e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABBAINO
14-
ABUSI EDILIZI
15-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
16-AGIBILITA'
17-AMIANTO
18-ANAC (già AVCP)
19
-APPALTI
20-ARIA
21-ASCENSORE
22-ASL + ARPA
23-ATTI AMMINISTRATIVI
24-ATTI AMMINISTRATIVI (accesso esposto e/o permesso di costruire e/o atti di P.G.)
25-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
26-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
27-BARRIERE ARCHITETTONICHE
28-BOSCO
29-BOX
30-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
31-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro
32-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
33-CARTELLI STRADALI
34-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
35-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
36
-COMPETENZE GESTIONALI
37
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
38-CONDIZIONATORE D'ARIA
39-CONDOMINIO
40-CONSIGLIERI COMUNALI
41-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
42-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
43-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
44-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
45-DEBITI FUORI BILANCIO
46-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
47-DIA e SCIA
48-DIAP
49-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
50-DISTANZA dai CONFINI
51-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA
52-DISTANZA dalla FERROVIA

53-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
54-DURC
55-EDICOLA FUNERARIA
56-EDIFICIO UNIFAMILIARE
57-ESPROPRIAZIONE
58-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
59-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
60-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
61-INCENTIVO PROGETTAZIONE
62-INDUSTRIA INSALUBRE
63-L.R. 12/2005
64-L.R. 23/1997
65-LEGGE CASA LOMBARDIA
66-LICENZA EDILIZIA (necessità)
67-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
68-LOTTO INTERCLUSO
69-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
70-MOBBING
71-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
72-OPERE PRECARIE
73-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
74-PATRIMONIO
75-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU
76-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
77-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
78-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
84
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
85-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
86-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
87-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
88-PISCINE
89-PUBBLICO IMPIEGO
90-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
91-RIFIUTI E BONIFICHE
92-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
93-RUDERI
94-
RUMORE
95-SAGOMA EDIFICIO
96-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
97-SCOMPUTO OO.UU.
98-SEGRETARI COMUNALI
99-SIC-ZPS - VAS - VIA
100-SICUREZZA SUL LAVORO
101
-
SILOS
102-SINDACATI & ARAN
103-SOPPALCO
104-SOTTOTETTI
105-SUAP
106-SUE
107-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
108-
TELEFONIA MOBILE
109-TENDE DA SOLE
110-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
111-TRIBUTI LOCALI
112-VERANDA
113-VINCOLO CIMITERIALE
114-VINCOLO IDROGEOLOGICO
115-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
116-VINCOLO STRADALE
117-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

118-ZONA AGRICOLA

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

simone.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link ISTAT
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2 - link 3
link 4 - link 5
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
delle PP.AA.
delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di APRILE 2015

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 29.05.2015

aggiornamento al 22.05.2015

aggiornamento al 14.05.2015

aggiornamento al 05.05.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 29.05.2015

ã

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I risparmi dello straordinario incrementano obbligatoriamente il fondo per il salario accessortio (CGIL-FP di Bergamo, nota 27.05.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Modulistica regionale per l’attività edilizia libera (comunicazione inizio lavori e comunicazione inizio lavori asseverata) – Adeguamento dei Comuni (ANCE di Bergamo, circolare 22.05.2015 n. 115).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 28.05.2015 n. 122 "Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente" (Legge 22.05.2015 n. 68).

DOTTRINA & CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Panozzo, Sull’obbligo di indicare il motivo di esenzione dall’imposta di bollo (27.05.2015 - tratto da www.diritto.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G. Buscema, DURC online: come funzionerà (22.05.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

UTILITA'

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza e benessere nelle scuole.
Il volume riassume i risultati di uno studio realizzato dai professionisti Inail della Contarp centrale, il quale prende spunto dal protocollo d’intesa stipulato tra Inail e Miur nel 2007 ed è finalizzato ad implementare le conoscenze sui fattori di rischio e di comfort negli ambienti scolastici.
In particolare, sono stati presi in esame aspetti specifici di notevole rilevanza e influenza sulla qualità dell’aria (fattori di rischio chimico e biologico) e dell’ambiente (microclima, acustica ed ergonomia degli arredi).
Lo studio è stato condotto in collaborazione con un Rspp di alcuni istituti di scuola superiore di Roma e provincia, che ha curato l’osservazione dello stato degli edifici scolastici dal punto di vista delle strutture e degli impianti.
Il volume contiene, infine, i risultati di una serie di questionari somministrati agli studenti, al fine di comprendere la loro percezione dei rischi individuati nelle scuole oggetto di indagine (21.05.2015 - tratto da http://sicurezzasullavoro.inail.it).

SICUREZZA LAVOROSicurezza sul lavoro, un utile vademecum sulla gestione.
Sicurezza sul lavoro: gestione della sicurezza, attori, ruoli e obblighi. Tutto quello che c’è da sapere nel vademecum dell’Università di Perugia.

L'Università degli studi di Perugia ha pubblicato un'interessante guida sulla gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro, che illustra in maniera semplice e chiara norme, compiti e responsabilità relative alla sicurezza sul lavoro.
Attori della sicurezza sul lavoro e loro obblighi
Il testo individua tutti gli attori della sicurezza, ossia:
datore di lavoro
dirigente
preposto per la sicurezza
addetto antincendio e primo soccorso
responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP)
medico competente
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS)
lavoratore
Per ciascuno di questi vengono definiti in maniera chiara e sintetica i compiti specifici e gli obblighi previsti dalla norma.
Documenti per la gestione della sicurezza sul lavoro
Vengono quindi individuati e schematizzati i documenti per la gestione della sicurezza e della salute, ossia:
il documento di valutazione dei rischi (DVR)
il piano di sorveglianza sanitaria
il piano di manutenzione di ambienti di lavoro, impianti, attrezzature
Gestione della sicurezza sul lavoro
Vengono illustrate le modalità di intervento e gestione delle emergenze, in particolare:
come utilizzare un estintore
come effettuare una rianimazione cardiopolmonare
quali numeri chiamare in caso di emergenza
Sicurezza sul lavoro in caso di evento sismico
Viene illustrato come comportarsi in caso di evento sismico e in quali luoghi trovare riparo.
Ergonomia della postazione di lavoro
Infine vengono analizzate le questioni legate all’ergonomia della postazione di lavoro e al corretto utilizzo del videoterminale (21.05.2015 - link a www.acca.it).

VARI: BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle Entrate, aprile 2015).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Effetto domino nel danno erariale per chi affida incarichi illegittimi. Inconferibilità. Le conseguenze operative.
Le amministrazioni locali devono definire le regole per l’individuazione degli organi deputati a conferire incarichi in via sostitutiva, qualora il titolare del relativo potere sia stato sospeso per averne attribuiti in violazione di quanto previsto dal Dlgs 39/2013.
Il presidente dell’Anac, con il comunicato del Presidente 14.05.2015 (su cui si veda anche Il Sole 24 Ore del 22 maggio) ha richiamato gli enti all’esercizio del loro potere/dovere, in larga parte inattuato.
L’articolo 17 del Dlgs 39/2013 stabilisce che gli atti con i quali sono attribuiti incarichi (dirigenziali e di consulenza) in contrasto con i limiti stabiliti dalla legge anticorruzione sono nulli, mentre l’articolo 18 impone la sospensione per tre mesi del soggetto che ha adottato l’atto illegittimo dal potere di conferimento degli incarichi.
Per garantire la continuità dell’azione amministrativa, la stessa norma aveva previsto, al comma 3, che Regioni, Province e Comuni, entro tre mesi dall’entrata in vigore del decreto 39/2013, adeguassero i propri ordinamenti, individuando le procedure interne e gli organi che in via sostitutiva possono procedere al conferimento degli incarichi nel periodo di interdizione dei titolari.
Diversamente, decorso inutilmente il termine dei tre mesi, avrebbe trovato applicazione la procedura sostitutiva descritta dall’articolo 8 della legge 131/2003, con intervento (preceduto da assegnazione di un termine ulteriore) della presidenza del consiglio dei Ministri.
L’Anac ha effettuato una serie di verifiche, rilevando che, in numerosi casi, le amministrazioni locali non hanno dato attuazione alle disposizioni che richiedevano la definizione della procedura sostitutiva.
L’Autorità evidenzia la pesante responsabilità dei componenti degli organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli per le conseguenze economiche degli atti adottati, ammonendo gli enti sulle conseguenze che potrebbero aggravarsi per il protrarsi dello stato d’inerzia da parte delle Pubbliche amministrazioni.
Il soggetto che conferisce un incarico nullo risulta infatti pienamente responsabile per il danno erariale rilevabile, ma anche sotto il profilo risarcitorio nei confronti dell’amministrazione, in ragione proprio dell’espressa declaratoria di nullità del provvedimento.
La nullità dell’incarico comporta ovviamente l’immediata cessazione dallo stesso del soggetto nominato, determinando una condizione di rischio grave per gli atti eventualmente adottati dal medesimo soggetto nel frattempo.
La mancata definizione delle regole per l’individuazione dell’organo chiamato a sostituire il conferente sospeso può avere conseguenze operative molto rilevanti: si pensi al caso della mancata nomina di un componente di un organo collegiale che renda lo stesso impossibilitato a funzionare.
L’Anac sollecita le amministrazioni locali ad adottare le necessarie disposizioni e a pubblicarle sulla sezione dell’amministrazione trasparente, al fine di consentire la verifica sull’adozione e l’esercizio dei poteri di vigilanza da parte della stessa autorità
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.05.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi, più sanzioni senza regolamento. Anac. Se l’ente non ha adeguato gli ordinamenti alla legge Severino crescono le responsabilità per chi approva conferimenti illegittimi.
Regioni, Province e Comuni spesso si disinteressano di adeguare i propri ordinamenti interni alle leggi anticorruzione, e questo può moltiplicare le responsabilità a carico di chi firma nomine illegittime alla luce del decreto su inconferibilità e incompatibilità.
L’allarme arriva dall’Anac, che nel comunicato del Presidente 14.05.2015, diffuso ieri, chiede agli enti territoriali di attivarsi in fretta nell’adozione dei regolamenti per evitare «l’aggravarsi delle conseguenze economiche» che si determina con «il protrarsi dello stato di inerzia da parte delle Pa».
Per capire il problema, bisogna tornare al decreto che ha attuato il capitolo della legge Severino sulle inconferibilità e incompatibilità degli incarichi, in particolare per quel che riguarda le nomine nelle società partecipate (Dlgs 39/2013). In quel provvedimento si fissano le griglie che impediscono per esempio di affidare a ex sindaci, presidenti o assessori (nel caso dei Comuni, solo dai 15mila abitanti in su) incarichi amministrativi dirigenziali o di vertice negli stessi enti, nelle realtà pubbliche loro collegate e nelle società controllate.
Gli incarichi che violano queste regole e tutti i contratti conseguenti sono nulli, e chi li ha firmati o comunque approvati subisce una doppia sanzione: è considerato responsabile delle conseguenze economiche prodotte dai contratti poi dichiarati nulli, e non può per i tre mesi successivi conferire altri incarichi.
Proprio per quest’ultima sanzione, le Pa territoriali avrebbero dovuto adeguare i propri regolamenti interni per stabilire chi sostituisce le persone temporaneamente bloccate dallo stop trimestrale. La scadenza fissata dal decreto attuativo della legge Severino è scaduta ormai da quasi due anni, perché le Pa avrebbero avuto tre mesi di tempo dall’entrata in vigore della norma, ma un’indagine condotta dall’Anac ha mostrato che in molte amministrazioni i regolamenti non sono stati mai adeguati.
Vista la situazione, l’Autorità guidata da Raffaele Cantone chiede ovviamente agli enti territoriali di adeguarsi in fretta, riscrivendo il regolamento organizzativo e pubblicandone la nuova versione sul proprio sito internet, nel capitolo «disposizioni generali» della sezione dedicata all’«amministrazione trasparente». Ma il comunicato dell’Autorità dice di più, ed evidenzia le possibili conseguenze economiche per amministratori e dirigenti degli enti che non adeguano le proprie regole interne.
Il problema è legato alla responsabilità prevista per chi conferisce incarichi illegittimi, i quali producono effetti economici resi nulli ex post dalla stessa nullità dei contratti. Chi conferisce gli incarichi poi cancellati deve rispondere del problema e, avverte l’Anac, il protrarsi del mancato adeguamento delle regole può «aggravare» le ricadute di queste responsabilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.05.2015).

INCARICHI PROGETTUALI: Nelle gare il professionista risponde individualmente.
Un professionista iscritto in un elenco di una stazione appaltante, se viene scelto per presentare una offerta non può candidarsi in raggruppamento temporaneo con altri professionisti, ma deve rispondere a titolo individuale.

È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il parere sulla normativa 06.05.2015 rif. AG 38/15/AP nel quale si è esaminata la legittimità dell'esclusione di un professionista, iscritto a titolo individuale in un elenco costituito da un ente locale per l'affidamento di servizi di ingegneria e architettura.
Era successo che la stazione appaltante aveva esperito una procedura negoziata senza bando (ex articolo 57, comma 6 del Codice dei contratti pubblici) per affidare un incarico di valore inferiore a 100 mila euro. Per questa tipologia di affidamenti l'articolo 267 del Regolamento del codice (dpr 207/2010) detta una disciplina specifica prevedendo che la stazione appaltante, in alternativa al classico avviso di gara, può selezionare il mercato avvalendosi di un apposito elenco (aperto), in ogni caso rispettando il criterio di rotazione.
Il punto era decidere se la partecipazione del professionista iscritto all'elenco individualmente, ma nella fattispecie candidatosi in raggruppamento con altri professionisti, fosse legittima.
L'Autorità propende per la tesi negativa affermando che in base all'art. 90, comma 1, lett. d) e lett. g), del codice, parallelamente a quanto previsto nell'articolo 34, appare «evidente che il Raggruppamento temporaneo di professionisti è soggetto sostanzialmente diverso dal professionista individuale, contemplandosi in due distinte categorie “i liberi professionisti singoli e associati (lett. d) e i raggruppamenti temporanei” costituiti dai soggetti di cui alle lett. d), e), f) f-bis) e h) ai quali si applicano le disposizioni di cui all'art. 37 in quanto compatibili (lett. g). Dal momento quindi che il raggruppamento temporaneo consiste “in un soggetto collettivamente organizzato, costituito per la partecipazione alle gare, sostanzialmente diverso dalle identità soggettive di coloro che vi partecipano” e che l'invito era per professionisti e non per raggruppamenti temporanei, l'esclusione era legittima e non si può parlare neanche di modificazione soggettiva ai sensi dell'articolo 51 del codice dei contratti» (articolo ItaliaOggi del 26.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEA decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, devono fare riferimento, per l’erogazione degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla novella legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) ed un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi devono adeguarsi alle novità normative, su alcune aspetti delle quali la Sezione ha avuto già modo di soffermarsi.
E' stato sottolineato come
la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione in materia di contratti pubblici.
Quest’ultima
è informata da un principio generale, codificato anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane.
Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.

