò comporta che, “non offrendo la legge, che ne disciplina
il regime, alcun indicatore normativo speciale che faccia
ritenere comunque applicabile la disciplina civilistica
della solidarietà derivante dalla fattispecie dell’accollo,
la parte cedente che non ha iniziato l’edificazione e quindi
non abbia realizzato, neppure in minima parte, la
costruzione degli edifici, viene a trovarsi liberata, in
virtù della voltura del titolo edilizio, dall’obbligo di
corrispondere gli oneri di concessione ed il contributo di
costruzione di cui alla L. n. 10 del 1977, non essendosi
verificato il presupposto di esigibilità del credito
pubblico, ovvero la materiale trasformazione urbanistica del
territorio”.
Laddove, invece, il presupposto di esigibilità del credito,
ossia l’edificazione, abbia avuto consistenza in capo al
dante causa ed al cessionario, sia il dante causa che il
cessionario sono solidarmente tenuti nei confronti
dell’amministrazione al pagamento degli oneri concessori, in
quanto, in tal caso, l’identico fenomeno urbanistico ed
edilizio ha tratto origine da due coautori.
... va rilevato che il problema da affrontare è se la
voltura dell’originario permesso di costruire implichi che
il dante causa del titolo edificatorio non sia più tenuto al
pagamento degli oneri concessori.
Sull’argomento, la giurisprudenza è divisa e non sussiste un
univoco orientamento.
Il Collegio ritiene di aderire all’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale sia gli oneri di
urbanizzazione che il costo di costruzione gravanti sul
titolare di una concessione edilizia abbiano natura
giuridica di corrispettivi di diritto pubblico, e vadano,
quindi, inquadrati nell’ambito delle prestazioni
patrimoniali imposte, con la conseguenza che non può
prescindersi da un’espressa previsione di legge.
Ciò comporta che, “non offrendo la legge, che ne
disciplina il regime, alcun indicatore normativo speciale
che faccia ritenere comunque applicabile la disciplina
civilistica della solidarietà derivante dalla fattispecie
dell’accollo, la parte cedente che non ha iniziato
l’edificazione e quindi non abbia realizzato, neppure in
minima parte, la costruzione degli edifici, viene a trovarsi
liberata, in virtù della voltura del titolo edilizio,
dall’obbligo di corrispondere gli oneri di concessione ed il
contributo di costruzione di cui alla L. n. 10 del 1977, non
essendosi verificato il presupposto di esigibilità del
credito pubblico, ovvero la materiale trasformazione
urbanistica del territorio” (Cons. Giust. Amm. Sic.,
13.10.2011, n. 666).
Laddove, invece, il presupposto di esigibilità del credito,
ossia l’edificazione, abbia avuto consistenza in capo al
dante causa ed al cessionario, sia il dante causa che il
cessionario sono solidarmente tenuti nei confronti
dell’amministrazione al pagamento degli oneri concessori, in
quanto, in tal caso, l’identico fenomeno urbanistico ed
edilizio ha tratto origine da due coautori (cfr., TAR
Sicilia, Catania, sez. I, 26.03.2009, n. 602)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.06.2012 n. 1126 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema
di oneri concessori sussiste anche quando la domanda del
privato è diretta ad ottenere la restituzione di quanto si
assume indebitamente versato ovvero trattenuto dalla P.A..
Tanto perché gli oneri concessori versati al Comune sono
ripetibili sulla base della mera circostanza che la
concessione edilizia non è stata utilizzata, anche a
prescindere dall'intervento di un atto amministrativo di
accertamento.
Nella fattispecie, infatti, trova piena applicazione l'art.
34 D.Lg.vo n. 80/1998 (poi sostituito dall'art. 7 L. n.
205/2000) che ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del
Giudice Amministrativo tutte le controversie, aventi per
oggetto qualsiasi iniziativa della Pubblica Amministrazione
in materia di urbanistica e di edilizia.
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A norma dell'art. 4, comma 6, della legge 10/1977 (ora art.
11 D.L.vo 380/2001), la concessione edilizia è trasferibile
ai successori o aventi causa. In tal modo le norme
riconoscono esplicitamente la natura <reale> del titolo
edilizio, che viene, pertanto, rilasciato in ragione della
titolarità di una situazione giuridica soggettiva
ontologicamente ricollegata ad un determinato bene immobile.
Non è poi lecito dubitare che le somme pagate a titolo di
contributi per oneri di urbanizzazione relativamente ad una
concessione edilizia sono ripetibili se la concessione non
sia stata utilizzata.
Ne consegue inevitabilmente il principio secondo cui
sussiste una intrinseca connessione tra l'abilitazione
all’esercizio dell'attività di edificazione ed il rapporto
obbligatorio relativo ai contributi di urbanizzazione e di
costruzione.
Ciò significa che il venir meno della titolarità della
concessione e quindi del diritto di edificazione in capo
all'originario concessionario con il trasferimento dei
relativi diritti in testa al subentrante, destinatario della
volturazione e titolare quindi dello ius aedificandi, di
norma e salva diversa ed esplicita pattuizione tra cedente e
cessionario, comportano anche il trasferimento a carico ed a
favore di quest'ultimo, dal momento della volturazione, di
tutti indistintamente i diritti e gli obblighi connessi e/o
derivanti dalla concessione stessa.
Insomma, se, come detto, esiste una connessione innegabile
tra ius aedificandi e diritti ed obblighi relativi agli
oneri concessori, tali diritti e tali obblighi, salva
esplicita deroga, non possono perpetuarsi in capo al
soggetto originario concessionario che ha alienato il
terreno interessato dalla trasformazione dopo il rilascio
della concessione, quest’ultima volturata ad un nuovo
soggetto, che è proprio quello e solo quello che poi in
concreto può esercitare lo ius aedificandi.
D’altra parte, se è vero che, una volta intervenuta la
volturazione della concessione edilizia, legittimato passivo
rispetto alle misure repressive di lavori eventualmente
condotti in difformità dalla concessione è soltanto il terzo
subentrante e non l'originario titolare della concessione
edilizia, lo stesso principio non può non affermarsi anche
rispetto alle obbligazioni pecuniarie connesse alla
concessione edilizia volturata dopo il suo rilascio e
derivanti dall’avvenuto, o meno, concreto utilizzo della
concessione stessa.
Né può pervenirsi a conclusione diversa solo perché la
giurisprudenza ha ritenuto che la voltura della concessione
comporta una <novazione soggettiva> della stessa.
Tale affermazione non incide, infatti, sul dato
incontestabile che la concessione edilizia non ha natura
<personale>, ma <reale>, nel senso che suo presupposto è
comunque una situazione soggettiva attiva del richiedente in
relazione ad un bene determinato e che da tale natura
discende la possibilità di trasferimento della stessa
insieme con l'area, subordinato ad un provvedimento di
voltura che rappresenta un mero accertamento del fatto del
subingresso di un nuovo soggetto nel rapporto giuridico
originario.
Nella suindicata prospettiva, se è vero che l'atto di
volturazione non comporta la corresponsione di ulteriori
contributi concessori che restano quelli fissati in
occasione del rilascio del titolo originario, è altrettanto
vero che tali oneri, sia per la parte adempiuta che per
quella non ancora adempiuta, salva diversa pattuizione
recepita dall’Amministrazione, si trasferiscono
automaticamente al subentrante, sia perché non rilevano
sotto il profilo dell'intuitus personae, inerendo ad un atto
che non ha carattere personale, sia perché connessi alla
capacità di disporre del diritto di edificazione, nella
specie in concreto non esercitato dal subentrante.
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Nel caso della voltura della concessione edilizia, non
essendo la prestazione oggetto dell'obbligazione
contributiva caratterizzata in senso personale, si ha in
realtà una modificazione dell'oggetto del rapporto, con
l'effetto della liberazione da ogni diritto ed obbligo del
primitivo concessionario in concomitanza con la perdita del
diritto ed edificare.
Nel caso in esame, pertanto, la ricorrente, ove avesse
effettivamente realizzato il progetto, sarebbe stata
sicuramente tenuta a corrispondere le altre rate di
contributo; alla stessa stregua, non avendo edificato, ove
non esista un patto contrario, ha diritto alla ripetizione
degli oneri che in relazione alla concessione sono stati
pagati.
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Tanto basta per l’accoglimento del ricorso e per
l’affermazione dell’obbligo del Comune di provvedere in
relazione alla domanda proposta dalla ricorrente,
innanzitutto verificando se, per ipotesi, dall’atto di
cessione emerga la diversa volontà di conservare in capo
alla cedente il diritto al rimborso dei contributi già
versati in caso di mancato utilizzo della concessione e, in
caso di esito negativo di tale indagine, restituendo quanto
versato alla cessionaria.
...
avverso
il silenzio opposto dal Comune alla richiesta della
ricorrente di restituzione delle somme versate per oneri
concessori inerenti alla concessione edilizia volturata in
suo favore e dalla stessa rinunziata.
...
1- Col ricorso in esame l’Associazione IPERVEN ha nella
sostanza impugnato il comportamento inerte opposto dal
Comune intimato alla sua richiesta di restituzione delle
somme pagate dalla sua dante causa (Circolo nautico di Torre
Annunziata) in relazione alla concessione edilizia n. 15 del
16.09.1992, a suo tempo volturata in suo favore e
successivamente da essa stessa rinunziata.
A tale ricostruzione del ricorso si perviene nella
fattispecie applicando il principio consolidato secondo il
quale il giudice amministrativo -fermo restando il
principio di specificità enucleato dall'art. 6 R.D. 17.08.1907 n. 642- è legittimato ad operare un'interpretazione dei motivi e del petitum formalmente
dedotti, avendo riguardo sia alle censure espressamente
enunciate sia a quelle non esposte in un titolo ad hoc che
possono, però, essere desunte dall'esposizione dei fatti e
dal contesto del ricorso (Cfr. Cons. Stato, VI Sez. 27.09.1977 n. 777 e 28.09.2000 n. 5194, IV Sez.
05.07.1989 n. 457 , V Sez., 21.10.1992 n. 1026).
Dalla lettura dell’atto introduttivo del giudizio emerge,
infatti, che la parte ricorrente si duole principalmente
della mancata risposta alla sua richiesta di restituzione di
quanto corrisposto e ancora detenuto dal Comune sine titulo,
sicché è da ritenere che nella fattispecie sussistano i
presupposti per l'applicazione dell'art. 21-bis della legge
06.12.1971, n. 1034, come novellato dall'art. 2 della
legge 21.07.2000 n. 205.
D’altra parte, allo stato degli atti non sarebbe possibile
pronunciare né positivamente né negativamente sulla (per la
verità pure formulata) domanda di accertamento del diritto
alla restituzione e di conseguente condanna del Comune, in
quanto manca la prova –che evidentemente la parte
ricorrente avrebbe dovuto fornire– circa l’inesistenza
nell’accordo di cessione della concessione edilizia di una
qualche (per la verità, inusuale) clausola che conservi il
diritto della cedente all’ eventuale restituzione dei
contributi già versati.
D’altra parte, nella fattispecie,
non appare ostativo all'esperimento del rimedio del silenzio-rifiuto la circostanza che oggetto sostanziale del ricorso
risulti, prima facie, un <diritto soggettivo>, qual è
la pretesa patrimoniale alla restituzione di somme
indebitamente versate, in quanto, a ben considerare, la
peculiarità del caso di specie consiste proprio nel fatto
che sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in ordine al rapporto cui inerisce la
richiesta rimasta inevasa (Cons. Stato Sez. V 10.02.2004 n. 497).
Nel caso in esame, attraverso l’impugnazione del silenzio,
la parte ricorrente mira innanzitutto e soprattutto a far
cessare il comportamento inerte del Comune ed a costringere
lo stesso a pronunciarsi sulla base della documentazione in
suo possesso, ivi incluso l’atto di cessione della
concessione.
Ad ogni modo, la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in tema di oneri concessori sussiste anche
quando la domanda del privato è diretta ad ottenere la
restituzione di quanto si assume indebitamente versato
ovvero trattenuto dalla P.A. (cfr. ex multis Consiglio di
Stato Sez. V n. 4102/2003, vedi pure più in generale
Consiglio di Stato Sez. V n. 6821/2004).
Tanto perché gli oneri concessori versati al Comune sono
ripetibili sulla base della mera circostanza che la
concessione edilizia non è stata utilizzata, anche a
prescindere dall'intervento di un atto amministrativo di
accertamento (Cfr. Cons. Stato Sez. V 22.02.1998 n.
1145, TAR Marche, 11.05.1995, n. 228).
Nella fattispecie, infatti, trova piena applicazione l'art.
34 D.Lg.vo n. 80/1998 (poi sostituito dall'art. 7 L. n.
205/2000) che ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del
Giudice Amministrativo tutte le controversie, aventi per
oggetto qualsiasi iniziativa della Pubblica Amministrazione
in materia di urbanistica e di edilizia.
2- Passando all’esame del merito del ricorso, il Collegio
ricorda che, a norma dell'art. 4, comma 6, della legge
10/1977 (ora art. 11 D.L.vo 380/2001), la concessione
edilizia è trasferibile ai successori o aventi causa.
In tal modo le norme riconoscono esplicitamente la natura
<reale> del titolo edilizio, che viene, pertanto, rilasciato
in ragione della titolarità di una situazione giuridica
soggettiva ontologicamente ricollegata ad un determinato
bene immobile.
Come già notato, non è poi lecito dubitare che (Cons. St.,
sez. V 22.02.1988, n. 105) le somme pagate a titolo di
contributi per oneri di urbanizzazione relativamente ad una
concessione edilizia sono ripetibili se la concessione non
sia stata utilizzata (TAR Abruzzo Pescara 15.12.2006 n. 890).
Ne consegue inevitabilmente il principio secondo cui
sussiste una intrinseca connessione tra l'abilitazione
all’esercizio dell'attività di edificazione ed il rapporto
obbligatorio relativo ai contributi di urbanizzazione e di
costruzione (cfr. Cons. Stato Sez. V 12.06.1995, n.
894).
Ciò significa che il venir meno della titolarità della
concessione e quindi del diritto di edificazione in capo
all'originario concessionario con il trasferimento dei
relativi diritti in testa al subentrante, destinatario della
volturazione e titolare quindi dello ius aedificandi, di
norma e salva diversa ed esplicita pattuizione tra cedente e
cessionario, comportano anche il trasferimento a carico ed a
favore di quest'ultimo, dal momento della volturazione, di
tutti indistintamente i diritti e gli obblighi connessi e/o
derivanti dalla concessione stessa.
Insomma, se, come detto, esiste una connessione innegabile
tra ius aedificandi e diritti ed obblighi relativi agli
oneri concessori, tali diritti e tali obblighi, salva
esplicita deroga, non
possono perpetuarsi in capo al soggetto originario
concessionario che ha alienato il terreno interessato dalla
trasformazione dopo il rilascio della concessione,
quest’ultima volturata ad un nuovo soggetto, che è proprio
quello e solo quello che poi in concreto può esercitare lo
ius aedificandi.
D’altra parte, se è vero che, una volta intervenuta la
volturazione della concessione edilizia, legittimato passivo
rispetto alle misure repressive di lavori eventualmente
condotti in difformità dalla concessione è soltanto il terzo
subentrante e non l'originario titolare della concessione
edilizia (TAR Lombardia, Milano, sez. II 18.02.1984 n. 66),
lo stesso principio non può non affermarsi anche rispetto
alle obbligazioni pecuniarie connesse alla concessione
edilizia volturata dopo il suo rilascio e derivanti dall’avvenuto, o meno, concreto utilizzo della concessione
stessa.
Né può pervenirsi a conclusione diversa solo perché la
giurisprudenza ha ritenuto che la voltura della concessione
comporta una <novazione soggettiva> della stessa.
Tale affermazione non incide, infatti, sul dato
incontestabile che la concessione edilizia non ha natura
<personale>, ma <reale>, nel senso che suo presupposto è
comunque una situazione soggettiva attiva del richiedente in
relazione ad un bene determinato e che da tale natura
discende la possibilità di trasferimento della stessa
insieme con l'area, subordinato ad un provvedimento di
voltura che rappresenta un mero accertamento del fatto del subingresso di un nuovo soggetto nel rapporto giuridico
originario.
Nella suindicata prospettiva, se è vero che l'atto di
volturazione non comporta la corresponsione di ulteriori
contributi concessori che restano quelli fissati in
occasione del rilascio del titolo originario (cfr. Cons.
Stato sez. V. n. 616/1988 citata), è altrettanto vero che
tali oneri, sia per la parte adempiuta che per quella non
ancora adempiuta, salva diversa pattuizione recepita
dall’Amministrazione, si trasferiscono automaticamente al
subentrante, sia perché non rilevano sotto il profilo dell'intuitus
personae, inerendo ad un atto che non ha carattere
personale, sia perché connessi alla capacità di disporre del
diritto di edificazione, nella specie in concreto non
esercitato dal subentrante.
Tutto quanto sopra induce il Collegio a ritenere che, nel
caso della voltura della concessione edilizia, non essendo
la prestazione oggetto dell'obbligazione contributiva
caratterizzata in senso personale, si ha in realtà una
modificazione dell'oggetto del rapporto, con l'effetto della
liberazione da ogni diritto ed obbligo del primitivo
concessionario in concomitanza con la perdita del diritto ed
edificare.
Nel caso in esame, pertanto, la ricorrente, ove avesse
effettivamente realizzato il progetto, sarebbe stata
sicuramente tenuta a corrispondere le altre rate di
contributo; alla stessa stregua, non avendo edificato, ove
non esista un patto contrario, ha diritto alla ripetizione
degli oneri che in relazione alla concessione sono stati
pagati.
3- Tanto basta per l’accoglimento del ricorso e per
l’affermazione dell’obbligo del Comune di provvedere in
relazione alla domanda proposta dalla ricorrente,
innanzitutto verificando se, per ipotesi, dall’atto di
cessione emerga la diversa volontà di conservare in capo
alla cedente il diritto al rimborso dei contributi già
versati in caso di mancato utilizzo della concessione e, in
caso di esito negativo di tale indagine, restituendo quanto
versato alla cessionaria
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 12.03.2012 n. 1220 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 14.05.2015 |
ã |
Tecnici Comunali (pubblici dipendenti) e quota annuale di iscrizione
all'albo/ordine professionale a carico dell'ente:
quali sono i termini
corretti della questione?? |
Nei giorni scorsi la stampa specializzata ha dato
risalto ad una sentenza della Corte di Cassazione
secondo cui spetta all'ente pubblico di appartenenza (nella
fattispecie INPS) pagare la quota annuale di
iscrizione del dipendente avvocato. Di seguito
l'articolo: |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti
iscritti in albi. La tassa la paga la p.a.. Sentenza
della sezione lavoro della Corte di cassazione.
Avvocato rimborsato. È l'amministrazione che deve
pagare al dipendente inserito nel ruolo
professionale legale la tassa annuale di iscrizione
all'elenco speciale annesso all'albo forense per
l'esercizio della professione nell'interesse
esclusivo dell'ente datore. E ciò perché opera lo
schema ex articolo 1719 c.c.: il mandante deve
tenere il mandatario indenne da tutte le diminuzioni
patrimoniali che scaturiscono dall'incarico svolto.
Se dunque il lavoratore ha anticipato di tasca
propria, deve essere reintegrato dell'esborso perché
il pagamento della quota all'Ordine non può
ritenersi coperto dall'indennità di toga né inerente
ai rimborsi spese.
È quanto emerge dalla
sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Sez.
lavoro della Corte di Cassazione.
Decisiva l'esclusiva
Niente da fare per l'Inps: dovrà rassegnarsi a
restituire all'ex dipendente tutte le tasse versate
dal lavoratore quando era impiegato all'ufficio
legale dell'istituto. La Suprema corte dà seguito al
parere pronunciato dal Consiglio di stato
nell'affare 678/2010: non convince l'interpretazione
della Corte dei conti secondo cui la tassa dovrebbe
ritenersi «strettamente personale» perché
legata all'integrazione del requisito professionale
previsto per svolgere il rapporto con l'ente.
Decisiva è invece l'esclusività del rapporto che
lega l'avvocato all'amministrazione: l'opera
professionale risulta garantita nell'ambito della
subordinazione, la tassa annuale da pagare
all'Ordine rientra fra i costi per lo svolgimento
dell'attività e deve dunque gravare sull'ente
datore, che è l'unico beneficiario delle
prestazioni.
L'amministrazione deve rimborsare perché la quota
annuale per l'iscrizione all'elenco speciale
dell'albo non può ritenersi riconducibile alla
retribuzione e ha un regime tributario incompatibile
con le spese sostenute nell'interesse della persona,
come quelle affrontate per gli studi universitari e
per l'acquisizione dell'abilitazione professionale.
L'analogia con il contratto di mandato, poi, è
rilevata laddove nel lavoro dipendente si configura
l'assunzione a compiere l'attività per conto e
nell'interesse altrui: così è il datore che deve
fornire i mezzi necessari al dipendente come il
mandante al mandatario (articolo
ItaliaOggi del 17.04.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it).
|
Per comprendere appieno la ratio della
sentenza, di seguito se ne propone la parte
saliente con relativa massima: |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
pagamento della tassa annuale di iscrizione
all'Elenco speciale annesso all'Albo degli avvocati,
per l'esercizio della professione forense
nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro,
rientra tra i costi per lo svolgimento di detta
attività, che, in via normale, devono gravare
sull'Ente stesso.
Quindi, se tale pagamento viene anticipato
dall'avvocato-dipendente deve essere rimborsato
dall'Ente medesimo, in base al principio generale
applicabile anche nell'esecuzione del contratto di
mandato, ai sensi dell'art. 1719 cod. civ. secondo
cui il mandante è obbligato a tenere indenne il
mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che
questi abbia subito in conseguenza dell'incarico,
fornendogli i mezzi patrimoniali necessari.
5.- Lo stesso difetto di impostazione si rinviene
anche con riguardo al primo e al terzo motivo di
ricorso, essendo le censure con essi proposte
incentrate su argomenti già spesi nel giudizio di
appello ed espressamente ritenuti infondati dalla
Corte, senza invece lambire le ragioni su cui si
basa la sentenza impugnata e, in particolare, senza
contestare il riferimento, in essa contenuto, alla
disciplina del mandato.
6.- A tale ultimo riguardo deve essere, peraltro,
precisato che la questione che ha dato origine alla
presente controversia, è stata a lungo dibattuta,
anche con riguardo agli avvocati dipendenti di Enti
locali, dinanzi alla Corte dei Conti (specialmente
in sede di controllo) e al Giudice amministrativo.
Tale questione ha finalmente trovato una soluzione
definitiva —recepita anche dalla contrattazione
collettiva— dopo che il Consiglio di Stato, con
parere reso il 15.03.2011 nell'affare n. 678/2010
(di molto antecedente il presente ricorso) ha
affermato che, quando sussista il vincolo di
esclusività, l'iscrizione all'Albo è funzionale allo
svolgimento di un'attività professionale svolta
nell'ambito di una prestazione di lavoro dipendente,
pertanto la relativa tassa rientra tra i costi per
lo svolgimento di detta attività, che dovrebbero, in
via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso
svolgere altre attività lavorative, gravare
sull'Ente che beneficia in via esclusiva dei
risultati di detta attività.
Il Consiglio di Stato, per giungere a tale
soluzione, ha fatto espresso riferimento
all'indirizzo espresso da questa Corte nella
sentenza 20.02.2007, n. 3928 —che viene contestata
dall'attuale ricorrente— ricordando che, in tale
sentenza è stato affermato che il pagamento della
quota annuale di iscrizione all'Elenco speciale
annesso all'Albo degli avvocati per l'esercizio
della professione forense nell'interesse esclusivo
del datore di lavoro è rimborsabile dal datore di
lavoro, non rientrando né nella disciplina positiva
dell'indennità di toga (art. 14, comma 17, d.P.R. n.
43 del 1990) a carattere retributivo, con funzione
non restitutoria e un regime tributario
incompatibile con il rimborso spese, né attenendo a
spese nell'interesse della persona, quali quelle
sostenute per gli studi universitari e per
l'acquisizione dell'abilitazione alla professione
forense.
D'altra parte, il Consiglio di Stato ha
espressamente affermato di non condividere la le
decisioni prese dalla Corte dei conti in sede di
controllo, nelle quali è stato qualificato l'obbligo
di corresponsione della tassa per l'iscrizione come
strettamente personale, essendo legato
all'integrazione del requisito professionale
necessario per svolgere il rapporto con l'ente
pubblico, mentre a tale giurisprudenza fa
espressamente riferimento l'attuale ricorrente.
È stato anche precisato che nel lavoro dipendente si
riscontra l'assunzione, analoga a quella che
sussiste nel mandato, a compiere un'attività per
conto e nell'interesse altrui, pertanto la soluzione
adottata risponde ad un principio generale
ravvisabile anche nell'esecuzione del contratto di
mandato, ai sensi dell'art. 1719 cod. civ. secondo
cui il mandante è obbligato a tenere indenne il
mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che
questi abbia subito in conseguenza dell'incarico,
fornendogli i mezzi patrimoniali necessari.
7.- Ne consegue che, anche tenendo conto di tale
evoluzione del quadro giurisprudenziale, la sentenza
impugnata va esente da qualsiasi censura,
trattandosi di una pronuncia che, con congrua e
logica motivazione, muovendo dalla condivisione di
quanto affermato da Cass. 20.02.2007, n. 3928, è
pervenuta ad affermare la sussistenza del diritto al
rimborso in oggetto facendo riferimento alle norme
relative all'esecuzione del contratto di mandato (e,
in particolare, all'art. 1719 cod. civ.),
analogamente a quanto stabilito, quasi
contemporaneamente, dal Consiglio di Stato, nel
suindicato parere.
IV — Conclusioni
8.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le
spese del presente giudizio di cassazione —liquidate
nella misura indicata in dispositivo— seguono la
soccombenza.
9.- Ai sensi dell'art. 384, primo comma, cod. proc.
civ. si ritiene opportuno enunciare il seguente
principio di diritto: "Il
pagamento della tassa annuale di iscrizione
all'Elenco speciale annesso all'Albo degli avvocati,
per l'esercizio della professione forense
nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro,
rientra tra i costi per lo svolgimento di detta
attività, che, in via normale, devono gravare
sull'Ente stesso. Quindi, se tale pagamento viene
anticipato dall'avvocato-dipendente deve essere
rimborsato dall'Ente medesimo, in base al principio
generale applicabile anche nell'esecuzione del
contratto di mandato, ai sensi dell'art. 1719 cod.
civ. secondo cui il mandante è obbligato a tenere
indenne il mandatario da ogni diminuzione
patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza
dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali
necessari"
(Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 16.04.2015 n. 7776).
---------------
Dello stesso tenore si legga anche Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 03.04.2015 n. 6878.
|
A seguito di tale pronunciamento il Consiglio
Nazionale degli Architetti ha emanato una circolare
indirizzata ai propri Ordini provinciali laddove,
tra l'altro:
● si afferma che "La sentenza riguarda
espressamente la professione forense, ma i principi
giuridici contenuti nella sentenza appaiono
estensibili anche alla professione di architetto.";
● "Si invitano gli Ordini in indirizzo a
comunicare ai propri iscritti tale interpretazione
giurisprudenziale, invitando i dipendenti pubblici
iscritti agli albi a sottoporre la questione al
proprio ente di appartenenza.".
La circolare de qua è riportata a seguire: |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Dipendenti pubblici iscritti agli albi -
Contributo annuale iscrizione a carico della P.A. (Consiglio
Nazionale degli Architetti Pianificatori,
Paesaggisti e Conservatori,
circolare 22.04.2015 n. 49).
---------------
Riferimenti menzionati:
- Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 16.04.2015 n. 7776
- Consiglio di Stato, Sez. I, parere
parere 15.03.2011 n. 1081
|
Ciò premesso, occorre precisare che la sentenza
sopra menzionata riguarda, innanzitutto, un
avvocato pubblico dipendente e l'ordinamento
professionale degli avvocati così dispone: |
►
R.D.L. 27.11.1933 n. 1578 - Ordinamento delle
professioni di avvocato e di procuratore
Art. 1
(10) (11) (12)
Nessuno può assumere il titolo, né esercitare le funzioni di
avvocato o di procuratore
(9)
se non è iscritto nell'albo professionale.
(13)
Conservano tuttavia il titolo quegli avvocati e procuratori che,
dopo averne acquistato il diritto, sono stati
cancellati dall'albo per una causa che non sia di
indegnità.
La violazione della disposizione del primo comma di questo
articolo, quando non costituisca più grave reato, è
punita, nel caso di usurpazione del titolo di
avvocato o di procuratore, a norma dell'art. 498 del
codice penale, e, nel caso di esercizio abusivo
delle funzioni, a norma dell'art. 348 dello stesso
codice. (13)
---------------
(9) A norma
dell'art. 3, L. 24.02.1997, n. 27 , il termine
"procuratore legale" si intende sostituito con il
termine "avvocato"
(10) A norma dell'art. 1, comma 1, D.Lgs.
01.12.2009, n. 179, è indispensabile la permanenza
in vigore delle disposizioni di cui al presente
provvedimento, limitatamente agli articoli 1; 2,
comma 2; 3; 4; da 7 a 22; 24; 26; 30; 31; da 33 a 93
; 94, commi 1 e 2; da 95 a 101
(11) Per la nuova disciplina dell’ordinamento della
professione forense vedi la L. 31.12.2012 n. 247
(12) Per la soppressione dell'albo dei procuratori
legali, vedi gli artt. 1 e 2, L. 24.02.1997 n. 27
(13) La Corte costituzionale, con ordinanza
21.12.2001 n. 423, ha dichiarato la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell'art. 1, primo e terzo comma,
convertito dalla legge 22.01.1934 n. 36, sollevata
in riferimento agli articoli 33, quinto comma, e 3
della Costituzione.
►
L. 31.12.2012, n.
247 - Nuova disciplina dell'ordinamento della
professione forense
Art. 2 - Disciplina della professione di avvocato
1. L'avvocato è un libero professionista che, in libertà, autonomia
e indipendenza, svolge le attività di cui ai commi 5
e 6.
2. L'avvocato ha la funzione di garantire al cittadino
l'effettività della tutela dei diritti.
3. L'iscrizione ad un albo circondariale è condizione per
l'esercizio della professione di avvocato.
Possono essere iscritti coloro che, in possesso del
diploma di laurea in giurisprudenza conseguito a
seguito di corso universitario di durata non
inferiore a quattro anni, hanno superato l'esame di
Stato di cui all'articolo 46, ovvero l'esame di
abilitazione all'esercizio della professione di
avvocato prima della data di entrata in vigore della
presente legge. Possono essere altresì iscritti:
a) coloro che hanno svolto le funzioni di magistrato
ordinario, di magistrato militare, di magistrato
amministrativo o contabile, o di avvocato dello
Stato, e che abbiano cessato le dette funzioni senza
essere incorsi nel provvedimento disciplinare della
censura o in provvedimenti disciplinari più gravi.
L'iscritto, nei successivi due anni, non può
esercitare la professione nei circondari nei quali
ha svolto le proprie funzioni negli ultimi quattro
anni antecedenti alla cessazione;
b) i professori universitari di ruolo, dopo cinque
anni di insegnamento di materie giuridiche.
L'avvocato può esercitare l'attività di difesa
davanti a tutti gli organi giurisdizionali della
Repubblica. Per esercitarla davanti alle
giurisdizioni superiori deve essere iscritto
all'albo speciale regolato dall' articolo 22 .
Restano iscritti agli albi circondariali coloro che,
senza aver sostenuto l'esame di Stato, risultino
iscritti alla data di entrata in vigore della
presente legge.
4. L'avvocato, nell'esercizio della sua attività, è soggetto alla
legge e alle regole deontologiche.
5. Sono attività esclusive dell'avvocato, fatti salvi i casi
espressamente previsti dalla legge, l'assistenza, la
rappresentanza e la difesa nei giudizi davanti a
tutti gli organi giurisdizionali e nelle procedure
arbitrali rituali.
6. Fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente
individuate relative a specifici settori del diritto
e che sono previste dalla legge per gli esercenti
altre professioni regolamentate, l'attività
professionale di consulenza legale e di assistenza
legale stragiudiziale, ove connessa all'attività
giurisdizionale, se svolta in modo continuativo,
sistematico e organizzato, è di competenza degli
avvocati. È comunque consentita l'instaurazione di
rapporti di lavoro subordinato ovvero la
stipulazione di contratti di prestazione di opera
continuativa e coordinata, aventi ad oggetto la
consulenza e l'assistenza legale stragiudiziale,
nell'esclusivo interesse del datore di lavoro o del
soggetto in favore del quale l'opera viene prestata.
Se il destinatario delle predette attività è
costituito in forma di società, tali attività
possono essere altresì svolte in favore
dell'eventuale società controllante, controllata o
collegata, ai sensi dell'articolo 2359 del codice
civile. Se il destinatario è un'associazione o un
ente esponenziale nelle diverse articolazioni,
purché portatore di un interesse di rilievo sociale
e riferibile ad un gruppo non occasionale, tali
attività possono essere svolte esclusivamente
nell'ambito delle rispettive competenze
istituzionali e limitatamente all'interesse dei
propri associati ed iscritti.
7. L'uso del titolo di avvocato spetta esclusivamente a
coloro che siano o siano stati iscritti ad un albo
circondariale, nonché agli avvocati dello
Stato.
8. L'uso del titolo è vietato a chi sia stato radiato.
|
Altrettanto può dirsi con riferimento agli
assistenti sociali pubblici dipendenti allorché
l'ordinamento professionale di riferimento così
recita: |
►L.
23.03.1993 n. 84 - Ordinamento della professione di
assistente sociale e istituzione dell'albo
professionale
Art. 2 - Requisiti per l'esercizio della professione
1. Per esercitare la professione di assistente sociale è
necessario essere in possesso del diploma
universitario di cui all'articolo 2 della legge
19.11.1990 n. 341, aver conseguito l'abilitazione
mediante l'esame di Stato ed essere iscritti
all'albo professionale istituito ai sensi
dell'articolo 3 della presente legge.
1-bis. Il decreto di riconoscimento della qualifica professionale
ai sensi del Titolo III, del decreto legislativo
09.11.2007 n. 206, costituisce titolo per
l'iscrizione nell'albo
(4).
2. Con i decreti del Presidente della Repubblica di cui
all'articolo 9 della legge 19.11.1990, n. 341, è
definito l'ordinamento didattico del corso di
diploma universitario di cui al comma 1.
---------------
(4) Comma
aggiunto dal comma 1 dell'art. 63, D.Lgs. 26.03.2010
n. 59
|
Se ne deduce, pertanto, che con riferimento agli
avvocati nonché agli assistenti
sociali se gli stessi vogliono esercitare la
professione (fuori ovvero dentro la P.A.)
sussiste l'obbligo
(di legge) di essere iscritti al proprio Ordine
professionale.
Con riferimento, invece, ai Tecnici Comunali
(laureati e diplomati) le cose non stanno
negli stessi termini e, difatti, la legge statuisce quanto
segue: |
INGEGNERI ED ARCHITETTI
►
L. 24.06.1923, n. 1395
- Tutela del titolo e dell'esercizio professionale
degli ingegneri e degli architetti
Art. 4
Le perizie e gli altri incarichi relativi all'oggetto della
professione di ingegnere e di architetto sono
dall'autorità giudiziaria conferiti agli inscritti
nell'albo.
Le pubbliche amministrazioni, quando debbano valersi
dell'opera di ingegneri o architetti esercenti la
professione libera, affideranno gli incarichi agli
inscritti nell'albo.
Tuttavia, per ragioni di necessità o di utilità evidente, possono,
le perizie e gli incarichi di cui nei precedenti
commi, essere affidate a persone di competenza
tecnica, anche non inscritte nell'albo, nei limiti e
secondo le norme che saranno stabilite col
regolamento.
►
R.D. 23/10/1925, n.
2537 - Approvazione del regolamento per le
professioni d'ingegnere e di architetto
Art. 5
Per esercitare in tutto il territorio del Regno e delle colonie le
professioni di ingegnere e di architetto è
necessario avere superato l'esame di Stato, a norma
del R.D. 31.12.1923, n. 2909, ferme restando le
disposizioni transitorie della L. 24.06.1923, n.
1395 e del presente regolamento.
Soltanto però agli iscritti nell'albo possono conferirsi le
perizie e gli incarichi di cui all'art. 4 della
detta L. 24.06.1923, n. 1395 , salva in ogni caso
l'eccezione preveduta nel capoverso ultimo dello
stesso art. 4 e nell'art. 56 del presente
regolamento.
Art.
56
Le perizie e gli incarichi di cui all' art. 4 della L. 24.06.1923,
n. 1395, possono essere affidati a persone non
iscritte nell'albo soltanto quando si verifichi una
delle seguenti circostanze:
a) che si tratti di casi di speciale importanza i
quali richiedano l'opera di un luminare della
scienza o di un tecnico di fama singolare, non
iscritto nell'albo;
b) che si tratti di semplici applicazioni della
tecnica, non richiedenti speciale preparazione
scientifica o che non vi siano nella località
professionisti iscritti nell'albo, ai quali affidare
la perizia o l'incarico.
Art. 62
Gli ingegneri ed architetti che siano impiegati di una
pubblica amministrazione dello Stato, delle province
o dei comuni, e che si trovino iscritti nell'albo
degli ingegneri e degli architetti, sono soggetti
alla disciplina dell'ordine per quanto riguarda
l'eventuale esercizio della libera professione.
I predetti ingegneri ed architetti non possono esercitare la
libera professione ove sussista alcuna
incompatibilità preveduta da leggi, regolamenti
generali o speciali, ovvero da capitolati.
Per l'esercizio della libera professione è in ogni caso necessaria
espressa autorizzazione dei capi gerarchici nei modi
stabiliti dagli ordinamenti dell'amministrazione da
cui il funzionario dipende.
[È riservata alle singole amministrazioni dello Stato la facoltà di
liquidare ai propri funzionari i corrispettivi per
le prestazioni compiute per enti pubblici o aventi
finalità di pubblico interesse]
(15).
[Tali corrispettivi saranno fissati sulla base delle tariffe per i
liberi professionisti con una riduzione non
inferiore ad un terzo né superiore alla metà, salvo
disposizioni speciali in contrario. La riduzione non
avrà luogo nel caso che la prestazione sia compiuta
insieme con liberi professionisti, quali componenti
di una commissione] (16) (17).
---------------
(15) Comma abrogato
dall'art. 18, L. 11.02.1994 n. 109, nel testo
modificato dall' art. 13, L. 17.05.1999 n. 144
(16) Comma abrogato dall'art. 18, L. 11.02.1994 n.
109, nel testo modificato dall' art. 13, L.
17.05.1999 n. 144
(17) Vedi, anche, l'art. 21, L. 15.11.1973 n. 734
-----------------------------------------------
GEOMETRI
►
R.D.
11/02/1929, n. 274 - Regolamento per la professione
di geometra
Art. 2
Presso ogni locale associazione sindacale
(3)
dei geometri legalmente riconosciuta è costituito
l'albo dei geometri, in cui sono iscritti coloro
che, trovandosi nelle condizioni stabilite dal
presente regolamento, abbiano la residenza entro la
circoscrizione dell'associazione medesima.
---------------
(3) Ora,
collegio professionale ai sensi del D.Lgs.Lgt.
23.11.1944 n. 382 , recante norme dei Consigli degli
ordini e collegi e sui Consigli nazionali
professionali.
Art. 7
Gli impiegati dello Stato e delle altre pubbliche
Amministrazioni, ai quali, secondo gli ordinamenti
loro applicabili, sia vietato l'esercizio della
libera professione, non possono essere iscritti
nell'albo; ma, in quanto sia consentito, a
norma degli ordinamenti medesimi, il conferimento di
speciali incarichi, questi potranno loro essere
affidati, pure non essendo essi iscritti nell'albo.
I suddetti impiegati, ai quali sia invece consentito
l'esercizio della professione, possono essere
iscritti nell'albo; ma sono soggetti alla
disciplina del Comitato
(6)
soltanto per ciò che riguarda il libero esercizio.
In nessun caso la iscrizione nell'albo può
costituire titolo per quanto concerne la loro
carriera.
Gli impiegati suddetti non possono, però, anche se inscritti
nell'albo, esercitare la libera professione ove
sussista alcuna incompatibilità preveduta da leggi,
regolamenti generali o speciali, ovvero da
capitolati.
Per l'esercizio della libera professione è in ogni caso necessaria
espressa autorizzazione dei capi gerarchi nei modi
stabiliti dagli ordinamenti dell'amministrazione da
cui l'impiegato dipende.
È riservata alle singole Amministrazioni dello Stato la facoltà di
liquidare ai propri impiegati i corrispettivi per le
prestazioni compiute per enti pubblici o aventi
finalità di pubblico interesse.
Tali corrispettivi saranno fissati sulla base delle tariffe per i
liberi professionisti con una riduzione non
inferiore ad un terzo, né superiore alla metà, salvo
disposizioni speciali in contrario.
La riduzione non avrà luogo nel caso che la prestazione sia
compiuta insieme con liberi professionisti, quali
componenti di una Commissione.
---------------
(6) Ora,
collegio professionale ai sensi del D.Lgs.Lgt.
23.11.1944 n. 382 , recante norme dei Consigli degli
ordini e collegi e sui Consigli nazionali
professionali
|
Ora, da quanto sopra riportato, si può evincere
quanto segue:
1) per fregiarsi del titolo di Avvocato
la legge impone di
essere iscritto all'Ordine professionale;
anche per l'Assistente sociale
la legge impone di
essere iscritto all'Ordine professionale,
sia che si eserciti la Libera Professione, sia come
dipendente ed anche nei casi di esercizio della
professione a livello volontaristico (si
legga qui);
2) i Geometri a tempo pieno NON
hanno mai potuto
essere iscritti al Collegio professionale;
solo di recente la legge lo consente [si legga al
riguardo:
Oggetto: iscrizione
all'albo dei pubblici dipendenti (Consiglio
Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
nota 13.02.2014 n. 1593 di prot.)]
ma valgono ugualmente, nella fattispecie, le
considerazioni di cui al successivo punto 4)b);
3) anche i Geometri con contratto di
lavoro part-time (non superiore al 50%) possono
essere iscritti e, quindi, svolgere
contemporaneamente il lavoro di pubblico dipendente
e la libera professione (seppur coi limiti di cui
alla
Legge 23.12.1996 n. 662);
4) gli Ingegneri e Architetti, anche con
contratto di lavoro full-time, possono (se lo
vogliono) essere
iscritti all'Ordine professionale precisando che:
a) l'iscrizione NON è necessaria/obbligatoria per svolgere il
lavoro di pubblico dipendente addetto all'UTC,
poiché la legge non lo prevede;
b) se è vero, come è vero, che l'iscrizione all'Ordine è comunque
possibile (a richiesta dell'interessato) è altrettanto vero che non è possibile
svolgere la libera professione (doppio lavoro!! ...
se non in termini risicati di cui all’articolo
53 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165) e, pertanto, la
quota annuale di iscrizione (eventualmente versata)
è di per sé infruttifera poiché non porta
(all'iscritto) alcun tipo di beneficio ... detto
altrimenti, "soldi buttati dalla finestra";
c) possono svolgere solamente la cosiddetta "prestazione
occasionale" nei termini e nei modi siccome
ampiamente esplicitati con l'AGGIORNAMENTO
AL 22.12.2014 [e ciò vale anche per i
Geometri di cui al precedente punto 2)].
Ma perché non è
necessaria/obbligatoria l'iscrizione all'Ordine
affinché un ingegnere/architetto possa lavorare all'UTC
quale dipendente??
Presto detto: vediamo cosa dispone il Codice dei
contratti pubblici e relativo regolamento attuativo: |
►
D.Lgs. 12.04.2006 n.
163 - Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture in attuazione delle
direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE
Art. 90 - Progettazione interna ed esterna alle
amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori
pubblici
1.
Le prestazioni relative alla progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori,
nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di
supporto tecnico-amministrativo alle attività del
responsabile del procedimento e del dirigente
competente alla formazione del programma triennale
dei lavori pubblici sono espletate:
a) dagli uffici tecnici delle
stazioni appaltanti;
b) dagli uffici consortili di progettazione e di
direzione dei lavori che i comuni, i rispettivi
consorzi e unioni, le comunità montane, le aziende
unità sanitarie locali, i consorzi, gli enti di
industrializzazione e gli enti di bonifica possono
costituire con le modalità di cui agli
articoli 30, 31 e 32 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267;
c) dagli organismi di altre pubbliche
amministrazioni di cui le singole stazioni
appaltanti possono avvalersi per legge;
d) da liberi professionisti singoli od associati
nelle forme di cui alla legge 23.11.1939, n. 1815,
e successive modificazioni
(legge abrogata
dall'art. 10, comma 11, legge n. 183 del 2011),
ivi compresi, con riferimento agli interventi
inerenti al restauro e alla manutenzione di beni
mobili e delle superfici decorate di beni
architettonici, i soggetti con qualifica di
restauratore di beni culturali ai sensi della
vigente normativa;
e) dalle società di professionisti;
f) dalle società di ingegneria;
f-bis) da prestatori di servizi di ingegneria ed
architettura di cui alla
categoria 12 dell'allegato II A stabiliti in
altri Stati membri, costituiti conformemente alla
legislazione vigente nei rispettivi Paesi;
(lettera
aggiunta dall'art. 1, comma 1, lettera v), d.lgs.
n. 152 del 2008)
g) da raggruppamenti temporanei costituiti dai
soggetti di cui alle lettere d), e), f), f-bis) e
h) ai quali si applicano le disposizioni di cui
all'articolo
37 in quanto compatibili;
h) da consorzi stabili di società di
professionisti e di società di ingegneria, anche
in forma mista, formati da non meno di tre
consorziati che abbiano operato nel settore dei
servizi di ingegneria e architettura, per un
periodo di tempo non inferiore a cinque anni, e
che abbiano deciso di operare in modo congiunto
secondo le previsioni del
comma 1 dell'articolo 36. E' vietata la
partecipazione a più di un consorzio stabile. Ai
fini della partecipazione alle gare per
l'affidamento di incarichi di progettazione e
attività tecnico-amministrative ad essa connesse,
il fatturato globale in servizi di ingegneria e
architettura realizzato da ciascuna società
consorziata nel quinquennio o nel decennio
precedente è incrementato secondo quanto stabilito
dall'articolo
36, comma 6, della presente legge; ai consorzi
stabili di società di professionisti e di società
di ingegneria si applicano altresì le disposizioni
di cui all'articolo
36, commi 4 e 5 e di cui all'articolo
253, comma 8.
(probabile errore di coordinamento:
si suppone che il rinvio sia all'art. 253, comma
15)
4.
I progetti redatti dai soggetti di cui al comma
1, lettere a), b) e c), sono firmati da dipendenti
delle amministrazioni abilitati all'esercizio
della professione. I pubblici dipendenti che
abbiano un rapporto di lavoro a tempo parziale non
possono espletare, nell'ambito territoriale
dell'ufficio di appartenenza, incarichi
professionali per conto di pubbliche amministrazioni
di cui all'articolo
1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, e successive modificazioni, se non
conseguenti ai rapporti d'impiego.
Art. 253 - Norme transitorie
16.
I tecnici diplomati che siano in servizio presso
l'amministrazione aggiudicatrice alla data di
entrata in vigore della
legge 18.11.1998, n. 415, in assenza
dell'abilitazione, possono firmare i progetti,
nei limiti previsti dagli ordinamenti professionali,
qualora siano in servizio presso
l'amministrazione aggiudicatrice ovvero abbiano
ricoperto analogo incarico presso un'altra
amministrazione aggiudicatrice, da almeno cinque
anni e risultino inquadrati in un profilo
professionale tecnico e abbiano svolto o collaborato
ad attività di progettazione.
-----------------------------------------------
►
D.P.R.
05.10.2010 n. 207 - Regolamento di esecuzione ed
attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n.
163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture in attuazione delle
direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»
Art. 9 - Responsabile del procedimento per la
realizzazione di lavori pubblici
(art. 7, d.P.R. n.
554/1999)
1. Le fasi di
progettazione, affidamento ed esecuzione di ogni
singolo intervento sono eseguite sotto la diretta
responsabilità e vigilanza di un responsabile del
procedimento, nominato dalle amministrazioni
aggiudicatrici nell'ambito dei propri dipendenti di
ruolo, fatto salvo quanto previsto dall’articolo
10, comma 5, del codice, prima della fase di
predisposizione dello studio di fattibilità o del
progetto preliminare da inserire nell’elenco annuale
di cui all’articolo
128, comma 1, del codice; per lavori, non
assoggettati a programmazione ai sensi dell’articolo
128 del codice, il responsabile del procedimento
è nominato contestualmente alla decisione di
realizzare i lavori.
2. Il responsabile del procedimento provvede a
creare le condizioni affinché il processo
realizzativo dell’intervento risulti condotto in
modo unitario in relazione ai tempi e ai costi
preventivati, alla qualità richiesta, alla
manutenzione programmata, alla sicurezza e alla
salute dei lavoratori ed in conformità di qualsiasi
altra disposizione di legge in materia.
3. Nello svolgimento delle attività di propria
competenza il responsabile del procedimento formula
proposte al dirigente cui è affidato il programma
triennale e fornisce allo stesso dati e
informazioni:
a) nelle fasi di aggiornamento
annuale del programma triennale;
b) nelle fasi di affidamento, di
elaborazione ed approvazione del progetto
preliminare, definitivo ed esecutivo;
c) nelle procedure di scelta del
contraente per l'affidamento di appalti e
concessioni;
d) sul controllo periodico del
rispetto dei tempi programmati e del livello di
prestazione, qualità e prezzo;
e) nelle fasi di esecuzione e
collaudo dei lavori.
4. Il
responsabile del procedimento è un tecnico,
abilitato all'esercizio della professione o,
quando l'abilitazione non sia prevista dalle norme
vigenti, è un funzionario tecnico, anche di
qualifica non dirigenziale, con anzianità di
servizio non inferiore a cinque anni. Il
responsabile del procedimento può svolgere
per uno o più interventi, nei limiti delle
proprie competenze professionali, anche le
funzioni di progettista o di direttore dei lavori.
Tali funzioni non possono coincidere nel caso di
interventi di cui all’articolo
3, comma 1, lettere l) e m), ovvero di
interventi di importo superiore a 500.000 euro. Il
responsabile del procedimento può altresì svolgere
le funzioni di progettista per la predisposizione
del progetto preliminare relativo a lavori di
importo inferiore alla soglia di cui all’articolo
28, comma 1, lettera c), del codice.
|
Da quanto sopra riportato si evince che le
disposizioni legislative citate ineriscono la sola
progettazione e non il resto del mansionario del
pubblico dipendente (quale, per esempio,
l'istruttoria delle istanze edilizie, la repressione
degli abusi edilizi, ecc.) tant'è
che per essere assunti, nel bando di concorso, si
chiede ai partecipanti (a seconda del posto da
ricoprire in pianta organica) di essere diplomati
piuttosto che laureati. Altra cosa è l'abilitazione
ovvero l'iscrizione all'albo/ordine
professionale siccome già detto più sopra.
Pertanto, circa la progettazione all'interno dell'UTC possono discendere le
seguenti considerazioni:
a) se trattasi di Ingegnere/Architetto
(comunque una figura laureata),
necessita (sempre e
comunque) che abbia conseguito l'abilitazione (esame
di stato) e non corre l'obbligo (di legge) che sia
anche iscritto all'ordine professionale;
b) se trattasi di Geometra (comunque una
figura diplomata), necessita:
1) dell'abilitazione (esame
di stato) oppure 5 (cinque) anni di
anzianità nella P.A. alla data di entrata in vigore
della legge 18.11.1998 n. 415 (ovverosia al
19.12.1998);
2) dell'abilitazione (esame
di stato) sempre e comunque se in servizio
dal/dopo il 20.12.1998
(senza l'obbligo dell'iscrizione al Collegio
professionale). |
QUINDI?? |
Quindi,
non corrisponde al
vero quanto affermato dal Consiglio Nazionale
degli Architetti
di cui alla
circolare 22.04.2015 n. 49
in ordine all'obbligatorietà a carico
dell'ente pubblico di appartenenza del versamento della quota
annuale di iscrizione all'Ordine professionale con
riferimento ai pubblici dipendenti,
a fronte dell'emanato pronunciamento
Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 16.04.2015 n. 7776,
poiché
-così come ampiamente esplicitato più sopra,
non
sussiste l'obbligo di legge di iscriversi al
fine di poter lavorare all'interno dell'UTC.
Tra l'altro, siccome notorio, le varie Sezz.
territoriali della Corte dei Conti hanno ribadito
più volte all'unisono (tranne in un unico caso -per
quanto di nostra conoscenza- di cui alla
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria,
sentenza 28.09.2007 n. 801)
che
laddove il tecnico laureato volesse comunque
iscriversi all'Ordine professionale (per far cosa??)
lo dovrebbe fare a spese proprie
[al riguardo, si legga il materiale raccolto
nell'apposito
dossier PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale di
iscrizione all'ordine professionale)]
poiché, diversamente, si concretizzerebbe un danno
erariale.
E con riferimento a tale arresto è stato affermato che
"La sentenza 801/2007 della Sezione Calabria è
stata resa all’esito di un giudizio di
responsabilità: le decisioni
assunte in tale sentenza, purché passata in
giudicato, sono vincolanti soltanto per le parti del
giudizio (art. 2909 c.c.). Le interpretazioni
contenute in una sentenza costituiscono di regola un
precedente non vincolante, mancando nel nostro
ordinamento il principio dello stare decisis
operante in altri sistemi giuridici.
In secondo luogo occorre osservare che
la soluzione adottata nella sentenza non può
avere valenza generale, in quanto accoglie
espressamente, per farne causa esimente, il concetto
di “vantaggio economico”
(art. 1, comma 1-bis, legge 20/1994)
che costituisce criterio derogatorio la cui
applicazione in concreto è demandata esclusivamente
al giudice contabile in sede di responsabilità."
(cfr.
Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Marche,
parere 03.06.2008
n. 9).
Concludendo, nulla toglie che ognuno la possa pensare
come meglio crede e se qualcuno volesse manifestare
il proprio avviso contrario siamo ben disponibili a ricevere e
pubblicare (su questi schermi) le relative ragioni
sottese.
14.05.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
VARI:
GUIDA ALLE AGEVOLAZIONI FISCALI PER LE PERSONE CON
DISABILITA' (aprile 2015 - Agenzia delle
Entrate). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Conto termico: dal 20 maggio aperti i Registri
per l’accesso agli incentivi riguardanti alcune tipologie di
intervento sugli impianti termici (ANCE di Bergamo,
circolare 08.05.2015 n. 107). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Rideterminazione del contributo di costruzione
per tardivo aggiornamento del costo di costruzione (Regione
Emilia Romagna,
nota 29.04.2015 n. 277317 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Disciplina delle assenze per visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici. Articolo
55-septies, comma 5-ter, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 e
successive modifiche ed integrazioni (Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali,
nota 29.04.2015 n. 26518 di prot.). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: Atto di indirizzo per la corretta applicazione
del D.M. 31.10.2013 n. 143 (Consiglio Nazionale dei
Geologi,
circolare 29.04.2015 n. 392). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Assenze dal servizio per visite, terapie,
prestazioni specialistiche ed esami diagnostici - Sentenza
TAR Lazio n. 5714/2015 di annullamento della Circolare n.
2/2014 della Presidenza del Consiglio dei Ministri
Dipartimento della Funzione Pubblica (Ministero della
Salute,
nota 24.04.2015 n. 14368 di prot.). |
ENTI LOCALI: Oggetto:
Utilizzo di Sistemi di Aeromobile a Pilotaggio Remoto (Droni)
(ENAC,
nota 14.04.2015 n. 40278 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 14.05.2015,
"Procedimento amministrativo di irrogazione delle
sanzioni per superamento dei limiti di esposizione e dei
valori di attenzione stabiliti dal d.p.c.m. 08.07.2003 ed al
mancato rispetto dei limiti e tempi previsti per
l’attuazione dei piani di risanamento per gli impianti fissi
per le telecomunicazioni e la radiotelevisione" (circolare
regionale 12.05.2015 n. 3). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 12.05.2015,
"Quarto aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali
idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r.
12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 08.05.2015 n. 3696). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 12.05.2015, "Modulistica
unificata e standardizzata per la presentazione della
comunicazione di inizio lavori (CIL) e della comunicazione
di inizio lavori asseverata (CILA) per gli interventi di
edilizia libera: adeguamento della modulistica nazionale
alle normative specifiche e di settore di Regione Lombardia" (deliberazione
G.R. 08.05.2015 n. 3543). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 20 dell'11.05.2015, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 30.04.2015, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 05.05.2015 n. 71). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E.
06.05.2015 n. L 115 "DIRETTIVA
(UE) 2015/720 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del
29.04.2015 che modifica la direttiva 94/62/CE
per quanto riguarda la riduzione dell'utilizzo di borse di
plastica in materiale leggero"
(link a http://eur-lex.europa.eu). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: C.
Bargellini,
Sulle disposizioni vigenti in virtù delle quali il ritardo
nella emissione dei certificati di pagamento per gli acconti
o per la rata di saldo, e il ritardo
nell'effettivo pagamento, fa sorgere per l’appaltatore il
diritto agli interessi, legali e moratori (05.05.2015
- link a www.appaltieriserve.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
C. Carrera,
Abbandono di rifiuti e recinzione del fondo: la
responsabilità del proprietario
(Urbanistica e appalti n. 12/2014).
---------------
Prendendo spunto dalla più recente giurisprudenza sulla
responsabilità del proprietario del fondo per l’abbandono di
rifiuti effettuato da terzi, il contributo esamina la
questione della rilevanza colposa dei comportamenti omissivi
del proprietario, con specifico riguardo alla omessa
recinzione del fondo.
In particolare esso dà conto delle opinioni condivise (come
l’applicazione del parametro della diligenza media) per poi
affrontare le questioni controverse, dando ampio spazio al
fondamento della responsabilità: questo, infatti,
costituisce l’elemento decisivo per concludere che in capo
al proprietario sussiste un obbligo di garanzia rivolto ad
impedire il verificarsi di prevedibili eventi di abbandono.
Perciò non si può escludere che la mancata recinzione del
fondo costituisca, nelle circostanze concrete, un
comportamento negligente secondo il parametro della
diligenza media. |
EDILIZIA PRIVATA:
D. Logozzo,
La disciplina degli impianti pubblicitari
(Urbanistica e appalti n. 12/2014).
---------------
Le decisioni in commento, conformandosi ad orientamenti
consolidati nell’ambito della giurisprudenza amministrativa
formatasi in materia di autorizzazioni all’installazione di
impianti pubblicitari, offrono l’occasione per effettuare
un’esegesi della disciplina ad essi applicabile, enucleabile
sia dalle disposizioni di cui all’art. 23 del D.Lgs. n.
285/1992 (nuovo codice della strada), che da quelle di cui
all’art. 153, D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e
del paesaggio). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
A. Senatore,
Incarichi legali ed evidenza pubblica (Urbanistica
e appalti n. 11/2014).
---------------
Il presente contributo si propone di trattare il tema
dell’affidamento di incarichi professionali da parte delle
amministrazioni pubbliche a professionisti esterni ad esse,
con particolare attenzione agli incarichi affidati agli
avvocati.
Per tali affidamenti non solo saranno trattate le relative
modalità e condizioni, ma altresì l’incidenza su di essi
delle norme di cui alla recente Direttiva europea in materia
di appalti. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA PUBBLICI CONTRATTI) |
APPALTI SERVIZI: Immobili, manutenzione trasparente.
Determina Anac.
Appalti di manutenzione di immobili pubblici da affidare
ponendo a base di gara i piani di manutenzione e chiedendo
offerte migliorative; le stazioni appaltanti devono però
prima procedere a una adeguata programmazione degli
interventi e alla puntuale classificazione delle
prestazioni; necessarie specifiche puntuali per la fase
esecutiva dell'appalto.
Sono questi alcuni dei suggerimenti contenuti nella
determinazione 28.04.2015 n. 7 dell'Anac recanti le
linee guida per l'affidamento dei servizi di manutenzione
degli immobili (anche i c.d. «global services»).
Si tratta
di contratti che si caratterizzano per la loro natura
«mista» (comprendenti lavori e/o servizi e/o forniture) per
i quali il principio generale previsto dal codice dei
contratti è che se l'oggetto principale è costituito da
servizi (e i lavori, benché di valore economico superiore al
50%, assumono carattere meramente accessorio) l'appalto sarà
inquadrato come appalto di servizi (il che significa che la
qualificazione dell'appaltatore non sarà con richiesta di
attestazione Soa).
L'Anac invita pertanto le stazioni appaltanti a effettuare
una attenta analisi della tipologia dei singoli interventi
da eseguire e, laddove dovesse emergere la necessità di
effettuare «attività/lavorazioni che comportano una
modificazione dello stato fisico dei beni/impianti», a
prevedere nella documentazione di gara il possesso dei
requisiti di qualificazione per lo svolgimento dei lavori.
In particolare l'Anac precisa che occorre procedere alla
classificazione dell'appalto (se servizi o lavori), definire
l'importo complessivo del contratto e stabilire ogni
elemento relativo alla qualificazione, certificazione,
abilitazione e a ogni altra tipologia di requisito richiesta
dalla normativa vigente
(articolo ItaliaOggi del 12.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: Immobili, per gli appalti no al criterio del prezzo.
Anac. Le istruzioni.
Quando
affidano i servizi di manutenzione dei loro immobili, le
Pubbliche amministrazioni devono utilizzare il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, e non quello
del prezzo più basso perché quest’ultimo non è adatto ai
servizi complessi dal punto di vista tecnico e
organizzativo.
L’indicazione arriva dall’Autorità anticorruzione, che nella
determinazione 28.04.2015 n. 7 diffusa
ieri traccia le Linee guida per i contratti pubblici sulla
manutenzione degli immobili.
L’analisi proposta dall’Anac
parte dal fatto che questo tipo di contratti è
caratterizzato da un mix di attività diverse, che rientrano
sia nel campo dei servizi (per esempio la gestione degli
impianti) sia in quello dei lavori (manutenzioni,
riparazioni e così via).
Per questa ragione, il primo problema riguarda la
catalogazione dell’appalto, che deve basarsi sull’analisi
oggettiva di quale fra le due sia la componente principale.
Nel caso dei lavori, infatti, le procedure semplificate sono
percorribili per appalti fino a 5.186.000 euro, mentre nei
servizi questa via si chiude a quota 270mila euro, e di
conseguenza non è lecito indicare come oggetto principale
dell’appalto i lavori solo per eludere queste soglie.
La complessità dei contratti incide soprattutto sulla scelta
dei criteri di aggiudicazione: l’obiettivo della Pa deve
essere quello di scegliere la migliore combinazione fra
prezzo e qualità, tenendo conto dell’intera durata
dell’appalto. Per queste ragioni, il suggerimento
dell’Autorità è quello di porre a base d’asta un canone
periodico che sia calcolato per remunerare tutti gli
interventi previsti dal contratto, comprese le riparazioni
di eventuali guasti (articolo Il Sole 24 Ore del
09.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: ANTICORRUZIONE/Le linee guida dell'Anac in materia di tutela
del whistleblower.
Uno scudo per chi fa la soffiata. I dati di chi segnala
l’illecito oscurati nelle comunicazioni.
Uno scudo protettivo per gli informatori anti corruzione. Il
nome del dipendente pubblico che segnala illeciti (anche se
non costituiscono reato, come fatti di mala amministrazione)
deve essere criptato, tenuto separato dalla segnalazione e
oscurato nelle comunicazioni interne.
L'Anac, Autorità
nazionale anticorruzione, ha definitivamente approvato (determinazione
28.04.2015 n. 6) le
linee guida in materia di tutela del whistleblower, il
dipendente che fa la soffiata, specificando che le tutele
dovrebbero essere estese anche ai consulenti esterni della
p.a..
Rimane, invece, per il cittadino la possibilità di
esposti anonimi, purché dettagliati. Ma vediamo le parti
salienti del provvedimento dell'Anac.
La norma. La norma di riferimento (articolo 54-bis del dlgs
165/2001) tutela da sanzioni disciplinari, licenziamento e
altre forme di ritorsione il pubblico dipendente che
denuncia condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in
ragione del rapporto di lavoro. Il nome del segnalante non
può essere rilevato in procedimenti disciplinari, se non nel
caso in cui sia indispensabile per il diritto di difesa.
Inoltre la segnalazione è esclusa dalla trasparenza
amministrativa e deve essere inoltrata anche all'Anac.
Cosa segnalare. Possono essere segnalati non solo fatti di
reato, ma anche le situazioni in cui si verifica un abuso di
potere per ottenere vantaggi privati, e anche i fatti di
mala amministrazione, compreso l'inquinamento dell'azione
amministrativa dall'esterno. Le linee guida fanno alcuni
esempi: sprechi, nepotismo, demansionamenti, ripetuto
mancato rispetto dei tempi procedimentali, assunzioni non
trasparenti, irregolarità contabili, false dichiarazioni,
violazione delle norme ambientali e di sicurezza sul lavoro.
Fatti probabili. Non è necessario che il dipendente sia
certo dell'effettivo avvenimento dei fatti denunciati e
dell'autore degli stessi. È, invece, sufficiente che il
dipendente, in base alle proprie conoscenze, ritenga
altamente probabile che si sia verificato un fatto illecito.
Le segnalazioni devono essere il più possibile
circostanziate e devono contenere il maggior numero di
elementi al fine di consentire di effettuare le dovute
verifiche. Non sono ammesse le segnalazioni fondate su
semplici sospetti o voci.
Tutela. Per tutelare il segnalante l'Anac prescrive di
tenere separati i dati identificativi del segnalante dal
contenuto della segnalazione, con l'adozione di codici
sostitutivi dei dati identificativi. Inoltre non è permesso
risalire all'identità del segnalante se non nell'eventuale
procedimento disciplinare a carico del segnalato. Va, poi,
mantenuto riservato, per quanto possibile, anche in
riferimento alle esigenze istruttorie, il contenuto della
segnalazione durante l'intera fase di gestione della stessa.
Inoltre è meglio una procedura informatica a una modalità di
acquisizione e gestione delle segnalazioni che comportino la
presenza fisica del segnalante.
Nel caso di trasmissione a soggetti interni
all'amministrazione, dovrà essere inoltrato solo il
contenuto della segnalazione, eliminando tutti i riferimenti
dai quali sia possibile risalire all'identità del
segnalante. Nel caso di trasmissione all'Autorità
giudiziaria, alla Corte dei conti o al Dipartimento della
funzione pubblica, la trasmissione dovrà avvenire
evidenziando che si tratta di una segnalazione pervenuta da
un soggetto cui l'ordinamento riconosce una tutela
rafforzata della riservatezza.
Collaboratori esterni. L'Anac, vista la lacuna normativa, si
limita ad augurarsi un'integrazione della norma per tutelare
consulenti e collaboratori a qualsiasi titolo e i
collaboratori di imprese fornitrici dell'amministrazione.
Cittadini. Ai cittadini, sforniti delle descritte tutele,
potrebbe rimanere la segnalazione anonima. L'Anac ricorda
sono prese in considerazione anche le segnalazioni anonime,
se, però, sono adeguatamente circostanziate e descritte nei
particolari, e cioè se sono in grado di far emergere fatti e
situazioni relativi a contesti determinati.
Stop alla protezione.
Il limite della protezione per il dipendente pubblico è la
diffamazione o la calunnia. Ma solo in presenza di una
sentenza di primo grado sfavorevole al segnalante potranno
cessano le misure di tutela della riservatezza dell'identità
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2015). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI: Unioni, spese compensabili.
I servizi associati devono essere più d'uno.
La possibilità di compensare le spese di personale
all'interno delle unioni e delle convenzioni opera soltanto
nell'ipotesi in cui esse gestiscano più funzioni fra quelle
che le legge impone ai piccoli comuni di svolgere in forma
associata.
È quanto afferma la Corte dei conti, sezione
regionale di controllo per la Lombardia, nel
parere
28.04.2015 n. 173.
L'art. 1, comma 450, della legge 190/2015, ha aggiunto
all'art. 14 del dl 78/2010 (che impone ai piccoli comuni
l'esercizio associato obbligatorio delle proprie funzioni
fondamentali) il comma 31-quinquies, ai sensi del quale
«nell'ambito dei processi associativi di cui ai commi 28 e
seguenti, le spese di personale e le facoltà assunzionali
sono considerate in maniera cumulata fra gli enti coinvolti,
garantendo forme di compensazione fra gli stessi, fermi
restando i vincoli previsti dalle vigenti disposizioni e
l'invarianza della spesa complessivamente considerata».
Secondo i giudici contabili lombardi, si tratta di una
disposizione di favore che, al fine di incentivare
ulteriormente l'esercizio associato delle predette funzioni,
consente al singolo comune di compensare le eventuali
maggiori spese sostenute per il personale alle proprie
dipendenze (o comunque a esso riferibili agli effetti della
rendicontazione) che svolge le funzioni a vantaggio degli
altri comuni, con i risparmi di spesa derivanti dal mancato
impiego di personale per l'esercizio di altre funzioni
associate assicurate dal personale dell'unione o a carico
degli altri enti convenzionati.
Si richiede pertanto, sotto questo profilo, che sia
predisposta una regolamentazione delle diverse funzioni
associate tale da garantire le predette forme di
compensazione, escludendo in ogni caso qualsiasi aumento
della spesa della spesa per il personale che rimane soggetta
ai vincoli stabiliti dalle disposizioni di coordinamento
della finanza pubblica.
Ne deriva che il citato comma 31-quinquies non può essere
applicato nel caso in cui il servizio associato sia
solamente uno e il personale interessato faccia capo
esclusivamente a un unico comune, il quale dovrà computarne
per intero la spesa ai fini del rispetto dei vincoli imposti
delle norme di coordinamento della finanza pubblica
(articolo ItaliaOggi dell'08.05.2015). |
TRIBUTI: Niente rimborsi Tia con la Tari. I minori incassi con la
Tariffa diventano perdite definitive.
La Corte conti Toscana sancisce l'autonomia della Tassa
rifiuti rispetto al precedente sistema.
La Tassa sui rifiuti (Tari) non può essere usata per
rimborsare i crediti Tia non riscossi dalle precedenti
gestioni. I minori incassi derivanti dalla mancata
riscossione dei crediti maturati sotto il previgente regime
si traducono in perdite definitive a carico del soggetto
gestore.
Questa la posizione della Corte dei conti Toscana, Sez.
controllo,
espressa nel recente
parere
28.04.2015 n. 73 a seguito di richiesta
specifica da parte di un ente locale.
La Corte, pur affermando un principio del tutto
condivisibile (quello dell'autonomia del regime Tari
rispetto al previgente regime Tia), sembra tuttavia giungere
a conclusioni non pienamente convincenti e che rischiano in
realtà di mettere in crisi il fondamentale principio del
recupero totale dei costi del servizio (full cost recovery),
che peraltro la stessa Corte riconosce e afferma nel
medesimo parere. Vediamo meglio.
La vicenda specifica
La questione nasce da una richiesta di un comune della
provincia di Pistoia di poter considerare quali «costi
comuni diversi», nel piano finanziario Tari, ai fini della
determinazione della relativa tariffa, tra l'atro, i «costi
per crediti Tia-1 inesigibili», di cui sia stata accertata
la perdita, per la parte non coperta da fondo rischi o
garanzia assicurativa, temporalmente collocati nel periodo
compreso tra il 2002 e il 2012.
La richiesta si fonda in particolare sul presupposto
implicito che la tariffa debba assicurare il recupero totale
dei costi del servizio. Tale principio, noto come «full cost
recovery» costituisce dichiarata attuazione della direttiva
comunitaria 91/156/Cee, ed è stato introdotto dall'art. 49,
4° comma, dlgs 05.02.1997, n. 22, con riferimento alla
Tia-1, ed è oggi ribadito, con riferimento alla Tari,
dall'art. 1, comma 654, legge 27.12.2013, n. 147.
Lo stesso principio è recepito dal metodo normalizzato per
definire le componenti di costo da coprire con il gettito
della tariffa e i criteri di determinazione della tariffa di
riferimento relativa alla gestione dei rifiuti urbani (dpr
27.04.1999, n. 158), che correttamente include tra le
componenti di costo sia gli accantonamenti a fondo rischi
che le svalutazioni dei crediti non più esigibili.
La posizione della Corte
Nell'esaminare la questione posta alla sua attenzione la
Corte non nega il principio del full cost recovery. Al
contrario fa proprio tale principio, limitandosi
esclusivamente a precisare che esso deve essere applicato
nell'ambito di ciascun regime, senza possibilità di
sovrapposizione alcuna.
In altre parole, secondo la Corte ciascuna tariffa, «deve
essere costruita in modo da bastare a sé stessa, e non
nascere già gravata da oneri pregressi (relativi a crediti
non incassati, originati da tributi risalenti e ormai
soppressi), che avrebbero dovuto trovare idonea copertura
nel quadro dei rispettivi regimi normativi, attraverso
adeguati accantonamenti o maggiori previsioni di entrata».
È per questo motivo che nella costruzione del piano
tariffario relativo alla Tari, secondo la Corte non possono
essere inseriti elementi di costo relativi al previgente
regime di Tia. In effetti, consentire ora per allora al
Comune di considerare, ai fini della quantificazione della
tariffa, i mancati ricavi relativi ad altro tributo, non
incassati dal precedente gestore, comporterebbe il
trasferimento sull'utenza attuale di perdite, che avrebbero
dovuto gravare su una platea almeno in parte diversa di
soggetti.
Fin qui il ragionamento operato dalla Corte appare
assolutamente condivisibile, soprattutto alla luce della
diversa natura giuridica della Tari, rispetto alla Tia che
incide naturalmente anche sulla definizione dei presupposti
impositivi.
Se dunque alla luce delle ragioni sopra indicate è
condivisibile separare le vicende della Tia da quelle della
Tari, lascia invece perplessi la conclusione che sembra
raggiungere la Corte secondo la quale, nel caso in cui tali
modalità di copertura siano risultate insufficienti (e
dunque per la parte dei mancati ricavi non coperta da fondi
rischi o da maggiori entrate), «i minori incassi derivanti
dalla mancata riscossione dei crediti maturati sotto il
previgente regime si traducono in perdite definitive a
carico del soggetto gestore (e cioè, nel caso di specie, la
società in house affidataria del servizio)».
L'affermazione di tale principio, se non adeguatamente
specificato, rischia di apparire in evidente contraddizione
con il riconosciuto principio del full cost recovery. In tal
caso infatti, la società di gestione si troverebbe a vedere
non coperti una parte anche significativa dei costi di
gestione, non certo per propria responsabilità, ma solo per
la non corretta costruzione del sistema tariffario
previgente. Più propriamente, l'impossibilità di coprire i
mancati incassi dei crediti attraverso il sistema Tari
dovrebbe essere posta a carico dei soggetti regolatori (enti
locali e/o autorità) che hanno omesso di applicare il
principio del full cost recovery nella determinazione della
tariffa di riferimento.
Si può tuttavia ritenere che tale ambiguità nella posizione
della Corte sia dovuta al fatto che la società di gestione
in oggetto era una società in house e perciò non facilmente
distinguibile dal soggetto regolatore. Per cui, nel caso di
specie non vi era concretamente un interesse di un soggetto
realmente terzo rispetto al titolare della potestà
regolatoria.
Conseguentemente, ci si può ragionevolmente attendere che in
una diversa fattispecie e di fronte a una concessione di
servizi, possa essere affermato il principio che pare
certamente più adeguato secondo il quale i mancati ricavi
relativi ad altro tributo, non incassati dal precedente
gestore, vanno coperti a carico del bilancio generale del
soggetto che ha concretamente omesso di applicare il
corretto principio del recupero integrale dei costi del
servizio
(articolo ItaliaOggi dell'08.05.2015). |
SEGRETARI COMUNALI: Diritti di rogito ai segretari in convenzione.
Corte dei conti. Compenso legittimo anche se uno dei Comuni
ha dirigenti in organico.
I segretari in
convenzione tra Comuni con i dirigenti e a amministrazioni
che ne sono prive possono percepire i compensi per il rogito
negli enti privi di dirigente, e questi compensi vanno
commisurati sul trattamento economico complessivo del
segretario.
Sono queste le principali indicazioni offerte
dalla Corte dei conti Lombardia nel
parere
24.04.2015 n. 171.
I
giudici scrivono espressamente che «il segretario comunale
titolare del servizio di segreteria in convenzione ha
diritto alla quota prevista di diritti di segreteria per
l’attività svolta quale ufficiale rogante presso il Comune
convenzionato non provvisto di dipendenti con qualifica
dirigenziale; la misura del quinto dello stipendio, su cui parametrare il tetto massimo dei diritti di rogito
erogabili, deve essere calcolata sul trattamento economico
complessivamente fruito da parte del singolo segretario
comunale».
La lettura è coerente con il dettato e la logica del Dl
90/2014, una norma che vieta la percezione dei diritti di
rogito ai segretari che possono già usufruire di un salario
accessorio elevato, in quanto commisurato con il trattamento
economico più elevato percepito dai dirigenti dell’ente. Il
parere interviene con una lettura estensiva della
possibilità per i segretari di ricevere i compensi per le
attività di rogito, e con un’interpretazione nuova e ancora
più estensiva del tetto dei compensi che possono essere
percepiti annualmente, ovviamente entro la soglia massima
del 20% del trattamento economico annuo, soglia fissata
direttamente dal legislatore . Si deve ricordare che su
questa materia si attende il parere della sezione Autonomie
che deve sciogliere i due nodi di fondo: i compensi per il
rogito possono essere percepiti dai segretari assimilati ai
dirigenti e che operano in Comuni privi di dirigenti? Qual è
la misura di questi compensi, entro il tetto di 1/5 del
trattamento economico annuo, e chi deve fissarne la misura?
Il parere richiama in premessa le indicazioni già formulate
dalla stessa sezione Lombardia nella deliberazione n.
275/2014, con la quale è stato espresso un orientamento
positivo per la percezione di questo compenso da parte di
tutti i segretari nei Comuni privi di dirigente. In quella
delibera era stato chiarito che nelle convenzioni tra Comuni
privi di dirigente questo compenso spetta.
Su tale base si
deve trarre la prima conclusione che i diritti di rogito, in
caso di convenzione tra Comuni che hanno la dirigenza e
Comuni che ne sono sprovvisti, spettano per le attività
svolte negli enti privi di dirigenti. Il fatto che uno dei
Comuni aderenti abbia i dirigenti non influisce sulla
condizione dell’altro ente che ne è privo. Si devono
sviluppare considerazioni per molti versi analoghe a quelle
sostenute per consentire ai segretari assimilati ai
dirigenti di ricevere questi compensi nelle amministrazioni
prive di dirigenti: «Rimane irrilevante la circostanza che
tale qualifica dirigenziale sia aliunde rivestita
dall’interessato».
Il parere dà una lettura estensiva del tetto dei compensi
che possono essere percepiti dai segretari: il compenso non
va calcolato sulla sola quota a carico dell’ente privo di
dirigenti, ma sul totale complessivo. Il dettato legislativo
non contiene indicazioni né espresse né tacite in favore
dell’una o dell’altra soluzione, e il parere si limita a
giudicare come «maggiormente conforme al dato letterale
della norma, che si riferisce allo stipendio in godimento»
la lettura riferita al trattamento economico complessivo
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2015). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Il consigliere supplente può dimettersi.
Le dimissioni contestuali dalla carica da parte di 4
consiglieri su 7 assegnati al comune, tra cui un consigliere
supplente, nominato in sostituzione temporanea per l'intera
durata della sospensione del consigliere titolare
configurano l'ipotesi prevista dall'art. 141, comma 1, lett.
b), n. 3, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
ovvero determinano unicamente la cessazione dalla carica dei
consiglieri dimissionari, con conseguente necessità di
procedere alla loro surroga?
In merito alle dimissioni presentate dal consigliere
supplente, l'art. 45 del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267, in materia di surrogazione e supplenza dei
consiglieri comunali, dispone che in caso di sospensione di
un consigliere ai sensi dell'articolo 59 (ora articolo 11
del decreto legislativo 31.12.2012, n. 235), il
consiglio, nella prima adunanza successiva alla notifica del
provvedimento di sospensione, procede alla temporanea
sostituzione affidando la supplenza, per l'esercizio delle
funzioni di consigliere, al candidato della stessa lista che
ha riportato, dopo gli eletti, il maggior numero di voti. La
supplenza ha termine con la cessazione della sospensione.
Qualora sopravvenga la decadenza si fa luogo alla
surrogazione a norma del comma 1.
Il chiaro contenuto letterale della norma specifica che,
durante tale periodo, il candidato chiamato alla temporanea
sostituzione del consigliere raggiunto da misura cautelare
svolge le funzioni di consigliere per assicurare la
funzionalità del consiglio stesso. Nel passato non sono
intervenute pronunce della giurisprudenza concernenti gli
eventuali limiti all'esercizio di tali funzioni; tuttavia,
in relazione ai poteri del vicesindaco chiamato ad assumere
i poteri del sindaco, il consiglio di stato, con i pareri nn.
94 del 21.02.1996 e 501 del 14.06.2001, ha
precisato che il vicesindaco, chiamato in caso di assenza
del sindaco a svolgere le funzioni vicarie, assume la veste
di reggente con titolarità delle competenze, sia pure in via
temporanea e straordinaria e compie tutti gli atti di
competenza del sindaco.
In particolare, l'alto consesso ha
sottolineato che eventuali limitazioni potranno essere
stabilite da norme positive ma, in mancanza, è impossibile
identificare a priori atti riservati al titolare e vietati
al supplente. La preposizione alla carica in cui si è
realizzata la vacanza implica, di norma, l'attribuzione di
tutti i poteri del titolare, con la sola limitazione
temporale connessa alla sua vacanza.
Conseguentemente, sulla
base anche dei principi generali dell'ordinamento
concernenti l'esercizio e la disponibilità dei diritti,
nell'esercizio di tali funzioni rientra anche quella di
rassegnare le dimissioni dalla carica. Nel caso di specie,
sulla base del combinato disposto degli art. 38 e 141, comma
1, lett. b) n. 3 del citato decreto legislativo n. 267/2000,
le dimissioni rassegnate, con le forme ivi indicate, dalla
metà più uno dei membri assegnati comportano lo scioglimento
del consiglio comunale.
Il consiglio di stato, più volte chiamato a intervenire
sull'argomento, ha precisato che le dimissioni «ultra dimidium» abbiano natura di atto collettivo, caratterizzato
dall'essenziale perseguimento del disegno unitario di
provocare lo scioglimento del consiglio comunale con la
volontà degli effetti volta non alla mera rinuncia alla
carica bensì ad essa quale strumento per realizzare,
unitariamente e concordemente da parte della maggioranza,
l'intento comune dello scioglimento del consiglio (Consiglio
di stato n. 846/2004; n. 2433/2014)
(articolo ItaliaOggi dell'08.05.2015). |
SICUREZZA LAVORO:
Responsabilità del RSPP per mancata previsione del rischio
specifico?
Quesito
E' possibile che un RSPP possa essere
condannato penalmente per il reato di omicidio colposo
aggravato dalla violazione della normativa
antinfortunistica, in danno di un lavoratore precipitato
dall'alto durante l'esecuzione dei lavori, evidenziando in
proposito che anche il RSPP, nella sua qualità, avrebbe
dovuto prevedere lo specifico rischio caduta dall'alto ove
avesse operato con la dovuta diligenza?
Risposta
L'obbligo dei titolari della posizione di sicurezza in
materia di infortuni sul lavoro è articolato e comprende non
solo l'istruzione dei lavoratori sui rischi connessi alle
attività lavorative svolte e la necessità di adottare tutte
le opportune misure di sicurezza, ma anche la effettiva
predisposizione di queste, il controllo, continuo ed
effettivo, circa la concreta osservanza delle misure
predisposte per evitare che esse vengano trascurate o
disapplicate nonché il controllo sul corretto utilizzo, in
termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul
processo stesso di lavorazione.
Il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per
organizzare le attività lavorative in modo sicuro,
assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle
doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al
minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale
obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni
specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art.
40, comma 2, c.p..
La responsabilità del datore di lavoro non esclude, però, la
concorrente responsabilità del RSPP. Anche il RSPP, infatti,
che pure è privo dei poteri decisionali e di spesa (e quindi
non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni
di rischio), può essere ritenuto (cor)responsabile del
verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia
oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa
che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare,
dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto
seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle
necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta
situazione (Cass. pen., Sez. IV, 20.04.2011, n. 28779).
Di conseguenza, in tema di infortuni sul lavoro, il
responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur
svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non
operativo ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico -Cass.
Pen. n. 22233 del 2014- di collaborare con il datore di
lavoro, individuando i rischi connessi all'attività
lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per
risolverli, con la conseguenza che, in relazione a tale suo
compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante,
degli eventi che si verifichino in conseguenza della
violazione dei suoi doveri (07.05.2015 - link a
www.insic.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Compensi professionali
spettanti al personale dell'Avvocatura comunale.
L'art. 9, comma 8, del d.l. 90/2014,
convertito nella l. 114/2014, dispone che i commi 3, 4 e 5 e
il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7
del medesimo articolo si applicano a decorrere
dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi
di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del decreto
stesso.
In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal
01.01.2015 le amministrazioni pubbliche non possono
corrispondere compensi professionali agli avvocati
dipendenti delle amministrazioni stesse.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad una problematica
concernente il recente intervento legislativo che ha
riformato gli onorari dell'Avvocatura generale dello Stato e
delle avvocature degli enti pubblici, nello specifico l'art.
9 del d.l. 90/2014, convertito in l. 114/2014. L'Ente
precisa di essere dotato di un Ufficio legale interno e di
aver adottato a suo tempo apposito regolamento di disciplina
dei compensi professionali relativi alla gestione di
controversie giudiziarie in caso di esito favorevole
all'Amministrazione.
Ciò premesso il Comune istante, con riferimento in
particolare a quanto contemplato al comma 8 dell'art. 9
[1]
citato, specifica altresì di non aver provveduto nei termini
all'adeguamento del regolamento in argomento. Di
conseguenza, essendo spirato il termine previsto dal
legislatore per l'adeguamento medesimo, chiede di conoscere
il comportamento da adottare in merito alla richiesta di
corresponsione dei compensi professionali avanzata dal
01.01.2015 dal personale dell'Avvocatura comunale,
dipendente dell'Ente.
Com'è noto, il richiamato articolo 9 del d.l. 90/2014 ha
riformato in modo radicale il regime degli onorari spettanti
agli avvocati di Stato e degli enti pubblici.
La Corte dei conti [2]
ha evidenziato come, a seguito dell'intervenuta riforma, la
disciplina attualmente vigente per le avvocature degli enti
locali risulti maggiormente articolata rispetto a quella
introdotta in precedenza dalla legge di stabilità del 2014
[3], 'contemplando
il passaggio dal meccanismo della decurtazione percentuale
dei compensi, a quello della combinazione del doppio tetto
retributivo (generale e particolare) con quello del regime
di riparto dei compensi secondo le norme regolamentari e
della contrattazione collettiva basate su criteri
meritocratici, con un tetto di spesa, ove l'onere sia posto
a carico dell'ente, ovverosia in caso di sentenza favorevole
con compensazione di spese o a seguito di transazione su
sentenza favorevole'.
La richiamata sezione della Corte dei conti, nel procedere
alla disamina dell'art. 9, ha evidenziato in dettaglio le
regole attualmente in vigore sintetizzandole come di
seguito:
- computabilità dei compensi professionali agli avvocati
dipendenti pubblici nel limite retributivo individuale
generale di cui all'art. 23-ter [4]
del d.l. 201/2011, convertito in l. 214/2011 (comma 1);
- in caso di sentenza favorevole (depositata dopo
l'adeguamento dei regolamenti e contratti collettivi -fonti
cui rinvia la legge- da effettuarsi entro tre mesi dalla
data di entrata in vigore della legge di conversione del
decreto legge medesimo) con vittoria, totale o parziale, di
spese, le somme recuperate dalla controparte sono ripartite
tra gli avvocati dipendenti dell'ente nella misura e con le
modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla
contrattazione collettiva (comma 3, primo periodo), cioè con
criteri oggettivamente misurabili basati sul rendimento
individuale e sulla puntualità negli adempimenti processuali
(comma 5), 'in modo da attribuire a ciascun avvocato una
somma non superiore al suo trattamento economico complessivo'
(comma 7 - limite retributivo individuale specifico). La
parte rimanente delle suddette somme è riversata nel
bilancio dell'amministrazione (comma 3, secondo periodo);
- in caso di sentenza favorevole (depositata dopo l'entrata
in vigore del d.l. 90/2014) con compensazione integrale di
spese (compresi i casi di transazione dopo sentenza
favorevole), i compensi professionali sono corrisposti in
base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei
limiti dello stanziamento previsto, che non può superare il
corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013 (comma 6
- tetto finanziario complessivo) ed 'in modo da
attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo
trattamento economico complessivo' (comma 7).
Per la questione che ci occupa, assume rilievo -come si è
detto- la disposizione contenuta nel comma 8 dell'art. 9 in
esame.
Detta norma prevede che il primo periodo del comma 6 si
applica alle sentenze depositate successivamente alla data
di entrata in vigore del d.l. 90/2014, precisando altresì
che i commi 3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del
comma 6 nonché il comma 7 si applicano a decorrere
dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi
di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del decreto
stesso. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal
01.01.2015, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1
(enti locali compresi) non possono corrispondere compensi
professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni
stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello
Stato.
La Corte dei conti [5]
ha sottolineato come, in assenza dell'adeguamento di
regolamenti e contratti collettivi, a decorrere dal
01.01.2015, i compensi professionali in argomento non
possano essere corrisposti.
Dal tenore della riportata disposizione risulta che
l'effetto concreto del mancato adeguamento dei regolamenti
(o contratti) entro il termine previsto dal legislatore
comporta l'impossibilità di procedere alla corresponsione
dei compensi professionali agli avvocati, a decorrere dal
01.01.2015.
Preso atto dell'impossibilità di procedere alla
corresponsione dei compensi professionali in argomento in
relazione alla contingente situazione prospettata, si
ritiene comunque utile riportare alcune considerazioni
generali espresse in materia dal giudice amministrativo
[6] in una
recente pronuncia, che ricostruisce in modo articolato la
figura dell'avvocato-dipendente e del quadro
giurisprudenziale di riferimento.
In detta sede si è riscontrato, tra l'altro, che il
trattamento economico accessorio del personale togato degli
enti pubblici non è regolato in modo uniforme,
riscontrandosi nella prassi significative divergenze tra le
avvocature dei singoli enti.
Si è parimenti evidenziato come anche la giurisprudenza non
presenti uniformità di vedute sui criteri di determinazione
dei compensi aggiuntivi dovuti agli avvocati degli enti
pubblici e, prima ancora, sul diritto degli stessi a
percepire le c.d. 'propine'. La varietà di dette
posizioni è per lo più dovuta all'assenza di una
regolamentazione unitaria e analitica della materia,
disciplinata da norme elastiche contenute, a seconda dei
casi, in leggi, contratti collettivi e regolamenti e
caratterizzata da prassi applicative spesso distanti e
diversificate tra loro.
Un primo indirizzo giurisprudenziale, nell'evidenziare la
specialità del personale togato rispetto agli altri
dipendenti, riconosce per l'appunto ai legali dipendenti di
enti pubblici il diritto a un compenso accessorio
[7]: tale
principio è stato ritenuto prevalente sul principio di
onnicomprensività della retribuzione, tradizionalmente
sancito in materia di lavoro pubblico dalla legge e/o dalla
contrattazione collettiva.
Un diverso indirizzo giurisprudenziale tende, invece, ad
assimilare gli avvocati-dipendenti agli altri pubblici
impiegati, attribuendo priorità assoluta alla disciplina
speciale del rapporto di impiego e negando loro il diritto a
ricevere un compenso aggiuntivo che tenga conto della
particolare natura dell'attività svolta.
La Suprema Corte [8]
ha, ad esempio, affermato che 'Nessuna norma impone la
corresponsione di onorari e competenze professionali da
parte di enti pubblici i quali si avvalgono dell'attività
dei propri uffici legali attraverso avvocati legati da
rapporto di pubblico impiego, salvo che esista una
disposizione amministrativa o una clausola contrattuale in
tal senso. Deve pertanto ritenersi che, in assenza di
specifica disciplina, un dipendente di un ente pubblico con
mansioni di dirigente che svolga abitualmente, per espressa
previsione contrattuale, anche l'attività di difesa in
giudizio dell'ente, non abbia diritto a percepire, oltre
alla normale retribuzione, anche onorari e competenze per
l'attività professionale svolta'.
Il TAR Puglia prima citato ha richiamato in proposito la
vigente disciplina contrattuale [9]
che recita testualmente: 'gli enti locali provvisti di
Avvocatura costituita secondo i rispettivi ordinamenti
disciplinano la corresponsione dei compensi professionali,
dovuti a seguito di sentenza favorevole all'ente, secondo i
principi di cui al R.D.L. 27.11.1933, n. 1578 e
disciplinano, altresì, in sede di contrattazione decentrata
integrativa la correlazione tra tali compensi professionali
e la retribuzione di risultato'.
Il contratto collettivo applicato rimette, dunque, al
regolamento -e quindi alla scelta di autonomia del singolo
ente- la concreta disciplina dei compensi aggiuntivi
spettanti agli avvocati degli enti locali, con il solo
limite del rispetto dei 'principi' dettati dalla legge
forense, che, nel testo attualmente vigente
[10]
-asserisce il giudice amministrativo- sancisce il diritto
degli avvocati dipendenti degli enti pubblici a un 'trattamento
economico adeguato alla funzione svolta'.
Pertanto -si è rilevato in tale contesto- che, nel
disciplinare la materia delle c.d. 'propine' dovute
al personale togato, i regolamenti dei singoli enti pubblici
conservano uno spazio di libertà in ordine al quantum
debeatur e possono discostarsi dalla disciplina
applicabile agli avvocati del libero foro, in quanto solo
questi ultimi operano sul mercato in concorrenza tra loro,
sopportano i costi e il rischio economico dell'attività
svolta e non godono di alcuna retribuzione base.
Si osserva, da ultimo, che la Corte dei conti, sezione
regionale di controllo della Regione Friuli Venezia Giulia
[11],
seppur interpellata in merito a questioni diverse da quella
prospettata dal Comune istante [12],
ha comunque precisato -incidenter tantum- che 'spetta
all'Ente richiedente valutare la perdurante applicabilità
degli articoli 59 del CCRL del 01.08.2002, relativo al
personale non dirigente degli EELL della Regione Friuli
Venezia Giulia e 46 [13]
del successivo CCRL sottoscritto il 29.02.2008, relativo al
personale dirigente, nella parte in cui prevedono che gli
enti provvisti di Avvocatura costituiti secondo i rispettivi
ordinamenti disciplinino la corresponsione dei compensi
professionali, dovuti a seguito di sentenza favorevole
all'ente, secondo i principi di cui al R.D. 27.11.1933, n.
1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e
procuratore'),
stante l'avvenuta abrogazione dell'intero corpus normativo
ad opera della Legge 31.12.2012, n. 247 (Nuova disciplina
dell'ordinamento forense), in vigore dal 01.02.2013, nonché
della precedentemente intervenuta abrogazione del sistema
tariffario di determinazione dei compensi dell'avvocatura ad
opera del D.L. 24.01.2012, n. 1, come convertito nella Legge
24.03.2012, n. 27 (c.d. decreto liberalizzazioni).
Ciò tanto più in assenza di un sistema legale di
determinazione dei compensi al di fuori dei parametri
specificamente approvati con D.M. n. 140/2012 per la
liquidazione giudiziale dei compensi medesimi - nelle more
dell'entrata in vigore del Regolamento previsto dall'art. 13
della citata L. n. 247/2012 e in presenza della sola
disciplina contrattuale e regolamentare, anche alla luce
della affermata natura onnicomprensiva dei compensi, non più
articolati in diritti e onorari (sul punto vd. Sez. reg.le
Veneto delib. n. 200/2014/PAR).
Il predetto Collegio ha inoltre osservato che, pur essendo
la corresponsione dei compensi in argomento (e il correlato
diritto dell'avvocato dipendente) direttamente discendente
dalla fonte normativa statale (il R.D. n. 1578/1933) e dalla
fonte contrattuale, l'atto normativo interno -il regolamento
appunto- detta le concrete modalità e la misura attraverso
le quali sarà possibile procedere alla detta corresponsione,
integrando per tale via la disciplina astrattamente prevista
dalle fonti sovraordinate.
La Corte dei conti FVG ha affermato inoltre che 'Se così
è, pare problematico ipotizzare una liquidazione dei
compensi allorché il descritto procedimento di formazione
della disciplina della relativa corresponsione non sia stato
ancora perfezionato dall'Ente e dunque prevedere siccome
conforme alla normativa complessivamente rilevante nella
materia de qua un'attribuzione di compensi riferentisi a
sentenze depositate in epoca anteriore al prescritto
Regolamento'.
La predetta Sezione ha infine rammentato come la riforma
organica della disciplina dei compensi professionali agli
avvocati pubblici, contenuta nell'art. 9 del d.l. 90/2014,
risponda alle urgenti e tuttora attuali necessità di
contenimento della spesa pubblica complessiva, in
particolare incidendo su quelle ipotesi (pronuncia di
compensazione integrale delle spese e ipotesi di transazione
dopo sentenza favorevole alle PP.AA.) nelle quali il
compenso viene a gravare interamente, nella percentuale
dovuta, sulle finanze pubbliche [14].
---------------
[1] Si riportano di seguito i commi di interesse
dell'art. 9 in esame: 1. I compensi professionali
corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165, e successive modificazioni, agli avvocati dipendenti
delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale
dell'Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del
raggiungimento del limite retributivo di cui all'articolo
23-ter del decreto legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e successive
modificazioni.
3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle
spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate
sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle
amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i
procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità
stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione
collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei
limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette
somme è riversata nel bilancio dell'amministrazione.
5. I regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri
enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di
riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al
primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale,
secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto
tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali.
I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono
altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e
contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi
informatici, secondo principi di parità di trattamento e di
specializzazione professionale.
6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale
delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo
sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al
comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale
dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi
professionali in base alle norme regolamentari o
contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento
previsto, il quale non può superare il corrispondente
stanziamento relativo all'anno 2013 (...)
7. I compensi professionali di cui al comma 3 e al primo
periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da
attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo
trattamento economico complessivo.
8. Il primo periodo del comma 6 si applica alle sentenze
depositate successivamente alla data di entrata in vigore
del presente decreto. I commi 3, 4 e 5 e il secondo e il
terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 si applicano a
decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti
collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi
dalla data di entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto. In assenza del suddetto adeguamento, a
decorrere dal 1° gennaio 2015, le amministrazioni pubbliche
di cui al comma 1 non possono corrispondere compensi
professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni
stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello
Stato.
[2] Cfr. sez, reg. di controllo per la Puglia, n.
49/PAR/2014.
[3] Cfr. art. 1, comma 457, della l. 147/2013, ora abrogato.
[4] '1. Con decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri (...) è definito il trattamento economico annuo
onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze
pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti
di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche
amministrazioni statali, di cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (...), stabilendo
come parametro massimo di riferimento il trattamento
economico del primo presidente della Corte di cassazione
(...)'.
[5] Nella pronuncia sopra citata.
[6] Cfr. TAR Puglia, sez. II, Lecce, sentenza n. 2543 del
2014.
[7] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la
Basilicata, Potenza, deliberazione n. 2/2010/PAR.
[8] Cfr. Cass. sez. lavoro, n. 17941 del 2006.
[9] Art. 27 del CCNL del 14.09.2000. Per gli enti locali del
comparto unico del Friuli Venezia Giulia identica
disposizione è contemplata all'art. 59 del CCRL del
01.08.2002, per il personale non dirigente, e all'art. 63
del CCRL del 19.06.2003, per il personale dirigente.
[10] Art. 23 della l. 247/2012.
[11] Cfr. deliberazione FVG/12/2015/PAR.
[12] In particolare, in relazione alla possibilità di
prevedere la liquidazione dei compensi, spettanti ai legali
interni in virtù delle disposizioni di fonte contrattuale,
anche nel caso di sentenze depositate in data anteriore
all'emanazione del regolamento in corso di adozione.
[13] Retribuzione di risultato di comparto.
[14] Vedasi, in proposito, la normativa dettata dal comma 6
dell'art. 9 che prevede sia un tetto di natura oggettiva
(risorse che non possono superare il corrispondente importo
stanziato per l'anno 2013), sia di natura soggettiva,
riferibile cioè al trattamento retributivo individuale del
singolo dipendente
(05.05.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Planimetrie catastali ad accesso gratuito.
Dall’Agenzia. Controlli e fiscalità.
L’agenzia
delle Entrate ha messo a disposizione dei Comuni l’accesso
gratuito alle planimetrie catastali degli immobili, per i
controlli urbanistici e la gestione della fiscalità
immobiliare locale.
Su questo tema si era registrato in passato uno scontro tra
i Comuni e l’agenzia delle Entrate, la quale per la
fornitura delle planimetrie pretendeva il pagamento di una
somma, nonostante diverse previsioni normative già
imponevano la fornitura gratuita (si veda la delibera della
Corte dei conti dell’Emilia-Romagna 37/2013).
In
particolare, si ricorda che l’articolo 50 del Dlgs 82/2005
prevede che qualunque dato trattato da una Pa, nel rispetto
della normativa sulla protezione dei dati personali, deve
essere reso accessibile e fruibile alle altre
amministrazioni quando l’utilizzazione del dato sia
necessaria per lo svolgimento dei compiti istituzionali
dell’amministrazione richiedente, senza oneri a carico di
quest’ultima, salvo che per la prestazione di elaborazioni
aggiuntive; il successivo articolo 59 precisa, poi, che
nell’ambito dei dati territoriali di interesse nazionale
rientra la banca dati catastale gestita dall’agenzia delle
Entrate.
Il problema dell’accesso alle planimetrie si poneva
soprattutto per gli immobili accatasti prima del 2006,
perché a decorrere da quell’anno l’Agenzia invia ai Comuni i
«Docfa» e con questi anche le planimetrie degli immobili.
L’apertura dell’Agenzia è quindi molto importante perché
oggi i Comuni hanno la possibilità di acquisire con estrema
velocità la planimetria catastale del fabbricato, accedendo
al Portale Sister, già utilizzato dai Comuni per le visure
catastali e per quanto attiene al mondo catastale, compreso
l’invio di dati all’Agenzia stessa, come quelli relativi al
mancato accatastamento degli immobili (procedura 336 di cui
alla legge 311/2004), al controllo dei Docfa (articolo 34-quinquies del Dl 4/2006) o alla verifica delle domande di
ruralità di cui al Dl 70/2011.
L’utilizzo delle planimetrie catastali è importante
soprattutto per la gestione della Tari la quale si applica
in base «alla superficie calpestabile», visto che si è per
ora abbandonato il criterio della tassazione sulla base
dell’80% della superficie catastale, utilizzabile solo in
sede di accertamento.
Oltre alla Tari le planimetrie rappresentano un utile
strumento per il controllo della conformità edilizia, ovvero
tra quanto concessionato dal Comune e quanto dichiarato
all’Agenzia e ciò ovviamente assume anche rilevanza fiscale,
perché un ampliamento di un fabbricato non dichiarato in
catasto porta a un aumento della rendita catastale e quindi
dell’Imu.
E non occorre dimenticarsi che l’articolo 2, comma 12, del Dlgs 23/2011 prevede che il 75% delle sanzioni irrogate
dall’Agenzia per l’inadempimento degli obblighi di
dichiarazione degli immobili, e delle variazioni degli
stessi, è devoluto al Comune ove sono ubicati gli immobili.
Al di là però di quanto può essere utile per il Comune avere
gratuitamente a disposizione le planimetrie, al pari di
quanto avviene già con le visure catastali, quello che
rileva è che si riconosce sempre di più l’importanza dei
Comuni nei processi di controllo del territorio (articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2015). |
CONDOMINIO - PATRIMONIO: Legionella sempre sotto controllo.
Rischi sanitari. Impianti idrici e di condizionamento.
Le cronache
recenti hanno descritto casi di legionella nell'hinterland
milanese. Il problema è strettamente connesso alla gestione
del condominio, dove è centrale l'importanza della
manutenzione e della pulizia degli impianti idro-termici e
di climatizzazione.
Nelle reti sopravvive in basse concentrazioni (e quindi non
è nociva) perché la temperatura è inferiore a 25°C . Invece
diventa pericolosa nell'intervallo di temperatura tra 25°C e
55°C quando viene inalata sotto forma di aerosol (particelle
di diametro da 1 a 5 micron emesse da un rubinetto, dal
soffione di una doccia, eccetera).
La prevenzione va fatta così:
-
evitare tubazioni con tratti terminali ciechi senza
circolazione dell'acqua;
-
evitare formazione di ristagni d'acqua (fondi di serbatoi,
vasi di espansione);
-
pulizia e disinfezione periodica degli impianti;
-
mantenere in condizioni di pulizia ed in efficienza i
«separatori di gocce»;
-
controllare periodicamente lo stato di pulizia ed efficienza
dei filtri applicati sui circuiti dell'aria;
-
controllare periodicamente la temperatura dell'acqua ;
-
programmare interventi biocidi per ostacolare la crescita di
alghe e batteri;
-
trattamento dell'acqua per evitare formazione di corrosioni,
calcari e film biologici;
-
tenere a disposizione gli schemi aggiornati degli impianti
per le ricognizioni e visite periodiche sull'impianto idro-termico e dell’aria;
-
verificare che le tubazioni dell'acqua fredda e quelle
dell'acqua calda risultino ben coibentate e separate.
I metodi utilizzati per eliminare la la contaminazione nei
sistemi idro-termici sono diversi:
●
elevando la temperatura a 70°C–80°C
per tre giorni consecutivi e far scorrere l'acqua
continuamente dai rubinetti per 30 minuti, con l'accortezza
che anche nei punti più distanti l'acqua sia maggiore di
60°C; oppure distribuendo l'acqua tra 50°C e 60°C sino al
punto di miscelazione con l'acqua fredda nei rubinetti di
erogazione;
●
clorazione con una concentrazione di cloro di circa 3
mg/litro (milligrammi per litro) con personale qualificato
●
biossido di cloro con concentrazioni variabili da 0,1 mg/l a
1 mg/l;
●
lampade ultraviolette UV;
●
ionizzazione rame-argento (non va bene per tubazioni
zincate);
●
perossido di idrogeno e argento.
In ogni caso, l’articolo 4, comma 14, del Dpr 59/2009 prevede
che nel caso di installazione o ristrutturazione degli
impianti termici, o sostituzione dei generatori di calore
gli impianti devono essere dotati di impianto di trattamento
dell'acqua (articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2015). |
CONDOMINIO: Convocazione in «sicurezza».
Il plico raccomandato o la posta certificata sono i mezzi
più efficaci. Assemblea. L’amministratore può mettersi al riparo dalle
contestazioni che mettono in forse le delibere.
Posta
raccomandata, posta elettronica certificata, fax, o
consegna a mano, sono questi i mezzi che l’amministratore
deve utilizzare per l’invio della convocazione di assemblea
(articolo 66, comma 3, delle Disposizioni di attuazione del
Codice civile dopo la legge 220/2012), pena l’invalidità
delle delibere assunte per vizio di omessa convocazione. Tra
l’altro, gli stessi mezzi, con le stesse accortezze, si
possono utilizzare per l’invio del verbale di assemblea.
La convocazione deve essere scritta e personale, non essendo
sufficiente l’affissione dell’avviso nella portineria o in
bacheca o nei locali di maggior uso comune o negli spazi a
tal fine destinati neanche quando è obbligatoria come per la
convocazione avente ad oggetto le modificazioni delle
destinazioni di uso, per la quale è, comunque, previsto
l’invio mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi
telematici (articolo 1117–ter, comma 2).
La spedizione della convocazione mediante posta raccomandata
con ricevuta di ritorno permette di raggiungere la prova
dell’avvenuto invio, mediante l’esibizione della distinta di
spedizione della raccomandata, contenente l’avviso di
convocazione, «integrata dalla presunzione che le
raccomandate consegnate alla posta arrivano a destinazione e
dal successivo comportamento del destinatario» (Cassazione,
sentenza 2148/1987).
L’inserimento dell’avviso di convocazione nella cassetta
della posta delle lettere del condomino è alla base della
«ragionevole presunzione» della conoscenza dell’avviso,
posto che si verifichi la fattispecie dell’articolo 1335 del
Codice civile, cioè un’attività materiale idonea a portare
l’atto nella sua sfera di conoscibilità del condòmino.
Per la giurisprudenza di legittimità «è irrilevante che un
condomino, respingendo la raccomandata pervenutagli nei
termini, si sia posto in condizione di non poter conoscere
la data di convocazione» (Cassazione, sentenza 196/1970), in
quanto ai fini della validità dell’assemblea «è sufficiente
che l’invito all’assemblea, indipendentemente dalla sua
effettiva conoscenza, sia stato regolarmente fatto ad ogni
condomino» (Cassazione, sentenza 6863/1982).
È ovvio che quando un condòmino agisca per far valere
l’invalidità della delibera assembleare, adducendo la sua
mancata convocazione, incombe sul condominio l’onere di
provare che tutti i condòmini siano stati tempestivamente
avvisati della convocazione (Corte d’appello di Roma,
sentenza 967/2010), così come nel caso di convocazione
spedita in busta raccomandata e il destinatario contesti il
contenuto della busta medesima: in tal caso è onere del
mittente provarlo (Cassazione, sentenza 4482/2015).
È quindi consigliabile che l’amministratore utilizzi, invece
della busta, un “plico” vale a dire il foglio su cui viene
redatto l’avviso di convocazione all’assemblea, ripiegato e
chiuso sui lati con l’indirizzo del destinatario, il
mittente e l’affrancatura posti sulla parte esterna del
foglio. In tal modo, il destinatario del plico contenente
l’avviso di convocazione non ha possibilità, esibendo il
plico stesso che ha ricevuto, di contestarne il contenuto.
La convocazione può essere consegnata anche a mano ma deve
essere debitamente affrancata, annullata in un ufficio
postale e, al momento del suo ritiro, che può essere fatto
anche presso la portineria dello stabile, il condomino deve
sottoscrivere una distinta valida come prova dell’avvenuta
consegna.
Ammesso anche l’uso del fax come metodo di invio dell’avviso
di convocazione anche se è opportuno, oltre che custodire la
ricevuta, richiedere al destinatario di comunicare
l’avvenuta ricezione del documento.
Valore probatorio, indiscusso, è invece riconosciuto
all’invio della convocazione mediante l’uso della PEC, che
fornisce la “certificazione” dell’invio e della ricezione
della mail.
Escluso l’invio mediante la semplice mail, poiché solo alla
posta certificata la legge riconosce il valore della
tradizionale raccomandata (Tribunale di Genova, sentenza
3350/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Planimetrie accessibili dai municipi.
Anci-entrate.
I comuni potranno accedere gratuitamente alle planimetrie
catastali degli immobili per i controlli urbanistici e la
gestione della fiscalità immobiliare locale. Tutto grazie
alla piattaforma telematica Sister che consente di
visualizzare la planimetria di un immobile, con accesso
diretto alle banche dati gestite dall'Agenzia delle entrate.
Per utilizzare il servizio, ricorda un comunicato delle
Entrate, non sarà necessario sottoscrivere una nuova
abilitazione.
Tutte le informazioni sulle modalità tecniche
per l'accesso e la fruizione possono essere consultate sul
sito dell'Agenzia delle entrate nella sezione «Consultare
dati catastali e ipotecari-Consultazione banche dati -
Sister-Scheda informativa». Il nuovo servizio sarà
evidenziato, tramite un banner dedicato, anche sul sito
istituzionale dell'Anci, www.anci.it.
Infine, le Entrate ricordano che presso gli sportelli
catastali decentrati dei comuni sono attivi i servizi di
rilascio gratuito delle visure e delle planimetrie catastali
su richiesta dei singoli proprietari
(articolo ItaliaOggi del 12.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Statali, visite mediche ed esami come malattia.
Il Mininfrastrutture recepisce la sentenza del Tar Lazio.
I dipendenti pubblici che si assentano dal servizio per
l'espletamento di visite mediche o esami diagnostici,
potranno essere considerati in malattia, invece che dover
intaccare il proprio monte ore relativo ai permessi
retribuiti o alle ferie. La giustificazione di tale assenza
sarà data dalla semplice attestazione del medico o della
struttura, anche privata, che ha reso la prestazione
specialistica.
È quanto messo nero su bianco dalla direzione del personale
del ministero delle infrastrutture nella recente circolare
n. 24739/2015, con cui si recepiscono le conclusioni della
sentenza n. 5714/2015 del Tar Lazio (si veda ItaliaOggi del
21 aprile scorso) sulla riconducibilità a malattia delle
assenze dei lavoratori pubblici per sottoporsi a esami
diagnostici o visite specialistiche.
Come si ricorderà, la circolare n. 2 del 17.02.2014 della
funzione pubblica, interpretando restrittivamente norme
previste nel Ccnl ministeri, obbligava i dipendenti delle
pubbliche amministrazioni a dover utilizzare l'istituto dei
permessi brevi retribuiti o dei permessi personali ex
articolo 18 del Contratto nazionale di lavoro dei
ministeriali (se non, addirittura, le ferie o le festività
soppresse), ma non la malattia, per giustificare l'assenza
dal servizio nel caso in cui gli stessi lavoratori dovevano
sottoporsi a visite, terapie specialistiche ed esami
diagnostici.
La sentenza del giudice amministrativo sopra richiamata ha
statuito che Palazzo Vidoni, con una semplice circolare, non
può modificare «assetti che riguardano le assenze dal
servizio», in quanto investono aspetti che impongono
modifiche al contratto collettivo di categoria e, quindi, il
confronto con le organizzazioni dei lavoratori. In pratica,
il Tar Lazio ha evidenziato che la materia «trova il suo
naturale elemento di attuazione nella disciplina
contrattuale e non in atti generali che impongono modifiche
unilaterali».
Sulla scorta di questo annullamento, la circolare Mit in
osservazione ha evidenziato che, in attesa di ricevere nuovi
e più puntuali istruzioni dal dipartimento della funzione
pubblica, si possa tornare sic et simpliciter al dettato
normativo ex articolo 55-septies del dlgs n.165/2001,
applicando la disciplina giuridica ed economica vigente
prima dell'emanazione della già citata circolare n.2/2014
della stessa funzione pubblica.
Quindi, i dipendenti che da oggi in poi si assenteranno dal
servizio per malattia, in quanto devono sottoporsi a visite
o terapie specialistiche, ovvero ad esami diagnostici,
potranno attestare l'assenza con la semplice certificazione
del medico o della struttura (è irrilevante sotto questo
profilo che la stessa sia pubblica o privata) che ha
eseguito tale prestazione. Non sarà, quindi, necessario
utilizzare i permessi retribuiti, le ferie, né vi è
l'obbligo di produrre la certificazione telematica che il
proprio medico curante trasmette all'Amministrazione tramite
l'Inps; certificazione che è necessaria solo quando il
dipendente è assente per «malattia».
A corollario delle conseguenze relative alla decisione del
Tar Lazio, al momento circolano ipotesi di un accordo tra
l'Aran e le organizzazioni sindacali, nel quale si prevedono
permessi «specifici» per i lavoratori assenti per
visita specialistica o per esami diagnostici che, pur
rientrando nell'alveo della malattia, possano essere
utilizzati anche ad ore
(articolo ItaliaOggi del 12.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I rifiuti cambiano targa. Sanzioni fino a 387 mila euro per
chi bara. Dal 1° giugno in vigore il nuovo regolamento Ue di
classificazione.
Dal 1° giugno nuovi criteri di classificazione dei rifiuti.
Tra le novità, per evitare confusione sulle identificazioni
dei codici di pericolo previsti dalla nuova classificazione
andranno a scomparire i codici H e verranno introdotti i
nuovi codici Hp. Pertanto entro il 1° giugno prossimo ogni
azienda dovrà effettuare la nuova classificazione dei
rifiuti con assegnazione codice di pericolo Hp per quelli
classificati pericolosi, modificare le etichette del
deposito temporaneo, e infine verificare le giacenze sul
registro di carico/scarico del Sistri).
Tutto questo perché
dal 1° giugno diventeranno applicabili il
REGOLAMENTO (UE) N. 1357/2014 DELLA COMMISSIONE del
18.12.2014, che sostituirà l'allegato III della direttiva
quadro sui rifiuti (2008/98/Ce) e la nuova decisione della
commissione europea 2014/955/Ue, che modifica la decisione
2000/532/Ce relativa all'elenco dei rifiuti.
Dal 1° giugno
un secondo cambiamento riguarderà anche l'introduzione e la
variazione di nuovi codici Cer (010310* fanghi rossi
derivati dalla produzione di allumina contenenti sostanze
pericolose, diversi da quelli di cui alla voce 010307,
070217 rifiuti contenenti silicio, diversi da quelli di cui
alla voce 070216, 160307 mercurio metallico, 190308 mercurio
parzialmente stabilizzato). Fino al 31 maggio varranno le
vecchie caratteristiche di pericolo H. Per ora non è
previsto nessun periodo transitorio.
Dal 1° giugno
entreranno in vigore le nuove caratteristiche di pericolo Hp.
Quindi dal 1° giugno l'azienda che non ha classificato
correttamente i propri rifiuti in base alle nuove normative
potrà incorrere in pesanti sanzioni. La falsa fornitura di
indicazioni sulla natura, composizione e caratteristiche
chimico-fisiche dei rifiuti o uso di un certificato falso (o
inesistente) è punita sia con una sanzione pecuniaria che
con una penale.
L'articolo 258, 4° comma, del dlgs 152/2006
punisce con l'arresto fino a due anni. E il dlgs 231/2011
con una sanzione pecuniaria che va da 150 a 250 quote (il
valore di una quota è a discrezione del giudice e può andare
da un minimo di euro 258 a un massimo di euro 1.549). Quindi
la sanzione minima è di euro 38.700. Se l'azienda erra nella
classificazione/caratterizzazione del rifiuto, potrebbe
affidare il rifiuto a trasportatori e/o smaltitori non
autorizzati. Quindi potrebbe configurarsi anche il reato di
gestione illecita di rifiuti.
L'articolo 259, 1 comma, del dlgs n.152/2006 lo punisce con una sanzione penale
dell'arresto fino a due anni e una sanzione amministrativa
fino euro 26.000. Il dlgs 231 prevede una sanzione
pecuniaria che va da 150 a 250 quote il massimo applicabile
va da 38.700 a 387.250,00 euro
(articolo ItaliaOggi del 12.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ue, caccia ai finti sacchetti bio. Obbligo di etichettatura
per le borse compostabili. Pubblicata in Guue la direttiva sui limiti di utilizzo, dal
2016, degli shopper in plastica.
Divieto di fornitura gratuita di sacchetti in plastica a
bassa riutilizzabilità, bando dei marchi che vantano false
proprietà ecologiche delle buste in polimeri, obbligo di
etichettatura ad hoc per quelle realmente biodegradabili e
compostabili.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione
europea del 06.05.2015 (n. L115) dell'attesa
DIRETTIVA (UE) 2015/720 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL
CONSIGLIO del 29.04.2015 che modifica la direttiva 94/62/CE
per quanto riguarda la riduzione dell'utilizzo di borse di
plastica in materiale leggero,
l'Unione europea apre un nuovo capitolo nella prevenzione
dei rifiuti, impegnando gli Stati membri ad allineare le
proprie legislazioni interne entro l'autunno 2016.
Obblighi di riduzione.
Nel mirino della nuova direttiva
2015/720/Ue (di riformulazione dell'omonimo provvedimento
madre in materia di imballaggi, la 94/62/Ce) ci sono le
borse di plastica in materiale leggero, ossia quelle con
spessore inferiore a 50 micron, responsabili secondo l'Ue
della maggior parte dell'inquinamento a causa della loro
alta diffusione e bassa riutilizzabilità rispetto a quelle
di maggior consistenza, fatto che incentiva gli utenti al
loro abbandono selvaggio.
Di conseguenza, per la riduzione a
monte dell'utilizzo di tali sacchetti l'Unione europea
impone agli Stati membri l'adozione di misure volte al
raggiungimento di almeno uno dei seguenti obiettivi: (entro
il 2018) divieto di fornitura gratuita di borse presso punti
vendita di merci o prodotti, salvo adozione di altri
strumenti di pari efficacia; (entro il 2019) riduzione del
livello di utilizzo annuale entro le 90 borse pro capite (40
entro il 2025).
È lasciata facoltà ai singoli Stati di
escludere da tali limitazioni le borse in materiale
ultraleggero (quelle con spessore inferiore a 15 micron)
fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari
sfusi a fini igienici oppure per prevenire la produzione di
rifiuti alimentari. Ma è pari facoltà degli stessi Stati
sottoporre agli stringenti obiettivi tutti i sacchetti di
plastica, dunque anche quelli di spessore superiore.
Per il
raggiungimento degli obiettivi l'Ue chiede l'utilizzo di
strumenti economici (come la fissazione del prezzo, imposte
e prelievi) e (in deroga all'articolo 18 della direttiva
madre) di restrizioni alla commercializzazione delle buste,
purché proporzionate e non discriminatorie. Prescrizioni,
quelle limitative del mercato, in parte già previste
dall'attuale normativa nazionale italiana, che attraverso
decreti legge 2/2012 e 91/2014 rispettivamente vieta e
sanziona l'utilizzo di determinati sacchetti ad alto impatto
ambientale.
Marchi ed etichette.
Entro il novembre 2018 le borse
biodegradabili e compostabili (quelle rispondenti alla norma
europea En 13432) dovranno essere fornite di etichettatura
recante informazioni sulle loro proprietà di compostaggio,
secondo un disciplinare che la Commissione Ue adotterà entro
il precedente 27.05.2017. Questo, in base a quanto emerge
dalla parte motiva della nuova direttiva 2015/720/Ue, anche
per arginare la diffusione di false indicazioni sulle
qualità ecologiche di alcune borse in plastica.
È il caso,
come sottolinea il nuovo provvedimento comunitario, dei
sacchetti indicati da alcuni produttori come «oxo-biodegradabili»,
nomenclatura a parere dell'Ue fuorviante, poiché tali borse
vedono comunque la presenza di specifici additivi che
provocano nel tempo la scomposizione della plastica in
particelle minute che permangono nell'ambiente.
Tant'è che
per l'intera categoria dei «oxo-degradabili» la stessa Ue
annuncia una serie di misure volte ad analizzarne
ulteriormente impatto ambientale e, nel caso, a limitarne
più ampiamente uso o impatto nocivo
(articolo
ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015). |
SICUREZZA CANTIERI: Cantieri, verifiche da incubo. Corposa la documentazione:
oltre 50 tra piani e contratti. Il quadro delineato in una guida dell'Inail: 15 gli enti
ispettivi autorizzati ai controlli.
Verifiche da incubo nei cantieri edili. Sono oltre 50 le
voci dell'elenco dei documenti da tenere in originale nei
cantieri, sia da parte delle imprese sia dei committenti, a
disposizione di 15 organi ispettivi diversi.
A offrire un
bilancio degli adempimenti burocratici sulla sicurezza è
l'Inail nella guida «la progettazione della sicurezza nel
cantiere», ammettendo che «la documentazione obbligatoria da
tenere in cantiere è assai consistente».
La sicurezza sul lavoro. La sicurezza nei luoghi di lavoro è
un tema di ricorrente attualità; ma quella nei cantieri
edili lo è in maniera particolare. Del testo, anche l'ultima
riforma (dlgs n. 81/2008), fra le novità, ha inteso incidere
in modo speciale sulla disciplina delle opere edili,
ridefinendo le vecchie regole così da attribuire alla
sicurezza dei cantieri un carattere di requisito
imprescindibile, che occorre pianificare, anche in presenza
di più imprese, senza eccezioni di sorta. La sicurezza
presenta tre elementi di attenzione:
• valutazione di tutti i rischi con conseguente
predisposizione di misure idonee a prevenirli (misure di
prevenzione e protezione);
• comunicazione di rischi e misure di prevenzione e
protezione, attraverso l'informazione e la segnaletica;
• attuazione delle misure di prevenzione e protezione in
relazione ai rischi preventivati e a quelli eventualmente
insorgenti in fase esecutiva.
Secondo l'Inail il tutto può essere riassunto in due
principi fondamentali: a) la sicurezza è un valore e come
tale va salvaguardato con tutti i mezzi; b) la sicurezza va
garantita sempre e comunque: non sono ammissibili deroghe.
In materia di sicurezza nei cantieri edili, aggiunge
l'Inail, l'indirizzo giurisprudenziale richiama il principio
della protezione oggettiva, per il quale le norme
antinfortunistiche sono finalizzate a tutelare il lavoratore
soprattutto dagli infortuni derivanti da sua negligenza,
imprudenza e imperizia (cassazione n. 41951/2006).
La documentazione. Il principio giurisprudenziale, però,
sembra contrastare con una procedura di tutela che, il più
delle volte, appare prediligere gli aspetti formali
(verbali, piani ecc.) più di quelli sostanziali; quasi che
la correttezza dei primi valesse a garantire la presenza dei
secondi (senza, tuttavia, escludere il contrario).
Comunque
sia, la sicurezza «progettata» ha prodotto, nel tempo, una
mole eccessiva di atti e documenti obbligatori, da tenere
obbligatoriamente sul cantiere, e che potrebbero essere
richiesti dagli organi ispettivi in caso di verifiche. Anche
l'Inail lo ammette: «è assai consistente». L'elenco
dettagliato, con relativo soggetto obbligato, è nelle
tabelle.
Chi può effettuare i controlli. Altrettanto esuberante,
infine, è l'elenco degli organi con compiti di controllo,
coordinamento e vigilanza che hanno accesso nei cantieri
edili (di propria iniziativa o anche su richiesta): Arpa,
aziende Asl, Direzione territoriale del lavoro (Dtl), Inail,
Inps, Carabinieri, Polizia di stato, Vigili urbani,
Capitaneria di porto, Guardia di finanza, Guardia forestale,
Ispettorato ferrovie (lavori ferroviari), Ispettorato
minerario (cave), Procura della repubblica Upg, Vigili del
fuoco (su richiesta).
In tutto gli ispettori sono 15; in un mese, pertanto (almeno
in teoria), un cantiere potrebbe essere visitato da
un'ispezione ogni due giorni
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015). |
VARI: Asd,
il legale non risponde in solido.
Il legale rappresentante di un'associazione sportiva non
risponde personalmente, in via automatica, delle somme
accertate in capo all'ente che rappresenta. La
responsabilità ex articolo 38 del codice civile, infatti,
presuppone la dimostrazione, a onere dell'amministrazione
finanziaria, che il soggetto abbia concretamente agito in
nome e per conto dell'associazione non riconosciuta; il solo
possesso della carica, di contro, non consente di estendere
alla persona fisica l'obbligazione tributaria che investe
l'associazione.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza
20.04.2015 n. 487/2/15 emessa dalla Ctp di Ancona.
A parere dei giudici marchigiani, la responsabilità prevista
dall'articolo 38 del c.c., secondo cui delle obbligazioni
«rispondono anche personalmente e solidalmente le persone
che hanno agito in nome e per conto dell'associazione», ha
carattere meramente accessorio rispetto a quella primaria,
che investe l'associazione e il suo patrimonio; dacché, chi
invoca tale estensione di responsabilità ha l'onere di
provare la concreta attività svolta dalla persona fisica in
nome e nell'interesse dell'ente rappresentato, non essendo
sufficiente la sola prova in ordine alla carica rivestita.
Per tali ragioni, le obbligazioni derivanti dall'avviso di
accertamento spiccato nei confronti dell'associazione non
riconosciuta restano a carico dell'ente, salvo che l'Agenzia
delle entrate, che intenda far valere la responsabilità
solidale in capo ai soggetti che ne avevano la
rappresentanza, offra una precisa e circostanziata prova
inerente lo svolgimento concreto di attività gestionale da
parte delle persone fisiche.
La particolarità della
questione trattata, per affermazione della stessa Ctp, ha
consigliato l'integrale compensazione delle spese di
giudizio tra le parti.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La vertenza nasceva dall'emissione, da parte dell'Agenzia
delle entrate di Ancona, di un avviso di accertamento nei
confronti di una associazione sportiva dilettantistica,
scaturente da una verifica effettuata dalla Siae, per gli
anni d'imposta 2008 e seguenti. L'atto veniva notificato
personalmente al presidente dell'associazione, ritenuto
responsabile in solido per le obbligazioni tributarie
accertate in capo all'ente rappresentato.
Tale estensione di
responsabilità era riconducibile alla disciplina recata
dall'articolo 38 del codice civile, secondo cui rispondono
personalmente delle obbligazioni dell'associazione anche le
persone che hanno agito in nome e per conto della stessa. Il
contribuente proponeva autonomo ricorso contro l'avviso di
accertamento, senza entrare nel merito dei rilievi in esso
contenuti, lamentando esclusivamente un'erronea applicazione
dell'articolo 38 citato e sostenendo di non dover
corrispondere alcunché di quanto richiesto e accertato in
capo all'associazione.
Spettava, infatti, secondo la tesi di
parte ricorrente, all'amministrazione provare la
responsabilità personale del presidente dell'associazione,
dimostrando che egli avesse concretamente agito in nome e
per conto della stessa. Resisteva in giudizio l'Agenzia
delle entrate, ritenendo fondata la richiesta personale al
presidente, poiché la responsabilità solidale ex articolo 38
derivava esclusivamente dal possesso della carica di
rappresentanza, dovendo, semmai, il contribuente fornire la
prova di non aver agito per conto dell'associazione.
La Ctp di Ancona ha accolto il ricorso, condividendo in
pieno la posizione difensiva assunta dal ricorrente. «La
responsabilità personale e solidale prevista dall'articolo
38 del codice civile», osserva il collegio, «non è collegata
alla mera titolarità della rappresentanza dell'associazione,
bensì all'attività concretamente svolta per conto di essa,
attraverso il compiersi di rapporti obbligatori e concreti
fra questa e i terzi».
Nessun automatismo, dunque, può
derivare dal mero possesso della carica di rappresentanza.
La responsabilità del presidente, aggiunge la Ctp, «ha un
carattere accessorio rispetto a quella primaria
dell'associazione, ne consegue che chi la invoca ha l'onere
di provare la concreta attività svolta in nome e
nell'interesse della persona, non essendo sufficiente la
sola prova in ordine alla carica rivestita».
Dunque, per
quanto attiene all'onere della prova, non è il
rappresentante dell'associazione a dover provare di non aver
concretamente agito in nome e per conto della stessa, bensì
è l'Ufficio finanziario, che intenda far valere tale
estensione, a dover offrire elementi di prova ulteriori
rispetto al mero riscontro della legale rappresentanza.
Tutte queste ragioni hanno condotto la Ctp ad accogliere la
domanda del ricorrente, pur decidendo per la compensazione
delle spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Permessi
per invalidi sorvegliati speciali.
Per ottenere il tagliando che permette al titolare di
parcheggiare nelle zone riservate ai portatori del
contrassegno invalidi non basta una generica patologia.
Occorrerà dimostrare anche la ridotta capacità di
deambulazione dell'interessato.
Lo ha chiarito il ministero delle infrastrutture e dei
trasporti con il parere 10.04.2015 n. 1642.
Un comune friulano ha evidenziato che alcuni patronati hanno
iniziato a formalizzare richieste di contrassegno invalidi
riferendo la loro istruttoria alla ridotta autonomia
dell'interessato ai sensi della legge 104/1992. Evitando
quindi ogni riferimento alla ridotta capacità di
deambulazione del soggetto.
A parere del ministero questa pratica non è corretta perché
il contrassegno di parcheggio per disabili viene rilasciato
specificamente per patologie afferenti alla deambulazione.
Lo stesso articolo 381 del regolamento stradale, specifica
la nota centrale, evidenzia che questa limitazione deve
essere ben annotata nella certificazione medica. In pratica
non basta l'attestazione di una generica invalidità per
ottenere questo speciale tagliando.
Occorre anche l'evidenza di una ridotta capacità di
deambulazione
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità, tabelle subito applicabili.
I parametri del decreto sono utilizzabili in attesa del via
libera di Corte conti. Personale. Dopo l’ok in Unificata restano le incognite sulle
garanzie per tutto il trattamento accessorio.
In dirittura
di arrivo il decreto che equipara gli inquadramenti dei
dipendenti dei diversi comparti della Pa. Giovedì ha visto
il vaglio della conferenza Unificata, che ha però formulato
una serie di osservazioni sul nodo più delicato, cioè sulle
garanzie di mantenimento del trattamento accessorio per i
lavoratori interessati. Il Governo, dal canto suo, ha detto
che “valuterà” le osservazioni, ma ha rilanciato l’urgenza
di arrivare a un traguardo per il quale manca solo l’esame
della Corte dei Conti.
L’obiettivo del provvedimento è di fornire uno strumento
tecnico-operativo che consenta di individuare, in modo
uniforme, l’inquadramento giuridico ed economico dei
dipendenti che transitano da un comparto all’altro
dell’amministrazione pubblica. In ogni caso, anche nelle
more della definitiva approvazione, nulla vieta di far
riferimento alle tabelle di raccordo allegate, in quanto,
comunque, le amministrazioni sono tuttora chiamate a dare
una risposta al problema.
A questo proposito, si evidenzia
che, anche a regime, è onere dell’ente decidere il corretto
inquadramento del dipendente che proviene per mobilità,
poiché il decreto rappresenta un supporto normativo che non
esclude un’attività istruttoria da parte dell’ente ricevente
e la relativa responsabilità della decisione finale.
L’articolo 2 del provvedimento, nello stabilire i criteri di
inquadramento, specifica che gli elementi da considerare
nell’equiparazione sono individuati nelle mansioni e i
compiti da svolgere, le responsabilità affidate e i titoli
professionali previsti nelle declaratorie dei contratti dei
diversi comparti per l’accesso al profilo.
Un’attenzione particolare va prestata nei confronti della
posizione economica maturata nell’amministrazione di
partenza: questa non può, in nessun caso, dare origine a un
inquadramento superiore di tipo giuridico, non potendo
prescindere, per le progressioni di carriera, dal concorso
pubblico in ossequio alla riforma Brunetta. Se è pur vero
che il processo decisionale spetta al dirigente,
l’applicazione pedissequa delle tabelle di correlazione non
potrà esporre quest’ultimo, in caso di errore, alla colpa
grave o, peggio, al dolo, salvandolo quanto meno dalla
responsabilità erariale.
L’astrattezza della previsione del
decreto fa venir meno, sempre in capo al responsabile, anche
eventuali critiche di comportamenti di particolare favore o
sfavore nei confronti del soggetto in mobilità. Peraltro,
non è detto che il ricorso alle tabelle del provvedimento
escluda automaticamente un giudizio di merito, nel caso in
cui il lavoratore si ritenga danneggiato dal nuovo
inquadramento.
Nessun problema viene in evidenza nella mobilità volontaria,
in quanto al dipendente si applica il trattamento giuridico
ed economico dell’ente di destinazione. Più contestata dalla
parte sindacale è il meccanismo che regola il trattamento
economico in caso di mobilità non volontaria e, quindi,
quella che si verifica per accordo fra enti e quella
disposta per riassorbire gli esuberi. Infatti, in questi
casi, vengono garantite solo le voci fisse e continuative,
indipendentemente dal fatto che costituiscano elementi
fondamentali o accessori dello stipendio. Purtroppo
nell’ordinamento non vi è una definizione di «fisso e
continuativo», mentre la distinzione è ben chiara in ambito
previdenziale. Ma anche in questo contesto, i ricorsi sulla
natura della voce sono molto frequenti e non sempre le
decisioni dei giudici vanno nella medesima direzione.
Il trattamento di miglior favore in godimento nell’ente di
partenza viene garantito al dipendente con un assegno ad personam, che, però, ha natura riassorbibile con qualsiasi
futuro aumento stipendiale. Questo significa che il
dipendente si vedrà bloccata la sua retribuzione per anni,
stante l’andamento dei rinnovi contrattuali e dei fondi per
le risorse decentrate.
Una disposizione particolare è prevista per i segretari
comunali e provinciali di fascia C, che dovranno essere
collocati nella categoria o nell’area professionale più
elevata presente nell’amministrazione di destinazione (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Aumentano i controlli sull’impatto ambientale.
Le Regioni possono solo imporre limiti più restrittivi.
Via. Con l’abbassamento delle soglie per sottoporre a
verifica i progetti.
Dal 26 aprile
scorso sono applicabili i nuovi criteri di valutazione dei
progetti di opere pubbliche sottoposti a verifica di Via
(valutazione di impatto ambientale) di competenza delle
regioni e delle province autonome. Con la conseguenza che
abbassandosi le soglie di verifica l’analisi dell’impatto
ambientale si allarga a un numero sempre maggiore di
progetti di opere o infrastrutture.
Il decreto del ministero dell’Ambiente del 30.03.2015
(pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 84 dell’11.04.2015 e appunto entrato in vigore 15 giorni dopo), emanato a
seguito del decreto legge n. 91/2014, ha infatti recepito le
indicazioni fornite dalla Direttiva 2011/92/Ue e, quindi, ha
definito i nuovi criteri integrativi e le soglie da
applicare ai progetti di competenza regionale da
assoggettare a procedura di verifica di Via, così come
richiede il Codice dell’ambiente (Dlgs n. 152/2006,
all’allegato IV della parte seconda).
Il decreto definisce altresì le modalità attraverso cui le
Regioni e le Province autonome dovranno adeguare le proprie
disposizioni locali.
In particolare, è riconosciuta alle Autonomie la possibilità
di avviare una ulteriore fase di confronto con il ministero
dell’Ambiente per modificare le soglie o i criteri di
valutazione dei progetti, ma solo nell’ottica di imporre
livelli di tutela ambientale più restrittivi e comunque non
inferiori a quelli stabiliti a livello europeo.
L’applicazione dei nuovi criteri, dunque, comporterà
sostanzialmente una riduzione delle soglie dimensionali dei
progetti e, quindi, una estensione dell’applicazione delle
procedure di Via.
È bene evidenziare che i criteri stabiliti dal decreto
ministeriale costituiscono espressamente parte integrante
del Dlgs n. 152/2006 e, quindi, sono direttamente vincolanti
sia per le autorità che per i privati, senza necessità di un
preventivo recepimento da parte delle regioni.
Il decreto, infatti, chiarisce che i criteri integrativi
sono immediatamente applicabili dall’entrata in vigore del
decreto (come detto dal 26 aprile scorso) e trovano diretta
validità su tutto il territorio nazionale rispetto ai
progetti di competenza regionale.
Le Regioni, dunque, possono adeguare i propri ordinamenti
alle nuove disposizione, ma in attesa di tale adeguamento,
dovranno osservare le linee guida ministeriali.
L’articolo 4 del provvedimento, inoltre, stabilisce che le
nuove disposizioni debbano trovare applicazione rispetto a
tutti i progetti per i quali la procedura di verifica di Via
è oggi pendente, nonché per quei progetti rispetto ai quali
la procedura autorizzativa è ancora in corso.
Invero, quest’ultima previsione è foriera di dubbi. Il
riferimento generico alle autorizzazioni, infatti, potrebbe
portare a ritenere che i nuovi criteri si applichino anche a
quei progetti rispetto ai quali si è già conclusa la
procedura di verifica di Via, ma che non sono stati ancora
formalmente autorizzati. In tal caso, dunque, la verifica di
Via dovrebbe essere ripetuta secondo la nuova disciplina.
Tuttavia, poiché la verifica di assoggettabilità a Via e la
valutazione stessa sono fasi endoprocedimentali specifiche,
parrebbe ingiustificata una ripetizione di queste fasi se
già concluse, in quanto la ripetizione comporterebbe un
notevole aggravio dei processi di autorizzazione e di
realizzazione di progetti complessi.
Peraltro, tale lettura della norma parrebbe altresì
contraddittoria rispetto alle previsioni del Codice ambiente
e in particolare dell’articolo 6, comma 7, lett. c), del Dlgs
n. 152/2006 (come modificato dal Dl 91/2014) secondo cui
«fino alla data di entrata in vigore del suddetto decreto,
la procedura di cui all’articolo 20 è effettuata caso per
caso, sulla base dei criteri stabiliti nell’allegato V».
Poiché la stessa norma che ha previsto l’emanazione del
decreto ministeriale, ammetteva espressamente la possibilità
di portare avanti le procedure di verifica ai sensi della
normativa precedente, risulterebbe illogico e
contraddittorio che il decreto ministeriale intervenuto
successivamente e in attuazione di questa disposizione,
imponga oggi la ripetizione delle procedure ormai concluse
ai sensi della previsione transitoria. Il tenore letterale
del decreto, tuttavia, lascia aperto il dubbio
interpretativo.
Infine, è bene osservare che lo stesso decreto prevede una
fase di monitoraggio da parte del Ministero delle procedure
applicative delle linee guida al fine di predisporre -se
necessario- una loro revisione e aggiornamento nell’ottica
di migliorare l’efficienza del procedimento di verifica di
Via (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità, le tabelle di equiparazione tradiscono la Delrio.
Le tabelle di equiparazione ai fini della mobilità del
personale, che hanno avuto il sì definitivo in Conferenza
unificata, costituiscono non l'attuazione, ma l'ennesimo
tradimento della riforma delle province, attivata dalla
legge Delrio.
Lo schema di decreto, previsto dall'articolo 29-bis del dlgs
165/2001, infatti, non si limita a determinare la
corrispondenza dei trattamenti retributivi per ogni
categoria e posizione economica fissata dai contratti
nazionali collettivi dei vari comparti.
Esso, all'articolo 3, comma 2, lettera a), contiene una
clausola molto rilevante, capace di ridurre anche
drasticamente il trattamento economico dei dipendenti
provinciali in sovrannumero destinati alla mobilità: si
prevede che i dipendenti manterranno soltanto il trattamento
economico fondamentale e accessorio «limitatamente alle voci
fisse e continuative». Il che significa, sostanzialmente,
azzerare proprio il trattamento accessorio, dal momento che
questo è composto da voci non fisse e non continuative, ma
variabili.
Gli unici elementi stipendiali che resteranno a beneficio
dei dipendenti saranno le progressioni orizzontali. Resta da
capire se potranno conservare l'indennità di comparto,
prevista proprio in via esclusiva per il comparto regioni ed
enti locali. Considerando che si tratta di un elemento
retributivo analogo a quello della progressione economica e
finanziato dalla medesima parte stabile del fondo, tale
emolumento dovrebbe considerarsi fisso e continuativo e,
dunque, permanere.
Nessun'altra indennità accessoria, come quella per
particolari responsabilità, turno, rischio, disagio,
maneggio valori, retribuzione di posizione e risultato per
le posizioni organizzative, potrà essere conservata, con la
sola eccezione di quelle connesse al profilo professionale,
come quelle previste per i docenti dei centri di formazione
professionale o l'indennità di vigilanza per il personale
della polizia provinciale, ma ciò a condizione che vengano
mantenuti tali profili professionali a seguito della
mobilità.
Tali previsioni del decreto si pongono in netto contrasto
con l'articolo 1, comma 96, lettera a), della legge 56/2014,
ai sensi del quale «il personale trasferito mantiene la
posizione giuridica ed economica, con riferimento alle voci
del trattamento economico fondamentale e accessorio, in
godimento all'atto del trasferimento, nonché l'anzianità di
servizio maturata; le corrispondenti risorse sono trasferite
all'ente destinatario; in particolare, quelle destinate a
finanziare le voci fisse e variabili del trattamento
accessorio, nonché la progressione economica orizzontale,
secondo quanto previsto dalle disposizioni contrattuali
vigenti, vanno a costituire specifici fondi, destinati
esclusivamente al personale trasferito, nell'ambito dei più
generali fondi delle risorse decentrate del personale delle
categorie e dirigenziale».
Come si nota, il meccanismo previsto dalla legge Delrio è
totalmente diverso: prescinde dalle tabelle di equiparazione
e garantisce ai dipendenti transitati in mobilità l'intero
trattamento economico, tanto quello fisso e continuativo,
quanto quello variabile, sul presupposto che il
trasferimento sia finalizzato a supportare la gestione delle
funzioni provinciali. Tanto che la norma della legge Delrio
impone alle province di finanziare i costi dei trasferimenti
assegnando le necessarie risorse agli enti subentranti, i
quali dovrebbero creare specifici fondi decentrati riservati
esclusivamente al personale provinciale.
L'impostazione del decreto delle tabelle di equiparazione,
dunque, conferma che la legge 190/2014 ha di fatto
totalmente disapplicato la legge Delrio, con tratti
fortemente peggiorativi per il personale. L'imposizione alle
province e città metropolitane di pesantissimi prelievi
forzosi a beneficio del bilancio dello Stato (1 miliardo per
il 2015, 2 nel 2016 e 3 nel 2017) non consente il
trasferimento delle risorse del personale trasferito agli
enti di destinazione.
Per questa ragione, a seguito dei trasferimenti, i
dipendenti delle province perderanno totalmente la
retribuzione accessoria e potranno ottenere eventuali
indennità solo nei limiti degli spazi finanziari previsti
dai fondi contrattuali decentrati degli enti di
destinazione, che non potranno godere di trasferimenti
finanziari da parte delle province, né saranno tenuti a
creare i fondi decentrati riservati ai dipendenti
provinciali
(articolo ItaliaOggi del 09.05.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Visite mediche, assenze imputate a malattia.
Funzione pubblica. La direttiva del ministero della Salute
dopo il semaforo rosso alla circolare 2/2014.
Con la
nota 24.04.2015 n. 14368 di prot. il
Ministero della
Salute corre ai ripari dopo l’annullamento da parte del Tar
Lazio (sentenza 5714/2015) della circolare 2/2014 del
Dipartimento della Funzione pubblica.
Si tratta della circolare con cui il Dipartimento ha
ritenuto che, dopo l’entrata in vigore dell’articolo 55-septies, comma 5-ter, del Dlgs 165/2001 (introdotto dalla
riforma di cui alla legge 125/2013), i pubblici dipendenti con
necessità di eseguire visite mediche di controllo, in
assenza di patologie in atto, dovessero fruire dei tre
giorni di permesso per gravi motivi personali ovvero di
altre tipologie di permesso variamente denominate dai
contratti collettivi nazionali vigenti.
Il nuovo atto di indirizzo, ripercorrendo gli snodi
fondamentali della sentenza 5714/2015, pur premettendo che
essa non risulta ancora passata in giudicato e, pertanto,
suscettibile di riforma, evidenzia che allo stato essa è non
di meno immediatamente esecutiva.
Pertanto, in attesa delle modifiche contrattuali della
disciplina dell’istituto in questione, le assenze dal
servizio per visite, terapie, prestazioni specialistiche ed
esami diagnostici del personale dipendente del ministero
della Salute dovranno essere imputate a malattia secondo i
criteri e le modalità già applicate in precedenza, secondo
la prassi amministrativa e gli orientamenti
giurisprudenziali formatisi prima della circolare 2/2014.
La recente direttiva ministeriale è stata inviata per
conoscenza anche al dipartimento della Funzione pubblica e
all’Aran, evidentemente per sollecitarne un intervento, il
quale non potrà che sfociare nella convocazione di un tavolo
di trattativa per la modifica della parte normativa dei
contratto interessato, dal momento che secondo il regime
delle fonti di cui all’articolo 2 del Dlgs 165/2001,
confermato anche dal richiamo contenuto nell’articolo 55-septies, comma 5-ter, la disciplina della materia è
riservata alla contrattazione collettiva nazionale e non
alla legge (articolo Il Sole 24 Ore del
07.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sottoprodotti ridotti a rifiuto. Stoccati al massimo per un
anno e non più vendibili. Il ministero dell'ambiente lavora a un decreto che
rivoluziona la definizione dei residui.
Gli uffici del ministero dell'ambiente stanno lavorando a
tappe forzate a un decreto che integri la nozione di
sottoprodotto. Infatti, l'art. 184-bis, secondo comma 2, del
Tua (dlgs 152/2006) prevede che con uno o più decreti siano
adottate misure per stabilire criteri qualitativi o
quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di
sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non
rifiuti.
La bozza di decreto che ItaliaOggi ha potuto
leggere introduce una serie di condizioni e limiti
sconosciuti alla normativa primaria: per esempio la nozione
di «residuo-rifiuto» e il vincolo che il sottoprodotto possa
essere stoccato al massimo per un anno. Ma non basta:
introduce la regola che il sottoprodotto sia in quantità
tale da essere destinata al successivo utilizzo (condizione
piuttosto difficile se il sottoprodotto è tipicamente un
prodotto secondario della produzione), uno specifico
formulario di identificazione e che non possa in alcun modo
essere commercializzato.
Condizioni che non trovano alcun
riscontro nel quadro normativo comunitario ed europeo.
Completa il decreto un elenco non esaustivo di sottoprodotti
da incentivare con il sistema delle tariffe delle fonti
rinnovabili e che quindi diventano combustibili veri e
propri. Insomma il sottoprodotto non è un rifiuto, ma in
fondo non se ne discosta troppo se il dicastero introduce
tali e tanti vincoli.
La dottrina e la normativa.
La nozione di «sottoprodotto»
viene introdotta dalla Corte europea di giustizia che, in
ripetute sentenze, ne dà un quadro definitorio ad iniziare
proprio dalle modalità produttive. All'evoluzione della
giurisprudenza della Corte di giustizia europea segue la
Comunicazione interpretativa in materia di rifiuti e di
sottoprodotti (datata 21.02.2007 Com 2007/59) che, benché
antecedente alla direttiva del 2008, è ancora attuale ed
offre spunti di riflessione. Con la direttiva 2008/98/Ce sui
rifiuti trova ingresso nella normativa comunitaria la
nozione di «sottoprodotto».
L'art. 5 della predetta direttiva stabilisce le condizioni
affinché determinate sostanze suscettibili di un utilizzo
economico possano essere reintrodotte nel ciclo economico
senza la necessità di essere sottoposte alle operazioni di
trattamento previste per i rifiuti. Una norma immediatamente
operativa che non necessita di integrazioni e specificazioni
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ambiente, cinque nuovi reati. Spazio a disastro e
smaltimento di rifiuti radioattivi. Dalla camera il via libera al ddl. Atteso ora da un ultimo
passaggio al senato.
Nuove fattispecie di reato nel nostro ordinamento, fra cui
disastro ambientale (per cui si prevede la reclusione da 5 a
15 anni) e smaltimento di rifiuti radioattivi, con
aggravanti se i delitti sono commessi con la «longa manus»
della mafia. Invece, sconti di pena per chi si attiva nella
bonifica dei luoghi contaminati (ravvedimento operoso),
mentre vengono soppresse le norme che vietavano l'uso della
tecnica esplosiva dell'«air gun» per le ispezioni dei
fondali marini, finalizzate alla ricerca di idrocarburi.
L'aula della camera ha approvato ieri pomeriggio il testo
unificato delle proposte di legge (342-957-1814-B) che
disciplinano i delitti contro l'ambiente, «reati piuttosto
gravi, per i quali abbiamo previsto pene congrue, in un
impianto normativo tutto sommato equilibrato», ha detto a ItaliaOggi Alfredo Bazoli (Pd), relatore del provvedimento;
il parlamentare, inizialmente contrario, ha dovuto accettare
il parere favorevole del governo (nella persona del ministro
dell'ambiente Gianluigi Galletti) agli emendamenti
soppressivi delle norme contro le ricerche petrolifere
mediante l'«air gun» di Sc, Ap e Fi, passati con scrutinio
segreto, che hanno imposto così l'obbligo di un nuovo esame
del testo da parte dei senatori.
Come già sottolineato, dopo i casi Eternit (contaminazione
da amianto a Casale Monferrato) e Terra dei fuochi (area fra
Napoli e Caserta, in cui sono stati versati rifiuti
altamente tossici) il legislatore ha messo nero su bianco
cinque nuovi reati: per il disastro ambientale è contemplata
una pena da 5 a 15 anni di carcere, per l'inquinamento,
invece, da 2 a 6 anni (con multa da 10.000 a 100.000 euro);
per entrambe le fattispecie si introducono aggravanti, in
caso dalle azioni commesse contro l'ambiente derivino
lesioni personali, o morte. Laddove, poi, i reati di
inquinamento e di disastro ambientale vengano commessi per
colpa, anziché per dolo, le pene previste vengono ridotte da
un terzo a due terzi, mentre il traffico e il rilascio nei
terreni di materiale ad alta radioattività cagionerà da 2 a
6 anni di carcere; impedire, poi, i controlli di luoghi
inquinati costerà da 6 mesi a 3 anni (si veda anche tabella
nella pagina).
Fra le norme rilevanti, il «premio» a chi si adopera per
mettere in sicurezza le zone inquinate: mediante il
cosiddetto ravvedimento operoso, infatti, pentirsi di quanto
compiuto e rimediare risanando le aree alterate comporterà
come beneficio la riduzione da un terzo alla metà della
pena, e di un terzo per chi collaborerà con la magistratura,
o con le forze di polizia «nella ricostruzione del fatto,
nell'individuazione degli autori, o nella sottrazione di
risorse rilevanti per la commissione dei delitti».
Al
contrario, il testo usa il «pugno di ferro» nei confronti di
chi si macchierà di «omessa bonifica», giacché scatterà la
punizione (con reclusione da uno a 4 anni e con una multa da
20.000 a 80.000 euro) per chi, pur essendovi obbligato
dall'autorità giudiziaria, non provvederà a bonificare e a
mettere in sicurezza i luoghi inquinati. All'orizzonte,
dunque, il varo definitivo «entro maggio» (come promesso dal
governo) della legge sugli ecoreati, «di portata storica»
l'ha definita Donatella Ferranti (Pd), presidente della
commissione giustizia di Montecitorio
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO: L’amministratore chiede l’agibilità. Quando non è stata
ottenuta dal costruttore chi vende può avere problemi.