---------------
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare
sono i seguenti:
-
erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi);
-
puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza;
-
devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione.
---------------
L’attività di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione costituisce una delle attività che fanno capo alla direzione dei lavori, ufficio che, come disposto dall’art. 130 del d.lgs. n. 163/2006, tutte le amministrazioni aggiudicatrici sono obbligate ad istituire per garantire la corretta esecuzione dei lavori pubblici. Tale ufficio è costituito da un direttore dei lavori ed, eventualmente, da assistenti, denominati direttori operativi (a cui può essere attribuita, come visto, la funzione di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione) e ispettori di cantiere
(cfr. artt. 147 e seguenti del DPR n. 207/2010).
Pertanto, l’attività di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione, quando espletata dal personale tecnico interno, investito della funzione di direttore dei lavori o di direttore operativo (collaboratore del primo), può beneficiare dell’incentivo previsto dal novellato art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006.
Naturalmente, in sede di contrattazione integrativa, è necessario considerare autonomamente le due funzioni (quella di direttore dei lavori e quella di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione), in modo da attribuire correttamente ai dipendenti incaricati la quota del fondo costituito dall’amministrazione ai sensi dei commi 7-bis e 7-ter (pari al 80% di una percentuale, nel limite massimo del 2%, dell’importo posto a base di gara).
Nel caso in cui, infatti, l’attività di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione sia espletata dallo stesso direttore dei lavori, munito dei prescritti requisiti professionali e di formazione, quest’ultimo potrà beneficiare di una quota di fondo riferita anche a tale attività (percentuale della quota di fondo spettante all’ufficio di direzione dei lavori). Nel caso in cui, invece, la funzione sia espletata da un direttore operativo, sarà quest’ultimo a poter beneficiare della quota dell’incentivo riferita al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione (mentre, simmetricamente, il direttore dei lavori potrà percepire un incentivo decurtato della percentuale spettante al direttore operativo).
Per quanto riguarda il secondo quesito posto dal comune istante,
la Sezione si limita a ricordare come la nuova disciplina legislativa (art. 93, comma 7-ter, penultimo periodo) ribadisca la confluenza in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti interni, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione.
Il precetto normativo non distingue in base alla motivazione dell’attribuzione dell’incarico a professionisti esterni, ma àncora la devoluzione in economia della corrispondente quota parte del fondo incentivante alla mera ricorrenza di tale presupposto.
La regola non fa che esprimere un principio di carattere generale, posto dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale “Le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.

---------------
Il Sindaco del comune di Alzano Lombardo (BG), con nota del 26/02/2015, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto la disciplina dei c.d. incentivi alla progettazione.
Premette che l’amministrazione sta predisponendo le modalità ed i criteri, da sottoporre alla contrattazione decentrata e da recepire in un regolamento interno, per la costituzione del fondo per la progettazione e l'innovazione, disciplinato dall'art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163/2006. A tal fine, pone i seguenti due quesiti:
- se possa beneficiare dell'incentivo il coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione, qualora l’attività venga svolta da personale interno, munito dei prescritti requisiti di formazione;
- se si debba considerare economia la quota parte dell'incentivo corrispondente alle prestazioni svolte da soggetti esterni all'ente, per carenza di personale interno munito dei prescritti requisiti di formazione.
...
Risulta necessario premettere che il legislatore, dopo aver abrogato l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014. Quest’ultima norma ha inserito, nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, quattro nuovi commi, di cui si riporta, per comodità espositiva, il contenuto del 7-bis e del 7-ter, rilevanti ai fini del presente parere: "7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale
.".
Di conseguenza,
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, devono fare riferimento, per l’erogazione degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla novella legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) ed un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi devono adeguarsi alle novità normative, su alcune aspetti delle quali la Sezione ha avuto già modo di soffermarsi (cfr.
parere 01.10.2014 n. 246, parere 01.10.2014 n. 247, parere 13.11.2014 n. 300).
Nel parere 08.10.2012 n. 425 e parere 24.10.2012 n. 453 della Sezione, dopo averne richiamato il tenore letterale, è stato sottolineato come
la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, codificato anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale interno occorre far riferimento, ai fini della loro remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001).
Tuttavia, la fonte legislativa, oltre a disciplinare la struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in omaggio al generale sistema delle fonti, disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso dell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del d.lgs. n. 163/2006).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui denominazione risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994), costituisce, infatti, uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014, risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a base di gara).
Limitando l’analisi ai quesiti avanzati dal comune istante,
i punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) sono i seguenti:
-
erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi);
-
puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
-
devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150 dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici).
Alla luce di tali premesse, per quanto concerne il primo quesito posto dal comune istante, si evidenzia come l’art. 151 del DPR n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del d.lgs. n. 163/2006) dispone che le funzioni del coordinatore per l'esecuzione dei lavori previsti dalla vigente normativa sulla sicurezza nei cantieri (d.lgs. n. 81/2008, c.d. testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) possono essere svolte dal direttore lavori, qualora sia provvisto dei requisiti previsti dalla normativa stessa. Nell'eventualità, invece, che il direttore dei lavori non svolga le funzioni di coordinatore per l'esecuzione dei lavori, le stazioni appaltanti prevedono la presenza di almeno un direttore operativo, in possesso dei requisiti previsti dalla normativa, che svolga le funzioni di coordinatore per l'esecuzione dei lavori.
L’art. 98 del d.lgs. n. 81/2008 disciplina i presupporti per l’espletamento di tale attività, imponendo una serie di requisiti professionali e di formazione, analiticamente elencati, che debbono essere posseduti, come ricordato dal comune istante, anche dal personale delle pubbliche amministrazioni chiamato ad espletare tale incarico all’interno del procedimento di esecuzione di un’opera pubblica.
I compiti del coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione sono elencati nell'articolo 92, comma 1, del citato d.lgs. n. 81/2008 (verifica dell'applicazione, da parte delle imprese esecutrici, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento; verifica dell’idoneità di quest’ultimo; segnalazione al committente o al responsabile dei lavori delle inosservanze riscontrate; proposta di sospensione dei lavori o della risoluzione del contratto, etc.). Inoltre, deve assicurare il rispetto delle disposizioni di cui all'articolo 131 del d.lgs. n. 163/2006, che ribadisce, integrandole in parte, per quanto riguarda la specifica materia dei lavori pubblici, quanto prescritto, in linea generale, dal d.lgs. n. 81/2008.
L’attività di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione costituisce, pertanto, una delle attività che fanno capo alla direzione dei lavori, ufficio che, come disposto dall’art. 130 del d.lgs. n. 163/2006, tutte le amministrazioni aggiudicatrici sono obbligate ad istituire per garantire la corretta esecuzione dei lavori pubblici. Tale ufficio è costituito da un direttore dei lavori ed, eventualmente, da assistenti, denominati direttori operativi (a cui può essere attribuita, come visto, la funzione di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione) e ispettori di cantiere (cfr. artt. 147 e seguenti del DPR n. 207/2010).
Pertanto, l’attività di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione, quando espletata dal personale tecnico interno, investito della funzione di direttore dei lavori o di direttore operativo (collaboratore del primo), può beneficiare dell’incentivo previsto dal novellato art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006.
Naturalmente, in sede di contrattazione integrativa, è necessario considerare autonomamente le due funzioni (quella di direttore dei lavori e quella di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione), in modo da attribuire correttamente ai dipendenti incaricati la quota del fondo costituito dall’amministrazione ai sensi dei commi 7-bis e 7-ter (pari al 80% di una percentuale, nel limite massimo del 2%, dell’importo posto a base di gara).
Nel caso in cui, infatti, l’attività di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione sia espletata dallo stesso direttore dei lavori, munito dei prescritti requisiti professionali e di formazione, quest’ultimo potrà beneficiare di una quota di fondo riferita anche a tale attività (percentuale della quota di fondo spettante all’ufficio di direzione dei lavori). Nel caso in cui, invece, la funzione sia espletata da un direttore operativo, sarà quest’ultimo a poter beneficiare della quota dell’incentivo riferita al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione (mentre, simmetricamente, il direttore dei lavori potrà percepire un incentivo decurtato della percentuale spettante al direttore operativo).
Per quanto riguarda il secondo quesito posto dal comune istante,
la Sezione si limita a ricordare come la nuova disciplina legislativa (art. 93, comma 7-ter, penultimo periodo) ribadisca la confluenza in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti interni, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione.
Il precetto normativo non distingue in base alla motivazione dell’attribuzione dell’incarico a professionisti esterni, ma àncora la devoluzione in economia della corrispondente quota parte del fondo incentivante alla mera ricorrenza di tale presupposto.
La regola non fa che esprimere un principio di carattere generale, posto dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale “Le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 12.05.2015 n. 193).

ENTI LOCALI: Sul servizio gratuito prestato da volontari.
Il carattere necessariamente oneroso del rapporto di lavoro subordinato discende, con riferimento agli enti locali, dall’art. 90, comma 2, TUEL, ai sensi del quale “al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali”.
Le eccezioni alla necessaria onerosità del rapporto di lavoro possono essere previste soltanto dalla legge. Fra esse rileva in tale sede il lavoro prestato gratuitamente nelle organizzazioni di volontariato.
Nella prospettiva di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale,
la legge n. 91/266 ha, infatti, introdotto nell’ordinamento la figura soggettiva delle organizzazioni di volontariato, che persegue finalità di carattere sociale, civile e culturale per il tramite degli aderenti. Costoro devono prestare la propria opera in modo personale, spontaneo e gratuito, senza scopo di lucro neppure indiretto, esclusivamente per fini di solidarietà.
Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 266/1991 “
Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.
Con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono individuati meccanismi assicurativi semplificati, con polizze anche numeriche o collettive, e sono disciplinati i relativi controlli
”.
Con specifico riferimento ai
soggetti beneficiari di ammortizzatori e di altre forme di integrazione e sostegno del reddito previste dalla normativa vigente, coinvolti in attività di volontariato a fini di utilità sociale in favore di Comuni o enti locali, l’art. 12 del d.l. n. 90/2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014 istituisce in via sperimentale, per il biennio 2014-2015, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali “un Fondo finalizzato a reintegrare l'INAIL dell'onere conseguente alla copertura degli obblighi assicurativi contro le malattie e gli infortuni, tenuto conto di quanto disposto dall' articolo 4 della legge 11.08.1991, n. 266”.
L’art. 7 della legge-quadro sul volontariato prevede la possibilità che “
Lo Stato, le regioni, le province autonome, gli enti locali e gli altri enti pubblici possono stipulare convenzioni con le organizzazioni di volontariato iscritte da almeno sei mesi nei registri di cui all'articolo 6 e che dimostrino attitudine e capacità operativa”. In tale contesto il comma 3 del medesimo articolo stabilisce espressamente che “La copertura assicurativa di cui all'articolo 4 è elemento essenziale della convenzione e gli oneri relativi sono a carico dell'ente con il quale viene stipulata la convenzione medesima”.
Nei limiti anzidetti è, pertanto, consentito all’ente locale di avvalersi di lavoro prestato gratuitamente in regime di volontariato, con le riferite conseguenze in punto di copertura assicurativa.