Edilizia. Secondo la legge l’edificio deve avere anche
impianti a norma e attestazione energetica.
Non esiste una
legge che impone al venditore di allegare all'atto di
compravendita il certificato di agibilità, così come non
esiste una legge che obbliga il notaio rogante di farne
menzione nell'atto. Ma per i giudici le cose stanno
diversamente: la mancanza del certificato di agibilità
costituisce grave inadempimento e, come tale, causa di
risoluzione del contratto, oltre al risarcimento del danno.
In particolare, il venditore si può vedere costretto a
riprendersi l'immobile ed a restituire all'acquirente il
prezzo, oltre a risarcire i danni, se sussistenti. Il
problema è che sono moltissimi gli edifici in cui manca il
certificato di agibilità perché il costruttore non si è
preoccupato di richiederlo. Nel frattempo le leggi sono
cambiate e per ottenerlo servono una serie di adempimenti
che passano necessariamente dall'amministratore
condominiale. Il suo ruolo, quindi, è centrale per evitare
che i condòmini, quando desiderino cedere il proprio
appartamento (vendendolo o affittandolo) si trovino in serie
difficoltà.
Ma andiamo per gradi. Il Dl 145/2013, articolo 1, comma 7,
stabilisce che i contratti di compravendita immobiliare
devono contenere una clausola nella quale l'acquirente
dichiara di aver ricevuto le informazioni e la
documentazione, comprensiva dell'attestato in merito
all'attestazione della prestazione energetica. Copia di
questo attestato deve essere allegato al contratto. In caso
di omessa dichiarazione o allegazione le parti sono soggette
a una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 3.000 ad
euro 18.000,00.
Altro adempimento richiesto dalla normativa in vigore dal
2010 (Dl 78/2010) è il cosiddetto “allineamento catastale”
la cui violazione comporta la nullità degli atti di
trasferimento delle proprietà immobiliari. Gli atti di
trasferimento devono contenere, oltre all'identificazione
catastale, anche il riferimento alle planimetrie depositate
in Catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli
intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati
catastali e delle planimetrie.
La dichiarazione può essere
sostituita da una attestazione di conformità rilasciata da
un tecnico abilitato. Infine, non certo per importanza, il
notaio è obbligato, ad inserire nel contratto, sempre pena
la sua nullità, a seconda dell'epoca di costruzione
dell'immobile, l'indicazione della licenza o della
concessione edilizia, del permesso di costruire o della
denuncia di inizio attività oppure del titolo abilitativo in
sanatoria.
Nulla, invece, viene detto dalla normativa in vigore sul
certificato di agibilità. Si tratta di un vero e proprio
“vuoto normativo” che comporta gravi ripercussioni su chi, e
sono tanti, ogni giorno si appresta ad acquistare casa. Il
certificato di agibilità (articolo 24 del Tu 380/2001)
attesta, infatti, la sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico
dell'edificio e degli impianti in esso installati. Se
l'edificio non gode di tali condizioni esso non potrà essere
abitato.
Il certificato di agibilità viene rilasciato dal Comune; la
domanda dovrà essere corredata dalla documentazione
richiesta per legge, tra cui il certificato di conformità
degli impianti e, ove previsto, il certificato di conformità
alle norme antisismiche. Può essere ottenuto mediante
espresso provvedimento, entro 30 giorni dalla domanda oppure
mediante “silenzio-assenso” decorsi 30 dal parere positivo
dell'Asl o 60 giorni in caso contrario. Quindi, anche se la
consegna di questo certificato non è imposta dalla legge,
l'acquirente può (o meglio deve) chiedere al
venditore-costruttore fin dalla stipula del preliminare e,
in ogni caso, al momento del contratto definitivo di
compravendita, che gli venga esibito e consegnato il
certificato di agibilità.
Ma quando, come spesso accade, non ci si è preoccupati di
questo adempimento, occorre mobilitare l’amministratore e
farne espressa richiesta. Se l'amministratore non è in
possesso del certificato dovrà richiederlo con le modalità
indicate prima. Anche il singolo condomino può farlo, sempre
che l’immobile risulti agibile. In caso contrario dovranno
essere apprestate dal condominio tutte quelle opere idonee a
renderlo tale.
La mancanza del certificato, infatti, anche in assenza di
una previsione legislativa, è stata valutata dai giudici
come causa di risoluzione del contratto, principalmente in
quanto costituisce una vendita di un bene diverso, inidoneo
ad assolvere allo scopo che le parti si sono proposte.
In
particolare, per i giudici il certificato di agibilità
costituisce un requisito essenziale del bene compravenduto
poiché incide sulla sua attitudine ad assolvere la sua
funzione economico-sociale, assicurandone il legittimo
godimento e la commerciabilità (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 29.08.2011 n. 17707;
Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 14.01.2014 n. 629) (articolo Il Sole 24 Ore del
05.05.2015). |
ENTI LOCALI: Servizi locali.
Dall'Enac l'ok al volo per i droni.
Per sorvolare i centri abitati e le aree congestionate con
le unità aeromobili a pilotaggio remoto occorre una
preventiva autorizzazione dell'Ente nazionale per
l'aviazione civile. È inoltre necessario che il velivolo
abbia un adeguato livello di sicurezza e sia condotto da
soggetti riconosciuti dall'organo tecnico centrale. In caso
contrario scattano pesanti responsabilità anche per i
soggetti committenti.
Lo ha evidenziato l'Enac con la
nota 14.04.2015 n. 40278 di prot., indirizzata all'Associazione dei
comuni italiani di via dei prefetti.
I sistemi senza pilota
vengono utilizzati da diverse amministrazioni locali per
effettuare rilievi di vario tipo. Questi strumenti di volo,
specifica la nota dell'organo tecnico centrale, sono però
considerati dalle normative internazionali al pari di
aeromobili, soggetti quindi alla regolamentazione
aeronautica.
L'impiego dei droni è stato quindi disciplinato
dai singoli stati membri ed in Italia è stato adottato il
regolamento sui mezzi aerei a pilotaggio remoto del 16.12.2013. Nel rispetto di questa disposizione
normativa, risultano particolarmente critiche tutte quelle
operazioni che prevedono il sorvolo delle città e delle zone
densamente frequentate.
Conseguentemente, specifica l'Enac,
per questo tipo di operazioni «è richiesto che l'operatore
di tali sistemi a pilotaggio remoto sia autorizzato
dall'Enac e l'apr, ovvero il drone, abbia un adeguato
livello di sicurezza». In buona sostanza, per assicurare
un adeguato livello di sicurezza occorrono organizzazioni
riconosciute dall'Ente nazionale, note sul sito dell'Enac.
Ad oggi nessun comune è stato autorizzato al sorvolo dei
centri abitati.
Inoltre, solo aderendo al regolamento dell'Ente e affidando
la commessa a soggetti abilitati, il soggetto committente
può essere al sicuro da responsabilità civili,
amministrative e penali per voli irregolari sul proprio
territorio
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Dossier doppio sul bonus 65%.
Per sostituire finestre in appartamenti.
Doppia documentazione per usufruire della detrazione del 65%
per la sostituzione delle finestre nel caso di singole unità
immobiliari. Occorre infatti l'asseverazione di un tecnico
abilitato, che specifichi il valore della trasmittanza
termica degli infissi dismessi (eventualmente stimandola in
base alle caratteristiche del profilato e della tipologia
del vetro) e la scheda informativa semplificata (o allegato
F al «decreto edifici», da compilare a video, anche a cura
dell'utente finale senza l'ausilio del tecnico, e da inviare
all'Enea via web).
Ciò vale anche per le unità immobiliari a destinazione d'uso
diversa da quella residenziale (aziende, uffici, attività
commerciali e produttive) purché univocamente definite come
singola unità.
Queste una delle risposte contenute nelle
Faq Enea
aggiornate al 30.04.2015.
Non occorre inviare alcuna
comunicazione preventiva. La normativa vigente impone
solamente che entro 90 giorni dal termine dei lavori debba
essere trasmessa ad Enea, per via telematica tramite
l'applicativo raggiungibile dalla homepage del sito,
cliccando sul link «invio», la documentazione costituita
dall'attestato di qualificazione energetica e la scheda
descrittiva degli interventi realizzati o in alcuni casi,
una documentazione semplificata, costituita dal solo
Allegato E (nel caso di sostituzione di impianti termici con
caldaie a condensazione, pompe di calore ad alta efficienza
o impianti geotermici a bassa entalpia o di sostituzione di
scaldacqua di tipo tradizionale con scaldacqua a pompa di
calore per a.c.s o di sostituzione o nuova installazione di
generatori di calore a biomassa, comma 347) o dal solo
Allegato F (nel caso di sostituzione di infissi in singole
unità immobiliari o di installazione di pannelli solari o di
schermature solari).
Effettuata la trasmissione, in automatico ritorna al
mittente da Enea una ricevuta informatica con il CpID
(Codice personale IDentificativo), valida a tutti gli
effetti come prova dell'avvenuto invio
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2015). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI LOCALI: Sequestri dai vigili, il Comune paga la custodia.
Codice della strada. La Suprema corte sull’anticipo spese al
posto del trasgressore.
Si apre un
altro fronte critico nei conti dei Comuni: secondo la
Cassazione, devono essere loro -e non le Prefetture- ad
anticipare le spese di custodia dei veicoli sequestrati per
violazioni al Codice della strada dai propri vigili urbani.
Un capitolo secondario, perché probabilmente limitato a
ciclomotori e motocicli. Ma non irrilevante, perché il
contenuto della
sentenza 08.05.2015 n.
9394, della I Sez. civile della Corte di Cassazione)
potrà incidere anche sui contenziosi vecchi (ante 2007)
ancora in corso su tutte le tipologie di veicolo.
Il 2007, infatti, è l’anno in cui è entrata a regime la
“riforma” del sequestro (articolo 213, commi 2 bis-sexies,
del Codice della strada) dettata dall’esigenza di non far
più accumulare debiti alle Prefetture nei confronti delle
autorimesse cui è affidata la custodia.
Le norme attuali
riducono le fattispecie in cui occorre rivolgersi alle depositerie ai casi in cui sono coinvolti ciclomotori e
motocicli e a quelli in cui il trasgressore o il
proprietario del mezzo da sequestrare rifiutano di
custodirlo o trasportarlo in un luogo di cui hanno la
disponibilità. Inoltre, se l’interessato non ritira il
veicolo portato in depositeria pagando le spese chi gestisce
la struttura, questi acquisisce la proprietà del mezzo
(custode-acquirente). Prima, invece, tutti i mezzi finivano
in depositeria.
Proprio al regime precedente si riferisce la sentenza
9394/2015, che respinge il ricorso del Comune di Trento,
condannato a pagare invece della Prefettura l’anticipo delle
spese di custodia dei veicoli sequestrati dalla sua Polizia
locale. Un principio analogo a quello già espresso dalle
Sezioni unite (sentenza 564/2009) a proposito dei
Carabinieri, affermando che le spese andavano sostenute non
dal ministero dell’Interno ma da quello della Difesa, da cui
l’Arma dipende.
Il principio nasce dall’articolo 11, comma 1, del Dpr
571/1982, secondo cui l’anticipo spese è a carico
dell’«amministrazione cui appartiene il pubblico ufficiale
che ha eseguito il sequestro». Secondo il Comune, però, il Dpr 571 si riferisce alle sole amministrazioni centrali e
contrasta con le norme speciali contenute nella legge
689/1981 e nel Codice.
La Cassazione non trova invece alcun contrasto e aggiunge
che è giusto che la responsabilità dell’operato degli agenti
va legata all’amministrazione di appartenenza anche perché
non c’è certezza del recupero delle somme dal trasgressore.
Inoltre, non conta il fatto che lo stesso articolo 11 del
Dpr 571, nel comma 4, stabilisca che le somme sono dovute
dall’ufficio del registro: questa disposizione si riferisce
solo alla forma tipica di pagamento che devono adottare gli
organi statali, quando sono loro a doverle corrispondere
(articolo Il Sole 24 Ore del
09.05.2015). |
APPALTI SERVIZI: Servizi strumentali sempre con appalto.
Consiglio di Stato. Interpretazione «pro-concorrenza» del
decreto Monti sulla spending review
Le Pa devono
acquisire i servizi strumentali sul mercato, mediante gare,
e non possono affidarli a società partecipate in house,
secondo quanto previsto dalla normativa vigente.
L’innovativa interpretazione è stata elaborata dal Consiglio
di Stato, Sez. III, nella
sentenza
07.05.2015 n. 2291, con cui è stato annullato un
affidamento di servizi di pulizie effettuato da un’Asl nei
confronti di una propria società costituita per la gestione
di vari servizi strumentali.
Nella pronuncia i giudici hanno vagliato il provvedimento
dell’Asl alla luce dell’articolo 4, commi 7 e 8, del Dl
95/2012. Il comma 7 è finalizzato ad evitare distorsioni
della concorrenza e in questa prospettiva dispone che, dal
1° gennaio 2014, le Pa acquisiscono sul mercato i beni e
servizi strumentali alla propria attività mediante le
procedure concorrenziali previste dal Codice dei contratti.
Il comma 8 invece prevede che, dalla stessa data,
l’affidamento diretto può avvenire solo a favore di società
a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti
richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria
per la gestione in house.
Il Consiglio di Stato afferma che il tenore del comma 7
sembra univoco nell’individuare le procedure concorrenziali
come modalità necessaria di acquisizione dei beni e servizi
strumentali.
Rispetto all’affidamento in house come modalità derogatoria,
la sentenza interviene in termini radicalmente diversi da
precedenti pronunce e dalla sentenza del Tar oggetto
dell’appello, che avevano letto la norma come possibilità di
ricorrere all’affidamento diretto come “modello ordinario”.
I giudici, infatti, partono dal presupposto che l’in house,
come costruito dalla giurisprudenza Ue, rappresenta, prima
che un modello di organizzazione dell’amministrazione,
un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario,
le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici
avvenga con gara.
In questa analisi, l’affidamento diretto del servizio
confligge con la tutela della concorrenza in quanto sottrae
al libero mercato quote di contratti pubblici. Pertanto,
l’esistenza di una sua disciplina normativa a livello
comunitario (oggi contenuta nell’articolo 12 della direttiva
24/2014/Ue) consente questa forma di affidamento, ma non
obbliga i legislatori nazionali a disciplinarla, né
impedisce loro di limitarla o escluderla in determinati
ambiti.
Il Consiglio di Stato evidenzia quindi come
l’articolo 4, comma 7, del decreto spending review
costituisca norma (nazionale) preclusiva degli affidamenti
diretti di servizi strumentali, con una scelta
dichiaratamente pro-concorrenziale del legislatore, mentre
interpreta il comma 8 come disposizione regolativa solo
delle condizioni in base alle quali l’affidamento diretto
sarebbe consentito nei casi in cui lo stesso articolo 4
ammette la costituzione o il mantenimento di società in
house.
«È una sentenza storica -commenta Lorenzo Mattioli
(presidente Anip, l’associazione imprese di pulizia e
servizi integrati di Fise-Confindustria)- perché tutela il
libero mercato e i diritti alla qualità e all’economicità
dei servizi» (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.05.2015). |
APPALTI:
Appalti, contributo unificato da pagare una volta sola.
È illegittimo richiedere più volte il contributo unificato
nei ricorsi al Tar in materia di appalti pubblici; dal punto
di vista comunitario si penalizza il diritto di difesa.
È quanto afferma l'avvocato generale Niilo Jääskinen nelle
conclusioni 07.05.2015 - causa C-61/14 presentate ieri alla Corte di giustizia su un
ricorso del Tribunale di Trento.
La vicenda riguardava una società che, per ricorrere al Tar
contro l'aggiudicazione di un appalto, aveva dovuto
corrispondere più volte (ricorso introduttivo, ricorso
incidentale, motivi aggiunti) il contributo unificato (che è
graduato in relazione all'importo del contratto e alle
diverse fasi procedurali). Veniva quindi posto il problema
della conformità della disciplina italiana alla direttiva
89/665/Cee che, per le cause in materia di appalti pubblici,
prevede oneri molto più alti rispetto agli altri ricorsi
davanti alla giustizia amministrativa.
L'avvocato generale, nelle conclusioni rese note ieri,
chiarisce che il problema non è l'entità del contributo: «un
tributo giudiziario di 2.000, 4.000 o 6.000 euro, a seconda
dei casi, non può costituire un impedimento all'accesso alla
giustizia, anche prendendo in considerazione gli onorari di
avvocato necessari».
Nessun problema neanche rispetto al fatto che le piccole e
medie imprese siano svantaggiate e penalizzate: «Non si può
ritenere che sia una restrizione indebita alla concorrenza a
svantaggio delle piccole imprese».
Rappresenta invece un ostacolo al diritto di accesso alla
giustizia prevedere, come ha fatto il legislatore italiano,
un contributo in ogni fase del procedimento. In questo caso,
dice l'avvocato generale, si determina un effetto dissuasivo
alla presentazione dei ricorsi perché si aggrava il costo
della tutela giurisdizionale.
Non si può discutere l'intento della norma (ridurre le liti
temerarie e coprire i costi della giustizia amministrativa),
ma la «richiesta plurima del contributo finisce per
dissuadere l'impresa e comprime il diritto alla difesa»
ponendosi quindi in posizione di incompatibilità rispetto
alla direttiva 89/665. L'avvocato conclude poi che spetta al
giudice nazionale accertare se la limitazione del diritto di
difesa sia «necessaria e risponda effettivamente a
finalità di interesse generale», come dice l'articolo 52
della Carta Ue
(articolo ItaliaOggi del 09.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Gare, un costo equo per i ricorsi. Il ticket d’accesso va
parametrato anche alle spese legali.
Giustizia amministrativa. Le conclusioni dell’avvocato
generale sull’entità del contributo unificato.
Si profila una
parziale vittoria dello Stato italiano nella lite sulla
compatibilità comunitaria del contributo unificato dovuto
qualora si impugnano atti di una gara pubblica: l’Avvocato
Generale Niilo Jääskinen ha infatti depositato le proprie
conclusioni 07.05.2015 - causa C-61/14, e si
attende entro maggio la pronuncia della Corte di giustizia.
Oggetto del contendere è l’importo del contributo unificato,
che chi ricorre al giudice amministrativo deve versare
all’inizio della lite e per ogni successiva integrazione che
ampli la materia del contendere.
Per gli appalti pubblici il contributo si eleva dagli
ordinari 650 euro fino a 6mila (per appalti di valore
superiore a 1 milione di euro), e si rinnova nel caso di
ricorso incidentale e di motivi aggiunti che introducano
domande nuove. In grado di appello gli importi lievitano del
50 per cento.
L’Avvocato generale ha espresso la propria opinione
ritenendo che la direttiva 89/665/CEE (sulle procedure di
ricorso in materia di appalti) non osti a contributi più
elevati di 650 euro, purché l’importo del tributo
giudiziario non costituisca un ostacolo all’accesso alla
giustizia né renda eccessivamente difficile l’esercizio
della tutela giurisdizionale in materia di appalti.
La questione era stata sollevata dal Tribunale di giustizia
amministrativa di Trento (ordinanza 366 del 2014) basandosi
sul principio che impone una tutela giurisdizionale
effettiva e non solo apparente, un ricorso non solo rapido
ed efficace, ma anche accessibile. La Corte di giustizia già
altre volte ha censurato l’eccessiva onerosità delle spese
per i ricorsi (in materia ambientale), da valutare tenendo
conto della situazione economica del ricorrente (sentenze 11.04.2013 n. 260/2011 e 530/2011 del 13.02.2014). Le
conclusioni dell’Avvocato generale, cedendo il passo alla
discrezionalità dello Stato, sottolineano che i costi
dell’accesso alla giustizia negli appalti è anche fortemente
condizionato dagli onorari degli avvocati, che si cumulano
ai contributi riscossi dallo Stato. Uno spiraglio verso
tributi piu lievi invece si apre per le impugnazioni di più
atti appartenenti alla medesima serie procedimentale.
L’Avvocato generale sottolinea infatti che, se la lite tende
a un unico risultato (petitum) e ha un’unica motivazione (causa
petendi, cioè la volontà di prevalere nella gara), la
tassazione cumulativa (di motivi aggiunti o di domande
accessorie rispetto a quella iniziale) e la richiesta di più
contributi (ognuno di importo elevato) hanno un effetto
distorsivo e sproporzionato se confrontata con la tassazione
originaria.
Spetta comunque allo Stato questo tipo di giudizio sul
rapporto tra ricorso principale ed integrazioni successive:
per esempio, nel caso che ha dato origine al giudizio
comunitario, la lite inizialmente aveva avuto un costo di
2mila euro, ma tale importo era lievitato di quattro volte
per successive specificazioni. Entro maggio, oltre alla
parola definitiva della Corte comunitaria, si attende anche
la pronuncia della nostra Corte costituzionale
sull’esenzione dal pagamento del contributo unificato per le
liti proposte dalle Onlus che operano nel settore della
tutela dei diritti civili: la questione è stata discussa il
28 aprile e si fonda su argomenti comuni, quali l’eccessiva
onerosità delle spese di giustizia (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'attribuzione delle mansioni superiori comporta anche
l'attribuzione dei compensi della posizione organizzativa.
Se nell'ente sono in servizio
diversi dipendenti di categoria D risulta
illegittimo che si proceda a far ricorso alla norma che
consente l'attribuzione di responsabilità in deroga a
personale con qualifiche inferiori, essendo questa prevista
solo per gli enti locali privi di posizioni dirigenziali di
categoria D.
Ed è comunque irrilevante la circostanza dell'assenza di
figure dirigenziali D nell'area specifica contabile di
assegnazione del dipendente, atteso che la norma -quale
condizione per l'operatività della deroga, da intendersi in
via restrittiva per il suo carattere eccezionale- fa
riferimento alla presenza o meno di figure dirigenziali in
genere nell'ente locale, e non solo nella specifica area in
questione.
---------------
Non potendo operare la deroga, ne risulta che il dipendente
della categoria C che svolge mansioni rientranti nella
categoria D ha diritto alla retribuzione prevista per
quest'ultima, proprio quale diritto nascente
dall'espletamento delle mansioni superiori, conformemente a
quanto previsto dalla giurisprudenza di questa Corte che ha
affermato:
- che, in materia di pubblico impiego
contrattualizzato -come si evince anche dall'art. 56, comma
6, del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo, sostituito dall'ad.
25 del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato
dall'art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, ora riprodotto
nell'art. 32 del dlgs n. 165 del 2001- l'impiegato cui sono
state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni
superiori (anche corrispondenti ad una qualifica di due
livelli superiori a quella di inquadramento) ha diritto, in
conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale,
ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi
dell'art. 36 Cost.;
- che deve trovare integrale applicazione -senza sbarramenti
temporali di alcun genere- pure nel pubblico impiego
privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate
siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e
qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione
all'attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed
assunte le responsabilità correlate a dette superiori
mansioni.
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
1. Con sentenza 14/01/2008, la Corte d'appello di Salerno,
in parziale riforma della sentenza del tribunale della
stessa sede del 07/04/2006, rilevato lo svolgimento da parte
del lavoratore di mansioni -quale responsabile dell'area
contabile- riconducibili a cat. D superiore e che erano
state conferite con provvedimenti formali dell'ente (e
considerata la soppressione dell'art. 56, co. 6, ad opera
dell'art. 15 d.lgs. 387/1998 con efficacia retroattiva, ha
accolto la domanda del lavoratore, ritenendo (a differenza
del tribunale) non esservi mera attribuzione di incarico e
posizione organizzativa ma assegnazione di mansioni
superiori, ed ha condannato il datore al pagamento della
somma di € 15.660 a titolo di differenze retributive per lo
svolgimento delle dette mansioni superiori dal 01/01/1999 al
30/06/2003 ed a titolo di differenze di retribuzione di
posizione e di risultato.
2. Avverso tale sentenza ricorre il datore per un motivo,
cui resiste il lavoratore con controricorso.
Con unico motivo di ricorso si deduce (ex art. 360 n. 3
c.p.c.) violazione degli artt. 2 l. 191/1998, 109 d.lgs.
267/2000, 51 co. 3-ter l. 142/1990, e, per altro verso e con
distinto -benché analogo quesito, violazione dell'art. 11
ccnl 31.03.1999, per aver trascurato le norme che consentono
l'attribuzione ai responsabili di uffici e servizi dei
compiti di attuazione dei programmi e degli obiettivi (negli
enti privi di personale con qualifica dirigenziale) e la
norma del contratto collettivo che prevede l'attribuzione di
retribuzione di posizione inferiore a quella dei dipendenti
inquadrati nella qualifica superiore.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Il ricorso è infondato.
Occorre premettere che l'art. 8 del contratto collettivo
disciplina le posizioni di lavoro -quale quella di
responsabile di area- che richiedono, con assunzione diretta
di elevata responsabilità di prodotto e di risultato, lo
svolgimento di funzioni di direzione organizzative di
particolari complessità, caratterizzate da elevato grado di
autonomia gestionale ed organizzativa, e prevede che esse
possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti
classificati nella categoria D (norma che trova
corrispondenza nelle declaratorie di cui all'ali. A al
contratto). L'art. 10, co. 2 e 3, prevede poi la
retribuzione di posizione e di risultato per il personale
della categoria D.
4. In correlazione con la facoltà prevista dall'art. 151, co.
3-bis, l. 142/1990, l'art. 11 del contratto collettivo
prevede, poi, in deroga al principio generale che vuole una
corrispondenza tra mansioni di assegnazione e qualifica
prevista, che i comuni con minori dimensioni demografiche,
ove siano privi di posizioni dirigenziali di categoria D,
applicano la disciplina di cui agli artt. 8 ss ai dipendenti
di categoria C cui sia attribuita la responsabilità degli
uffici e dei servizi, corrispondendo la retribuzione
prevista dal citato art. 11.
5. Nella specie, dal decreto n. 2/2000 del Presidente
dell'ente locale risulta univocamente che vi erano nell'ente
diversi dipendenti di categoria D (almeno cinque), sicché la
comunità non poteva far ricorso alla norma che consente
attribuzione di responsabilità in deroga a personale con
qualifiche inferiori, essendo questa prevista solo per gli
enti locali privi di posizioni dirigenziali di categoria D.
Resta invece irrilevante la circostanza dell'assenza di
figure dirigenziali D nell'area specifica contabile di
assegnazione del dipendente, atteso che la norma -quale
condizione per l'operatività della deroga, da intendersi in
via restrittiva per il suo carattere eccezionale- fa
riferimento alla presenza o meno di figure dirigenziali in
genere nell'ente locale, e non solo nella specifica area in
questione.
6. Non potendo operare la deroga, ne risulta che il
dipendente della categoria C che svolge mansioni rientranti
nella categoria D ha diritto alla retribuzione prevista per
quest'ultima, proprio quale diritto nascente
dall'espletamento delle mansioni superiori, conformemente a
quanto previsto dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez.
U, Sentenza n. 25837 del 11/12/2007), che ha affermato che,
in materia di pubblico impiego contrattualizzato -come si
evince anche dall'art. 56, comma 6, del d.lgs. n. 29 del
1993, nel testo, sostituito dall'ad. 25 del d.lgs. n. 80 del
1998 e successivamente modificato dall'art. 15 del d.lgs. n.
387 del 1998, ora riprodotto nell'art. 32 del dlgs n. 165
del 2001- l'impiegato cui sono state assegnate, al di fuori
dei casi consentiti, mansioni superiori (anche
corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a
quella di inquadramento) ha diritto, in conformità alla
giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre,
sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992;
n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e
sufficiente ai sensi dell'art. 36 Cost.; che deve trovare
integrale applicazione -senza sbarramenti temporali di alcun
genere- pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che
le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il
profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e
sempre che, in relazione all'attività spiegata, siano stati
esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a
dette superiori mansioni (nello stesso senso, con specifico
riferimento alle mansioni superiori svolte con continuità
negli enti locali in relazione al carattere eccezionale e
temporaneo della facoltà di cui all'art. 151, co. 3-bis, su
richiamato, Sez. L, Sentenza n. 21477 del 2008).
7. La retribuzione per le mansioni rientranti nella
qualifica D è prevista dall'art. 10, co. 2, del ccnl, che
prevede anche una indennità di posizione e di risultato
specificamente determinata nel suo ammontare, somme cui
correttamente ha fatto riferimento la sentenza impugnata al
fine di determinare le somme differenziali spettanti al
lavoratore
(Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 04.05.2015 n. 8884). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla nozione di veranda.
La consistenza del manufatto oggetto
principale dell’ordinanza impugnata, realizzato senza
assenso edilizio su un terrazzo dell’appartamento del
ricorrente rientra nella definizione edilizia propria della
veranda, definizione per la quale non rileva la chiusura su
tutti i lati del manufatto stesso, essendo invece necessario
e sufficiente l’effetto di incremento di volumetria e di
modifica della sagoma dell’edificio causato dall’intervento
edilizio (solo in presenza di una tettoia o di un porticato
aperto da tre lati può essere esclusa la realizzazione di un
nuovo volume).
Infatti:
- la veranda di cui trattasi non può essere considerata mero
volume tecnico a protezione della caldaia, alla cui
definizione difetta l’autonomia funzionale anche solo
potenziale e la non adattabilità ad uso abitativo o diverso
da quello necessario per contenere, senza possibili
alternative e comunque per una consistenza volumetrica del
tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi la
costruzione principale: le dimensioni del manufatto sono,
all’evidenza, ben maggiori di quelle necessarie a contenere
la caldaia e ciò è sufficiente ad escluderne la
riconducibilità alla categoria pretesa dall’appellante,
anche ai sensi dell’art. 13 del regolamento edilizio
comunale;
- in quanto comportante modifica del volume, della sagoma e
del prospetto dell’edificio, l’intervento sanzionato rientra
nella nozione della ristrutturazione edilizia come definita
dall’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n.
380, la cui realizzazione sconta il previo permesso di
costruire da parte del Comune, a prescindere da qualunque
considerazione circa la natura pertinenziale o meno del
manufatto realizzato e dallo specifico oggetto dell’attività
difensiva spiegata dal Comune nel corso del giudizio di
primo grado;
- alla legittimità del provvedimento repressivo di un abuso
edilizio non è necessaria, per pacifico e condiviso
principio giurisdizionale, la specificazione di una
specifica motivazione, né rileva l’asserita disparità di
trattamento con altre situazioni analoghe, disparità che non
può, in ogni caso, consentire il protrarsi di situazioni
comunque non conformi alle norme, né la tutela del preteso
legittimo affidamento, dato che la repressione di abusi
edilizi costituisce, per il Comune, atto vincolato non
soggetto a limiti temporali.
II) L’appello è infondato.
Come ha rilevato il primo giudice, la consistenza del
manufatto oggetto principale dell’ordinanza impugnata,
realizzato senza assenso edilizio su un terrazzo
dell’appartamento del ricorrente rientra nella definizione
edilizia propria della veranda, definizione per la quale non
rileva la chiusura su tutti i lati del manufatto stesso,
essendo invece necessario e sufficiente l’effetto di
incremento di volumetria e di modifica della sagoma
dell’edificio causato dall’intervento edilizio (solo in
presenza di una tettoia o di un porticato aperto da tre lati
può essere esclusa la realizzazione di un nuovo volume: per
tutte, Cons. Stato, sez. V, 14.10.2013, n. 4997).
Per effetto di questa considerazione, che rende infondato il
principale motivo dell’appello, devono essere respinti anche
le ulteriori censure rivolte avverso la sentenza impugnata.
Infatti:
- la veranda di cui trattasi non può essere considerata mero
volume tecnico a protezione della caldaia, alla cui
definizione difetta l’autonomia funzionale anche solo
potenziale e la non adattabilità ad uso abitativo o diverso
da quello necessario per contenere, senza possibili
alternative e comunque per una consistenza volumetrica del
tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi la
costruzione principale (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 21.01.201, n. 175): le dimensioni del manufatto sono,
all’evidenza, ben maggiori di quelle necessarie a contenere
la caldaia e ciò è sufficiente ad escluderne la
riconducibilità alla categoria pretesa dall’appellante,
anche ai sensi dell’art. 13 del regolamento edilizio
comunale;
- in quanto comportante modifica del volume, della sagoma e
del prospetto dell’edificio, l’intervento sanzionato rientra
nella nozione della ristrutturazione edilizia come definita
dall’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n.
380, la cui realizzazione sconta il previo permesso di
costruire da parte del Comune, a prescindere da qualunque
considerazione circa la natura pertinenziale o meno del
manufatto realizzato e dallo specifico oggetto dell’attività
difensiva spiegata dal Comune nel corso del giudizio di
primo grado;
- alla legittimità del provvedimento repressivo di un abuso
edilizio non è necessaria, per pacifico e condiviso
principio giurisdizionale, la specificazione di una
specifica motivazione, né rileva l’asserita disparità di
trattamento con altre situazioni analoghe, disparità che non
può, in ogni caso, consentire il protrarsi di situazioni
comunque non conformi alle norme, né la tutela del preteso
legittimo affidamento, dato che la repressione di abusi
edilizi costituisce, per il Comune, atto vincolato non
soggetto a limiti temporali (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.05.2015 n. 2226 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'abuso edilizio commesso dall'inquilino e sulle
possibili conseguenze sul proprietario di casa.
In materia di abusi edilizi commessi da
persona diversa dal proprietario, costituisce principio
consolidato che la posizione del proprietario possa
ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R.
n. 380 del 2001) e, segnatamente, rispetto all’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla
quale insiste il bene, quando risulti, in modo
inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
stesso al compimento dell’opera abusiva o che, essendone
venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con
gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
--------------
Come ha già osservato questo Consesso, l’ordine di
demolizione è legittimamente, in caso di locazione,
notificato anche al proprietario il quale, fino a prova
contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso, almeno
dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza.
----------------
Se, nella specie, può ammettersi la completa estraneità e
ignoranza nel momento della realizzazione dell’abuso e anche
nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento
dell’abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato
momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario,
che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa
dell’abuso realizzato.
Non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione
dominicale la circostanza della stipulazione del contratto
di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il
trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e
del godimento dell’immobile, non fa affatto venire meno in
assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di
controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario
locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello
in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del
conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull’entità
immobiliare locata (si pensi alla manutenzione
straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i
profili, di vigilanza sull’immobile.
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale
vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza
dell’abuso, ciò non può valere dal momento in cui il
proprietario ne sia stato notiziato.
---------------
Essendo indubbio che a partire da una certa data o da un
certo momento i proprietari erano venuti ben a conoscenza
dell’abuso edilizio realizzato sula loro proprietà, secondo
i principi affermati dalla giurisprudenza che regolano la
materia, il proprietario incolpevole di abuso edilizio
commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto
sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico
dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione, come
effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve
provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere
palese la sua estraneità all’abuso (e in ciò si può
convenire con la parte appellante), siano però anche idonee
a costringere il responsabile dell’attività illecita a
ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi
richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad
escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione
all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo
riacquisto della materiale disponibilità del bene, si
ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi
in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei
confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta
venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra
tante, si veda), al fine di evitare l’applicazione di una
norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede
che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di
sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un
comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative
comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto
con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con
manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o
almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso
(risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento
contrattuale, diffide ad eliminare l’abuso, attività
materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei
casi di locazione.
L’appello è infondato.
In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario, costituisce principio consolidato che la
posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto
alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e,
segnatamente, rispetto all’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste
il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa
estraneità del proprietario stesso al compimento dell’opera
abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall’ordinamento.
La tesi svolta in appello evidenzia che il Comune era
consapevole di tale estraneità: l’amministrazione prima
aveva diffidato e ordinato il ripristino al solo conduttore
e solo successivamente, dopo tre mesi, si era rivolto anche
ai proprietari; l’amministrazione era ben quindi a
conoscenza della materiale indisponibilità dei proprietari,
che permane tuttora.
Viene citata anche la relazione del 17.01.2012, dalla
quale emergerebbe che, sulla base della segnalazione del
Maresciallo della stazione forestale di Aymavilles del 16.08.2007 e del contratto di locazione, “solo a seguito di
specifica richiesta dell’Ufficio, questa Amministrazione
comunale ha desunto che l’area oggetto di deposito era
locata e in disponibilità del predetto”.
I motivi di appello sono infondati, tenendo conto della
posizione che in ogni caso ricopre il proprietario non
autore dell’abuso edilizio e i suoi indiscutibili doveri,
quanto meno, in modo sicuramente pregnante, a partire dal
momento in cui sia venuto a conoscenza in modo formale della
realizzazione abusiva sul suo immobile.
L’art. 77 della legge regionale n. 11 del 16.04.1998,
mutuando la normativa nazionale del Testo unico
dell’edilizia sul punto (art. 31), prevede al secondo comma,
in continuità procedimentale con il primo comma che
disciplina l’ordine di demolizione e ripristino dell’abuso
edilizio, che “ove il responsabile dell’abuso non provveda
alla demolizione e, in ogni caso, al ripristino dello stato
dei luoghi nel termine di novanta giorni, l’immobile oggetto
dell’abuso e l’area di pertinenza dello stesso, determinata
sulla base delle norme urbanistiche vigenti, e comunque non
superiore a dieci volte l’area di sedime, sono acquisite
gratuitamente al patrimonio del Comune”.
Come ha già osservato questo Consesso (Cons. Stato, V, 26.02.2013, n. 1179), l’ordine di demolizione è
legittimamente, in caso di locazione, notificato anche al
proprietario il quale, fino a prova contraria, è quanto meno
corresponsabile dell’abuso, almeno dal momento in cui ne sia
venuto a conoscenza (in tal senso, anche Cons. Stato, V, 31.03.2010, n. 1878; VI, 10.12.2010, n. 8705).
Se, nella specie, può ammettersi la completa estraneità e
ignoranza nel momento della realizzazione dell’abuso e anche
nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento
dell’abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato
momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario,
che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa
dell’abuso realizzato.
Non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione
dominicale la circostanza della stipulazione del contratto
di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il
trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e
del godimento dell’immobile, non fa affatto venire meno in
assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di
controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario
locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello
in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del
conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull’entità
immobiliare locata (si pensi alla manutenzione
straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i
profili, di vigilanza sull’immobile (così Cassazione civile,
sezione III, 27.07.2011, n. 16422).
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale
vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza
dell’abuso, ciò non può valere dal momento in cui il
proprietario ne sia stato notiziato.
Il giudice di primo grado ha argomentato rilevando che, pur
potendosi dare per dimostrato e ammesso che la parte
proprietaria fosse del tutto estranea alla realizzazione
delle opere abusive e ignorasse del tutto l’abuso fino alla
data di comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio, a partire da quella data (23.06.2008) e
certamente a decorrere dalla successiva data del suo accesso
agli atti (05.08.2009), la stessa parte proprietaria
avrebbe dovuto attivarsi per la riduzione in pristino o
quanto meno, dissociarsi completamente dalla condotta della
parte conduttrice. Successivamente, in data 14.09.2009, avveniva il sopralluogo di verifica, con la presenza
del signor C.S. in rappresentanza dei proprietari,
che pertanto, a quel punto, erano pienamente a conoscenza di
tutte le circostanze fattuali.
Anche la relazione comunale citata dall’appello, risalente
al 17.01.2012, non può essere riportata a favore; con
essa, certamente il Comune non si riferisce al periodo della
stesura della relazione (anno 2012), essendo noto l’abuso ai
proprietari almeno dal 2009; in essa si fa riferimento
chiaramente a fatti accertati nel 2007 (epoca in cui era
verosimile che i proprietari fossero nella ignoranza
dell’abuso), mentre, come detto, è innegabile che
successivamente, non tanto con la comunicazione del 23.06.2008, ma certamente con l’accesso presentato e
esercitato in data 05.08.2009, poi con il sopralluogo del
14.09.2009, poi con l’ordinanza del 21.09.2009
notificata nei loro confronti, i proprietari erano oramai
venuti a conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sulla
loro proprietà.
Essendo indubbio quindi, che a partire da una certa data o
da un certo momento, i proprietari erano venuti ben a
conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sula loro
proprietà, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza
che regolano la materia, il proprietario incolpevole di
abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire
all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico
dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione (come
prevede anche la legge regionale della Valle d’Aosta), come
effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve
provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere
palese la sua estraneità all’abuso (e in ciò si può
convenire con la parte appellante), siano però anche idonee
a costringere il responsabile dell’attività illecita a
ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi
richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad
escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione
all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo
riacquisto della materiale disponibilità del bene, si
ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi
in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei
confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta
venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra
tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948),
al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso
di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera
abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano,
di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del
Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto
con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con
manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o
almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso
(risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento
contrattuale, diffide ad eliminare l’abuso, attività
materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei
casi di locazione.
Rispetto a tale necessaria attività di dissociazione, che il
primo giudice ha ritenuto insussistente tanto da relegarla
ad una mera intenzione di fatto rimasta inattuata, risulta
soltanto la mera dichiarazione, non documentata, peraltro,
da parte degli appellanti, risalente al 13.04.2012, con
cui essi dichiarano che “stanno formalizzando la risoluzione
del contratto di locazione de quo”.
Rispetto a tale motivo di rigetto del ricorso originario, in
realtà l’appello non deduce adeguatamente, al fine di
sostenere e dimostrare una maggiore e sufficiente attività
dissociativa.
Nel giudizio amministrativo, costituisce invece specifico
onere dell’appellante formulare una critica puntuale della
motivazione della sentenza appellata, posto che l’oggetto di
tale giudizio è costituito da quest’ultima e non dal
provvedimento gravato in primo grado, e che il suo
assolvimento esige la deduzione di specifici motivi ed
argomentazioni di contestazione della correttezza del
percorso argomentativo che ha fondato la decisione appellata
(per tale principio, Cons. Stato, IV, 13.12.2013,
n. 6005).
E’ infondato il motivo di appello con cui si lamenta la
omessa pronuncia per non avere il primo giudice esaminato e
trattato il vizio di eccesso di potere per difetto di
istruttoria: è evidente come la sentenza, nell’esaminare il
motivo con il quale si deduceva la estraneità dei
proprietari rispetto all’abuso in relazione a tutte le
circostanze fattuali, abbia esaminato tale censura sub
specie di vizio di violazione di legge (sulla base della
asserita violazione delle norme che stabiliscono la
responsabilità dell’autore dell’abuso), accertando i
medesimi fatti e le stesse censure (di asserito mancato
accertamento dei fatti a sostegno della istruttoria circa la
reale responsabilità dei proprietari inerti) riproposte poi
come vizio di eccesso di potere, riproposto in modo
ridondante, come ripetitivo del precedente, oltre che
infondato, è il motivo di omessa pronuncia.
Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello va
respinto, con conferma dell’appellata sentenza
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.05.2015 n. 2211 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'apposizione
dei termini di efficacia della concessione edilizia e gli
istituti della proroga (nei casi consentiti dalla legge) e
della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380
servono ad assicurare la certezza temporale dell'attività di
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche
al fine di garantire un efficiente controllo sulla
conformità dell'intervento edilizio a suo tempo autorizzato
con il relativo titolo.
---------------
La decadenza del titolo edilizio opera di diritto e non è
richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento
espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento
diverso, infatti, la tesi prevalente in giurisprudenza, che
il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge,
che fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo,
costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto
dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche.
---------------
Per consolidata giurisprudenza, l’inizio dei lavori idoneo
ad impedire la decadenza della concessione edilizia può
ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali
da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera,
non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del
terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali di
costruzione.
Detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile
per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di
sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto
l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che
dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino
alla loro ultimazione.
... per l'annullamento della determinazione n. 1278 del
21.12.2010 del Direttore dell'Area 5 del Comune di
Selargius, avente ad oggetto "Concessione Edilizia n.
58/2009 e n. 111/2010 per la realizzazione di un
autolavaggio e sistemazione di parte dell'area a verde
pubblico e parte a parcheggio - decadenza ex comma 2°, art.
15 D.P.R. 380/2001", con la quale veniva dichiarata la
decadenza della concessione edilizia n. 58 del 25.06.2009 e
della concessione edilizia n. 111/2010 di voltura della
concessione edilizia n. 58 del 25.06.2009, per mancato inizio
dei lavori entro un anno dal rilascio della concessione
edilizia n. 58 del 25.06.2009;
...
Il ricorso è infondato.
La concessione edilizia n. 58/2009 recava espressamente
l’indicazione (art. 2) che “L’inizio lavori dovrà avvenire
entro un anno dalla data del rilascio della presente
concessione e quindi entro la data del 30.06.2010, pena la
decadenza della concessione stessa”.
La concessione n. 111/2010, adottata a seguito della
presentazione dell’istanza di voltura da parte della società
subentrante all’originaria concessionaria, stabiliva sul
punto (art. 2) che “I termini di inizio e fine lavori sono i
medesimi previsti dalla concessione n. 58/2009…”.
Orbene, non è superfluo ricordare che l'apposizione dei
termini di efficacia della concessione edilizia e gli
istituti della proroga (nei casi consentiti dalla legge) e
della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380
servono ad assicurare la certezza temporale dell'attività di
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche
al fine di garantire un efficiente controllo sulla
conformità dell'intervento edilizio a suo tempo autorizzato
con il relativo titolo (così Cons. St., V, 23.11.1996, n.
1414).
Con riguardo al caso di specie la ricorrente assume che,
diversamente da quanto ritenuto dall’amministrazione, come
da comunicazione di inizio lavori del 23.06.2010, questi
ultimi sarebbero stati puntualmente iniziati prima della
scadenza di efficacia del titolo edilizio.
L’argomento è privo di un significativo corredo probatorio.
Si richiama, infatti, in proposito, la dichiarazione resa
dal geom. G.B. in data 26.11.2010 dalla
quale tuttavia risulta che prima della scadenza del termine
erano state effettuate mere operazioni preliminari (verifica
delle quote plano altimetriche, individuazione del luogo
migliore per l’accesso e l’uscita degli autocarri,
affidamento dell’incarico a un geologo per il relativo
studio dell’area), e la lettera dello studio legale C. & M. che peraltro, si limita a richiamare la
corrispondenza intercorsa col geologo incaricato
dell’indagine geognostica risalente ai giorni 3 e 15.10.2010, ossia ad epoca ben successiva alla scadenza della
concessione risalente al 30.06.2010.
In proposito è opportuno ricordare che la decadenza del
titolo edilizio opera di diritto e non è richiesta a tal
fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento
diverso, infatti, la tesi prevalente in giurisprudenza, che
il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge,
che fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo,
costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto
dell'inutile decorso del tempo (cfr. TAR Pescara, n. 61 del
04.02.2013; Consiglio di Stato n. 2915/2012).
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche (cfr. Tar Roma
sentenza n. 5530/2005; Consiglio di Stato, Sez. IV, n.
2915/2012).
Per contro, sempre sul piano probatorio, la difesa comunale
ha depositato in data 19.02.2015 (all. 7) il verbale
del sopralluogo effettuato nell’area interessata
dall’intervento per cui è causa in data 29.10.2010,
corredato da documentazione fotografica, dal quale si ricava
che a tale data i lavori non risultavano affatto iniziati.
Del resto, per consolidata giurisprudenza, l’inizio dei
lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione
edilizia può ritenersi sussistente quando le opere
intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà di
realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il
semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli
strumenti e materiali di costruzione (così Cons. Stato, Sez.
V, 22.11.1993 n. 1165); ovvero, detto altrimenti,
l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della
sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza
che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del
cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale
proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2000 n. 5242),
circostanze, queste ultime, non comprovate nella specie
dalla ricorrente.
Né, infine, assumono rilievo le ricordate vicende
concernenti l’avvicendamento nella compagine sociale che, ad
avviso della ricorrente, avrebbero determinato il ritardo
nell’inizio dei lavori.
Tali accadimenti sono infatti, per quanto qui rileva, del
tutto irrilevanti: mancando nel caso di specie sia una
tempestiva richiesta di proroga, sia un formale
provvedimento di sospensione del termine da parte
dell’amministrazione, la concessione edilizia n. 28/2009
deve ritenersi decaduta fin dal 30.06.2010.
In conclusione quindi il ricorso si rivela infondato e va
respinto
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 04.05.2015 n. 741 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Il
servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro
è certamente rientrante tra le competenze specifiche degli
architetti.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
- dell'avviso pubblico dell'Azienda Sanitaria Provinciale di
Enna, pubblicato nella G.U.R.I. del 23.012015, per titoli e
colloquio, per la formazione di una graduatoria da
utilizzare per il conferimento di eventuali incarichi a
tempo determinato di dirigente ingegnere - ruolo
professionale, nella parte in cui, richiedendo tra i
requisiti di ammissione la sola laurea in ingegneria vecchio
ordinamento o laurea specialistica, ha escluso dalla
partecipazione alla selezione la categoria professionale
degli architetti;
- dell'avviso pubblico dell'Azienda Sanitaria Provinciale di
Enna, pubblicato nella G.U.R.I. del 23.01.2015, per titoli e
colloquio, per la formazione di una graduatoria da
utilizzare per il conferimento di eventuali incarichi a
tempo determinato presso il servizio prevenzione e sicurezza
degli ambienti di lavoro, nella parte in cui, richiedendo
tra i requisiti di ammissione la sola laurea in ingegneria
vecchio ordinamento o laurea specialistica, ha escluso dalla
partecipazione alla selezione la categoria professionale
degli architetti;
...
-
Ritenuto che appare assistito dal prescritto fumus di
fondatezza il motivo di ricorso relativo al bando per “il
servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di
lavoro”, in quanto quest’ultimo è certamente rientrante tra
le competenze specifiche degli architetti;
-
Ritenuto che alla medesima conclusione non è possibile
giungere per la diversa selezione di “dirigente ingegnere –
ruolo professionale”, poiché non è prevista nel bando
nessuna specifica indicazione in ordine alle concrete
conseguenti mansioni da esercitare, sicché non è possibile
stabilire a priori se gli incarichi conferibili rientrino o
meno nella competenza degli architetti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia -Sezione staccata di Catania (Sezione Quarta)– accoglie nel
limiti di cui alla parte motiva
(TAR Sicilia-Catania, Sez. VI,
ordinanza 04.05.2015 n. 331 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla qualificazione dell'intervento di installazione tenda
parasole.
Con riguardo alle tende parasole, il
Collegio rileva che in giurisprudenza possono registrarsi
tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un
intervento privo di rilevanza edilizia, che non
richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio.
Secondo un'opposta opinione, le tende solari
sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile
e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo
permanente e non a titolo precario e pertanto
necessiterebbero del Permesso di costruire.
Secondo, infine, una posizione intermedia,
l’istallazione di tende da sole rientrerebbe nel novero
degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto
non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica
permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il
titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito
dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato
disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio condivide quest’ultima configurazione della
natura giuridica degli interventi in questione come
interventi di manutenzione straordinaria, che trova
il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo,
D.P.R. n. 380/2001, nel testo precedente alle modifiche
introdotte dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Infatti, le tende solari, pur alterando lo stato dei luoghi
nei quali vengono installate (per cui non possono definirsi
interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia
semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo
dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio, in
quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella
sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione
plano-volumetrica, per cui non integrano né una nuova
costruzione né una ristrutturazione edilizia.
Con particolare riferimento alle tende parasole installate
proprio nell’ambito di attività del tipo di quella oggetto
del presente giudizio, il Consiglio di Stato ha rilevato
che: <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non
debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere
che hanno finito per sostituire una preesistente tenda
parasole di un esercizio commerciale con una struttura in
legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una
trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in
proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso
dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur
essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla
tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente
destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non
essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare
la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare,
detta struttura è insuscettibile di costituire un volume
autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui
accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata
come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale
non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia
(oggi permesso di costruire)>>.
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie,
l’intervento edilizio costituito dall’installazione di una
struttura di supporto di una tenda rientri, per quanto di
una certa ampiezza, nel novero degli interventi di
manutenzione straordinaria e che quindi non sia
sottoposto al regime del Permesso di costruirre..
Il Collegio osserva ancora, per ragioni di completezza, che
a seguito delle modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n.
380/2001 prima dall’art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40
(convertito con L. 22.05.2010, n. 73), e in ultimo con il
D.L. 12.09.2014, n. 133, che ha convertito in legge il d.l.
11.09.2014, sul regime giuridico degli interventi di
manutenzione straordinaria (entrate in vigore in data
successiva a quella di accertamento delle opere per cui è
causa), tali interventi possono ormai essere eseguiti senza
alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione,
anche per via telematica, di inizio lavori, con previsione,
in caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione
pecuniaria pari ad euro 258,00.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 7 prot. 1986 del
06.03.2014 notificata il 10.03.2014 con cui il Responsabile
del Terzo Settore del Comune di Agnone ha ingiunto al sig.
-OMISSIS- di demolire l'opera realizzata e ripristinare lo
stato dei luoghi entro 90 giorni, di ogni atto presupposto,
connesso e/o conseguente.
...
Con riguardo alle tende parasole, il Collegio rileva che in
giurisprudenza possono registrarsi tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un
intervento privo di rilevanza edilizia, che non
richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio (TAR
Lombardia Milano, sez. III, 31.07.2006, n. 1890).
Secondo un'opposta opinione, le tende solari
sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile
e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo
permanente e non a titolo precario e pertanto
necessiterebbero del Permesso di costruire (TAR Basilicata,
sez. I, 27.06.2008, n. 337).
Secondo, infine, una posizione intermedia,
l’istallazione di tende da sole rientrerebbe nel novero
degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto
non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica
permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il
titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito
dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato
disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio condivide quest’ultima configurazione della
natura giuridica degli interventi in questione come
interventi di manutenzione straordinaria, che trova
il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo,
D.P.R. n. 380/2001, nel testo precedente alle modifiche
introdotte dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Infatti, le tende solari, pur alterando lo stato dei luoghi
nei quali vengono installate (per cui non possono definirsi
interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia
semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo
dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio, in
quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella
sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione
plano-volumetrica, per cui non integrano né una nuova
costruzione né una ristrutturazione edilizia (cfr. TAR
Campania Napoli Sez. IV, 02.12.2008, n. 20791).
Con particolare riferimento alle tende parasole installate
proprio nell’ambito di attività del tipo di quella oggetto
del presente giudizio, il Consiglio di Stato ha rilevato
che: <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non
debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere
che hanno finito per sostituire una preesistente tenda
parasole di un esercizio commerciale con una struttura in
legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una
trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in
proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso
dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur
essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla
tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente
destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non
essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare
la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare,
detta struttura è insuscettibile di costituire un volume
autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui
accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata
come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale
non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia
(oggi permesso di costruire)>> (Cons. Stato, sez. IV,
17.05.2010, n. 3127).
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie,
l’intervento edilizio costituito dall’installazione di una
struttura di supporto di una tenda rientri, per quanto di
una certa ampiezza, nel novero degli interventi di
manutenzione straordinaria e che quindi non sia
sottoposto al regime del Permesso di costruire (TAR
Campania, Napoli Sez. IV, 12.10.2011, n. 5324; TAR Campania,
Napoli Sez. IV, 16.12.2011, 5919).
Il Collegio osserva ancora, per ragioni di completezza, che
a seguito delle modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n.
380/2001 prima dall’art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40
(convertito con L. 22.05.2010, n. 73), e in ultimo con il
D.L. 12.09.2014, n. 133, che ha convertito in legge il d.l.
11.09.2014, sul regime giuridico degli interventi di
manutenzione straordinaria (entrate in vigore in data
successiva a quella di accertamento delle opere per cui è
causa), tali interventi possono ormai essere eseguiti senza
alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione,
anche per via telematica, di inizio lavori, con previsione,
in caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione
pecuniaria pari ad euro 258,00 (cfr. TAR Campania, sez. IV,
01.12.2014, n. 6197) (TAR Molise,
sentenza 04.05.2015 n. 181 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'ordinanza di demolizione di opera abusiva
allorché il comune ne sia a conoscenza (per iscritto) da
oltre 10 anni e, nel frattempo, nulla ha fatto per
reprimerlo.
La struttura abusiva in questione esiste
da oltre 10 anni ed il Comune era pienamente
informato, come dimostrano le richieste, riferite
espressamente anche alla tenda parasole, rivolte al
ricorrente dallo stesso ente comunale di corrispondere il
pagamento dei canoni di concessione per l’occupazione del
suolo pubblico.
Tale situazione ha indubbiamente creato nel ricorrente un
affidamento in ordine alla acquiescenza dell’ente comunale
che non può non confluire nella complessiva positiva
valutazione del ricorso, come già ritenuto in una recente
pronuncia di questo stesso Tribunale da cui il Collegio non
ravvisa motivi per discostarsi.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve
pertanto ritenere che l'ordine di demolizione si presenti
comunque illegittimo dal momento che esplicitamente postula
che per la sua realizzazione sia necessario il Permesso di
costruire, trattandosi, per quanto più sopra esposto, di
affermazione non corretta sul piano giuridico; né si può
considerare in senso contrario la circostanza che l’area in
questione è sottoposta a vincolo paesaggistico, atteso che
la semplice menzione della circostanza che l’area in
questione sia sottoposta a vincolo paesaggistico non
costituisce un autonomo motivo dell’atto gravato tale da
giustificare da solo il provvedimento negativo.
Anzi, al contrario, il mero riferimento a tali circostanze,
in assenza di alcuna specificazione in ordine alla mancanza
di autorizzazione paesaggistica e alla deduzione di tale
circostanza come presupposto della misura sanzionatoria, non
è sufficiente a far considerare l’aspetto dell’assenza di
titolo paesaggistico quale motivazione della misura
sanzionatoria, che si concentra invece sul profilo della
necessità del permesso di costruire (cfr. TAR Campania, n.
6197/2014, cit.).
Alle considerazioni appena esposte, deve anche aggiungersi
l’ulteriore rilievo, già evidenziato in sede cautelare, che
la struttura in questione esiste da oltre 10 anni e che il
Comune era pienamente informato, come dimostrano le
richieste, riferite espressamente anche alla tenda parasole,
rivolte al ricorrente dallo stesso ente comunale di
corrispondere il pagamento dei canoni di concessione per
l’occupazione del suolo pubblico.
Tale situazione ha indubbiamente creato nel ricorrente un
affidamento in ordine alla acquiescenza dell’ente comunale
che non può non confluire nella complessiva positiva
valutazione del ricorso, come già ritenuto in una recente
pronuncia di questo stesso Tribunale da cui il Collegio non
ravvisa motivi per discostarsi (cfr. TAR Molise 17.02.2014,
n. 114).
Per tutte le suesposte ragioni che assorbono ogni altro
profilo di doglianza il ricorso deve essere accolto e la
gravata ordinanza deve quindi essere annullata (TAR Molise,
sentenza 04.05.2015 n. 181 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Acquisti Consip, decide il dirigente.
Appalti. Consiglio di Stato.
L’adesione
alla convenzione Consip esplica poteri gestionali di
esclusiva competenza del dirigente/responsabile del servizio
senza intermediazione politica.
È questo il concetto
espresso dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
30.04.2015 n. 2194.
Nel caso trattato, l’appellante ha impugnato gli atti di
adesione alla convenzione Consip per l’affidamento del
servizio d’illuminazione pubblica, per due ragioni: il
responsabile del servizio sarebbe stato carente di
competenza ad aderire alla convenzione Consip, e l’atto si
contrapponeva con un indirizzo della Giunta che prevedeva
l’esternalizzazione del servizio con gara.
Sulla competenza, i giudici respingono l’obiezione con la
considerazione che l’adesione alla convenzione Consip
rientra nell’attività gestionale della dirigenza comunale in
base all’articolo 107 del Tuel. Sulla supposta esigenza di
un’intermediazione politica per valutare se aderire o meno
alla convenzione Consip, in sentenza è chiarito che «si può
comunque osservare che tra le competenze dell’organo
giuntale non rientra quella della stipulazione di contratti
o -il che è lo stesso- di adesione a convenzioni quadro.
Dinanzi all’alternativa, inoltre, tra l’adesione ad una
convenzione Consip e l’indizione di una gara ad hoc, la
relativa opzione costituisce una scelta gestionale, e non
certo un atto di indirizzo di competenza degli organi di
governo locale».
Importanti sono anche le considerazioni dei giudici sulla
valutazione economica dell’adesione alla convenzione
L’assunto di base della ricorrente era la normativa impone
alle Pa di acquisire beni e servizi «con la minore spesa
possibile (...)anche sulla base delle convenzioni Consip,
l’adesione alle quali andrebbe analiticamente motivata».
La sentenza ribatte che le norme vigenti esprimono per le
convenzioni Consip un sicuro favore, come mostra il fatto
che queste rilevano comunque come parametri di
prezzo-qualità fungenti da limiti massimi per la
stipulazione dei contratti.
In definitiva, quindi, la motivazione appare necessaria non
tanto quando si decida di aderire alle convenzioni ma,
piuttosto, quando si esprime una diversa valutazione e
«l’amministrazione si determini in concreto nel senso di
fare nuovamente ricorso al mercato, in quanto l’ente
pubblico dovrà in tal caso far constare l’utilità della
propria iniziativa rispetto ai parametri della convenzione Consip di settore» (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contributo di costruzione posto a carico del
costruttore trova causa nell’utilità che questi ne ritrae.
Trattandosi di principio di portata generale la deroga alla
onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle
sole ipotesi tassativamente previste dalla legge da
intendersi di stretta interpretazione.
Ciò premesso si rileva che il pagamento del contributo di
cui al citato art. 27 della L.R. n. 31/2002, ai sensi del
successivo art. 30, comma 1, lett. a), è escluso unicamente
“per gli interventi, anche residenziali, da realizzare nel
territorio rurale in funzione della conduzione del fondo e
delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo
principale, ai sensi dell'art. 12 della L. 09.05.1975, n.
153, ancorché in quiescenza”.
Ne deriva che ai fini del rilascio della concessione
gratuita occorre il concomitante concorso di due
requisiti: sul piano soggettivo, la qualità di
imprenditore agricolo a titolo principale secondo la
definizione di cui all’art. 12 della L. n. 153/1975; sul
piano oggettivo, il nesso di preordinazione funzionale delle
opere alla conduzione del fondo.
La ricorrenza di una soltanto di dette condizioni non può,
quindi, ritenersi requisito sufficiente a determinare la
gratuità dell’intervento edilizio.
La pretesa esenzione non può, quindi, trovare applicazione
nei confronti di soggetti differenti dall’imprenditore
agricolo a titolo principale e deve essere debitamente
documentata al momento in cui l’interessato richiede il
titolo abilitativo per l’intervento edilizio.
---------------
In base al prevalente orientamento giurisprudenziale “la
controversia sulla quantificazione del contributo di
costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo
alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività
questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo
criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione
della natura paratributaria del contributo” con la
conseguenza che “trova campo elettivo d'applicazione, specie
con riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la
riduzione del pagamento del contributo, il criterio
interpretativo delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva",
proprio delle disposizioni tributarie. Ossia l'interprete,
oltre a doversi attenere alla littera legis, deve
individuare il criterio in base al quale è stata disposto il
beneficio che deroga all'ordinario regime paratributario, al
fine di non estenderne l'applicazione oltre i casi
espressamente preveduti”.
La censura è infondata.
Sul punto occorre precisare che il contributo di costruzione
posto a carico del costruttore trova causa nell’utilità che
questi ne ritrae.
Trattandosi di principio di portata generale la deroga alla
onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle
sole ipotesi tassativamente previste dalla legge da
intendersi di stretta interpretazione (Cons. di St., Sez. V,
07.05.2013, n. 2467).
Ciò premesso si rileva che il pagamento del contributo di
cui al citato art. 27 della L.R. n. 31/2002, ai sensi del
successivo art. 30, comma 1, lett. a), è escluso unicamente
“per gli interventi, anche residenziali, da realizzare nel
territorio rurale in funzione della conduzione del fondo e
delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo
principale, ai sensi dell'art. 12 della L. 09.05.1975, n.
153, ancorché in quiescenza”.
Ne deriva che ai fini del rilascio della concessione
gratuita occorre il concomitante concorso di due requisiti:
sul piano soggettivo, la qualità di imprenditore agricolo a
titolo principale secondo la definizione di cui all’art. 12
della L. n. 153/1975; sul piano oggettivo, il nesso di
preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del
fondo.
La ricorrenza di una soltanto di dette condizioni non può,
quindi, ritenersi requisito sufficiente a determinare la
gratuità dell’intervento edilizio (Cons. di St., sez. V, 14.05.2013, n. 2009).
La pretesa esenzione non può, quindi, trovare applicazione
nei confronti di soggetti differenti dall’imprenditore
agricolo a titolo principale e deve essere debitamente
documentata al momento in cui l’interessato richiede il
titolo abilitativo per l’intervento edilizio (TAR Puglia,
Lecce, Sez. III, 18.09.2013, n. 1939).
Nel caso di specie in capo al ricorrente difetta la
prescritta qualifica.
La Comunità Montana Valli del Nure e dell’Arda, infatti, a
richiesta dell’Amministrazione, ha certificato la qualifica
di IAP in capo a E.M. “in qualità di socio
amministratore (persona giuridica) della predetta Società
Agricola E.G. e C. Società Semplice e non in
quanto ditta individuale (persona giuridica) coincidente con
la persona fisica”.
La circostanza che l’intervento edilizio sia relativo ad
opere assentite in forza di titolo richiesto dalla (e
rilasciato alla) persona fisica determina l’insussistenza
del presupposto legittimante l’invocata esclusione dal
pagamento del contributo di costruzione.
L’esenzione in questione è ulteriormente inibita a causa
della natura del fabbricato da realizzarsi atteso che non
possiede il prescritto carattere rurale ma, come sostenuto
dall’Amministrazione, deve classificarsi quale abitazione di
lusso.
L’art. 9, comma 3, lett. e), del D.L. n. 557/1993, infatti,
precisa che “i fabbricati ad uso abitativo, che hanno le
caratteristiche delle unità immobiliari urbane appartenenti
alle categorie A/1 ed A/8, ovvero le caratteristiche di
lusso previste dal decreto del Ministro dei lavori pubblici
02.08.1969, adottato in attuazione dell'articolo 13 della
legge 02.07.1949, n. 408, e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 218 del 27.08.1969, non possono comunque
essere riconosciuti rurali”.
Ai sensi dell’art. 5 del D.M. Lavori Pubblici 02.08.1969,
sono considerate abitazioni di lusso “le case composte di
uno o più piani costituenti unico alloggio padronale aventi
superficie utile complessiva superiore a mq. 200 (esclusi i
balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e
posto macchine) ed aventi come pertinenza un'area scoperta
della superficie di oltre sei volte l'area coperta”.
L’abitazione in questione è riconducibile a tale tipologia
poiché ha superficie utile pari a mq. 232,11 (oltre mq.
158,40 non residenziali, mq. 56,44 per autorimessa e mq.
198,91 di porticati) e non può, pertanto, beneficare di
alcuna esenzione.
Con il medesimo capo di impugnazione il ricorrente afferma
ulteriormente che la circostanza che l’immobile presenti
caratteristiche tali da essere riconducibile agli immobili
di lusso potrebbe determinare il mancato riconoscimento
della ruralità del fabbricato ai soli fini fiscali senza
ricaduta alcuna sul regime del contributo di costruzione.
La doglianza è infondata in ragione della peculiare natura
del contributo di costruzione.
Deve a tal proposito rilevarsi che in base al prevalente
orientamento giurisprudenziale “la controversia sulla
quantificazione del contributo di costruzione involge
l'apprezzamento del diritto soggettivo alla determinazione
dell'obbligazione contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo criteri
predeterminati o tabelle parametriche in ragione della
natura paratributaria del contributo (cfr., Tar Lombardia,
sez. Brescia, 24.08.2012 n. 1467; Cons. St., sez. V, 14.12.1994 n. 1471)” con la conseguenza che “trova campo
elettivo d'applicazione, specie con riguardo alle norme che
prevedono l'esonero e la riduzione del pagamento del
contributo, il criterio interpretativo delle norme c.d. "a
fattispecie esclusiva", proprio delle disposizioni
tributarie. Ossia l'interprete, oltre a doversi attenere
alla littera legis, deve individuare il criterio in base al
quale è stata disposto il beneficio che deroga all'ordinario
regime paratributario, al fine di non estenderne
l'applicazione oltre i casi espressamente preveduti” (TAR
Liguria, Sez. I, 30.09.2014, n. 1401).
La posizione illustrata, dalla quale la Sezione non ha
motivo di discostarsi, è coerente con il principio di
stretta interpretazione cui devono soggiacere i casi di
esonero dal contributo di concessione (TAR Campania, Napoli,
Sez. II, 29.01.2015, n. 516)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 30.04.2015 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Per quanto concerne i geometri, deve essere
considerato che le loro competenze nella materia di cui al
presente giudizio derivano da una competenza più generale
alla progettazione di edifici ‘di modesta entità’.
Vanno quindi esaminate le disposizioni dell’art. 16, lett.
m), del R.D. 11.02.1929, n. 274, che abilitano il geometra
ad operare nella progettazione, nella direzione e nella
vigilanza di modeste costruzioni civili.
Non vi sono ragioni per escludere che questa norma risponda
al rinvio, del tutto aperto e privo di specificazioni o di
esclusioni, operato dal soprarichiamato art. 6, primo comma,
della legge 05.03.1990, n. 46, nei limiti del tipo di
costruzioni considerate.
L’impianto di riscaldamento deve infatti considerarsi una
parte essenziale della costruzione e il geometra è, in
mancanza di esplicite disposizioni contrarie, certamente
abilitato a progettarne la realizzazione nell’ambito delle
progettazione complessiva, al pari dei numerosi altri
impianti che la costruzione comporta, dato che la sua
competenza è anche tecnicamente delimitata dalle dimensioni
della costruzione alla quale l’impianto di riscaldamento non
può non commisurarsi.
---------------
Il geometra, così come può svolgere attività di
progettazione, di direzione e di vigilanza con riferimento a
«modeste costruzioni civili», può anche presentare domande
riguardanti la verifica di impianti di riscaldamento nelle
medesime costruzioni.
1. – Il Collegio dei Geometri della Provincia di Genova e il
suo Presidente in carica, geometra L.P.,
appellano la sentenza del TAR Liguria n. 166/2006, che ha
dichiarato in parte infondato ed in parte inammissibile il
ricorso per l'annullamento della nota 28.01.2002, n.
4146, con cui il dirigente del Comune di Genova ha disposto
la non conformità della relazione tecnica presentata dal
geom. P. nell’ambito di una domanda in sanatoria di
opere edilizie riguardante la verifica di un impianto di
riscaldamento installato in un’abitazione.
Tale atto è stato emesso poiché questo documento non è stato
sottoscritto da un professionista (ingegnere o perito
industriale) abilitato alla redazione di progetti
impiantistici, come richiesto, in base all’interpretazione
sostenuta dal Comune, dall’art. 6, comma 1, della legge n.
46/1990 e dall’art. 4 del DPR n. 477/1991.
...
10. – L’appello è in parte fondato e deve essere accolto con
conseguente riforma della sentenza appellata nei limiti di
cui in motivazione.
10.1. – Deve innanzitutto essere disattesa, salvo che per
quanto statuito dalla presente sentenza al punto 10.9.,
l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata
dall’Ordine degli ingegneri e dal Collegio dei periti
industriali nella memoria depositata in data 24.12.2014, che asserisce che l’appello censura la sentenza
impugnata solo in relazione al rigetto del primo motivo di
ricorso con la conseguenza che si debba ritenere che il
secondo e il terzo motivo siano stati rinunciati.
Entrambi i motivi sono stati trascritti nell’atto di appello
e la censura, espressa in questi termini, è smentita dagli
atti di causa.
Allo stesso modo deve essere disattesa la eccezione di
improcedibilità per carenza di interesse sollevata
dall'interveniente ad opponendum, il Consiglio nazionale dei
Periti industriali e dei Periti laureati, in quanto la loro
asserzione non è suffragata da alcun riscontro, mentre è in
ogni caso evidente l’interesse a contestare la valutazione
negativa operata dal Comune, a prescindere dall’esito
dell’opera interessata, trattandosi di una questione di
principio che incide sull’ambito delle competenze
professionali da considerare conformi alla normativa del
settore.
10.2. – Passando all'esame del merito, il Collegio ritiene
che la questione sostanziale oggetto del giudizio deve
essere decisa su base esclusivamente normativa. Spetta
infatti al legislatore definire espressamente i limiti di
competenza di tipo generale rispetto a quelle tecnicamente
più specifiche.
10.3. – Vanno quindi valutati gli effetti del combinato
disposto costituito dalla legge 05.03.1990, n. 46, e dagli
ordinamenti professionali a cui rinvia in particolare l’art.
6, comma 1, della medesima legge, interpretato in modo
opposto dalle parti nel presente giudizio: "Per
l'installazione, la trasformazione e l'ampliamento degli
impianti di cui ai commi 1, lettere a), b), c), e) e g), e 2
dell'articolo 1 è obbligatoria la redazione del progetto da
parte di professionisti, iscritti negli albi professionali,
nell'ambito delle rispettive competenze".
10.4. – Preliminarmente, va notato che tale comma si limita
a prevedere la redazione di un progetto riferito alla
installazione, alla trasformazione e all’ampliamento degli
impianti e non alla loro progettazione. Pertanto la rubrica
dell’articolo "progettazione degli impianti" deve essere
interpretato secondo il contenuto della norma, che è assai
più semplice e limitato.
10.5. – Delimitato l’ambito della questione, è determinante
ai fini della sua soluzione la interpretazione della
disposizione, che prevede la definizione delle
caratteristiche professionali degli operatori dai quali il
progetto deve essere necessariamente redatto. Tale
disposizione rinvia in modo puntuale e inoppugnabile alle
disposizioni che precisano la competenza per ciascuna
categoria di professionisti, senza alcuna specificazione ed
esclusione, prevedendo quindi che ai fini della
installazione, della trasformazione o dell’ampliamento degli
impianti il progetto possa essere redatto da ciascun
appartenente alla singola categoria nell’ambito delle
competenze già previste dai rispettivi ordinamenti.
Ne consegue che la questione deve essere risolta per
ciascuna categoria professionale all’interno del rispettivo
ordinamento e secondo le logiche specifiche che lo
informano.
10.6. - Per quanto concerne i geometri, deve essere quindi
considerato che le loro competenze nella materia di cui al
presente giudizio derivano da una competenza più generale
alla progettazione di edifici ‘di modesta entità’.
Vanno quindi esaminate le disposizioni dell’art. 16, lett.
m), del R.D. 11.02.1929, n. 274, che abilitano il
geometra ad operare nella progettazione, nella direzione e
nella vigilanza di modeste costruzioni civili.
Non vi sono ragioni per escludere che questa norma risponda
al rinvio, del tutto aperto e privo di specificazioni o di
esclusioni, operato dal soprarichiamato art. 6, primo comma,
della legge 05.03.1990, n. 46, nei limiti del tipo di
costruzioni considerate.
L’impianto di riscaldamento deve infatti considerarsi una
parte essenziale della costruzione e il geometra è, in
mancanza di esplicite disposizioni contrarie, certamente
abilitato a progettarne la realizzazione nell’ambito delle
progettazione complessiva, al pari dei numerosi altri
impianti che la costruzione comporta, dato che la sua
competenza è anche tecnicamente delimitata dalle dimensioni
della costruzione alla quale l’impianto di riscaldamento non
può non commisurarsi.
10.7. – Non può considerarsi sufficiente a ricavare una
indicazione contraria la previsione generale di cui all’art.
4 della più volte richiamata legge n. 46 del 1990, che ha
imposto la redazione di un’autonoma relazione tecnica per
l’installazione degli strumenti elettrici, degli impianti di
terra, di quelli che utilizzano il gas, degli ascensori.
E’ al riguardo condivisibile la considerazione della parte
appellante secondo la quale in altri casi vi sono norme che
escludono espressamente la competenza del geometra, mentre
ciò non avviene nel campo degli impianti termici, in quanto
anche recentemente il d.P.R. n. 149 del 27.06.2013 in tema di
affidamento della certificazione energetica degli edifici
inserisce espressamente tra i tecnici abilitati i geometri.
10.8. - Si deve pertanto concludere nel senso che:
- per un principio di simmetria, il geometra, così come può
svolgere attività di progettazione, di direzione e di
vigilanza con riferimento a «modeste costruzioni civili»,
può anche presentare domande riguardanti la verifica di
impianti di riscaldamento nelle medesime costruzioni;
- il provvedimento impugnato in primo grado risulta dunque
viziato per violazione di legge e difetto di motivazione,
poiché ha radicalmente ritenuto precluso che il geometra
P. potesse presentare in sede amministrativa la
domanda concernente la verifica dell’impianto di
riscaldamento installato in un’abitazione, mentre avrebbe
dovuto valutare se la progettazione dell’edificio oggetto
della sua domanda rientrava o meno nelle sue competenze, e
di conseguenza rientrava anche la medesima verifica.
10.9. – Le considerazioni che precedono risultano decisive
per l’accoglimento dell’appello e, dunque, della domanda di
annullamento formulata in primo grado. Risulta invece
inammissibile la riproposizione della domanda di
riconoscimento del diritto a svolgere le attività
professionali in questione, per la quale il TAR ha affermato
che non vi è giurisdizione del giudice amministrativo, senza
che l’appello contenga una specifica contestazione al
riguardo.
11. – In base alle considerazioni che precedono, l’appello
deve essere in parte accolto e in parte dichiarato
inammissibile e, di conseguenza, in riforma della sentenza
del TAR, il ricorso di primo grado va in parte accolto, con
conseguente annullamento del provvedimento comunale
impugnato in primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2015 n. 2107 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Meno carte per il giovane che partecipa all'appalto.
Un giovane professionista che partecipa a una gara di
appalto di servizi tecnici non deve rendere le dichiarazioni
previste dall'articolo 38 del codice dei contratti pubblici.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 23.04.2015 n. 2048 rispetto alla
norma (articolo 253, comma 5, del Dpr 207 del 2010) che
obbliga i raggruppamenti temporanei di progettisti a
prevedere al loro interno, in qualità di progettista, almeno
un professionista abilitato all'esercizio della professione
da non più di cinque anni, al fine di promuovere la presenza
di giovani nei gruppi concorrenti.
Il punto era decidere se fosse legittima (come affermato in
primo grado dal Tar Veneto con la pronuncia n. 825 del 13.06.2014) l'esclusione di un raggruppamento che non aveva
fatto rendere al giovane professionista le dichiarazioni ex
articolo 38 del Codice che riguardano, ad esempio, i
requisiti di moralità. Veniva eccepita l'illegittimità
dell'esclusione in quanto la norma regolamentare non
attribuirebbe al giovane professionista alcun ruolo
ulteriore rispetto alla sottoscrizione dei progetti e,
pertanto, non lo riterrebbe equiparato a nessuno dei
soggetti tenuti alle dichiarazioni ex art. 38 (socio,
componente di un raggruppamento e, men che meno, un
concorrente).
I giudici, accolgono il ricorso e annullano la sentenza di
primo grado partendo dalla considerazione che il
coinvolgimento nel raggruppamento è funzionale
all'inserimento nel mercato del lavoro dei giovani abilitati
alla professione da meno di cinque anni: essa tende, cioè, a
favorire l'applicazione nella pratica delle conoscenze
maturate nel corso degli studi universitari,
responsabilizzandolo con firma sugli elaborati progettuali
(non prevista nel precedente regolamento del 1999).
L'obbligo dichiarativo ex. art. 38 dicono i giudici «risiede
nella necessità di verificare la complessiva affidabilità
dell'operatore economico con cui la stazione appaltante
stipulerà il contratto oggetto della procedura ad evidenza
pubblica», e questi non è certo il giovane
professionista indicato dal raggruppamento che quindi non
dovrà fornire le medesime garanzie anche morali
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: E’
assunto consolidato che la sottoscrizione dell’offerta e
della domanda di partecipazione è lo strumento mediante il
quale l’autore fa proprie le dichiarazioni rese e dunque, da
una parte, assume la paternità della dichiarazione,
dall’altra, vincola l’autore alla manifestazione di volontà
in esse contenuta.
Trattandosi di elemento essenziale, la sua mancanza ovvero
l’impossibilità di attribuire la sottoscrizione ad un
soggetto specifico (anche ad esempio perché illeggibile e
priva della menzione della qualifica del sottoscrittore)
inficia la validità della manifestazione di volontà
contenuta nell’offerta/domanda di partecipazione,
determinando la nullità e la conseguente irricevibilità
delle stesse.
Quanto precede vale con riguardo sia all’offerta economica
sia con riguardo all’offerta tecnica; ed anche in assenza di
una esplicita comminatoria di esclusione nella lex specialis.
In caso di RTI costituendo, è indispensabile la
sottoscrizione (apposta correttamente e nelle modalità
sicuramente identificative sopra indicate) di tutti i futuri
partecipanti al raggruppamento temporaneo, atteso che ancora
non si è creato il RTI e dunque quell’organismo che, pur non
avendo ex se soggettività, costituisce pur tuttavia centro
di imputazione unitario, per effetto degli efficacia interna
ed esterna esplicata dal negozio di mandato.
3. E’ assunto consolidato che la sottoscrizione dell’offerta
e della domanda di partecipazione è lo strumento mediante il
quale l’autore fa proprie le dichiarazioni rese e dunque, da
una parte, assume la paternità della dichiarazione,
dall’altra, vincola l’autore alla manifestazione di volontà
in esse contenuta. Trattandosi di elemento essenziale, la
sua mancanza ovvero l’impossibilità di attribuire la
sottoscrizione ad un soggetto specifico (anche ad esempio
perché illeggibile e priva della menzione della qualifica
del sottoscrittore) inficia la validità della manifestazione
di volontà contenuta nell’offerta/domanda di partecipazione,
determinando la nullità e la conseguente irricevibilità
delle stesse (v. CdS Sez. V n. 3669/2012 e n. 513/2011; AVCP
pareri n. 225/2010 e 78/2009);
4. Quanto precede vale con riguardo sia all’offerta
economica sia con riguardo all’offerta tecnica; ed anche in
assenza di una esplicita comminatoria di esclusione nella
lex specialis (v. TAR Lazio–Roma sez III n. 544/2008).
5. In caso di RTI costituendo, è indispensabile la
sottoscrizione (apposta correttamente e nelle modalità
sicuramente identificative sopra indicate) di tutti i futuri
partecipanti al raggruppamento temporaneo (v. parere AVCP n.
93/2013), atteso che ancora non si è creato il RTI e dunque
quell’organismo che, pur non avendo ex se soggettività,
costituisce pur tuttavia centro di imputazione unitario, per
effetto degli efficacia interna ed esterna esplicata dal
negozio di mandato.
6. Il principio de quo è evidentemente di ordine
generale, in quanto involgente la stessa genuinità e serietà
dell’offerta quale atto di natura negoziale, come tale
applicabile anche alle concessioni di servizio
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 22.04.2015 n. 398 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La p.a. dribbla la mora. Spending review? Decade l'obbligo a
pagare.
Giudizi di ottemperanza, la sentenza del Tar Lazio
sull'effetto dei tagli.
La spending review solleva la pubblica amministrazione
dall'obbligo di pagare in caso di inadempimento. I tagli ai
bilanci sono infatti un'ottima ragione per ritenere
disapplicabile la penalità di mora, che consiste nel versare
al privato che ha vinto in giudizio una certa somma al
giorno fino a quando non si sarà adempiuto alla sentenza
passata in giudicato.
È quanto emerge dalla
sentenza
21.04.2015 n. 5804, pubblicata dalla Sez. III-quater
del TAR Lazio-Roma, nella quale si stabilisce in sostanza che i
tagli di bilancio agli enti pubblici devono essere ritenuti
una ragione ostativa al pagamento, in base all'articolo 114
del Codice del processo amministrativo (Cpa, decreto
legislativo 104/2010).
Spinta forzosa
Nessun dubbio che l'Asl debba pagare all'impresa privata
quasi 50 mila euro più interessi: risulta passata in
giudicato la sentenza che reca la condanna
dell'amministrazione per il pagamento delle rate di acconto
sui lavori di manutenzione straordinaria e messa a norma
dell'ospedale locale.
Ora l'azienda sanitaria locale ha sessanta giorni di tempo
dalla notifica della sentenza emessa nell'ambito del
giudizio di ottemperanza per provvedere a onorare la sua
obbligazione pecuniaria. E se l'Asl non provvederà in tempo
sarà «commissariata» nel senso che per l'azienda provvederà
il segretario generale del Ministero del lavoro o un
funzionario da lui delegato.
L'amministrazione, tuttavia, si salva dall'astreinte che
scatta in questi casi, vale a dire la condanna al versamento
di una somma pari a un tot di euro al giorno fino a quando
l'obbligazione non risulta adempiuta. E ciò per «la notoria
situazione di congiuntura che ha imposto severi tagli alla
spesa pubblica»: la spending review, spiegano infatti i
giudici amministrativi, costituisce infatti uno dei motivi
ostativi indicati in via residuale dall'articolo 114 Cpa
insieme con l'iniquità per escludere la configurabilità
della condanna, mutuata dall'ordinamento francese, alla
spinta forzosa per indurre il debitore ad adempiere. Questo,
per evitare che si arrivi alla «paventata insolvenza degli
enti pubblici».
La penalità di mora dunque non è applicabile perché lo
impediscono le oggettive condizioni economiche in cui versa
la pubblica amministrazione debitrice, debitamente
documentate.
L'Asl, insomma, paga ma evita un esborso maggiore
rappresentato dalla somma da versare per ogni giorno di
ritardo nell'adempimento
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2015). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Convenzione obbligata solo se soddisfacente.
Il consiglio di stato sui protocolli consip.
L'obbligo di aderire alle convenzioni Consip per le stazioni
appaltanti vale fin tanto che i servizi da acquistare siano
in concreto rispondenti alle esigenze della stazione
appaltante, non potendo diversamente ipotizzarsi un obbligo
giuridico di adesione ogni qualvolta sia carente l'esigenza
o inadeguato il contenuto della convenzione.
Lo ha stabilito la III Sez. del Consiglio di Stato con
la
sentenza
14.04.2015 n. 1908.
Nel caso concreto la mandataria di un rti ha impugnato
davanti al tribunale amministrativo l'atto adottato da una
azienda ospedaliera avente ad oggetto l'affidamento, tramite
adesione a una convenzione Consip, del servizio di gestione
e manutenzione degli impianti elettrici e di illuminazione
del presidio.
Secondo la ricorrente l'amministrazione, pur
obbligata a fare ricorso al mercato elettronico per il
rinnovo del servizio in questione, avrebbe aderito a una
convenzione non rispettosa delle sue esigenze; prova di
quanto affermato era data dalla circostanza che, in seguito
all'affidamento, la stessa azienda si è vista costretta a
integrare il contratto, con sensibile aumento dell'importo,
a copertura di taluni aspetti rimasti scoperti dalla
convenzione.
Il Tar ha riconosciuto le buone ragioni del ricorrente,
dichiarando l'illegittimità degli atti adottati
dall'amministrazione: coerentemente con quanto sostenuto
dall'appaltatore che si è visto sottrarre il contratto per
effetto della convenzione, i giudici amministrativi hanno
osservato come l'amministrazione non potesse aderire al
contratto reso disponibile da Consip poiché non
soddisfacente, ab origine e interamente, le sue esigenze, né
poteva colmare le relative lacune mediante l'integrazione a
trattativa privata del contratto.
Il verdetto del Tar è stato sottoposto all'attenzione del
consiglio di stato. In particolare, l'azienda ha rimarcato
l'obbligo, gravante sulla medesima, di acquistare beni e
servizi tramite la società Consip spa, specie dopo l'entrata
in vigore del dl 06.07.2012 n. 95, conv. legge n.
135/2012, il quale ha imposto l'obbligo di aderire alle
convenzioni utilizzando gli strumenti di acquisto messi a
disposizione da Consip «per le categorie merceologiche
presenti nella piattaforma Consip». In tal senso,
l'amministrazione ha difeso la propria scelta siccome
«obbligata» dalla normativa in materia.
I giudici di palazzo Spada, tuttavia, hanno smentito la
ricostruzione dell'azienda ospedaliera snidando , ancora una
volta, tutte le criticità sottese agli obblighi delle
amministrazioni di rivolgersi, per l'approvvigionamento di
beni e servizi, al mercato Consip.
Sul punto, i giudici romani hanno affermato come l'obbligo
«di adesione» alle convenzioni a norma dell'art. 15, c. 13,
del dl 06.07.2012 n. 95, convertito nella legge 07.08.2012 n. 135, risulta essere un obbligo «ipotizzabile, non
certo astrattamente, ma solo per l'acquisto di servizi
concretamente rispondenti alle esigenze della stazione
appaltante non potendo diversamente ipotizzarsi un obbligo
giuridico di adesione là dove sia carente la concreta
esigenza o inadeguato il contenuto della convenzione»; di
conseguenza, quando le modalità o, anche solo, le
tempistiche del servizio offerto tramite Consip risultino
sensibilmente differenti, detto obbligo viene meno.
Non solo.
Secondo il consiglio di stato, la scelta
dell'amministrazione di aderire a una convenzione non
soddisfacente per poi correggerne il tiro tramite atti
aggiuntivi al contratto, rappresenta una evidente violazione
dei principi, di fonte europea e nazionale, di trasparenza,
libertà di concorrenza, adeguata pubblicità e giusto
procedimento: e invero, «gli affidamenti di servizi
ulteriori, non contemplati dalla convenzione, così come
tutte le estensioni dell'oggetto e della durata delle
forniture acquisite mediante il ricorso al sistema
centralizzato, sono illegittimi perché comportano la
violazione delle direttive comunitarie e delle norme
nazionali che dispongono l'obbligo della gara pubblica a
garanzia della concorrenza, della par condicio tra i
partecipanti, della correttezza e della trasparenza della
condotta della s.a.».
Sul crinale delle premesse che precedono, il consiglio di
stato ha, dunque, confermato l'illegittimità dell'operato
della stazione appaltante, per l'effetto confermando
l'annullamento degli atti impugnati e già annullati dal
tribunale di primo grado
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015). |
APPALTI: Appalti, risarcito il danno al Cv.
Se l'impresa è ingiustamente esclusa.
All'impresa ingiustamente esclusa dalla gara non bisogna
risarcire soltanto l'utile perduto. Quando l'azienda che
doveva vincere non può ormai subentrare nell'esecuzione del
contratto, la stazione appaltante deve rifondere anche il
danno al curriculum, vale a dire una particolare perdita di
chance patita dalla società che opera nel settore dei lavori
pubblici in termini. E ciò perché l'occasione perduta non
accresce l'avviamento (e dunque anche il prestigio) della
società nei confronti della comunità delle amministrazioni
committenti.
È quanto emerge dalla
sentenza
10.04.2015 n. 1839,
pubblicata dalla III Sez. del Consiglio di Stato.
Lesione alla reputazione
Accolto il ricorso dell'impresa: ormai non è più possibile
fare in modo che l'azienda subentri nella realizzazione
dell'opera perché dovrebbe sviluppare il progetto realizzato
della concorrente che ha ottenuto l'aggiudicazione in modo
illegittimo. E una parte dei lavori risulta già realizzata.
Deve dunque essere ristorato il lucro cessante, normalmente
pari all'utile che l'azienda avrebbe tratto dall'appalto se
la procedura fosse stata regolare: il risarcimento
integrale, tuttavia, va ridotto perché l'impresa non prova
di essersi ritrovata bloccata con maestranze e mezzi per
colpa della gara ingiustamente perduta; in favore
dell'amministrazione, in effetti, opera la presunzione
secondo cui l'azienda che opera nel settore dei lavori
pubblici non rimane con i cantieri chiusi solo perché le è
stato tolto un appalto, per quanto illegittimamente.
Il lucro cessante che deve essere ristorato, però, comprende
anche la specificazione della perdita di chance costituita
dalla lesione all'immagine di partner delle amministrazioni
pubbliche: più sono gli appalti vinti, infatti, maggiore è
l'avviamento dell'impresa e la reputazione che l'appaltatore
assume presso gli enti, accreditandosi come interlocutore
affidabile. Senza dimenticare l'indebito potenziamento di
imprese concorrenti che operano sullo stesso target di
mercato quando risultano dichiarate aggiudicatarie in modo
illegittimo.
Insomma: non resta che pagare all'Asl che attribuì la
vittoria della gara in violazione legge sugli appalti. Spese
compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI: A rischio chiusura per tavolini abusivi.
Il sindaco può chiudere il ristorante del centro storico
finché non libera la strada dai tavolini abusivi. Legittima
l'ordinanza di Roma Capitale che oltre alla rimessione in
pristino dei luoghi impone lo stop all'attività economica
nelle zone più antiche tutelate dall'Unesco: la sanzione
risulta adeguata. Il ristorante non solo sloggia dalla
piazza occupata abusivamente ma non riapre fino a quando non
libera la strada dalle sedie e dai tavolini che ha
installato senza autorizzazione, con tanto di fioriere a
protezione.
Oltre che la riduzione in pristino, infatti, il sindaco del
Comune può imporre la sospensione dell'attività economica
funzionale al ritorno alla normalità nell'area: a
consentirglielo è il pacchetto sicurezza 2009, che permette
di imporre al commerciante il pagamento delle spese o la
prestazione di adeguate garanzie.
È quanto emerge dalla
sentenza 27.03.2015 n. 1611, pubblicata dalla V
Sez. del Consiglio di stato.
Niente da fare, dunque, per il gestore del locale nel centro
storico dell'Urbe: è legittimo il provvedimento di Roma
Capitale che ha imposto la chiusura del ristorante per
cinque giorni «e, comunque, fino al completo ripristino
dello stato dei luoghi»; questo, per l'occupazione
contro legge di una piazza con poltroncine, ombrelloni e
perfino piante a dimora, per un totale di 140 metri quadrati
«usurpati» nella zona dichiarate patrimonio
dell'umanità dall'Unesco.
«La particolare situazione in cui versavano ampie zone
della parte storica», si legge in sentenza, «ha
giustificato l'adozione di un provvedimento di valenza
generale con il quale si è disposta l'applicazione delle
sanzioni previste», chiusura compresa
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2015). |
TRIBUTI:
Le aree verdi non possono essere soggette a Imu e Ici.
Le aree verdi non rientrano tra quelle fabbricabili e di
conseguenza non sono soggette ad imposta ai fini Imu e Ici.
La recente giurisprudenza della Corte di cassazione ha
ribadito questa tesi, più volte sposata dagli stessi
giudici.
Il problema che si è più volte riproposto sia da parte degli
enti impositori che dalla parte dei contribuenti proprietari
dei terreni riguarda il tema del concetto di area
fabbricabile nei confronti delle aree con vincolo di
destinazione urbanistica «a verde pubblico».
È stato già chiarito dal legislatore dall'introduzione
avvenuta nel 2006 del nuovo testo dell'art. 36, comma 2, del
dl 223/2006, nel quale si ribadiva che un'area deve
ritenersi fabbricabile, se utilizzabile a scopo edificatorio
in base allo strumento generale adottato dal comune (Prg o
Pgt), indipendentemente dall'approvazione dell'ente
regionale e dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo.
Ai fini del concetto di tassabilità delle aree suddette, non
è necessario che sia perfezionato l'iter di formazione del
provvedimento mediante l'approvazione da parte della
regione, dato che la semplice adozione da parte del comune
fa sì che la determinazione in base al valore catastale non
abbia luogo e si applichi invece la tassazione ai fini Ici e
Imu sulla base del valore venale dell'area in comune
commercio al 1° gennaio dell'anno di riferimento.
La giurisprudenza peraltro, oltre a questo concetto, ha
precisato che la qualifica di area edificabile, non può
ritenersi esclusa dalla sussistenza di vincoli o
destinazioni urbanistiche che limitino o circoscrivano la
edificabilità del terreno o dell'area, che cioè riguardino
la possibilità di trasformare in chiave urbanistico-edilizia
l'area stessa e che pertanto siano tali da comprometterne la
vocazione edificatoria.
Questo il quadro generale; ma la questione controversa e che
ci riguarda in questa sede, è se il vincolo di destinazione
urbanistica a «verde pubblico» sottragga l'area al regine
fiscale dei suoli edificabile ai fini dell'Ici.
Un'area compresa in una zona destinata dal Prg a verde
pubblico attrezzato, riferisce la Cassazione (da ultimo vedi
sentenza 25.03.2015 n. 5987), è sottoposta a un
vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle
trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione
tecnica di edificazione.
Ne deriva che un'area con tali caratteristiche, come
precisato dai giudici della Corte, non può essere
qualificata come fabbricabile, ai sensi del dlgs n. 504 del
1992, art. 1, comma 2, e, quindi, il possesso della stessa
non può essere considerato presupposto dell'imposta comunale
in discussione (vedi tra quelle citate: Cass, sez. 5,
sentenza n. 9169 del 21/04/2011; Cass. sez. 5, sentenza n.
25672 del 24/10/2008).
Manca, pertanto, il presupposto di imposta, limitato dal
dlgs 30.12.1992, n. 504, artt. 1 e 2 per le aree
urbane, ai terreni fabbricabili, intendendosi per tali
quelli destinati alla edificazione per espressa previsione
degli strumenti urbanistici ovvero (quale criterio meramente
suppletivo) in base alle effettive possibilità di
edificazione.
Deve, quindi, negarsi la natura edificabile delle aree
comprese in zona destinata dal Prg a «verde pubblico
attrezzato» in quanto tale destinazione è preclusiva ai
privati di forme di trasformazione del suolo riconducibile
alla nozione tecnica di edificazione e le trasformazioni, se
previste, sono concepite al solo fine di assicurare la
fruizione pubblica degli spazi.
Pertanto, «ove la zona sia stata concretamente vincolata ad
un utilizzo semplicemente pubblicistico (verde pubblico;
attrezzature pubbliche ecc.), la classificazione apporta un
vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle
forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili
alla nozione tecnica di edificazione».
Quindi il presupposto del possesso in capo al contribuente,
delle aree con vincolo di destinazione «a verde pubblico»
oppure a «verde pubblico attrezzato», non fa
scaturire la tassazione ai fini Ici sulla base del valore
venale dell'area in comune commercio, in quanto tale terreno
non può qualificarsi, per le ragioni sinteticamente dianzi
illustrate, come «area fabbricabile»
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2015). |
VARI: Tar
veneto.
Una nuova patente dopo 3 anni.
Il lasso di tempo richiesto dal codice stradale per
ammettere nuovamente al volante il destinatario del
provvedimento di revoca della patente decorre dal momento
dell'accertamento dell'infrazione, e non già dal passaggio
in giudicato della sentenza di condanna.
Lo ha chiarito il
TAR Veneto, Sez. III, con la
sentenza
09.03.2015 n. 288.
Un
conducente professionale è stato trovato dalla polizia alla
guida di un autoarticolato particolarmente alterato
dall'alcol e per questo è stato condannato ai sensi
dell'art. 186 cds con revoca della patente e inibizione al
suo nuovo conseguimento prima di tre anni dalla data di
passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
Contro
questa determinazione che di fatto allarga di molto il lasso
temporale di interdizione alla guida l'interessato ha
proposto con successo ricorso al Tar. La legge 120/2010 ha
modificato, tra l'altro, l'art. 219 cds specificando che «quando
la revoca della patente di guida è disposta a seguito delle
violazioni di cui agli articoli 186, 186-bis e 187, non è
possibile conseguire una nuova patente di guida prima di tre
anni a decorrere dalla data di accertamento del reato».
Per cercare di specificare esattamente la portata di questa
definizione è intervenuto ripetutamente il Ministero dei
trasporti che in accordo con il Viminale ha sostenuto il
principio secondo cui nel nostro ordinamento il reato
risulta essere accertato solo nel momento in cui la sentenza
è passata in giudicato. Per questo motivo, in ultimo con il
parere del 07.07.2014, secondo il ministero il termine per
far decorrere i tre anni per conseguire una nuova patente è
quello determinato della data del passaggio in giudicato
della sentenza o del decreto penale di condanna.
Il Tar è di contrario avviso. Il termine di riferimento deve
essere individuato nella data in cui il reato è stato
accertato, specifica la sentenza, e non in quello del
passaggio in giudicato della sentenza «nell'evidente
difficoltà di assicurare un termine ragionevole e valido per
ogni situazione, che, diversamente interpretando,
risulterebbe di volta in volta soggetto ai tempi nei quali
si addiviene alla sentenza definitiva di condanna»
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2015). |
CONDOMINIO: Le siepi non servono alla privacy.
Distanze. La Cassazione interviene sulla pretesa di un
condomino di piantare alberi di alto fusto a meno di tre
metri dal confine.
Il condòmino
che pianta alberi ad alto fusto, a una distanza dal confine
del condominio inferiore a quella prevista dalla legge, è
obbligato a rimuovere o arretrare gli arbusti, così da non
creare disagio al fondo adiacente. E ciò vale anche per le
siepi, che tra le loro molteplici funzioni non hanno quella
di garantire la privacy.
È quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile,
con la
sentenza 18.02.2015 n. 3232.
Tutto è partito dal ricorso di un condòmino, obbligato dal
giudice di secondo grado a tagliare i pini silvestri di sua
proprietà, piantati a meno di tre metri dal confine del
vicino di casa e, per lo stesso motivo, ad arretrare le
siepi. Il ricorrente si era difeso, sostenendo che gli
alberi erano presenti da più di vent’anni e quindi era stato
usucapito il diritto di mantenerli a una distanza inferiore
a quella prevista dalla legge. I tre gradi di giudizio hanno
dato però ragione all’amministratore di condominio: la
distanza degli alberi di alto fusto (ossia con un tronco più
alto di tre metri) dalla proprietà del vicino, come previsto
dall’articolo 892 del Codice civile, non può essere
inferiore ai tre metri.
Discorso analogo riguarda la siepe. Nella medesima sentenza,
il ricorrente aveva sostenuto che questo tipo di barriera
era necessaria a tutelare la propria riservatezza. Tuttavia,
i giudici hanno chiarito che la struttura vegetale, pur
avendo numerosi compiti utili, nulla ha a che fare con la
privacy. Va quindi escluso «che la siepe abbia la funzione
principale o essenziale di difendere la privacy delle
persone che si trovano nel fondo ove è collocata la siepe
stessa. Non vi è, in altri termini, una correlazione
necessaria e preferenziale tra siepe e tutela delle
riservatezza». Sottolinea ancora la Corte: «la normativa
relativa alle distanze degli alberi dai confini intende
evitare l’invasione del terreno altrui sia con radici che
con rami ed è casuale, e non persegue direttamente la tutela
dell’esigenza di riservatezza delle persone del fondo ove
esiste la siepe».
Riguardo all’ordine di tagliare gli alberi “a siepe”,
infine, il ricorrente aveva sostenuto che il giudice non
avesse tenuto conto dell’andamento del terreno, a suo parere
non lineare e quindi difficile da uniformare e quindi «ove
il legislatore avesse voluto dare rilievo al dislivello dei
terreni lo avrebbe fatto così come lo ha fatto con
riferimento alle distanze tra costruzioni».
Poco importa se
ciò comporta un peggioramento dell’aspetto estetico, che
potrebbe essere mantenuto dal ricorrente «riducendo
eventualmente l’altezza delle piante e seguendo l’andamento
ascendente del terreno e non già lasciando crescere oltre i
due metri e mezzo gli alberi che si trovano nella zona
discendente» (articolo Il Sole 24 Ore del
05.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di reati paesaggistici, il rilascio del provvedimento
di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente
la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete
sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e
giuridici legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono
ambientale.
---------------
Tra gli interventi che il legislatore non consente di
qualificare neppure ex post -cioè alla luce della concreta
valutazione del loro effettivo impatto- compatibili
all'ambiente è inclusa la creazione di "superfici utili".
Se è vero che il legislatore non fornisce, contestualmente,
una definizione del concetto "superfici utili" in modo
espresso, peraltro, alla luce della ratio normativa di
preservazione dello status quo ambientale e mediante altresì
una logica contestualizzazione -ogni concetto giuridico è
pragmaticamente relativo al contesto in cui opera-, il suo
significato è agevolmente identificabile in una immutazione
stabile dell'assetto territoriale attuata a discapito della
vincolata conformazione originaria, dalla quale nettamente
prescinde, non integrandone alcuna specie di manutenzione
(cfr. ancora Cass. sez. III, 13.01.2012 n. 889, per cui la
nozione di superficie utile, va "individuata, in mancanza di
specifica definizione, con riferimento alla finalità della
disposizione che la contempla e, per quanto riguarda la
disciplina paesaggistica,... considerando l'impatto
dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del
territorio" tale da "determinare una compromissione
ambientale").
Invero, la giurisprudenza di questa
Suprema Corte ha da tempo chiarito che "in tema di reati
paesaggistici, il rilascio del
provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina
automaticamente la non punibilità
dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice
l'accertamento dei presupposti di fatto
e giuridici legittimanti l'applicazione del cosiddetto
condono ambientale" (Cass. sez. III, 27.05.2008 n. 27750; conforme Cass. sez. III, 29.11.2011-13.01.2012 n. 889).
La prospettazione del ricorrente, invece, adduce un
automatismo che non corrisponde al
dettato normativo.
Premesso che l'articolo 1, commi 37, 38 e
39, L. 15.12.2004 n. 308
ha introdotto il c.d. condono ambientale che è (pur
permanendo le sanzioni amministrative
pecuniarie previste dall'art. 167) causa di estinzione del
reato di cui all'articolo 181, comma 1,
d.lgs. 22.01.2004 n. 42, in tale articolo inserendo i
commi 1-ter e 1-quater che lo
disciplinano (Cass. sez. III, 07.12.2007-09.01.2008
n. 583; Cass. sez. III, 10.05.2006 n. 15946; Cass. sez. III, 26.10.2005-03.02.2006 n. 4429), il condono è
configurato come diretto agli interventi minori, che sono
appunto quelli identificati nel comma
1-ter dell'articolo 181, i quali possono essere oggetto, se
l'interessato attiva la procedura di cui
al comma 1-quater, di una valutazione ex post che ne accerti
la limitata incidenza sull'assetto
ambientale così come vincolato (da ultimo v. Cass. sez. III,
29.11.2011-13.01.2012 n. 889, che in motivazione qualifica gli interventi
come minori "in quanto caratterizzati da
un impatto sensibilmente più modesto sull'assetto del
territorio vincolato rispetto agli altri
considerati nella medesima disposizione di legge").
Detti
interventi sono i "lavori, realizzati in
assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazioni
di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
illegittimamente realizzati" (comma 1-ter,
lettera a), quelli che abbiano comportato "l'impiego di
materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica" (comma 1-ter, lettera b) e quelli che
costituiscono "interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria" ex articolo 3 d.p.r. 06.06.2001 n. 380 (comma 1-ter, lettera c).
Poiché, come appena evidenziato, l'emissione del
provvedimento di compatibilità ambientale
da parte della P.A. non elide il potere-dovere del giudice
di verificare la sussistenza dei
presupposti del condono ambientale in termini di fatto e di
diritto, si deve dare atto che, nel
caso di specie, effettuando i lavori difformi da quelli
autorizzati dalla originaria deliberazione
della Commissione comprensoriale per la tutela
paesaggistico- ambientale n. 100 del 04.04.2007, il ricorrente ha realizzato tra l'altro due strade di
arroccamento.
Ora, come si è appena
visto, tra gli interventi che il legislatore non consente di
qualificare neppure ex post -cioè alla
luce della concreta valutazione del loro effettivo impatto-
compatibili all'ambiente è inclusa la
creazione di "superfici utili".
Se è vero che il legislatore
non fornisce, contestualmente, una
definizione del concetto "superfici utili" in modo espresso,
peraltro, alla luce della ratio
normativa di preservazione dello status quo ambientale e
mediante altresì una logica contestualizzazione -ogni
concetto giuridico è pragmaticamente relativo al contesto in
cui
opera-, il suo significato è agevolmente identificabile in
una immutazione stabile dell'assetto
territoriale attuata a discapito della vincolata
conformazione originaria, dalla quale nettamente
prescinde, non integrandone alcuna specie di manutenzione
(cfr. ancora Cass. sez. III, 29.11.2011-13.01.2012 n. 889, per cui la nozione di
superficie utile, va "individuata,
in mancanza di specifica definizione, con riferimento alla
finalità della disposizione che la
contempla e, per quanto riguarda la disciplina
paesaggistica,... considerando l'impatto
dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del
territorio" tale da "determinare una
compromissione ambientale").
In quest'ottica, allora, la
realizzazione di "due strade di
arroccamento ad elevata pendenza" in un'area dove non
risulta neppure che correlativamente
vi fossero due preesistenti tracce dove sono state inserite
le strade (l'attività dell'imputato è
consistita, infatti, nella trasformazione di terreno
boschivo a fini agricoli) non può non
qualificarsi come un incisivo mutamento stabile dell'assetto
territoriale (nel senso che la
realizzazione di una strada, anche dove già preesisteva un
sentiero, integri "una immutazione
stabile dello stato dei luoghi" e non sia riconducibile ad
attività di manutenzione Cass. sez. III,
13.01.2005 n. 3725; nel senso che pure l'allargamento
di una strada preesistente
costituisca modificazione ambientale di carattere stabile
Cass. sez. III, 03.06.2004 n.
33186).
Né occorre, peraltro, accertare che, la "superficie
utile" realizzata, per essere
qualificabile come tale, debba inferire un concreto
pregiudizio all'assetto territoriale in cui viene
inserita, poiché il concetto deve essere rapportato alla
natura del reato di cui circoscrive la
sanatoria postuma, e l'articolo 181, comma 1, d.lgs. 42/2004
è (come ha evidenziato pure la
corte territoriale) un reato di pericolo (Cass. sez. III, 20.10.2009-22.01.2010 n.
2903; Cass. sez. VI, 03.04.2006 n. 19733).
In conclusione,
l'attività criminosa svolta
dall'imputato si colloca al di fuori dell'ambito del condono
ambientale, per cui il motivo fondato
sulla applicabilità di quest'ultimo risulta infondato
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 29.10.2013 n. 44189 -
tratta da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di costruzione, ai fini del rilascio della
concessione edilizia, si configura in presenza di opere che
attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi,
a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante
realizzazione di opere murarie.
Correttamente, pertanto, la sentenza di primo grado ha
ritenuto necessario il rilascio di un titolo edilizio e
considerato irrilevante che le opere fossero realizzate in
metallo, in laminati di plastica, in legno o altro
materiale, in presenza dell’evidente trasformazione del
tessuto urbanistico ed edilizio proprio di esse, perché
preordinate a soddisfare esigenze non precarie della ditta
sotto il profilo funzionale.
--------------
Costante giurisprudenza ravvisa nella pertinenza urbanistica
caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice
civile, sostanziandosi nella destinazione strumentale alle
esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il
profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta
dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella
al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore
economico rispetto alla cosa principale e dall'assenza del
cosiddetto carico urbanistico.
Il numero e le dimensioni dei manufatti realizzati sono
analiticamente descritti nell’ordinanza del Dirigente
responsabile di settore del comune e riportati nella memoria
di costituzione nell’appello: trattasi di un capannone con
struttura in ferro e PVC, di quattro baracche realizzate con
vari materiali (plastico, di recupero, ligneo) e di tre
tettoie con struttura in ferro e copertura in onduline. Il
tutto per oltre 530 mq. complessivi.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. Stato,
VI, 27.01.2003, n. 419; V, 09.02.2001, n. 577), la nozione
di costruzione, ai fini del rilascio della concessione
edilizia, si configura in presenza di opere che attuino una
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con
perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere
dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere
murarie.
Correttamente, pertanto, la sentenza di primo grado
ha ritenuto necessario il rilascio di un titolo edilizio e
considerato irrilevante che le opere fossero realizzate in
metallo, in laminati di plastica, in legno o altro
materiale, in presenza dell’evidente trasformazione del
tessuto urbanistico ed edilizio proprio di esse, perché
preordinate a soddisfare esigenze non precarie della ditta
sotto il profilo funzionale.
Gli appellanti non hanno poi contestato che le opere hanno
le dimensioni descritte nell’ordinanza e che insistono in
tutto od in parte su di un’area agricola contigua allo
stabilimento, salvo un manufatto, sito nell’area di servizio
dello stabilimento, di dimensioni superiori allo stesso.
Va perciò condivisa la conclusione della sentenza appellata,
che esclude il rapporto pertinenziale delle opere e lo
stabilimento, con richiamo alla costante giurisprudenza che
ravvisa nella pertinenza urbanistica caratteristiche diverse
da quella contemplata dal codice civile (Cass. pen., sez.
III, 21.03.1997, n. 4056), sostanziandosi nella destinazione
strumentale alle esigenze dell'immobile principale,
risultante sotto il profilo funzionale da elementi
oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto
sia in relazione a quella al cui servizio è complementare,
dall'ubicazione, dal valore economico rispetto alla cosa
principale e dall'assenza del cosiddetto carico urbanistico
(Cassazione penale, sez. III, 19.08.1993; 06.02.1990;
06.12.1989).
Siffatte caratteristiche appaiono del tutto estranee alle
opere degli appellanti, caratterizzate da un rilevante
numero di manufatti, taluni dei quali di notevoli
dimensioni, comportanti come tali un considerevole carico
urbanistico. Non ha pregio il richiamo degli appellanti alla
circolare 06.11.1977, n. 1918 del Ministero dei lavori
pubblici che esclude dall’obbligo di concessione le opere a
servizio di impianti industriali di carattere precario o
facilmente amovibili, quali le baracche ad elementi
componibili in legno od altri materiali, i basamenti di
sostegno e le tettoie di protezione.
La stessa circolare esplicita che le opere in questione non
devono compromettere aspetti ambientali o paesaggistici,
comportare aumenti di densità urbanistica e né determinare
pregiudizi di altro genere oltre che essere in regola con i
regolamenti edilizi: circostante queste affatto dimostrate
dagli interessati, sia nel precedente che nel presente grado
di giudizio (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.06.2006 n. 3490 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 05.05.2015 |
ã |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo bottone:
►
dossier
AMIANTO
►
dossier
PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale di iscrizione all'ordine
professionale) |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 19 del 05.05.2015, "Modifiche
ed integrazioni alla legge regionale 16.07.2007, n. 16
(Testo unico delle leggi regionali in materia di istituzione
di parchi) - Modifica dei confini del Parco regionale
dell’Adda Nord" (L.R.
30.04.2015 n. 10). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 19 del 04.05.2015, "Circolazione
nautica sui Navigli lombardi e sulle idrovie collegate (art.
51, l.r. 6/2012)" (regolamento
regionale 29.04.2015 n. 3). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 24.04.2015, "Approvazione
del piano territoriale di coordinamento del Parco naturale
dei Colli di Bergamo" (deliberazione
G.R. 17.04.2015 n. 3416). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Competenze professionali dei Geometri - Progettazione e
direzione lavori di costruzioni civili con impiego di
cemento armato -Sentenza Consiglio di Stato 23.02.2015 n.
883 – Competenza esclusiva di Ingegneri e Architetti -
Illegittimità dell'affidamento ad un Geometra e nullità
della delibera della Giunta Comunale - Considerazioni
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 24.04.2015 n. 526 - link a
www.cni-online.it). |
URBANISTICA:
OGGETTO: Piani urbanistici particolareggiati - Art. 33,
comma 3, della legge n. 388 del 2000 – Applicabilità regime
fiscale agevolato in assenza di convenzione di lottizzazione
alla data di stipula dell’atto (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 23.04.2015 n. 41/E). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
C. Montanari,
Le spese per l’iscrizione dei dipendenti all’albo
professionale (Azienditalia - il
Personale n. 11/2008). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO: In
mancanza di una espressa previsione di legge e/o
contrattuale, non possono essere accollati ad un comune
oneri che derivano da un obbligo di natura strettamente di
carattere personale quale quello del pagamento della tassa
annuale di iscrizione all’albo degli avvocati da parte di un
dipendente.
---------------
Il Sindaco del Comune di Treviso, con la nota sopra
indicata, ha formulato a questa Sezione, ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003, richiesta
di parere in merito al pagamento della tassa annuale di
iscrizione all’albo professionale di un dipendente (in
particolare all’elenco speciale annesso all’albo degli
avvocati) e cioè se essa debba essere a carico del singolo
dipendente ovvero la relativa spesa debba essere posta a
carico del comune datore di lavoro.
La richiesta viene formulata ritenendo trattarsi di spesa
che potrebbe gravare in via ordinaria e generalizzata sui
comuni e sulla cui imputabilità sono emersi pareri
discordanti.
...
Nel merito, la richiesta del Comune di Treviso propone negli
stessi esatti termini una problematica già sottoposta ad
altre Sezioni di controllo della Corte (vedasi per tutte il
parere 19.01.2007 n. 1 della Sezione Sardegna). Essa è intesa a
conoscere il parere di questa Sezione su chi ricada l’onere
del pagamento della tassa annuale di iscrizione all’albo
professionale (elenco speciale annesso all’albo degli
avvocati), ovvero se la relativa spesa debba essere a carico
del singolo dipendente o a carico del comune, datore di
lavoro.
Preliminarmente va evidenziato che, sul
piano normativo, per l’esercizio dell’attività di avvocato
l’iscrizione all’albo, ai sensi dell’art. 1 del RDL
27.11.1933, n. 1578, costituisce requisito imprescindibile
che si caratterizza per la sua natura strettamente
personale. Esso è richiesto anche per coloro, come nel caso
all’esame, che intraprendano e che svolgano tale attività
alle dipendenze di un comune i quali vengono iscritti in un
elenco speciale annesso all’albo stesso. Il vincolo di
iscrizione, pertanto, deve sussistere non solo all’atto
dell’assunzione del soggetto per lo svolgimento
dell’incarico specifico ma deve permanere per tutta la
durata dell’ incarico stesso alle dipendenze
dell’amministrazione interessata.
Sembra quindi potersi ritenere che ricada
sul soggetto che ricopre un ruolo per il quale è richiesto
il requisito dell’iscrizione all’albo l’onere di assicurarne
nel tempo la sussistenza anche attraverso il pagamento della
quota annuale prevista. Ne consegue che l’amministrazione
pubblica interessata risulta del tutto estranea al rapporto
che si instaura e continua nel tempo tra un proprio
dipendente e l’ordine professionale.
Per contro, non esiste una norma che ponga
a carico di soggetti diversi (nel caso specifico il comune)
dal personale interessato l’obbligo di sostenere l’onere del
pagamento della tassa annuale.
Peraltro, volendo ricercare comunque una soluzione in tale
direzione, non possono essere ignorati i
principi che vietano di porre a carico degli enti pubblici
oneri non previsti e che possano incidere sulla situazione
finanziaria degli enti stessi. Tra questi, in particolare,
quelli del contenimento della spesa complessiva del
personale entro i vincoli della finanza pubblica
(art. 1, comma 1, lettera b, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165)
e quello che rimanda ai contratti collettivi o
individuali l’attribuzione di trattamenti economici
(art. 2, comma 3, del citato D.Lgs. 165/2001),
oltre le disposizioni delle varie leggi finanziarie
quale ad esempio quella recata dal comma 557 dell’articolato
unico della legge 296/2006.
Per tali motivi non può essere condivisa la
opposta soluzione di attribuire all’ente datore di lavoro
l’onere del pagamento della tassa annuale in argomento.
Conclusivamente, anche alla luce degli orientamenti
giurisprudenziali finora emersi, si ritiene che,
in mancanza di una espressa previsione di legge e/o
contrattuale, non possano essere accollati ad un comune
oneri che derivano da un obbligo di natura strettamente di
carattere personale quale quello del pagamento della tassa
annuale di iscrizione all’albo degli avvocati da parte di un
dipendente (Corte
dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 24.10.2008 n. 128). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
richiesta di parere [circa la possibilità per l’ente locale
di sostenere legittimamente gli oneri per l’iscrizione
all’albo professionale dei propri dipendenti per lo
svolgimento di attività specialistiche, disciplinate da
normative di settore in materia di sicurezza degli impianti
(DM n. 37 del 22/01/2008) e di sicurezza antincendio (legge
n. 818/1984)] va dichiarata inammissibile sotto il profilo
oggettivo.
---------------
La richiesta di parere del comune di Vigonza (PD)
riguarda la possibilità per l’ente locale di sostenere
legittimamente gli oneri per l’iscrizione all’albo
professionale dei propri dipendenti per lo svolgimento di
attività specialistiche, disciplinate da normative di
settore in materia di sicurezza degli impianti (DM n. 37 del
22/01/2008) e di sicurezza antincendio (legge n. 818/1984).
Tali attività (progettazione di impianti di cui al DM 37 del
22/01/2008 e relative dichiarazioni di conformità,
certificazioni in materia di prevenzioni incendi, ecc.)
sarebbero propedeutiche alla progettazione di opere previste
dal piano triennale delle opere pubbliche, ma richiedono
ex lege la firma di tecnici iscritti all’albo
professionale.
...
In merito alla sussistenza del presupposto oggettivo, la
questione sottoposta alla Corte dei conti deve riguardare la
contabilità pubblica, in base all’art. 7, comma 8, della
legge 131/2003.
Qualsiasi attività amministrativa può avere riflessi
finanziari sulla gestione di bilancio dell’ente, e, quindi,
ove non si adottasse una nozione tecnica del concetto di
contabilità pubblica, s’incorrerebbe in una dilatazione
dell’ambito oggettivo della funzione consultiva rendendo la
Sezione regionale di controllo della Corte dei conti organo
di consulenza generale dell’amministrazione pubblica.
Sul punto, vengono in ausilio gli indirizzi ed i criteri
generali della Sezione delle Autonomie, approvati il
27.04.2004 e la delibera 5/AUT/2006 del 10.03.2006, che
restringono l’ambito oggettivo alla normativa e ai relativi
atti applicativi che disciplinano, in generale, l’attività
finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di
settore, compresi, in particolare, la disciplina dei bilanci
e i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate,
l’organizzazione finanziaria-contabile, la disciplina del
patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la
rendicontazione e i relativi controlli.
Nel caso di specie, il quesito verte sulla legittimità o
meno di una spesa, che non è in alcun modo sussumibile
all’interno di una delle sopra citate categorie.
Poiché la fattispecie in esame non è in alcun modo
riconducibile al concetto di contabilità pubblica, la
richiesta di parere va dichiarata inammissibile sotto il
profilo oggettivo, peraltro coerentemente con l’indirizzo
espresso su casi analoghi da parte di questa Sezione
(cfr. deliberazioni n. 15/2008/Cons. e 6/2007/Cons.)
(Corte dei
Conti, Sez. regionale di controllo Veneto,
parere 06.08.2008 n. 61). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
richiesta di parere sulla corretta individuazione del
soggetto tenuto al versamento della tassa annuale di
iscrizione all’albo degli avvocati nel caso di legali
dipendenti dell’Ente Locale ed iscritti nell’albo speciale
si palesa inammissibile.
---------------
Il Sindaco del Comune di Bari, con la nota indicata
in epigrafe, richiede il parere della Sezione sulla
corretta individuazione del soggetto tenuto al versamento
della tassa annuale di iscrizione all’albo degli avvocati
nel caso di legali dipendenti dell’Ente Locale ed iscritti
nell’albo speciale.
Il Sindaco precisa che gli avvocati dipendenti dell’Ente,
successivamente al diniego del visto contabile sulla
determinazione del rimborso della tassa di iscrizione da
loro anticipata, hanno presentato istanza di conciliazione
ai sensi degli artt. 65 e 66 del D. Lgs. 30/03/2001 n. 165.
Il quesito riporta, inoltre, l’ampia ed articolata casistica
giurisprudenziale formatasi sia dinanzi al Giudice ordinario
che nell’esercizio dell’attività consultiva assegnata alla
Corte dei conti richiamando anche la deliberazione n. 5/2007
di questa Sezione e rilevata la contraddittorietà delle
pronunce evidenzia la necessità di far pervenire
all’Amministrazione un parere in merito alla specifica
questione relativa alla competenza degli oneri per
l’iscrizione all’Elenco speciale annesso all’albo
professionale degli avvocati.
...
Come noto, la Corte dei Conti, secondo il disposto dell’art.
7, comma 8, della L. n. 131/2003, può rendere pareri in
materia di “contabilità pubblica”.
Il Collegio evidenzia che, pur essendosi la Sezione già
espressa in sede di attività consultiva su un quesito,
inerente i rimborsi di quote di iscrizione versate da un
dipendente comunale iscritto all’albo professionale degli
assistenti sociali, (deliberazione n. 5/PAR/2007) la
fattispecie oggetto dell’attuale richiesta di parere
presenta profili di inammissibilità atteso che, come
specificato dal Sindaco, il difensore dei legali del Comune
ha avviato la procedura atta ad esperire il tentativo
obbligatorio di conciliazione previsto dagli artt. 65 e 66
del D.Lgs. 30/03/2001 n. 165 e che costituisce, come noto,
condizione di procedibilità della domanda dinanzi al Giudice
del lavoro.
Per consolidato orientamento delle Sezioni Regionali di
Controllo, fatto proprio anche da questa Sezione, l’attività
consultiva non può riguardare questioni pendenti o questioni
che possono sfociare in contenziosi dinanzi ad altri Organi
Magistratuali (Sezione Puglia deliberazioni n. 2/PAR/2005,
n. 3/PAR/2005, n. 1/PAR/2006, n. 7/PAR/2007, n. 13/PAR/2007,
n. 15/PAR/2007, n. 5/PAR/2008, e Sezione Basilicata,
deliberazione n. 12/2007).
PQM
La richiesta di parere si palesa, quindi, inammissibile (Corte
dei Conti, Sez. regionale di controllo Puglia,
parere 28.05.2008 n. 12). |
PUBBLICO IMPIEGO: Poiché la
fattispecie in esame non è in alcun modo riconducibile al
concetto di contabilità pubblica, la richiesta di parere
(circa la possibilità per l’ente locale di sostenere
legittimamente gli oneri per l’iscrizione all’albo
professionale dei propri dipendenti incaricati di redigere
progetti di opere pubbliche o atti di pianificazione
urbanistica) va dichiarata inammissibile sotto il profilo oggettivo.
---------------
La richiesta di parere del comune di Camposampiero (PD)
riguarda la possibilità per l’ente locale di sostenere
legittimamente gli oneri per l’iscrizione all’albo
professionale dei propri dipendenti incaricati di redigere
progetti di opere pubbliche o atti di pianificazione
urbanistica.
A sostegno della tesi affermativa, l’ente richiama l’art.
90, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, che per la firma dei
progetti richiede anche per i progettisti interni all’ente
il necessario possesso dell’abilitazione professionale.
...
In merito alla sussistenza del presupposto oggettivo, la
questione sottoposta alla Corte dei conti deve riguardare la
contabilità pubblica, in base all’art. 7, comma 8, della
legge 131/2003. Qualsiasi attività amministrativa può avere
riflessi finanziari sulla gestione di bilancio dell’ente, e,
quindi, ove non si adottasse una nozione tecnica del
concetto di contabilità pubblica, si incorrerebbe in una
dilatazione dell’ambito oggettivo della funzione consultiva
rendendo la Sezione regionale di controllo della Corte dei
conti organo di consulenza generale dell’amministrazione
pubblica.
Sul punto, vengono in ausilio gli indirizzi ed i criteri
generali della Sezione delle Autonomie, approvati il
27.04.2004 e la delibera 5/AUT/2006 del 10.03.2006, che
restringono l’ambito oggettivo alla normativa e ai relativi
atti applicativi che disciplinano, in generale, l’attività
finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di
settore, compresi, in particolare, la disciplina dei bilanci
e i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate,
l’organizzazione finanziaria-contabile, la disciplina del
patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la
rendicontazione e i relativi controlli.
Nel caso di specie, il quesito verte sulla legittimità o
meno di una spesa, che non è in alcun modo sussumibile
all’interno di una delle sopra citate categorie.
Su analoga questione, peraltro, questa Sezione si era
pronunciata con deliberazione n. 6/2007/Cons. Poiché la
fattispecie in esame non è in alcun modo riconducibile al
concetto di contabilità pubblica, la richiesta di parere
va dichiarata inammissibile sotto il profilo oggettivo (Corte dei
Conti, Sez. regionale di controllo Veneto,
parere 18.04.2008 n. 15). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L’abilitazione all’esercizio della professione del
tecnico-dipendente, subordinata all’iscrizione del
professionista al relativo albo, si è rivolta a esclusivo
vantaggio dell’ente, che appunto ha potuto utilizzare lo
stesso per l’attività di progettazione e direzione dei
lavori pubblici; a ciò si aggiunga che lo stesso architetto,
sin dal 1997, era stato assunto a tempo indeterminato con la
conseguente impossibilità di svolgere attività professionale
a favore di terzi.
In quest’ottica, la Corte dei Conti-Calabria ritiene che la
quota d’iscrizione all’albo professionale sia stata
giustamente pagata dall’ente comunale e che, pertanto,
nessun danno è ipotizzabile a carico dell’ente medesimo a
causa della determinazione dirigenziale con la quale si
procedeva al pagamento di lire 370.000 per la quota
d’iscrizione all’albo degli architetti.
---------------
... Per esaustività nella trattazione, tuttavia, non si può
tralasciare di ricordare una delle are sentenze che
affrontano il tema in argomento, anche se le sue
conclusioni, pure del giudice contabile, sono di avviso
diametralmente opposto a quanto innanzi affermato.
La Corte dei Conti-Calabria, infatti, nella propria
sentenza 28.09.2007 n. 801,
affrontando un’ipotesi di danno erariale in cui, tra le
altre e marginalmente, veniva mossa a un dipendente
comunale-convenuto una contestazione per l’autoliquidazione
della quota d’iscrizione all’albo speciale degli architetti,
si esprime nel senso che tale spesa dev’essere
legittimamente posta a carico del bilancio dell’ente di
appartenenza.
In particolare il magistrato, dopo aver ripercorso
sinteticamente la disciplina introdotta in materia di
appalti pubblici dalla legge n. 109/1994, con riferimento
all’effettuazione delle attività di progettazione, direzione
dei lavori e accessorie, evidenzia che il legislatore,
all’art. 17, c. 1, nel formulare un elenco puntuale dei
soggetti cui possono essere demandate le prestazioni
relative alla progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva (nonché alla direzione) dei lavori pubblici,
colloca al primo posto gli uffici tecnici della stazione
appaltante, non escludendo con ciò la possibilità di
affidare, in presenza di valide motivazioni, l’incarico a
soggetti estranei all’amministrazione stessa.
Alla Sezione appare evidente che tale scelta normativa
scaturisca dalla necessità di rendere l’azione
amministrativa economica ed efficiente, tanto che il
vantaggio economico che ne deriva è immediatamente
percepibile ove si consideri che il legislatore, all’art.
18, prevede un compenso massimo pari all’1,5% (ora 2%)
dell’importo dei lavori per tutti tecnici affidatari
dell’appalto.
Considerato, poi, che al c. 2 dell’art. 17 il legislatore
stabilisce che i progetti redatti dagli Uffici tecnici delle
amministrazioni devono essere firmati da dipendenti delle
amministrazioni abilitati all’esercizio della professione,
il collegio ritiene che l’abilitazione all’esercizio
della professione del tecnico-dipendente, subordinata
all’iscrizione del professionista al relativo albo, si sia
rivolta a esclusivo vantaggio dell’ente, che appunto ha
potuto utilizzare lo stesso per l’attività di progettazione
e direzione dei lavori pubblici; a ciò si aggiunga che lo
stesso architetto, sin dal 1997, era stato assunto a tempo
indeterminato con la conseguente impossibilità di svolgere
attività professionale a favore di terzi.
In quest’ottica, la Corte dei Conti-Calabria ritiene che la
quota d’iscrizione all’albo professionale sia stata
giustamente pagata dall’ente comunale e che, pertanto,
nessun danno è ipotizzabile a carico dell’ente medesimo a
causa della determinazione dirigenziale con la quale si
procedeva al pagamento di lire 370.000 per la quota
d’iscrizione all’albo degli architetti.
Tale sentenza non è ovviamente passata inosservata, tanto
che le sue conclusioni sono state nuovamente sottoposte alla
Corte dei Conti-Marche, per un orientamento interpretativo (parere 03.06.2008 n. 9):
il giudice adito ha riaffermato le identiche conclusioni
delle precedenti sezioni di controllo, precisando, in
relazione al discordante pronunciamento giurisdizionale
calabrese, che:
— la
sentenza 28.09.2007 n. 801
della Sezione Calabria è stata resa all’esito di un giudizio
di responsabilità, e le decisioni ivi assunte sono
vincolanti soltanto per le parti del giudizio;
— le interpretazioni contenute in una sentenza
costituiscono di regola un precedente non vincolante,
mancando nel nostro ordinamento il principio dello stare
decisis operante in altri sistemi giuridici;
— la soluzione adottata nella sentenza non può avere
valenza generale, in quanto accoglie espressamente, per
farne causa esimente, il concetto di «vantaggio economico»
(art. 1, c. 1-bis, legge n. 20/1994), che costituisce
criterio derogatorio la cui applicazione in concreto è
demandata esclusivamente al giudice contabile in sede di
responsabilità
(commento tratto da Azienditalia - il Personale n. 11/2008). |
PUBBLICO IMPIEGO: Essendo
l’iscrizione all’albo un requisito imprescindibile per
alcune figure professionali, in mancanza del quale non è
consentito l’esercizio dell’attività, essa costituisce uno
dei presupposti richiesti per l’assunzione e deve perdurare
per tutta la durata del lavoro alle dipendenze del comune.
Si ritiene, pertanto, che “debba essere cura del soggetto,
assunto per ricoprire all’interno dell’ente un ruolo che
richiede la citata iscrizione, farsi carico degli
adempimenti necessari per assicurare nel tempo la
sussistenza del requisito che ha costituito la condicio sine
qua non della sua assunzione, tra i quali rientra quello
della tassa annuale”.
Va altresì richiamata l’esistenza, nell’ordinamento,
di un principio generale che vieta di porre a carico degli
enti pubblici oneri non previsti che possano contribuire ad
aggravare la situazione finanziaria degli enti stessi. Fra
tali oneri sembra poter rientrare anche la tassa di
iscrizione ad un albo professionale.
---------------
... con la richiesta di parere di cui trattasi il Sindaco
di Potenza ha chiesto “(…) se il pagamento della tassa
annuale di iscrizione all’albo professionale degli avvocati
dell’Ente debba essere comunque a carico del singolo
dipendente ovvero la relativa spesa debba essere posta a
carico del Comune datore di lavoro”.
La richiesta è stata formulata in relazione ad un precedente
parere (n. 1/2007) reso dalla Sezione regionale di controllo
per la Sardegna, “(…) che stabilisce, tra l’altro, che il
pagamento della tassa di iscrizione per l’esercizio della
professione forense è a carico degli avvocati dipendenti
pubblici e non dell’Ente datore di lavoro”, e a seguito
del quale il direttore generale del Comune “(…) ritenendo
di doversi attenere scrupolosamente al citato parere, ha
emanato opportune disposizioni in merito”.
Successivamente l’avvocatura dell’ente ha chiesto che le
predette disposizioni “(…) vengano rivisitate”, anche
alla luce dei principi affermati in “una recentissima
sentenza della Suprema Corte di Cassazione -Sezione Lavoro–
(n. 3928 del 20.02.2007), confermativa della sentenza della
Corte di appello di Torino n. 338/2003 e della sentenza del
Tribunale di Torino n. 4549/2001”;
...
RITENUTO, alla luce delle considerazioni e dei
principi sopra esposti, che, nel caso di specie, la
richiesta sia:
- ammissibile sotto il profilo soggettivo;
- sotto il profilo oggettivo, invece, il quesito prospettato
risulta inammissibile. In primo luogo, considerato che la
direzione generale del comune ha già emanato “opportune
disposizioni in merito”, il parere eventualmente reso
dalla Corte non sarebbe altro che una verifica postuma di
legittimità dell’atto emesso dall’ente; si verrebbe, così, a
incidere sulla stessa struttura ontologica della funzione
consultiva che, per sua natura, deve, invece, essere volta
ad illuminare preventivamente la scelta discrezionale
dell’organo di amministrazione attiva.
Inoltre, considerata la manifesta specificità del caso, una
valutazione nel merito in questa sede determinerebbe una
sicura ingerenza nella concreta attività gestionale
dell’ente e potrebbe, peraltro, comportare un’interferenza
con le funzioni requirente e giudicante in materia di
responsabilità assegnate alla stessa Corte dei conti.
Si ritiene, tuttavia, opportuno riportare –a puro titolo di
prospettazione- alcune valutazioni di merito sulla presente
fattispecie espresse dal Coordinamento delle Sezioni
regionali di controllo della Sezione delle Autonomie della
Corte dei conti con la nota innanzi citata (n. 6935/C21 del
07.06.2007), in virtù del fatto che la questione in
predicato <<(…) seppur relativa ad un caso specifico, può
essere fatta rientrare in una fattispecie astratta e
generale in materia di contabilità pubblica, trattandosi di
una tipologia di spesa che potrebbe gravare in via ordinaria
e generalizzata sui comuni>>.
Orbene, si legge nella nota suddetta, <<Alla luce degli
orientamenti giurisprudenziali emersi (Corte di Cassazione,
sent. n. 3928 del 20/02/2007, Sez. reg. contr. Sardegna,
parere 19.01.2007 n. 1 e Sez. reg. contr. Piemonte,
parere 29.03.2007 n. 2), questo Coordinamento è dell’avviso che, essendo
l’iscrizione all’albo un requisito imprescindibile per
alcune figure professionali, in mancanza del quale non è
consentito l’esercizio dell’attività, essa costituisce uno
dei presupposti richiesti per l’assunzione e deve perdurare
per tutta la durata del lavoro alle dipendenze del comune.
Si ritiene, pertanto, che “debba essere cura del soggetto,
assunto per ricoprire all’interno dell’ente un ruolo che
richiede la citata iscrizione, farsi carico degli
adempimenti necessari per assicurare nel tempo la
sussistenza del requisito che ha costituito la condicio sine
qua non della sua assunzione, tra i quali rientra quello
della tassa annuale” (in tal senso, Sez. Sardegna, parere
cit.). Va altresì richiamata l’esistenza, nell’ordinamento,
di un principio generale che vieta di porre a carico degli
enti pubblici oneri non previsti che possano contribuire ad
aggravare la situazione finanziaria degli enti stessi. Fra
tali oneri sembra poter rientrare anche la tassa di
iscrizione ad un albo professionale>>.
Il citato parere n. 2/2007 della Sezione regionale di
controllo per il Piemonte, peraltro, ha ritenuto non
applicabile alla fattispecie, nella situazione prospettata
(analoga a quella di cui, in questa sede, ci si occupa), il
principio affermato nella citata sentenza della Corte di
Appello di Torino n. 338/2003, confermato dalla sentenza
della Suprema Corte di Cassazione (Sezione Lavoro n. 3928
del 20.02.2007), “(…) che, in merito ad una fattispecie
riguardante un dipendente statale, stabilisce che le spese
sostenute dal dipendente nell’esclusivo interesse del
proprio datore di lavoro devono essere a carico di
quest’ultimo (…)”.
Infatti, ad avviso della Sezione regionale di controllo per
il Piemonte, “(…) il richiamato principio non può trovare
piena applicazione al caso di specie, in quanto l’iscrizione
ad un albo professionale, anche laddove necessaria per lo
svolgimento dell’attività svolta dal dipendente per l’ente,
non può ritenersi effettuata nell’esclusivo interesse del
datore di lavoro. Essa attiene, infatti, a profili
strettamente connessi con la professionalità del soggetto
iscritto, arrecando benefici diretti nella sua sfera di
interessi.
Come tale, l’iscrizione all’albo è richiesta, per alcune
figure professionali, quale presupposto per l’assunzione. In
tali ipotesi il dipendente deve ritenersi obbligato a
mantenere, per tutta la durata del rapporto, anche
attraverso il pagamento della tassa annuale, il requisito
per il quale è stato assunto”.
P.Q.M.
La Corte di Conti, Sezione regionale di controllo per la
Basilicata, dichiara inammissibile la richiesta formulata
dal Sindaco del comune di Potenza con nota n. 120/Gab del
28.05.2007 (Corte
dei Conti, Sez. regionale di controllo Basilicata,
deliberazione 15.06.2007 n. 12). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nel caso di specie
(richiesta di parere riguardante la rimborsabilità delle
quote annuali di iscrizione all’albo professionale a favore
di un dipendente, nella fattispecie abilitato e iscritto
all’ordine degli architetti, che svolga attività di
progettazione di opere pubbliche) si verte su una questione
riguardante la legittimità o meno di una spesa con la
possibilità che il parere reso interferisca con un eventuale
giudizio di responsabilità per elidere o attenuare posizioni
di responsabilità su fatti già compiuti.
Per i motivi enunciati si dichiara l’inammissibilità della
richiesta di parere in epigrafe.
---------------
Il Sindaco del Comune di Creazzo (VI) ha avanzato
richiesta di parere riguardante la rimborsabilità delle
quote annuali di iscrizione all’albo professionale a favore
di un dipendente, nella fattispecie abilitato e iscritto
all’ordine degli architetti, che svolga attività di
progettazione di opere pubbliche.
L’ente sostiene in particolare che la legge 109/1994 (ora
art. 90, comma 4, del D.Lgs. 163/2006) prevede che tali
dipendenti possano firmare i progetti di opere pubbliche
anche se non sono iscritti agli albi professionali.
L’iscrizione diventerebbe, quindi, condizione utile al
dipendente professionista e non all’Ente, a differenza di
altre categorie professionali (es. avvocati, medici, ecc.).
...
Occorre, a questo punto, valutare anche la sussistenza del
presupposto oggettivo, ovvero l’aderenza della questione al
concetto di contabilità pubblica in base alla norma
istitutiva della funzione consultiva di cui alla legge
131/2003 (anche alla luce degli indirizzi e criteri generali
della Sezione delle Autonomie, approvati il 27.04.2004 e
della delibera 5/AUT/2006 del 10.03.2006, nonché
dell’orientamento delle altre Sezioni).
E’ indubbio che qualsiasi attività amministrativa può avere
riflessi finanziari e, quindi, ove non si adottasse una
nozione tecnica del concetto di contabilità pubblica, si
incorrerebbe in una dilatazione dell’ambito oggettivo della
funzione consultiva rendendo la Sezione regionale di
controllo della Corte dei conti organo di consulenza
generale dell’amministrazione pubblica.
Conformemente alle opzioni ermeneutiche generalmente
adottate dalla Sezione delle Autonomie e dalle altre Sezioni
regionali della Corte dei conti, va, pertanto, ristretto
l’ambito oggettivo alla normativa e ai relativi atti
applicativi che disciplinano, in generale, l’attività
finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di
settore, compresi, in particolare, la disciplina dei bilanci
e i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate,
l’organizzazione finanziaria-contabile, la disciplina del
patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la
rendicontazione e i relativi controlli.
Nel caso di specie non ricorre alcuna delle ipotesi da
ultimo menzionate. Difatti si verte su una questione
riguardante la legittimità o meno di una spesa con la
possibilità che il parere reso interferisca con un eventuale
giudizio di responsabilità per elidere o attenuare posizioni
di responsabilità su fatti già compiuti.
Per i motivi enunciati si dichiara l’inammissibilità della
richiesta di parere in epigrafe
(Corte dei
Conti, Sez. regionale di controllo Veneto,
parere 31.05.2007 n. 6). |
PUBBLICO IMPIEGO: L’iscrizione agli ordini professionali, quando prevista,
costituisce un vincolo imposto dalla legge ed è inoltre,
condizione per poter esigere il compenso rilevato che, ai
sensi dell’art. 2231 del codice civile, la prestazione
eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il
pagamento della retribuzione.
L’iscrizione all’albo professionale configura, quindi, un
atto amministrativo di accertamento dello status del
professionista e determina conseguenti diritti e doveri.
Il vincolo dell’iscrizione all’albo professionale può
essere richiesto dalla legge anche nel caso di dipendenti di
enti pubblici ai quali sarà applicabile oltre alla
disciplina prevista dal contratto collettivo del relativo
comparto anche quella specifica prevista per la categoria
professionale di appartenenza.
Ne consegue che
l’Amministrazione Pubblica resta estranea al rapporto che si
instaura tra un proprio dipendente ed il relativo ordine
professionale.
Infatti, l’iscrizione al relativo albo professionale è
requisito di natura strettamente personale richiesto sin
dalla partecipazione alle prove concorsuali bandite
dall’Ente e che conseguentemente costituisce un presupposto
per l’assunzione e lo svolgimento del rapporto lavorativo
del dipendente.
Qualora la normativa che impone l’iscrizione all’albo
sopravvenga nel corso del rapporto lavorativo
l’iscrizione all’albo professionale integra un
requisito imprescindibile per la stessa prosecuzione del
rapporto lavorativo alle dipendenze del Comune.
Pertanto, la Sezione ritiene che il versamento delle
quote annuali effettuato dal dipendente comunale iscritto al
proprio albo professionale costituisce un preciso
adempimento eseguito nel proprio interesse alla prosecuzione
di un valido rapporto lavorativo.
Deve, quindi, escludersi che l’Ente sia tenuto ad
effettuare il rimborso delle quote di iscrizione all’albo
versate dal proprio dipendente. Infatti, il rimborso della
quota di iscrizione all’albo si tradurrebbe in un
ingiustificato onere finanziario a carico dell’Ente.
Occorre, inoltre, evidenziare che l’eventuale versamento
o rimborso delle quote di iscrizione all’albo da parte
dell’Ente, non sorretto da specifico supporto normativo, si
porrebbe in difformità con l’attuale orientamento
legislativo diretto al contenimento della spesa del
personale ribadito anche recentemente dal comma 557
dell’art. 1 della L. 27/12/2006 n. 296, legge finanziaria
per il 2007.
---------------
Il Sindaco del Comune di Troia (FG), con la nota in
epigrafe, richiede il parere della Sezione sulla
possibilità per l’Amministrazione Comunale di provvedere al
rimborso in favore di un assistente sociale, dipendente
dell’ente sin dal 01/06/1985, della tassa annuale di
iscrizione all’albo tenuto dall’Ordine degli Assistenti
Sociali istituito presso il Consiglio Regionale della Puglia.
All’uopo, il Sindaco precisa, come emerge dalla
documentazione successivamente trasmessa, che con la legge
n. 84 del 23/03/1993 è stato disciplinato l’ordinamento
della professione di assistente sociale ed è stato istituito
il relativo albo professionale.
L’Ordine degli Assistenti Sociali, con nota del 30/07/2003,
comunicava al Sindaco di aver inoltrato denuncia nei
confronti della dipendente per esercizio abusivo della
professione e diffidato l’Amministrazione Comunale, ritenuta
corresponsabile del comportamento, a prendere opportuni
provvedimenti.
L’assistente sociale provvedeva quindi all’iscrizione
all’albo professionale degli assistenti sociali tenuto
presso il Consiglio Regionale della Puglia ed il GIP del
Tribunale di Lucera disponeva l’archiviazione, per assenza
di dolo, rilevato che la Legge n. 84/1993 era entrata in
vigore successivamente all’assunzione della dipendente.
Successivamente la dipendente richiedeva all’Ente il
rimborso delle quote di iscrizione all’Ordine degli
Assistenti Sociali per le annualità dal 2003 al 2007.
...
Come noto, la Corte dei Conti, secondo il disposto dell’art.
7 comma 8, della L. n. 131 del 05.06.2003, può rendere
pareri in materia di “contabilità pubblica”.
La Sezione rileva che la richiesta di parere in oggetto si
possa ritenere inquadrabile nell’alveo della contabilità
pubblica e che il quesito abbia rilevanza generale atteso
che il rimborso delle quote di iscrizione versate da
dipendenti comunali agli albi professionali si concreta in
un onere finanziario gravante sull’Ente.
Deve, inoltre, rilevarsi, che su analoga questione si già
pronunciata la Sezione Regionale di Controllo per la
Sardegna con il
parere 19.01.2007 n. 1 peraltro citato
nella richiesta avanzata dal Sindaco del Comune di Troia.
Pertanto, alla luce dei principi su enunciati la richiesta
di parere si palesa ammissibile.
La Sezione ritiene opportuno sottolineare che
l’iscrizione agli ordini professionali, quando prevista,
costituisce un vincolo imposto dalla legge ed è inoltre,
condizione per poter esigere il compenso rilevato che, ai
sensi dell’art. 2231 del codice civile, la prestazione
eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il
pagamento della retribuzione.
Tuttavia, come statuito dalla Corte di Cassazione (sent. n.
3646/1978, n. 2890/1990) nel caso di professionista
inquadrato in un rapporto di lavoro subordinato le
conseguenze derivanti dalla nullità del rapporto sono quelle
previste dall’art. 2126 del codice civile secondo il quale
la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non
produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto
esecuzione.
L’iscrizione all’albo professionale configura, quindi, un
atto amministrativo di accertamento dello status del
professionista e determina conseguenti diritti e doveri.
Il vincolo dell’iscrizione all’albo professionale può
essere richiesto dalla legge anche nel caso di dipendenti di
enti pubblici ai quali sarà applicabile oltre alla
disciplina prevista dal contratto collettivo del relativo
comparto anche quella specifica prevista per la categoria
professionale di appartenenza che, nel caso in esame, è
contenuta nella Legge 23.03.1993 n. 84 recante la disciplina
dell’ordinamento della professione di assistente sociale.
Ne consegue, ad avviso della Sezione, che
l’Amministrazione Pubblica resta estranea al rapporto che si
instaura tra un proprio dipendente ed il relativo ordine
professionale.
Infatti, l’iscrizione al relativo albo professionale è
requisito di natura strettamente personale richiesto sin
dalla partecipazione alle prove concorsuali bandite
dall’Ente e che conseguentemente costituisce un presupposto
per l’assunzione e lo svolgimento del rapporto lavorativo
del dipendente.
Qualora la normativa che impone l’iscrizione all’albo
sopravvenga nel corso del rapporto lavorativo, come
avvenuto nel caso delineato nella richiesta di parere,
l’iscrizione all’albo professionale integra un requisito
imprescindibile per la stessa prosecuzione del rapporto
lavorativo alle dipendenze del Comune.
Pertanto, la Sezione ritiene che il versamento delle
quote annuali effettuato dal dipendente comunale iscritto al
proprio albo professionale costituisce un preciso
adempimento eseguito nel proprio interesse alla prosecuzione
di un valido rapporto lavorativo.
Deve, quindi, escludersi che l’Ente sia tenuto ad
effettuare il rimborso delle quote di iscrizione all’albo
versate dal proprio dipendente. Infatti, il rimborso della
quota di iscrizione all’albo si tradurrebbe in un
ingiustificato onere finanziario a carico dell’Ente.
Occorre, inoltre, evidenziare che l’eventuale versamento
o rimborso delle quote di iscrizione all’albo da parte
dell’Ente, non sorretto da specifico supporto normativo, si
porrebbe in difformità con l’attuale orientamento
legislativo diretto al contenimento della spesa del
personale ribadito anche recentemente dal comma 557
dell’art. 1 della L. 27/12/2006 n. 296, legge finanziaria
per il 2007
(Corte dei
Conti, Sez. regionale di controllo Puglia,
parere 02.05.2007 n. 5). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La questione acquista
rilievo solo nella misura in cui l’iscrizione ad un albo
costituisca requisito necessario per lo svolgimento
dell’attività del dipendente.
Ove l’iscrizione ad un albo
professionale, se mai consentita dalle diverse normative
vigenti, fosse da imputarsi alla libera scelta del
dipendente, dovrebbe ritenersi inequivocabilmente a suo
carico il pagamento della relativa tassa di iscrizione.
Rientrano in tale ipotesi anche i casi in cui l’accesso al
rapporto di pubblico impiego abbia presupposto, quale
titolo, il conseguimento dell’abilitazione all’esercizio di
una professione, non risultando poi necessaria l’iscrizione
al relativo albo per lo svolgimento dell’attività del
dipendente.
La questione si pone, dunque, per le fattispecie in cui i
dipendenti risultino iscritti a un albo, in quanto requisito
necessario per l’esercizio delle funzioni svolte presso
l’Ente.
L’iscrizione ad un albo professionale, anche laddove
necessaria per lo svolgimento dell’attività svolta dal
dipendente per l’ente, non può ritenersi effettuata
nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Essa attiene,
infatti, a profili strettamente connessi con la
professionalità del soggetto iscritto, arrecando benefici
diretti nella sua sfera di interessi. Come tale,
l’iscrizione all’albo è richiesta, per alcune figure
professionali, quale presupposto per l’assunzione. In tali
ipotesi il dipendente deve ritenersi obbligato a mantenere,
per tutta la durata del rapporto, anche attraverso il
pagamento della tassa annuale, il requisito per il quale è
stato assunto.
Può pertanto ritenersi che il generale divieto di porre a
carico degli enti pubblici oneri non previsti dalla
contrattazione collettiva e individuale riguardi anche il
pagamento della tassa di iscrizione a un albo professionale.
---------------
Il Comune di Rivoli, con nota a firma del Sindaco del
06.03.2007, ha chiesto di conoscere il parere di
questa Sezione in ordine alla richiesta di pagamento
della tassa di iscrizione all’ordine degli avvocati,
formulata da un funzionario dell’ente.
Al riguardo, con nota prot. 9/par/07 dell’08.03.2007, questa
Sezione, precisato che la funzione consultiva ex articolo 7,
comma 8, della legge n. 131 del 2003, viene esercitata solo
su quesiti di natura astratta e generale e non con
riferimento a casi specifici, e che pertanto le richieste,
per quanto relative a casi concreti, devono poter essere
ricondotte a fattispecie generali, ha invitato il Comune
richiedente a riformulare la sua richiesta, fornendo
ulteriori necessari elementi informativi.
Con nota del 21.03.2007, sempre a firma del Sindaco, il
Comune di Rivoli si è limitato a precisare che il
funzionario interessato, inquadrato nella categoria D3,
svolge mansioni di legale dell’Ente, e che il bando per
l’assunzione prevedeva, quali requisiti, la laurea in
giurisprudenza e l’abilitazione all’esercizio della
professione di avvocato.
...