---------------
Il Sindaco del Comune di Camisano ha formulato una richiesta di parere in merito alla possibilità di stipulare “apposite polizze per garantire ai volontari adeguata copertura assicurativa contro infortuni, malattie connesse allo svolgimento dell’attività e per la responsabilità civile” in considerazione del fatto che “molto spesso cittadini singoli chiedono di poter prestare servizio volontario a titolo individuale a favore del Comune in diversi ambiti: biblioteca, uffici, tenuta del verde, manutenzione edifici ecc..
...
Il quesito verte sulla possibilità di stipulare “apposite polizze per garantire ai volontari adeguata copertura assicurativa contro infortuni, malattie connesse allo svolgimento dell’attività e per la responsabilità civile” in considerazione del fatto che “molto spesso cittadini singoli chiedono di poter prestare servizio volontario a titolo individuale a favore del Comune in diversi ambiti: biblioteca, uffici, tenuta del verde, manutenzione edifici ecc.”.
Al riguardo
si ritiene opportuno svolgere alcune considerazioni di carattere preliminare. E ciò anche al fine di evitare l’instaurazione surrettizia di forme di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione non disciplinate dalla legge, ancorché a titolo precario, interinale e occasionale.
Il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione è presidiato dalla generale previsione di accesso tramite concorso, passibile di essere superata solo in forza di una disposizione di legge (art. 97, comma 4).
La modalità di ingresso agli impieghi pubblici tramite concorso costituisce, da un lato, uno strumento al servizio del buon andamento dell’agire pubblico (art. 97 Cost.), in quanto volto ad individuare il miglior candidato per la posizione bandita, e, dall’altro lato, presidia il diritto di tutti i cittadini ad accedere agli uffici pubblici (art. 51 Cost.) quale strumento per promuovere l’uguaglianza e rimuovere gli ostacoli che di fatto la limitano (art. 3 Cost.).
Il rapporto di lavoro subordinato riveste un carattere necessariamente oneroso in aderenza al dettato dell’art. 36 della Costituzione, in forza del quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
L’art. 2094 c.c. qualifica come prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro.
L’onerosità è garantita dall’art. 2126 c.c. anche nel caso di nullità o annullamento del contratto di lavoro non derivante da illiceità dell’oggetto o della causa, allorquando è riconosciuto il diritto al trattamento retributivo per la prestazione di fatto svolta dal lavoratore.
Il carattere necessariamente oneroso del rapporto di lavoro subordinato discende, con riferimento agli enti locali, dall’art. 90, comma 2, TUEL, ai sensi del quale “al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali (Sezione Campania 155/2014/PAR).
Le eccezioni alla necessaria onerosità del rapporto di lavoro possono essere previste soltanto dalla legge. Fra esse rileva in tale sede il lavoro prestato gratuitamente nelle organizzazioni di volontariato.
Nella prospettiva di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale,
la legge n. 91/266 ha, infatti, introdotto nell’ordinamento la figura soggettiva delle organizzazioni di volontariato, che persegue finalità di carattere sociale, civile e culturale per il tramite degli aderenti. Costoro devono prestare la propria opera in modo personale, spontaneo e gratuito, senza scopo di lucro neppure indiretto, esclusivamente per fini di solidarietà.
Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 266/1991 “
Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.
Con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono individuati meccanismi assicurativi semplificati, con polizze anche numeriche o collettive, e sono disciplinati i relativi controlli
”.
Con specifico riferimento ai
soggetti beneficiari di ammortizzatori e di altre forme di integrazione e sostegno del reddito previste dalla normativa vigente, coinvolti in attività di volontariato a fini di utilità sociale in favore di Comuni o enti locali, l’art. 12 del d.l. n. 90/2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014 istituisce in via sperimentale, per il biennio 2014-2015, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali “un Fondo finalizzato a reintegrare l'INAIL dell'onere conseguente alla copertura degli obblighi assicurativi contro le malattie e gli infortuni, tenuto conto di quanto disposto dall' articolo 4 della legge 11.08.1991, n. 266”.
L’art. 7 della legge-quadro sul volontariato prevede la possibilità che “
Lo Stato, le regioni, le province autonome, gli enti locali e gli altri enti pubblici possono stipulare convenzioni con le organizzazioni di volontariato iscritte da almeno sei mesi nei registri di cui all'articolo 6 e che dimostrino attitudine e capacità operativa”. In tale contesto il comma 3 del medesimo articolo stabilisce espressamente che “La copertura assicurativa di cui all'articolo 4 è elemento essenziale della convenzione e gli oneri relativi sono a carico dell'ente con il quale viene stipulata la convenzione medesima”.
Nei limiti anzidetti è, pertanto, consentito all’ente locale di avvalersi di lavoro prestato gratuitamente in regime di volontariato, con le riferite conseguenze in punto di copertura assicurativa (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 11.05.2015 n. 192).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Il rimborso delle spese legali.
DOMANDA:
Nei confronti di un dipendente è stata emessa sentenza di non luogo a procedere per il reato di cui all'art. 615, c. 1 e 3, del c.p. in quanto i locali interessati non sono stati configurati come dimora privata. Nel procedimento in questione, persona offesa è altro sovraordinato all'indagato.
Nelle motivazioni della sentenza non si esclude, né si ammette la riferibilità all’indagato dei dispositivi di registrazione rinvenuti e sequestrati in quanto l’interessato non è stato colto nell’atto dell’installazione degli stessi. L'art. 28 del contratto di categoria del 14/09/2000 disciplina il rimborso delle spese legali nei confronti dei dipendenti ponendo determinate condizioni.
Si domanda se nel caso di specie possano ritenersi sussistenti tali condizioni stante le dette motivazioni della sentenza, segnalandosi la difficoltà sia a ritenere il comportamento imputato posto in essere a causa e nell'esercizio delle funzioni e sia a escludere il conflitto di interessi con l'ente.
RISPOSTA:
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i presupposti (oltre a quelli risultanti dall'art. 28 del C.C.N.L. 14.09.2000) che devono ricorrere affinché l’ente possa assumere l’onere dell’assistenza legale del dipendente:
a) l’assenza di dolo e colpa grave in capo al dipendente sottoposto a giudizio;
b) il giudizio deve riguardare atti o fatti strettamente connessi all’espletamento dell’attività istituzionale del dipendente;
c) l’assenza, in concreto, di conflitti di interesse tra il dipendente e l’ente di appartenenza;
d) che, se il rimborso sia chiesto ex post, la spesa deve rispondere a parametri di obiettiva congruità e non deve esservi conflitto d’interessi con l’ente.
La Corte dei Conti ed il Consiglio di Stato sono inoltre orientati ad affermare che, se il procedimento si conclude con il proscioglimento, il diritto al rimborso sussiste soltanto nelle ipotesi di cui agli artt. 529 e 530, comma 1, cod. pen., rispettivamente di non luogo a procedere e di proscioglimento nel merito.
Nella fattispecie in esame, il dipendente è stato querelato per il reato di cui all'art. 615-bis comma 1 e 3 c.p., ossia per aver fatto uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, "per procurarsi indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata" di un altro dipendente dell’ente. Il giudice ha dichiarato il non luogo a procedere, in quanto i locali interessati non sono stati configurati come dimora privata (mentre, per la configurabilità del reato, occorre che esso sia commesso nei luoghi indicati nell'articolo 614 c.p.).
Tuttavia non si è pronunciato, attenendo al merito, sull'addebitabilità all’indagato dell’installazione dei dispositivi di registrazione rinvenuti e sequestrati, né l'imputato è stato colto nell’atto di farlo. Dall'analisi emerge come non sia certamente sussistente il presupposto di cui alla lett. b), necessario affinché l’ente possa assumere l’onere della refusione delle spese legali del dipendente. Inoltre, non si ha la certezza riguardo all'esistenza dei requisiti di cui alla lett. c).
Non si può infatti sostenere che il giudizio abbia riguardato atti o fatti strettamente connessi all’espletamento dell’attività del dipendente. L’installazione di un registratore nella stanza di un collega, sia o meno realmente imputabile al dipendente querelato, è comunque estranea all'attività del dipendente (non potendo realizzare tale connessione la semplice circostanza di essere avvenuta sui luoghi di lavoro e nei confronti di altro dipendente).
Il fatto poi che la sentenza si è fermata sull'improcedibilità per mancanza di un elemento fondamentale della fattispecie di reato, e non si è pronunciata sul merito dell'addebitabilità al dipendente del comportamento non costituente reato, non esclude la sussistenza -almeno potenziale- del concreto conflitto di interesse tra il dipendente e l’ente di appartenenza (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: chiarimenti sulla definizione di ristrutturazione edilizia (Regione Emilia Romagna, parere 25.05.2015 n. 337640 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi, decide il comune. L'ipotesi dell'espulsione va regolamentata. Il consigliere sospeso dal partito non è obbligato a lasciare.
Quali effetti produce, sulla composizione dei gruppi consiliari costituitisi in seno al consiglio comunale, il provvedimento con il quale un consigliere comunale è stato sospeso dal proprio partito di riferimento?

Il quesito, nel caso di specie, attiene alla sussistenza, o meno, del potere del presidente del consiglio comunale di chiedere a un consigliere, sospeso dagli organi del proprio partito di riferimento, di iscriversi a un gruppo consiliare diverso da quello riconducibile al partito politico dal quale sia stato sospeso.
In linea generale, il rapporto tra il candidato eletto e il partito di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati» (Tar Puglia, sez. di Bari, sentenza n. 50/2005).
Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente. In merito il Tar Lazio, con sentenza n. 16240/2004, ha precisato che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale.
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, peraltro, demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato. Nella fattispecie in esame, il regolamento sul funzionamento del consiglio del comune prevede che «il consigliere che intende appartenere a un gruppo diverso, deve darne comunicazione al presidente, allegando la dichiarazione di accettazione del capogruppo. Senza la dichiarazione di accettazione la comunicazione non ha effetto».
La disposizione regolamentare reca, pertanto, una disciplina dettagliata per quanto riguarda il passaggio da un gruppo ad altro, con il presupposto indefettibile dell'accettazione da parte del presidente del gruppo cui il consigliere chiede di aderire, mentre non sembra potersi rinvenire una specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario.
Pertanto, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del consiglio, spetta alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare (articolo ItaliaOggi del 22.05.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Può un consigliere comunale, che ne ha fatto richiesta, lasciare il proprio gruppo di appartenenza originario e costituirne uno nuovo, ispirato a un omonimo gruppo presente nell'ambito del Parlamento nazionale?
L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000, demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
In merito alla questione in esame, nel regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto che il consigliere che abbandoni il gruppo di appartenenza possa costituirne un altro se dichiari di aderire a una forza politica rappresentata con un proprio gruppo parlamentare nell'ambito del parlamento nazionale. Considerato che presso la camera dei deputati risulta essere presente un gruppo omonimo, il caso prospettato sembrerebbe coerente con la fattispecie astrattamente prevista dalla norma regolamentare e, pertanto, rispettoso della stessa.
Tuttavia, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative (articolo ItaliaOggi del 22.05.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sostituzione del capogruppo di un gruppo consiliare comunale.
Qualora lo statuto e il regolamento, ai quali è demandata la disciplina sul funzionamento dei gruppi consiliari in forza dell'articolo 38 del D.Lgs. 267/2000, non indichino alcun criterio in ordine alla designazione o alle successive variazioni del capogruppo, si ritiene che l'individuazione dello stesso sia conseguente ad un'intesa tra i componenti del gruppo oppure, in caso di controversie, si renda necessario procedere a un'elezione interna.
Il consigliere comunale chiede di conoscere un parere in merito alla regolarità della nomina di un capogruppo consiliare. In particolare, desidera sapere se la maggioranza dei consiglieri comunali appartenenti ad un medesimo gruppo consiliare possa nominare un capogruppo diverso da quello che stava ricoprendo l'incarico (e che non ha rassegnato proprie dimissioni), comunicando un tanto al segretario comunale.
In via generale, si osserva che l'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo.
[1]
In particolare, la gestione dell'articolazione e del funzionamento dei gruppi consiliari rientra nell'ambito della più ampia autonomia funzionale e organizzativa, di cui i consigli sono dotati, ai sensi dell'articolo 38 del TUEL, e la relativa materia è, pertanto, regolata primariamente dalle norme dello statuto e del regolamento consiliare.
Nel caso di specie, l'articolo 14 dello statuto comunale, dopo aver previsto che i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare, al comma 2, recita: 'Ciascun gruppo comunica al Presidente del Consiglio il nome del Capogruppo entro il giorno precedente la prima riunione del Consiglio neo-eletto. [...]'.
Quanto al regolamento per la disciplina delle adunanze del consiglio comunale, esso, all'articolo 3, rubricato 'Costituzione dei Gruppi e dei Capi-gruppo' si limita, per quanto qui di interesse, a prevedere che: 'Ciascun Gruppo è rappresentato da un Capo Gruppo, che mantiene i rapporti con il Presidente del Consiglio, il Sindaco e la Giunta'.
Le norme citate non contengono, pertanto, alcuna previsione circa il criterio da adottare per la nomina del capogruppo né quanto alla procedura da seguire nel caso in cui si intenda addivenire alla sostituzione di un capogruppo esistente. Ciò nonostante, si ritiene che la nomina del capogruppo debba essere conseguente ad un'intesa tra i componenti del gruppo oppure, in caso di controversie, si renda necessaria l'individuazione mediante un'elezione interna.
[2]
Segue che, l'individuazione del capogruppo, in sostituzione del precedente, effettuata dalla maggioranza dei consiglieri appartenenti al gruppo (quattro su sei componenti) pare potersi ritenere operata correttamente. Non risulterebbe, invece, conforme all'articolo 14 dello statuto la comunicazione della nuova nomina al segretario comunale e non anche al Sindaco, in qualità di presidente del Consiglio. Benché, infatti, la norma in commento faccia riferimento alla nomina dei capigruppo che si effettua all'indomani dell'insediamento del nuovo consiglio comunale si potrebbe, in via interpretativa, applicare la stessa anche per le nomine che si effettuano successivamente, intendendo necessaria, pertanto, la comunicazione dell'avvenuta nuova nomina al Sindaco, in qualità di presidente del Consiglio entro il giorno precedente la prima riunione di tale organo, successiva all'effettuata sostituzione.
Per completezza, si fa presente che potrebbe essere valutata la possibilità di integrare lo statuto o il regolamento consiliare con una previsione espressa concernente la disciplina da adottare nei casi di sostituzione dei capigruppo esistenti.
---------------
[1] In particolare, si vedano gli articoli 38, comma 3, ultimo capoverso ('Con il regolamento di cui al comma 2 i consigli disciplinano la gestione di tutte le risorse attribuite per il proprio funzionamento e per quello dei gruppi consiliari regolarmente costituiti'), 39, comma 4 ('Il presidente del consiglio comunale o provinciale assicura una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio.') e 125 ('Contestualmente all'affissione all'albo le deliberazioni adottate dalla giunta sono trasmesse in elenco ai capigruppo consiliari; i relativi testi sono messi a disposizione dei consiglieri nelle forme stabilite dallo statuto o dal regolamento') del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
[2] Si veda, al riguardo, il parere del Ministero dell'Interno - Dipartimento per gli affari interni e territoriali, del 12.09.2003
(20.05.2015 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

APPALTI: Corsa a ostacoli per impugnare l'appalto.
Diventa una corsa a ostacoli impugnare un appalto particolarmente complesso. Se il ricorso al Tar supera le 30 pagine bisogna farsi autorizzare dal giudice amministrativo, che ha tre giorni di tempo per rispondere. E questo prima della notifica dell'atto di impugnazione. Si contrae, così, ancora di più il lasso di tempo a disposizione per iniziare il processo (30 giorni).

È questa la conseguenza del
decreto 25.05.2015 n. 40 del presidente del Consiglio di
Stato che ha inserito all'art. 120 del codice del processo amministrativo la regola del numero massimo di pagine per gli atti difensivi.
Il decreto ha definito il limite di pagine per il ricorso e gli altri scritti difensivi e ha anche elaborato un sub procedimento di autorizzazione alla deroga nei casi complessi (si veda ItaliaOggi di ieri).
Prima della notifica del ricorso (che scade nel termine di 30 giorni), l'interessato deve portare al giudice il ricorso contenente l'istanza a derogare dal limite di 30 pagine. Entro tre giorni il Tar si deve pronunciare autorizzando o meno il più alto numero di pagine. Se il Tar non risponde vuol dire autorizzazione allo sforamento; lo stesso vale nel caso in cui il Tar si pronunci dopo il terzo giorno. Se arriva l'autorizzazione bisogna notificarla a controparte insieme al ricorso (chiedendo copia autentica alla segreteria del Tar). Se passano i tre giorni e non arriva nulla, l'avvocato interessato ha due scelte: chiedere al Tar la certificazione di segreteria sull'avvenuta formazione del silenzio-assenso oppure fare una autodichiarazione del medesimo contenuto.
La certificazione o la autodichiarazione devono essere notificato insieme al ricorso. Va notato che i tempi di questo sub-procedimento vanno a ritagliare un termine abbreviato per la presentazione del ricorso (30 giorni). Se si considera, poi, che l'interessato non sempre si rivolge subito al legale e che bisogna raccogliere i documenti, e che bisogna tener conto, ora, dei tre giorni necessari per avere l'autorizzazione ad andare oltre le 30 pagine, e che è meglio non aspettare il terzultimo giorno disponibile (casomai arrivasse un diniego espresso, che costringe a riscrivere e tagliare l'atto), il ricorso negli appalti complessi diventa una corsa a ostacoli.
Anzi il tempo si restringe proprio per gli appalti più complicati. D'altra parte senza l'autorizzazione preventiva del Tar, il rischio è grosso. Ciò che scritto in eccesso potrebbe non essere nemmeno esaminato e, quindi, è come se non fosse scritto (articolo ItaliaOggi del 28.05.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni legate al passato. Risorse programmate in base al triennio precedente. Lo prevede la bozza del decreto enti locali, che smentisce la tesi della Corte conti.
Le risorse assunzionali si programmano con riferimento al triennio precedente all'anno di programmazione non guardando al triennio futuro.