3) Merito:
Oggetto della richiesta di parere è dunque il pagamento
della tassa di iscrizione ad un ordine professionale, da
parte del Comune, per conto di un proprio funzionario.
In primo luogo va precisato che la questione acquista
rilievo solo nella misura in cui l’iscrizione ad un albo
costituisca requisito necessario per lo svolgimento
dell’attività del dipendente. Ove l’iscrizione ad un albo
professionale, se mai consentita dalle diverse normative
vigenti, fosse da imputarsi alla libera scelta del
dipendente, dovrebbe ritenersi inequivocabilmente a suo
carico il pagamento della relativa tassa di iscrizione.
Rientrano in tale ipotesi anche i casi in cui l’accesso al
rapporto di pubblico impiego abbia presupposto, quale
titolo, il conseguimento dell’abilitazione all’esercizio di
una professione, non risultando poi necessaria l’iscrizione
al relativo albo per lo svolgimento dell’attività del
dipendente.
La questione si pone, dunque, per le fattispecie in cui i
dipendenti risultino iscritti a un albo, in quanto requisito
necessario per l’esercizio delle funzioni svolte presso
l’Ente.
Il Comune richiedente richiama una pronuncia della Corte di
appello di Torino che, in merito ad una fattispecie
riguardante un dipendente statale, stabilisce che le spese
sostenute dal dipendente nell’esclusivo interesse del
proprio datore di lavoro devono essere a carico di
quest’ultimo (sentenza n. 338 del 2003).
A parere di questa Sezione, il richiamato principio non può
trovare piena applicazione al caso di specie, in quanto
l’iscrizione ad un albo professionale, anche laddove
necessaria per lo svolgimento dell’attività svolta dal
dipendente per l’ente, non può ritenersi effettuata
nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Essa attiene,
infatti, a profili strettamente connessi con la
professionalità del soggetto iscritto, arrecando benefici
diretti nella sua sfera di interessi. Come tale,
l’iscrizione all’albo è richiesta, per alcune figure
professionali, quale presupposto per l’assunzione. In tali
ipotesi il dipendente deve ritenersi obbligato a mantenere,
per tutta la durata del rapporto, anche attraverso il
pagamento della tassa annuale, il requisito per il quale è
stato assunto.
Vengono pertanto in rilievo altri principi, quali quello del
contenimento della spesa complessiva per il personale,
diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica
(art. 1, comma 1, lett. b) del D. Lgs.vo 30.03.2001, n.
165), ed il principio in base al quale l’attribuzione di
trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante
contratti collettivi e, alle condizioni previste, mediante
contratti individuali (art. 2, comma 3 del D.Lgs.vo
30.03.2001, n. 165).
Può pertanto ritenersi che il generale divieto di porre a
carico degli enti pubblici oneri non previsti dalla
contrattazione collettiva e individuale riguardi anche il
pagamento della tassa di iscrizione a un albo professionale
(Corte dei
Conti, Sez. regionale di controllo Piemonte,
parere 29.03.2007 n. 2). |
PUBBLICO IMPIEGO:
I contratti collettivi del
comparto regioni e autonomie locali si limitano a prevedere
l’indennità di posizione e di risultato per il personale che
svolge attività con contenuti di alta professionalità e
specializzazione correlata all’iscrizione ad albi
professionali, mentre nulla precisano in relazione
all’argomento in discussione.
Nel merito, occorre considerare preliminarmente se
l’iscrizione a un albo professionale costituisca requisito
per lo svolgimento dell’attività per il dipendente.
Così non è più nella materia dei lavori pubblici, in quanto
la disciplina di cui all’articolo 17 della legge 109 del
1994 è stata modificata dalla legge n. 415 del 1998 nel
senso che non è richiesta l’iscrizione all’albo
professionale per i dipendenti pubblici che firmino i
progetti, ma è sufficiente il possesso dell’abilitazione
professionale; in questo caso l’iscrizione costituisce una
scelta del dipendente e pertanto il relativo pagamento è
sicuramente a suo carico.
7. Una diversa ipotesi si ha qualora il dipendente possa
essere autorizzato a svolgere il lavoro part-time.
L’eventualità di usufruire dell’iscrizione all’albo per
svolgere attività libero professionale, e quindi a favore di
soggetti diversi dall’ente pubblico datore di lavoro,
consente di affermare che il relativo costo non possa
gravare su quest’ultimo.
8. Più complessa è la fattispecie di un dipendente
obbligatoriamente iscritto a un albo esclusivo del pubblico
impiego, quale ad esempio l’elenco speciale annesso all’albo
degli avvocati.
A tale ipotesi ha fornito una soluzione la Corte d’appello
di Torino, nella sentenza n. 338/2003, peraltro relativa a
un dipendente di un ente statale, nella quale si afferma,
in mancanza di una norma che disciplini la materia, e
facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento
giuridico dello Stato, che le spese sostenute dal dipendente
nell’esclusivo interesse del proprio datore di lavoro devono
essere sopportate dal datore.
La ricostruzione sopra riportata non appare
condivisibile, in quanto per alcune figure
professionali l’iscrizione a un albo è un requisito
imprescindibile, in mancanza del quale non è consentito
l’esercizio dell’attività. Tale iscrizione costituisce
uno dei presupposti richiesti per l’assunzione e deve
perdurare per tutta la durata del lavoro alle dipendenze del
comune.
Si ritiene, pertanto, che debba essere cura del soggetto,
assunto per ricoprire al’interno dell’ente un ruolo che
richiede la suddetta iscrizione, farsi carico degli
adempimenti necessari per assicurare nel tempo la
sussistenza del requisito che ha costituito condicio sine
qua non della sua assunzione, tra i quali rientra
sicuramente il pagamento della tassa annuale.
Ad ulteriore sostegno di quanto sopra affermato vi è la
considerazione che tra i principi generali a cui fare
riferimento vi sono certamente quelli contenuti nel decreto
legislativo n. 165 del 2001, che all’art. 1 dispone che “si
deve contenere la spesa complessiva per il personale,
diretta e indiretta , entro i vincoli di finanza pubblica”,
e all’art. 2 che “l’attribuzione di trattamenti economici
può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e,
alle condizioni previste, mediante contratti individuali”.
Si può pertanto ritenere esistente nell’ordinamento
un principio generale che vieta di porre a carico degli enti
pubblici oneri non previsti e che possono contribuire ad
aggravare la situazione finanziaria degli stessi enti. Tra
tali oneri deve essere compresa la tassa di iscrizione a un
albo professionale.
---------------
Con la nota protocollo n. 10223 del 23.10.2006 il
Segretario comunale del comune di Siliqua ha chiesto un
parere in relazione ad una fattispecie attinente
all’assunzione a carico del Comune della tassa annuale di
iscrizione di un dipendente a tempo indeterminato all’albo
professionale.
1. La richiesta di parere è stata inoltrata tramite il
Consiglio delle autonomie locali, istituito con la legge
regionale 17.01.2005 n. 1, che nella nota di trasmissione fa
espresso riferimento all’articolo 7 della legge 05.06.2003,
n. 131, disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento
della Repubblica alla legge costituzionale 18.10.2001 n. 3.
2. La richiesta di parere è sottoscritta dal Segretario
comunale del comune di Siliqua, ed in tal senso dovrebbe
essere dichiarata inammissibile sotto il profilo soggettivo
alla luce del consolidato orientamento assunto dalla Corte
dei conti, secondo il quale all’interno dell’ente locale i
quesiti debbono promanare dal Sindaco o dal Presidente della
Provincia nella loro qualità di rappresentanti legali
dell’ente locale, ovvero dagli organi deliberativi dell’ente
medesimo nel caso di pareri su atti di normazione.
L’inoltro della richiesta a questa Corte da parte del
Presidente del Consiglio delle autonomie locali consente
però di superare tale impostazione, in quanto si deve
ritenere che la richiesta sia stata fatta propria da
quest’ultimo organo istituzionale, al quale espressamente la
legge su richiamata riconosce tale funzione. La richiesta è
pertanto ammissibile sotto il profilo soggettivo.
3. Per quanto riguarda l’ammissibilità della richiesta in
esame nel merito, l’art. 7, comma 8, della legge n.
131/2003, circoscrive i pareri che le Sezioni regionali
della Corte possono esprimere alla materia di contabilità
pubblica.
Possono pertanto rientrare nella funzione consultiva della
Corte dei conti le sole richieste concernenti la materia
della contabilità pubblica, intesa come sistema normativo
che regola la gestione finanziaria ed economico-patrimoniale
dello Stato e degli altri enti pubblici, che richiedano un
esame da un punto di vista astratto e su temi di carattere
generale.
Sono quindi inammissibili le richieste di parere che
comportino valutazioni di casi o atti gestionali specifici,
che determinerebbero un’ingerenza della Corte dei conti
nella concreta attività gestionale dell’Ente, nonché tali da
poter formare oggetto di eventuali iniziative giudiziarie da
parte della Procura regionale della stessa Corte dei conti.
4. Nel caso di specie la richiesta, pur relativa ad un caso
specifico, può essere fatta rientrare in una fattispecie
astratta e generale, in quanto il caso prospettato riguarda
l’obbligo per un ente locale di farsi carico del pagamento
della tassa annuale di iscrizione di un dipendente ad un
albo professionale.
Trattandosi inoltre di identificare una tipologia di spesa
che potrebbe gravare in via ordinaria e generalizzata sui
comuni si ritiene che la richiesta rientri nella materia
della contabilità pubblica. La richiesta è pertanto
ammissibile sotto il profilo oggettivo.
5. Si deve rilevare che i contratti collettivi del
comparto regioni e autonomie locali si limitano a prevedere
l’indennità di posizione e di risultato per il personale che
svolge attività con contenuti di alta professionalità e
specializzazione correlata all’iscrizione ad albi
professionali, mentre nulla precisano in relazione
all’argomento in discussione.
6. Nel merito, occorre considerare preliminarmente se
l’iscrizione a un albo professionale costituisca requisito
per lo svolgimento dell’attività per il dipendente.
Così non è più nella materia dei lavori pubblici, in quanto
la disciplina di cui all’articolo 17 della legge 109 del
1994 è stata modificata dalla legge n. 415 del 1998 nel
senso che non è richiesta l’iscrizione all’albo
professionale per i dipendenti pubblici che firmino i
progetti, ma è sufficiente il possesso dell’abilitazione
professionale; in questo caso l’iscrizione costituisce una
scelta del dipendente e pertanto il relativo pagamento è
sicuramente a suo carico.
7. Una diversa ipotesi si ha qualora il dipendente possa
essere autorizzato a svolgere il lavoro part-time.
L’eventualità di usufruire dell’iscrizione all’albo per
svolgere attività libero professionale, e quindi a favore di
soggetti diversi dall’ente pubblico datore di lavoro,
consente di affermare che il relativo costo non possa
gravare su quest’ultimo.
8. Più complessa è la fattispecie di un dipendente
obbligatoriamente iscritto a un albo esclusivo del pubblico
impiego, quale ad esempio l’elenco speciale annesso all’albo
degli avvocati.
A tale ipotesi ha fornito una soluzione la Corte d’appello
di Torino, nella sentenza n. 338/2003, peraltro relativa a
un dipendente di un ente statale, nella quale si afferma,
in mancanza di una norma che disciplini la materia, e
facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento
giuridico dello Stato, che le spese sostenute dal dipendente
nell’esclusivo interesse del proprio datore di lavoro devono
essere sopportate dal datore.
9. La ricostruzione sopra riportata non appare
condivisibile, in quanto per alcune figure
professionali l’iscrizione a un albo è un requisito
imprescindibile, in mancanza del quale non è consentito
l’esercizio dell’attività. Tale iscrizione costituisce
uno dei presupposti richiesti per l’assunzione e deve
perdurare per tutta la durata del lavoro alle dipendenze del
comune.
Si ritiene, pertanto, che debba essere cura del soggetto,
assunto per ricoprire al’interno dell’ente un ruolo che
richiede la suddetta iscrizione, farsi carico degli
adempimenti necessari per assicurare nel tempo la
sussistenza del requisito che ha costituito condicio sine
qua non della sua assunzione, tra i quali rientra
sicuramente il pagamento della tassa annuale.
10. In tal senso è l’articolo 47 della legge regionale sarda
n. 31 del 13.11.1998, relativo all’esercizio delle attività
professionali, che dispone al 3° comma che “per l’accesso
ai posti in pianta organica il cui compito principale o
esclusivo è l’esercizio di attività professionali sono
necessari l’iscrizione all’albo e l’esercizio effettivo
dell’attività professionale per almeno tre anni”; e che
al comma successivo prevede che “la cancellazione
dall’albo comporta la risoluzione del rapporto d’impiego”.
Tali norme consentono agevolmente di ritenere che debba
essere a cura del dipendente regionale anche il pagamento
della tassa annuale di iscrizione, in quanto elemento
necessario per il perdurare dell’iscrizione stessa.
11. Ad ulteriore sostegno di quanto sopra affermato vi è la
considerazione che tra i principi generali a cui fare
riferimento vi sono certamente quelli contenuti nel decreto
legislativo n. 165 del 2001, che all’art. 1 dispone che “si
deve contenere la spesa complessiva per il personale,
diretta e indiretta , entro i vincoli di finanza pubblica”,
e all’art. 2 che “l’attribuzione di trattamenti economici
può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e,
alle condizioni previste, mediante contratti individuali”.
La necessità di una previsione espressa si ritrova anche
nell’art. 12 della legge 241 del 1990, secondo il quale “la
concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili
finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono
subordinate alla predeterminazione ad alla pubblicazione da
parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste
dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui
le amministrazioni stesse devono attenersi".
12. Si può pertanto ritenere esistente nell’ordinamento
un principio generale che vieta di porre a carico degli enti
pubblici oneri non previsti e che possono contribuire ad
aggravare la situazione finanziaria degli stessi enti. Tra
tali oneri deve essere compresa la tassa di iscrizione a un
albo professionale
(Corte dei
Conti, Sez. regionale di controllo Sardegna,
parere 19.01.2007 n. 1). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Out i consiglieri multati. Incompatibili fino al pagamento
della sanzione. L'ultima parola
sulla causa ostativa spetta al consiglio comunale.
Può sussistere causa di incompatibilità ai sensi dell'art.
63, comma 1, n. 6, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 nei confronti di un consigliere comunale, al quale
sono stati notificati atti ingiuntivi di pagamento per
contravvenzioni al codice della strada, nonché per imposte e
tasse comunali (Ici e Tarsu)?
Nella fattispecie in esame -in cui l'amministratore ha
provveduto in parte al pagamento del quantum debeatur e per
la restante parte ha ottenuto un piano di rateizzazione con
sospensione di tutte le procedure esecutive- la valutazione,
a sostegno di un orientamento di favore per il Consigliere
comunale, della circostanza che l'interessato non ha
ricevuto invano notificazione dell'avviso di cui
all'articolo 46 del decreto del presidente della repubblica
29.09.1973, n. 602, può al più riguardare la parte di
debito derivante dalle imposte e tasse comunali, atteso che
solo per tale tipo di posizione debitoria l'incompatibilità
disciplinata dal citato art. 63, comma 1, n. 6, presuppone
che l'interessato abbia ricevuto invano l'avviso menzionato
(a proposito del quale, occorre altresì tenere presente che,
in base all'art. 38, comma 1, lettera a), del decreto
legislativo 26.02.1999, n. 46, «i rinvii contenuti in
norme vigenti alle disposizioni del decreto del presidente
della repubblica 29.09.1973, n. 602, abrogate dal
presente decreto, si intendono riferiti alle corrispondenti
disposizioni del presente decreto»).
Per quanto concerne,
invece, la parte di debito che trae origine da
contravvenzioni al codice della strada, si confermano le
considerazioni ripetutamente svolte con riferimento a casi
analoghi. In tal senso, i concetti di «liquidità» ed
«esigibilità» di cui si fa menzione nella norma esprimono
l'uno la certezza del debito e del relativo ammontare e
l'altro che il debito stesso non sia soggetto a termini o
condizioni.
Pertanto, finché le contravvenzioni in questione non saranno
state pagate, non potrà che ritenersi esistente la
fattispecie di incompatibilità, in quanto la rateizzazione è
soltanto una modalità di pagamento e finché non risulterà
versata l'ultima rata prevista il debito non potrà in alcun
modo considerarsi estinto. In ogni caso, la valutazione in
ordine alla eventuale sussistenza della causa ostativa
all'espletamento del mandato elettivo è rimessa al consiglio
comunale.
Infatti, in conformità al generale principio per
cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla
regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti,
la verifica delle cause ostative all'espletamento del
mandato è compiuta con la procedura prevista dall'art. 69
del decreto legislativo n. 267 del 2000, che garantisce il
contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a
quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa e la
possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa
di incompatibilità contestata (cfr. Corte di cassazione,
sezione I, sentenza 10.07.2004, n. 12809; Id., sentenza
12.11.1999, n. 12529)
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum per il Consiglio.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità
delle sedute del consiglio comunale in seconda convocazione,
con particolare riferimento ad un ente al quale siano stati
assegnati dieci consiglieri, escluso il sindaco, che non
abbia ancora provveduto ad adottare un'apposita disciplina
regolamentare in materia?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei
consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il
limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere
sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per
legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia».
Tale disposizione va letta in combinato disposto con l'art.
273, comma 6, del citato Tuel il quale detta una disciplina
transitoria che legittima l'applicazione, tra gli altri,
dell'art. 127 del T.u. n. 148/1915 fino all'adeguamento
statutario e regolamentare ai nuovi canoni previsti dal
richiamato decreto legislativo n. 267/2000 nella materia
considerata.
L'art. 127, comma 1, prevede che: «i consigli comunali
non possono deliberare se non interviene la metà del numero
dei consiglieri assegnati al comune; però alla seconda
convocazione, che avrà luogo in altro giorno, le
deliberazioni sono valide, purché intervengano almeno
quattro membri». Ciò posto, appare evidente, nel caso di
specie, l'opportunità che le disposizioni statutarie e
regolamentari in materia vengano aggiornate alle richiamate
norme di legge, al fine di evitare ogni ulteriore dubbio
interpretativo
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Richiesta, da parte di un dipendente, di conoscere se tutto
il personale dell'ente abbia usufruito delle ferie nel
periodo estivo 2014 previo ottenimento di apposita
autorizzazione scritta.
L'istanza di accesso, da parte di un
dipendente comunale, finalizzata a conoscere se tutto il
personale dell'ente abbia usufruito delle ferie previo
ottenimento di apposita autorizzazione scritta, dichiarando,
al riguardo, l'interesse ad attestare l'imparzialità, la
correttezza e la trasparenza dell'operato
dell'amministrazione, non può reputarsi espressa ex lege e,
come tale, non può essere accolta per tre ordini di ragioni:
a) come formulata, essa appare carente di motivazione, non
risultando comprovata l'esistenza di un interesse diretto,
concreto ed attuale connesso ad una situazione
giuridicamente rilevante; conseguentemente ed in secondo
luogo;
b) essa si pone in contrasto con il diktat dell'articolo 24,
comma 3, legge 241/1990, dando adito ad un controllo
generalizzato sull'operato della pubblica amministrazione;
c) in fine, l'istanza di accesso pone un problema di tutela
della riservatezza dei terzi controinteressati.
Il Comune segnala di aver ricevuto, da parte di un
dipendente, la richiesta di conoscere se tutto il personale
dell'ente abbia usufruito delle ferie nel periodo estivo
2014 previo ottenimento di apposita autorizzazione scritta,
dichiarando, al riguardo, un interesse concreto e diretto al
fine di 'attestare l'imparzialità, la correttezza e la
trasparenza dell'operato dell'amministrazione'.
La pubblica amministrazione domanda, pertanto, se la
summenzionata richiesta di accesso debba essere soddisfatta,
posto che l'evasione della stessa potrebbe entrare in
conflitto con esigenze di tutela delle riservatezza e che
non appare scontata l'esistenza di un interesse diretto,
concreto e attuale del richiedente, sembrando, piuttosto,
emergere una generica volontà di conoscenza finalizzata alla
verifica dell'imparzialità e correttezza dell'agere
della pubblica amministrazione, in contrasto con quanto
statuito dall'articolo 24, comma 3, della legge 07.08.1990,
n. 241 - 'Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi' [1].
Si svolgono al riguardo le seguenti riflessioni.
Sembra allo scrivente che l'istanza di accesso non possa
reputarsi espressa ex lege e, come tale, non possa
essere accolta [2]
per tre ordini di ragioni: a) come formulata, essa appare
carente di motivazione, non risultando comprovata
l'esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale
connesso ad una situazione giuridicamente rilevante;
conseguentemente ed in secondo luogo, b) essa si pone in
contrasto con il diktat dell'articolo 24, comma 3, legge
241/1990, dando adito ad un controllo generalizzato
sull'operato della pubblica amministrazione; c) in fine,
l'istanza di accesso pone un problema di tutela della
riservatezza dei terzi controinteressati.
a) b) Si evidenzia, anzi tutto, l'onere cui si deve far
fronte nel momento in cui è formulata una richiesta di
accesso agli atti della pubblica amministrazione affinché
questa possa essere legittimamente accolta e soddisfatta: il
soggetto instante deve rappresentare, in maniera motivata,
la sussistenza di un interesse concreto, diretto e attuale
in relazione all'accesso documentale [3].
Tale obbligo discende, direttamente, dal dettato normativo,
per il quale la richiesta di accesso ai documenti deve
essere motivata [4]
e che, inoltre, prevede: 'non sono ammissibili istanze di
accesso preordinate a un controllo generalizzato
dell'operato delle pubbliche amministrazioni'
[5].
Ulteriore aspetto fondamentale da prendere in considerazione
nel presente parere riguarda, quindi, l'assenza di
motivazione nell'istanza finalizzata all'accesso.
Al riguardo, si rammenta che, ai sensi dell'articolo 22
della legge 241/1990, l'accesso è consentito a tutti i
soggetti privati, portatori di un interesse diretto
[6],
concreto [7],
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento rispetto al quale è
chiesto l'accesso [8],
onde poi procedere nella sede ritenuta più opportuna per la
sua effettiva tutela.
All'atto della richiesta, al fine del riconoscimento
dell'interesse giuridicamente rilevante, il soggetto deve,
pertanto, dimostrare che esiste una correlazione tra la
propria situazione giuridica soggettiva e l'utilità di
conoscere il bene o la vicenda, oggetto dell'atto o del
documento amministrativo di cui chiede visione o copia
[9]. La
domanda di accesso deve, quindi, essere finalizzata alla
tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il
richiedente è portatore [10].
Si osserva, inoltre, che, come rilevato dalla giustizia
amministrativa, 'deve pur sempre sussistere un legame tra
finalità dichiarata e documento richiesto, con la
conseguenza che il titolare deve esternare non solo le
ragioni per cui intende accedere ma, soprattutto, la
coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui
realizzazione il diritto di accesso è preordinato'
[11].
L'amministrazione deve appurare che le motivazioni formulate
dall'istante non siano manifestamente pretestuose,
irrazionali o incongruenti con le finalità che mira a
perseguire mediante l'esercizio del diritto di accesso
secondo un giudizio di verosimiglianza. L'ente deve
verificare, in altri termini, l'attitudine dell'acquisizione
dei contenuti dell'atto o documento in astratto a realizzare
un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata, come richiesto dalla
normativa vigente, mettendo in relazione logica e
consequenziale la prospettazione di parte e il documento
richiesto. La motivazione dell'istanza deve essere in
sintonia con gli obiettivi che si mira a realizzare mediante
l'accesso, secondo un giudizio a priori di plausibilità
[12].
Ed, invero, per la giurisprudenza, l'articolo 22, legge
241/1990, 'deve correlarsi ad un interesse qualificato,
che giustifichi la cognizione di determinati documenti, onde
l'accesso agli atti della p.a. è consentito soltanto a
coloro cui gli atti stessi, direttamente o indirettamente,
si rivolgano e che se ne possano eventualmente avvalere per
la tutela di una posizione soggettiva la quale, anche se non
assurta alla consistenza dell'interesse legittimo o del
diritto soggettivo, deve comunque essere giuridicamente
tutelata, non essendo consentito identificarla con il
generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon
andamento dell'attività amministrativa (v. art. 97, Cost.)'
[13].
All'instante, è quindi, richiesta una 'doverosa
specificazione' [14]
dell'interesse correlato all'accesso.
Ed, inoltre, 'la domanda di accesso non può essere
palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse
conoscitivo del soggetto, che deve specificare il puntuale
riferimento che lega il documento richiesto alla propria
posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela'
[15].
Del resto, il diritto di accesso esercitato attraverso
un'istanza priva di motivazione e in cui è, quindi, assente
un collegamento diretto con specifiche situazioni
giuridicamente rilevanti, si configura come un'azione
popolare, al fine di praticare una sorta di sorveglianza
generale nei confronti della conduzione del potere pubblico
e al fine di verificare il buon andamento dell'ente
[16]. La
domanda di accesso non può, pertanto, essere un mezzo per
compiere un'indagine o un controllo ispettivo, attività cui
sono ordinariamente preposti organi pubblici
[17].
Deve, invero, escludersi che la disciplina sull'accesso ai
documenti amministrativi, in quanto volta a tutelare
l'interesse alla conoscenza di determinati atti, possa
consentire un controllo generico sull'attività dell'ente
[18],
finalizzato a una verifica, in via generale, della
trasparenza e legittimità dell'azione amministrativa, dal
momento che, correlativamente all'esercizio del diritto alla
conoscenza degli atti, sussiste la legittima pretesa
dell'ente a non subire intralci alla propria attività
istituzionale, possibili in ragione della presentazione di
istanze tali da produrre un appesantimento dell'operato
pubblico, in contrasto con i canoni fondamentali
dell'efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa
[19],
declinazione di quel principio di buon andamento degli
uffici pubblici sancito nell'articolo 97 della Costituzione.
La giustizia amministrativa ha rimarcato che l'istante deve
possedere una posizione differenziata rispetto all'interesse
generico di ogni cittadino a conoscere l'attività dei
pubblici poteri, altrimenti l'istanza si risolve in una
indagine e verifica della mera legittimità dell'attività
della pubblica amministrazione, lungi dall'essere funzionale
alla salvaguardia di un interesse giuridico protetto
[20].
Se, quindi, un'istanza priva di motivazione appare
preordinata ad una verifica generalizzata nei confronti
dell'esercizio del potere pubblico, così, in relazione alla
fattispecie prospettata nel quesito oggi in esame, anche la
domanda di accesso del dipendente dell'ente, in quanto
riferentesi a tutti gli atti di autorizzazione delle ferie
adottati dalla pubblica amministrazione nell'estate 2014,
sembra tradursi in un'azione di tipo ispettivo e di
controllo diffuso, da parte del soggetto instante, verso
l'opera dell'ente.
Si evidenzia, infine sul punto, che, secondo la Commissione
per l'accesso ai documenti amministrativi, non deve essere
concesso l'accesso ai decreti di autorizzazione del periodo
di ferie, perché 'non essendo chiaro quale sia il
collegamento tra tali documenti e l'interesse vantato
dall'istante, tale richiesta si traduce in un controllo
generalizzato sull'operato dell'amministrazione
espressamente vietato ai sensi dell'articolo 24, comma
terzo, della legge 241/1990, nel testo novellato
dall'articolo 16 della legge 15/2005'
[21].
c) Come già anticipato, l'istanza di accesso, oggetto del
quesito in analisi, pone anche delle problematiche in ordine
alla tutela della riservatezza dei soggetti terzi
controinteressati (possono esservi, invero, soggetti
controinteressati all'accesso: nel caso in esame, i
dipendenti dell'ente che hanno goduto delle ferie nel
periodo estivo dell'anno 2014) [22].
Tale situazione si verifica nei casi in cui l'ostensione o
la riproduzione dell'atto o documento siano potenzialmente
lesive del diritto alla riservatezza altrui. Al riguardo, si
rammenta che il diritto di accesso ai documenti
amministrativi è posto a garanzia della trasparenza ed
imparzialità degli enti pubblici [23]
e che, per regola generale, l'amministrazione detentrice di
documenti, direttamente riferibili alla tutela di un
interesse personale e concreto, non può limitare il diritto
di accesso, se non per motivate esigenze di riservatezza
[24] o
segretezza.
Il limite della riservatezza attribuisce rilievo
all'interesse privatistico a che sia mantenuto il riserbo in
ordine a vicende che coinvolgono la sfera personale,
determinandosi una tensione tra esigenze contrapposte,
risolta attraverso un bilanciamento di interessi.
All'infuori dei casi di esclusione, specificamente tipizzati
in sede legislativa o regolamentare, il diritto di accesso
può, dunque, essere sacrificato in relazione alla possibile
lesione, non consentita dall'ordinamento ovvero non
giustificata o controbilanciata da interessi di pari rango,
del diritto alla riservatezza che attiene alla sfera
personale di soggetti terzi, più o meno intensamente e più o
meno direttamente garantita dalla legge.
Anche in relazione al limite della riservatezza, è, dunque,
evidente l'importanza della motivazione dell'istanza di
accesso, assunta a parametro di valutazione da parte
dell'amministrazione. Si tratta, precisamente, della
necessità che il richiedente l'ostensione degli atti
specifichi con esattezza quale obiettivo si propone di
realizzare mediante l'apprendimento dei dati contenuti nella
documentazione indicata nella sua istanza. Ciò, fra l'altro,
consente (sia all'amministrazione sia, eventualmente, al
giudice) di valutare con precisione se l'interesse alla
conoscenza dell'atto o documento sia dotato di un fondamento
giuridico sufficientemente forte da consentirgli, in caso di
conflitto, di prevalere sul diritto alla riservatezza altrui
[25].
Si evidenzia, inoltre, che, nel caso in esame, il dipendente
che ha formulato l'istanza di accesso invoca la necessità di
attestare l'imparzialità e la correttezza dell'operato
dell'amministrazione. Al riguardo, si sottolinea che, per la
giurisprudenza amministrativa, è legittimo il provvedimento
con il quale, ritenendo inesistente un interesse
differenziato, concreto ed attuale rispetto alla situazione
giuridica da tutelare, il Comune ha rigettato una istanza
ostensiva, ove detta istanza sia stata avanzata al fine di
verificare eventuali disparità di trattamento poste in
essere dalla pubblica amministrazione rispetto ad altre
similari richieste [26].
In tal caso, infatti, l'istanza di accesso deve ritenersi
inammissibile, in quanto proposta allo scopo di effettuare
un controllo generalizzato sull'azione amministrativa. In
definitiva, sembra che l'istanza di accesso agli atti,
piuttosto che poggiare su un interesse concreto ed attuale
all'ostensione, risulti piuttosto finalizzata all'esercizio
di un controllo di carattere generalizzato sull'operato
dell'amministrazione.
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[1] Il comma citato statuisce: 'non sono ammissibili
istanze di accesso preordinate a un controllo generalizzato
dell'operato delle pubbliche amministrazioni'.
[2] La pubblica amministrazione, ricevuta una richiesta di
accesso, può: - declinarla per inammissibilità nell'ipotesi
che essa sia avanzata in assenza dei presupposti richiesti
dalla normativa perché si possa procedere all'esame della
pretesa nel merito (ad esempio, perché totalmente priva di
motivazione); - respingerla, se la stessa afferisce ad atti
inaccessibili, stante la prevalenza dell'interesse alla
riservatezza di terzi su quello della pubblicità; -
limitarla; - differirla; - accoglierla ove non vi siano
ragioni soggettive od oggettive, la cui sussistenza sia
indispensabile a seconda dei casi, per respingerla,
limitarla o differirla, rendendo operante, in tal modo, i
principi di pubblicità e trasparenza dell'attività
amministrativa sanciti, come regola generale, dall'articolo
1, comma 1, delle legge 241/1990. Si legga, al riguardo, S.
Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto di
accesso agli atti e documenti amministrativi', Giurisdizione
Amministrativa, n. 10, ottobre 2012, 395-396.
[3] Le motivazioni allegate all'istanza sono strumentali
alla verifica dell'ammissibilità della richiesta da parte
dell'amministrazione destinataria. Vi sono alcuni
presupposti che devono sussistere preventivamente affinché
possa essere presa in considerazione l'istanza di accesso.
Tra questi, oltre all'esistenza materiale del documento, la
motivazione della richiesta e la sussistenza di uno scopo
non riconducibile a fini di controllo generalizzato
dell'operato della pubblica amministrazione. Si legga S.
Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto di
accesso ... ', cit., 394.
[4] Articolo 25, comma 2, della legge 241/1990. La regola
della motivazione dell'istanza di accesso ha portata ampia e
carattere generale.
[5] Si legga l'articolo 24, comma 3, della legge 241/1990.
[6] Sulla nozione di interesse diretto e sulla
giurisprudenza e dottrina sviluppatesi al riguardo, si
rinvia alla lettura del parere datato 20.02.2015, protocollo
n. 4134 (in particolare, nota n. 11), pubblicato, dallo
scrivente, nella banca dati reperibile all'indirizzo
internet http://autonomielocali.regione.fvg.it
[7] Interesse concreto indica un interesse non ipotetico,
finalizzato, non immaginario, non esistente solo nella mente
dell'accedente. Proprio per assicurare la finalizzazione
della domanda di accesso alla sussistenza di un interesse
concreto, che non può ravvisarsi nel generico, comune
interesse alla trasparenza dell'azione amministrativa,
l'istanza deve essere motivata con riferimento a detto
interesse (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV,
sentenza del 11.01.1994, n. 8). Altrimenti, si
configurerebbe la fattispecie del controllo generalizzato
dell'attività amministrativa cui fa esplicito riferimento
l'articolo 24, legge 241/1990 (si veda Consiglio di Stato,
sez. VI, sentenza del 22.11.2012, n. 5936). Ai sensi della
disposizione da ultimo citata e al fine di tutelare la
pubblica amministrazione da richieste inutili, la
concretezza deve, quindi, tendere, principalmente, ad
escludere accessi 'esplorativi'.
[8] Si veda l'articolo 22, comma 1, lettera b), della legge
241/1990.
[9] Si legga il parere formulato dallo scrivente, datato
26.03.2014, consultabile nella banca dati di cui
all'indirizzo internet http://autonomielocali.regione.fvg.it
[10] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 30.09.1998,
n. 1346. Si legga anche Tar Toscana, Firenze, sez. II,
sentenza del 03.07.2009, n. 1184: 'Il diritto di accesso
previsto dall'art. 22, l. n. 241 del 1990, non ha introdotto
nell'ordinamento una sorta di azione popolare ispettiva nei
confronti della P.A., ma ha voluto porre a disposizione di
ogni cittadino uno strumento per superare la barriera della
riservatezza degli atti di ufficio al fine di tutelare
comunque i propri interessi; tuttavia l'espressione
normativa "tutela degli interessi", non deve essere intesa
solo come finalizzazione dell'accesso ad un ricorso
giurisdizionale, ma secondo un nesso inscindibile tra i
documenti richiesti e la verifica della eventuale lesione di
un proprio interesse qualificato: ne consegue che se, da un
lato, è escluso l'accesso a meri fini ispettivi, dall'altro
esso è ammesso anche quando il richiedente non assume di
volere verificare un preciso e determinato vizio degli atti
al fine della impugnativa, ma solo prospetti il proprio
interesse, purché concreto e qualificato, alla regolarità
della procedura in questione'.
[11] In tal senso, si legga Tar Ancona, sentenza del
30.03.2005, n. 274.
[12] La sufficienza della motivazione formulata nell'istanza
stessa deve essere valutata caso per caso, potendosi
ritenere le motivazioni in re ipsa nelle ipotesi in cui
appaiano ictu oculi desumibili dall'atto o documento
richiesto in visione. La richiesta di accesso deve essere
tarata sulle singole situazioni con la conseguenza che le
ragioni a fondamento della domanda, anche se non enunciate
espressamente dall'interessato nella motivazione, possono
emergere dai rapporti intercorsi o intercorrenti tra costui
e l'amministrazione.
Ciò si verifica ad esempio allorché l'instante sia il
destinatario di un provvedimento sfavorevole e sia
intenzionato ad accedere agli atti del relativo
procedimento. In tali evenienze è evidente l'intento del
richiedente l'accesso di acquisire elementi utili per
tutelare la sua posizione, eventualmente anche in sede
giurisdizionale. Si veda, ad esempio, TAR Calabria,
Catanzaro, sez II, sentenza del 23.07.2009, n. 814. Si legga
ancora S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto
di accesso ... ', cit., 394.
[13] Tar Emilia Romagna, Parma, sez. I, sentenza del
09.02.2010, n. 52. Si veda anche Consiglio di Stato, sez. IV,
sentenza del 03.08.2010, n. 5173, ove si legge: 'La
legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa
dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso
abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla
lesione di una posizione giuridica'.
Si legga pure Tar Lazio, Roma, sez. I, sentenza del
05.05.2010, n. 9766: 'Ai sensi dell'art. 22, l. n. 241 del
1990, il diritto di accesso è riconosciuto a chiunque vi
abbia interesse, ricollegando siffatto interesse
all'esigenza di tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti. Per aversi un interesse qualificato ed una
legittimazione ad accedere alla documentazione
amministrativa è necessario trovarsi in una posizione
differenziata ed avere una titolarità di posizione
giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un
diritto soggettivo o di un interesse legittimo - ossia
posizioni giuridiche soggettive piene e fondate - ma di una
posizione giuridica soggettiva allo stato anche meramente
potenziale. Tale limite è dato dalla necessità di evitare
che l'accesso si trasformi in azione popolare, poiché il
diritto di accesso ai documenti dell'Amministrazione non può
essere trasformato in uno strumento di controllo popolare di
tipo ispettivo o esplorativo, utilizzabile al solo scopo di
sottoporre a verifica generalizzata l'operato
dell'Amministrazione'.
[14] Così, Tar Puglia, Lecce, Sez. II, sentenza
dell'11.04.2011, n. 647.
[15] Si confronti, sul punto, Tar Molise, sez. I, sentenza
del 09.12.2010, n. 1528.
[16] Il menzionato principio, di origine giurisprudenziale,
è stato recepito, nell'articolo 24, comma 3, della legge 241
dal legislatore del 2005 - che, con la legge 11.02.2005, n.
15, ha, parzialmente, riformato la disciplina del diritto di
accesso.
[17] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 29.04.2002,
n. 2283; Tar Lazio, sez. II, sentenza del 22.07.1998, n.
1201 (resa sulla domanda di accesso del Codacons, mirante a
prendere conoscenza di tutto il materiale -reclami, denunce,
provvedimenti disciplinari, spese per risarcimento- inerente
a casi di smarrimento o furto verificatisi in occasione di
spedizioni postali nell'arco di più anni).
[18] Si legga anche il parere della Commissione per
l'accesso, datato 25.01.2005: 'Sono inammissibili le istanze
di accesso motivate in termini generici, senza dare adeguata
evidenza alla natura dell'interesse che radica il diritto di
accesso'. La preoccupazione per istanze generiche è evidente
ed emerge anche dal tenore della circolare datata 08.03.2006
emanata dal Ministero della Giustizia: 'le richieste non
possono essere generiche ma devono consentire
l'individuazione del documento cui si vuole accedere'. In
dottrina, si legga M. Scanniello, 'Il diritto di accesso
alla documentazione amministrativa. Commentario
sistematico'.
[19] Si veda Tar Lazio, Roma, sez. I, sentenza del
13.12.2011, n. 9709, tratta da F. Palazzi (a cura di),
'L'interesse ad accedere ai documenti della p.a. nella
recente giurisprudenza amministrativa', Comuni d'Italia,
3/2013. Tra i precedenti conformi, si vedano, ex plurimis:
Consiglio di Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8287;
15.09.2010, n. 6899; 05.10.2001, n. 5291; sez. VI,
12.01.2011, n. 116; 28.09.2010, n. 7183; 11.05.2007 n. 2314;
TAR Lazio, Roma, sez. II, 14.03.2011, n. 2260.
[20] Si veda Tar Emilia-Romagna, Parma, sez. I, sentenza
04.10.2011, n. 328, tratta da F. Palazzi (a cura di),
'L'interesse ad accedere ai documenti della p.a. ... ', cit.
. Si segnala che, per la dottrina, si è di fronte ad una
pretesa di controllo generalizzato anche quando la richiesta
di accesso è sorretta sì da un interesse individuale
puntuale ma, non di meno, per la mole dei documenti
richiesti -nella specie tutte le autorizzazioni
paesaggistiche rilasciate dal Comune- l'accesso si traduce,
di fatto, in un controllo diffuso e di tipo ispettivo
sull'operato dell'amministrazione. P.M. Zerman, 'Il
Consiglio di Stato detta le regole per coniugare accesso e
privacy', Diritto e pratica amministrativa, aprile 2011 - n.
4, 31.
[21] Si tratta della decisione adottata nella seduta del
16.03.2010, avente ad oggetto un'istanza di accesso
formulata da un genitore rispetto ai decreti di
autorizzazione delle ferie spettanti agli insegnanti
dell'istituto scolastico statale frequentato dalla figlia.
[22] La nozione di controinteressato, che si ricava dalla
legge generale sul procedimento amministrativo, concerne
tutti 'i soggetti, individuati o facilmente individuabili in
base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio
dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza' (articolo 22, comma 1, lettera c, legge
241/1990).
[23] Ai sensi dell'articolo 22, comma 2, legge 241/1990
'L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e
la trasparenza'.
[24] Si legga Tar Lazio, Roma, sez. III, sentenza del
05.11.2009, n. 10838. Il limite principale al diritto di
accesso è, quindi, costituito dalla riservatezza, oltre che
dalla segretezza, nei casi previsti dalla legge, al fine di
tutelare interessi pubblici generali. Ai sensi dell'articolo
24, comma 7, legge 241/1990, il limite della riservatezza
può essere superato, a favore dell'accessibilità degli atti,
soltanto per esigenze di cura e tutela dei propri diritti da
parte dell'istante. Il diritto di accesso può trovare un
limite solo in specifiche e tassative esigenze di
riservatezza di terzi.
[25] Si legga S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del
diritto di accesso ... ', cit., 391-406.
Sul rapporto tra accesso e riservatezza, si rimanda alla
lettura del parere n. 1265/2015, pubblicato, dallo
scrivente, nella già citata banca dati, ove è specificato
che, quando, come nel caso oggi in esame, sono coinvolti
dati personali di soggetti terzi, i documenti richiesti
devono essere necessari alla tutela del proprio interesse.
[26] Si legga Tar Campania, Salerno, sentenza del
03.03.2015, inerente un'ipotesi di diniego di accesso ad un
permesso di costruire rilasciato a terzi, ove l'istanza
ostensiva sia finalizzata a verificare eventuali vizi di
disparità di trattamento con altre similari richieste di
rilascio di atto di assenso edificatorio.
In materia di accesso, giustificato da esigenze connesse a
disparità di trattamento, deve stimarsi condivisibile
l'approdo giurisprudenziale secondo il quale, allorquando la
richiesta di accesso sia motivata dall'interesse a dedurre
il vizio di disparità di trattamento, non ricorre il
presupposto della necessità per la difesa in giudizio di cui
all'articolo 24, settimo comma, della legge 241/1990, il
quale postula che vi sia già una lesione concreta ed attuale
degli interessi giuridici e non consente al richiedente di
avviare un'indagine esplorativa alla ricerca di tale
specifico vizio, senza averne alcuna prova. In un'evenienza
del genere, in cui il richiedente vuole conoscere un numero
indeterminato di pratiche amministrative riguardanti terzi,
al fine di compiere un'investigazione per la ricerca di un
vizio dell'agire amministrativo, nella mediazione tra
diritto di difesa e diritto alla privacy, si deve ritenere
che manca la rigorosa necessità dei documenti per la difesa
in giudizio.
Nella specie, l'ente ha denegato l'accesso ravvisando
l'inesistenza di un interesse differenziato, concreto ed
attuale alla situazione giuridica da tutelare, che il
giudice amministrativo ha reputato fondata, ravvisandosi
piuttosto l'ipotesi del controllo generalizzato sull'azione
amministrativa. Deve osservarsi che la mancata visione dei
documenti non priva il ricorrente del diritto di difesa,
potendo il ricorso essere proposto sulla base di altre
censure e potendo, altresì, essere dedotto il vizio di
eccesso di potere per disparità di trattamento in base ai
dati già a disposizione, salvo chiedere al giudice un ordine
di esibizione di atti, a seguito dei quali articolare motivi
aggiunti.
L'interesse che il ricorrente assumeva di voler tutelare
riguardava la verifica di un'ipotetica disparità di
trattamento (in materia di rilascio di permessi di
costruire), per cui l'accesso agli atti non poteva arrecare
alcun presidio all'esigenza di tutelare in giudizio i propri
interessi, dato che l'eventuale illegittimità permessa a
terzi non giustifica alcun ulteriore provvedimento
illegittimo della pubblica amministrazione
(29.04.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di alcuni consiglieri comunali facenti
parte, a vario titolo, di un'associazione di volontariato.
1) Per i consiglieri comunali che
rivestono, altresì, la carica, rispettivamente, di
Presidente, Segretario, Tesoriere e membro del Consiglio
direttivo di un'associazione di volontariato, che riceve
contributi in denaro da parte dell'amministrazione comunale,
potrebbe sussistere la causa di incompatibilità prevista
dall'art. 63, c. 1, n. 1), del D.Lgs. 267/2000, nella parte
in cui dispone che non può ricoprire la carica di
consigliere comunale l'amministratore o il dipendente con
poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente,
istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Sotto il profilo soggettivo, atteso il diverso ruolo svolto
dai singoli consiglieri all'interno dell'associazione si
deve valutare, per ciascuno di essi, se rientrino o meno
nella nozione di amministratore o in quella di dipendente
con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
2) L'organo competente a pronunciarsi sull'esistenza o meno
delle cause di incompatibilità è il consiglio comunale in
applicazione della procedura contenuta nell'articolo 69 del
D.Lgs. 267/2000.
Il Consigliere comunale chiede di conoscere un parere in
merito alla possibile insorgenza di cause di incompatibilità
per alcuni amministratori comunali che vorrebbero costituire
una associazione di volontariato che potrebbe ricevere
contributi da parte del Comune. In particolare, essi
rivestirebbero, rispettivamente, il ruolo di Presidente,
Segretario, Tesoriere e membro del Consiglio direttivo della
costituenda associazione. Nel quesito si chiede, altresì,
quale sia l'organo competente a pronunciarsi sull'esistenza
o meno delle cause di incompatibilità e se vi sia un obbligo
o una mera facoltà da parte dello stesso di rilevare un
tanto.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti
considerazioni.
Con riferimento alla fattispecie in esame potrebbe venire in
rilievo la causa di incompatibilità prevista dall'articolo
63, comma 1, n. 1), seconda parte, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, ai sensi del quale non può ricoprire la
carica di consigliere comunale l'amministratore o il
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento
di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Requisito oggettivo per l'insorgenza dell'indicata causa di
incompatibilità è che l'associazione riceva dal comune una
sovvenzione, consistente in un'erogazione continuativa a
titolo gratuito, volta a consentire all'ente sovvenzionato
di raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le
finalità in vista delle quali è stato costituito. Tale
sovvenzione deve possedere tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve
essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento
finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo,
ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte
facoltativo. Per ulteriori considerazioni chiarificatrici di
tale elemento si rinvia al parere rilasciato da questo
Ufficio in data 31.12.2014 (Prot. n. 33168), citato dal
consigliere che ha posto il quesito;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve
essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per
cento del totale delle entrate annuali dell'ente
sovvenzionato.
Quanto al requisito soggettivo richiesto dall'articolo 63,
comma 1, num. 1), TUEL, esso consiste nel fatto che
l'amministratore comunale ricopra, all'interno
dell'associazione, il ruolo di amministratore o di
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
Atteso che i consiglieri comunali rivestirebbero,
all'interno dell'associazione, rispettivamente, il ruolo di
Presidente, Segretario, Tesoriere e membro del Consiglio
direttivo dell'associazione si forniscono alcune
considerazioni specifiche per le singoli fattispecie
contemplate.
In particolare, quanto al Presidente non sembra dubbia la
sua ascrivibilità tra gli amministratori dell'associazione.
Con riferimento alla figura del segretario e del tesoriere,
bisognerà in primo luogo verificare, alla luce delle
previsioni statutarie, se gli stessi siano, giuridicamente,
dipendenti o meno dell'associazione. [1]
In caso di risposta positiva si tratta, in subordine, di
valutare se, per lo svolgimento delle loro mansioni, vi sia
esplicazione di poteri di rappresentanza o di coordinamento
in seno all'associazione. Fermo rimanendo che una tale
valutazione potrà compiersi solo alla luce di quanto
previsto negli accordi statutari, pare che tanto le funzioni
del segretario [2]
quanto quelle del tesoriere [3]
non dovrebbero di norma comportare l'esplicazione di poteri
di rappresentanza né di coordinamento. [4]
Per quanto concerne i consiglieri comunali membri del 'Consiglio
direttivo', si tratterà di verificare se sia possibile
ricomprendere gli stessi nella nozione legislativa di
'amministratore' contemplata dall'articolo 63 del TUEL, in
ordine alla quale è prevista la causa di incompatibilità in
argomento. Si ritiene che tale valutazione debba essere
effettuata considerando la situazione concreta, in relazione
a quanto previsto nelle clausole statutarie
dell'associazione: si rileva comunque al riguardo che, di
norma, i membri dell'esecutivo svolgono funzioni sussumibili
tra quelle proprie dell'organo di amministrazione, con
conseguente configurarsi dell'incompatibilità in esame,
nella sussistenza degli altri requisiti richiesti dalla
legge.
Passando a trattare della questione relativa
all'individuazione dell'organo competente a pronunciarsi
sull'esistenza o meno delle cause di incompatibilità si
rileva che esso si identifica nel consiglio comunale. Si
ricorda, in via generale, che è principio di carattere
generale del nostro ordinamento giuridico che gli organi
collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione
dei propri componenti.
Mentre in sede di esame di condizione degli eletti (articolo
41 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267) è attribuito
al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei
confronti dei propri membri esistano condizioni ostative
all'esercizio delle funzioni, qualora la causa di
incompatibilità insorga successivamente all'elezione deve
essere attivato il procedimento di contestazione secondo la
procedura contenuta nell'articolo 69 del D.Lgs. 267/2000.
[5]
In particolare, il consiglio comunale, nel momento in cui
viene a conoscenza del verificarsi di una situazione
prevista dalla legge come causa di incompatibilità, è tenuto
a contestarla, ai sensi dell'art. 69, comma 1,
all'amministratore interessato, al quale tuttavia è
riconosciuto il diritto di formulare osservazioni per
dimostrarne l'insussistenza o, in ogni caso, un termine
adeguato per procedere alla rimozione della stessa (comma
2). Il consiglio comunale, qualora reputi che le
osservazioni presentate dall'amministratore non siano
sufficienti ad escludere l'incompatibilità, ne delibera
definitivamente la sussistenza ed invita il consigliere ad
eliminarla (comma 4): nel caso in cui lo stesso non vi
provveda, il consiglio deve dichiararne la decadenza (comma
5).
Si evidenzia al riguardo che, in sede di accertamento della
situazione di supposta incompatibilità, il consiglio
comunale può valutare, in base agli elementi acquisiti ed
anche con riferimento alle argomentazioni svolte
dall'interessato, che nella concreta fattispecie non
sussistono le condizioni che sarebbero astrattamente indice
dell'esistenza di un'incompatibilità: in tal caso, l'organo
consiliare delibera definitivamente (comma 4), con adeguata
motivazione, l'insussistenza della causa di incompatibilità
inizialmente contestata.
Una tale motivazione sarà astrattamente difficilmente
adottabile solo nei casi di obiettiva ed univoca sussistenza
dei requisiti richiesti. [6]
Si osserva, infine, come 'la disciplina delle
incompatibilità si pone quale inderogabile limite di ordine
pubblico a rispetto della volontà elettorale, rispondendo
alla fondamentale esigenza dell'Ordinamento democratico a
che siano evitate situazioni, anche potenziali, di conflitto
di interesse, ovvero indebite sovrapposizioni fra ruoli
istituzionali distinti, discendendone quale conseguenza, in
caso di mancata tempestiva rimozione della causa, la
-definitiva- decadenza dal pubblico ufficio'.
[7]
Anche in considerazione della indicata ratio sottesa
all'istituto delle incompatibilità la deliberazione di cui
all'articolo 69 TUEL, oltre ad essere adottata d'ufficio,
può essere promossa, altresì, su istanza di qualsiasi
elettore (articolo 69, comma 7, D.Lgs. 267/2000). Inoltre,
la decadenza dalla carica di consigliere comunale per
incompatibilità può essere promossa attraverso l'azione
popolare di cui all'articolo 70, comma 1, TUEL, il quale
recita: 'La decadenza dalla carica di sindaco, presidente
della provincia, consigliere comunale, provinciale o
circoscrizionale può essere promossa in prima istanza da
qualsiasi cittadino elettore del comune, o da chiunque altro
vi abbia interesse davanti al tribunale civile'.
---------------
[1] Al riguardo, si precisa che le associazioni di
volontariato possono assumere lavoratori dipendenti
(articolo 3, comma 4, della legge 11.08.1991, n. 266), ma
non potrebbero essere tali i volontari aderenti
all'associazione (articolo 2, comma 3, legge 266/1991).
[2] Tendenzialmente rientrano tra i compiti del segretario
dell'associazione l'estensione, la sottoscrizione e
l'eventuale custodia dei verbali dell'Assemblea dei soci; la
tenuta aggiornata del libro soci e di altri eventuali
registri dell'associazione.
[3] Tendenzialmente è compito del tesoriere tenere,
controllare e aggiornare i libri contabili, conservando la
documentazione che ad essi sottende, curare la gestione
della cassa dell'associazione, predisporre i bilanci.
[4] Per completezza espositiva, si segnala che, per il
verificarsi della causa di incompatibilità in riferimento è
richiesto che il dipendente abbia poteri di rappresentanza
o, in alternativa, di coordinamento. Ratio della norma è
evitare che l'amministratore rivesta, al contempo, il ruolo
di controllore e di controllato del proprio operato.
Significativa, al riguardo, è la sentenza della Cassazione
civile, sez. I, del 20.11.2004, n. 21942.
Potrebbe, altresì, verificarsi il caso che siano nominati
segretario e/o tesoriere alcuni componenti del consiglio
direttivo dell'associazione. In tal caso, atteso che gli
stessi rivestirebbero, nel contempo, il ruolo di membro del
direttivo, valgono le considerazioni che saranno espresse
nel prosieguo in relazione a tale figura.
[5] Recita l'articolo 69 TUEL: '1. Quando successivamente
alla elezione si verifichi qualcuna delle condizioni
previste dal presente capo come causa di ineleggibilità
ovvero esista al momento della elezione o si verifichi
successivamente qualcuna delle condizioni di incompatibilità
previste dal presente capo il consiglio di cui l'interessato
fa parte gliela contesta. 2. L'amministratore locale ha
dieci giorni di tempo per formulare osservazioni o per
eliminare le cause di ineleggibilità sopravvenute o di
incompatibilità. 3. Nel caso in cui venga proposta azione di
accertamento in sede giurisdizionale ai sensi del successivo
articolo 70, il termine di dieci giorni previsto dal comma 2
decorre dalla data di notificazione del ricorso. 4. Entro i
10 giorni successivi alla scadenza del termine di cui al
comma 2 il consiglio delibera definitivamente e, ove ritenga
sussistente la causa di ineleggibilità o di incompatibilità,
invita l'amministratore a rimuoverla o ad esprimere, se del
caso, la opzione per la carica che intende conservare. 5.
Qualora l'amministratore non vi provveda entro i successivi
10 giorni il consiglio lo dichiara decaduto. Contro la
deliberazione adottata è ammesso ricorso giurisdizionale al
tribunale competente per territorio. 6. La deliberazione
deve essere, nel giorno successivo, depositata nella
segreteria del consiglio e notificata, entro i cinque giorni
successivi, a colui che è stato dichiarato decaduto. 7. Le
deliberazioni di cui al presente articolo sono adottate di
ufficio o su istanza di qualsiasi elettore'.
[6] Interessante, al riguardo, è il parere dell'ANCI, del 1
aprile 2010, ove si afferma che: «appare evidente che il
consiglio comunale assumerà la propria decisione in base
alle conclusioni conseguenti agli accertamenti effettuati:
nel caso di accertamento della sussistenza della causa di
incompatibilità, dovrebbe essere tenuto a dichiararla e
provvedere ad invitare il sindaco a 'rimuovere la causa od
optare per la carica che intende conservare'. [...] ove,
invece, il consiglio comunale avesse ritenuto non esistente
(non possiamo individuare astrattamente con quali
motivazioni) la causa di incompatibilità, avrebbe dovuto
deciderlo nella precedente fase deliberativa, rigettando la
proposta».
[7] TAR Lazio Roma, sezione II, sentenza del 23.02.2015, n.
1443
(28.04.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Scomputo del costo di costruzione.
DOMANDA:
Questa Amministrazione Comunale deve procedere all’adozione
di un Programma Integrato di Intervento conforme alle
disposizione del Piano di Governo del Territorio.
Il P.I.I. in questione prevede, quale standard qualitativo,
la realizzazione di alcuni posti auto interrati pubblici,
con relative strutture e rampa di accesso, il cui valore
complessivo desunto dal computo metrico estimativo allegato
è stimato in € 387.864,65.
Contestualmente l’operatore ha proposto di scomputare da
tale importo gli oneri di urbanizzazione primaria e gli
oneri di urbanizzazione secondaria, il cui importo è di
circa 36.396,00 € in virtù della realizzazione diretta
dell’opera pubblica suddetta. A ciò si aggiunge un’ulteriore
richiesta da parte dell’operatore volta allo scomputo del
Costo di Costruzione per un importo indicativo di 70.000 €.
Ciò posto si chiede un parere sulla legittimità della
richiesta di scomputo del costo di costruzione, in virtù
delle opere eseguite dal proponente il P.I.I. e dello
standard qualitativo proposto.
RISPOSTA:
La lett. g) del comma 1 dell’art. 32 del codice dei
contratti pubblici prevede che “i lavori pubblici da
realizzarsi da parte dei soggetti privati, titolari di
permesso di costruire, che assumono in via diretta
l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale
o parziale del contributo previsto per il rilascio del
permesso, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto
del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e
dell'articolo 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150.
L'amministrazione che rilascia il permesso di costruire può
prevedere che, in relazione alla realizzazione delle opere
di urbanizzazione, l'avente diritto a richiedere il permesso
di costruire presenti all'amministrazione stessa, in sede di
richiesta del permesso di costruire, un progetto preliminare
delle opere da eseguire, con l'indicazione del tempo massimo
in cui devono essere completate, allegando lo schema del
relativo contratto di appalto. L'amministrazione, sulla base
del progetto preliminare, indice una gara con le modalità
previste dall'articolo 55. Oggetto del contratto, previa
acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta,
sono la progettazione esecutiva e le esecuzioni di lavori.
L'offerta relativa al prezzo indica distintamente il
corrispettivo richiesto per la progettazione definitiva ed
esecutiva, per l'esecuzione dei lavori e per gli oneri di
sicurezza”.
A sua volta il comma 2 del cit. art. 16 dispone che “la
quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è
corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di
costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere
rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta,
il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto
dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e
successive modificazioni, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle
opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
Infine il comma 5 dell’art. 28 della n. 1150/1942 stabilisce
che “L'autorizzazione comunale è subordinata alla stipula
di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario,
che preveda:
1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle
aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
precisate dall'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché
la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n.
2;
2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri
relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una
quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria
relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano
necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la
quota è determinata in proporzione all'entità e alle
caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve
essere ultimata l'esecuzione delle opere di cui al
precedente paragrafo;
4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli
obblighi derivanti dalla convenzione”.
Le normative vigenti prevedono e consentono dunque lo
scomputo solo in relazione alla parte di contributo relativa
alle opere di urbanizzazione e non anche alla parte
afferente al cd. costo di costruzione.
Trattandosi peraltro di due componenti diverse del
contributo (come affermato anche dall’ANAC con il parere AG
32/2011 il contributo consiste di due parti: “una
parte, di natura contributiva, afferente alle spese per
l’urbanizzazione del territorio, che costituisce una
modalità di concorso del privato costruttore agli oneri
sociali derivanti dall’incremento del carico urbanistico;
una parte, di natura impositiva, che deriva dall’aumento
della capacità contributiva del titolare dell’opera, in
ragione dell’aumento del proprio patrimonio immobiliare”.
Anche la giurisprudenza ha più volte chiarito del resto che
“il contributo sul costo di costruzione consiste in una
prestazione patrimoniale ascrivibile alla categoria dei
tributi locali, in quanto il prelievo non si basa, come nel
caso degli oneri di urbanizzazione, sui costi collettivi
derivanti dall’insediamento di un nuovo edificio ma
sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato
dall’intervento edilizio” (TAR Lombardia, Brescia, II,
25.03.2011, n. 469).
Diversamente gli oneri di urbanizzazione sono considerati “corrispettivi
di diritto pubblico” (Tar Reggio Calabria, I,
06.04.2011, n. 260) e sono dovuti in ragione dell’obbligo
del privato di partecipare ai costi delle opere di
trasformazione del territorio (Cons. Stato, V, 23.01.2006,
n. 159), si è dell’avviso che lo scomputo sia ammissibile
solo in relazione al valore relativo alla parte concernente
gli oneri di urbanizzazione (esclusivo riferimento a tali
oneri è contenuto inoltre anche all’art. 45 della LR
Lombardia n. 12/2005) (link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI:
Il fascicolo di gara virtuale.
DOMANDA:
Si chiede se alla luce delle recenti disposizioni dettate
dalla AVCPAS, si ha l'obbligo di chiedere agli operatori
economici il PASSOE tra i documenti amministrativi da
esibire trattandosi di gara con importo al di sotto dei
40.000 euro.
Ove e qualora previsto tale requisito, la stazione
appaltante lo deve indicare nel bando o nella lettera di
invito in caso di procedura ristretta?
RISPOSTA:
L'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, con
deliberazione n. 111 del 20.12.2012, ha stabilito che a
partire dal 01.01.2014 (scadenza poi prorogata al
01.07.2014) è obbligatorio -per le imprese che intendono
partecipare alle gare di appalto di importo pari o superiore
ad € 40.000,00- inserire nella busta contenente la
documentazione di offerta il cosiddetto PASSOE, ovvero il
documento (contenente un codice numerico e a barre) che
attesta che l’Operatore Economico ha creato uno specifico
fascicolo di gara virtuale, contenente tutti i documenti
comprovanti i requisiti dichiarati, che potrà essere oggetto
di verifica da parte della stazione appaltante, e in cui
l’operatore economico potrà eventualmente “caricare”
gli ulteriori documenti mancanti o utili (per esempio, i
certificati di buona esecuzione di soggetti privati).
In una procedura di importo inferiore ai 40.000 euro il
Passoe non è pertanto richiesto (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In caso di assunzione a tempo indeterminato
full-time di Architetti può permanere l’iscrizione al
relativo Albo che non prevede una sezione speciale per i
dipendenti pubblici? L’eventuale onere è a carico dell’Ente?
Nel caso, invece, di assunzione con contratto a tempo
determinato full-time di Architetti, questi devono
provvedere alla segnalazione all’Ordine dell’assunzione
presso la Pubblica Amm.ne? Tale assunzione determina la
sospensione dell’iscrizione all’Albo e del pagamento del
relativo onere?
In caso non avvenga tale segnalazione, il dipendente può
rimanerVi iscritto ed a quale condizioni?
In ordine all’assunzione a tempo determinato full-time di
Ingegneri, Geologi, Geometri la normativa prevede che a
richiesta possono essere iscritti nell’elenco speciale dei
relativi albi. Tale richiesta deve
essere effettuata dall’Amministrazione o dal dipendente ed
il relativo onere è posto a carico dell’Amministrazione?
Nel caso non venga richiesta tale iscrizione nell’elenco
speciale il dipendente può rimanere iscritto all’albo ed a
quali condizioni?
Risposta
E’ incompatibile con la qualità di dipendente comunale con
rapporto orario superiore al 50% dell’orario di lavoro a
tempo pieno, l’iscrizione ad albi professionali, qualora le
specifiche disposizioni di legge richiedano quale
presupposto all’iscrizione, l’esercizio di attività libero
professionale.
Può accadere che (caso del quesito) la relativa legge
professionale consenta comunque al pubblico dipendente
l’iscrizione in speciali elenchi (es. Avvocati impiegati
presso i Servizi legali), in albi professionali (es.
Ingegneri Architetti Geometri ecc.) o qualora l’iscrizione
rientri in un interesse specifico dell’Amministrazione, ma
resta fermo il divieto di esercitare attività libero
professionale (fatti salvi i casi di specifica
autorizzazione dell’ente di appartenenza).
La stragrande maggioranza dei Consigli degli Ordini
territorialmente competenti ha già da tempo approvato
apposite norme del tipo: “I Colleghi che svolgono
funzione di Tecnico Comunale con contratti di tipo
professionale sono tenuti: a) a segnalare all'Ordine di
appartenenza, entro 30 giorni, l'avvenuto conferimento
dell'incarico, e contestualmente l'eventuale quantità di
incarichi in corso presso il Comune stesso, con elenco
dettagliato; b) a non assumere per tutta la durata del
contratto alcun tipo di incarico professionale da privati
nell'ambito del territorio Comunale; c) a rispettare le
compatibilità che contraddistinguono il medesimo ruolo come
pubblico dipendente” (Ordine degli Architetti di
Milano).
In ordine alla seconda domanda:
per il dipendente con contratto di lavoro part-time,
trattandosi di eventualità di usufruire dell’iscrizione
all’albo per svolgere attività libero professionale, e
quindi a favore di soggetti diversi dall’ente pubblico
datore di lavoro, è consentito affermare che il relativo
costo non possa gravare su questo ultimo.
Per il dipendente con contratto a tempo pieno, la risposta
in termini pressoché analoghi alla precedente, richiede una
maggiore articolazione.
In primis, se lo svolgimento delle mansioni a favore
dell'Ente pubblico non richiede l’obbligo di iscrizione
all'Albo, il dipendente che decida di farlo in base ad
autonome valutazioni, è tenuto ad assumere interamente
l'onere del versamento della quota di iscrizione, senza che
l’ente di appartenenza, datore di lavoro, possa considerarsi
in dovere di sostituirsi al primo.
E’ da considerare una eccezione il caso del dipendente
avvocato iscritto nell’albo speciale annesso all’albo degli
avvocati, relativamente al quale la giurisprudenza ha
affermato che: “in mancanza di una norma che disciplini
la materia, e facendo ricorso ai principi generali
dell’ordinamento giuridico dello Stato, che le spese
sostenute dal dipendente nell’esclusivo interesse del
proprio datore di lavoro devono essere sopportate dal datore”
(Vedi Corte d’appello di Torino, Sentenza n. 338/2003)
Il nostro ordinamento (compresi i CCNL di categoria),
infatti, appare pervaso da un principio generale che vieta
di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti e
che possono contribuire ad aggravare la situazione
finanziaria degli stessi enti. Tra tali oneri deve essere
compresa la tassa di iscrizione a un albo professionale.
Anche la Corte dei Conti (alcuni recentissimi pareri
extragiudiziari) è partita dal principio che debba essere
cura del soggetto, assunto per ricoprire all’interno
dell’ente un ruolo che richiede la suddetta iscrizione,
farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel
tempo la sussistenza del requisito che ha costituito
condicio sine qua non della sua assunzione, tra i quali
rientra sicuramente il pagamento della tassa annuale.
In vero c’è da dire che a sostegno di tali tesi, concorrono
anche i principi generali contenuti nel D.Lgs. n. 165/2001
(vedasi l’art. 1, la dove sancisce che: “si deve
contenere la spesa complessiva per il personale, diretta e
indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica”, ed
anche l’art. 2 che: “l’attribuzione di trattamenti
economici può avvenire esclusivamente mediante contratti
collettivi e, alle condizioni previste, mediante contratti
individuali”).
Qualcuno ha ritenuto addirittura di invocare l’art. 12 della
legge 241 del 1990, secondo il quale: “la concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e
l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla
predeterminazione ad alla pubblicazione da parte delle
amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai
rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le
amministrazioni stesse devono attenersi”.
Un esame completo dello scenario presente, ci porta anche a
registrare che molti enti, in sede di regolamentazione
comunale (o provinciale) sulla “Ripartizione del fondo
destinato agli incentivi di cui all’art. 18 della Legge
Merloni e s.m.i.", hanno creduto di poter inserire in
tale fonte normativa locale, delle norme del tipo: ”In
caso di avvenuto espletamento di prestazioni contemplate nel
presente regolamento che richiedano l’iscrizione ad un dato
Albo Professionale, il relativo onere di iscrizione compete
all’Amministrazione Comunale, che provvederà a rimborsarlo
ai dipendenti che hanno sostenuto la spesa, previa
presentazione della ricevuta di versamento”.
Va segnalato, infine, che i tecnici dipendenti pubblici non
potranno, però, svolgere prestazioni professionali
all'esterno della propria amministrazione, pur se
autorizzati (art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001), se non iscritti
agli albi professionali.
L’iscrizione all’Albo è infatti obbligatoria per l’esercizio
della libera professione (Legge n. 897 del 25/04/1938) e,
per l’apertura della Partita Iva viene rilasciato il numero
di iscrizione che compare sul timbro necessario alla firma
dei progetti.
In tale quadro l’iscrizione costituisce una scelta del
dipendente, facendone discendere conseguentemente che il
relativo pagamento è sicuramente a suo carico (29.01.2007
- tratto da www.ancirisponde.ancitel.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
In arrivo il nuovo certificato energetico. La
documentazione. Alle ultime battute la revisione
dell’attestato di prestazione: nei calcoli anche il «peso»
della climatizzazione estiva.
Il certificato di
prestazione energetica, necessario per chi deve presentare
all’Enea la documentazione per chiedere le detrazioni
fiscali del 65%, sta per cambiare. Per effetto di due
provvedimenti, che sono prossimi ad entrare in vigore: il
nuovo decreto che detta i requisiti minimi degli edifici
(fissa cioè le metodologie di calcolo della prestazione
energetica) e le linee guida per la redazione dell’Ape
(attestato di prestazione energetica) , che ad oggi viene
ancora compilato come fosse un vecchio attestato di
certificazione energetica, pur avendo cambiato nome da mesi.
Il provvedimento, dopo le ultime limature, attende la firma
del Ministro.
Per i requisiti minimi, la novità più rilevante è la
modalità di verifica delle prescrizioni di legge, che
utilizza l’edificio di riferimento. Ogni fabbricato verrà
confrontato, per stabilirne i requisiti, con un immobile con
più impianti identico in termini di geometria (sagoma,
volumi, superficie calpestabile, superfici degli elementi
costruttivi e dei componenti) orientamento, ubicazione,
destinazione d’uso e situazione al contorno e avente
caratteristiche termiche e parametri energetici
predeterminati. Nell’atto, sono inoltre contenuti elementi
che riguardano gli impianti tecnologici di riscaldamento e
condizionamento al servizio di questi edifici, visto che il
provvedimento sostituirà completamente il Dpr 59/2009.
Sul fronte dell’Ape -il cui decreto è ancora all’esame della
conferenza Stato Regioni- sarà invece abbandonata la strada
del “federalismo energetico” per arrivare a compilare
di un modello di targa unica a livello nazionale. Le Regioni
avranno due anni per adeguarsi, ma già si stanno
attrezzando: il sistema delle classi -dopo anni di
differenze regionali- tornerà unico.
Nelle future targhe, la prestazione energetica sarà espressa
in termini di energia primaria non rinnovabile e la classe
energetica sarà determinata non più secondo il parametro
dell’Epi limite, bensì in funzione del rapporto fra la
prestazione energetica dell’edificio e quella dell’edificio
di riferimento prevista per gli anni 2019-2021. Le classi
saranno dieci: dalla migliore (A4) alla peggiore (G).
L’Ape esaminerà la prestazione energetica dell’edificio per
la climatizzazione estiva, oltre che per quella invernale.
Per gli immobili terziari sarà preso in considerazione anche
il fabbisogno di energia per l’illuminazione e quello per il
funzionamento di scale mobili ed ascensori (non appena sarà
approvata la parte sesta delle norme Uni 11300).
L’attestato, oltre alla prestazione energetica globale,
riporterà informazioni specifiche sulle prestazioni
energetiche parziali, comprese quelle dell’involucro
edilizio. Per facilitare la lettura agli utenti saranno
utilizzati gli emoticon.
Infine, sarà indicata nell’attestato anche la classe
energetica più elevata raggiungibile se si realizzano una
serie di misure correttive e migliorative indicate nell’Ape
stesso e sarà istituita una banca dati nazionale degli
attestati, per la raccolta aggregata di dati relativi agli
Ape rilasciati, agli impianti termici e ai relativi
controlli e ispezioni effettuati (articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Aziende in crisi, Durc concesso. Rilasciato anche in fase di
concordato con continuità.
Anche l'impresa in crisi ha diritto al rilascio del Durc. Se
è in fase di concordato preventivo con continuità
dell'attività lavorativa, infatti, può ottenere il rilascio
del documento unico di regolarità contributiva (Durc) a
patto che il piano concordatario preveda, entro 12 mesi,
l'integrale assolvimento dei debiti previdenziali e
assistenziali. Il rilascio può avvenire sin dal momento
della pubblicazione della domanda di concordato nel registro
delle imprese, senza dover attendere il (lungo termine di)
perfezionamento della procedura di omologa.
La novità,
prevista dal ministero del lavoro nella nota prot. 6666 del
21.04.2015, è illustrata dall'Inps nel messaggio n.
2835/2015.
La regolarità contributiva. Per regolarità contributiva
s'intende la correttezza di un'impresa in tutti i pagamenti
e gli adempimenti previdenziali, assistenziali e
assicurativi (Inps, Inail per tutte le imprese; Inps, Inail
e casse edili per le imprese operanti nel settore edile e
lapideo) in relazione agli obblighi previsti dalla normativa
riferiti all'intera situazione aziendale.
Il Durc è il
certificato attestante tale regolarità: è «unico» perché
rispetto al passato, quando era necessario fare tre
richieste e ottenere altrettante certificazioni di
regolarità (una per ciascuno degli enti: Inps, Inail e casse
edili), con il Durc le imprese (e i consulenti) fanno
un'unica richiesta e ottengono un unico certificato,
peraltro in versione telematica e in un numero più limitato
di ipotesi.
Il Durc deve essere richiesto per:
- tutti i contratti
pubblici (per ogni fase: verifica dichiarazione sostitutiva,
aggiudicazione del contratto, stipula contratto, pagamento
degli stati d'avanzamento lavori o prestazioni relative a
servizi o forniture, certificato collaudo o regolare
esecuzione o verifica conformità, attestazione di regolare
esecuzione e pagamento del saldo finale e rilascio delle
concessioni per la realizzazione di opere pubbliche e gli
affidamenti con procedura negoziata);
- la gestione di servizi
e attività pubbliche in convenzione o concessione; i lavori
privati soggetti al rilascio della concessione edilizia o
alla denuncia inizio attività (Dia);
- la fruizione di
benefici normativi e contributivi concessi da enti o
pubbliche amministrazioni diversi da Inps e Inail; il
rilascio dell'attestazione Società organismi di attestazione
(Soa);
- l'iscrizione all'Albo dei fornitori; finanziamenti e
sovvenzioni per realizzare investimenti previsti dalla
normativa comunitaria o da normative specifiche;
- la
valutazione dei lavori pubblici per i quali il committente
non è tenuto all'applicazione del Codice e del Regolamento
(lavori pubblici seguiti in proprio e non su committenza e
opere pubbliche di edilizia abitativa);
- l'attestazione di
qualificazione dei contraenti generali.
La validità. Il Durc va richiesto e recapitato
esclusivamente tramite Pec (posta elettronica certificato)
agli indirizzi indicati dagli utenti nel modulo telematico
di richiesta (su internet all'indirizzo
http://www.sportellounicoprevdenziale.it/).
La validità è fissata a 120 giorni per tutti i tipi di
certificati (contratti, appalti, benefici, ecc.), con
un'unica eccezione: i lavori edili tra soggetti privati. In
tal caso, infatti, la validità di 120 giorni è rimasta per i
certificati emessi entro il 31.12.2014; per quelli
emessi dal 01.01.2015 è scesa invece a 90 giorni (si
veda tabella).
Se l'azienda è in crisi. Il consiglio nazionale dell'ordine
dei consulenti del lavoro ha avanzato istanza di interpello
per conoscere il parere del ministero del lavoro in materia
di requisiti necessari ai fini del rilascio del Durc nel
caso di imprese in concordato preventivo con continuità
dell'attività lavorativa (in base all'articolo 186-bis della
Legge fallimentare (rd n. 267/1942).
In particolare, i
consulenti hanno chiesto di sapere se sia possibile ottenere
l'attestazione della regolarità contributiva nell'ipotesi in
cui l'impresa sia sottoposta a una procedura di concordato
preventivo, nella modalità di continuazione dell'attività
aziendale, in virtù di un piano, omologato dal competente
Tribunale, che prevede l'integrale soddisfazione delle
situazioni debitorie previdenziali e assistenziali, sorte
precedentemente al deposito della domanda di ammissione alla
procedura medesima.
Il Durc «condizionato». Nel rispondere a un quesito inerente
alla possibilità di ottenere il Durc da parte di un'impresa
in crisi, il ministero del lavoro ha risposto
affermativamente, muovendo dalle disposizioni che
disciplinano l'istituto del «concordato preventivo con
continuazione dell'attività aziendale» (di cui agli artt.
161 e seguenti della Legge fallimentare, alla luce delle
modifiche apportate dal dl n. 83/2012 convertito dalla legge
n. 134/2012).
Innanzitutto, ha spiegato il ministero, emerge che la
procedura concorsuale (concordato preventivo con la
continuazione dell'attività), da un lato, risulta
finalizzata al risanamento di imprese che versano in uno
stato di crisi «non strutturale»; dall'altro, presupponendo
la prosecuzione dell'attività aziendale, essa si incentra
necessariamente su di un piano, che viene validato da un
professionista e omologato dal competente Tribunale,
mediante il quale l'azienda «si accorda» con i creditori
riguardo alle tempistiche e alle modalità di pagamento dei
debiti, sorti precedentemente alla presentazione della
domanda di concordato.
Nello specifico, l'art. 186-bis della
Legge fallimentare dispone che il piano concordatario può
prevedere una moratoria fino a un anno dall'omologazione del
Tribunale per il pagamento dei crediti muniti di privilegio,
pegno o ipoteca, tra i quali sono ricompresi dunque i
contributi previdenziali e assistenziali.
Si prevede inoltre che:
• i contratti in corso di esecuzione alla data del deposito
del ricorso, tra i quali anche quelli stipulati con le
pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto
dell'apertura della procedura;
• l'ammissione al concordato preventivo non impedisce la
continuazione dei contratti pubblici sottoscritti, nella
misura in cui il professionista designato ne abbia attestato
la conformità al piano, unitamente alla ragionevole capacità
di adempimento dell'azienda debitrice.
L'ammissione alla procedura comporta per la compagine
aziendale interessata, pertanto, la sospensione ex lege
delle situazioni debitorie sorte antecedentemente al
deposito della relativa domanda e la conseguente preclusione
delle azioni esecutive dei creditori.
È proprio alla luce di tale disciplina, ha argomentato il
ministero del lavoro, che la fattispecie del «concordato
preventivo con continuazione dell'attività aziendale»
sembrerebbe rientrare nel campo di applicazione della
disciplina del Durc (nello specifico nell'art. 5 del dm 24.10.2007, recante l'elencazione dei requisiti utili per
il rilascio di un Durc ovvero delle condizioni in presenza
delle quali l'Istituto previdenziale attesta la correntezza
nei pagamenti e negli adempimenti contributivi). In
particolare, sembrerebbe rientrare nella norma (comma 2,
lett. b del citato art. 5) secondo il quale «la regolarità
contributiva sussiste inoltre in caso di sospensione di
pagamento a seguito di disposizioni legislative».
---------------
Soddisfazione dei crediti indispensabile.
Insomma, il ministero ha acconsentito alla possibilità del
rilascio della regolarità contributiva per l'impresa ammessa
al concordato preventivo con continuazione dell'attività (ex
art. 186-bis della Legge fallimentare) qualora il piano,
omologato dal Tribunale, contempli l'integrale assolvimento
dei debiti previdenziali e assistenziali contratti prima
dell'attivazione della procedura concorsuale e sia
espressamente prevista la c.d. moratoria (ex art. 186-bis,
comma 2, lett. c, della Legge fallimentare) per un periodo
non superiore a un anno dall'omologazione.
L'attuazione di tali indicazioni, tuttavia, non ha
consentito di risolvere le situazioni di criticità per le
imprese che, una volta presentata domanda di concordato
preventivo con continuità aziendale, nelle more del
perfezionamento della procedura di omologa, trovandosi nella
impossibilità di adempiere agli obblighi contributivi sorti
anteriormente al deposito della domanda di concordato
(impossibilità dovuta al divieto previsto dall'art. 168
della Legge fallimentare), non possono ottenere il rilascio
del Durc. Peraltro, nei confronti dell'impresa che abbia
avviato un piano di risanamento finalizzato alla
prosecuzione della propria attività, potrebbero prodursi
ulteriori effetti pregiudizievoli a causa dei ritardi che la
procedura di omologa sovente subisce nel corso del suo
perfezionamento.
In ragione di tanto, il ministero ha ritenuto affrontare
nuovamente la tematica, specificando, con nota prot. n.
666/2015 del 21 aprile, che la pubblicazione della domanda
di concordato nel Registro delle Imprese già integri la
fattispecie di cui all'art. 5, comma 2, lett. b, del dm 24.10.2007 in virtù del quale la regolarità contributiva
può essere attestata in caso di sospensioni dei pagamenti a
seguito di disposizioni legislative.
Ricorrendo
quest'ipotesi, di conseguenza, è possibile rilasciare il Durc sempre che, trattandosi di concordato con continuità
dell'attività aziendale (ex art. 186-bis), il piano
contempli l'integrale soddisfazione dei crediti degli
Istituti previdenziali e delle Casse edili, nonché dei
relativi accessori di legge
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico, procedure snelle. Modello unico per installare
piccoli impianti sui tetti.
Disco verde dell'Autorità per l'energia allo schema di
decreto del Ministero dello sviluppo.
Basterà un modello unico semplificato per installare gli
impianti fotovoltaici sui tetti sotto ai 20 kW. Il modello
unico sarà costituito da due parti: la prima finalizzata
alla comunicazione preliminare alla realizzazione
dell'impianto fotovoltaico. La seconda servirà per la
comunicazione di fine lavori. Per la realizzazione, la
connessione e l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici
integrati sui tetti basterà un modello unico.
Con il
parere 16.04.2015 n. 172/2015, l'autorità per l'energia ha
espresso parere favorevole sul decreto del ministero dello
sviluppo economico contenente la semplificazione delle
procedure.
Lo schema di decreto Mise sul modello unico per
la realizzazione, connessione e l'esercizio di piccoli
impianti Fv integrati su tetto degli edifici attua quanto
disposto dal dlgs 28/2011, così come modificato dal decreto
competitività (decreto-legge 24.06.2014, n. 91
convertito nella legge 11.08.2014 n. 116 ).
Ricordiamo
che l'articolo 7-bis, comma 1, del dlgs 28/2011, ha previsto
dal primo ottobre 2014 che l'installazione e l'esercizio
delle unità di microcogenerazione può essere effettuata
utilizzando il modello unico messo a disposizione dal
ministero dello sviluppo economico.
Lo sviluppo economico
per il momento ha elaborato il modello unico da utilizzare
per i piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti
degli edifici, rimandando gli altri casi a provvedimenti
successivi.
Modello unico. Due le parti del modello unico proposto dal
Mise: la prima finalizzata alla comunicazione preliminare
alla realizzazione dell'impianto fotovoltaico, alla
richiesta di connessione, alla comunicazione del codice Iban
per l'addebito dei costi di connessione e l'accredito dei
proventi che deriveranno dallo scambio sul posto, alle
dichiarazioni di possedere tutti i requisiti necessari per
accedere alle procedure semplificate e al conferimento (al
gestore di rete) del mandato con rappresentanza per il
caricamento dei dati sul sistema Gaudì.
La seconda
finalizzata alla comunicazione di fine lavori di
realizzazione dell'impianto di produzione, alla
dichiarazione di corretta esecuzione dei lavori (nel
rispetto delle diverse normative vigenti, come richiamate) e
alla dichiarazione di avvenuta presa visione del format del
regolamento d'esercizio e del contratto di scambio sul
posto.
Impianti interessati. Si potrà usare il nuovo modello unico
per gli impianti aventi le seguenti caratteristiche:
realizzazione presso clienti finali già dotati di punti di
prelievo attivi in bassa tensione; potenza non superiore a
quella già disponibile in prelievo; potenza nominale non
superiore a 20 kW; contestuale richiesta di accesso al
regime dello scambio sul posto; realizzazione sui tetti
degli edifici; assenza di ulteriori impianti di produzione
sullo stesso punto di connessione.
Lo schema di decreto. Lo schema di decreto trasmesso dal
ministero prevede anche che:
- nel caso in cui siano necessari, ai fini della
connessione, esclusivamente lavori semplici limitati
all'installazione del gruppo di misura, l'iter di
connessione può essere avviato automaticamente, senza
l'emissione del preventivo per la connessione da parte del
medesimo gestore di rete. In tali casi, trova applicazione
un solo corrispettivo standard inclusivo dei costi di
connessione a carico del soggetto richiedente, come
determinato dall'Autorità ed eventualmente suddiviso in due
rate qualora superi 100 euro;
- nei casi che non rientrano nel precedente punto, devono
trovare applicazione le tempistiche e le modalità già
definite dall'Autorità in materia di connessioni;
- i gestori di rete devono aggiornare i propri portali
informatici al fine di consentire l'attuazione delle
modalità di trasmissione e lavorazione delle richieste
inviate con il modello unico, entro 180 giorni dall'entrata
in vigore del decreto stesso;
- l'Autorità vigila sull'attuazione del decreto stesso da
parte dei gestori di rete e deve aggiornare i provvedimenti
di propria competenza in materia di accesso al sistema
elettrico entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore
del medesimo;
- i gestori di rete, previa approvazione da parte
dell'Autorità, devono fornire al soggetto richiedente, anche
tramite il proprio sito internet, un vademecum informativo
che elenchi gli adempimenti cui è tenuto il soggetto
richiedente durante la fase di esercizio dell'impianto e che
indichi soggetti e riferimenti cui dovrà rivolgersi .
---------------
Il Consiglio di stato: doppia funzione per i moduli.
Doppia funzione per i moduli fotovoltaici: di copertura del
fabbricato agricolo e di produzione di energia elettrica,
secondo una logica di integrazione architettonica totale.
Lo
ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza
05.03.2015 n. 1108.
L'articolo 14,
2° comma, del dm 05.05.2011 prevede che «gli impianti i
cui moduli costituiscono elementi costruttivi di pergole,
serre, barriere acustiche, tettoie e pensiline hanno diritto
a una tariffa pari alla media aritmetica tra la tariffa
spettante per impianti fotovoltaici realizzati su edifici e
la tariffa spettante per altri impianti fotovoltaici».
Quindi per ottenere la tariffa maggiorata rispetto ad «altri
impianti fotovoltaici» è necessario che, per le serre le
pergole, le tettoie, i pannelli fotovoltaici «costituiscano»
elemento costruttivo.
L'articolo 20, 5° comma, del dm 06.08.2010 prevede, al
fine della qualificazione dell'impianto, specifiche modalità
di copertura che debbono essere integralmente rispettate per
poter beneficiare della maggiorazione di incentivo proposta
e prevede che sia serra fotovoltaica quella nella quale «i
moduli fotovoltaici costituiscono gli elementi costruttivi
della copertura o delle pareti di manufatti adibiti, per
tutta la durata dell'erogazione della tariffa incentivante,
a serre dedicate alle coltivazioni agricole o alla
floricoltura. La struttura della serra, in metallo, legno o
muratura, deve essere fissa, ancorata al terreno e con
chiusura eventualmente stagionalmente rimovibile».
I giudici del consiglio di stato evidenziano che la ratio
della premialità maggiore è dovuta al fatto che le coperture
delle serre siano affidate a moduli fotovoltaici che
svolgano una doppia funzione e cioè di copertura del
fabbricato agricolo e di produzione di energia elettrica,
secondo una logica di integrazione architettonica totale in
cui i pannelli fotovoltaici rappresentino parte
imprescindibile della costruzione e, aggiunge, «si tratta di
scelta di politica industriale insindacabile».
Nel caso in esame, la copertura del manufatto è costituita
da una lamiera grecata, su cui poggiano i moduli
fotovoltaici, i quali quindi non coprono il manufatto, ma
sono collocati al di sopra della effettiva copertura,
costituita invece da una lamiera grecata, che peraltro non
avvolgono per la intera superficie.
Da un lato è evidente, osserva Palazzo Spada, che le serre
fotovoltaiche devono essere dedicate alle coltivazioni
agricole o alla floricoltura per tutta la durata
dell'erogazione della tariffa incentivante (come prevede
l'art. 20, comma 5, del dm 06.08.2010); dall'altro lato,
tuttavia, tale destinazione scontata non è sufficiente a
giustificare la maggiorazione della tariffa, che la
normativa, evidentemente, intende attribuire solo quando i
moduli fotovoltaici a copertura della serra, oltre che
consentire l'attività agricola o di coltivazione,
costituiscano elemento costruttivo della copertura o delle
pareti del manufatto, cosa che non si verifica se la
copertura è data dalle lamiere.
In conclusione, per i
giudici del consiglio di stato, appare non contestabile
giudizialmente la scelta del «legislatore secondario» di
prevedere una maggiorazione di tariffa per quelle
installazioni di pannelli che svolgano una doppia funzione:
di produzione di energia elettrica e di copertura di dette
strutture edilizie «semplici»; funzione di copertura che,
nel caso oggetto della sentenza, i pannelli non svolgono
perché la vera copertura è assicurata dalla lamiera grecata.
Contenuti modello unico per installazione
impianti fotovoltaici.
Il modello dovrà contenere esclusivamente: dati anagrafici
del proprietario (o di chi ne abbia titolo a presentare la
comunicazione, l'indirizzo dell'immobile e descrizione
sommaria dell'intervento, la dichiarazione del proprietario
di essere in possesso della documentazione di conformità
dell'intervento alla regola d'arte e alle normative di
settore (rilasciata dal progettista)
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus lavori, la mappa degli incroci. Dalle
finestre alle caldaie, dal tetto alle pareti gli interventi
ammessi ai due diversi sconti.
Ristrutturazioni. Da gennaio 2016 (salvo proroghe) stop alla
scelta: per ogni opera la detrazione scende al 36 per cento.
Per sfruttare l’opportunità,
garantendosi il massimo del vantaggio possibile, c’è tempo
poco più di sei mesi. Fino al 31.12.2015, l’aliquota ammessa
per “scaricare” in dieci anni il costo degli interventi di
ristrutturazione edilizia e di risparmio energetico è
fissata, rispettivamente, al 50% e al 65% della spesa. Poi
-salvo nuove dilazioni, concesse da Governo e Parlamento- si
tornerà a un bonus unico al 36 per cento.
Utilizzare gli sconti fiscali conviene: moltissimi gli
italiani che ne hanno già approfittato. Tuttavia, non è
sempre facile orientarsi e capire quali siano gli interventi
che possono godere del sostegno economico e quale la
detrazione corretta da richiedere. Anche perché uno stesso
intervento può in teoria beneficiare di diversi incentivi,
ma in realtà il cumulo tra due benefici non e mai ammesso.
Le ristrutturazioni edilizie
È possibile portare in detrazione il 50% della spesa
sostenuta (massimo 96mila euro),nel caso di lavori che
comportino un’innovazione e rientrino nella categoria
edilizia della manutenzione straordinaria. Di conseguenza,
l’importo massimo detraibile è di 48mila euro, pari a 4.800
euro l’anno. Solo per fare qualche esempio di lavori
ammessi, parliamo del rifacimento di una facciata,
dell’installazione o la sostituzione dell’ascensore, della
riparazione o la nuova costruzione di un box auto
pertinenziale, della tinteggiatura esterna di un palazzo,
con modifica di intonaco o colore, ma anche della
sostituzione di infissi con modelli diversi.
Ci sono, tuttavia, una serie di interventi che –pur
richiedendo un impegno anche economico rilevante– sono
esclusi se eseguiti in una singola unità residenziale. È il
caso del rifacimento di un bagno o di una cucina: la
semplice ripavimentazione, la sostituzione dei sanitari sono
classificati come interventi di manutenzione ordinaria e non
bastano a garantire la detrazione. Che invece scatta se
all’interno dell'unità viene creato o spostato un tramezzo o
si sostituisce l’intero impianto idraulico.
Ma il principio generale è che i lavori di categoria “superiore”
assorbono quelli di categoria inferiore: quindi se si
sostituiscono pavimenti e sanitari del bagno (ordinaria) e,
insieme, si sposta una parete e la porta cambiano il
perimetro della stanza, tutto diventa manutenzione
straordinaria e quindi si può detrarre l’intera spesa.
Il bonus al 65 per cento
La detrazione del 65% per il risparmio energetico si può
utilizzare (con soglie diverse a seconda della tipologia di
opere) per ciò che comporta un miglioramento delle
prestazioni energetiche dell’immobile. Si va dalla
sostituzione dei vecchi infissi all’installazione di
pannelli solari termici, dal cambio di caldaia fino alla
predisposizione di un cappotto termico e, da quest’anno,
anche all’acquisto e alla posa di un sistema di schermatura
solare, come una tapparella o una tenda da sole (si veda Il
Sole 24 Ore dello scorso 20 aprile).
Non tutto, però, beneficia dello sconto massimo. Ad esempio,
la sostituzione della caldaia con un impianto a
condensazione non è ammessa, se non è prevista la
contestuale installazione delle valvole termostatiche negli
appartamenti. Chi cambia solo l’impianto deve allora optare
per la detrazione Irpef del 50 per cento. Così anche non
sono ammessi al 65% gli impianti a tecnologia mista o quelli
che non rispondono a determinati requisiti prefissati dalla
norma.
La procedura per ottenere il riconoscimento dell’ecobonus
(detrazione Irpef per persone fisiche e Ires per persone
giuridiche), inoltre, prevede un passaggio in più rispetto
al 50%: entro 90 giorni dalla fine dei lavori occorre
trasmettere all’Enea, in via telematica, copia
dell’attestato di certificazione o qualificazione energetica
e la scheda informativa degli interventi realizzati (si veda
l’articolo in basso).
Per questo, spesso c’è chi –a parità di lavoro,e anche se
potrebbe ottenere il 65%- sceglie la via del 50 per cento.
Ad esempio, per la sostituzione degli infissi: se non si
raggiungono le perfomance di isolamento maggiori o se si
preferisce evitare la procedura per il 65% -peraltro
eseguibile anche con un semplice fai-da-te online sul sito
dell’Enea- si può ottenere lo sconto minore.
Il conto termico
Infine, i privati che devono sostituire un vecchio impianto
con uno nuovo alimentato a fonte rinnovabile possono
ricorrere al conto termico. Il meccanismo funziona con
l’erogazione di un contributo diretto da parte del Gse,
calcolato sulla spesa sostenuta: in genere per questi
interventi è possibile recuperare circa il 40% dei costi,
con rate costanti spalmate da due a cinque anni.
Tuttavia, forse perché poco conosciuta rispetto al
meccanismo ormai collaudato della detrazione, questa
possibilità è stata fino ad oggi poco utilizzata, tanto che
ne è prevista una revisione (articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Delega Pa, ok ma ritocchi in vista. Alla Camera novità sui
prefetti - Confindustria: passo importante, attuazione entro
il 2015.
Al Senato. L’opposizione non vota, numero legale sul filo -
Stretta su dirigenti Asl, tagli a partecipate e camere di
commercio
Meno burocrazia, con dirigenti licenziabili e vincolati a
incarichi quadriennali prorogabili di due anni per una sola
volta. Più efficienza nel pubblico impiego con azioni
disciplinari non più “congelabili” senza l’esclusione del
licenziamento e con una stretta sulle assenze per malattia
con l’attribuzione di poteri controllo all’Inps. Possibilità
di “staffetta generazionale” ma solo in versione ultra-soft.
Carta della cittadinanza digitale con la nascita di un nuovo
dirigente hi-tech. Riorganizzazione della macchina statale
con il taglio di Prefetture e la fusione del Corpo forestale
dello Stato in una sola altra forza di Polizia. Potatura
delle partecipate e della Camere di commercio. Più poteri al
premier sulle Agenzie fiscale e sulle nomine dei manager.
Nuove regole sui servizi pubblici locali e delega per
riforma gli enti di ricerca.
Sono queste le tessere chiave
del mosaico della delega Pa (ddl
Atto Senato n. 1577) così come ridisegnato, al
termine di un ampio restyling, dal Senato. Che ieri, dopo
quasi otto mesi di lenta navigazione, ha dato il suo disco
verde al testo. Non senza un ulteriore attimo di suspance:
il raggiungimento per un solo voto del numero legale in Aula
dopo che l’opposizione aveva deciso di disertare la
votazione tentando uno sgambetto alla maggioranza.
I sì sono stati 144 con un astenuto. Il Ddl, che prevede
anche una fase transitoria triennale prima della
soppressione della figura dei segretari comunali, un
documento unico per la proprietà e la circolazione dei
veicoli e la ghigliottina sui decreti attuativi (non
legislativi) considerati superflui, passa ora alla Camera
dove sarà nuovamente modificato. Con conseguente ulteriore
passaggio al Senato per il sì definitivo e per dare
ufficialmente il via alla fase attuativa con il varo dei
decreti legislativi.
La conferma arriva dal ministro della Pa, Marianna Madia:
«Vado alla Camera con l’intento di migliorare ancora» una
riforma «importante che riguarda 60 milioni di cittadini».
Il ministro assicura: «Vogliamo valorizzare e non svilire la
figura del Prefetto, visto anche il loro ruolo nella
gestione dell’Immigrazione». E annuncia ritocchi alla Camera
confermati dal ministro Angelino Alfano. Il relatore al
Senato, Giorgio Pagliari (Pd) si dichiara soddisfatto per il
lavoro fatto che rafforza la riforma anche in chiave
trasparenza.
Per Confindustria «l’approvazione in prima lettura al Senato
del Ddl di riforma della pubblica amministrazione
rappresenta un passo importante per realizzare in Italia un
sistema amministrativo efficiente e moderno». Confindustria
sottolinea che il provvedimento «delinea infatti un
programma organico di interventi», affrontando alcuni «temi
cruciali»: dalla conferenza dei servizi alla dirigenza
pubblica e alle partecipate.
«Si tratta di aspetti
strettamente connessi all’esercizio dell’attività d’impresa,
fattori di contesto indispensabili per il rilancio della
crescita e l’attrazione di investimenti esteri -sostiene
Confindustria che auspica che- la Camera approvi il Ddl in
tempi rapidi e che il Governo porti a termine con
altrettanta celerità il percorso dei decreti attuativi dando
seguito al proposito dichiarato anche nel recente Def di
chiudere il percorso della riforma entro la fine del 2015».
Positivo il giudizio del presidente della Autorità nazionale
Anticorruzione, Raffaele Cantone: «La riforma della Pa è
certamente fondamentale». Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin definisce «una vera e propria rivoluzione per la
sanità italiana» le norme che vincolano al superamento di un
concorso nazionale la nomina dei direttori generali delle
Asl e prevedono la loro decadenza in caso di malagestione.
Ma Cgil, Cisl e Uil annunciano battaglia: «ridicolo
chiamarla riforma, staffetta truffa e dirigenti
ricattabili».
Quanto ai nuovi ritocchi alla Camera, la partita potrebbe
riaprirsi anche su Camere di commercio, segretari comunali,
Corpo forestale, partecipate e dirigenza (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.05.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Primo sì per la riforma Madia. Incarichi a termine per i
dirigenti. Aboliti i segretari. DDL P.A./ Ok del senato. Il provvedimento passa subito alla
camera. Si riparte il 12/5.
Primo sì per il disegno di legge delega di riforma della
p.a.
(ddl
Atto Senato n. 1577). Con 144 sì e un astenuto, il senato, dopo otto mesi di
stop and go, ha approvato in prima lettura il ddl Madia, in
un'aula praticamente monocolore visto che le opposizioni
(M5S, Lega, Sel, Forza Italia e Gal) non hanno partecipato
al voto nell'obiettivo (quasi riuscito) di far saltare il
numero legale.
Il provvedimento, collegato alla manovra finanziaria,
prevede misure che spaziano dalla riforma della dirigenza
pubblica (per cui viene introdotto il ruolo unico, la durata
a termine degli incarichi e la licenziabilità) alle sanzioni
per gli statali, dai poteri del premier al riordino delle
partecipate, passando per il taglio delle prefetture e la
razionalizzazione delle camere di commercio (si veda il
riepilogo delle novità nella tabella in pagina). Tra le
disposizioni più discusse, una, inserita in commissione al
senato, che consente all'esecutivo di modificare o abrogare
norme di «provvedimenti non legislativi di attuazione»,
quali dpcm e decreti ministeriali. Per le opposizioni si
tratta di una «delega in bianco» e per questo la norma è
stata duramente contestata al momento del voto.
Ora la palla passa alla camera che non si limiterà ad
asseverare l'operato di palazzo Madama, ma, probabilmente,
interverrà in modo incisivo sul testo. A lasciarlo intendere
è stato proprio il ministro Marianna Madia. «Credo che un
provvedimento così articolato e importante non possa non
avere una discussione approfondita nei due rami del
parlamento. Vado alla camera con l'intento di migliorarla
ancora». A Montecitorio i lavori sul ddl si avvieranno in
tempi brevi. Il ministro lo ha chiesto, intervenendo al
Salone della giustizia, al presidente della commissione
affari costituzionali della camera, Francesco Paolo Sisto,
che ha promesso una calendarizzazione per la settimana del
12 maggio.
Uno dei tempi caldi alla camera sarà la razionalizzazione
delle prefetture. «Saremo più espliciti e si capirà alla
camera che questa figura il governo vuole valorizzarla»
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a casa senza causa. Per la risoluzione del
rapporto non serve motivazione. DDL P.A./ La riforma disconnette il licenziamento da uno
specifico evento che lo giustifichi.
Per la dirigenza pubblica si introduce il licenziamento
senza motivazione. L'effetto della legge delega approvata
dal senato è disconnettere completamente la risoluzione del
rapporto di lavoro da una specifica causa, giustificato
motivo oggettivo o soggettivo che sia.
Il
ddl Atto Senato n. 1577 del ministro Marianna Madia interviene, dunque, in
maniera estremamente forte nella disciplina del rapporto di
lavoro, eliminando la principale delle garanzie del
lavoratore subordinato: la connessione del licenziamento a
uno specifico evento, che lo giustifichi.
È ovviamente giusto e corretto che il dirigente pubblico
incapace di ottenere i risultati previsti, oppure non in
grado di dirigere con efficienza la struttura di propria
competenza o non rispettoso della leale collaborazione con
l'organo di governo possa essere licenziato, come del resto
già oggi prevede l'articolo 21 del dlgs 165/2001.
Ma tale norma richiede pur sempre che la risoluzione del
rapporto di lavoro si basi su una giustificazione, desunta
prevalentemente dalla valutazione del dirigente.
Con l'entrata in vigore della legge delega e dei decreti
attuativi, tutto questo non sarà più necessario. Infatti,
per qualsiasi organo di governo non intenzionato a
proseguire il rapporto di lavoro coi dirigenti sarà
semplicissimo disfarsene. Basterà aspettare che scada la
durata dell'incarico dirigenziale, non superiore a quattro
anni, senza rinnovarlo (un rinnovo automatico senza
procedura di selezione pubblica sarà possibile per soli
ulteriori due anni).
A quel punto, il dirigente si ritroverà «restituito al ruolo
unico», privo di incarico e con lo stipendio decurtato
sostanzialmente della metà, con l'onere di cercare un nuovo
incarico entro un periodo, che sarà fissato dai decreti
delegati, pena appunto il licenziamento.
Il licenziamento, come si vede, non sarà legato da un evento
soggettivo o oggettivo, ma da una semplicissima scelta
dell'organo di governo, che non dovrà nemmeno motivare
nulla, né fare riferimento agli esiti della valutazione.
Essi, per altro, saranno sostanzialmente ininfluenti ai fini
dell'incarico, anche se l'articolo 9 del ddl delega
stabilisce che se ne debba tenere conto.
Poniamo che un dirigente abbia condotto la propria attività
nei quattro anni di incarico in modo da ottenere valutazioni
positive, ma che, tuttavia, non sia apertamente schierato
con la parte politica dell'organo di governo. Scaduto
l'incarico, l'organo di governo attiva la procedura
selettiva prevista dal ddl e immaginiamo che riceva dalla
Commissione nazionale per la gestione del ruolo unico
competente la rosa di nomi da selezionare, nella quale sia
compreso il curriculum del dirigente scaduto ed il
curriculum di un altro dirigente, di provata e nota
consonanza politica. Poiché le commissioni non comporranno
graduatorie sulla base dei punteggi delle valutazioni, ma
selezioneranno solo rose, nulla vieterà che la scelta
totalmente discrezionale cada sul dirigente «amico», a
scapito di quell'altro. Si completa così il quadro.
Del resto, il ddl delega non prevede nemmeno un diritto dei
dirigenti di ruolo ad ottenere un incarico dirigenziale; al
contrario, il testo parla espressamente di mera
«possibilità» di essere incaricati.
Quindi, l'aver vinto il concorso per accedere ai ruoli unici
della dirigenza non assicura alcuna continuità allo
svolgimento dell'attività lavorativa: addirittura potrebbe
darsi il paradosso di un vincitore di concorso pubblico per
dirigente che acceda al ruolo unico senza mai ricevere alcun
incarico, per essere licenziato subito dopo.
Il tutto è reso ancora più instabile dal permanere della
possibilità per le amministrazione di reperire i dirigenti
dall'esterno dei ruoli dirigenziali: è evidente che ogni
posto coperto con soggetti esterni assunti con contratti a
tempo determinato diminuisce le probabilità che un dirigente
di ruolo possa ricevere un incarico, simmetricamente
elevando le probabilità di licenziamento.
Quanto tutto questo sistema sia coerente con i principi di
continuità amministrativa e divieto di precarizzazione della
dirigenza evidenziati dalla Corte costituzionale a partire
dalla sentenza 103/2007 sarà da verificare.
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L'Opinione/1
Niente più incarichi a contratto.
La riforma della dirigenza pubblica rende inapplicabile il
sistema degli incarichi a contratto a tempo determinato
senza concorsi.
Nonostante il ddl delega ammetta espressamente che i
dirigenti a contratto possano essere assunti, introducendo
una parvenza di procedura selettiva, il nuovo sistema degli
incarichi non si concilia con le previsioni contenute
nell'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, norma posta a
regolare gli incarichi dirigenziali a tempo determinato.
Infatti, il ddl delega nell'introdurre i tre ruoli unici
(per la dirigenza statale, regionale e locale) di fatto
elimina un diretto rapporto di lavoro tra dirigente ed ente
presso il quale svolgerà l'incarico, un po' come avviene con
i segretari comunali, che pur dipendenti dal ministero
dell'interno, svolgono il rapporto di servizio con l'ente
nel quale si insediano nella segreteria.
I ruoli unici,
insomma, saranno simili a mega agenzie di somministrazione:
le procedure selettive pubbliche, guidate delle commissioni
nazionali, consentiranno l'invio dei dirigenti «in missione»
presso gli enti che li incaricano. Dunque, si assiste a una
scissione tra rapporto di lavoro del dirigente e ruoli della
singola amministrazione incaricante, che non conduce più un
rapporto di lavoro diretto col dirigente stesso.
È proprio questa scissione tra rapporto di lavoro e rapporto
di servizio che rende inapplicabile, allora, l'articolo 19,
comma 6, ai sensi del quale gli incarichi a tempo
determinato ai dirigenti possono essere «conferiti,
fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e
comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei
ruoli dell'amministrazione».
Presupposto fondamentale per gli incarichi a contratto,
dunque, è l'assenza nei ruoli dell'amministrazione
conferente delle professionalità necessarie. Ma, col ddl
delega nessuna amministrazione disporrà più di un proprio
ruolo, visto che ci saranno solo i ruoli unici nazionali,
per altro composti da migliaia e migliaia di dirigenti. Non
sarà, dunque, più possibile giustificare la necessità di
attivare un incarico a contratto con l'assenza di
professionalità nell'ente. Occorrerebbe dimostrare l'assenza
della professionalità addirittura all'interno delle decine
di migliaia di dirigenti inseriti nei ruoli unici. Impresa,
oggettivamente impossibile, anche perché la probabilità che
nei ruoli non sia reperibile nemmeno un dirigente iscritto
che disponga della professionalità ritenuta opportuna è
sostanzialmente inesistente.
A meno che, dunque, non si modifichi radicalmente l'articolo
19, comma 6, del dlgs 165/2001, giustificare gli incarichi a
contratto in modo da attivarli legittimamente, per effetto
della riforma della dirigenza risulterà molto difficile.
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L'Opinione/2
Un cambio di passo per la p.a.
Dopo sette mesi di lavoro e il via libera del senato, ci
avviciniamo al round finale dell'approvazione definitiva
della riforma della pubblica amministrazione che inciderà
profondamente sull'assetto della p.a. e rivoluzionerà la
dirigenza pubblica introducendo delle modifiche sostanziali.
Oggi un dirigente di prima fascia rimane tale, qualunque sia
l'incarico che ricopra.
La legge Madia introduce il ruolo
unico dei dirigenti, che non saranno più legati alle singole
amministrazioni, e l'abolizione delle due fasce in cui
attualmente sono divisi i dirigenti: incarico e retribuzione
relativa saranno quindi assegnati di volta in volta al
dirigente più adatto, dopo un interpello pubblico e un esame
delle competenze, e questo incarico non potrà durare più di
quattro anni con un solo rinnovo possibile di altri due
anni.
Poi si rimetterà tutto in gioco e per restare dov'è il
dirigente dovrà partecipare a un nuovo processo di
selezione. Questo comporta una separazione dello status
dall'incarico, che si assegnerà dopo un esame del curricolo,
delle competenze, della carriera e dei risultati ottenuti.
Perché le scelte non siano arbitrarie la legge prevede
l'istituzione di una banca dati nella quale inserire il
curriculum e un profilo professionale per ciascun dirigente,
comprensivo delle valutazioni ottenute nei diversi incarichi
ricoperti.
Un dirigente che dopo un certo lasso di tempo non
viene scelto per nessun incarico entra in «disponibilità» e
viene stimolato a passare al settore privato, favorendone la
mobilità, altrimenti, dopo un congruo periodo decade dal
ruolo unico. Si crea così un vero e proprio «mercato» della
dirigenza pubblica dove poter selezionare, idealmente, i
migliori e i più adatti per ciascun incarico, su una base
oggettiva e trasparente. Viene inoltre favorita la mobilità
tra amministrazioni, attualmente nulla, e la mobilità verso
il privato sia in andata sia in ritorno.
Moltissimi sono gli
oppositori di questa nuova riforma, soprattutto, come è
ovvio, nell'amministrazione stessa. Ma oggi non si può più
non tener conto di come lo stato attuale delle
amministrazioni sia del tutto insoddisfacente sia dal punto
dell'efficienza sia da quello dell'efficacia. E che quindi
abbiamo bisogno quindi non solo di un aggiustamento, ma di
un cambio deciso di passo. E poiché è impossibile che una
qualsiasi organizzazione complessa possa riformare se
stessa, è necessario spostarci fuori e assegnare la
responsabilità del cambiamento e della sua guida a soggetti
terzi e neutrali che si muovano con logiche oggettive di
efficienza e di managerialità.
Non c'è nulla da inventare:
basta guardare alle esperienze di molti dei paesi di common law che hanno istituito commissioni indipendenti che si
occupano proprio dell'organizzazione del settore pubblico,
degli incarichi ai dirigenti e della loro valutazione,
dell'efficacia della loro azione in termini di impatto sulla
vita del paese. Sarà questa la volta buona, a quasi
vent'anni dalle riforme Bassanini?
Al Forum Pa 2015, dal 26 al 28 maggio, discuteremo anche di
questo, con la speranza che il processo di modernizzazione e
di innovazione non sia di nuovo bloccato
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Statali, staffetta a costo zero. Part-time per assunzioni.
Contributi a carico dei lavoratori. DDL P.A./ Oggi il voto finale. Tornano gli avanzamenti di
carriera automatici per i dirigenti.
Una staffetta generazionale nella p.a. a costo zero per le
casse dello stato. Gli enti pubblici potranno promuovere il
ricambio di personale proponendo al dipendente prossimo alla
pensione (a cui spetterà sempre l'ultima parola) di lavorare
part-time con stipendio ridotto in modo da favorire nuove
assunzioni. Ma saranno i pensionandi che hanno optato,
volontariamente, per il part-time e il taglio di stipendio,
a dover continuare a versare per l'intero i contributi
previdenziali se vorranno evitare ripercussioni negative
sulla pensione. Lo stato, infatti, non ci metterà un euro. I
soldi pubblici risparmiati sulle retribuzioni andranno a
finanziare nuove immissioni in ruolo, sempre però «nel
rispetto della normativa vigente in materia di vincoli
assunzionali» e senza «nuovi o maggiori oneri a carico degli
enti previdenziali e delle amministrazioni pubbliche».
Con tutta questa impalcatura di paletti, incognite e
condizioni, l'emendamento dei senatori del Gruppo per le
autonomie (primo firmatario Hans Berger), già presentato
senza fortuna in commissione (si veda ItaliaOggi del 14 e 19
marzo) è stato recepito nel ddl Madia
(ddl
Atto Senato n. 1577) di riforma della p.a.
L'emendamento è passato in un testo molto edulcorato
rispetto alla precedente versione (è scomparsa, per esempio,
qualunque menzione al contratto di apprendistato, ma
soprattutto il riferimento al versamento dei contributi
previdenziali da parte delle amministrazioni statali) e con
una esplicita clausola di neutralità finanziaria che gli è
valso l'ok della commissione bilancio, ma anche forti
critiche bipartisan e non solo da parte delle opposizioni.
Emblematica la posizione di Maria Grazia Gatti (Pd), che ha
osservato che «per realizzare un effettivo ricambio
generazionale è necessario che lo stato ci metta qualcosa in
termini di contribuzione previdenziale, altrimenti si tratta
di un semplice part-time, per di più poco vantaggioso per il
lavoratore».
Disco verde anche all'emendamento di Vincenzo Cuomo (Pd) che
prevede una corsia preferenziale per assumere i 3 mila
vincitori di concorso tuttora in attesa di essere assunti
dalla p.a. (si veda ItaliaOggi del 28/4). La proposta di
modifica, giunta ormai alla quarta riformulazione in modo da
renderla più digeribile da parte della commissione bilancio,
stabilisce «l'introduzione di norme transitorie finalizzate
esclusivamente all'assunzione di vincitori di procedure
selettive pubbliche» qualora vi siano graduatorie approvate
e pubblicate alla data di entrata in vigore della legge
delega. Nessuna speranza, dunque, per gli idonei che vedono
sfumare anche un tentativo di proroga per cinque anni delle
graduatorie richiesto, inutilmente, dalla senatrice del
Movimento 5 Stelle, Serenella Fucksia.
Ieri l'aula di palazzo Madama si è fermata a un metro dal
traguardo dell'approvazione del disegno di legge delega. Al
momento di votare l'ultimo articolo (il 16) è venuto a
mancare il numero legale e il presidente Piero Grasso ha
deciso di rinviare a oggi il voto finale sul provvedimento
che ha avuto al senato una gestazione di otto mesi,
caratterizzata da repentine accelerazioni e bruschi
dietrofront dell'ultim'ora.
Come quello sulla durata degli
incarichi dirigenziali che passa da tre a quattro anni, con
la possibilità di un solo rinnovo senza concorso per
ulteriori due anni, mentre la versione originaria del ddl
prevedeva la possibilità di una sola proroga per tre anni. A
volere la modifica, un emendamento della senatrice Pd Linda Lanzillotta, riformulato dal relatore, che di fatto cambia
il regime del «3+3» in «4+2», lasciando quindi immutato la
durata massima (sei anni) degli incarichi senza concorso.
Viene meno, per effetto di un emendamento del relatore
Giorgio Pagliari (Pd) anche un altro dei punti forti della
riforma della dirigenza, quello dello stop agli avanzamenti
di carriera automatici. Il riferimento al «superamento degli
automatismi nel percorso di carriera» è stato infatti
espunto dal ddl.
Cambiano casa i dirigenti delle camere di commercio. Per
effetto di un emendamento del relatore, i manager degli enti
camerali transitano dal ruolo unico dei dirigenti statali a
quello dei dirigenti regionali.
Segretari comunali. Bocciata la richiesta di Sel e M5s di
stralciare dal ddl la soppressione della figura del
segretario comunale, «un irrinunciabile presidio di
legalità» come definito dai senatori Loredana De Petris e
Vito Crimi.
Alle opposizioni ha replicato il ministro della
funzione pubblica Marianna Madia che ha difeso la scelta del
governo in quanto, ha sottolineato, «si elimina la figura
del segretario, non la funzione».
«Ora», ha rimarcato il
ministro, «i segretari sono nominati dai sindaci, con la
nostra riforma saranno scelti all'interno del ruolo unico».
In realtà però, nei comuni capoluogo di provincia e nei
centri sopra i 100 mila abitanti, le funzioni apicali
potranno essere attribuite anche a un soggetto estraneo al
ruolo unico, purché in possesso di «adeguati requisiti
culturali e professionali».
Una misura duramente contestata
dalle opposizioni in quanto consentirebbe ai sindaci dei
grandi comuni di attribuire le funzioni, ora svolte dai
segretari, a soggetti compiacenti e vicini al potere
politico.
Enti di ricerca. Approvato anche l'emendamento di Fabrizio
Bocchino (Italia Lavori in corso) che affida un'ulteriore
delega al governo per garantire maggiore autonomia,
soprattutto di spesa, agli enti pubblici di ricerca, grazie
a uno status speciale che tali enti avranno, pur restando
nel perimetro della pubblica amministrazione.
Le altre misure approvate. Tra le altre misure approvate
nella giornata di ieri, si segnala il taglio delle
prefetture e l'istituzione degli uffici territoriali del
governo che dovranno rappresentare il punto di contatto tra
cittadini e amministrazione periferica.
Una
razionalizzazione che dovrà essere fatta anche tenendo conto
delle zone che confinano con aree interessate da flussi
migratori, oltre che dei criteri già stabiliti dalla delega
(estensione territoriale, popolazione residente, presenza di
una città metropolitana ecc.).
Via libera anche alle norme
per «rendere effettive» le disposizioni che danno maggiori
poteri al presidente del consiglio. A palazzo Chigi andranno
le «competenze in materia di vigilanza sulle agenzie
governative nazionali, al fine di assicurare l'effettivo
esercizio delle attribuzioni della presidenza del consiglio»
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a., vincitori garantiti. Verso una corsia preferenziale
per le assunzioni. Emendamento al ddl Madia. Entro il 30/4 i dati sulle
graduatorie.
Una corsia preferenziale per assumere i vincitori di
concorso in attesa di essere assunti dalla p.a. La buona
notizia per l'esercito dei circa 3 mila aspiranti dipendenti
pubblici potrebbe arrivare dalla ddl delega di riforma della
p.a. da oggi al voto dell'aula del senato (l'ok dovrebbe
arrivare mercoledì).
A prevedere l'ipotesi di introdurre misure ad hoc per
accelerare l'assunzione dei vincitori in attesa è un
emendamento presentato dal senatore Pd Vincenzo Cuomo.
La proposta di modifica, giunta ormai alla quarta
riformulazione in modo da renderla più digeribile da parte
della commissione bilancio, stabilisce «l'introduzione di
norme transitorie finalizzate esclusivamente all'assunzione
di vincitori di procedure selettive pubbliche» qualora vi
siano graduatorie approvate e pubblicate alla data di
entrata in vigore della legge delega.
«Abbiamo necessità e urgenza di garantire rapidamente
l'assunzione di migliaia di vincitori di concorso che, dopo
anni, attendono con speranza un diritto finora negato», ha
spiegato il senatore Cuomo. Anche se, a dir la verità, una
corsia preferenziale per i vincitori è già prevista dalla
legge di stabilità 2015 (legge 190/2014) che consente a
regioni ed enti locali di continuare a scorrere le
graduatorie nonostante il blocco imposto per assorbire gli
esuberi delle province.
L'emendamento Cuomo però metterebbe gli enti pubblici nelle
condizioni di predisporre norme ad hoc per le assunzioni,
cristallizzando le graduatorie in modo che tutte quelle
approvate alla data di entrata in vigore della riforma di
Marianna Madia (e tuttora vigenti alla data di approvazione
del dlgs attuativo sul riordino del lavoro pubblico che
dovrà vedere la luce entro un anno dal varo della delega)
possano giustificare una ragionevole aspettativa di
assunzione.
Sulla validità delle graduatorie, com'è noto, grava da
sempre grande incertezza, visto che di anno in anno c'è
bisogno della solita proroga per tenerle in vita.
Quest'anno, il decreto Milleproroghe, storicamente deputato
a ospitare questi e altri rinvii, è rimasto in silenzio sul
punto per la semplice ragione che nel 2013 (con il decreto
legge 101), l'ex ministro della funzione pubblica Gianpiero
D'Alia aveva disposto uno slittamento triennale, allungando
al 31.12.2016 la validità delle graduatorie.
Ora si chiede qualcosa di più, sottolinea Cuomo, «sempre
però nel rispetto dei limiti di finanza pubblica vigenti».
La proposta, come detto, parla di «norme transitorie
finalizzate esclusivamente all'assunzione dei vincitori di
concorsi pubblici». Diversi potrebbero essere gli scenari
aperti da quest'emendamento, dall'allargamento delle maglie
del turnover alla spinta ai prepensionamenti.
Intanto si attendono i dati definitivi sui vincitori di
concorso in attesa di assunzione: le amministrazioni hanno
ancora tre giorni di tempo (fino al 30 aprile) per
comunicare le informazioni sulle graduatorie alla Funzione
pubblica utilizzando la piattaforma raggiungibile sul sito
www.monitoraggiograduatorie.gov.it. Sulla base dei dati
inviati dagli enti pubblici, palazzo Vidoni realizzerà un
report che dovrà essere pubblicato entro il 31 maggio.
Solo allora si saprà se i vincitori di concorso in attesa di
collocamento sono ancora 3 mila o se, come probabile, il
loro numero è cresciuto, assieme a quello degli idonei (80
mila secondo i dati ufficiali, ma come ammesso dalla stessa
Funzione pubblica, destinati a essere quasi il doppio, si
veda ItaliaOggi del 03/01/2015)
(articolo ItaliaOggi del 28.04.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, la via d'uscita è online. Interessate aziende e
mezzi di trasporto non obbligati.
Dal MinAmbiente le istruzioni per la cancellazione dal
tracciamento telematico di rifiuti.
Diramate dal MinAmbiente lo scorso 23.04.2015, tramite
il relativo portale istituzionale Sistri.it, le istruzioni
per la cancellazione dal nuovo sistema di tracciamento
telematico dei rifiuti di aziende e mezzi di trasporto non
obbligati a mantenere l'adesione.
La procedura è
sostanzialmente articolata in due fasi: una telematica, di
interazione con il server gestito dallo Stato, e una fisica,
finalizzata alla restituzione dei dispositivi in dotazione.
L'ordine delle fasi varia in funzione della tipologia dei
dispositivi in possesso dell'azienda, laddove l'esistenza di
mezzi di trasporto rifiuti dotati di «black box» impone un
iter più complesso.
Cancellazione aziende senza mezzi di trasporto. La richiesta
di cancellazione dell'intera azienda o di una o più unità
locali della stessa deve essere attivata attraverso l'area
riservata agli utenti registrati del portale Sistri (c.d.
«area autenticata») e utilizzando l'applicativo «Gestione
azienda». Per l'azionabilità della procedura è necessario
l'utilizzo del dispositivo Usb del delegato aziendale e la
preliminare verifica dell'assenza di movimentazioni in corso
e/o giacenze di rifiuti.
In caso di indisponibilità del
suddetto dispositivo Usb (per danneggiamento, furto o
smarrimento) è necessario rivolgersi al Contact center
Sistri per attivare una diversa procedura di risoluzione.
Dell'evasione della richiesta di cancellazione si avrà
avviso tramite l'indirizzo e-mail indicato dall'utente. Entro
dieci giorni dalla ricevuta di tale conferma sarà onere
dell'utente consegnare i dispositivi Usb al Sistri tramite
spedizione a mezzo raccomandata postale a/r utilizzando
indirizzo e modulo di restituzione messi a disposizione dal
citato portale.
Aziende con veicoli dotati di black box. In tal caso la
descritta procedura dovrà essere preceduta da quella di
cancellazione dei veicoli dotati di dispositivi di
tracciamento satellitare. A tal fine occorrerà rivolgersi
alle competenti Sezioni locali dell'Albo gestori ambientali.
Queste provvederanno, infatti, a ritirare i dispositivi Usb
dei veicoli e a rilasciare i voucher da presentare presso le
officine autorizzate per effettuare disinstallazione e
recupero delle black box presenti sui mezzi. Una volta
effettuata la disinstallazione sarà possibile procedere alla
cancellazione dell'azienda con le modalità più sopra
descritte.
Soggetti non obbligati al Sistri. La cancellazione dal
Sistri costituisce facoltà dei soggetti non obbligati per
legge a utilizzare il nuovo sistema di tracciamento
satellitare.
Alla luce dell'attuale assetto normativo
possono dunque farne richiesta i seguenti soggetti:
enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali
pericolosi che soddisfano le condizioni di esenzione dal
Sistri ex dm Ambiente 24.04.2014 e produttori iniziali
di rifiuti diversi dagli speciali pericolosi; enti/imprese
di raccolta/trasporto a titolo professionale, di
trattamento, recupero, smaltimento, commercio,
intermediazione di rifiuti diversi dagli speciali
pericolosi; operatori del trasporto intermodale affidatari
di rifiuti diversi dagli speciali pericolosi; comuni e
imprese di trasporto rifiuti urbani localizzate in regioni
diverse dalla Campania.
In base a quanto riportato dallo
stesso portale Sistri lo scorso 09.03.2015, l'adesione al
Sistri sarebbe altresì facoltativa per i produttori iniziali
di rifiuti speciali pericolosi che provvedono al trasporto
in proprio degli stessi residui non obbligati a essere
iscritti nella categoria 5 dell'Albo gestori ambientali.
Le sanzioni Sistri. Nei casi in cui l'iscrizione al Sistri è
invece obbligatoria, è bene ricordare che dallo scorso 01.04.2015 la sua omissione è sanzionata con importi fino a
93 mila euro. Parimenti sanzionato è dalla stessa data
l'omesso pagamento entro i termini del relativo contributo
annuale Sistri da parte sia dei soggetti iscritti in quanto
obbligati sia da parte di quelli che ne mantengano
l'iscrizione su base volontaria.
E le nuove istruzioni per
la cancellazione precedono solo di qualche giorno la rituale
scadenza del prossimo 30 aprile, termine entro il quale i
citati soggetti aderenti al Sistri devono effettuare il
pagamento del contributo 2015 previsto dal dm 52/2011 (cd.
«Testo unico Sistri» adottato in attuazione del dlgs
152/2006, noma madre in materia)
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015). |
ENTI
LOCALI: Codice della strada.
No all'autovelox sul camioncino privato.
Il comune non può noleggiare un'autovettura con dentro un
autovelox e un vigile per fare multe a raffica.
Lo ha
evidenziato il ministero dei trasporti con il parere
12.03.2015 n. 1040 di prot..
L'impiego dei privati nelle attività di
polizia stradale è stato fortemente limitato sia dalla
circolare Maroni che dalla successiva legge 120/2010.
L'attività di polizia stradale non può essere delegata a
terzi ma i comandi possono eventualmente utilizzare
strumenti a noleggio o in leasing. Mentre le attrezzature
devono essere nell'esclusiva disponibilità degli organi di
vigilanza ai privati potranno essere affidati incarichi
ausiliari che però non potranno mai essere retribuiti a
percentuale.
Nel caso sottoposto all'esame del ministero una
ditta ha richiesto chiarimenti sulla legittimità
dell'impiego di un veicolo privato con tanto di lampeggiante
sul tetto per effettuare controlli elettronici della
velocità. Questa modalità non è conforme alle disposizioni
normative perché solo i veicoli nella disponibilità
dell'amministrazione pubblica possono essere utilizzati per
effettuare servizi in borghese di controllo della velocità,
muniti di lampeggiante blu.
In buona sostanza non è più
possibile noleggiare veicolo e autovelox e mettere un agente
di polizia municipale a bordo del veicolo con tanto di
lampeggiante per attivare controlli autovelox. Serve almeno
un veicolo del comune ovvero di un'altra pubblica
amministrazione, conclude il parere centrale
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province.
Mobilità, al via il portale.
Al via il portale della mobilità nella p.a., indispensabile
per garantire la ricollocazione del personale in esubero.
È
disponibile all'indirizzo
http://www.mobilita.gov.it la
funzionalità che consente a ciascun ente di area vasta
l'inserimento dei dati relativi al personale destinatario
della ricollocazione mediante procedure gestite dal portale
della mobilità, ai sensi dei commi 423 e seguenti della
legge 23.12.2014, n. 190. L'inserimento è finalizzato
a favorire l'incontro della domanda e dell'offerta di
mobilità.
Le amministrazioni, per poter accedere al sistema, dovranno
registrarsi sull'applicativo al fine di ottenere le apposite
credenziali di accesso che saranno inviate via mail
all'indirizzo del referente individuato
dell'amministrazione.
Per informazioni e assistenza si potrà contattare il desk
tecnico attraverso il numero telefonico 06/82888.782 dalle
ore 9:30 alle ore 13:30, oppure scrivere ai seguenti
indirizzi di posta elettronica
helpdesk@mobilitapa.it e
info@pec.mobilita.gov.it
Eventuali quesiti di carattere normativo potranno essere
indirizzati al seguente indirizzo di posta elettronica
segreteriauorcc@funzionepubblica.it
E sempre in materia di province, si segnala la convocazione
da parte dell'Upi di una assemblea straordinaria che si
terrà il 15 maggio a Roma. Obiettivo dell'incontro
rilanciare l'azione politica dell'associazione, attraverso
il massimo coinvolgimento dei sindaci e degli amministratori
comunali protagonisti dei nuovi enti di area vasta in linea
con la riforma Delrio, e, soprattutto, accendere i
riflettori sulla gravissima situazione dei servizi ai
cittadini, a rischio a causa del prelievo di 1 miliardo che,
secondo l'Upi, manderà in dissesto gran parte delle
province.
«La situazione delle nostre amministrazioni è
drammatica. Non siamo più in grado di garantire la sicurezza
nelle nostre strade, che siamo costretti a chiudere con
grave danno sia per i cittadini che per le imprese», hanno
dichiarato il presidente dell'Upi Alessandro Pastacci e i
presidenti delle Upi regionali
(articolo ItaliaOggi del 25.04.2015). |
URBANISTICA:
Piani urbanistici Registro all'1%.
Risoluzione su acquisti immobiliari.
Il fisco ci ripensa sui piani urbanistici particolareggiati
a iniziativa privata. L'agevolazione fiscale dell'imposta di
registro all'1% è applicabile agli acquisti di immobili siti
in tali aree indipendentemente dal fatto che al momento del
rogito sia stata stipulata o meno la convenzione di
lottizzazione tra il comune e il costruttore.
È quanto chiarisce l'Agenzia delle entrate con la
risoluzione 23.04.2015 n. 41/E,
che a seguito dell'indirizzo interpretativo adottato dalla
Cassazione abbandona le indicazioni fornite nella circolare
n. 9/2002.
La questione riguarda l'agevolazione prevista
dall'articolo 33 della legge n. 388/2000. Vale a dire la
possibilità di pagare l'imposta di registro dell'1% e le
ipocatastali in misura fissa per i trasferimenti di immobili
localizzati in aree soggette a piani urbanistici
particolareggiati, purché l'edificazione avvenga entro
cinque anni dal trasferimento. Il dl n. 223/2006 ha limitato
l'applicazione del beneficio ai programmi prevalentemente
destinati a edilizia residenziale convenzionata pubblica,
mentre la legge n. 296/2006 ha aperto anche ai privati.
Nel corso degli anni l'amministrazione finanziaria ha
provveduto a recuperare le maggiori imposte di registro per
gli atti di cessione di immobili siti in aree soggette a
piani di lottizzazione a iniziativa privata. Gli
accertamenti derivavano dal fatto che momento del rogito non
risultava perfezionata la convenzione di lottizzazione. Sul
punto si è innescato un ampio contenzioso, finito a più
riprese al vaglio della Cassazione. I giudici di legittimità
hanno in primis dato ragione alle Entrate (soprattutto tra
il 2009 e il 2011), ma successivamente l'orientamento è
mutato. Le numerose sentenze richiamate dalla risoluzione di
ieri evidenziano che l'estensione del beneficio fiscale
anche in assenza della convenzione di lottizzazione all'atto
di stipula «si è andato consolidando nel tempo».
Da qui la scelta dell'Agenzia di «considerare superate le
indicazioni contenute nella circolare n. 9/E del 2002 e
confermate con circolare n. 11/E del 2002». Le direzioni
territoriali vengono quindi invitate a riesaminare le cause
pendenti e ad abbandonarle «ove l'attività accertativa sia
stata effettuata secondo criteri non conformi a quelli
espressi dai giudici di legittimità, sempre che non siano
sostenibili altre questioni».
Si ricorda in ogni caso che
l'agevolazione non è più vigente dal 01.01.2014, per
effetto del dlgs n. 23/2011
(articolo ItaliaOggi del 24.04.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
ESPROPRIAZIONE: In salvo gli espropri pubblici. La p.a. può utilizzare
abusivamente un bene privato. Supera il vaglio della Corte costituzionale la norma che
sana interventi illegittimi.
Salva la p.a. che utilizza abusivamente un bene privato. La
procedura, disciplinata dall'articolo 42-bis del Testo unico
espropri (dpr 327/2001), che sana le espropriazioni
illegittime, supera, infatti, il vaglio della Corte
Costituzionale (sentenza
30.04.2015 n. 71).
La Consulta delinea, però, i paletti di un istituto, che
consente all'ente di trattenere nelle mani pubbliche un
immobile, in assenza di un valido ed efficace provvedimento
di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.
La norma in questione permette, dunque, all'amministrazione,
che utilizza un bene immobile per scopi di interesse
pubblico modificato illegittimamente, di disporre che esso
sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio.
Al proprietario spetta un indennizzo pari al valore venale
attuale del bene e, in più, anche un indennizzo a titolo di
danno non patrimoniale, pari al 10% del valore venale
stesso.
L'acquisizione può avvenire anche quando siano stati
annullati gli atti dell'esproprio e anche nel corso del
giudizio promosso dall'interessato per l'annullamento degli
atti dell'esproprio.
Siamo, quindi, di fronte a un'attività illegittima della
pubblica amministrazione, alla quale viene comunque data la
chance di acquisire fabbricati e terreni.
Il problema che si è posto è se la costituzione consente
questa disciplina speciale a favore dell'ente pubblico o se,
invece, vi sia violazione dei principi di uguaglianza e del
diritto di proprietà.
La consulta ha respinto i dubbi di incostituzionalità, alla
luce di alcune caratteristiche innovative dell'istituto.
Le differenze rispetto al precedente disciplina, in sintesi,
consistono nel carattere non retroattivo dell'acquisto,
nella necessaria rinnovazione della valutazione di attualità
e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre
l'acquisizione e, infine, nel rigoroso obbligo motivazionale
che circonda l'adozione del provvedimento.
Nel dettaglio, innanzitutto la p.a. acquisita la proprietà
del bene solo al momento dell'emanazione dell'atto di
acquisizione e non fin dall'inizio del procedimento di
esproprio: questo impedisce l'acquisto della proprietà del
bene se c'è una sentenza definitiva che dispone la
restituzione del bene al privato.
Poi la p.a. deve motivare pesantemente l'atto di
acquisizione, spiegando le ragioni di eccezionale interesse
pubblico che la spingono ad adottare una procedura così
incisiva. In particolare l'ente pubblico deve spiegare che
non ci sono possibili alternative all'ablazione del bene e
che si trova nell'impossibilità di restituirlo.
L'adozione dell'atto è consentita escluse altre opzioni,
compresa la cessione volontaria mediante atto di
compravendita e solo quando non sia ragionevolmente
possibile la restituzione, totale o parziale, del bene,
previa riduzione in pristino, al privato illecitamente
inciso nel suo diritto di proprietà.
Un rilievo determinante è dato, dalla sentenza in esame, al
fatto che l'indennizzo è congruo: si deve conteggiare non
solo il valore venale del bene, ma anche il danno non
patrimoniale, forfettariamente liquidato nella misura del
10% del valore venale del bene. Il surplus del 10% è un
beneficio che spetta di diritto, senza bisogno di dimostrare
il pregiudizio subito. Inoltre il passaggio del diritto di
proprietà è soggetto alla condizione sospensiva del
pagamento delle somme dovute, da effettuare entro 30 giorni
dal provvedimento di acquisizione.
Viene smentito chi sostiene che l'indennizzo non è
remunerativo o addirittura inferiore a quello conseguibile
con una ordinaria procedura di esproprio.
Così come la Consulta smentisce chi critica l'istituto
sottolineando che espone il proprietario del bene
potenzialmente senza limiti di tempo alle scelte
dell'amministrazione: il privato può reagire all'inerzia
della pubblica amministrazione, per esempio, con una messa
in mora della p.a., per poi impugnare l'eventuale
silenzio-rifiuto.
Infine non si prevede più la cosiddetta acquisizione in via
giudiziaria, che si verificava quando l'acquisizione del
bene in favore della pubblica amministrazione poteva
realizzarsi anche per effetto dell'intermediazione di una
pronuncia del giudice amministrativo
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015). |
APPALTI:
E' irrilevante ai fini del risarcimento del danno
in materia di appalti pubblici il carattere colpevole della
condotta della Pubblica Amministrazione.
Ai fini del risarcimento del danno in materia di appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture, dopo la nota
sentenza 30.09.2010, C 314/09 della Corte di Giusta dell'UE,
non assume più rilievo il carattere colpevole della condotta
della Pubblica Amministrazione; è, invero, costante
l'orientamento espresso dal giudice amministrativo, il quale
ha precisato che "la vigente normativa europea relativa
alle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, forniture e servizi non consente
che la pretesa ad ottenere il risarcimento del danno da
un'amministrazione pubblica che abbia violato le norme sulla
disciplina degli appalti sia subordinato al carattere
colpevole di tale violazione. Il rimedio risarcitorio
previsto dall'art. 2, n. 1, lett. c), dell'originaria
direttiva 89/665/CEE può costituire, se del caso,
un'alternativa procedurale compatibile con il principio di
effettività della tutela soltanto a condizione che la
possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di
violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia
subordinata, così come non lo sono gli altri mezzi di
ricorso previsti dal citato art. 2, n. 1, alla constatazione
dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto
dall'Amministrazione aggiudicatrice. Poco importa, per il
giudice comunitario, che un ordinamento nazionale non faccia
gravare sul ricorrente l'onere della prova dell'esistenza di
una colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice, ma la presuma
a carico della stessa; infatti, dal momento in cui si
consente a quest'ultima di vincere la presunzione di
colpevolezza su di essa gravante, si genera ugualmente il
rischio che il ricorrente leso da un atto illegittimo di
un'Amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato
della spettanza del risarcimento per il danno causato da
tale decisione, nel caso in cui l'Amministrazione riesca a
superare la suddetta eventuale presunzione di colpa"
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 28.04.2015 n. 451 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
finalità dell’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001, in tema di
annullamento del permesso di costruire, è quella di dettare
una disciplina che tenga in adeguata considerazione, in
ragione degli interessi implicati, la circostanza che
l’intervento edilizio è stato realizzato in presenza di un
titolo abilitativo che, solo successivamente, è stato
dichiarato illegittimo.
L’amministrazione deve, pertanto, valutare, con specifica
motivazione, in ragione soprattutto di eventuali
sopravvenienze di fatto o di diritto e della effettiva
situazione contenutistica del vincolo, se sia possibile
convalidare l’atto annullato.
In altri termini, l’annullamento del permesso di costruire
non comporta affatto per il Comune l’obbligo sempre e
comunque di disporre la demolizione di quanto realizzato
sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al
divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di
riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano)
che detto titolo avevano connotato.
L’art. 38 del d.p.r. n. 380 del 2001 dispone che, «in
caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non
sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione
dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in
pristino, il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al
valore venale delle opere o loro parti abusivamente
eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla
base di accordi stipulati tra quest'ultima e
l'amministrazione comunale».
La finalità della norma è quella di dettare una disciplina
che tenga in adeguata considerazione, in ragione degli
interessi implicati, la circostanza che l’intervento
edilizio è stato realizzato in presenza di un titolo
abilitativo che, solo successivamente, è stato dichiarato
illegittimo.
L’amministrazione deve, pertanto, valutare, con specifica
motivazione, in ragione soprattutto di eventuali
sopravvenienze di fatto o di diritto e della effettiva
situazione contenutistica del vincolo, se sia possibile
convalidare l’atto annullato. In altri termini,
l’annullamento del permesso di costruire «non comporta
affatto per il Comune l'obbligo sempre e comunque di
disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del
titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di
adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i
medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto
titolo avevano connotato» (Cons. Stato, Sez. IV,
17.09.2012, n. 4923).
Nel caso in esame, il Comune ha annullato il permesso di
costruire e contestualmente ha ordinato la demolizione delle
opere realizzate.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6372 del 2012, ha
ritenuto legittimo l’atto di autotutela ma non si è
espresso, come erroneamente ritenuto, invece, dal primo
giudice, in ordine alla legittimità dell’originario ordine
di demolizione.
Deve, pertanto, ritenersi che l’annullamennto in autotutela
del permesso di costruire abbia determinato il “superamento”
dell’originario ordine di demolizione che non conteneva le
valutazioni motivazionali sopra indicate.
Ne consegue che il Comune non poteva accertare
l’inottemperanza al suddetto ordine, ma avrebbe dovuto
adottare un nuovo atto contenente una esplicita motivazione
relativa alla emendabilità o meno del vizio riscontrato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2015 n. 2137 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il Piano di lottizzazione ha durata decennale per
cui decorso il relativo termine esso perde di efficacia. Il
suddetto termine è stato ricavato, in assenza di espressa
regolamentazione da parte dell’art. 28 della legge n. 1150
del 1942 dalla norma analoga dettata dall’art. 17 della
legge urbanistica per i piani particolareggiati, stante la
identità di ratio esistente fra i due piani attuativi.
L’ultrattività delle prescrizioni del piano di lottizzazione
non può concretamente configurarsi giacché essa
confliggerebbe con la finalità sottesa alla fissazione di un
termine di efficacia, coincidente esattamente con l’esigenza
di assicurare effettività e attualità alle previsioni
urbanistiche, il che risulterebbe compromesso se le
lottizzazioni convenzionate avessero l’effetto di
condizionare a tempo indeterminato la pianificazione
urbanistica futura.
Ne deriva che la scadenza del termine fa venir meno sul
piano oppositivo i presupposti per lo ius aedificandi e, sul
piano urbanistico, l’affidamento all’intangibilità delle
destinazioni urbanistiche definite dal Piano.
---------------
E' irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla
scadenza del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione la circostanza della imputabilità della
mancata attuazione, se dovuta alla pubblica amministrazione
o al privato lottizzante.
Il fatto certo che rileva insomma è che il Piano attuativo
(come accaduto nella fattispecie) è rimasto comunque
ineseguito per il periodo di efficacia dello stesso e
l’inutile spirare di tale termine costituisce causa
sufficiente e giustificativa dell’adozione della
dichiarazione di decadenza.
---------------
Se l’omesso completamento delle opere di urbanizzazione
entro il termine di legge osta al perfezionamento di una
pretesa sostanziale al rilascio dei titoli edilizi,
nondimeno la scadenza del termine di esecuzione di un piano
attuativo determina l’inefficacia dello stesso, ma fa salva
la destinazione urbanistica data all’area dal piano
regolatore, di guisa che l’Amministrazione nella adozione
delle nuove decisioni sull’assetto urbanistico della
porzione del territorio interessata non può prescindere
totalmente dalla posizione degli originari sottoscrittori
della convenzione.
Col primo motivo d’impugnazione parte appellante
deduce la illegittimità della delibera dichiarativa della
decadenza del Piano sul rilievo che le prescrizioni
urbanistiche da esso recate sono destinate a rimanere
pienamente operanti anche oltre la scadenza del termine
decennale, fino a che l’Amministrazione non provvede a dare
un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate.
In tal modo, il Comune ha trascurato l’interesse pubblico
urbanistico all’attuazione del Piano e in ciò si
concretizzerebbe il denunciato sviamento.
I dedotti profili di doglianza sono privi di giuridico
fondamento.
Appare utile qui richiamare il pacifico orientamento
giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato (cfr. Sez. VI
20/1/2003 n. 200) per il quale il Piano di lottizzazione ha
durata decennale per cui decorso il relativo termine esso
perde di efficacia.
Il suddetto termine è stato ricavato, in assenza di espressa
regolamentazione da parte dell’art. 28 della legge n. 1150
del 1942 dalla norma analoga dettata dall’art. 17 della
legge urbanistica per i piani particolareggiati, stante la
identità di ratio esistente fra i due piani attuativi
(Cons. Stato Sez. IV 19/03/1991 n. 300; idem 30/06/2004 n.
4803 e 25/07/2001 n. 4073).
Ora l’ultrattività delle prescrizioni del piano di
lottizzazione non può concretamente configurarsi giacché
essa confliggerebbe con la finalità sottesa alla fissazione
di un termine di efficacia, coincidente esattamente con
l’esigenza di assicurare effettività e attualità alle
previsioni urbanistiche, il che risulterebbe compromesso se
le lottizzazioni convenzionate avessero l’effetto di
condizionare a tempo indeterminato la pianificazione
urbanistica futura.
Ne deriva che la scadenza del termine fa venir meno sul
piano oppositivo i presupposti per lo ius aedificandi
e, sul piano urbanistico, l’affidamento all’intangibilità
delle destinazioni urbanistiche definite dal Piano (Cons.
Stato Sez. IV 13/04/2005 n. 1743).
---------------
Col quarto motivo parte appellante assume che la
mancata attuazione del Piano è imputabile unicamente
all’amministrazione in ragione dei comportamenti omissivi da
questa tenuti, il tutto in violazione degli obblighi di
correttezza e di collaborazione nella esecuzione della
convenzione.
Il motivo non ha pregio.
Al riguardo è necessario occuparsi, di un evento, già
accennato in fatto, dal contenuto decisivo in ordine alle
sorti della convenzione di lottizzazione.
Invero, l’atteggiamento del Comune di prudenza prima e di
diniego poi a rilasciare i chiesti titoli ad aedificandum
per i lotti di fabbricati è stato determinato dalla
intervenuta insorgenza di una controversia davanti al
giudice civile che ha visto protagonisti le parti
lottizzanti (i C. e l’Impresa M.) e il sig. M. in ordine
all’accertamento dei confini di proprietà, nella misura in
cui l’azione possessoria oggetto del giudizio ha interessato
direttamente una porzione del territorio della convenzione
destinato a fungere da strada di accesso a servizio
dell’intero piano di lottizzazione.
In vista perciò di una probabile compromissione dello stato
dei luoghi interessato dal progettato e convenzionato
intervento il Comune, con la volontà espressa direttamente
dal Consiglio comunale, ha ritenuto, in relazione alle
conseguenze connesse all’esito della controversia de qua
sull’intero assetto del Piano, di soprassedere in ordine
all’attuazione dello strumento urbanistico attuativo in
questione e il comportamento tenuto dall’Amministrazione
avuto riguardo alle ragioni ad esso sottese non pare possa
qualificarsi come ingiustificato.
In ogni caso, quanto al prosieguo dell’iter procedurale
neppure sono evincibili elementi di giudizio dai quali,
sulla scorta dei fatti che hanno contrassegnato l’annosa
vicenda è possibile dedurre con ragionevole certezza la
sussistenza in capo al Comune di una condotta omissiva e/o
dilatoria.
Né di converso, nessuno dei privati lottizzanti ha avuto
cura di avanzare una proposta di variante al Piano di
lottizzazione idonea a superare l’impasse imposto dal
contenzioso civilistico nelle more insorto.
Vale comunque qui richiamare, quale elemento dirimente della
questione il principio più volte affermato da questo
Consesso secondo il quale è irrilevante ai fini delle
conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di
efficacia del piano di lottizzazione la circostanza della
imputabilità della mancata attuazione, se dovuta alla
pubblica amministrazione o al privato lottizzante (cfr.
Cons. Stato Sez. IV 10/08/2011).
Il fatto certo che rileva insomma è che il Piano attuativo
(come accaduto nella fattispecie) è rimasto comunque
ineseguito per il periodo di efficacia dello stesso e
l’inutile spirare di tale termine costituisce causa
sufficiente e giustificativa dell’adozione della
dichiarazione di decadenza.
---------------
Col quinto motivo
di appello i sigg.ri C. fanno valere la fondatezza della già
proposta richiesta risarcitoria di primo grado e ciò non
solo e non tanto in relazione alla illegittimità del
provvedimento impugnato, ma con riferimento alla condotta
inadempiente e al comportamento complessivo tenuto
dall’Amministrazione che avrebbe reso impossibile
l’esecuzione del piano, con conseguente obbligo del
risarcimento del danno subito dagli interessati.
La pretesa risarcitoria è da ritenersi inammissibile e
comunque infondata.
Con riferimento agli interessi legittimi oppositivi propri
dell’impugnazione l’assenza di vizi di legittimità a carico
del provvedimento gravato impedisce di per sé la
configurazione di un’azione amministrativa contra legem
causativa di danno ingiusto suscettibile di ristoro
patrimoniale, secondo lo schema di responsabilità aquiliana
ex art. 2043 codice civile (Cass. I Sez. civ. 10/01/2003 n.
157).
Quanto poi agli aspetti di tipo pretensivo collegati al
dedotto non corretto comportamento dell’Amministrazione che,
ad avviso della parte appellante, avrebbe in sostanza
impedito lo sfruttamento dell’attitudine edificatoria dei
suoli oggetto di lottizzazione neppure è possibile ravvisare
nell’agire del Comune di Pula una condotta contraria ai
doveri di correttezza non essendo provata l’inadempienza
dell’Amministrazione alle pattuizioni poste in convenzione.
D’altra parte va osservato, in relazione al bene della vita
sostanzialmente rivendicato dagli appellanti, che se
l’omesso completamento delle opere di urbanizzazione entro
il termine di legge osta al perfezionamento di una pretesa
sostanziale al rilascio dei titoli edilizi, nondimeno la
scadenza del termine di esecuzione di un piano attuativo
determina l’inefficacia dello stesso, ma fa salva la
destinazione urbanistica data all’area dal piano regolatore,
di guisa che l’Amministrazione nella adozione delle nuove
decisioni sull’assetto urbanistico della porzione del
territorio interessata non può prescindere totalmente dalla
posizione degli originari sottoscrittori della convenzione
(Cons. Stato Sez. IV 03/11/1998 n. 1412), il che non
giustifica un diritto al risarcimento (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2015 n. 2108 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante giurisprudenza, l’accertamento dell’avvenuto inizio
dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di
costruire, necessario a evitarne la decadenza, è questione
di fatto, da valutarsi caso per caso con riguardo al
complesso delle circostanze concrete.
L’avvio delle opere, in ogni caso, deve essere reale ed
effettivo, manifestazione di un serio e comprovato intento
di esercitare il diritto di edificare, e non solo apparente
o fittizio, magari volto al solo scopo di evitare la temuta
perdita di efficacia del titolo.
L’effettivo inizio dei lavori nell’anno corrisponde a un
interesse pubblico, relativo all’esercizio dei poteri
programmatori spettanti all’Amministrazione comunale. Per
tale ragione, la giurisprudenza è orientata a valutare i
dati di fatto con rigore e a ritenere irrilevanti, ad
esempio, la ripulitura del sito, l’approntamento del
cantiere e dei materiali occorrenti per l’esecuzione dei
lavori nell’immobile, lo sbancamento del terreno.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale del tutto
prevalente, la decadenza del titolo edilizio per omessa
osservanza del termine di avvio dei lavori ha natura
vincolata e opera di diritto: il provvedimento relativo, ove
adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto
verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso
decorso del termine prefissato.
... per la riforma della sentenza breve del TAR
Toscana-Firenze: Sezione III n. 1515/2014, resa tra le
parti, concernente decadenza del permesso di costruire;
...
I lavori avviati dall’appellante (in data 07.01.2011 o,
secondo successiva versione, il 13.12.2010) consistono -come
recita il ricorso introduttivo- nel picchettamento per
determinare l’esatta posizione del nuovo capannone.
Per costante giurisprudenza, l’accertamento dell’avvenuto
inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di
costruire, necessario a evitarne la decadenza, è questione
di fatto, da valutarsi caso per caso con riguardo al
complesso delle circostanze concrete. L’avvio delle opere,
in ogni caso, deve essere reale ed effettivo, manifestazione
di un serio e comprovato intento di esercitare il diritto di
edificare, e non solo apparente o fittizio, magari volto al
solo scopo di evitare la temuta perdita di efficacia del
titolo (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 02.11.2004, n.
7748; Id., sez. IV, 15.04.2013, n. 2027, ove riferimenti
ulteriori).