Il decreto «enti locali» (la cui approvazione da parte del Consiglio dei ministri è in dirittura) smentisce la Corte dei conti sull'utilizzo delle risorse di personale destinate all'assunzione nell'arco del triennio, regolato dall'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014.
Se il testo delle bozze in circolazione sarà confermato, si tratterà di una sorta di interpretazione autentica normativa largamente opportuna, che metterà fine al problema posto dall'interpretazione piuttosto discutibile offerta dalla Sezione Autonomie della magistratura contabile con il parere 27/2014.
Tutto trae origine dalla formulazione non proprio chiara dell'articolo 3, comma 5, del cosiddetto «decreto Madia»: «A decorrere dall'anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile».
Considerato che le assunzioni possono essere effettuata a valere su risorse effettivamente disponibili, a tutti era parso ovvio che il cumulo triennale previsto dal dl 90/2014 fosse riferito al triennio precedente, con la possibilità di utilizzare, dunque, «resti» non spesi in quell'arco di tempo.
La Sezione Autonomie sorprendentemente interpretò la norma in senso totalmente opposto «il riferimento alla programmazione sembra lasciare intendere che il triennio possa essere quello successivo al 2014, così come la dicitura riferita alle risorse ''destinate'' alle assunzioni. Ciò risulta funzionale anche perché, di solito, gli enti impiegano un periodo di tempo piuttosto lungo per svolgere un concorso pubblico: questa norma consente perciò di rendere la programmazione più coerente anche con i fabbisogni futuri».
La chiave di lettura fornita dalla Sezione Autonomie, con motivazioni per altro piuttosto deboli, ha creato non pochi problemi alle amministrazioni e si è immediatamente rivelata incompatibile con il congelamento delle assunzioni imposto dalla legge 190/2014.
Il decreto enti locali intende, dunque, eliminare l'impasse causato dalla Sezione Autonomie novellando l'articolo 3, comma 5, nel quale viene inserito il seguente periodo: «è altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente».
In questo modo, il legislatore dispone espressamente, come logica gestione impone, l'utilizzabilità dei resti non spesi delle facoltà assunzionali riferiti al triennio precedente e non al triennio successivo (articolo ItaliaOggi del 27.05.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: La Pec è valida solo se esclusiva.
Direttive Mise-Giustizia. La posta certificata non può fare riferimento a più soggetti - Obbligo di pubblicità anche per le variazioni di capitale.

In un’altra direttiva 27.04.2015 adottata dal Mise di concerto con il dicastero della Giustizia, si stabilisce anzitutto che l’iscrizione al Registro delle imprese dell’indirizzo di posta elettronica certificata di un’impresa è legittimamente effettuata solo se detto indirizzo è nella «titolarità esclusiva» della medesima. Quindi, lo stesso indirizzo Pec non può essere riferito a una pluralità di soggetti (individuali o societari, non importa) iscritti nel Registro delle imprese.
Viene disposto che, prima di procedere all’iscrizione di un indirizzo Pec, il Registro imprese verifica sia che l’indirizzo non risulti già assegnato ad altra impresa sia che non si tratti di un indirizzo «inattivo» (in tal caso il richiedente viene invitato a indicare un nuovo indirizzo «attivo» entro un congruo termine, pena il rigetto della domanda d’iscrizione).
Il soggetto che dunque non regolarizza non subisce una sanzione pecuniaria: l’impresa che non ha indirizzo (o che aveva un indirizzo poi cancellato) e che presenti al Registro imprese un’istanza di iscrizione, riceve un provvedimento di sospensione per “stimolare” l’integrazione dell’istanza con la comunicazione di un indirizzo di posta elettronica certificata proprio e corrispondente a una casella attiva.
Se perdura questo stato di omessa comunicazione si giunge infine al rigetto dell’istanza, la quale «si intende non presentata», con conseguente applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria prescritta per l’omissione degli adempimenti pubblicitari; inoltre, si determina l’apertura del procedimento per l’iscrizione d’ufficio, ai sensi dell’articolo 2190 del codice civile, dell’atto o della notizia oggetto dell’istanza considerata come non presentata.
Capitale sociale
Dopo la fase di costituzione della società, si possono avere diverse ipotesi di variazione del capitale sociale a causa dei versamenti che i soci effettuino. Secondo una terza direttiva Mise-Giustizia - anche le modifiche al capitale versato delle Srl e delle Spa sono oggetto di un autonomo obbligo di iscrizione nel Registro delle imprese; obbligati all’adempimento sono gli amministratori della società nel termine di 30 giorni dal momento in cui la società ha ricevuto il versamento (il ritardo o l’omissione comporta l’applicazione, nei confronti di ciascuno degli obbligati, delle sanzioni previste dall’articolo 2630 del codice civile)
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ricorsi amministrativi smilzi. Massimo 50 pagine. Ma solo nei giudizi più rilevanti. Il Consiglio di stato ha messo nero su bianco per decreto le regole per il processo.
Scritti difensivi a dimensioni ridotte nel processo amministrativo. Massimo 50 pagine nei giudizi più importanti e complessi, e modalità di redazione standard, dall'utilizzo del foglio al corpo del carattere.

A definire le dimensioni dei ricorsi e degli atti difensivi è il decreto 25.05.2015 n. 40 del Consiglio di stato, emanato ieri in attuazione dell'art. 120 del dlgs n. 104/2010, e in via di pubblicazione in G.U.
Le dimensioni. Il decreto, che era stato sottoposto al parere del Consiglio nazionale forense, dell'avvocato generale dello stato, nonché delle associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti (si veda ItaliaOggi del 22 aprile scorso), disciplina, atto per atto, il numero massimo di pagine consentite, le relative eccezioni e le modalità da seguire per redigere gli atti.
Per esempio, le dimensioni dell'atto introduttivo del giudizio, del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti, degli atti di impugnazione principale e incidentale della pronuncia di primo grado, della revocazione e dell'opposizione di terzo proposti avverso la sentenza di secondo grado, dell'atto di costituzione, delle memorie e di ogni altro atto difensivo non espressamente disciplinato nel decreto, sono contenute in massimo 30 pagine. Mentre la domanda di misure cautelari autonomamente proposta successivamente al ricorso e quella di cui all'art. 111 cpa sono contenute nel numero massimo di dieci pagine, così come le memorie di replica e l'atto di intervento e le memorie della parte non necessaria del giudizio.
Da questi limiti sono escluse intestazioni e altre indicazioni formali, come l'epigrafe, l'indicazione delle parti e dei difensori e relative formalità, l'individuazione dell'atto impugnato, il riassunto preliminare (non eccedente le due pagine), le conclusioni e così via.
Le eccezioni. Il decreto prevede delle eccezioni nel caso in cui l'atto presenti una determinata complessità, a livello tecnico, giuridico o dal punto di vista degli interessi sostanziali perseguiti di particolare rilievo anche economico.
In questo caso, la valutazione è effettuata dal presidente della sezione competente, previa formulazione di istanza motivata in calce al ricorso, sulla quale il presidente si pronuncia con decreto entro i tre giorni successivi. In caso di esito positivo, sono autorizzati limiti dimensionali non superiori nel massimo di 50 pagine laddove il limite era di 30 e di 15 pagine laddove il limite era di dieci.
La redazione dell'atto. Gli atti devono poi essere redatti su foglio A4, mediante caratteri di tipo corrente e di dimensioni di almeno 12 punti nel testo e 10 nelle note a piè di pagina, con una interlinea di 1,5 e margini orizzontali e verticali di almeno 2,5 centimetri.
Il decreto si applicherà alle controversie il cui termine di proposizione del ricorso di primo grado o di impugnazione inizi a decorrere trascorsi 30 giorni dalla pubblicazione in G.U. Mentre le disposizioni possono essere modificate o integrate in seguito a un apposito monitoraggio del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.
Le reazioni. L'Unione nazionale amministrativisti, guidata da Umberto Fantigrossi, ribadisce «la ferma contrarietà ad ogni forma di regolamentazione in via normativa delle dimensioni del ricorso e degli atti difensivi che reputa posta in violazione del principio di efficacia ed effettività dei diritti della difesa ed esprime la convinzione che l'obiettivo dello spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all'art. 3, comma 2, del Codice del processo amministrativo possa essere meglio perseguito piuttosto attraverso tecniche di autolimitazione e di formazione, che non mediante misure coercitive» (articolo ItaliaOggi del 26.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIANuovo linguaggio al Sistri. Rinnovati la scheda tecnica e i codici rifiuto. Il sistema di tracciabilità si adegua alla nuova classificazione europea.
Nuova scheda tecnica a carico delle imprese soggette al Sitri, per la movimentazione dei rifiuti. Cambia anche la procedura di classificazione degli stessi, in virtù dell'entrata in vigore, il 01.06.2015, della decisione 2014/955/Ue e del regolamento 1357/2014/Ue, che prevedono rispettivamente il nuovo elenco dei codici Cer e la nuova codifica per le caratteristiche di pericolo (si veda ItaliaOggi del 12/05/2015).
A diffondere le nuove specifiche il 19.05.2015 è stato il dicastero dell'Ambiente. In presenza di registrazioni di carico del Sistri effettuate secondo la vecchia codifica dei rifiuti e non ancora movimentate, ovvero parzialmente movimentate, è necessario procedere alla compilazione di registrazioni cronologiche di scarico per azzerare le quantità residue e, contestualmente, provvedere alla compilazione di nuove registrazioni cronologiche di carico per registrare le medesime quantità secondo i nuovi criteri di classificazione.
Entro il 1° giugno, dunque, ogni azienda dovrà effettuare la nuova classificazione rifiuti con assegnazione codice di pericolo HP per quelli classificati pericolosi, modificare le etichette del deposito temporaneo, e infine verificare le giacenze sul registro di carico/scarico del Sistri. Sempre dal 1° giugno un secondo cambiamento riguarderà anche l'introduzione e la variazione di nuovi codici Cer (010310 fanghi rossi derivati dalla produzione di allumina contenenti sostanze pericolose, diversi da quelli di cui alla voce 010307, 070217 rifiuti contenenti silicio, diversi da quelli di cui alla voce 070216, 160307 mercurio metallico, 190308 mercurio parzialmente stabilizzato).
Fino al 31 maggio varranno le vecchie caratteristiche di pericolo H. Dopo, le nuove caratteristiche di pericolo HP. Quindi dal 1° giugno l'azienda che non ha classificato correttamente i propri rifiuti in base alle nuove normative potrà incorrere in pesanti sanzioni. Inoltre saranno ridenominate le caratteristiche di pericolo ex H5 («nocivo») e ex H6 («tossico»), nonché l'introduzione di nuove denominazioni per le caratteristiche di pericolo ex H12 («rifiuti che, a contatto con l'acqua, l'aria o un acido, sprigionano un gas tossico o molto tossico») ed ex H15 («rifiuti suscettibili, dopo l'eliminazione, di dare origine in qualche modo a un'altra sostanza») (articolo ItaliaOggi del 26.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAppalti, tetto di pagine per i ricorsi. Il giudice vincolato a esaminare solo le ragioni fatte valere nei limiti.
Diritto amministrativo. Il Consiglio di Stato fissa la dimensione degli atti per le controversie sulle gare.
Un limite ai ricorsi amministrativi. Almeno quantitativi.
A porli è il decreto con cui il Consiglio di Stato (ma a prevederlo era stata la legge “del fare”) ha scandito i limiti di pagine cui devono sottostare le contestazioni a Tar e Consiglio stesso in materia di appalti. Il provvedimento, decreto 25.05.2015 n. 40, delimita innanzitutto l’area di applicazione dei paletti che dovranno essere rispettati da parte degli avvocati nella redazione degli atti: gli appalti appunto. A seguire vengono scanditi i limiti di pagine da rispettare.
Cosa succede, però, se questi limiti non vengono rispettati? Il decreto non lo dice e per capirlo bisogna fare riferimento a una disposizione che già era stata contestata da parte dell’avvocatura (sul punto critici, per la violazione al diritto di difesa, sia il Cnf sia l’Unione nazionale degli avvocati amministrativisti), l’articolo 40 del decreto legge n. 90 del 2014. Testuale: «Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello».
A prima lettura così appare evidente come la penalizzazione per il mancato rispetto dei vincoli sul numero di pagine sia rappresentato dal possibile mancato esame delle ragioni contenute nelle pagine in eccesso da parte dell’autorità giudiziaria. Senza che, in questo caso, venga dalla legge riconosciuto il mancato esame come un motivo di impugnazione da fare valere nei gradi successivi di giudizio.
Quanto ai limiti introdotti dal decreto che è destinato a rappresentare un punto di riferimento ineludibile (a meno di future censure da parte della Corte costituzionale) va innanzitutto sottolineato come «le dimensioni dell’atto introduttivo del giudizio, del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti, degli atti di impugnazione principale ed incidentale della pronuncia di primo grado, della revocazione e dell’opposizione di terzo proposti avverso la sentenza di secondo grado, dell’atto di costituzione, delle memorie e di ogni altro atto difensivo non espressamente disciplinato dai numeri seguenti, sono contenute, per ciascuno di tali atti, nel numero massimo di 30 pagine».
Le domande per l’applicazione di misure cautelari devono essere contenute entro le 10 pagine , mentre lo stesso limite deve essere rispettato per la richiesta di misure cautelari e per le memorie di replica.
Si può sforare dai limiti indicati? Sì, ammette il decreto, quando la controversia presenta questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse oppure riguarda interessi sostanziali di particolare rilievo anche economico. In questa prospettiva vengono valutati, a titolo di esempio, il valore della causa, comunque non inferiore a 50.000.000 euro, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato, il numero e l’ampiezza degli atti e provvedimenti effettivamente impugnati, la dimensione della sentenza impugnata, l’esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti oppure di domande od eccezioni non esaminate, la necessità di dedurre distintamente motivi di natura diversa
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Delitti contro l'ambiente, via a superindagini e maxisanzioni. Inquinamento, disastro, omessa bonifica: arriva la stretta penale sugli ecoilleciti.
Severa stretta sugli illeciti ambientali, che saranno investigabili tramite intercettazioni, indagabili con ricorso a misure cautelari personali, perseguibili processualmente con un raddoppio dei termini legali e punibili con la reclusione fino a 20 anni.