L’effettivo inizio dei lavori nell’anno corrisponde a un
interesse pubblico, relativo all’esercizio dei poteri
programmatori spettanti all’Amministrazione comunale. Per
tale ragione, la giurisprudenza è orientata a valutare i
dati di fatto con rigore e a ritenere irrilevanti, ad
esempio, la ripulitura del sito, l’approntamento del
cantiere e dei materiali occorrenti per l’esecuzione dei
lavori nell’immobile, lo sbancamento del terreno (si veda
più ampiamente Cons. Stato, sez. IV, n. 2027 del 2013, cit.;
Id., sez. IV, 20.12.2013, n. 6151).
Come ha correttamente affermato il Tribunale regionale, le
opere dichiarate dalla parte -anche data per ammessa la loro
avvenuta esecuzione entro la più risalente delle date sopra
indicate, il che appare comunque scarsamente verosimile-
appaiono del tutto marginali e preparatorie e comunque non
idonee allo scopo.
L’appellante dichiara che il fermo dei lavori è stato
pressoché immediato; solo in data 02.10.2012 ha comunicato
al Comune la ripresa dell’intervento con una diversa
impresa.
Le circostanze addotte per giustificare il ritardo (il
rinvenimento di uno sperone roccioso, che avrebbe reso
necessaria la sostituzione dell’impresa esecutrice;
l’alluvione che ha colpito la Maremma) possono avere
impedito il reale avvio delle opere nel termine prescritto e
avrebbero potuto forse anche giustificare la proroga del
termine per l’inizio dei lavori (come prevede l’art. 15,
comma 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 380 del 2001).
La proroga non risulta tuttavia accordata e nemmeno
richiesta, cosicché tali circostanze non possono produrre
alcuna giustificazione circa il mancato rispetto del termine
di legge;
Secondo l’orientamento giurisprudenziale del tutto
prevalente, la decadenza del titolo edilizio per omessa
osservanza del termine di avvio dei lavori ha natura
vincolata e opera di diritto: il provvedimento relativo, ove
adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto
verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso
decorso del termine prefissato (cfr., per tutte, Cons.
Stato, sez. IV, 07.09.2011, n. 5028; Id., sez. IV,
23.02.2012, n. 974; Id., sez. IV, 18.05.2012, n. 2915; Id.,
sez. IV, n. 6151 del 2013, cit.);
In disparte ogni altro rilievo, la tardività dell’inizio
dell’intervento rende l’appello infondato e destinato al
rigetto.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante:
ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass.
civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più
recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono
stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione
di segno diverso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2015 n. 2093 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto
dovuto, privo di contenuto discrezionale, avente natura
meramente dichiarativa, subordinato unicamente
all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del
termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino
dello stato dei luoghi.
-------------------
L'art. 31, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 380/2001 prevede che
"il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di
permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con
variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo
32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell' abuso
la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento
l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.
Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione
e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di
novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime,
nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune".
Dall'esame della disposizione richiamata emerge che il
proprietario deve ritenersi passivamente legittimato
rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente
dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso.
Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e
manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi
consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera
abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato ad eseguire.
Si evidenzia, in particolare, che la Corte Costituzionale
nel precisare che l'acquisizione gratuita dell'area non è
una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire
la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, ha chiarito che tale
sanzione si riferisce esclusivamente al responsabile
dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di
altri soggetti e, in particolare, nei confronti del
proprietario dell'area quando risulti, in modo
inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento
dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a
conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti
offerti dall'ordinamento.
La Cassazione ha, inoltre, ulteriormente evidenziato che al
fine di configurare la responsabilità del proprietario di
un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è
necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa
ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche
solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei
lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare
la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o
affinità tra responsabile e proprietario, della sua
eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di
vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime
patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni
e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi
elementi integrativi della colpa.
---------------
Il provvedimento di acquisizione non deve essere
necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del privato ed il cui presupposto è
costituito unicamente dalla constatata mancata ottemperanza
al precedente ordine di demolizione.
... per l'annullamento dell’ordinanza prot. n. 11827 del
20.03.2014, con la quale l’amministrazione comunale di
Casalnuovo di Napoli ha dichiarato l’acquisizione gratuita
al proprio patrimonio delle opere abusive sanzionate con il
provvedimento demolitorio n. 17 del 29.05.2013.
...
4. Non meritano accoglimento neanche le deduzioni dirette a
contestare la carenza di motivazione.
4.1. In conformità alla consolidata giurisprudenza (il che
esime da citazioni specifiche), il Collegio evidenzia che
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive è atto dovuto, privo di contenuto discrezionale,
avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente
all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del
termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino
dello stato dei luoghi.
5. L’approfondimento in ordine all’oggetto del provvedimento
acquisitivo, in rapporto anche alla presupposta ordinanza di
demolizione, consente di rilevare, tra l’altro,
l’infondatezza delle deduzioni incentrate sulla
quantificazione operata dall’amministrazione.
5.1. L’ordinanza di demolizione n. 17 del 29.05.2013, in
particolare, ha avuto ad oggetto la realizzazione di sei
manufatti e di una baracca, oltre alla pavimentazione con
asfalto dell’area del fondo; il provvedimento ha, nello
specifico, rilevato e sanzionato la modifica della
destinazione del contesto interessato, inserito nella Z.T.O.
“E- agricola” e inequivocamente l’avvertimento delle
conseguenze correlate all’inottemperanza ha considerato
“l’intera superficie della particella n. 952 del foglio 11,
pari a mq. 2436”.
5.2. La suddetta ordinanza (come emerge dalle produzioni
documentali di parte resistente del 23.06.2014) è stata
notificata a tutti gli interessati, odierni ricorrenti, e,
inoltre, l’oggetto del provvedimento acquisitivo risulta
pienamente coerente e coincidente con le contestazioni alla
base dell’irrogazione della sanzione demolitoria,
risultando, pertanto, infondate le contestazioni che mirano
a censurare la quantificazione operata dall’amministrazione
comunale.
5.3. Le considerazioni che precedono, inoltre, consentono di
evidenziare l’inconferenza del riferimento alla sentenza di
questa Sezione n. 230 del 15.01.2015 (depositata nel
corso dell’udienza pubblica dalla difesa dei ricorrenti),
venendo in rilievo circostanze fattuali radicalmente
diverse, correlate al superamento del limite
all’acquisizione fissato dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del
2001 non applicabile al caso che ne occupa, stante
l’estensione, la consistenza e la natura dell’abuso
sanzionato con l’ordinanza rimasta inottemperata.
6. In esito ad un approfondito esame della documentazione in
atti, inoltre, il Collegio valuta infondato anche il motivo
di ricorso con il quale, attraverso il richiamo ai principi
espressi dalla Corte Costituzionale in materia, è stata
contestata la legittimità del provvedimento impugnato in
considerazione dell’asserita estraneità di N.S. e M.S. alla commissione dell’abuso, avendo questi
ultimi acquisito la comproprietà del bene solo nel marzo
2013.
6.1. L'art. 31, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 380/2001 prevede
che "il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di
permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con
variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo
32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell' abuso
la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento
l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.
Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione
e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di
novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime,
nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune".
6.2. Dall'esame della disposizione richiamata emerge che il
proprietario deve ritenersi passivamente legittimato
rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente
dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso.
Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e
manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi
consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera
abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato ad eseguire (cfr. tra le tante
Consiglio di Stato, IV, 03.05.2011, n. 2639; TAR Lazio,
Roma, II, 14.02.2011, n. 1395; TAR Umbria, 25.11.2008, n.
787).
6.3. Si evidenzia, in particolare, che la Corte
Costituzionale (cfr. sentenza n. 345 del 15.07.1991) nel
precisare che l'acquisizione gratuita dell'area non è una
misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, ha chiarito che tale
sanzione si riferisce esclusivamente al responsabile
dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di
altri soggetti e, in particolare, nei confronti del
proprietario dell'area quando risulti, in modo
inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento
dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a
conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti
offerti dall'ordinamento.
6.4. La Cassazione ha, inoltre, ulteriormente evidenziato
che al fine di configurare la responsabilità del
proprietario di un'area per la realizzazione di una
costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi
in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi
abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o
l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena
disponibilità giuridica e di fatto del suolo e
dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione,
così come dei rapporti di parentela o affinità tra
responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in
loco, dello svolgimento di attività di vigilanza
dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei
coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti
positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi
integrativi della colpa (cfr. Cassazione penale, sez. III,
12.04.2005, n. 26121).
6.5. In applicazione dei principi sopra richiamati, nel caso
che ne occupa, oltre allo stretto rapporto di parentela che
sussiste tra gli interessati (G.S., infatti, ha
trasferito i beni de quibus alla moglie F.R. ed ai
figli N. e M. con un atto che, sebbene
asseritamente correlato all’adempimento degli obblighi
assunti in sede di procedimento di separazione, risulta
sottoscritto solo pochi giorni prima ((27.03.2013)
dell’avvio degli accertamenti indicati nella narrativa in
fatto), emerge che il provvedimento demolitorio è stato
notificato a tutti i proprietari che non risultano aver
posto in essere alcuna attività diretta a rimuovere gli
abusi, in adempimento dell’ingiunzione disposta. Tali
circostanze, in assenza di ulteriori, oggettivi elementi che
non sono stati né indicati né allegati dalla difesa dei
ricorrenti, escludono la fondatezza della censura, posto che
una diversa interpretazione finirebbe all’evidenza con
l’avallare il ricorso ad eventuali pratiche elusive in
contrasto con le finalità sottese alla repressione degli
abusi edilizi.
7. La difesa dei ricorrenti ha censurato il provvedimento
gravato anche a motivo dell’omessa comunicazione di avvio
del procedimento.
7.1. La censura va disattesa in quanto infondata.
7.2. Come affermato pacificamente dalla giurisprudenza, il
provvedimento di acquisizione non deve essere
necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del privato ed il cui presupposto è
costituito unicamente dalla constatata mancata ottemperanza
al precedente ordine di demolizione (cfr., Cons. St., sez. IV, 26.02.2013, n. 1179) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.04.2015 n. 2376 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
PGT: il termine di 90 gg. inerisce la controdeduzione delle
osservazioni e non l'approvazione, sicché solo nel primo
caso l'eventuale inosservanza del termine comporta
l'inefficacia dell'intero procedimento.
L’articolo 13 della legge regionale n. 12 del 2005 dispone,
al comma 7, che “Entro novanta giorni dalla scadenza del
termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all'adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo.”.
Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento
già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la
quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che
della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione
contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge,
debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che
l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa
determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero
procedimento sino ad allora svolto.
In particolare, si è affermato che una soluzione che
sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera
violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...) ad
esiti contrastanti con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività
amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel
nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di
rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con
il principio di economicità oltre che con la ratio
acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di
celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il
termine previsto dall’art. 13, c. 7 della legge regionale n.
12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia
dell’atto di adozione del piano di governo del territorio,
in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera
procedura amministrativa.”.
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha
aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato
che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale
–come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla
scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni”. Ciò –secondo
l’orientamento richiamato– “consente di riferire la sanzione
della inefficacia alla inosservanza non del termine di
novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma
di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione,
ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle
osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le
conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente,
“l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la
loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle
osservazioni presentate dagli interessati”.
Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore
letterale della previsione normativa, è altresì in linea con
il principio generale per il quale i termini per la
conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola
non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure
complesse, con la partecipazione di una pluralità di
soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli
interessi, pubblici o privati, coinvolti.
1.4 Nel merito, il motivo è tuttavia infondato.
1.4.1 Rileva il Collegio che l’articolo 13 della legge
regionale n. 12 del 2005 dispone, al comma 7, che “Entro
novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all'adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo.”.
Il successivo comma 7-bis –introdotto dall'articolo 1, comma
1, lett. a) della legge regionale 03.10.2007, n. 24 e poi
modificato nell’attuale tenore dall’articolo 3, comma 9,
lett. a) della legge regionale 22.02.2010, n. 11–
stabilisce, inoltre, che “Il termine di cui al comma 7 è
di centocinquanta giorni qualora, nella fase del
procedimento di approvazione del PGT successiva all’adozione
dello stesso, venga pubblicato il decreto di indizione dei
comizi elettorali per il rinnovo dell’amministrazione
comunale.”.
Le suddette disposizioni stabiliscono, quindi, un termine
entro il quale deve pervenirsi alla conclusione del
procedimento di formazione del PGT, con evidente ratio
acceleratoria dell’iter dello strumento urbanistico.
Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento
già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la
quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che
della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione
contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge,
debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che
l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa
determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero
procedimento sino ad allora svolto (TAR Lombardia, Milano,
Sez. II, 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010,
n. 7614; 10.12.2010, n. 7508).
In particolare, si è affermato che una soluzione che
sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera
violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...)
ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività
amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel
nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di
rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con
il principio di economicità oltre che con la ratio
acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di
celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il
termine previsto dall’art. 13, c. 7 della legge regionale n.
12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia
dell’atto di adozione del piano di governo del territorio,
in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera
procedura amministrativa.” (così la richiamata pronuncia
della Sezione n. 7508 del 2010).
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha
aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato
che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale
–come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla
scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni”. Ciò –secondo
l’orientamento richiamato– “consente di riferire la
sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine
di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma,
ma di quanto stabilito nella seconda parte della
disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere
sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le
conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente, “l’inefficacia
degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione
non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni
presentate dagli interessati” (così ancora la sentenza
n. 7508 del 2010).
1.4.2 Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore
letterale della previsione normativa, è altresì in linea con
il principio generale per il quale i termini per la
conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola
non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure
complesse, con la partecipazione di una pluralità di
soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli
interessi, pubblici o privati, coinvolti (TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 14.11.2012, n. 2750).
Sotto altro profilo, non può neppure accedersi alla tesi
della ricorrente, secondo la quale la natura ordinatoria del
termine sarebbe esclusa dalla circostanza che il comma 7-bis
del medesimo articolo 13 abbia previsto una fattispecie
nella quale il termine è elevato a centocinquanta giorni. Ad
avviso della ricorrente, non sarebbe logico prevedere una
maggiore durata di un termine che non sia perentorio.
La tesi, come detto, non convince, in quanto la fissazione
del termine, benché ordinatorio, svolge pur sempre una
funzione di accelerazione dei procedimenti e individua quali
siano le modalità per il corretto operare
dell’Amministrazione. Conseguentemente, non può ritenersi
priva di rilevanza l’elevazione del termine nella
fattispecie di cui al comma 7-bis, posto che –al contrario–
sarebbe irragionevole fissare un termine, benché non
perentorio, che non possa essere ragionevolmente osservato.
1.4.3 Deve, quindi, concludersi nel senso che della
disposizione di legge regionale debba farsi necessariamente
un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a
garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e buon andamento della pubblica
amministrazione (articoli 3 e 97 della Costituzione), nonché
ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga
ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale
(articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale
stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera
di adozione del piano, fissando unicamente i termini di
efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro
di durata pluriennale (articolo 12 del d.P.R. n. 380 del
2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal
tenore letterale della previsione normativa, deve
privilegiarsi quella, sopra illustrata, che attribuisce al
termine per l’approvazione finale del piano natura
ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in
correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni
pervenute.
1.5 Deve, poi, evidenziarsi che la giurisprudenza della
Sezione ha altresì preso in considerazione, ai fini della
valutazione del rispetto del termine, la circostanza che
alla data della sua scadenza fosse in corso la fase
decisoria finale del PGT, ritenendo in tal caso legittimo e
rispettoso della previsione normativa l’operato del Comune
(v. le richiamate sentenze n. 2765 del 2014 e n. 7614 del
2010).
Ciò è quanto avvenuto anche nel caso di specie, poiché
l’avvio della fase di approvazione (20.02.2012) ricade entro
i novanta giorni dalla data in cui la delibera di revoca
della precedente approvazione è divenuta esecutiva
(07.12.2011), né risulta che la rinnovata fase
procedimentale di approvazione sia stata successivamente
interrotta.
Aderendo all’orientamento giurisprudenziale sopra
richiamato, deve quindi concludersi nel senso che il termine
sia stato, nella specie, osservato, senza che a tal fine
occorra interrogarsi in merito all’applicabilità del più
lungo termine previsto dal comma 7-bis dell’articolo 13 (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.04.2015 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo quanto affermato costantemente dalla
giurisprudenza, gli apprezzamenti compiuti
dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica
sono da ritenere sindacabili solo laddove risultino
inficiati da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste,
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare.
Inoltre, l’Amministrazione non è tenuta a confutare
analiticamente le singole osservazioni, poiché queste ultime
costituiscono meri apporti collaborativi, con la conseguenza
che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione,
essendo sufficiente che le osservazioni siano state
esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del
piano.
Costituisce, poi, una massima giurisprudenziale consolidata
l’affermazione per cui “Fatte salve le scelte incidenti su
zone territorialmente circoscritte, in sede di adozione di
uno strumento urbanistico l’onere di motivazione gravante
sull’amministrazione è di portata generale e risulta
soddisfatto tramite l’indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte urbanistiche, senza
necessità di una motivazione puntuale.
Con l’ulteriore corollario per cui “L'amministrazione
comunale non è tenuta ad una particolareggiata motivazione
in ordine ad ogni singola scelta urbanistica effettuata con
il nuovo strumento di pianificazione, anche laddove la nuova
scelta si discosti da destinazioni precedentemente impresse
al territorio dal precedente strumento urbanistico, essendo
sufficiente che emergano nel complesso le ragioni che
sorreggono l'esercizio della potestà pianificatoria".
---------------
La giurisprudenza ravvisa un affidamento qualificato del
privato rispetto alla precedente disciplina urbanistica,
tale da determinare un più stringente onere motivatorio
delle scelte di piano.
Tali evenienze –comportanti un onere di motivazione più
incisivo– sono state ravvisate infatti:
- nel superamento degli standards minimi di cui al decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444;
- nella lesione dell'affidamento qualificato del privato
derivante da convenzioni di lottizzazione, da accordi di
diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari
delle aree, da aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di
silenzio-rifiuto su domanda di concessione edilizia, ecc.;
- nella modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
3.1 Il motivo è
infondato.
Rileva anzitutto il Collegio che, secondo quanto affermato
costantemente dalla giurisprudenza, gli apprezzamenti
compiuti dall’Amministrazione in sede di pianificazione
urbanistica sono da ritenere sindacabili solo laddove
risultino inficiati da arbitrarietà od irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare (così,
ex multis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.05.2014,
n. 1281).
Inoltre, l’Amministrazione non è tenuta a confutare
analiticamente le singole osservazioni, poiché queste ultime
costituiscono meri apporti collaborativi, con la conseguenza
che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione,
essendo sufficiente che le osservazioni siano state
esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del
piano (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008,
n. 3358; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.07.2014, n.
1972).
Costituisce, poi, una massima giurisprudenziale consolidata
l’affermazione per cui “Fatte salve le scelte incidenti
su zone territorialmente circoscritte, in sede di adozione
di uno strumento urbanistico l’onere di motivazione gravante
sull’amministrazione è di portata generale e risulta
soddisfatto tramite l’indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte urbanistiche, senza
necessità di una motivazione puntuale (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 20.02.2014 n. 793; id. 10.05.2012 n. 2710; id.
08.06.2011 n. 3497 e id. 03.11.2008 n. 5478).” (così Cons.
Stato, Sez. IV, 01.07.2014 n. 3294. V. anche Ad. Plen., n.
24 del 1999). Con l’ulteriore corollario per cui
“L'amministrazione comunale non è tenuta ad una
particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola
scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di
pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da
destinazioni precedentemente impresse al territorio dal
precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che
emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l'esercizio
della potestà pianificatoria (cfr. Consiglio di Stato sez.
IV 12/05/2011 n. 2863)” (così ancora Cons. Stato, n.
3294 del 2014, cit.).
Nel caso oggetto del presente giudizio, non è ravvisabile
nessuna delle situazioni in presenza delle quali la
giurisprudenza ravvisa un affidamento qualificato del
privato rispetto alla precedente disciplina urbanistica,
tale da determinare un più stringente onere motivatorio
delle scelte di piano. Tali evenienze –comportanti un onere
di motivazione più incisivo– sono state ravvisate infatti:
nel superamento degli standards minimi di cui al decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444; nella lesione
dell'affidamento qualificato del privato derivante da
convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato
intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, da
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
domanda di concessione edilizia, ecc.; nella modificazione
in zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (v. TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1972 del 2014, cit.).
Nessun affidamento qualificato poteva invece vantare la
ricorrente, in ragione della mera circostanza che la
precedente disciplina di piano prevedesse un determinato
indice di edificabilità, ad essa più favorevole rispetto a
quello attualmente stabilito
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.04.2015 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’art.
7 della l. 17.08.1942 n. 1150 stabilisce che il Piano
regolatore generale determina l’assetto urbanistico
dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo
“le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico
nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o
sociale”.
L’art. 41-quinquies, comma 8, della l. n. 1150/1942
stabilisce che “in tutti i Comuni, ai fini della formazione
di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti, debbono essere osservati […] rapporti massimi tra
spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi
e spazi pubblici, o riservati alle attività collettive, a
verde pubblico o a parcheggi” avuto riguardo a “zone
territoriali omogenee” (comma 9).
In sostanza la divisione del territorio in zone omogenee
serve alla razionale dislocazione dei servizi pubblici e di
interesse comune come si deduce dall’art. 41-quinquies l.
1150/1942, attuato dagli articoli 2-7 del d.m. 1444/1968,
che dispone il reperimento degli spazi a standard, diversi
per ciascuna zona e a ciascuna zona funzionali, diversamente
tipizzando, fra le aree ivi comprese, quelle che sono
destinate a taluni usi di interesse comune.
Il fatto che le aree a standard di zona o di quartiere siano
reperite di norma all’interno della zona già delimitata
assumendo come criterio aggregante l’omogeneità delle aree
perimetrate, è dimostrato a contrario dalla lettera
dell’art. 4, n. 2, D.M. 1444/1968 laddove prevede: “quando
sia dimostrata l'impossibilità -detratti i fabbisogni
comunque già soddisfatti- di raggiungere la predetta
quantità minima di spazi su aree idonee, gli spazi stessi
vanno reperiti entro i limiti delle disponibilità esistenti
nelle adiacenze immediate”.
Ne consegue che una determinata area ricadente nella zona
considerata può essere esclusa da taluno degli impieghi
ammessi al suo interno in via generale e astratta, solo per
ragioni indicative di un interesse prevalente che esige tale
limitazione, perché non altrimenti realizzabile.
E’ quindi evidente che la coesistenza nella medesima zona
omogenea di aree con diversa destinazione d’uso è possibile
perché alcune sono prenotate a standard di zona previsti
dall’art. 4 del d.m. 1444/1968.
Dette aree risultano quindi incise da un vincolo (conformativo
o espropriativo) che le differenzia dalle altre aree,
parimenti comprese nella zona considerata -cui è attribuita
in dote la piena disponibilità degli usi ammessi dalle NTA,
con possibilità di mutamento di destinazione, senza che ciò
implichi variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 32, comma
1, lett. a), d.P.R. 380/2001- proprio perché la tenuta
funzionale del programma di zona è garantita dalla quantità
minima delle aree a standard, cui tale possibilità è invece
interdetta.
In alternativa, se si intende distinguere fra loro aree con
analoghe caratteristiche morfologiche, ambientali e di
contesto senza stabilire uno specifico nesso di servizio
(standard di zona) delle une alle altre, occorre sussumerle
in diverse sottozone territoriali, omogenee dal punto di
vista funzionale.
Si intende affermare -consapevole il Collegio che il modello
della zonizzazione del territorio ha assunto forme
flessibili nella prassi applicativa, sino a pervenire,
nell’ambito della stessa zona omogenea, alla
microzonizzazione o alla previsione di sottozone distinte da
ulteriori peculiarità strutturali o funzionali- che il
processo di conformazione del territorio non esclude che a
livello di pianificazione generale possano essere previsti
differenti regimi urbanistici all’interno della stessa zona
omogenea.
Il principio di tipicità degli strumenti urbanistici, che
riflette il limite di legalità dell’azione amministrativa,
non esclude infatti che il pianificatore comunale, stante la
progressiva espansione degli interessi affidati al governo
di prossimità, introduca un sistema di “lettura” del
territorio diverso o ulteriore rispetto al modello per zone,
purché al pari di questo sia iscritto nel medesimo referente
normativo, nazionale e regionale, e ad esso si conformi.
Se così non fosse infatti l’azione amministrativa sarebbe
non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo
modello di conformazione del territorio risulterebbe
sostanzialmente abrogativo del sistema delineato dalla l.
1150/1942, il cui nucleo essenziale inderogabile, tanto da
costituire principio fondamentale per la legislazione
regionale concorrente, esige che siano identificate
previamente le categorie generali e astratte ove iscrivere
le porzioni di territorio, sulla base di descrittori
anch’essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi
che l’azione pianificatrice si prefigge.
E allora sarà del tutto irrilevante che la conformazione del
territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei
servizi di interesse generale, sia concepita per zone,
contesti, ambiti, comparti, zone miste o microzone, purché
–qualunque essa sia- corrisponda a categorie prefissate ex
ante, tali cioè da costituire il parametro di legittimità
della successiva azione amministrativa.
---------------
Gli orientamenti variamente espressi dalla giurisprudenza
sulla tipicità degli strumenti urbanistici convergono sulla
necessità che la pianificazione incidente sulla proprietà
privata corrisponda comunque a classificazioni generali e
astratte tali cioè da consentire il controllo di legalità.
Nulla esclude che un singolo edificio o lotto fondiario
esistente all’interno di un’area omogenea abbia una
conformazione differenziata, purché essa sia il risultato
della sussunzione delle caratteristiche concrete
dell’edificio o lotto nella corrispondente categoria
astratta, risultando invece violato il principio di legalità
dell’azione amministrativa ove accadesse il contrario, se
cioè una proprietà in quanto tale per le sue caratteristiche
intrinseche ricevesse ex post una disciplina puntuale e
concreta.
Non di meno il p.r.g. può recare previsioni vincolistiche
incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali
"zone", se la scelta, benché puntuale sotto il profilo della
portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell'immobile
"ex se" considerato, ma al soddisfacimento di esigenze
urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il
singolo immobile assume nel contesto dell'assetto
territoriale.
E allora sarà evidente che l’area in questione esprime ex se
una categoria uniforme e unificante replicabile ogni volta
che il territorio presenti la stessa evidenza, essendo del
tutto accidentale ed irrilevante che nel momento concreto
considerato, tale classificazione attinga un singolo
immobile, altrimenti sarebbe violato il fondamento
dell’attività di pianificazione che è dare una connotazione
omogenea alle aree consimili per caratteristiche
predefinite.
In sostanza, il punto decisivo della controversia è
stabilire se il PUG poteva legittimamente limitare la
destinazione dell’immobile dei ricorrenti, compreso nel
contesto consolidato ad alta densità, solo ad usi destinati
alla collettività (servizi pubblici e privati ad uso
pubblico) in ragione della concreta destinazione a sala
cinematografica ad esso impressa da lungo tempo.
Preliminarmente è necessario richiamare alcuni principi in
materia di pianificazione generale.
L’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150 stabilisce che il
Piano regolatore generale (PUG secondo la legislazione
regionale pugliese) determina l’assetto urbanistico
dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo
“le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico
nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o
sociale”.
L’art. 41-quinquies, comma 8, della l. n. 1150/1942
stabilisce che “in tutti i Comuni, ai fini della formazione
di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti, debbono essere osservati […] rapporti massimi tra
spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi
e spazi pubblici, o riservati alle attività collettive, a
verde pubblico o a parcheggi” avuto riguardo a “zone
territoriali omogenee” (comma 9).
In sostanza la divisione del territorio in zone omogenee
serve alla razionale dislocazione dei servizi pubblici e di
interesse comune (Consiglio di Stato n. 71/1989) come si
deduce dall’art. 41-quinquies l. 1150/1942, attuato dagli
articoli 2-7 del d.m. 1444/1968, che dispone il reperimento
degli spazi a standard, diversi per ciascuna zona e a
ciascuna zona funzionali, diversamente tipizzando, fra le
aree ivi comprese, quelle che sono destinate a taluni usi di
interesse comune.
Il fatto che le aree a standard di zona o di quartiere siano
reperite di norma all’interno della zona già delimitata
assumendo come criterio aggregante l’omogeneità delle aree
perimetrate, è dimostrato a contrario dalla lettera
dell’art. 4, n. 2, D.M. 1444/1968 laddove prevede: “quando sia
dimostrata l'impossibilità -detratti i fabbisogni comunque
già soddisfatti- di raggiungere la predetta quantità minima
di spazi su aree idonee, gli spazi stessi vanno reperiti
entro i limiti delle disponibilità esistenti nelle adiacenze
immediate”.
Ne consegue che una determinata area ricadente nella zona
considerata può essere esclusa da taluno degli impieghi
ammessi al suo interno in via generale e astratta, solo per
ragioni indicative di un interesse prevalente che esige tale
limitazione, perché non altrimenti realizzabile.
E’ quindi evidente che la coesistenza nella medesima zona
omogenea di aree con diversa destinazione d’uso è possibile
perché alcune sono prenotate a standard di zona previsti
dall’art. 4 del d.m. 1444/1968.
Dette aree risultano quindi incise da un vincolo (conformativo
o espropriativo) che le differenzia dalle altre aree,
parimenti comprese nella zona considerata -cui è attribuita
in dote la piena disponibilità degli usi ammessi dalle NTA,
con possibilità di mutamento di destinazione, senza che ciò
implichi variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 32, comma
1, lett. a), d.P.R. 380/2001- proprio perché la tenuta
funzionale del programma di zona è garantita dalla quantità
minima delle aree a standard, cui tale possibilità è invece
interdetta.
In alternativa, se si intende distinguere fra loro aree con
analoghe caratteristiche morfologiche, ambientali e di
contesto senza stabilire uno specifico nesso di servizio
(standard di zona) delle une alle altre, occorre sussumerle
in diverse sottozone territoriali, omogenee dal punto di
vista funzionale.
Si intende affermare -consapevole il Collegio che il
modello della zonizzazione del territorio ha assunto forme
flessibili nella prassi applicativa, sino a pervenire,
nell’ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o alla previsione di sottozone distinte da
ulteriori peculiarità strutturali o funzionali- che il
processo di conformazione del territorio non esclude che a
livello di pianificazione generale possano essere previsti
differenti regimi urbanistici all’interno della stessa zona
omogenea.
Il principio di tipicità degli strumenti urbanistici, che
riflette il limite di legalità dell’azione amministrativa,
non esclude infatti che il pianificatore comunale, stante la
progressiva espansione degli interessi affidati al governo
di prossimità, introduca un sistema di “lettura” del
territorio diverso o ulteriore rispetto al modello per zone,
purché al pari di questo sia iscritto nel medesimo referente
normativo, nazionale e regionale, e ad esso si conformi.
Se così non fosse infatti l’azione amministrativa sarebbe
non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo
modello di conformazione del territorio risulterebbe
sostanzialmente abrogativo del sistema delineato dalla l.
1150/1942, il cui nucleo essenziale inderogabile, tanto da
costituire principio fondamentale per la legislazione
regionale concorrente, esige che siano identificate
previamente le categorie generali e astratte ove iscrivere
le porzioni di territorio, sulla base di descrittori
anch’essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi
che l’azione pianificatrice si prefigge.
E allora sarà del tutto irrilevante che la conformazione del
territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei
servizi di interesse generale, sia concepita per zone,
contesti, ambiti, comparti, zone miste o microzone, purché –qualunque essa sia- corrisponda a categorie prefissate
ex
ante, tali cioè da costituire il parametro di legittimità
della successiva azione amministrativa.
Gli orientamenti variamente espressi dalla giurisprudenza
sulla tipicità degli strumenti urbanistici convergono sulla
necessità che la pianificazione incidente sulla proprietà
privata corrisponda comunque a classificazioni generali e
astratte tali cioè da consentire il controllo di legalità
(TAR Trentino-Alto Adige Trento 07/01/2010, n. 1, Consiglio
di Stato, sez. IV, 13.07.2010 n. 4545).
Nulla esclude che un singolo edificio o lotto fondiario
esistente all’interno di un’area omogenea abbia una
conformazione differenziata, purché essa sia il risultato
della sussunzione delle caratteristiche concrete
dell’edificio o lotto nella corrispondente categoria
astratta, risultando invece violato il principio di legalità
dell’azione amministrativa ove accadesse il contrario, se
cioè una proprietà in quanto tale per le sue caratteristiche
intrinseche ricevesse ex post una disciplina puntuale e
concreta.
Non di meno il p.r.g. può recare previsioni vincolistiche
incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali
"zone", se la scelta, benché puntuale sotto il profilo della
portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell'immobile
"ex se" considerato, ma al soddisfacimento di esigenze
urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il
singolo immobile assume nel contesto dell'assetto
territoriale (Consiglio di Stato, sez. V, 24/04/2013, n.
2265).
E allora sarà evidente che l’area in questione esprime ex se
una categoria uniforme e unificante replicabile ogni volta
che il territorio presenti la stessa evidenza, essendo del
tutto accidentale ed irrilevante che nel momento concreto
considerato, tale classificazione attinga un singolo
immobile (Consiglio di Stato, sez IV 14.10.2014 n. 6290),
altrimenti sarebbe violato il fondamento dell’attività di
pianificazione che è dare una connotazione omogenea alle
aree consimili per caratteristiche predefinite
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 23.04.2015 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata
da un carattere strettamente vincolato, dovuto
all'accertamento del mancato inizio e completamento dei
lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva
del venir meno degli effetti del permesso a costruire per
l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato
con conseguente decorrenza ex tunc.
Con la conseguenza che non è nemmeno necessario un atto
espresso che dichiari la decadenza del titolo edificatorio,
perché, diversamente opinando, «si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche».
Se, dunque, l’istituto in esame opera di diritto in presenza
dei presupposti fissati dalla norma e l’atto comunale ha
natura meramente ricognitiva di un effetto già verificatosi,
l’onere motivazionale che incombe sull’Autorità procedente è
limitato alla rappresentazione della conformità della
fattispecie concreta a quella astratta delineata dalla
disposizione: nel caso di specie il mancato avvio dei
lavori.
Ora, con riferimento al presente giudizio, la circostanza
sulla scorta della quale è stata pronunciata la decadenza
non è contestata dall’interessata, che anzi chiedendo una
proroga del termine annuale ha ammesso il mancato avvio dei
lavori di costruzione. D’altro canto, è indubbio che non
possa essere sufficiente una dichiarazione meramente formale
di avvio dei lavori non seguita da un’attività sostanziale
per impedire il verificarsi dell’effetto decadenziale.
Di contro, il titolare del permesso di costruire può evitare
la decadenza anche chiedendo, in presenza di ragioni
oggettivamente ostative all’edificazione, una proroga del
termine in discussione, prima della scadenza del termine
stesso.
Anche laddove si sia in presenza del cd. factum principis o
di cause di forza maggiore, l’interessato è pur sempre
onerato della richiesta di proroga, che deve essere
accordata con atto espresso dell’Amministrazione, non
operando automaticamente l’effetto sospensivo. Invero,
l’atto di proroga, a differenza dell’accertamento
dell’intervenuta decadenza, è atto di esercizio di
discrezionalità amministrativa, perché presuppone
l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il
loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente
impeditivo dell’avvio della edificazione.
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia
dell’atto di data 08.02.2010 PG/U 0017710 del Dirigente del
Servizio Edilizia Privata del Comune di Udine di
accertamento della decadenza del permesso a costruire Cod.
PDC/129.1.2008;
...
7.1. Il ricorso è infondato, tenuto conto della natura
dell’atto di decadenza del permesso di costruire per mancato
avvio dei lavori nel termine annuale di cui al già citato
articolo 15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, e dello
svolgimento degli eventi nel caso di specie.
7.2.1. Invero, come chiarito dal prevalente orientamento
giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene senz’altro di
aderire in considerazione della testuale formulazione della
previsione normativa, «la pronunzia di decadenza del
permesso di costruire è connotata da un carattere
strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato
inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti
ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi
attuazione. Pertanto, un tale provvedimento ha carattere
meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in
via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine
prefissato con conseguente decorrenza ex tunc» (così,
C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 1013/2014; nello stesso senso,
ex plurimis, TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, sentenza
n. 1081/2014; TAR Piemonte, Sez. I, sentenza n. 2/2014).
Con la conseguenza che non è nemmeno necessario un atto
espresso che dichiari la decadenza del titolo edificatorio,
perché, diversamente opinando, «si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche» (così, TAR
Abruzzo–Pescara, sentenza n. 61/2013).
7.2.2. Se, dunque, l’istituto in esame opera di diritto in
presenza dei presupposti fissati dalla norma e l’atto
comunale ha natura meramente ricognitiva di un effetto già
verificatosi, l’onere motivazionale che incombe
sull’Autorità procedente è limitato alla rappresentazione
della conformità della fattispecie concreta a quella
astratta delineata dalla disposizione (cfr., C.d.S., Sez. IV,
sentenza n. 2027/2013): nel caso di specie il mancato avvio
dei lavori.
7.2.3. Ora, con riferimento al presente giudizio, la
circostanza sulla scorta della quale è stata pronunciata la
decadenza non è contestata dall’interessata, che anzi
chiedendo una proroga del termine annuale ha ammesso il
mancato avvio dei lavori di costruzione. D’altro canto, è
indubbio che non possa essere sufficiente una dichiarazione
meramente formale di avvio dei lavori non seguita da
un’attività sostanziale per impedire il verificarsi
dell’effetto decadenziale (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza
n. 974/2012).
7.3.1. Di contro, il titolare del permesso di costruire può
evitare la decadenza anche chiedendo, in presenza di ragioni
oggettivamente ostative all’edificazione, una proroga del
termine in discussione, prima della scadenza del termine
stesso.
7.3.2. Anche laddove si sia in presenza del cd. factum
principis o di cause di forza maggiore, l’interessato è
pur sempre onerato della richiesta di proroga, che deve
essere accordata con atto espresso dell’Amministrazione, non
operando automaticamente l’effetto sospensivo (cfr., C.d.S.,
Sez. III, sentenza n. 1870/2013). Invero, l’atto di proroga,
a differenza dell’accertamento dell’intervenuta decadenza, è
atto di esercizio di discrezionalità amministrativa, perché
presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal
privato e il loro apprezzamento in termini di evento
oggettivamente impeditivo dell’avvio della edificazione.
7.3.3. Nel caso in esame, invece, risulta per tabulas,
che la pronuncia del Giudice amministrativo che annullava la
limitazione di altezza dell’erigendo fabbricato è
intervenuta oltre due mesi prima la scadenza del termine
annuale in discussione, che la suddetta sentenza era
immediatamente autoapplicativa e dunque l’edificazione non
necessitava di alcuna ulteriore attività da parte
dell’Amministrazione, che la società Edil Friuli S.p.A.,
anziché chiedere una proroga dell’inizio dei lavori (istanza
che in astratto poteva pure essere fondata), ha falsamente
attesto l’avvio dei lavori, che la richiesta di proroga è
giunta a termine oramai scaduto.
8.1. In presenza dei suindicati presupposti
giuridico-fattuali il Comune altro non poteva fare che
emettere l’atto –vincolato- ricognitivo dell’intervenuta
decadenza ope legis del permesso di costruire per cui
è causa
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 22.04.2015 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La spending review giustifica l’annullamento
dell’appalto. Consiglio di Stato.
Stop in autotutela.
A fronte di un giustificato e rilevante
interesse pubblico, quale la riduzione della spesa pubblica
(spending review) in conseguenza della crisi economica,
l’affidamento del privato regredisce e, conseguentemente, è
minore la cogenza dell’obbligo motivazionale in capo al
provvedimento di revoca in autotutela da parte della
stazione appaltante.
La fattispecie, analizzata nella
sentenza 21.04.2015 n. 2019 della V Sez. del
Consiglio di Stato, trae origine dall’aggiudicazione di una
gara d’appalto sulla progettazione e l’esecuzione di un
nuovo immobile regionale da destinare ad uffici e sedi di
organismi pubblici.
A breve distanza dall’aggiudicazione, l’amministrazione
aveva emanato in autotutela un provvedimento di revoca della
gara e di tutti i provvedimenti successivamente intervenuti,
sulla base della necessità di riduzione dei “costi della
politica”.
Il provvedimento veniva impugnato e annullato dal Tar in
quanto ritenuto carente sotto il profilo motivazionale, per
non avere l’amministrazione interessata argomentato
adeguatamente il raffronto tra le spese derivanti
dall’esecuzione dell’appalto e i risparmi derivanti invece
dall’abbattimento dei costi di locazione delle sedi di
alcuni uffici attualmente sostenuti dalla Regione.
Di diverso avviso il Consiglio di Stato, il quale ha invece
accolto l’appello. In primo luogo, il collegio ha precisato
che l’obbligo di esaminare le memorie e i documenti
difensivi presentati in riscontro alla comunicazione di
avvio del procedimento amministrativo non impone
all’amministrazione una formale e analitica confutazione di
ogni argomento esposto, essendo sufficiente una motivazione
che renda percepibili le ragioni del mancato adeguamento
alle deduzioni partecipative (Consiglio di Stato, Sezione VI,
29.05.2012, n. 3210).
Il Consiglio di Stato ha poi rimarcato il fatto che in primo
grado il Tar aveva invece erroneamente sostenuto che non
risultava adeguatamente dimostrato come l’esecuzione della
nuova opera avrebbe effettivamente abbattuto il costo delle
locazioni. Con ciò di fatto svolgendo, impropriamente,
censure di merito sull’operato della Pa, in violazione del
principio per il quale il sindacato giurisdizionale sui
provvedimenti discrezionali è limitato solo all’illogicità,
contraddittorietà, ingiustizia manifesta e arbitrarietà
evidente.
Quanto invece all’affidamento della società quale
conseguenza diretta e immediata dell’aggiudicazione
definitiva e dell’attività difensiva svolta nel corso dei
precedenti giudizi relativi all’aggiudicazione della
procedura aperta –principio condiviso dal Tar- il Consiglio
di Stato ha sottolineato come la presenza di un’indebita
alterazione, nel corso della gara, della par condicio a
vantaggio della società aggiudicataria, faccia venir meno in
favore della società il legittimo e pieno affidamento
all’aggiudicazione. Affidamento che comunque deve essere
controbilanciato con l’interesse generale che costituisce il
fondamento del potere di autotutela.
Tanto più nel caso in cui l’affidamento deve considerarsi
recessivo rispetto a un provvedimento in autotutela fondato
(e giustificato) sul rilevante interesse pubblico di voler
evitare la lievitazione dei costi dei lavori pubblici, e di
voler quindi conseguire una riduzione della spesa pubblica,
conseguente alla crisi economica, rispetto al quale
l’interesse privato regredisce, con conseguente minor
cogenza dell’obbligo motivazionale al riguardo (si veda
anche Consiglio di Stato, Sezione V, 29.12.2014 n. 6406)
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati-p.a., al rapporto basta la procura generale.
Per la costituzione del rapporto contrattuale tra il legale
e la pubblica amministrazione è sufficiente la procura
generale ad lites rilasciata all'avvocato
dall'amministrazione medesima; logicamente in aggiunta con
la redazione e la sottoscrizione degli atti difensivi.
A sottolinearlo sono stati i giudici della Sez. VI civile con l'ordinanza
16.04.2015 n. 7790.
Nell'ordinanza in commento viene anche evidenziato come il
requisito della forma scritta richiesto ad substantiam
per la stipula di contratti di cui sia parte una pubblica
amministrazione, nel contratto tra legale ed amministrazione
è soddisfatto per mezzo del rilascio all'avvocato della
procura ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., tenendo
altresì presente il principio secondo cui l'esercizio della
rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la
sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona, tramite
l'incontro di volontà fra le parti, l'accordo contrattuale
in forma scritta, rendendo così possibile l'identificazione
del contenuto negoziale e i controlli dell'Autorità tutoria.
Secondo i giudici di piazza Cavour è essenziale il richiamo
al principio di diritto circa il legame tra procura,
rilasciata al difensore ai sensi dell'art. 83 cod. proc.
civ., e redazione e sottoscrizione dell'atto difensivo da
parte dello stesso, ai fini del perfezionamento di un
accordo contrattuale nella forma prescritta a pena di
nullità.
Pertanto in tema di contratti della pubblica
amministrazione, che devono essere stipulati ad
substantiam per iscritto, il requisito della forma del
contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al
difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura generale
alle liti ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., qualora sia
puntualmente fissato l'ambito delle controversie per le
quali opera la procura stessa (nella specie: «tutte le
cause attive e passive promosse e da promuoversi, ...
innanzi a qualsiasi Autorità Giudiziaria, esclusa la Suprema
corte di cassazione, aventi ad oggetto il solo recupero dei
crediti della stessa Camera di commercio mandante»...,
con espressa autorizzazione, a tal fine, di «intraprendere
azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e
dare loro impulso»)
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
CONDOMINIO: Danni, responsabilità condivisa. Locatore e conduttore
rispondono dell'incidente a terzi. Lo ha chiarito la Cassazione in merito a un caso di impianto
elettrico non a norma.
In caso di danni a terzi derivanti dalla cattiva
manutenzione dello scaldabagno e dalla contemporanea assenza
di dispositivi di sicurezza dell'impianto elettrico sono
responsabili tanto il proprietario quanto il conduttore
dell'appartamento concesso in locazione.
Lo ha chiarito la
III Sez. civile della Corte di Cassazione con la
sentenza 16.04.2015 n.
7699.
Il caso concreto. Nella specie, la moglie di un operaio
deceduto perché folgorato da una scarica elettrica durante
l'effettuazione di lavori idraulici in un'unità immobiliare
concessa in locazione aveva agito in giudizio contro il
proprietario e il conduttore di quest'ultima per accertare
la responsabilità in ordine ai danni da liquidarsi in favore
suo e del figlio minorenne. La donna riteneva, infatti, che
la morte del marito fosse stata causata dalla mancanza delle
condizioni di sicurezza dell'impianto elettrico
dell'appartamento.
Il tribunale, in accoglimento della
domanda di risarcimento del danno, aveva ritenuto la
responsabilità solidale sia del proprietario-locatore sia
del conduttore. Nella specie era risultato che il decesso
era avvenuto a causa di una scarica elettrica provocata da
un difetto della resistenza dello scaldabagno sul quale
l'operaio stava intervenendo, scarica non neutralizzata
(come sarebbe dovuto avvenire) da dispositivi di sicurezza
(messa a terra o salvavita), dei quali l'impianto elettrico
dell'appartamento era sprovvisto.
La sentenza era stata
confermata anche in appello e, per questo motivo, le parti
condannate avevano presentato ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. La Cassazione, confermando
la sentenza impugnata, ha evidenziato come i giudici di
merito avessero correttamente accertato che il fatto dannoso
si era prodotto sia a causa del difettoso funzionamento
dello scaldabagno sia per il concomitante mancato innesco
dei dispositivi di sicurezza dell'impianto elettrico (del
tutto mancanti) e che per tale motivo avevano ritenuto la
responsabilità concorrente del proprietario e del conduttore
dell'appartamento, condannandoli in solido al risarcimento
del pregiudizio subito dagli eredi dell'operaio deceduto.
Il
conduttore, infatti, era stato ritenuto responsabile, in
qualità di custode del bene, per non avere mantenuto in
perfette condizioni di sicurezza lo scaldabagno dal quale si
era originata la scarica elettrica. La responsabilità del
proprietario, invece, discendeva dal suo obbligo di custodia
dell'impianto elettrico (conglobato nella struttura
muraria), privo di dispositivi di sicurezza.
--------------
Va dimostrato il caso fortuito.
Il conduttore ha la custodia dell'appartamento concesso in
locazione e, per questo, risponde dei danni procurati a
terzi, compreso il locatore, qualora venga a subire danni
nella propria persona o in altri beni diversi dall'immobile
locato. Il conduttore si libera da tale responsabilità
soltanto dimostrando che il fatto è dovuto a forza maggiore
o a un comportamento dello stesso danneggiato.
Se un'unità
immobiliare è concessa in locazione, il proprietario,
conservando la disponibilità giuridica, e, quindi, la
custodia delle strutture murarie e degli impianti in essa
conglobati, è responsabile in via esclusiva dei danni
arrecati a terzi da dette strutture e impianti (salvo
eventuale rivalsa contro il conduttore che abbia omesso di
avvertirlo del pericolo).
Tali sono le murature, i
cornicioni, i tetti e tutti quegli impianti idrici, sanitari
per raggiungere i quali occorre intervenire sulle opere
murarie che non possono essere manomesse dal conduttore,
tenuto a restituire a fine locazione lo stabile così come lo
ha ricevuto. Se è pur vero che il proprietario di un
immobile locato non è esentato da responsabilità per danno
cagionato a terzi derivato dal proprio immobile, ciò non
significa che la stessa sia estesa a qualsiasi danno.
Infatti, riguardo alle parti e agli accessori del bene
locato, rispetto alle quali la diretta disponibilità viene
acquistata dal conduttore, rimane in capo a quest'ultimo la
facoltà e l'obbligo di intervenire, onde evitare il
pregiudizio a terzi. In caso di danni, qualora venga
accertato che provengano da omessa manutenzione ordinaria o
dal mancato tempestivo intervento del conduttore, le
responsabilità risarcitorie gravano unicamente su
quest'ultimo (articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’art. 10, comma primo, lett. c), del
T.U. edilizia costituiscono interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a
permesso di costruire “gli interventi di ristrutturazione
edilizia che portino ad un organismo in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino (…) modifiche delle
superfici…”.
Come si vede la norma prescrive che sono subordinati a
permesso di costruire, fra l’altro, gli interventi che,
oltre a determinare la trasformazione dell’organismo
edilizio originario, comportino modifiche alla superficie
esistente.
La diposizione parla di superficie in generale senza alcuna
specificazione. Si deve pertanto ritenere che, ai fini che
qui interessano, sia rilevante qualsiasi incremento della
superficie reale, senza che abbia invece alcun rilievo il
fatto che questa superficie sia o meno conteggiabile ai fini
del calcolo dei parametri edilizi (ed in particolare della
volumetria).
In proposito va osservato che i comuni, nei propri strumenti
urbanistici, devono individuare i parametri edilizi da
rispettare in caso di nuove edificazioni o di ampliamento di
quelle esistenti, stabilendo, fra l’altro, la consistenza
volumetrica o la superficie lorda di pavimento massima
assentibile nelle singole zone in cui si scompone il
territorio comunale (cfr. ad. es. art. 10, comma 3, lett. b)
della legge regionale n. 12 del 2005).
Ebbene, a questo fine, i comuni stabiliscono spesso, nei
propri atti di pianificazione, che parte delle nuove
superfici create non vadano computate ai fini del calcolo
della volumetria o della superficie lorda di pavimento, in
quanto trattasi di superfici destinate ad ospitare
attrezzature tecniche o comunque non destinate alla
permanenza di persone e, per questa ragione, aventi scarso
rilievo sotto il profilo del carico urbanistico introdotto.
Si pensi, ad esempio, alle cantine, ai depositi ed ai
sottotetti non abitabili.
Queste superfici, tuttavia, sebbene neutre ai fini della
verifica del rispetto dei parametri stabiliti dallo
strumento urbanistico, sono comunque rilevanti ai fini
edilizi ed urbanistici, giacché la loro creazione determina
comunque una trasformazione del territorio. La loro
realizzazione è dunque sempre subordinata al rilascio del
permesso di costruire.
Il fatto che la nuova superficie creata da un intervento
edilizio non sia computabile ai fini del calcolo della
superficie lorda di pavimento non esclude quindi che tale
intervento sia subordinato al rilascio del permesso di
costruire.
In questo senso è pacificamente orientata la giurisprudenza
la quale ritiene che siano subordinati a permesso di
costruire interventi che non determinano la creazione di
ambienti destinati alla permanenza di persone (e, dunque, in
base alla normativa comunale spesso non rilevanti ai fini
del calcolo della superficie lorda di pavimento). Si pensi
ad esempio ai muri di cinta, ai box, alle insegne, ai muri
di contenimento ecc….
Solo in casi eccezionali, quando cioè per la minima
consistenza dell’intervento l’opera possa essere considerata
pertinenziale ai sensi dell’art. 3, comma primo, lett. e.6),
del T.U. edilizia, la creazione di nuova superficie non è
subordinata a permesso di costruire.
1. La società ricorrente è proprietaria di un edificio
situato nel Comune di Cinisello Balsamo, via ...,
n. 59. L’edificio è destinato in parte ad uffici ed in parte
a deposito.
2. Con il ricorso in esame, viene impugnata l’ordinanza n.
376 del 20.11.2003, con la quale il Dirigente del
Settore Gestione del Territorio del Comune di Cinisello
Balsamo ha constatato la realizzazione di opere all’interno
del predetto immobile in assenza di titolo edilizio e ne ha,
conseguentemente, ingiunto la demolizione. Le opere, a dire
del Comune, consistono in due soppalchi, due ascensori ed in
una scala d’accesso.
3. Oltre alla domanda di annullamento, viene proposta
domanda risarcitoria.
4. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il
Comune di Cinisello Balsamo.
5. La Sezione, con ordinanza n. 785 del 24.03.2004, ha
respinto l’istanza cautelare.
6. Successivamente, il Comune di Cinisello Balsamo ha
adottato il provvedimento n. 133 del 12.05.2004, con cui
ha disposto la demolizione d’ufficio delle opere ritenute
abusive.
7. Questo provvedimento è stato impugnato mediante la
proposizione di motivi aggiunti.
8. La Sezione, con ordinanza n. 1851 del 07.07.2004, ha
respinto anche l’istanza cautelare proposta con suddetti i
motivi aggiunti.
9. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le
parti hanno depositato memorie insistendo nelle loro
conclusioni.
10. Tenutasi la pubblica udienza in data 04.03.2015, la
causa è stata trattenuta in decisione.
11. Il ricorso introduttivo, rivolto contro l’ordine di
demolizione del 20.11.2003, contiene due motivi.
12. Con il primo motivo, si rileva che l’ordinanza impugnata
sarebbe viziata in quanto postula erroneamente la creazione
di soppalchi costituenti superficie lorda di pavimento. Al
contrario, a dire della ricorrente, le opere realizzate
sarebbero delle mere scaffalature destinate a deposito, non
costituenti s.l.p. Si rileva inoltre che le opere sarebbero
conformi agli strumenti urbanistici vigente ed adottato e
che, contrariamente a quanto affermato nel provvedimento,
sia gli ascensori che la scala sarebbero contemplati nella
denuncia di inizio attività del 18.12.2002 e
successive varianti; non sarebbe dunque corretto quanto
sostiene l’Amministrazione, secondo le quale le predette
opere sarebbero state realizzate in assenza di titolo.
13. Con il secondo motivo, la ricorrente sostiene che, anche
ammettendo che le opere suindicate siano state realizzate
senza titolo, trattandosi di intervento ascrivibile alla
categoria della manutenzione straordinaria,
l’Amministrazione, invece di ingiungere la riduzione in
pristino, avrebbe dovuto applicare la sanzione pecuniaria ai
sensi dell’art. 37 del T.U. edilizia.
14. I due motivi possono essere trattati congiuntamente.
15. In base all’art. 10, comma primo, lett. c), del T.U.
edilizia costituiscono interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a
permesso di costruire “gli interventi di ristrutturazione
edilizia che portino ad un organismo in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino (…) modifiche delle
superfici…”.
16. Come si vede la norma prescrive che sono subordinati a
permesso di costruire, fra l’altro, gli interventi che,
oltre a determinare la trasformazione dell’organismo
edilizio originario, comportino modifiche alla superficie
esistente.
17. La diposizione parla di superficie in generale senza
alcuna specificazione. Si deve pertanto ritenere che, ai
fini che qui interessano, sia rilevante qualsiasi incremento
della superficie reale, senza che abbia invece alcun rilievo
il fatto che questa superficie sia o meno conteggiabile ai
fini del calcolo dei parametri edilizi (ed in particolare
della volumetria).
18. In proposito va osservato che i comuni, nei propri
strumenti urbanistici, devono individuare i parametri
edilizi da rispettare in caso di nuove edificazioni o di
ampliamento di quelle esistenti, stabilendo, fra l’altro, la
consistenza volumetrica o la superficie lorda di pavimento
massima assentibile nelle singole zone in cui si scompone il
territorio comunale (cfr. ad. es. art. 10, comma 3, lett. b)
della legge regionale n. 12 del 2005).
Ebbene, a questo
fine, i comuni stabiliscono spesso, nei propri atti di
pianificazione, che parte delle nuove superfici create non
vadano computate ai fini del calcolo della volumetria o
della superficie lorda di pavimento, in quanto trattasi di
superfici destinate ad ospitare attrezzature tecniche o
comunque non destinate alla permanenza di persone e, per
questa ragione, aventi scarso rilievo sotto il profilo del
carico urbanistico introdotto. Si pensi, ad esempio, alle
cantine, ai depositi ed ai sottotetti non abitabili.
19. Queste superfici, tuttavia, sebbene neutre ai fini della
verifica del rispetto dei parametri stabiliti dallo
strumento urbanistico, sono comunque rilevanti ai fini
edilizi ed urbanistici, giacché la loro creazione determina
comunque una trasformazione del territorio. La loro
realizzazione è dunque sempre subordinata al rilascio del
permesso di costruire.
20. Il fatto che la nuova superficie creata da un intervento
edilizio non sia computabile ai fini del calcolo della
superficie lorda di pavimento non esclude quindi che tale
intervento sia subordinato al rilascio del permesso di
costruire.
21. In questo senso è pacificamente orientata la
giurisprudenza la quale ritiene che siano subordinati a
permesso di costruire interventi che non determinano la
creazione di ambienti destinati alla permanenza di persone
(e, dunque, in base alla normativa comunale spesso non
rilevanti ai fini del calcolo della superficie lorda di
pavimento). Si pensi ad esempio ai muri di cinta, ai box,
alle insegne, ai muri di contenimento ecc… (cfr. Cassazione
penale, sez. III, 23.09.2005; TAR Piemonte, sez.
I, 18.12.2013, n. 1368; TAR Liguria, sez. I, 31.12.2009, n. 4131).
22. Solo in casi eccezionali, quando cioè per la minima
consistenza dell’intervento l’opera possa essere considerata
pertinenziale ai sensi dell’art. 3, comma primo, lett. e.6),
del T.U. edilizia, la creazione di nuova superficie non è
subordinata a permesso di costruire
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.04.2015 n. 942 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti verdi, decide la regione. Regole territoriali per la
combustione di scarti vegetali. La Corte costituzionale ha fissato i paletti con una
sentenza datata 16 aprile.
Regioni legittimate a dettare norme sulla combustione dei
residui vegetali oltre gli stretti paletti posti dal Codice
ambientale.
È quanto emerge dalla
sentenza 16.04.2015
n. 60 con cui la Corte costituzionale ha riconosciuto la
disciplina sull'abbruciamento dei materiali verdi come
rientrante in quella afferente l'agricoltura, di competenza
residuale degli enti territoriali in base all'art. 117,
comma 4 della Costituzione e non in quella della tutela
ambientale, riservata invece dal primo comma dello stesso
articolo alla legislazione esclusiva dello stato.
Il caso. La pronuncia del giudice delle leggi arriva in
risposta alla questione di legittimità costituzionale
sollevata dal governo in relazione a una legge regionale che
consente l'eliminazione mediante abbruciamento di residui
vegetali provenienti da lavori di forestazione per
soddisfare esigenze di carattere fitosanitario (volte cioè
ad eliminare la diffusione di organismi nocivi per le piante
e uomo) e di prevenzione incendi, non espressamente previste
dal dlgs 152/2006 (cosiddetto Codice ambientale).
La pronuncia della Corte. Per l'Avvocatura dello stato i
residui in parola andavano ricondotti sotto la disciplina
della parte IV del dlgs 152/2006, che ne prevede la gestione
fuori dal regime dei rifiuti solo per determinate e diverse
finalità di riutilizzo.
La Consulta ha invece rigettato le censure, fondando la
legittimità delle norme locali in tema di combustione dei
residui verdi su due principi rimasti a suo avviso immutati
(nonostante le ultime modifiche introdotte nel 2014 dal
legislatore nazionale): il rientrare le disposizioni
territoriali nella materia dell'agricoltura, di competenza
regionale; l'essere la pratica dell'abbruciamento in loco
ordinariamente conducibile sia in agricoltura che in
selvicoltura (Corte di cassazione n. 76/2015).
La disciplina del Codice ambientale. Alla base della
pronuncia della Corte costituzionale (che segue a stretto
giro due analoghe sentenze 2015 dello stesso giudice: la n.
16 e la n. 38) vi è proprio l'ultimo restyling delle regole
sulla gestione dei residui vegetali previste dal dlgs
152/2006, rivisitazione inaugurata nel 2013 con l'introduzione
nel Codice ambientale del nuovo reato di «combustione
illecita di rifiuti» (articolo 256-bis) e poi ritoccata
nell'agosto scorso tramite la legge 116/2014.
In base all'attuale assetto, a parte l'autocompostaggio «in
situ» permesso dall'art. 183, comma 1, lettera e) a utenze
private e assimilate, la gestione fuori dalla disciplina dei
rifiuti dei residui verdi è infatti ammessa solo nei casi
particolari ed espressamente previsti dagli articoli: 182,
comma 6-bis (sull'abbruciamento dei materiali vegetali);
184-bis (sul regime generale dei sottoprodotti); 185, comma
1, lettera f (sulle esclusioni dal campo di applicazione del
regime dei rifiuti); 256-bis, comma 6 (sulle ipotesi di
combustione lecita di residui). Secondo l'art. 185 del
Codice ambientale non rientrano nella disciplina dei
rifiuti: «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale
agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in
agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non
danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute
umana».
In base agli articoli 182 e 256-bis dlgs 152/2006 è consentita
la combustione dei residui verdi nel rispetto di tutte le
seguenti condizioni: i materiali devono essere raggruppati e
bruciati nel luogo di produzione, in piccoli cumuli ed in
quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per
ettaro; la pratica è finalizzata al reimpiego come sostanza
ammendante o concimante.
Lo stesso art. 182, comma 6-bis,
Codice ambientale attribuisce già delle potestà agli enti
territoriali, laddove prevede che: «Nei periodi di massimo
rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni,
la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è
sempre vietata. I comuni e le altre amministrazioni
competenti in materia ambientale hanno la facoltà di
sospendere, differire o vietare la combustione del materiale
di cui al presente comma all'aperto in tutti i casi in cui
sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o
ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale
attività possano derivare rischi per la pubblica e privata
incolumità e per la salute umana, con particolare
riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri
sottili».
Ma alla luce delle ultime pronunce della Corte
costituzionale tali statuizioni non appaiono evidentemente
più sufficienti ad illustrare gli effettivi poteri di
intervento delle regioni in una materia che travalica i
confini di quella strettamente ambientale
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
immagini tratte da Google rappresentano uno strumento idoneo
di prova e costituiscono anzi un fatto notorio ex art. 115,
comma 2, c.p.c..
Peraltro, non appare contestata in primo grado, se non in
termini apodittici, l’affermazione che si legge ad esempio
nel ricorso n. 824/2005 (essere cioè almeno alcuni dei
ricorrenti residenti a via Ausa) o nel ricorso n. 78/2009
(essere cioè i ricorrenti tutti residenti nella frazione di
Cerasuolo Ausa).
Sia detto per completezza, che (come si vede dalle immagini
tratte da Google, che rappresentano uno strumento idoneo di
prova -cfr. Cons. Stato, sez. VI, 04.03.2015, n. 1063- e
costituiscono anzi un fatto notorio ex art. 115, comma 2,
c.p.c. - cfr. Trib. Genova, 12.04.2013) via Ausa attraversa
proprio la località destinataria dell’intervento discusso)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.04.2015 n. 1890 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La semplice prossimità non è di per sé elemento
sufficiente a fondare l’interesse a impugnare strumenti
urbanistici generali, quali quelli controversi.
In questo senso, infatti, è anche la più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo la quale alla
vicinitas del ricorrente deve aggiungersi un elemento
ulteriore. Questo, in estrema sintesi, è costituito da ciò,
che lo strumento urbanistico deve -in tesi- produrre un
peggioramento della situazione (patrimoniale o personale)
del ricorrente.
Valgano a tal fine alcuni esempi. I proprietari confinanti
possono impugnare:
- il piano di recupero di un immobile, avente natura di
piano urbanistico attuativo, in quanto vengano in rilievo
interessi di carattere edilizio e strettamente inerenti alla
disciplina del territorio;
- il progetto preliminare e il progetto esecutivo
finalizzati alla realizzazione di un porto turistico che, se
illegittimamente assentiti, sarebbero idonei ad arrecare
pregiudizio ai valori urbanistici della zona;
- il progetto, comprensivo dell’approvazione di una variante
per insediamenti produttivi, per la realizzazione -in
un'area classificata come agricola dal previgente strumento
di piano e destinata prevalentemente alla coltura del mais–
di un centro di distribuzione e logistica merci, quando
possa seguirne un pregiudizio consistente nella possibile
diminuzione di valore del proprio immobile o nella peggiore
qualità ambientale;
- il piano attuativo di insediamento edilizio interessante
un'area con la destinazione urbanistica di "aree per
servizi-parchi a verde attrezzato", con la realizzazione
delle opere di urbanizzazione strumentali all'insediamento
residenziale, quando la nuova destinazione urbanistica, al
di là della possibile incidenza sul valore dei beni, possa
apportare un pregiudizio in termini di sottrazione di
visuale, luce e aria;
- gli atti di adozione e di approvazione definitiva del
regolamento urbanistico comunale, nella parte in cui questo
prevede l’edificabilità di un’area contigua, già collocata
in “zona ippica” dal P.R.G. previgente, con possibili
conseguenze pericolose per l’integrità dei propri beni e
alterazione del complessivo quadro ambientale in cui i
ricorrenti avevano sino ad allora vissuto.
La sussistenza della vicinitas non può essere dunque
seriamente revocata in dubbio.
Si tratterebbe però, secondo gli appellanti, di un requisito
da solo insufficiente per il riconoscimento della
legittimazione e dell’interesse a ricorrere.
Vero è che la semplice prossimità non è di per sé elemento
sufficiente a fondare l’interesse a impugnare strumenti
urbanistici generali, quali quelli controversi.
In questo senso, infatti, è anche la più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo la quale alla
vicinitas del ricorrente deve aggiungersi un elemento
ulteriore. Questo, in estrema sintesi, è costituito da ciò,
che lo strumento urbanistico deve -in tesi- produrre un
peggioramento della situazione (patrimoniale o personale)
del ricorrente.
Valgano a tal fine alcuni esempi. I proprietari confinanti
possono impugnare:
- il piano di recupero di un immobile, avente natura di
piano urbanistico attuativo, in quanto vengano in rilievo
interessi di carattere edilizio e strettamente inerenti alla
disciplina del territorio (sez. IV, 29.07.2009, n. 4756);
- il progetto preliminare e il progetto esecutivo
finalizzati alla realizzazione di un porto turistico che, se
illegittimamente assentiti, sarebbero idonei ad arrecare
pregiudizio ai valori urbanistici della zona (sez. IV,
26.06.2012, n. 3750);
- il progetto, comprensivo dell’approvazione di una variante
per insediamenti produttivi, per la realizzazione -in
un'area classificata come agricola dal previgente strumento
di piano e destinata prevalentemente alla coltura del mais–
di un centro di distribuzione e logistica merci, quando
possa seguirne un pregiudizio consistente nella possibile
diminuzione di valore del proprio immobile o nella peggiore
qualità ambientale (sez. IV, 17.09.3.2012, n. 4926);
- il piano attuativo di insediamento edilizio interessante
un'area con la destinazione urbanistica di "aree per
servizi-parchi a verde attrezzato", con la realizzazione
delle opere di urbanizzazione strumentali all'insediamento
residenziale, quando la nuova destinazione urbanistica, al
di là della possibile incidenza sul valore dei beni, possa
apportare un pregiudizio in termini di sottrazione di
visuale, luce e aria (sez. IV, 13.11.2012, n. 5715);
- gli atti di adozione e di approvazione definitiva del
regolamento urbanistico comunale, nella parte in cui questo
prevede l’edificabilità di un’area contigua, già collocata
in “zona ippica” dal P.R.G. previgente, con possibili
conseguenze pericolose per l’integrità dei propri beni e
alterazione del complessivo quadro ambientale in cui i
ricorrenti avevano sino ad allora vissuto (sez. IV,
12.06.2013, n. 3257)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.04.2015 n. 1890 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il Tar Lombardia individua l'esatto perimetro della legge
241/1990.
Accesso, solo fatti nuovi. Questa la condizione per
reiterare l'istanza.
Si può reiterare l'istanza di accesso a documenti solo in
presenza di fatti nuovi non rappresentati nell'originaria
istanza.
Lo ha affermato il TAR Lombardia–Milano, Sez. III, con la
sentenza
13.04.2015 n. 918.
I giudici lombardi esordiscono richiamando quella
giurisprudenza (cfr. Tar Firenze sez. III 28.10.2013
n. 1475; Tar Lazio-Roma sez. III 23.10.2013 n. 9127;
Cons. stato sez. VI 04.10.2013 n. 4912; Cons. stato sez. IV 26.09.2013 n. 4789; Ad. Plen. nn. 6 e 7 del 2006)
che ha sostenuto la natura decadenziale del termine di
trenta giorni per proporre impugnazione avverso il diniego
di accesso e il silenzio sulle istanze di accesso, previsto
oggi dall'art. 116 c.p.a. e, prima dell'entrata in vigore
del codice, dall'art. 25, legge 241/1990, come modificato
dalla legge 15/2005.
«L'azione ad exhibendum», prosegue il Tar, «si connota
infatti quale giudizio a struttura impugnatoria che consente
alla tutela giurisdizionale dell'accesso di assicurare la
protezione dell'interesse giuridicamente rilevante e, al
contempo, quell'esigenza di stabilità delle situazioni
giuridiche e di certezza delle posizioni dei
controinteressati che sono pertinenti ai rapporti
amministrativi scaturenti dai principi di pubblicità e
trasparenza dell'azione amministrativa; d'altro canto la
natura decadenziale del termine è coerente con il carattere
accelerato del giudizio, che mal si concilierebbe con la
proponibilità dell'azione nell'ordinario termine di
prescrizione».
«Dalla natura decadenziale del termine», si legge nella
sentenza, «consegue che la mancata impugnazione del diniego
nel predetto termine non consente la reiterabilità
dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo
diniego laddove a questo debba riconoscersi carattere
meramente confermativo del primo; in altre parole, il
privato potrà reiterare l'istanza di accesso e pretendere
riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi,
sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria
istanza».
«Ma qualora non ricorrano tali elementi di novità»,
conclude il Tar, «il privato si limiti a reiterare
l'originaria istanza precedentemente respinta o, al più, a
illustrare ulteriormente le sue ragioni, l'amministrazione
ben potrà limitarsi a ribadire la propria precedente
determinazione negativa, non potendosi immaginare, anche per
ragioni di buon funzionamento dell'azione amministrativa in
una cornice di reciproca correttezza dei rapporti tra
privato e amministrazione, che l'amministrazione sia tenuta
indefinitamente a prendere in esame la medesima istanza che
il privato intenda ripetutamente sottoporle senza addurre
alcun elemento di novità»
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015). |
APPALTI: Appalti
e gare online, la Pa deve risolvere le difficoltà tecniche.
Tar Milano. Non si tagliano i tempi.
Quando le gare di appalto si svolgono con sistemi
informatici, l’amministrazione deve rimediare alle
difficoltà tecniche di accesso.
Lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, nella
sentenza 09.04.2015 n. 910, relativa a una gara
per gestione di un centro diurno.
In tutte le procedure di gara gestite con sistemi
telematici, si applica l’articolo 296 del regolamento
appalti pubblici (207 del 2010) che obbliga le
amministrazioni a prevedere la possibilità di sospendere la
procedura per le anomalie del sistema telematico, indicando
i mezzi di comunicazione alternativi alla posta elettronica
per i casi di indisponibilità oggettive momentanea.
Interferenze o malfunzionamenti possono, infatti,
condizionare l’esito della procedura. Nel caso esaminato era
impossibile compilare l’offerta economica con
l’intermediazione telematica della Regione Lombardia.
Il sistema non consentiva di inserire un’offerta in rialzo
superiore al 100%, mentre il bando non fissava alcun limite
all’aumento. La piattaforma elettronica SinTel, non
consentendo un rialzo superiore al 100%, introduceva di
fatto un limite, che ha causato l’annullamento per
violazione della par condicio tra i concorrenti. Si è anche
posto il problema del rapporto tra l’inconveniente lamentato
e il tempo tecnico per risolverlo: se il problema fosse
emerso il giorno prima della scadenza del termine per
l’offerta, sarebbe stato possibile rettificare la
piattaforma telematica.
Ciò tuttavia, avrebbe illegittimamente ridotto il tempo a
disposizione dell’impresa per formulare l’offerta. In base
al principio espresso dai giudici amministrativi quando vi
sono termini perentori e scadenze, deve essere garantito il
diritto a presentare l’offerta anche in prossimità della
scadenza del tempo limite, cioè l’ultimo giorno utile: gli
inconvenienti non possono ridurre i tempi per presentare
l’offerta.
Altre volte, la medesima piattaforma SinTel è stata promossa
ritenendo garantita la segretezza e inalterabilità della
documentazione inviata dai concorrenti (Tar Brescia 11/2015;
Consiglio di Stato 6416/2014). Le caratteristiche di un
sistema possono essere messe in discussione solo se c’è una
chiara esplicitazione delle anomalie che hanno
contrassegnato la specifica gara che ha avuto luogo con la
piattaforma, con prove o quanto meno indizi, sulla non
corretta conservazione della documentazione trasmessa e
custodita.
Una strada in salita, per il concorrente, la cui offerta, ad
esempio deve essere completata (Consiglio di Stato
6146/2014) a suo rischio e pericolo (articolo Il Sole 24 Ore del
30.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La pollina può essere usata come biomassa.
La pollina può essere utilizzata come biomassa combustibile
per alimentare un impianto a fonte rinnovabili anche se
proveniente da diversi allevamenti avicoli. La disciplina
della pollina ricade infatti nella generale regolamentazione
dei sottoprodotti contenuta nell'articolo 184-bis del dlgs
152/2006, in base al quale è prevalente la qualifica di
sottoprodotto rispetto a quella di rifiuto quando vi sia la
certezza che la sostanza sarà utilizzata nel corso dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione, da parte del produttore o di terzi. In
concreto, il misto di escrementi del pollame, piume, mangimi
e lettiere, se utilizzato come biomassa combustibile per
alimentare impianti Fer è considerato sottoprodotto e non
più rifiuto. La pollina commercializzata per il rifornimento
dei gassificatori è un combustibile alla pari delle altre
biomasse combustibili, e soggetto alla medesima disciplina.
È quanto si legge nella
sentenza
08.04.2015 n. 498 del TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I.
L'utilizzo della «pollina» come
biomassa per alimentare impianti di produzione di energia
elettrica da fonte rinnovabile riveste un moderato interesse
in termini di rendimento; inoltre, tale utilizzo può
consentire l'accesso ai meccanismi incentivanti per le
rinnovabili elettriche previsti dal dm 06.07.2012.
Gli
impianti di combustione che utilizzano pollina per produrre
energia sono soggetti solo a autorizzazione unica, ex art.
12 del dlgs 387/2003 e sono quindi esclusi dal campo di
applicazione della disciplina sui rifiuti. Dalla
qualificazione della pollina come sottoprodotto combustibile
deriva l'impossibilità di applicare all'impianto di
gassificazione la disciplina urbanistica e
igienico-sanitaria degli impianti di trattamento rifiuti
(articolo ItaliaOggi del 29.04.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Sì
all’accesso al contratto fra privato e pubblico.
Tar Brescia. Privacy.
«Documento amministrativo» è anche il contratto commerciale
di privati con la Pa e, come tale, accessibile pure nei
dettagli, esclusi i dati dell’impresa estranei all’accordo e
quelli sensibili di persone.
L’ha stabilito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, nella
sentenza
08.04.2015 n. 497 accogliendo in
parte il ricorso di un’azienda contro il diritto d’accesso a
un accordo per la concessione di un marchio siglato con un
ente pubblico nazionale non economico.
L’aveva riconosciuto
a un associato dell’ente la Commissione per l’accesso della
Presidenza del consiglio, con poteri di tutela
amministrativa delle norme in materia (legge 241/1990).
Per l’azienda, l’atto non era un «documento amministrativo»
(lettera d, comma 1, articolo 22, legge 241/1990), ma
riguardava interessi industriali e commerciali riservati
(lettera d, comma 6, articolo 24) e, testualmente, obbligava
le parti a «non diffondere o comunicare a
terzi...informazioni soggettivamente o oggettivamente
confidenziali o segrete».
Per i giudici, invece, «la nozione
di documento amministrativo comprende anche gli atti
negoziali, e le stesse dichiarazioni unilaterali dei
privati, quando ne sia stata fatta acquisizione in un
procedimento amministrativo per una finalità di rilievo
pubblicistico» e, nei patti commerciali, «il diritto alla
riservatezza non può derivare da una clausola di
riservatezza inserita nel contratto, in quanto le parti che
sottoscrivono l’accordo non possono disporre dei diritti di
terzi».