A inasprire l'apparato repressivo degli ecoreati è la legge approvata in via definitiva dal parlamento lo scorso 19.05.2015 che introduce nel codice penale diversi nuovi delitti contro l'ecosistema, corredandoli con pesanti sanzioni e rendendo loro di conseguenza in molti casi applicabili i più invasivi strumenti procedurali previsti dal sistema per perseguire gli illeciti considerati di maggiore gravità.
Le nuove fattispecie consentiranno di perseguire molto più duramente inquinamento e disastro ambientale, traffico o abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento di controlli pubblici, omessa bonifica di siti inquinati, affiancando le figure penali (nella maggior parte inquadrate come più blande «contravvenzioni») già previste da codice ambientale (dlgs 152/2006), codice penale (in via giurisprudenziale) e provvedimenti di settore.
Nuovi ecodelitti. A guidare, per peso di pena edittale, i delitti previsti dal nuovo titolo VI-bis del codice penale (rubricato come «Dei delitti contro l'ambiente») sono la «morte o lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale» (con reclusione fino a 20 anni) e il «disastro ambientale» (fino a 15 anni), seguiti da «inquinamento ambientale» e traffico o abbandono di materiale altamente radioattivo (6 anni), «omessa bonifica» (4 anni), «impedimento di controlli» (3 anni). Comuni ai delitti d'inquinamento, disastro e traffico di materiali radioattivi è la necessità di aver posto in essere la condotta «abusivamente».
Sul punto si ritiene opportuno segnalare che all'avverbio è stato dalla Cassazione dato in passato un significato oscillante, laddove con sentenza 8299/2010 lo si è esteso a tutte le attività non conformi ai precisi dettati normativi mentre con sentenza 46189/2011 lo si è ristretto alle attività poste in essere senza le necessarie autorizzazioni, in violazione delle prescrizioni e/o dei limiti sanciti dalle stesse o sulla base di titoli illegittimi o scaduti.
Le fattispecie. A tracciare il confine tra il delitto d'inquinamento e quello di disastro ambientale sono gli effetti della condotta abusiva, laddove dovrà ritenersi integrato il secondo e più grave reato qualora l'alterazione dell'ecosistema sia irreversibile o eliminabile solo tramite gravosi interventi (per i quali non sono però indicati parametri). Vi è anche una fattispecie colposa, che prevede finanche un'ipotesi di anticipazione della punibilità alla condotta che cagioni il semplice pericolo di danno.
Caratteristica del nuovo delitto di disastro ambientale è il suo collegamento sistematico con lo storico reato di «disastro innominato» ex art. 434 cp (cui è stato ricondotto fino a oggi quello a carico dell'ecosistema). La nuova fattispecie prevede una clausola di riserva che salva l'applicabilità del reato ex art. 434 cp, plausibilmente per reprimere le condotte illecite poste in essere prima dell'entrata in vigore del neo art. 542-quater, ma ad esso non riconducibili ratione temporis e quelle posteriori non inquadrabili tecnicamente nell'esordiente figura. La nuova legge eleva a delitto anche l'omessa bonifica dei siti (art. 452-terdecies, cp), relegando l'applicabilità dell'analoga contravvenzione ex art. 257 dlgs 152/2006 ai soli casi in cui il fatto non «costituisca più grave reato».
È dunque plausibile ritenere che saranno perseguite penalmente le violazioni dell'obbligo di ripristino previsto dal nuovo art. 452-terdecies collegate alla commissione dei neo delitti di inquinamento e disastro ambientale, mentre resteranno sotto il Codice ambientale le residuali ipotesi. Tramite la modifica dell'art. 157 cp è stato previsto per tutte le nuove fattispecie un raddoppio dei termini di prescrizione.
Riflessi processuali. Oltre alla loro perseguibilità fin dalla fase di «tentativo» (ex art. 56, cp), la collocazione dei nuovi reati ambientali nel novero dei delitti aprirà in diversi casi le porte a strumenti investigativi principe, come le intercettazioni (artt. 266 e seguenti cpp per tutti i delitti non colposi punibili con la reclusione superiore nel massimo a cinque anni) così come pedissequamente permetterà l'applicazione sia delle misure «precautelari» (arresto in flagranza di reato e fermo di indiziato) che di quelle cautelari (coercitive ed interdittive).
Aggravante e Responsabilità 231. Una nuova e specifica «aggravante ambientale» inserita come articolo 452-novies cp consentirà di punire con un aumento (fino a metà) della relativa pena ogni altro reato previsto dall'ordinamento commesso al fine (dunque, con dolo specifico) di commettere un illecito ambientale.
Ancora, Enti ed imprese risponderanno a titolo amministrativo ex dlgs 231/2001 anche dei nuovi delitti (sia dolosi che colposi) di inquinamento e disastro ambientale, traffico o abbandono di materiale ad alta radioattività posti in essere da persone fisiche loro riconducibili.
Meccanismi deflattivi. Si prevede altresì un meccanismo di ravvedimento operoso (452-decies, cp) che prevede una decurtazione delle sanzioni per chi: si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori; provveda prima del dibattimento processuale a bonifica; aiuti le Autorità a ricostruire fatti, individuazione autori, sottrazione risorse per commissione delitti.
La nuova legge introduce infine nel dlgs 152/2006 un meccanismo deflattivo per le ipotesi contravvenzionali ex Codice ambientale che non hanno cagionato danno (a risorse ambientali, urbanistiche e paesaggistiche protette. L'istituto consentirà l'estinzione del reato qualora il contravventore adempia entro tempi certi e provveda al pagamento di una somma chiesta in via amministrativa come sanzione (articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Web, tutto lecito se non vietato. Il vademecum del Garante fissa le condizioni per l'utilizzo della tecnologia digitale.
Scaricarsi la musica per l'iPod dalla rete internet aziendale? Si può. Se il datore di lavoro non l'ha vietato, espressamente e chiaramente, in un proprio regolamento non è un'operazione vietata ai lavoratori.

Lo stabilisce il Garante della privacy nel vademecum «Privacy e lavoro».
Uso del web e delle e-mail. Tutto lecito, se non vietato: è il principio, astratto, cui si informa il vademecum del Garante della privacy sull'uso di internet e di e-mail in azienda. Se limitazioni devono essercene per i lavoratori, queste vanno dettagliate dal datore di lavoro; altrimenti ogni operazione passa per possibile. In quest'ottica, dunque, spetta al datore di lavoro adottare idonee misure di sicurezza per assicurare la disponibilità e l'integrità dei sistemi informativi e dei dati, anche per prevenire utilizzi indebiti.
Il datore di lavoro ha l'onere di informare, chiaramente e in modo particolareggiato, i dipendenti su quali siano le modalità di utilizzo degli strumenti messi a disposizione ritenute corrette e se, in che misura e in quali modalità vengono effettuati controlli anche in accordo con le organizzazioni sindacali, utilizzando, per fare un esempio, un disciplinare interno, chiaro e aggiornato affiancato da un'idonea informativa.
Internet e rete interna aziendale. Il datore di lavoro deve specificare con chiarezza se la navigazione in internet o la gestione di file nella rete interna autorizzi o meno specifici comportamenti come il download di software o di file musicali o l'uso dei servizi di rete con finalità ludiche o estranee all'attività lavorativa. Occorre anche che siano specificate se e quali conseguenze, anche di tipo disciplinare, il datore di lavoro si riserva di trarre qualora constati che la posta elettronica oppure la rete internet sono utilizzate indebitamente.
Ancora, per ridurre il rischio di usi impropri di Internet, il datore di lavoro può adottare opportune misure che possono prevenire controlli successivi sul lavoratore, che possono risultare leciti o meno a seconda dei casi e possono comportare il trattamento di dati sensibili, come le convinzioni religiose, filosofiche, politiche, lo stato di salute o la vita sessuale. Ad esempio, può individuare i siti web correlati o meno alla prestazione lavorativa o configurare sistemi o filtri che prevengano determinate operazioni.
Posta elettronica aziendale. Stesso discorso per la posta elettronica aziendale. I contenuti e le informazioni delle e-mail sono tutelati costituzionalmente da garanzie di segretezza ma riguardano anche l'organizzazione del lavoro. In questo quadro, pertanto, per il Garante Privacy è opportuno che il datore di lavoro renda disponibili indirizzi di posta elettronica condivisi tra più lavoratori (ad esempio, ufficioreclami@società.com) affiancandoli a quelli individuali (ad esempio rossi@società.com) e valuti la possibilità di attribuire al lavoratore un diverso indirizzo destinato ad un uso privato.
Il datore di lavoro può mettere a disposizione di ciascun lavoratore apposite funzionalità di sistema che consentano di inviare automaticamente, in caso di assenze programmate, messaggi di risposta che contengano le «coordinate» di un altro lavoratore.
Si può altresì consentire al lavoratore di delegare un altro lavoratore (fiduciario) in caso di assenze prolungate a leggere i messaggi di posta e a inoltrare al titolare del trattamento quelli ritenuti rilevanti per l'attività lavorativa. Di tale attività dovrebbe essere redatto apposito verbale e informato il lavoratore interessato. In caso di assenze non programmate (ad esempio, per una malattia), qualora il lavoratore non possa attivare la procedura descritta (anche avvalendosi di servizi webmail), il datore di lavoro può incaricare altro personale (ad esempio l'amministratore di sistema) di gestire la posta del lavoratore, avvertendo l'interessato e i destinatari.
I controlli. I controlli da parte del datore di lavoro per motivi organizzativi o di sicurezza sono leciti solo se vengono rispettati i principi di pertinenza e di non eccedenza. I sistemi software devono essere programmati e configurati in modo tale da cancellare periodicamente e automaticamente i dati personali relativi agli accessi a internet e al traffico telematico, qualora la conservazione non sia necessaria.
Videosorveglianza e geolocalizzazione. È vietato ai datori di lavoro privati e pubblici di effettuare trattamenti di dati personali mediante sistemi hardware e software che mirano al controllo a distanza dei lavoratori. Tale divieto vale anche per l'uso di strumenti di controllo quali la videosorveglianza e la geolocalizzazione.
Non devono essere effettuati controlli a distanza al fine di verificare l'osservanza dei doveri di diligenza stabiliti per il rispetto dell'orario di lavoro e la correttezza nell'esecuzione della prestazione lavorativa (ad es. orientando la telecamera sul badge).
Vanno poi osservate le garanzie previste in materia di lavoro quando la videosorveglianza o la geolocalizzazione sono rese necessarie da esigenze organizzative o produttive, o sono richieste per la sicurezza del lavoro.
In tali casi, ai sensi dell'art. 4 della legge n. 300/1970 (lo Statuto dei lavoratori), gli impianti e le apparecchiature, «dai quali può derivare anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro (cioè le direzioni territoriali del lavoro), dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti”.
In taluni casi la localizzazione geografica può essere utile a rafforzare le condizioni di sicurezza dei dipendenti permettendo l'invio mirato di soccorsi in caso di difficoltà. Si possono ad esempio utilizzare i dati di localizzazione geografica, rilevati da una «App» (applicazione) attiva sugli smartphone in dotazione ai lavoratori, purché vengano adottate adeguate cautele a protezione della loro vita privata.
Occorre, infatti, adottare misure volte a garantire che le informazioni visibili o utilizzabili dalla App siano solo quelle di geolocalizzazione, impedendo l'accesso ad altri dati, quali ad esempio, sms, posta elettronica, traffico telefonico. Il sistema deve essere configurato in modo tale che sullo schermo dello smartphone compaia sempre, ben visibile, un'icona che indichi ai dipendenti quando la funzione di localizzazione è attiva.
I dipendenti devono essere ben informati sulle caratteristiche dell'applicazione (ad esempio, sui tempi e sulle modalità di attivazione) e sui trattamenti di dati effettuati dalle società. Sono inoltre necessarie cautele circa la rilevazione dei dati di geolocalizzazione che non deve essere continuativa e deve avvenire in modo che l'ultima rilevazione cancelli quella precedente. Prima di attivare il sistema le società devono notificare all'Autorità il trattamento di dati sulla localizzazione.
---------------
Stop all'uso generalizzato dei dati biometrici.
Non è lecito l'uso generalizzato e incontrollato dei cosiddetti «dati biometrici» (quelli ricavati, ad esempio, dalle impronte digitali o topografia della mano).
Lo è in alcuni casi, come ad esempio, le impronte digitali o la topografia della mano utilizzate per presidiare gli accessi ad «aree sensibili» (nei luoghi dove si svolgono processi produttivi pericolosi, nei locali destinati a custodia di beni di particolare valore e/o alla conservazione di documenti riservati) o per consentire l'utilizzo di apparati e macchinari pericolosi ai soli soggetti qualificati; l'impronta digitale o l'emissione vocale possono essere utilizzate per l'autenticazione informatica (accesso a banche dati o a pc aziendali); la firma grafometrica per la sottoscrizione di documenti informatici.
Ciò nel rispetto, in particolare, di rigorose misure di sicurezza specificamente dettagliate nel provvedimento. In alcuni casi individuati dal Garante, nel rigoroso rispetto delle cautele individuate, il datore di lavoro non è tenuto a richiedere il consenso al personale per adottare tecnologie biometriche, ma deve comunque informare i dipendenti sui loro diritti, sugli scopi e le modalità del trattamento dei loro dati biometrici.
Non è generalmente ammessa la costituzione di banche dati centralizzate ed è preferibile l'utilizzo di altre forme di memorizzazione dei dati, ad esempio in smart card ad uso esclusivo del dipendente. Nel caso in cui la tecnologia biometrica che si vorrebbe adottare non rientri tra i casi semplificati dal Garante, permane l'obbligo per il datore di lavoro di richiedere un'apposita verifica preliminare prima di iniziare il trattamento dei dati (articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015).

APPALTI: Acquisti centralizzati per le in house. Nei Comuni non capoluogo obblighi estesi ai titolari di affidamenti diretti.
Anac. Le indicazioni dell’Autorità sugli obblighi di gestione degli appalti in arrivo a partire da settembre.
Le società in house potrebbero essere assoggettate agli obblighi di aggregazione per le acquisizioni di lavori, servizi e forniture.
Nel documento sottoposto a consultazione sui profili applicativi dell’articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti, l’Autorità nazionale anticorruzione evidenzia la possibilità che le società affidatarie dirette di servizi in base al modello in house providing siano sottoposte all’obbligo di effettuare acquisizioni di lavori, beni e servizi mediante i modelli aggregativi previsti dalla norma per i Comuni non capoluogo, quindi facendo ricorso alle centrali di committenza organizzate dalle stesse amministrazioni o ai soggetti aggregatori (Consip e centrali di committenza regionali) o alle stazioni uniche appaltanti presso le province.
Secondo l’Anac, infatti, l’assoggettamento delle società all’obbligo al pari dei Comuni loro soci deriva proprio dal particolare rapporto connesso al modulo di affidamento.
L’analisi parte dall’assunto per cui il metodo dell’in house providing costituisce un principio derogatorio rispetto alla regola dell’evidenza pubblica, e quindi deve essere applicato in termini di stretta interpretazione.
Pertanto, in rapporto agli obblighi derivanti dall’articolo 33, comma 3-bis del Codice, secondo l’Anac, l’assoggettamento al rispetto delle regole di evidenza pubblica delle società affidatarie in house discende dal fatto che esse sono equiparabili a una diramazione organico-amministrativa dell’ente controllante.
Ne deriva che qualora sia un Comune non capoluogo di provincia ad avvalersi di una società in house, lo stesso regime giuridico dettato per il primo deve inevitabilmente estendersi alla seconda riguardo agli acquisti di lavori, beni e servizi.
Le società in house, quindi, dovrebbero attenersi all’obbligo di acquisizione di lavori, beni e servizi facendo ricorso, anch’esse, ai modelli aggregativi, peraltro con una scelta che dovrebbe essere prodotta in modo coerente con i Comuni soci.
La proposta interpretativa dell’Anac presenta tuttavia molti elementi critici, a partire proprio dal tema della relazione interorganica, posto in discussione dalla giurisprudenza civilistica che ha giudicato molte società pubbliche assoggettabili alle procedure fallimentari, riconoscendone la distinta soggettività giuridica e la “alterità” rispetto all’ente socio.
Lo stesso articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti, peraltro, a differenza di altre disposizioni in materia di razionalizzazione dei conti pubblici adottate negli ultimi anni (ad esempio le regole sulle riduzioni di spesa previste dall’articolo 6 della legge 122/2010) individua come destinatari solo i Comuni non capoluogo, non riportando alcuna indicazione estensiva a soggetti collegati.
L’interpretazione dell’Anac, inoltre, determinerebbe una complicata situazione per le società in house che gestiscono di servizi di rete riferiti agli ambiti territoriali ottimali, frequentemente partecipate sia dal Comune capoluogo che dagli altri Comuni della provincia. Questi soggetti, infatti, rischierebbero di dover operare con un regime differenziato per i subaffidamenti e per gli appalti affidati in ragione della tipologia di ente affidante, con ricorso ai moduli di aggregazione degli acquisti per le esigenze riferite ai Comuni non capoluogo e con gestione in proprio per quelle riferibili al Comune capoluogo.
Si determina in questo modo un rischio evidente di confliggenza con le logiche di aggregazione d’ambito, promossa peraltro dai macro-criteri di razionalizzazione delle partecipate definiti dal comma 611 dell’articolo 1 della legge 190/2014
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.05.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Il Durc online parte dal 1° luglio. Il ministro Poletti: «Se qualcosa andrà storto verifica manuale da parte dell’ente».
Adempimenti. Definito il passaggio dalla carta al web: la documentazione richiesta sarà emessa istantaneamente in formato pdf.
Conto alla rovescia per il Durc online. Il passaggio dalla carta al web del documento unico di regolarità contributiva scatterà dal primo luglio.

Lo ha promesso il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ieri ha spiegato le principali novità della semplificazione, la quale attende (da un anno) un decreto attuativo. «Il decreto sarà pubblicato sulla “Gazzetta” del primo giugno, dalla pubblicazione scattano 30 giorni per l’entrata in vigore: quindi si partirà dal primo luglio», ha detto il ministro, affiancato dai presidenti di Inail, Inps e Casse edili, cioè gli enti coinvolti nella procedura.
Il passaggio dalla carta al web porterà grandi vantaggi. Ci sarà un solo Durc, rispetto ai quattro tipi oggi vigenti, per varie funzioni. E ci sarà un unico periodo di validità: 120 giorni. Per fare un esempio, andrà in soffitta il Durc specifico per i lavori edili privati, che vale 90 giorni.
Ma la vera rivoluzione è nei tempi e nella modalità del rilascio. Il Durc -se tutto filerà liscio- sarà emesso all’istante e in formato pdf stampabile. E potrà essere chiesto direttamente dall’impresa (o da un suo delegato). La richiesta sarà fatta da un punto di accesso creato sui portali di Inps e Inail (ma non delle casse edili). Tutto questo, appunto, dal primo luglio prossimo.
La richiesta avverrà tramite l’inserimento di un’unica chiave: il codice fiscale dell’impresa (il sistema renderà possibile la procedura alla sola azienda interessata). Il click fa scattare l’interrogazione telematica delle banche dati di Inps, Inail e Casse edili. A quel punto, se l’impresa risulta in regola con tutti i versamenti, viene restituito il Durc, abbinato a un codice. Il codice servirà alla Pa, per verificare l’autenticità del Durc.
Questa, in sintesi, la procedura, sempre che non sorga qualche problema, com’è probabilmente prevedibile. È stato lo stesso presidente dell’Inps, Tito Boeri, a mettere le mani avanti: «Qualche imprevisto lo troveremo», ha ammesso, ricordando anche la mole dei numeri in gioco. «Nel 2013 e nel 2014 ci sono state in media circa 5,5 milioni di richieste di Durc per ciascun anno -ha riferito Boeri- ma nei primi tre mesi di quest’anno ci sono state già 2 milioni di richieste, il che significa, che entro l’anno potrebbero esserci 8 milioni di richieste». Nelle sperimentazioni finora fatte sono stati verificati oltre un milione di codici fiscali di imprese, di cui 160mila del settore dell’edilizia.
Il caso più temuto dalle imprese è quello del Durc negato ingiustamente. L’impresa, cioè, risulta irregolare e invece non lo è. In questo senso si guarda soprattutto all’Inps, che ha la banca dati di gran lunga più grossa, complessa e stratificata. A puntare il dito sull’Inps sono i consulenti del lavoro. «Gli archivi dell’Istituto non sono aggiornati in tempo reale», ha denunciato in una nota Vincenzo Silvestri, vicepresidente dei professionisti.
La soluzione? L’ha spiegata lo stesso Poletti. «Se qualcosa va storto ci sarà una verifica fatta manualmente dall’ente interessato, e l’impresa riceverà una risposta entro 72 ore», ha assicurato il ministro.
In altre parole, se uno degli enti (ma il problema, come si diceva, è soprattutto dell’Inps) dovesse dare semaforo rosso, scatta la verifica manuale, entro 3-5 giorni, seguita da una comunicazione all’impresa. Se l’irregolarità viene confermata, l’impresa avrà 15 giorni per mettersi in regola. La validità del Durc partirà dalla data della regolarizzazione, ma la scadenza resta fissata ai 120 giorni conteggiati dalla richiesta. Sarà possibile chiedere un solo Durc ogni 120 giorni. Il decreto in «Gazzetta» sarà accompagnato da ben quattro circolari: Welfare, Inps, Inail, Casse edili.
---------------
Controlli Inps per la verifica delle posizioni. L’operazione. Avviata un’operazione di pulitura massiccia per partire con archivi regolari.
Prove tecniche per il corretto funzionamento del Durc online che partirà dal prossimo 1° luglio, in attuazione delle previsioni del Dl 34/2014: è questo, in sintesi, il senso del messaggio 21.05.2015 n. 3454 dell'Inps, diffuso ieri, a riguardo del cosiddetto Durc interno (si legga anche l’articolo sopra).
Facendo una breve premessa, la nuova piattaforma consentirà a chiunque vi abbia interesse, compresa la medesima impresa coinvolta, di verificare in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’Inps, dell’Inail e delle Case Edili: l’interrogazione fornirà una certificazione che avrà validità di 120 giorni dalla data di acquisizione, sostituendo ad ogni effetto il Documento unico di regolarità contributiva, come regolato nella sua veste attuale.
Ovvio che l’operazione avrà indubbi vantaggi per le imprese nel momento in cui gli archivi degli enti interessati siano “puliti”. Viceversa, il rischio è quello di un boomerang perché alcune posizioni potrebbero risultare formalmente irregolari quando magari sarebbero sufficienti semplici sistemazioni contabili.
Proprio per prevenire queste criticità, l’Inps ha deciso di giocare d’anticipo, attraverso un’operazione di pulitura massiccia delle posizioni contributive gestite dall’Istituto, che richiederà una particolare collaborazione delle sedi.
Entrando nel dettaglio, il messaggio illustra come siano in corso di ultimazione le operazioni di controllo della regolarità ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi, dettando precise tempistiche: nella terza decade del mese corrente ripartiranno le operazioni di invio dei preavvisi di irregolarità ai fini della fruizione dei suddetti benefici, seguendo le indicazioni già fornite in passato.
Le aziende regolari troveranno riscontro di tale posizione all’interno del Cassetto previdenziale aziende, dove verrà visualizzato il “semaforo verde”, con riferimento ai mesi di maggio giugno, luglio e agosto 2015.
Le aziende (attive nel mese di maggio 2015) che, invece, presentano situazioni di irregolarità ancora in corso (semaforo rosso) accertate a partire da gennaio 2008, riceveranno il correlato preavviso, con le consuete modalità: Pec all’intermediario o al datore di lavoro ovvero, in via residuale, mezzo raccomandata a/r (sul punto è importante l'aggiornamento, da parte del datore, degli indirizzi Pec presenti nell’anagrafica aziende).
L’operazione slitta di un mese per le aziende la cui matricola aziendale risulti sospesa o cessata.
A quel punto scatteranno i canonici 15 giorni per regolarizzare la propria posizione, attraverso la funzionalità “Contatti” del Cassetto previdenziale, selezionando la voce “Durc interno (regolarità contributiva)” all’interno dell’oggetto “Agevolazioni contributive
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.05.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADocumento unico, da luglio basterà un click.
Durc online operativo dal 1° luglio. Basterà un click per ottenere, in tempo reale, il Documento unico di regolarità contributiva che, peraltro, avrà validità di 120 giorni per tutte le finalità (compresi i lavori privati dell'edilizia, per i quali la validità oggi è di 90 giorni).

A stabilire le nuove regole, presentate ieri dal ministro del lavoro, Giuliano Poletti, è un decreto che sarà in Gazzetta Ufficiale per i primi giorni di giugno.
Diversi i vantaggi della procedura online, a cominciare dalle attese (oggi un mese) per ottenere il certificato che dimostra la regolarità della posizione contributiva di un'azienda. A partire da luglio, invece, si potrà accedere all'archivio di Inps, Inail e Casse edili e ottenere un Durc in formato «pdf», in tempo reale.
Qualora siano riscontrate carenze contributive, entro 72 ore il sistema segnalerà all'interessato le cause dell'irregolarità e saranno poi sufficienti pochissimi giorni per regolarizzare la posizione ed ottenere il certificato. Semplificazione significa risparmi per imprese e pubbliche amministrazioni. Il ministero li ha valutati in oltre 100 mln di euro all'anno, senza tuttavia convincere i consulenti del lavoro.
«Bisogna stare attenti che di vera semplificazione si tratti e non di un boomerang che a regime potrebbe complicare le cose più di prima», ha commentato Vincenzo Silvestri, vicepresidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. «Fatta salva la buona volontà, il rischio è», ha continuato Silvestri, «che l'ente pubblico richieda direttamente il Durc online all'Inps e l'azienda interessata si veda accendere il semaforo rosso senza comprenderne il motivo. Ciò può accadere», ha concluso Silvestri, «in quanto gli archivi dell'Inps non sono aggiornati in tempo reale» (articolo ItaliaOggi del 22.05.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, mobilità ferma al palo. Il portale della Funzione pubblica è ancora carente di dati. Molte le amministrazioni reticenti a fornire la rilevazione dei fabbisogni di personale.
Ferma al palo la piattaforma web per la mobilità dei dipendenti provinciali in sovrannumero. Il sito www.mobilita.gov.it che dovrebbe contenere il sistema di incontro tra domanda e offerta di mobilità tra le pubbliche amministrazioni è ancora desolatamente assente di dati e informazioni. Sono attivabili solo due menù: uno per la «Rilevazione dei fabbisogni di personale e delle facoltà di assunzione delle p.a.»; l'altro per l'«Individuazione del personale degli enti di area vasta destinatari delle procedure di mobilità». Nessuno degli elenchi che dovrebbero comporre le due partizioni del portale, però, risulta completo.
Sono moltissime le amministrazioni, specie locali, reticenti nel fornire la rilevazione dei fabbisogni. Questo significa che non è ancora noto quali siano i posti disponibili nelle p.a. per avviare la mobilità dei dipendenti in sovrannumero. Praticamente vuoto è il secondo elenco, perché, salvo pochissime eccezioni, le province hanno deciso di disapplicare le disposizioni contenute nella legge 190/2014 e le indicazioni della circolare interministeriale 1/2015, così da non adottare il provvedimento per l'individuazione nominativa dei dipendenti in sovrannumero. In queste condizioni, dunque, perdura l'impossibilità di gestire in modo coordinato il trasferimento dei 20.000 dipendenti che si stimano in sovrannumero dalle province verso regioni, comuni e, in seconda battuta, amministrazioni statali.
Prosegue, dunque, il «fai da te» consigliato dalla circolare 1/2015, che nelle more dell'attivazione della piattaforma informatica di incontro domanda offerta, invita le amministrazioni pubbliche ad emettere bandi di mobilità riservati al personale provinciale in sovrannumero. Nella realtà, si assiste ad applicazioni molto eterogenee e poco rispettose delle norme di tale facoltà. Per un verso, infatti, si assiste alla continua emanazione di bandi di concorso, che dovrebbero considerarsi vietati alla luce del congelamento delle assunzioni imposto dall'articolo 1, commi 424 e 425, della legge 190/2014.
Per altro verso i bandi «riservati» sono aperti a tutti i dipendenti delle province, anche se non collocati in sovrannumero, in aperto contrasto con le disposizioni del comma 422 della legge di stabilità, ai sensi del quale la collocazione in sovrannumero è presupposto di legittimità dei trasferimenti, per evitare la sanzione della nullità delle assunzioni prevista dai commi 424 e 425.
Insomma, una situazione di caos a quasi sei mesi di distanza dall'entrata in vigore della legge 190/2014. Ora, di mesi alla scadenza del 31/12/2016, data superata la quale i dipendenti provinciali saranno destinati alla messa in disponibilità e al licenziamento, ne restano solo 18, in una situazione nella quale occorre praticamente avviare ancora tutto da zero.
---------------
Centri impiego, risparmi con l'avvalimento.
La soluzione per i dipendenti provinciali addetti ai centri per l'impiego potrebbe essere immediata e semplice, con l'avvalimento.
Nel gioco a rimpiattino tra stato e regioni sul destino lavorativo dei quasi 20.000 dipendenti provinciali in sovrannumero, dei quali circa 7.500 addetti ai servizi per il lavoro, la legge 190/2014 potrebbe fornire la soluzione per eliminare da subito dalle spese delle province gli oneri connessi alla gestione dei centri per l'impiego, e alleviare in parte il peso insostenibile della legge di stabilità, svelato dalla deliberazione 17/2015 della sezione autonomie della Corte dei conti.
È l'articolo 1, comma 427, a offrire la soluzione tecnica immediata.
Il comma citato dispone che «nelle more della conclusione delle procedure di mobilità di cui ai commi da 421 a 428, il relativo personale rimane in servizio presso le città metropolitane e le province con possibilità di avvalimento da parte delle regioni e degli enti locali attraverso apposite convenzioni che tengano conto del riordino delle funzioni e con oneri a carico dell'ente utilizzatore».
In parole più semplici, fino a che non sia istituita l'Agenzia nazionale per l'occupazione (della quale si sono perse le tracce), gli addetti ai servizi per il lavoro potrebbero restare formalmente alle dipendenze delle province, ma essere funzionalmente alle dipendenze delle regioni, che si avvarrebbero (con poteri ovviamente anche di indirizzo politico amministrativo) dell'attività lavorativa, e assunzione degli oneri relativi.
Tale soluzione sgraverebbe immediatamente le province di un costo di circa 700 milioni di euro (dei quali circa 250 per il personale) e potrebbe dare fiato al sistema provinciale, a fortissimo rischio di andare incontro a diffusi dissesti finanziari, senza compromettere oltre la funzionalità, già molto compromessa, dei servizi.
Resterebbe, però, il problema più grave, quello appunto dell'accollo dei relativi oneri finanziari. I 60 milioni messi a disposizione per il personale dei Cpi dal comma 428 della legge 190/2014, oltre a essere largamente insufficienti, sono di fatto evaporati, perché inutilizzabili senza violare le regole di impiego dei fondi europei.
Le regioni, per attuare l'avvalimento, dovrebbero, allora, finanziare da sé i servizi per il lavoro e addossarsi un onere di 700 milioni circa. E non ne hanno la minima intenzione. In questo caso, anche giustificatamente. Sebbene, infatti, siano state le regioni, in attuazione del dlgs 469/1997, a trasferire alle province la gestione operativa delle politiche attive per il lavoro, non hanno mai erogato alle province stesse alcuna risorsa finanziaria. Il finanziamento dell'attività dei servizi per il lavoro è sempre provenuto dallo stato, anche perché i centri per l'impiego derivano dalle vecchie sezioni circoscrizionali per l'impiego del ministero del lavoro.
Dunque, la stretta e corretta applicazione della legge Delrio impone allo stato e non alle regioni di farsi carico della spesa per i servizi per il lavoro, come del resto le regioni insistentemente puntualizzano in sede di Conferenza.
Lo stato, peraltro, avrebbe anche la fonte di finanziamento: esattamente il carico da 1,575 miliardi che preleva forzosamente dalle province, in applicazione del dl 66/2014 e della stessa legge 190/2014. Le convenzioni tra stato e regioni, di cui si è parlato in questi giorni, avrebbero, allora, lo scopo di assicurare alle regioni il finanziamento statale per sostenere la spesa connessa all'avvalimento, aspettando il Godot dell'Agenzia nazionale per l'occupazione (articolo ItaliaOggi del 22.05.2015).