Per il Tar, oltre ai dati sensibili di persone,
restano riservati quelli dei privati «sulla propria
organizzazione interna, sulle relazioni con parti terze,
sulle proprie strategie commerciali, purché tali
informazioni non siano state utilizzate nell’accordo per
pesare la controprestazione del soggetto pubblico»
(articolo Il Sole 24 Ore del
30.04.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il legale deve anche dissuadere il cliente.
Nell'esercitare il proprio mandato, il legale deve
rispettare il dovere di sollecitazione, dissuasione ed
informazione del cliente: lo ha ribadito la Corte di
Cassazione nella
sentenza 02.04.2015 n. 6782.
Nelle prestazioni
rese nell'esercizio di attività professionali, spiegano i
giudici della II sezione civile, al professionista è
richiesta ex art. 1176 c.c. la diligenza corrispondente alla
natura dell'attività esercitata, vale a dire «una diligenza
qualificata dalla perizia e dall'impiego di strumenti
tecnici adeguati al tipo di prestazione dovuta».
Si tratta
chiaramente di una valutazione che varia a seconda del tipo
di prestazione: nel caso degli avvocati, in particolare, «la
responsabilità professionale deriva dall'obbligo di
assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel
corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di
sollecitazione, dissuasione e informazione del cliente, ai
quali sono tenuti nel rappresentare tutte le questioni di
fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al
raggiungimento del risultato, o comunque produttive del
rischio di effetti dannosi; di chiedergli gli elementi
necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo
dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito
probabilmente sfavorevole».
Il problema, spiegano ancora, non attiene soltanto alla mera
difesa tecnica in giudizio e quindi alle ipotesi di
inadeguata o insufficiente attività come difensore (si
pensi, per esempio, ai casi di omissione delle
impugnazioni), oppure alla violazione delle regole
ricavabili dal codice deontologico, come quelle del mancato
assolvimento dell'obbligo di dare al cliente le informazioni
chieste, o del segreto professionale: il professionista ha
infatti «l'onere di provare di essersi attivato
nell'informare le resistenti della sua determinazione di non
proseguire il giudizio per essere stata soddisfatta la
pretesa dall'assicurazione». In dettaglio il caso di specie
verteva sulla richiesta di risarcimento danni mossa dagli
eredi di un uomo morto a seguito di un incidente stradale.
Così argomentando, hanno quindi, rigettato il ricorso e
condannato il ricorrente alla rifusione delle spese di
giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015). |
TRIBUTI:
Un'area edificabile non può valere meno del mutuo.
Il valore di un'area edificabile non può essere inferiore al
valore che la banca ha stimato per concedere il mutuo sullo
stesso immobile. I comuni, dunque, possono determinare per
Ici, Imu e Tasi i valori delle aree edificabili prendendo a
base anche le somme che la banca ha erogato per il mutuo, in
quanto l'importo che forma oggetto del mutuo deve essere
garantito da un bene immobile avente un valore almeno
equivalente.
Lo ha stabilito la commissione tributaria
regionale di Genova, VI Sez., con la sentenza 01.04.2015 n. 387.
Nel caso in esame, i giudici d'appello hanno ritenuto che il
valore stimato dal comune fosse giustificato dal mutuo
concesso dalla banca, tenuto conto che la garanzia era
rappresentata proprio dall'area edificabile sottoposta ad
accertamento Ici. Il mutuo contratto dalla società
ricorrente, infatti, era garantito da ipoteca sullo stesso
immobile per un valore capitale superiore a quello
accertato. Quindi, secondo la commissione regionale, la
pretesa tributaria è fondata, in quanto «il valore mutuato
deve essere stato garantito da un bene avente valore
equivalente, che nel caso di specie è l'area fabbricabile
oggetto di accertamento». I criteri per la determinazione
della base imponibile delle aree edificabili sono quelli
fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992 e
valgono, otre che per l'Ici, anche per l'Imu e la Tasi.
Per accertare il valore venale in comune commercio dell'area
al 1° gennaio dell'anno di imposizione, vale a dire il suo
valore di mercato, occorre fare riferimento a zona
territoriale di ubicazione dell'area, indice di
edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per
eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la
costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato
di aree aventi le stesse caratteristiche. Come affermato dai
giudici con la pronuncia de qua, anche il valore stimato
dalla banca per concedere il mutuo può essere utilizzato
come criterio per individuare quale possa essere il valore
di mercato di un bene immobile.
I valori di mercato delle aree possono essere deliberati
anche dalla giunta, sulla base di una perizia redatta
dall'ufficio tecnico. La delibera emanata dalla giunta
comunale che fissa i valori delle aree edificabili, e gli
atti interni che la precedono, non devono essere allegati
agli avvisi di accertamento. Del resto, la conoscibilità
delle deliberazioni comunali si presume poiché sono soggette
a pubblicità legale. Peraltro, la Cassazione ha riconosciuto
un valore limitato alla delibera che fissa i valori delle
aree edificabili. Si tratta di un atto amministrativo
generale assimilabile al redditometro, fondato su
presunzioni.
Naturalmente, spetta al contribuente dimostrare con elementi
di prova idonei che la valutazione fatta dall'ente
impositore non sia corretta
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI: In
materia di accesso agli di una gara d'appalto:
- la possibile disponibilità degli atti richiesti da parte
del richiedente -che, peraltro, potrebbe anche averli nel
frattempo smarriti- non impedisce l’accesso, posto che
nessuna norma dispone in tal senso;
- quanto alla concreta esistenza degli atti, l’istanza di
accesso indica dettagliatamente i contratti di appalto
interessati nonché gli atti amministrativi e i documenti
d’appalto richiesti;
- in merito all’interesse, l’impresa contesta -con rilievi
plausibili- che i rapporti contrattuali con il Comune si
siano completamente definiti;
- il lavoro necessario per dare seguito alla richiesta non è
una ragione sufficiente per impedire l’accesso, posto che
l’Amministrazione non può opporre al controinteressato
circostanze inerenti alla propria organizzazione interna,
potendo semmai dilazionare l’accesso, anche se, comunque,
sempre nel rispetto di termini ragionevoli.
---------------
Se l’accesso è almeno potenzialmente correlato alla
posizione che l’impresa richiedente intende far valere in
giudizio, l’art. 24, comma 7, primo periodo, della legge n.
241 del 1990 (“Deve comunque essere garantito ai richiedenti
l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici”) ne assicura l’integrale soddisfazione.
Il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una
valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o
secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione
soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una
concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell’interessato.
Nella specie, il Comune è al momento controparte
dell’impresa in una lite, nell’economia della quale possono
assumere rilievo gli atti richiesti. Dunque l’esigenza, di
rilievo costituzionale, di assicurare la parità delle armi
nel processo vale a rendere ancora più solida la pretesa
della parte appellata.
Con il provvedimento del 25.02.2014, annullato dal
TAR, il Comune di Busto Arsizio ha negato all’impresa ora
appellata l’accesso ai documenti richiesti in base agli
argomenti che seguono:
-
gli atti, assunti in contraddittorio o comunque sottoscritti
dall’impresa, sarebbero già nella disponibilità di
quest’ultima;
-
l’impresa non avrebbe fornito alcuna prova della loro
concreta esistenza;
-
essendo gli atti relativi a rapporti ormai definiti (crediti
prescritti o inesigibili, perché derivanti da contratti
frutto di corruzione e dunque nulli), l’impresa non avrebbe
dato prova dell’interesse;
-
la ricerca di atti e documenti di rilevante quantità sarebbe
idonea a paralizzare per settimane l’attività degli uffici
comunali e -anche alla luce di un necessario bilanciamento
di interessi- non avrebbe giustificazione alcuna;
-
in definitiva, la richiesta apparirebbe finalizzata a
effettuare un controllo indiretto sul materiale probatorio
che l’Amministrazione avrebbe utilizzato o intenderebbe
utilizzare in giudizio in causa di rifacimento di danni,
proposta contro l’impresa in relazione ai fatti penali
ricordati.
Nessuno di tali argomenti è tale da escludere il diritto di
accesso, così che la sentenza impugnata merita conferma.
Infatti:
-
la possibile disponibilità degli atti richiesti da parte del
richiedente -che, peraltro, potrebbe anche averli nel
frattempo smarriti- non impedisce l’accesso, posto che
nessuna norma dispone in tal senso;
-
quanto alla concreta esistenza degli atti, l’istanza di
accesso del 27.01.2014 indica dettagliatamente i
contratti di appalto interessati nonché gli atti
amministrativi e i documenti d’appalto richiesti;
-
in merito all’interesse, l’impresa contesta -con rilievi
plausibili- che i rapporti contrattuali con il Comune si
siano completamente definiti;
-
il lavoro necessario per dare seguito alla richiesta non è
una ragione sufficiente per impedire l’accesso, posto che
l’Amministrazione non può opporre al controinteressato
circostanze inerenti alla propria organizzazione interna
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4286),
potendo semmai dilazionare l’accesso, anche se, comunque,
sempre nel rispetto di termini ragionevoli.
Resta la replica, ripetuta anche nell’appello, che finalità
dell’accesso sarebbe stata essenzialmente l’esigenza di
acquisire elementi utilizzabili contro l’Amministrazione
nella causa di risarcimento del danno.
In questi termini, l’affermazione è quasi confessoria. Se
l’accesso è almeno potenzialmente correlato alla posizione
che l’impresa richiedente intende far valere in giudizio,
l’art. 24, comma 7, primo periodo, della legge n. 241 del
1990 (“Deve comunque essere garantito ai richiedenti
l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici”) ne assicura l’integrale soddisfazione. Il
soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una
valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o
secondo la prospettazione del richiedente- con la
situazione soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di
una concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell’interessato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.01.2007,
n. 55; Id., sez. IV, 29.01.2014, n. 461).
Nella specie, il Comune è al momento controparte
dell’impresa in una lite, nell’economia della quale possono
assumere rilievo gli atti richiesti. Dunque l’esigenza, di
rilievo costituzionale, di assicurare la parità delle armi
nel processo vale a rendere ancora più solida la pretesa
della parte appellata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1211).
Dalle considerazioni che precedono, discende che -come
anticipato- l’appello non ha pregio e va perciò respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.03.2015 n. 1545 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Abbandono di materiale di cava sul terreno – Art.
256, c. 2 d.lgs. n. 152/2006.
L’abbandono di materiale di cava sul
terreno costituisce condotta di raccolta e concreta la
materiale sussistenza della contravvenzione, come condotta
descritta dal comma 2 dell’art. 256 del D.L.vo 152/2006,
anche a titolo colposo (nella specie, in relazione a rifiuti
non pericolosi non ordinatamente conservati, ma abbandonati
nell’area attigua a quella di produzione e successivamente
colati a causa delle piogge nel terreno sottostante
coltivato a castagno)
(TRIBUNALE di
Genova,
sentenza 18.03.2015 n. 1392
- tratto da www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Ici, conta il valore denunciato. Variazioni da dichiarare
per non pagare più del dovuto. Una sentenza della Cassazione sulle aree edificabili,
applicabile anche a Imu e Tasi.
I contribuenti sono onerati di presentare le dichiarazioni
di variazione se il valore di mercato delle aree edificabili
si è ridotto nel corso degli anni rispetto a quanto
denunciato al comune, altrimenti continuano a pagare le
imposte locali su un valore più elevato dell'immobile che
non corrisponde più a quello reale.
La Corte di Cassazione (Sez. V civile,
sentenza
11.03.2015 n. 4842) ha chiarito, infatti, che se il
contribuente ha dichiarato al comune un'area edificabile è
tenuto a pagare l'Ici in base al valore denunciato, anche se
l'immobile ha subito una riduzione di valore negli anni
successivi in seguito a variazioni urbanistiche. La stessa
regola si applica all'Imu e alla Tasi.
Secondo la Cassazione, il valore venale imponibile Ici era
stato spontaneamente dichiarato dal contribuente e mai era
stata comunicata all'amministrazione comunale la diminuzione
di valore dell'area, nonostante fossero intervenute
variazioni urbanistiche. Precisano i giudici di legittimità
che il valore «non era stato mai disconosciuto», in quanto
la titolare «non ha mai presentato alcuna dichiarazione rettificativa e/o integrativa del valore dell'area». La
dichiarazione presentata dal contribuente, infatti, esplica
effetti giuridici anche per gli anni d'imposta successivi, a
meno che non vengano denunciate eventuali variazioni.
I valori delle aree. Il valore di un'area edificabile ai
fini Imu e Tasi deve essere determinato come per l'Ici. I
criteri sono quelli fissati dall'articolo 5 del decreto
legislativo 504/1992. Quindi, occorre stabilire il valore
venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio dell'anno
di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato. La
norma prevede che occorra fare riferimento a zona
territoriale di ubicazione dell'area, indice di
edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per
eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la
costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato
di aree aventi le stesse caratteristiche. I valori possono
essere deliberati anche dalla giunta, sulla base di una
perizia redatta dall'ufficio tecnico.
La delibera emanata
dalla giunta comunale che fissa i valori delle aree
edificabili, e gli atti interni che la precedono, non devono
essere allegati all'avviso di accertamento Ici o Imu.
Inoltre, i valori deliberati dalla giunta sono meramente
indicativi ed equiparabili al redditometro. Dunque, il
giudice ha il potere di ritenere illegittime le presunzioni
su cui si fondano qualora il contribuente sia in grado di
provare il contrario. In questo senso si è espressa la
Commissione tributaria regionale di Potenza, prima sezione,
con la sentenza 267 del 29.12.2011.
Secondo il giudice
d'appello, sono conoscibili tutti gli atti posti a base di
un iter amministrativo non essendo coperti da segreto.
Peraltro, si legge nella pronuncia, il processo formativo di
un atto potrebbe essere particolarmente complesso e
richiedere un'innumerevole serie di passaggi e d'interventi
di uffici diversi che sarebbe impensabile dover allegare
tutti gli atti che precedono quello finale. La mancata
allegazione all'accertamento fiscale di questi atti interni
non genera alcuna nullità, poiché il cittadino ha il diritto
di richiederli in presenza di un suo interesse. Peraltro, la
conoscibilità delle deliberazioni comunali si presume poiché
sono soggette a pubblicità legale. Quindi, non devono essere
allegate agli avvisi di accertamento anche se richiamate
nella motivazione. La loro conoscibilità è presunta erga omnes, nonostante l'articolo 7 dello Statuto dei diritti del
contribuente (legge 212/200) preveda l'obbligo di
allegazione all'avviso di accertamento degli atti ai quali
si fa riferimento nella motivazione.
Anche la Cassazione ha riconosciuto un valore limitato alla
delibera che fissa i valori delle aree edificabili e ha più
volte affermato che non va allegata all'avviso di
accertamento. È stato ribadito che l'atto amministrativo
generale è assimilabile al redditometro e che, dunque, può
non trovare applicazione di fronte a concreti elementi
dimostrativi. Naturalmente, spetta al contribuente
dimostrare con elementi di prova idonei che la valutazione
fatta dall'ente impositore non sia corretta.
La presenza di
vincoli nei piani regolatori comunali non fa venir meno il
regime fiscale dei suoli edificabili, ma ha un'incidenza sul
loro valore venale e sulla base imponibile dei tributi
locali. Pertanto la Tasi è dovuta, anche se in misura
ridotta, poiché i limiti imposti dai piani urbanistici alle
aree edificabili comportano una diminuzione del loro valore
di mercato.
L'incidenza dei vincoli sul valore di mercato.
L'edificabilità di un'area non può essere esclusa dalla
presenza di vincoli o di particolari destinazioni
urbanistiche. In questi casi l'area è comunque soggetta al
pagamento delle imposte locali, anche se la presenza di
vincoli ne riduce il valore di mercato. In questi termini si
è espressa la Corte di cassazione (sentenza 5161/2014). Il
principio è applicabile anche al nuovo tributo sui servizi
indivisibili, la cui base imponibile è analoga a quella
dell'imposta municipale.
Si tratta di una questione controversa e dibattuta da tempo
quella che riguarda l'assoggettabilità a imposizione delle
aree vincolate. Anche la posizione della Cassazione non è
stata univoca. Con la pronuncia sopra citata, però, ha
chiarito che l'edificabilità non può essere esclusa dalla
ricorrenza di vincoli o destinazioni urbanistiche che
condizionino, in concreto, l'edificabilità del suolo.
La presenza di vincoli, però, ha un'incidenza sul valore
venale in comune commercio dell'area e sulla base
imponibile. Questo comporta che i tributi comunali devono
essere versati in misura ridotta
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza prevalente ritiene che i gazebo non precari,
ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno
considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con
sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando
la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità
della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il
gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare
esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere
permanente e non stagionale dell’attività svolta.
---------------
Nell’ambito dell’edilizia, per potersi parlare di pertinenza
in senso proprio è indispensabile che il manufatto destinato
ad un uso pertinenziale durevole sia di dimensioni ridotte e
modeste, con la conseguenza che soggiace a permesso di
costruire la realizzazione di un’opera di rilevanti
dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che
occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis,
indipendentemente dal vincolo di servizio o di ornamento nei
riguardi di essa.
2. - I primi due motivi di ricorso, che possono essere
trattati congiuntamente, in quanto tra loro complementari,
si incentrano sull’inesistenza di un’opera edilizia, la cui
realizzazione avrebbe richiesto un titolo abilitativo,
allegandosi che peraltro, ai sensi dell’art. 3, lett. e), n.
6, della l.r. n. 1 del 2004, le opere pertinenziali
richiedono il permesso di costruire ove comportanti una
nuova volumetria urbanistica od una superficie utile
coperta, circostanza non ricorrente nel caso di specie, ove
manca qualsivoglia copertura, tale non potendosi ritenere il
telo di copertura.
I motivi non appaiono meritevoli di positiva valutazione, e
devono pertanto essere disattesi.
A prescindere dall’esatta collocazione temporale del
manufatto, e dunque anche ad ammettere che risalga al 2000,
od anche, per ipotesi estrema, al 1985, sul piano obiettivo
si verte al cospetto di un gazebo che richiedeva il permesso
di costruire avendo una dimensione di ml. 7,25x3,80, con
altezza variabile da ml. 2,25 a ml. 2,80, e posto sul
confine di proprietà, a distanza non regolamentare dalla
viabilità pubblica (circa quattro metri), destinato a posto
auto coperto.
La giurisprudenza prevalente ritiene che i gazebo non
precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti,
vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi,
con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla
rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie,
posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo
uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per
soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal
carattere permanente e non stagionale dell’attività svolta
(in termini Cons. Stato, Sez. IV, 04.04.2013, n. 4438;
Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
In tale prospettiva, anche sul piano normativo l’art. 3,
lett. e), n. 6, della l.r. n. 1 del 2004 qualifica come
“interventi di nuova costruzione” le opere pertinenziali
agli edifici che comportino nuova volumetria urbanistica o
superficie utile coperta; l’art. 21 del regolamento
regionale 03.11.2008, n. 9 specifica che necessitano di
permesso di costruire le opere pertinenziali, quali pergole
e gazebo che abbiano una superficie utile coperta non
superiore a mq. 20,00 e di altezza non superiore a ml. 2,40,
desumendosi dunque in materia edilizia un’accezione diversa
da quella civilistica di pertinenza.
In particolare,
nell’ambito dell’edilizia, per potersi parlare di pertinenza
in senso proprio è indispensabile che il manufatto destinato
ad un uso pertinenziale durevole sia di dimensioni ridotte e
modeste, con la conseguenza che soggiace a permesso di
costruire la realizzazione di un’opera di rilevanti
dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che
occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis,
indipendentemente dal vincolo di servizio o di ornamento nei
riguardi di essa (Cons. Stato, Sez. V, 28.04.2014, n. 2196)
(TAR Umbria,
sentenza 16.02.2015 n. 81 - link a www.giustizia-amminitrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il tempo di realizzazione del manufatto, una
volta ritenuto abusivo, non assume significativo valore,
atteso che l’ordine di demolizione dell’abuso edilizio è
atto vincolato alla contestata abusività, che non richiede
alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione tra interesse pubblico e
privato, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di
fatto.
Resta inoltre inteso che l’onere della prova in ordine
all’epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava
sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del
proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di
un’opera edilizia non assistita da un titolo che la
legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma
di legge. Nel caso di specie, anche avendo riguardo alla
disciplina applicabile, il ricorrente ha versato in atti
solamente una fattura del 6 ottobre 2000 concernente
l’acquisto di un gazebo in ferro.
Il tempo di realizzazione del manufatto, una volta ritenuto
abusivo, non assume significativo valore, atteso che
l’ordine di demolizione dell’abuso edilizio è atto vincolato
alla contestata abusività, che non richiede alcuna specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione tra interesse pubblico e privato, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto (Cons. Stato,
Sez. VI, 14.11.2014, n. 5610). Mentre è indubbio che
la D.I.A. in data 04.06.1999, a parte che non costituisce
titolo idoneo, ha riguardato la realizzazione di un passo
carrabile con relativo cancello, come si evince
inequivocabilmente dalla relazione tecnica allegata.
Resta inoltre inteso che l’onere della prova in ordine
all’epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava
sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del
proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di
un’opera edilizia non assistita da un titolo che la
legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma
di legge. Nel caso di specie, anche avendo riguardo alla
disciplina applicabile, il ricorrente ha versato in atti
solamente una fattura del 6 ottobre 2000 concernente
l’acquisto di un gazebo in ferro.
Né può sostenersi che in tale epoca il regolamento edilizio
comunale prevedesse la sola autorizzazione (gratuita),
atteso che si desume dall’art. 3 che tale titolo fosse
sufficiente per “le opere costituenti pertinenze od impianti
tecnologici al servizio di edifici già esistenti”, mentre,
nel caso di specie, come si è cercato prima di porre in
evidenza, si è al di fuori della nozione edilizia di opera pertinenziale
(TAR Umbria,
sentenza 16.02.2015 n. 81 - link a www.giustizia-amminitrativa.it). |
TRIBUTI:
Imposta soft sul marchio sui silos.
Per l'apposizione di marchi a valore pubblicitario sui silos
da cantiere da parte dell'impresa costruttrice, l'imposta
sulla pubblicità può essere richiesta solamente dal comune
in cui ha sede la società; di contro, è illegittima la
pretesa avanzata dai comuni in cui sono ubicati gli stessi
silos, trattandosi a tutti gli effetti di strutture
assimilabili a macchine da cantiere e, come tali, tassabili
solamente dal comune ove abbia sede l'impresa.
Sono le conclusioni che si traggono dalla sentenza
05.02.2015 n.
45/03/15 della Ctp di Lecco.
Il giudice lecchese si è
pronunciato su una questione al momento molto dibattuta,
essendo già intervenute delle sentenze, su cause instaurate
dalla stessa ricorrente (una storica azienda del mondo
dell'edilizia), anche di senso contrario alla decisione in
commento.
A parere della società, il marchio apposto sui
silos, ovvero su quelle costruzioni a torre, per lo più
cilindrica, utilizzate per immagazzinare prodotti e
materiali, rientrerebbe a pieno regime nella previsione
contenuta nel decreto 26.07.2012, «Modalità di
applicazione dell'imposta comunale sulla pubblicità al
marchio di fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru a
torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da
cantiere».
Ciò perché il silo sarebbe del tutto assimilabile
a una macchina da cantiere e, dunque, l'imposta sulla
pubblicità potrebbe essere legittimamente richiesta
solamente dal comune in cui ha sede la società, piuttosto
che da quelli di ubicazione dei silos, come disposto
dall'articolo 2, comma 2, del citato decreto. Di contro, i
comuni di ubicazione dei silos, avevano emesso degli avvisi
di accertamento per riscuotere l'imposta sulla pubblicità,
ritenendo la fattispecie non applicabile a quel tipo di
struttura.
La vertenza in commento, svoltasi presso la Ctp
di Lecco, si è conclusa con l'accoglimento del ricorso
proposto dalla società e con il consequenziale annullamento
della pretesa tributaria. Da precisare, che la società
ricorrente ha stipulato una convenzione con il comune in cui
si trova la propria sede, volta proprio a regolare
l'applicazione dell'imposta di pubblicità sulle affissioni
in questione.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Una nota azienda operante nel mondo dell'edilizia proponeva
ricorso contro degli avvisi di accertamento, emessi per
riscuotere l'imposta sulla pubblicità, da parte di taluni
comuni della provincia di Lecco (per mezzo della società
concessionaria del servizio). L'applicazione dell'imposta
riguardava, nello specifico, il marchio apposto dall'azienda
costruttrice sui silos, posati in vari cantieri ricadenti
nel territorio di tali comuni.
Nel ricorso proposto dalla società, i difensori invocavano
l'applicazione dell'articolo 2, comma 2, del decreto 26.07.2012 del ministero dell'economia e delle finanze,
secondo cui: «Per l'apposizione del marchio la cui
superficie complessiva supera il limite dimensionale di cui
al comma 1 l'imposta è dovuta (...) al comune ove ha sede
l'impresa produttrice dei beni o qualsiasi altra sua
dipendenza, nella misura e con le modalità previste
dall'art. 12, comma 1, del decreto legislativo n. 507 del
1993». Infatti, anche il silo, secondo quanto desumibile
dalla direttiva comunitaria 42/2006, doveva ritenersi una
macchina da cantiere e, come tale, ricompresa nella
disposizione di cui al citato articolo 2. A tal scopo, la
società aveva provveduto a stipulare una convenzione con il
comune in cui aveva sede, proprio relativa alla tassazione
dei marchi in questione, unico soggetto legittimato a
richiedere l'imposta
Invece, secondo le amministrazioni dei comuni in cui erano
posati i silos, le fattispecie invocate dalla ricorrente non
sarebbero applicabili ai silos, per cui, sui marchi apposti
sugli stessi, l'imposta andava assolta in base al luogo di
ubicazione del cantiere.
La Ctp di Lecco ha sposato la tesi dei contribuenti e
annullato gli atti impositivi, affermando che «l'unico
comune competente all'emissione di avvisi di accertamento in
merito alle imposte sulla pubblicità è il comune in cui ha
sede la società ricorrente, con il quale ha stipulato una
convenzione per il pagamento delle imposte di cui
all'oggetto».
In un'altra vertenza analoga, trattata dalla Ctp di Udine
(sentenza 07.01.2015 n. 2/1/15), la decisione era
stata di senso contrario, con rigetto dei ricorsi e conferma
della bontà degli accertamenti. Secondo il diverso parere
del giudice friulano, infatti, «poiché i silos della società
ricorrente appaiono come grandi ma semplici recipienti, ci
si chiede quale sia il sistema di azionamento diverso dalla
forza umano o animale diretta, che costituirebbe la
discriminante tra la «macchina» e la «non macchina»».
In
altre parole, non essendo i silos equiparabili a una
macchina da cantiere, non potrebbe nemmeno essere applicata
la disposizione di cui al citato Decreto 26.07.2012
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015). |
TRIBUTI: Fabbricati
rurali senza esenzione.
L'esenzione dall'Ici per gli immobili rurali spetta solo in
caso di censimento catastale ricompreso nella categoria
catastale A/6, per le abitazioni, e in quella D/10, per gli
altri fabbricati; l'eventuale utilizzo agricolo «di fatto»
di immobili iscritti in altre categorie catastali, pure che
sia provato da parte di un imprenditore agricolo
professionale, non è condizione sufficiente per riconoscere
l'esenzione dall'imposta.
Sono le conclusioni cui giunge la
Commissione tributaria provinciale di Brescia nella sentenza
02.02.2015 n. 48/1/15.
Nel caso di specie i fabbricati, pacificamente
utilizzati dal contribuente (imprenditore agricolo
professionale) per l'esercizio dell'attività agricola,
risultavano accatastati rispettivamente in categoria
catastale C/2 e D/7 e, conseguentemente, la Commissione
provinciale ha ritenuto legittima la pretesa del comune di Gottolengo (Brescia) per tali immobili, poiché appartenenti
alle citate categorie catastali.
Solo in seguito
all'interpretazione fissata dalla cassazione a sezioni unite
nella sentenza n. 18565/2009 si è affermato il principio
secondo cui l'esenzione legata alla ruralità degli immobili
è strettamente connessa alla categoria catastale attribuita
al fabbricato, indipendentemente dall'uso o dalla
destinazione, con la conseguenza che gli immobili sono
esenti dall'Imposta solo quando siano iscritti nelle
categorie catastali A/6 per le abitazioni e in quella D/10
per gli altri fabbricati.
Da considerare che talvolta, sul
punto specifico, la giurisprudenza tributaria (Ctr Lazio
Sentenza 125/9/13) ha ritenuto non rilevante la categoria
catastale, bensì l'uso strumentale del fabbricato
all'attività agricola esercitata dal contribuente.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Nel caso trattato dai giudici provinciali di Brescia nella
sentenza 02.02.2015 n. 48/1/15 viene, di fatto, affrontato il tema
dell'esenzione degli immobili rurali ai fini dell'Ici,
stabilendo che sullo specifico tema, la classificazione
catastale (A/6 e D/10) appare come requisito essenziale al
fine del riconoscimento del beneficio.
Il contribuente
opponeva l'accertamento Ici del comune di Gottolengo
(Brescia) con cui veniva richiesto il pagamento dell'imposta
per l'anno 2007, relativamente a due immobili iscritti nelle
categorie catastali C/2 e D/7; lo stesso contribuente,
imprenditore agricolo professionale, asseriva che i
fabbricati avessero i requisiti di ruralità previsti dalla
norma come abitativi e strumentali all'attività agricola. Il
decreto legislativo n. 504/1992, istitutivo dell'imposta
comunale sugli immobili, non ha previsto, per i fabbricati
rurali, alcuna esenzione o riduzione di imposta.
L'art. 9,
commi 3 e 3-bis, della legge n. 133/1994 ha introdotto
nell'ordinamento una specifica disciplina per il
riconoscimento della ruralità degli immobili agli effetti
fiscali, fissando alcune condizioni oggettive e soggettive
che devono essere soddisfatte sia per i fabbricati destinati
a edilizia abitativa sia per le costruzioni strumentali alle
attività agricole.
In anni più recenti il legislatore è
intervenuto per affrontare la questione in ordine alla
esenzione o meno dei fabbricati rurali ai fini Ici. Infatti
con l'art. 23, c. 1-bis, del dl 207/2008 si è stabilito in via
interpretativa che, con riferimento alla definizione di
fabbricato contenuta nella legge dell'Ici, «non si
considerano fabbricati le unità immobiliari, anche iscritte
o iscrivibili nel catasto fabbricati, per le quali ricorrono
i requisiti di ruralità di cui all'art. 9 della L.
133/1994».
Solo in seguito all'interpretazione fissata dalla
cassazione a sezioni unite nella sentenza n. 18565/2009 si è
consolidato il principio secondo cui l'esenzione legata alla
ruralità degli immobili è rigorosamente subordinata alla
categoria catastale del fabbricato, anche a prescindere
dall'uso o dalla destinazione, con la conseguenza che gli
immobili sono esenti dall'imposta solo quando appartengono
alle categorie catastali A/6, per le abitazioni, e D/10, per
gli altri fabbricati.
Oltretutto, «l'attribuzione
all'immobile di una diversa categoria catastale deve essere
impugnata... dal contribuente che pretenda la non soggezione
all'imposta per la ritenuta ruralità del fabbricato,
restando altrimenti quest'ultimo assoggettato a Ici; allo
stesso modo il comune dovrà impugnare l'attribuzione della
categoria catastale A6 o D10 al fine di potere
legittimamente pretendere l'assoggettamento del fabbricato
all'imposta».
Nella sentenza di cui al commento, dunque, i
giudici lombardi hanno ritenuto di doversi attenere a quanto
stabilito dalle sezioni unite della Cassazione, per cui, ai
fini dell'esenzione dall'Ici, deve ritenersi assorbente
l'aspetto della classificazione catastale
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: BONIFICHE.
Rifiuti - Reato di omessa bonifica siti inquinati -
Requisiti per la
sua configurazione -
Art. 257, D.Lgs. n. 152/2006.
Ai fini della configurabilità del reato di omessa bonifica
dei
siti inquinati di cui all’art. 257, comma 1, D.Lgs. n. 152/
2006, è necessario il superamento della concentrazione
soglia
di rischio (e cioè dei livelli di contaminazione delle
matrici
ambientali che costituiscono valori al di sopra dei quali e`
necessaria la caratterizzazione del sito e l’analisi di
rischio
sito specifica), nonché l’adozione del progetto di bonifica
previsto dall’art. 242.
Il Tribunale di Grosseto condannava tale S.P. per il reato
di
cui all’art. 257, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per avere
cagionato,
con attività di rottamazione di veicoli, l’inquinamento
del suolo con superamento dei valori di concentrazione e non
ottemperando alla bonifica in conformità al progetto
approvato.
L’imputata, nel ricorso per Cassazione, si doleva, tra
l’altro, del
fatto che il Tribunale avesse applicato i valori di
concentrazione
limite di cui al D.M. n. 471/1999 e non quelli, diversi,
denominati CSR (concentrazioni soglia di rischio), del D.Lgs.
n. 152/2006, superiori rispetto ai livelli di attenzione
individuati
dalle CSC (concentrazioni soglia di contaminazione). Di
conseguenza, il Tribunale non aveva accertato il superamento
delle CSR attraverso l’analisi di rischio sanitario e
ambientale.
La Cassazione, (dopo aver dichiarato inammissibile il
secondo
motivo di ricorso, logicamente pregiudiziale rispetto al
primo
nella parte in cui si deduceva la mancanza di motivazione in
ordine alla riconducibilità della condotta di inquinamento
all’imputata giacché la sentenza impugnata aveva escluso la
possibile riconducibilità dell’inquinamento a precedenti
attività
di altra ditta già operante nel medesimo sito), ha opinato
che fosse fondata la doglianza in ordine alla inosservanza
di
legge.
La sentenza ha premesso che, ai fini della configurabilità
del
reato di omessa bonifica dei siti inquinati, è necessario
il superamento
della concentrazione soglia di rischio (ovvero, in
altri termini, dei livelli di contaminazione delle matrici
ambientali
che costituiscono valori al di sopra dei quali è necessaria
la caratterizzazione del sito e l’analisi di rischio sito
specifica) nonché l’adozione del progetto di bonifica previsto
dall’art. 242, D.Lgs. n. 152/2006 e ha perciò ritenuta
giustificata
la doglianza sollevata dalla ricorrente in merito al fatto
che il Tribunale non avesse accertato, ai fini della
consumazione
del reato previsto dall’art. 257, il superamento delle
concentrazioni soglie di rischio, che costituiscono
parametro
di natura diversa dal c.d. limite di accettabilità di cui
al D.M.
25.10.1999, n. 471, né avesse considerato che
l’obbligo di
bonifica va correlato ad un inquinamento provocato dal
superamento
delle suddette concentrazioni, essendosi invece limitato
a ritenere sufficiente, sotto il profilo probatorio,
l’indagine
espletata dal competente settore ambiente del Comune e
la segnalazione operata dal funzionario.
Per la Corte Suprema è mancata, dunque, la verifica
dell’evento
di inquinamento richiesto come elemento essenziale
della figura criminosa in oggetto, posto che per superamento
delle concentrazioni soglia di rischio, cui l’art. 257, D.Lgs. n.
152/2006 subordina la punibilità delle condotte in esso
previste,
si intende il travalicamento di livelli di pericolo ben
superiori
ai previgenti parametri di concentrazione soglia di
contaminazione.
Inoltre, ha osservato che, mentre alla stregua del
procedimento
richiamato dall’art. 51-bis, D.Lgs. n. 22/1997, il reato era
configurabile in ragione della violazione di uno qualsiasi
dei
numerosi obblighi gravanti sul privato ex art. 17, con
l’introduzione
dell’art. 257, D.Lgs. n. 152/2006 la consumazione del
reato non può prescindere dall’adozione del progetto di
bonifica ex art. 242 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.06.2014 n. 25718
- commento tratto da Ambiente
& Sviluppo n. 10/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
SCARICHI INDUSTRIALI
Acque - Scarico di lavanderia - Acque reflue industriali -
Assenza
di autorizzazione -
Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
L’attivazione di uno scarico, proveniente da lavanderia, di
acque reflue qualificabili come industriali in mancanza dei
presupposti per l’assimilabilità a quelle domestiche,
effettuato
in assenza della preventiva autorizzazione, configura la
contravvenzione di cui all’art. 137 D.Lgs. n. 152/2006.
Per aver aperto uno scarico di acque reflue industriali
senza la
prescritta autorizzazione, la titolare di una lavanderia
industriale
veniva condannata per il reato di cui all’art. 137
D.Lgs. n. 152/2006.
La Cassazione ha respinto il ricorso dell’imputata in cui
asseriva
che l’autorizzazione all’apertura dello scarico era stata
richiesta in data antecedente a quella della verifica.
La Corte ha colto l’occasione per ricordare che la natura
industriale dei reflui scaricati non era posta in
discussione.
Del resto, come ha ricordato la sentenza, è costante
l’affermazione
della natura industriale dei reflui prodotti da insediamenti
svolgenti attività di lavanderia industriale escludendo
l’assimilabilità di tale tipologia di reflui a quelli
domestici.
La sentenza ha proseguito notando che, con riferimento all’attività
di lavanderia, un’eventuale assimilabilità potrebbe
verificarsi ricorrendo i presupposti di cui all’art. 101,
comma
7, lett. e), D.Lgs. n. 152/2006, quindi in caso di scarichi
aventi
caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche
e
indicate dalla normativa regionale.
Un’ulteriore possibilità è offerta dal D.P.R. n. 227/2011
applicabile
alle piccole e medie imprese in assenza di specifica
disciplina regionale. Tale decreto stabilisce, infatti,
fermo restando
quanto previsto dall’art. 101 e dall’Allegato V alla
Parte III, D.Lgs. n. 152/2006, l’assimilazione alle acque
reflue
domestiche:
– delle acque che prima di ogni trattamento depurativo
presentano
le caratteristiche qualitative e quantitative di cui
alla Tabella 1 dell’Allegato A al decreto medesimo;
– delle acque reflue provenienti da insediamenti in cui si
svolgono attività di produzione di beni e prestazione di
servizi i cui scarichi terminali provengono esclusivamente
da servizi igienici, cucine e mense;
– delle acque reflue provenienti dalle categorie di attività
elencate nella Tabella 2 dell’Allegato A, con le limitazioni
indicate nella stessa Tabella.
La disposizione richiamata potrebbe operare, con riferimento
alle attività di lavanderia, soltanto nel caso di mancanza
di
specifica disciplina regionale e presentando le
caratteristiche
qualitative e quantitative di cui di cui alla Tabella 1
dell’Allegato
A ovvero, essendo contemplata tale attività anche nella
Tabella 2 dell’Allegato A al decreto al punto 10, solo nel
caso
di lavanderie e stirerie con impiego di lavatrici ad acqua
analoghe
a quelle di uso domestico e che effettivamente trattino
non più di 100 kg di biancheria al giorno.
Nella fattispecie, nessuna di tali circostanze era stata
riscontrata
dal giudice di merito né, tanto meno, si era pronunciata
la difesa nell’atto di impugnazione.
Dopo questa completa analisi del quadro normativo, la Corte
ha risolto il caso in esame in poche battute in quanto
l’autorizzazione allo scarico era stata rilasciata
successivamente alla data dell’accertamento e quindi il
reato era pienamente sussistente (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2014 n. 24330 - commento tratto da
Ambiente & Sviluppo n. 11/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ABBANDONO DI RIFIUTI E RESPONSABILITA'
DEL PROPRIETARIO DEL TERRENO.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti - Proprietario del fondo -
Responsabilità
a titolo di concorso nel reato - Condizioni -
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il proprietario del terreno risponde del reato di abbandono
o
deposito incontrollato di rifiuti previsto dall’art. 256,
comma
2, D.Lgs. n. 152/2006, solo se sia provato il suo concorso
con
il terzo che abbia realizzato l’attività illecita, perché
in capo a
quel soggetto non può ravvisarsi alcun obbligo giuridico di
controllo in relazione ai rifiuti gestiti e smaltiti da
altri.
Ad
integrare il concorso nel reato non è neppure sufficiente
che
il proprietario sia consapevole dell’abbandono di rifiuti
realizzato
da altri soggetti sul proprio fondo.
In appello veniva confermata la sentenza che aveva
riconosciuto
B.G. colpevole del reato di cui agli art.
256, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 152/2006, perché, nella sua
qualità di rappresentante della B.S. SRL,
in carenza di autorizzazione, deteneva, su area di
proprietà
della ditta, un deposito incontrollato di rifiuti, in parte
derivati
dall’attività produttiva della B.S.
SRL, e in parte risalenti epocalmente all’attività della B.F. & figli SNC, accumulati nel corso di un arco
temporale di circa cinque anni, sia pericolosi (batterie al
piombo, traversine ferroviarie, oli esausti, imballaggi
contaminati
da sostanze pericolose, apparecchiature fuori uso contenenti
CFC) che non pericolosi (rifiuti misti da demolizione,
rifiuti legnosi, rifiuti ferrosi, scarti vegetali, rifiuti
da
imballaggio).
Le due sentenze osservano che era stata accertata la
detenzione
alla rinfusa di rifiuti promiscui, per una consistente
durata temporale dei reiterati depositi con cumuli di ampie
dimensioni e preesistenti da lungo tempo; che l’area
dell’accumulo
era stata di fatto adibita a deposito mediante una
condotta consistente nell’abbandono reiterato per un tempo
decisamente apprezzabile; che di tale deposito doveva essere
ritenuto responsabile l’imputato, pur essendo certo che i
rifiuti
occupavano solo in parte terreni di proprietà della sua
ditta mentre in gran parte si trovavano su aree contigue;
che
questa circostanza era irrilevante perché il giudice di
primo
grado aveva ritenuto che non era stata fornita la prova
oggettiva,
concreta ed univoca della predetta allocazione, ma
solo della sua possibilità e perché comunque si trattava
di
un’estensione assai vasta ma totalmente priva di recinzioni
o
barriere interne idonee a delimitare le varie zone di
pertinenza
di terzi; che del resto è sufficiente la sola disponibilità
dell’area; che doveva ritenersi che l’imputato avesse
astutamente
dislocato, in aree diverse da quelle di proprietà, i
rifiuti relativi all’attività da lui svolta, proprio per
stornare
da sé eventuali responsabilità; che l’olio per motore e le
batterie rinvenuti non erano adatti all’impiego; che anche
il frigorifero risultava dismesso e la sua dismissione era
risalente
nel tempo.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo:
– in primo luogo, che era stato rinviato a giudizio per la
sola
violazione dell’art. 256, comma 2, ossia per un reato
proprio,
che punisce l’imprenditore che non smaltisce i rifiuti
provenienti dalla sua attività. Nella specie l’imputato
aveva
dimostrato che solo parte dei terreni oggetto di sequestro
erano di pertinenza della sua ditta. Inoltre, data la
genericità di tipologia dei rifiuti contestati, la loro
provenienza
dalla attività imprenditoriale dell’imputato non era
evidente e avrebbe dovuto essere dimostrata dall’accusa. Lo
stesso capo di imputazione dava atto che parte dei rifiuti
erano risalenti alla B.F. e Figli SNC, con cui
l’imputato non aveva nulla a che fare. La sentenza impugnata
confondeva il concetto di pertinenzialità dei terreni
con l’adiacenza e la mancanza di confini ed aveva perciò
omesso di accertare se i rifiuti ivi giacenti provenissero
effettivamente dalla ditta dell’imputato;
– in secondo luogo, che parte dei pretesi rifiuti si trovava
in
terreni non di pertinenza dell’impresa; che l’imputato
smaltiva regolarmente gli oli esausti a mezzo di impresa
terza; che parte del materiale a cui era stata attribuita la
qualifica di rifiuto era materiale di uso corrente ed
efficiente;
che i residui di polvere erano dovuti al fatto che
trattavasi di azienda florovivaistica dedita alla
lavorazione
della terra; che non era stato fatto alcun accertamento
sullo stato di efficienza delle batterie o sulla
esaustività
degli oli rinvenuti; era stato violato il dato di comune
esperienza secondo cui in aperta campagna le singole
proprietà
non sono mai recintate, il che non comporta automaticamente
una disponibilità da parte dei singoli confinanti dei
terreni adiacenti, disponibilità che va provata
caso per caso.
Il ricorso è stato accolto.
Innanzitutto, è stato ricordato in sentenza che il reato di
abbandono
o deposito incontrollato di rifiuti ha natura di reato
proprio, richiedendo, quale elemento costitutivo, la qualità di
titolare di impresa o di responsabile di ente in capo
all’autore
della violazione. Trattandosi di reato commissivo, il
titolare
dell’impresa è responsabile esclusivamente per i rifiuti
abbandonati
da lui o dai suoi dipendenti, e non anche per i rifiuti
abbandonati da terzi. L’unica (apparente) eccezione può
rinvenirsi
nell’ipotesi in cui sia provato un concorso con il terzo
che abbia abbandonato i rifiuti.
La Corte ha quindi rilevato che nel caso in esame i giudici
del
merito si erano soffermati a discutere su questioni in gran
parte
irrilevanti, ossia se i terreni ove erano allocati i rifiuti
fossero o
meno di proprietà del ricorrente o si trovassero o meno
nella
sua disponibilità, mettendo invece in secondo piano la
questione
decisiva, consistente nello stabilire si i rifiuti -sia se
allocati su terreni di proprietà della ditta sia su terreni
esterni e
diversi- fossero stati abbandonati dall’imputato o da suoi
dipendenti
o da soggetti in concorso con il prevenuto ovvero
fossero stati abbandonati da soggetti diversi senza il
concorso
del proprietario e questi si fosse solo limitato a non
toglierli e a
non far bonificare l’area di sua pertinenza.
I giudici romani hanno ribadito che, nel nostro sistema
penale,
una condotta omissiva può dar luogo a responsabilità
solo nel caso in cui ricorrano gli estremi dell’art. 40,
comma
2, cod. pen., e cioè quando il soggetto abbia l’obbligo
giuridico
di impedire l’evento. Il fondamento di tale obbligo deve
essere chiaramente e specificamente individuato dal giudice
in una precisa norma di legge, in quanto la responsabilità
omissiva non potrebbe fondarsi su un dovere indeterminato o
generico, anche se di rango costituzionale come quelli
solidaristici
o sociali di cui all’artt. 2, 41, comma 2, 42, comma 2
Cost., perché ciò trova un limite in altri principi
costituzionali
e segnatamente nel principio di legalità della pena
consacrato
nell’art. 25, comma 2, il quale si articola nella riserva
di legge statale e nella tassatività e determinatezza delle
fattispecie.
Rievocati i principi che regolano le responsabilita` dei
vari
soggetti in relazione all’abbandono e deposito incontrollato
di rifiuti su un fondo altrui, la Cassazione ha osservato
che,
nel caso in esame, la sentenza impugnata aveva invece
ritenuto
che il ricorrente, in quanto legale rappresentante della
società subentrata nella proprietà del terreno, avesse un
obbligo
giuridico di eliminare i rifiuti ivi depositati prima
dell’acquisto
o comunque depositati senza il suo concorso. Tuttavia,
come ha rilevato la Corte Suprema, sull’esistenza di
tale obbligo mancava qualsiasi motivazione: un obbligo
giuridico
di eliminare i rifiuti in capo al proprietario del terreno
che non abbia concorso con gli autori materiali
dell’abbandono,
infatti, poteva sorgere solo a seguito di una ordinanza
comunale che ordinasse la rimozione dei rifiuti stessi e lo
sgombero dell’area nei limiti e con le modalità previste
dalla
legge.
Di contro, la sentenza impugnata aveva ritenuto l’imputato
responsabile anche per l’abbandono e il deposito di rifiuti
che
sicuramente non erano stati da lui abbandonati, trattandosi
di
rifiuti che, secondo lo stesso capo di imputazione, erano
risalenti
epocalmente all’attività della B.F. & figli
SNC, senza la benché minima motivazione sia su una
eventuale
responsabilità dell’imputato per l’attività posta in
essere
da tale società sia di un eventuale concorso dell’attuale
ricorrente
col responsabile di questa società nell’abbandono di tali
rifiuti.
Passando ad esaminare la motivazione della sentenza
impugnata
sotto altro profilo, la Corte ha osservato che la stessa era
mancante e comunque manifestamente illogica in ordine alla
circostanza che i rifiuti rinvenuti allocati su terreni non
di
proprietà e non riconducibili alla società dell’imputato
fossero
stati abbandonati da lui o dai suoi dipendenti o da terzi
con il
concorso dell’imputato. La sentenza impugnata infatti aveva
affermato la responsabilità dell’imputato avendo ritenuto
che
la sua società avesse comunque la disponibilità di fatto
di tali
aree. Sennonché, ciò che rilevava non era tanto la
disponibilità
dell’area, ma una concreta attività di abbandono dei
rifiuti
(o di concorso nella stessa) e su questo punto mancava
totalmente
la motivazione.
Inoltre la motivazione era manifestamente illogica anche
relativamente
alla disponibilità dei terreni che era stata desunta
dal fatto che i terreni non erano recintati, circostanza
questa
però che non solo non sembrava idonea di per sé a
dimostrare
la disponibilità, ma che, semmai, poteva essere indicativa
del
fatto che anche soggetti terzi avrebbero potuto facilmente
abbandonare i rifiuti. Totalmente apodittica ed assertiva
era
l’affermazione (senza una valutazione della tipologia dei
singoli
rifiuti) che l’imputato avrebbe astutamente collocato
rifiuti
provenienti dalla sua impresa su aree diverse per sviare
eventuali responsabilità.
Secondo la Cassazione, era esatta l’ulteriore doglianza del
ricorrente
che lamentava che la sentenza impugnata si era erroneamente
rifiutata, ritenendola superflua, di effettuare una
disamina analitica dei singoli rifiuti contestati in
relazione ai
luoghi di loro collocazione, pur essendo stata contestata la
presenza di singoli rifiuti puntualmente elencati nel
verbale
di perquisizione e sequestro. In mancanza di eventuali altri
elementi di prova, una tale analisi avrebbe potuto fare
accertare
la provenienza dei rifiuti dall’attività dell’impresa
dell’imputato
e di conseguenza il loro abbandono da parte dello
stesso.
Una tale verifica era necessaria anche perché nella
sentenza
impugnata si dava atto non solo che parte dei rifiuti erano
derivati sicuramente dalla attività produttiva di altro
soggetto,
precisamente la B.F. & figli SNC, ma anche che
vi erano cumuli preesistenti da lungo tempo, che le aree
erano
da anni adibite a deposito incontrollato, che vi era stata
una
notevole crescita di vegetazione su alcuni cumuli di
rifiuti; che
vi era uno stato di usura prolungata di bidoni e fusti; che
la
dismissione del frigorifero appariva risalente nel tempo.
La sentenza impugnata é stata perciò annullata con rinvio
per
nuovo esame in ordine ai rifiuti riconducibili alla B.F. & figli SNC ed ai rifiuti collocati su terreni non
nella disponibilità della B.S. SRL dovendosi
accertare
se vi fosse la prova che erano stati abbandonati
dall’imputato
o da altri con il suo concorso e non già da terzi senza il
concorso dell’imputato (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 08.06.2014 n. 23911
- commento tratto da Ambiente
& Sviluppo n. 11/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
VIOLAZIONE DI SIGILLI.
Rifiuti - Gestione illecita di rifiuti - Sequestro di
un’area -
Accesso non autorizzato - Violazione di sigilli - Reato -
Sussistenza -
Art. 349, cod. pen..
Configura il reato di violazione dei sigilli ai sensi
dell’art. 349
cod. pen. l’accesso ad un’area, sottoposta a sequestro
penale
perché vi era stata scaricata terra da scavo costituente
rifiuto,
effettuato al fine di prelevare campioni di terreno da
sottoporre ad analisi.
Nella specie è stato proposto ricorso avverso la sentenza
della
Corte di Appello che aveva confermato la condanna di P.
(anche) per il delitto di cui all’art. 349 cpv. cod. pen.
perché
era entrato, in violazione dei sigilli, nell’area sottoposta
a sequestro
preventivo per prelevare campioni di terreno da sottoporre
ad analisi.
A sostegno del ricorso l’imputato deduceva che non era stato
considerato il vero oggetto della tutela penale approntata
dall’art.
349 cod. pen. e che non era stata considerata scriminata
o meramente colposa la condotta posta in essere.
La Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile perché,
come
già aveva osservato la Corte di merito, la fattispecie incriminatrice
di cui all’art. 349 cod. pen. sanziona tanto le
attività dirette ad alterare le modalità con le quali lo
Stato
manifesta la propria volontà di provvedere alla speciale
custodia
di determinati beni, quanto la manipolazione delle cose
sottoposta a custodia.
Infatti, secondo la prevalente
giurisprudenza
di legittimità, l’oggetto giuridico del reato è la tutela
della intangibilità della cosa che la Pubblica
Amministrazione
vuole garantire contro ogni atto di disposizione o di
manomissione,
indipendentemente dai fini o dai motivi particolari che
ispirano il provvedimento autoritativo, con la conseguenza
che integra il reato anche il semplice uso della cosa
stessa.
Da ciò consegue che la condotta del ricorrente era
perfettamente
sussumibile nel fatto tipico di cui all’art. 349 cod. pen.
e, tenuto conto della natura dell’interesse tutelato, era
concretamente
offensiva.
La sentenza ha inoltre escluso che la condotta fosse
scriminata
dall’esercizio di un diritto (il prelievo di campioni per
l’esercizio
di attività difensive).
Il concetto di diritto implica che il diritto stesso,
sebbene
inteso in senso lato, ossia come mera situazione giuridica
attiva,
sia suscettibile di esercizio. La qual cosa è esclusa
allorquando
per l’esercizio del diritto occorra, come nella specie,
richiedere un provvedimento autorizzativo, essendo
l’autorizzazione
amministrativa principalmente diretta a rimuovere un
limite legale all’esercizio di un diritto che, sebbene
riconosciuto
dall’ordinamento in capo al soggetto, non sia da questi
esercitabile senza la previa rimozione del limite che
all’esercizio
del diritto legalmente si frappone.
Quanto all’allegazione difensiva circa l’erronea
supposizione
della sussistenza di una causa di giustificazione ex art. 59
cod. pen., essa non poteva essere, come nella specie,
genericamente
affermata, ma doveva basarsi su dati di fatto concreti,
tali da giustificare l’erroneo convincimento in capo
all’imputato
di trovarsi in un tale stato.
Peraltro, dato che per il perfezionamento del reato è
richiesto
il solo dolo generico, da individuarsi nella volontà di
violare i sigilli, nella consapevolezza della funzione
giuridica degli stessi
di assicurare la conservazione o l’identità della cosa, la
Corte
ha ribadito che l’elemento psicologico del reato è
configurabile
anche nella forma del dolo eventuale, non rilevando
l’eventuale
buona fede dell’agente cui incombe l’obbligo, nei
casi dubbi, di interpellare il proprio difensore ovvero la
stessa autorità procedente (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
05.06.2014 n. 23484 - commento tratto da Ambiente
& Sviluppo n. 10/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
EMISSIONI MOLESTE.
Emissioni in atmosfera - Molestie - Azienda autorizzata -
Idoneità
ad arrecare fastidio - Insufficienza - Rilevanza superamento
limiti tabellari - Giudizio sull’adeguatezza degli impianti
-
Art. 674 cod. pen..
Ai fini dell’affermazione di responsabilità per il reato
previsto
dall’art. 674 cod. pen., nell’ipotesi di attività
industriali che
trovano la loro regolamentazione in una specifica normativa
di settore, non è sufficiente la generica idoneità delle
emissioni
a recare disturbo o fastidio: occorre, invece, accertare
specificamente, nel caso di azienda munita di autorizzazione
alle emissioni in atmosfera, la violazione da parte sua
delle
prescrizioni contenute nell’autorizzazione stessa e/o il
superamento
degli standards fissati dalla legge e il nesso
consequenziale
delle emissioni moleste con detta inosservanza; occorre,
inoltre, indicare quali ulteriori accorgimenti tecnici
siano, in concreto, adottabili dall’azienda per prevenire le
esalazioni moleste.
Discorso diverso va fatto nel caso di emissioni moleste
prodotte
da attività non rientranti tra quelle regolamentate
dall’autorizzazione
o nel caso in cui non esista una predeterminazione
normativa di limiti tabellari: in tali ipotesi, il giudice
deve comunque valutare la tollerabilità consentita, ma pur
sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche
normative
di settore.
A seguito di vari sopralluoghi del Corpo Forestale dello
Stato,
che avevano accertato l’emissione da una distilleria di
odori
molesti e di polveri fastidiose (risultate stagnanti sui
muri delle
vicine abitazioni in un raggio di circa 500 metri, ma anche
sugli alberi ed altri oggetti rientranti in tale perimetro),
al
legale rappresentante dell’azienda veniva contestato il
reato
di cui all’art. 674 cod. pen..
Il Tribunale, nel pervenire alla condanna, da un lato
riteneva
irrilevante l’esistenza di autorizzazione alle emissioni in
atmosfera
da parte dell’azienda e il mancato superamento dei limiti
stabiliti in tali autorizzazioni. Dall’altro lato affermava
che, in
ogni caso, era stato superato il limite della normale
tollerabilità
previsto dall’art. 844 cod. civ., la cui tutela costituisce
la
ratio incriminatrice della norma penale.
Veniva successivamente presentato un articolato ricorso per
cassazione accolto dalla sentenza in epigrafe che ha colto
l’occasione
per approfondire alcune questioni dibattute in materia.
L’imputato, infatti, asseriva che il Tribunale erroneamente
aveva affermato l’irrilevanza delle autorizzazioni di cui
era in
possesso l’azienda per le emissioni in atmosfera e del
mancato
superamento dei valori limite da esse previsti. Contestava,
inoltre, l’affermazione secondo cui la ricaduta al suolo
delle
polveri integrava la condotta ipotizzata nella prima parte
dell’art.
674 cod. pen., senza dover prendere in considerazione gli
ulteriori requisiti previsti dalla seconda parte dello
stesso articolo,
in quanto espressione di un orientamento giurisprudenziale
ormai superato.
Orbene, il supremo Collegio ha aderito all’indirizzo secondo
il
quale la norma incriminatrice non prevede -come invece
ritenuto dal Tribunale- due distinte ipotesi di reato, ma
un
unico reato, in quanto la condotta consistente nel provocare
emissione di gas, vapori o fumo, rappresenta una species del
più
ampio genus costituito dal gettare o versare cose atte ad
offendere
imbrattare o molestare le persone.
Ha poi concordato con il ricorrente in ordine all’erronea
applicazione
dell’art. 674 cod. pen.; infatti:
l’attività industriale era autorizzata;
le prescrizioni in tema di emissione di fumi (e dunque di
polveri) erano state osservate in quanto i valori non
superavano
il limite imposto ed anzi erano nettamente inferiori;
tali dati dimostravano la manifesta illogicità della
motivazione
del Tribunale, secondo la quale gli accorgimenti tecnici
in dotazione all’azienda non erano sufficienti, in quanto
non era stato indicato in sentenza quali dovessero essere
gli ulteriori e specifici accorgimenti tecnici da adottarsi
per
evitare l’emissione delle polveri e il loro deposito.
La Corte si è poi soffermata sulla questione del
superamento
del limite della normale tollerabilità (art. 844 cod.
civ.). Invero,
il ricorrente aveva sostenuto che, poiché la realizzazione
dell’impianto industriale risaliva agli anni ’50-’60 ed
era
munita di tutte le autorizzazioni prescritte oltre che
rispettosa
dei limiti previsti dall’art. 216, R.D. n. 1265/1934, non
era
configurabile una responsabilità in capo al titolare
dell’azienda
se altri soggetti avevano edificato a distanza non
consentita
rispetto allo stabilimento industriale con il rischio,
quindi, di
essere destinatari delle emissioni prodotte dall’attività
industriale.
Secondo i giudici di legittimità, questa tesi non poteva
tuttavia assurgere a regola assoluta in quanto il limite
della tutela
della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell’attività
di produzione
oltre che nei rapporti di vicinato. Rientra, pertanto,
nella facoltà del giudice disattendere la regola della
priorità di
uso, a condizione che, sulla base degli accertamenti di
fatto
compiuti, venga fornita idonea motivazione in ordine al
superamento
della soglia di tollerabilità.
Perciò, il Tribunale, che aveva ritenuto l’inadeguatezza
delle
misure adottate dall’impresa, avrebbe invece dovuto indicare
gli ulteriori accorgimenti tecnici da adottare in quanto
solo in
questo caso si sarebbe potuta configurare l’illegittimità
della
produzione e dunque l’inapplicabilità del principio del pre-uso.
A maggior ragione, ha osservato la Corte, questi principi
avrebbero dovuto essere osservati con riferimento
all’emissione
di odori sgradevoli, tanto più che, sulla base dei
riferimenti
testimoniali, vi era contrasto tra la natura degli odori
nauseabondi
descritti dagli abitanti della zona (puzza di uova marce)
e quelli descritti dai verbalizzanti (che parlavano di odori
derivanti dai mucchi di vinaccia depositati nel piazzale
dell’azienda).
Infatti, ai fini dell’affermazione di responsabilità in
ordine al
reato previsto dall’art. 674 cod. pen., nell’ipotesi di
attività
industriali che trovano la loro regolamentazione in una
specifica
normativa di settore, non è sufficiente ad integrare la
fattispecie l’idoneità delle emissioni a recare disturbo o
fastidio,
occorrendo invece la puntuale e specifica dimostrazione
che tali emissioni superino gli standards fissati dalla
legge.
Secondo il più recente orientamento della Cassazione
(condiviso
integralmente nella specie), quando esistono precisi limiti
tabellari fissati dalla legge, non possono ritenersi non
consentite
le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche
qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal
legislatore.
Discorso diverso va fatto in quei casi nei quali non esiste
una predeterminazione normativa, gravando sul giudice penale
l’obbligo di valutare la tollerabilità consentita, ma pur
sempre
con riferimento ai principi ispiranti le specifiche
normative
di settore.
La Corte ha dunque concluso che, quando le molestie siano
riferibili ad esalazioni prodotte dall’attività
dell’azienda, munita
di autorizzazione alle emissioni in atmosfera,
l’affermazione
di colpevolezza dell’imputato in tanto può essere ritenuta
in
quanto sia accertata, in primo luogo, la mancata adozione da
parte dell’azienda delle prescrizioni contenute nella
predetta
autorizzazione e il nesso consequenziale delle emissioni
moleste
con detta inosservanza; in secondo luogo, che l’attività
posta in essere non rientri tra quelle regolamentate
dall’autorizzazione
o, infine, che siano superati i valori limite previsti
dalla autorizzazione per le emissioni.
Per completezza, la Corte ha altresì osservato che il
criterio della
stretta tollerabilità (enunciato in varie pronunce della
Suprema
Corte) deve essere inteso in termini più rigorosi rispetto
al
concetto civilistico di normale tollerabilità dettato
dall’art.
844 cod. civ., attesa l’inidoneità di questo criterio ad
approntare
una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana, allorché non vengano rispettati, nell’esercizio di un’attività
industriale
o più genericamente produttiva, i limiti e le prescrizioni
previste dai provvedimenti autorizzatori che la
disciplinano.
E'
stata perciò annullata la sentenza impugnata con rinvio al
Tribunale perché verifichi, in modo puntuale ed alla luce
dei principi di diritto enunciati, quali accorgimenti non
siano stati adottati dall’azienda e quali in concreto
fossero quelli da adottare, tanto con riferimento alla
emissione di poveri quanto con riferimento alla emissione di
odori sgradevoli la cui natura doveva comunque essere
accertata con specifica motivazione (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 08.05.2014 n. 18896 - commento tratto da Ambiente
& Sviluppo n. 10/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ORDINE DI RIMOZIONE DEI RIFIUTI.
Rifiuti - Mancata ottemperanza all’ordine di rimozione dei
rifiuti
- Reato istantaneo -
Art. 255, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di omessa ottemperanza all’ordine di rimozione dei
rifiuti rivolto dall’autorità amministrativa si perfeziona
alla
scadenza del termine indicato dall’autorità, sicché
l’eventuale
adempimento successivo non ha alcuna rilevanza al fine di
escludere la sussistenza del reato, che ha natura
istantanea.
Nella specie il Tribunale condannava il proprietario di un
terreno per aver creato 20 cumuli di rifiuti di circa 400 mc.
e per non avere, poi, ottemperato alla ordinanza sindacale
che
gli intimava di provvedere al ripristino dello stato dei
luoghi.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’imputato che aveva
evidenziato che la contestazione del PM indicava come data
di
commissione quella del 07.11.2007, vale a dire, la data
in cui la polizia municipale aveva accertato la mancata
rimessione
in pristino, ma il termine da indicare avrebbe dovuto
essere quello del sessantesimo giorno successivo alla
notifica
dell’ordinanza; quindi, trattandosi di una data antecedente
di
molto quella del 07.11.2007, la Corte avrebbe dovuto
prendere atto dell’estinzione di tale reato.
La sentenza ha ricordato la problematica della
qualificazione
da darsi al reato di omessa ottemperanza ad un ordine di
rimozione dei rifiuti rivolto dall’autorità amministrativa.
Nella specie, il giudice, ritenuta la natura permanente
dell’illecito,
aveva considerato, come dies a quo, la data di accertamento,
da parte della p.g. dell’inottemperanza contestata -vale a dire, quella del
07.11.2007- allineandosi così
a
Cass. 18.05.2006, Marini (1) che aveva posto il
principio
secondo cui il reato de quo ha natura permanente «sicché la
scadenza del termine per l’adempimento non indica il momento
di esaurimento della fattispecie, bensì l’inizio della fase
di
consumazione che si protrae sino al momento
dell’ottemperanza
all’ordine ricevuto».
Il ricorrente invece sosteneva che l’ordinanza sindacale del
04.06.2007, n. 82 (con la quale si ingiungeva al D’Ambrosio
di rimuovere i rifiuti) indicava in termini perentori (entro
e
non oltre) di adempiere entro sessanta giorni e che, di
conseguenza
è dalla scadenza di tale data che sarebbero dovuti
decorrere i 5 anni massimi per la estinzione del reato.
Secondo la Cassazione, tale argomento non era del tutto
privo
di pregio, considerata l’esistenza di Cass. 28.02.2007,
Viti (2) che aveva, per l’appunto, operato dei distinguo in
relazione al tipo di termine imposto per l’adempimento
affermando
che, ove si tratti di termine perentorio, il reato si
perfeziona alla sua scadenza «sicché l’eventuale
adempimento
successivo non ha alcuna rilevanza al fine di escludere la
sussistenza del reato, che ha natura istantanea e la cui
prescrizione
comincia a decorrere dal termine fissato»; in caso
contrario,
e cioè ove il termine non sia perentorio, l’agente può
validamente far cessare la situazione antigiuridica
sanzionata
dalla norma incriminatrice, anche dopo la scadenza del
termine,
dando esecuzione, con un comportamento attivo, all’ordine
ricevuto sicché il reato ha natura permanente e cessa
allorché, appunto, l’agente dà esecuzione all’ordine.
Nella fattispecie in esame, secondo la sentenza che si
riporta,
pur essendovi incertezza circa l’esatta natura del termine
imposto
al ricorrente dall’autorità amministrativa, era evidente la
non manifesta infondatezza della censura sollevata, come
pure
era chiaro che, per il principio dell’in dubio pro reo, la
situazione
di incertezza non potesse essere risolta in danno
dell’imputato.
Di conseguenza, tenendo conto del fatto che, medio tempore,
anche a volerlo far decorrere dalla data dell’accertamento
(07.11.2007), il termine di prescrizione del reato era
ormai
maturato, la sentenza impugnata è stata annullata senza
rinvio.
---------------
(1) Ced Cass., rv. 234484
(2) Ced Cass., rv. 236718 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.04.2014
n. 17868 - commento
tratto da Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RESPONSABILITA' DEL PROPRIETARIO DEL FONDO.
Rifiuti - Proprietario di un’area - Locazione a terzi -
Concorso
nel reato del terzo - Esclusione
- Art. 256 D.Lgs. n. 152/2006.
Il fatto di locare un'area ad un terzo per l'esercizio di
una attività imprenditoriale non comporta, in capo al
locatore,
l'onere di assicurarsi che gli adempimenti relativi
allo smaltimento dei rifiuti derivanti da una tale attività
vengano effettuati in conformità alle norme di legge,
non potendo il mero fatto del contratto di locazione
creare sul locatore un obbligo di garanzia in tal senso.
R.N. e S. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la
sentenza del Tribunale con cui erano state condannate per
avere, in qualità di comproprietarie di un’area, da un lato,
concorso con il legale rappresentante della società D.S.G.
e f., in un’attività di recupero e smaltimento di rifiuti
provenienti
da inerti e residui di demolizioni, così trasformandoli
in materiali utili per l'edilizia, senza essere in possesso
della
prescritta autorizzazione, e, dall'altro, concorso con
D.S.G.,
esercente attività di frantoio, nella predetta attività
senza
essere munite della prescritta autorizzazione regionale.
Nell’atto di impugnazione lamentavano che il Tribunale
avesse considerato l'intera vicenda processuale in modo
parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio in
quanto non era stata effettuata nessuna indagine per
accertare
l'effettiva partecipazione delle imputate ai reati
contestati.
In particolare, evidenziavano che l'attività di
frantumazione
era svolta solo dal D.S.; che il terreno era stato locato
per
uso deposito; che successivamente avevano proceduto alla
risoluzione contrattuale per grave inadempimento; che
vivevano
in altra città e non erano presenti al momento
dell'ispezione.
In base a tali circostanze, concludevano asserendo
la mancanza, contrariamente all'assunto della sentenza
impugnata, di una condotta concorsuale efficiente sotto il
profilo causale non essendo sufficiente un comportamento
meramente omissivo ad integrare la fattispecie di concorso
nel fatto illecito commesso da altre persone.
La Cassazione ha accolto il ricorso perché il Tribunale non
aveva espressamente argomentato in ordine agli elementi
dimostrativi della responsabilità a titolo di concorso delle
imputate, fondata non già su risultanze positive di essa,
bensì sulla mancanza di risultanze dimostrative della sua
assenza; implicitamente, la loro responsabilità era stata
fondata sostanzialmente, e quindi assiomaticamente, sulla
sola base della proprietà formale del fondo, per di più
risultante
locato ad altro soggetto per l'esercizio della sua attività
con un contratto che era stato poi risolto per grave
inadempimento
del conduttore.
In ogni caso, non era spiegato perché il fatto di locare
un'area
ad un terzo per l'esercizio di una attività imprenditoriale
debba comportare, in capo al locatore, l'onere di
assicurarsi
che gli adempimenti relativi allo smaltimento dei rifiuti
derivanti da una tale attività siano effettuati in
conformità
alle norme di legge, non potendo il mero fatto del contratto
di locazione trasferire sul locatore un obbligo di garanzia
in
tal senso.
La sentenza è stata perciò annullata con rinvio al Tribunale
per nuovo esame (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.04.2014 n. 16666
- commento tratto da Ambiente
& Sviluppo n. 12/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: DEPOSITO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Deposito
temporaneo o stoccaggio autorizzato - Mancanza
delle condizioni di liceità - Reato -
Artt. 183 e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
La realizzazione di un’attività di deposito di rifiuti che
esuli
dalle fattispecie del deposito temporaneo o dello stoccaggio
debitamente autorizzato integra il reato di deposito
incontrollato
di rifiuti (fattispecie relativa ad un deposito non
autorizzato avente ad oggetto materiali provenienti da
lavori
in corso presso una stazione ferroviaria).
Nella specie l’Amministratore Unico della C.S. srl nonché
titolare della ditta individuale Z.D., impresa esecutrice
dei
lavori per la realizzazione di parcheggi presso la stazione
ferroviaria
di Campobasso, veniva condannato per aver attuato un
deposito incontrollato di traversine ferroviarie dismesse in
cemento
armato precompresso e breccione calcareo e terra misto
a conglomerato bituminoso, provenienti dai lavori in corso
presso la stazione ferroviaria.
Il procedimento traeva origine da un controllo effettuato
dai
CC del Nucleo Operativo Ecologico di Campobasso presso la
cava ubicata in C. S. di proprietà della C.S. srl, nel
corso del
quale furono rinvenute, occultate da un cumulo di pietrisco,
trecento traversine ferroviarie dismesse in cemento armato
precompresso, provenienti dalla demolizione di binari dello
scalo merci stazione di Campobasso, conseguente ai lavori
per la realizzazione di parcheggi comunali appaltati
all’impresa
di Z.D..
Il giudice di merito, sulla base delle ammissioni
dell’imputato
circa la provenienza delle traversine in calcestruzzo e
dell’altro
materiale rinvenuto dal cantiere delle Ferrovie ove stava
svolgendo
i lavori edili, ha ritenuto accertato il reato di deposito
incontrollato di rifiuti di cui all’art. 256, D.Lgs. n.
152/2006
sul presupposto che costituisce deposito incontrollato di
rifiuti
l’attività di stoccaggio, smaltimento di materiali
eterogenei
ammassati alla rinfusa, senza alcuna autorizzazione su aree
nella disponibilità dell’imputato.
Nel proposto ricorso per Cassazione, il ricorrente eccepiva
che
il giudice aveva omesso di considerare che lo Zurlo, pur
riconoscendo,
nell’ambito delle procedure adottate per la gestione
dei rifiuti prodotti dalle opere realizzate, di avere
tagliato i
binari dismessi e smontato le traversine sia in legno che in
calcestruzzo, portando queste ultime presso la cava di proprietà
della C.S. srl, (i binari e le traversine in legno erano
state
accatastate in un’area appartenente alla Ferrovie,
incaricatasi
dello smaltimento), aveva tuttavia precisato che si trattava
di
un deposito temporaneo in attesa di inviarle per lo
smaltimento
presso l’impianto autorizzato.
Secondo la prospettazione difensiva, il ricorrente aveva
realizzato
un deposito preliminare in quanto le traversine rinvenute
nella cava erano state in seguito inviate presso l’impianto
autorizzato per lo smaltimento. Tale fattispecie era
sanzionabile
solo in assenza di autorizzazione, che, nel caso in esame,
era stata rilasciata. Per la difesa, il giudice di merito
aveva
ignorato tale autorizzazione, pur mancando qualsiasi tipo di
prova, sia documentale che orale, della sua assenza.
La Cassazione ha condiviso le corrette argomentazioni della
Corte di merito sull’infondatezza dell’assunto difensivo
secondo
cui il materiale derivante dalla demolizione dei binari era
stato accatastato provvisoriamente in attesa di essere
rimosso,
con conseguente riconducibilità della condotta
dell’imputato
all’ipotesi di stoccaggio o deposito preliminare di rifiuti.
Tale assunto, oltre che essere smentito dalle modalità e
dalla
durata del deposito, non era comunque decisivo ai fini
dell’esclusione
dell’illiceità della condotta. Infatti, la nuova normativa
ha in sostanza equiparato le ipotesi di stoccaggio
provvisorio
e di deposito incontrollato di rifiuti configurandole
entrambe
come ipotesi di reato rientranti nell’attività di
smaltimento
illecito di rifiuti.
A questo proposito, la sentenza ha ricordato l’elaborazione
giurisprudenziale in materia di deposito temporaneo,
deposito
preliminare o stoccaggio e deposito incontrollato o
abbandono
di rifiuti.
Il deposito temporaneo ricorre in presenza di un
raggruppamento
di rifiuti effettuato nel luogo della loro produzione,
prima della raccolta, intendendo per essa le operazioni di
prelievo,
di cernita e di raggruppamento dei rifiuti per il loro
trasporto; tale deposito è lecito se vengano rispettate le
condizioni
previste dalla legge; nel caso tali condizioni non vengano
rispettate, il deposito temporaneo va qualificato come
deposito preliminare, o stoccaggio, attività per la quale
sono
necessarie l’autorizzazione o la comunicazione in procedura
semplificata, previste dal citato decreto legislativo, in
difetto
delle quali il deposito integra un reato.
Ricorre il reato di deposito incontrollato di rifiuti nel
caso di
attività di stoccaggio e smaltimento di materiali
eterogenei
ammassati alla rinfusa, senza alcuna autorizzazione, su
un’area
rientrante nella disponibilità dell’imputato.
Ciò posto, secondo la Cote di Cassazione era evidente che
il
ricorrente non potesse invocare l’ipotesi dello stoccaggio
non
avendo fornito, come emergeva dalla sentenza impugnata,
alcuna
dimostrazione del rilascio delle prescritte autorizzazioni.
A tale riguardo, la sentenza di secondo grado aveva
correttamente
affermato che è onere della parte produrre la
documentazione
comprovante il conseguimento delle autorizzazioni, la
cui sussistenza non si può certo desumere, come pretendeva
il
ricorrente, dal fatto che non era stata acquisita in
giudizio la
prova dell’assenza di tali autorizzazioni.
Infatti, non è
certo
sufficiente la prova negativa della loro assenza dovendosi
fornire,
a cura della parte su cui grava il relativo onere
probatorio,
la prova positiva delle condizioni legittimanti
l’effettuazione
dell’attività di stoccaggio
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.04.2014 n. 15659 - commento
tratto da Ambiente & Sviluppo n. 10/2014). |
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