GIURISPRUDENZA

LAVORI PUBBLICI: Se le utilizza, l'ente paga le opere extracontratto.
L'ente paga le opere extracontratto realizzate dal privato se le utilizza anche senza delibera ad hoc. Alle sezioni unite passa l'indirizzo minoritario: l'impresa prova l'indebito arricchimento, il giudice accerta il fatto oggettivo, mentre l'amministrazione non può opporre il suo mancato riconoscimento.
Diventa più facile per il privato farsi certificare dal giudice che la pubblica amministrazione si è indebitamente arricchita alle sue spalle: il riconoscimento dell'utilità dei lavori svolti dall'impresa edile fuori dal contratto, infatti, non costituisce un requisito dell'azione ex articolo 2041 cc..
Il privato deve dunque provare il fatto oggettivo dell'arricchimento da parte dell'ente e il giudice ad accertarlo, mentre l'amministrazione non può opporre il suo mancato riconoscimento dei lavori: in altri termini, conta che il comune abbia comunque utilizzato le opere realizzate ma non contrattualizzate, anche se manca una delibera ad hoc della giunta o del consiglio o il placet del sindaco.

Lo stabiliscono le Sezz. Unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 26.05.2015 n. 10798.
Vantaggio ingiustificato. Accolto il ricorso proposto dagli eredi del piccolo impresario edile. La ditta realizza per conto del comune anche lavori non previsti in origine ma chiesti dall'ufficio tecnico dell'ente per garantire la funzionalità degli edifici. Le opere, però, non vengono mai pagate. E la Corte d'appello esclude la configurabilità dell'indebito arricchimento perché manca il riconoscimento dell'utilitas della prestazione da parte degli organi dell'ente.
Ora il revirement della Suprema corte sta nello spostare il baricentro dell'indagine del giudice sulla valutazione in fatto d'arricchimento: il soggetto privato e l'ente pubblico sono entrambi soggetti alla regola secondo cui non possono essere legittimati trasferimenti patrimoniali non giustificabili. Fra loro, ci deve essere par condicio: se si riconoscesse che l'amministrazione possa opporre al privato il suo mancato riconoscimento dei lavori si finirebbe per conferire all'ente una posizione di vantaggio che è priva di base normativa.
Il fatto che il comune abbia comunque utilizzato l'opera ha una valenza probatoria del riconoscimento. La circostanza che i lavori svolti risultino utili all'ente è necessaria per far scattare l'indennizzo al privato. Ma per liberarsi l'amministrazione deve dimostrare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole (articolo ItaliaOggi del 27.05.2015).
---------------
MASSIMA
2. Col primo motivo (il secondo è al primo correlato, in quanto attiene alla mancata ammissione della prova articolata sul punto della conoscenza da parte degli "amministratori" dei lavori di cui trattasi), la ricorrente si duole, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2041 cod. civ., che la Corte d'appello abbia disatteso il principio, patrocinato da alcune decisioni di questa Corte di legittimità, secondo il quale il giudizio di utilità può essere compiuto anche dal giudice, che ha il potere di accertare se ed in quale misura l'opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla pubblica amministrazione.
2.1. Il ricorso richiama un orientamento minoritario di questa Corte, stigmatizzando il mancato accertamento giudiziale della fruizione delle opere di manutenzione da parte dell'ente pubblico nella piena consapevolezza della relativa esecuzione, sebbene nell'assenza di un riconoscimento implicito o esplicito dei suoi organi rappresentativi.
La sezione terza, assegnataria del ricorso, ne ha, dunque, promosso la devoluzione alle Sezioni unite, rilevando nell'ordinanza interlocutoria che sussiste un contrasto interno alla giurisprudenza di legittimità, «tra l'orientamento (prevalente) che assume come assolutamente ineludibile la necessità che il riconoscimento anche implicito dell'utilitas provenga da organi quanto meno rappresentativi dell'ente pubblico e quello (minoritario, ma significativo e fondato su solide argomentazioni) che offre invece spazi all'apprezzamento diretto da parte del giudice».
2.2. Non è, invece, in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell'azione imposto dall'art. 2042 cod. civ., non essendo qui applicabile ratione temporis la normativa di cui D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (conv. in L. 24.04.1989, n. 144, abrogato dall'art. 123, comma primo, lett. n, del d.lgs. 25.02.1995, n. 77, ma riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 del medesimo decreto e infine rifluito nell'art. 191 del D.Lgs. n. 267 del 2000) che, per i casi di richiesta di prestazioni o servizi, non rientranti nello schema procedimentale di spesa tipizzato dalla stessa normativa, ha previsto la costituzione di un rapporto obbligatorio diretto con l'amministratore o funzionario responsabile, correlativamente rimettendo all'ente pubblico la valutazione esclusiva circa l'opportunità o meno di attivare il procedimento del riconoscimento del debito fuori bilancio nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso [cfr. lett. e) art. 194 D.Lgs. n. 267 del 2000].
Invero, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del cit. d.l. n. 66 del 1989 art. 23, deve ritenersi l'esperibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente all'entrata in vigore di tale normativa (ex plurimis, tra le più recenti: Cass. 26.06.2012, n. 10636; Cass. 11.05.2007, n. 19572). E poiché i lavori in contestazione vennero eseguiti nell'anno 1986, è indubbio che il depauperato non aveva la possibilità di farsi indennizzare del pregiudizio subito agendo, ai sensi della normativa cit. direttamente nei confronti dell'amministratore o del funzionario che aveva consentito l'acquisizione.
2.3. Il punto nodale della controversia si rinviene sulla necessità o meno di un requisito ulteriore -quello del riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione- rispetto a quelli standards fissati dagli artt. 2041 e 2042 cod. civ., allorché l'azione venga proposta nei confronti della P.A.. Strettamente connessa a detta questione si rivela, poi, quella evidenziata nell'ordinanza interlocutoria del ruolo assegnato al giudice nell'accertamento  dell'arricchimento; ciò in quanto individuare l'elemento qualificante dell'azione, in ragione della qualificazione pubblicistica dell'arricchito, in un atto di volontà o di autonomia dell'amministrazione interessata, significa confinare il ruolo giudiziale all'accertamento di un utile "soggettivo" e, cioè, riconosciuto come tale (esplicitamente o implicitamente) dagli organi rappresentativi dell'ente pubblico; all'inverso, consentire al giudice di sostituirsi alla pubblica amministrazione nella valutazione dell'utilitas finisce per spostare l'indagine sul fatto oggettivo dell'arricchimento, giacché solo questo dovrebbe essere l'elemento costitutivo della fattispecie, ove non si ammettano deroghe all'esercizio dell'azione in relazione alla qualificazione pubblicistica dell'arricchito.
3. Così definito l'ambito della questione all'esame delle Sezioni Unite, si impone una sintesi delle argomentazioni a sostegno dell'uno e dell'altro indirizzo di legittimità, come individuati dall'ordinanza interlocutoria, osservando sin da ora che nella giurisprudenza di questa Corte ricorre un ulteriore approccio interpretativo, più risalente nel tempo, che offre una sorta di tertium genus tra le soluzioni astrattamente praticabili in materia.
3.1.
La tesi prevalente muove dalla considerazione delle specifiche condizioni e limitazioni, costituite dalle regole c.d. dell'evidenza pubblica che presidiano l'attività negoziale della P.A. e si radica sul rilievo che l'azione di arricchimento comporta, di fatto, il superamento della regola assoluta a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione, secondo cui non si può dar luogo a spese non deliberate dall'ente nei modi previsti dalla legge e senza la previsione dell'apposita copertura finanziaria. Di qui l'esigenza -avvertita dalla giurisprudenza, ancor prima che il legislatore a partire dal già cit. D.L. n. 66 del 1989 segnasse drasticamente l'ambito di operatività dell'azione- di marcare di "specialità" la domanda di arricchimento proposta nei confronti della P.A., posto che il relativo oggetto è costituito quasi sempre da prestazioni o opere eseguite da privati in dipendenza di contratti irregolari, nulli o addirittura inesistenti.
E', dunque, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione che per l'utile esperimento dell'azione nei confronti della P.A. occorre la prova di un duplice requisito, e cioè, non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per l'ente pubblico, ma anche il cd. riconoscimento, espresso o tacito e, in sostanza, che l'amministrazione interessata abbia compiuto una cosciente e consapevole valutazione dell'utilità dell'opera, del servizio, o della prestazione, e che li abbia considerati rispondenti alle proprie finalità istituzionali.
In particolare -secondo l'orientamento giurisprudenziale all'esame- la configurazione del riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione come un atto di volontà o di autonomia della P.A. comporta che la stessa configurabilità di un arricchimento senza causa resti affidata alla valutazione discrezionale della sola amministrazione, unica legittimata a esprimere il relativo giudizio, che presuppone il doveroso apprezzamento circa la rispondenza diretta o indiretta della cosa o della prestazione al pubblico interesse (Cass. 18.04.2013, n. 9486; Cass. 11.05.2007, n. 10884; Cass. 20.08.2004, n.16348; Cass. 23.04.2002, n. 5900); inoltre detta valutazione non solo non può essere sostituita da quella di amministrazioni terze, pur se interessate alla prestazione, ma neanche provenire da atti e comportamenti imputabili a qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura dell'ente di esse destinatario (Cass. 18.04.2013 n. 9486), essendo necessariamente rimessa solo agli organi rappresentativi di detta amministrazione o a quelli cui è istituzionalmente devoluta la formazione della sua volontà (Cass. 27.07.2002, n. 11133; Cass. 17.07.2001, n. 9694).
E sebbene non si richieda che il riconoscimento avvenga necessariamente in maniera esplicita -cioè con un atto formale (il quale, peraltro, può essere assistito dai crismi richiesti per farne un atto amministrativo valido ed efficace, ovvero può anche essere carente delle formalità e dei controlli richiesti, come nel caso in cui l'organo di controllo lo annulli) e si sia predicata la sufficienza del riconoscimento implicito- l'una e l'altra forma di riconoscimento sono ritenute soggette alle medesime regole dell'evidenza pubblica (sul riconoscimento come atto di volontà, cfr Cass. 24.10.2011, n. 21962; Cass. 31.01.2008 n. 2312; Cass. 24.09.2007 n. 19572), richiedendosi che l'utilizzazione dell'opera o della prestazione sia consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'ente (cfr. Cass. Sez. un. 25.02.2009, n. 4463; Cass. 20.10.2004, n. 16348; nonché Cass. 11133/2002 già cit.).
3.2. Secondo questa tesi, che esalta i limiti istituzionali della giurisdizione ordinaria, fissati dall'art. 4 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. E, a presidio della discrezionalità amministrativa, il giudice ordinario non può giudicare dell'utilitas, dal momento che la necessità del riconoscimento è tradizionalmente impostata sulla discrezionalità amministrativa che la valutazione del vantaggio comporta. L'utiliter versum non può essere altro che un utile soggettivo, cioè relativo all'interesse dell'accipiens e la valutazione dell'utilità dell'ente pubblico si risolve in una valutazione dell'interesse pubblico, come tale necessariamente affidata alla P.A..
La tesi si radica sull'evidente timore che -in specie nel caso assai frequente di indebito arricchimento derivante da rapporti negoziali instaurati da dipendenti pubblici privi dei necessari poteri- fa pubblica amministrazione possa essere chiamata a rispondere ex art. 2041 cod. civ. di tutte le iniziative arbitrarie assunte al di fuori del controllo degli organi amministrativi responsabili della spesa, quando il riconoscimento dell'utilità sia ravvisato nella stessa utilizzazione dell'opera o del servizio acquisito, da parte di coloro che hanno abusivamente speso il nome dell'ente o dell'ufficio.
Sennonché essa -oltre ad apparire espressiva di esigenze di tutela della P.A., di cui si è fatto carico, nel tempo, il legislatore, facendo leva, come si è visto, sul carattere sussidiario dell'azione- rivela la sua criticità sol che si consideri che, portata alle sue naturali conseguenze, essa comporta che il giudice, mentre dovrebbe condannare l'ente pubblico per un arricchimento riconosciuto, ancorché non provato, dovrebbe assolverlo per un arricchimento provato, ma non riconosciuto.
Soprattutto l'orientamento risulta fortemente penalizzante per il depauperato, allorquando l'arricchimento si risolva in un risparmio di spesa (come nel caso che qui ricorre di esecuzione di opere di manutenzione), dal momento che un riconoscimento implicito da parte degli organi rappresentativi dell'ente pubblico appare ravvisabile solo in relazione a opere e prestazioni comportanti un incremento patrimoniale, e quindi suscettibili di appropriazione; mentre, nel caso che l'opera risulti già esistente e già a disposizione della collettività, si è ritenuto che il perdurare -od il riprendere dopo gli interventi- della pubblica fruizione non possa costituire riconoscimento implicito dell'utilitas, perché non implica alcuna valutazione consapevole da parte dell'ente (Cass. 02.09.2005, n. 17703 in motivazione).
3.3.
Non mancano tuttavia pronunce improntate a un approccio più duttile, nelle quali, in ragione del fondamento equitativo che permea tutta l'azione di ingiustificato arricchimento, si evidenzia che il riconoscimento, da parte di enti pubblici, dell'utilità di una prestazione professionale, con conseguente loro arricchimento, si realizza con la mera utilizzazione della stessa, indipendentemente dal fatto che i fini alla cui realizzazione la prestazione poteva essere diretta non fossero stati realizzati dall'ente cui il progetto era stato destinato (Cass. Sez. un. 10.02.1996, n. 1025; e più di recente Cass. 18.06.2008, n. 16596).
In tale prospettiva, l'utilità è stata ritenuta ravvisabile allorché la P.A., ad esempio, si sia servita della prestazione del privato per corredare pratiche amministrative, ovvero ne abbia ricavato un risparmio di spesa (v. Cass. 12.12.2003, n. 19059; e ancora Cass. n. 10576 del 1997; Cass. n. 1025 del 1996; Cass. n. 12399 del 1992), ridimensionandosi la necessità della provenienza dagli organi formalmente qualificati della P.A. (cfr. Cass. 16.09.2005, n. 18329) e precisandosi che, seppure il giudizio sull'utilità per la P.A. dell'opera o della prestazione del privato è riservato in via esclusiva all'amministrazione e non può essere compiuto, in sostituzione di quella, del giudice, spetta pur sempre a quest'ultimo il compito di accertare se e in che misura l'opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla pubblica amministrazione (cfr. Cass. 02.09.2005, n. 17703).
3.4.
Si tratta di un orientamento minoritario, che non abbandona il tradizionale argomento, secondo cui l'esperimento dell'azione di arricchimento nei confronti della P.A. richiede un quid pluris, qual è il riconoscimento dell'utilitas, sebbene al fatto dell'utilizzazione venga attribuita una valenza probatoria di detto riconoscimento; in tal modo esso presta il fianco alla critica dell'incongruenza di legittimare soggetti diversi in ragione del fatto che il riconoscimento sia esplicito (per il quale si afferma la necessità che provenga dagli organi rappresentativi della pubblica amministrazione) o implicito (nel qual caso si ritiene che il riconoscimento può provenire da organi non qualificati dell'amministrazione), vale a dire in ragione della forma del riconoscimento, che dovrebbe essere un elemento neutro sotto questo profilo (così Cass. 07.03.2014, n. 5397 in motivazione).
In realtà l'avere svincolato il riconoscimento dalla provenienza dagli organi formalmente qualificati ad esprimere la volontà dell'ente pubblico ha finito per incrinare fortemente lo stesso principio della relatività soggettiva dell'utilitas, consentendo di recuperare la connotazione ordinaria dell'azione, giacché il baricentro dell'indagine risulta spostato sulla valutazione in fatto dell'arricchimento, che deve essere accertato con la regola paritaria di diritto comune, sia quando riguarda il privato che quando si riferisce alla pubblica amministrazione (così Cass. 16.05.2006, n. 11368), affidando al saggio apprezzamento del giudice lo  scrutinio sull'intervenuto riconoscimento ovvero la valutazione, in fatto, dell'utilità dell'opus (così Cass. 21.04.2011, n. 9141).
3.5. Come evidenziato nell'ordinanza interlocutoria,
soprattutto l'ultima delle sentenze citate si è fatta carico di rimarcare l'insufficienza dell'approccio ermeneutico che confina il ruolo giudiziale all'esterno della valutazione di utilità, ritenendo che il giudice non possa accertare se la prestazione del depauperato sia stata utile all'ente pubblico, ma solo se l'ente pubblico l'abbia riconosciuta come tale.
In contrario senso si è osservato che il richiedere sempre e comunque comportamenti inequivocabilmente asseverativi dell'utilità dell'opera o della prestazione da parte degli organi rappresentativi dell'ente è scelta interpretativa che depotenzia fortemente il diritto del privato ad essere indennizzato dell'impoverimento subito, svuotando di fatto i poteri di accertamento del giudice, in vista della tutela delle posizioni soggettive in sofferenza; e si è, quindi, ritenuto che «il criterio idoneo a mediare tra tutti gli interessi in conflitto è l'affidamento al saggio apprezzamento del giudice dello scrutinio sull'intervenuto riconoscimento ovvero la valutazione, in fatto, dell'utilità dell'opus, utilità desunta dal contesto fattuale di riferimento, senza pretendere di imbrigliare l'ineliminabile discrezionalità del relativo giudizio in schemi prede finiti, ma solo esigendo che del suo convincimento il decidente dia adeguata e congrua motivazione»
(cfr. Cass. n. 9141 del 2011 cit. in motivazione).
Occorre, tuttavia, rilevare che
la pista interpretativa indicata dalla sentenza da ultima citata, tendente a marcare di autonomia il sindacato giudiziale e a spostare decisamente l'oggetto dell'indagine dalla qualificazione soggettiva dell'arricchito al fatto dell'arricchimento, non risulta seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità che, anche da recente, ha privilegiato una connotazione negoziale dell'istituto, contrapponendo alla regola paritaria di diritto comune nemo locupletari potest cum aliena iactura la normativa di diritto pubblico che regola la contabilità della pubblica amministrazione, con efficacia anche per i soggetti esterni che vengono in contatto con essa, e che si giustifica oltre che con vincoli di spesa imposti da norme di rango primario nell'impiego di denaro pubblico, anche con le dimensioni e la complessità dell'articolazione interna della pubblica amministrazione (così Cass. n. 5397 del 2014 sopra cit.).
3.6. Mette conto a questo punto evidenziare che la previsione di un'azione generale di arricchimento era ignota al codice del 1865; l'istituto venne, quindi, accolto dal progetto di codice delle obbligazioni del 1936 e, infine, codificato dal legislatore del 1942, accanto a numerosi altre fattispecie particolari di arricchimento (artt. 31, co. 3, 535, 821, co. 2, 935, 940, 1150, 1185, co. 2, 1190, 1443, 1769, 2037, co. 3, 2038 co. 3 cod. civ.), assolutamente eterogenee e, comunque, ispirate al medesimo principio e accomunate dall'obbligo di "restituire" all'impoverito esclusivamente perdite, esborsi, spese, prestazioni ed altri elementi, utilità o valori già sussistenti nel suo patrimonio "nei limiti dell'arricchimento".
Orbene -mentre nel vigore del codice del 1865, la prefigurazione della specialità dell'azione nei confronti della P.A. si giustificava in considerazione dell'elaborazione giurisprudenziale dell'actio de in rem verso sugli schemi della gestione di affari e dell'attribuzione al riconoscimento dell'utilitas dello stesso fondamento dell'utiliter gestum- l'intervenuta codificazione dell'istituto ad opera del legislatore del 1942 ne ha privilegiato una connotazione oggettivistica, fatta palese dall'impiego dei concetti materiali di «arricchimento» e «diminuzione patrimoniale», senza richiamo alcuno al parametro soggettivistico dell'«utilità», ponendo così il problema se vi sia ancora spazio per postulare una valutazione discrezionale da parte dell'arricchito in ragione della sua qualificazione pubblicistica.
Orbene il terzo e più risalente orientamento giurisprudenziale di cui si è detto sub 3. muove proprio dalla considerazione della sopravvenuta inclusione della disciplina nel codice del 1942 per postulare la necessità di abbandonare «il remoto principio», secondo cui l'azione è esperibile nei confronti della P.A. soltanto se questa ha riconosciuto la locupletazione, evidenziando non solo il superamento degli schemi su cui era stata costruita la fattispecie giurisprudenziale dell'actio de in rem verso, ma anche e soprattutto la necessità di una lettura costituzionalizzante dell'istituto, che assicurasse la piena tutela della garanzia di agire in giudizio contro l'amministrazione pubblica, assicurata a chiunque dagli artt. 24 e 113 Cost. (cfr. Cass. Sez.  unite sentenze 28.05.1975, n. 2157; Cass. Sez. unite 19.07.1982, n. 4198).
Sulla base di tali premesse si è esclusa, in radice, la tesi che all'ente pubblico possa essere riservato non solo di riconoscere il vantaggio in sé, ma anche la relativa entità economica: tesi ritenuta inaccettabile per la considerazione che essa pone il giudice nella condizione di dover unicamente prendere atto delle determinazioni del convenuto, contraddicendo alla stessa funzione dell'azione consistente nell'apprestare un rimedio "generale" per i casi in cui sia possibile risolvere sul piano economico il contrasto tra legalità e giustizia. In luogo della questione del riconoscimento dell'utilità, è stato evidenziato un problema di imputabilità dell'arricchimento, paventandosi il pericolo che l'ente pubblico possa subire iniziative che i terzi, pur presentandosi come ingiustamente depauperati, abbiano assunto conto il volere dell'ente o comunque senza che i suoi organi rappresentativi ne avessero contezza.
In tale prospettiva il problema risulta ridotto unicamente a quello dell'«attribuzione» del vantaggio all'ente pubblico e risolto nel senso che si debba indagare «non tanto se quest'ultimo abbia riconosciuto l'arricchimento, quanto se sia stato almeno consapevole della prestazione indebita e nulla abbia fatto per respingerla, sicché nell'avvenuta utilizzazione della prestazione è da ravvisare, invece che un atto di riconoscimento -difficilmente definibile nei suoi caratteri e soprattutto giuridicamente inammissibile, non potendo mai condizionarsi la proponibilità di un'azione ad una preventiva manifestazione di volontà del soggetto contro cui essa è diretta- un mero fatto dimostrativo dell'imputabilità giuridica a tale soggetto della situazione dedotta in giudizio» (così, Cass. n. 4198 del 1982 in motivazione).
4. Questi, in estrema sintesi, i principali argomenti a sostegno delle opzioni ermeneutiche a confronto,
le Sezioni unite, nel risolvere il contrasto, intendono proseguire sulla strada tracciata nelle sentenze da ultime citate e, in parte, ripercorsa da quell'indirizzo minoritario (sub 3.4. e 3.5.) che ha rimarcato la connotazione ordinaria dell'azione anche nei confronti della P.A., predicando una valutazione oggettiva dell'arricchimento che prescinda dal riconoscimento esplicito o implicito dell'ente beneficiato.
A questi risultati conduce una lettura dell'istituto più aderente ai principi costituzionali e a quelli specifici della materia che assegnano una dimensione fattuale di evento oggettivo all'arricchimento di cui all'art. 2041 cod. civ. e alla relativa azione una funzione di rimedio generale a situazioni giuridiche altrimenti ingiustamente private di tutela, tutte le volte che tale tutela non pregiudichi in alcun modo le posizioni, l'affidamento, la buona fede dei terzi (cfr. Cass. Sez. un. 08.12.2008, n. 24772).
In tale prospettiva il diritto fondamentale di azione del depauperato può adeguatamente coniugarsi con l'esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento dell'attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica amministrazione l'onere di eccepire e provare il rifiuto dell'arricchimento o l'impossibilità del rifiuto per la sua inconsapevolezza (c.d. arricchimento imposto).
Del resto sulla qualificazione dell'arricchimento come istituto civilistico che dà luogo a situazioni di diritto soggettivo perfetto anche quando parte sia una P.A., salvo il limite interno del divieto di annullamento e di modificazione degli atti amministrativi, la giurisprudenza ha mostrato di non dubitare, allorché ha costantemente affermato la giurisdizione ordinaria in materia
(Cass. Sez. un. 18.11.2010, n. 23284; Cass. Sez. un. 20.11.1999 n. 807).
4.1.
Valga considerare che l'impostazione fondata sulla necessità di un riconoscimento esplicito o implicito degli organi rappresentativi è sostanzialmente ancorata ad una lettura dell'istituto in chiave contrattuale che è stata già stigmatizzata da queste Sezioni Unite in occasione della risoluzione di altro contrasto sul tema dell'arricchimento nei confronti della P.A., rilevandosi che se è indubbio che l'arricchimento che dipende da fatto dell'impoverito presenta punti di contatto con la responsabilità contrattuale, ciononostante non se ne giustifica l'assimilazione (cfr. sentenza 11.09.2008, n. 23385).
Invero il principio secondo cui «chi senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra persona, è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale» è stato dettato dal legislatore del 1942, accanto ad altre fattispecie particolari di cui già si è dato conto, con la funzione di norma di chiusura onde coprire -come si legge nella Relazione al progetto del codice- anche i casi «che il legislatore non sarebbe in grado di prevedere tutti singolarmente».
L'istituto risulta, così, configurato come un rimedio unitario, idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di arricchimento di un soggetto e di correlativo impoverimento di un altro soggetto in mancanza di una giusta causa e, quindi, sia i casi di arricchimento conseguito appropriandosi di utilità insite nell'altrui situazione protetta, sia quelli che dipendono da comportamenti dell'impoverito.
E sebbene la prima categoria presenti innegabili punti di contatto con la responsabilità civile e la seconda con il regime di esecuzione dei contratti, l'istituto non si presta ad essere letto né in una chiave, né nell'altra, avendo una precisa identità di autonoma fonte di obbligazione restitutoria e l'esclusiva finalità di indennizzare lo spostamento di ricchezza senza giusta causa dall'uno all'altro soggetto.

4.2. In particolare la lettera della norma, che -come sopra evidenziato- adopera un lessico oggettivistico nell'individuazione dei presupposti dell'azione, nonché la funzione dell'istituto che è quella di eliminare l'iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione di fronte al diritto, sancendone la restituzione, riconducono l'arricchimento ad una dimensione fattuale di evento oggettivo, escludendo che la qualificazione pubblicistica del soggetto arricchito possa essere evocata a fondamento di una riserva di discrezionalità in punto di riconoscimento dell'arricchimento e/o del suo ammontare.
Ne consegue che
ciò che il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare è il fatto dell'arricchimento; e il relativo accertamento da parte del giudice non incorre nei limiti di cognizione ai sensi dell'art. 4 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. E, trattandosi di verificare un evento patrimoniale oggettivo, qual è l'arricchimento, senza che l'amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, perché altrimenti si riconoscerebbe all'amministrazione una posizione di vantaggio che è priva di base normativa.
In tale prospettiva
il riconoscimento da parte della P.A. dell'utilità della prestazione o dell'opera può rilevare non già in funzione di recupero sul piano del diritto di una fattispecie negoziale inesistente, invalida o comunque imperfetta -trattandosi di un elemento estraneo all'istituto- bensì in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell'imputabilità dell'arricchimento all'ente pubblico. Mentre le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell'articolazione interna della pubblica amministrazione, che l'espediente giurisprudenziale del riconoscimento dell'utilitas ha inteso perseguire, possono essere adeguatamente coniugate con la piena garanzia del diritto di azione del depauperato, nell'ambito del principio di diritto comune dell'arricchimento imposto, in ragione del quale l'indennizzo non è dovuto se l'arricchito ha rifiutato l'arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo, perché inconsapevole dell'eventum utilitatis.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per gli incarichi extra-istituzionali, il dipendente pubblico deve riversare il compenso.
Al dipendente pubblico che violi il divieto di svolgere incarichi non conferiti o non previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza si applica la sanzione automatica della restituzione integrale del compenso, da versarsi a cura dell’erogante, o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata di bilancio dell’amministrazione: è quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza 26.05.2015 n. 90.
La Consulta non ha potuto accertare l’eventuale illegittimità costituzionale di tale principio e ha, invece, dovuto dichiarare manifestamente inammissibile la relativa questione sollevata dal Tribunale di Bergamo e dal TAR per la Puglia, poiché entrambi i giudici rimettenti, trascurando di compiere una esauriente ricognizione delle norme di riferimento, hanno completamente omesso di esaminare e di risolvere motivatamente il problema sulla sussistenza della rispettiva giurisdizione in ordine ai ricorsi davanti ad essi presentati dalle parti.
Come è noto, i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare il principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego –principio che trova fondamento nell’art. 98, primo comma, Cost.,- e, in caso di trasgressione del dovere di chiedere l’autorizzazione per svolgere attività extra-istituzionali remunerate, gli stessi sono passibili di essere sottoposti a un provvedimento disciplinare.
In caso di violazione del divieto di svolgere incarichi non conferiti o non previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, il TU per il Pubblico Impiego (art. 53, comma 7, del D.Lgs. n. 165/2001) prevede che al dipendente pubblico debba applicarsi la sanzione automatica della restituzione integrale del compenso, da versarsi a cura dell’erogante, o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata di bilancio dell’amministrazione.
Orbene, due giudici hanno sollevato la questione di legittimità di tale norma dinanzi al Giudice delle leggi, con riferimento a due distinte controversie: i procedimenti principali riguardano, da un lato, alcuni infermieri professionali dipendenti dell’Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate, i quali hanno svolto presso terzi prestazioni infermieristiche al di fuori dell’orario di lavoro senza fari prima autorizzare dall’Azienda, e dall’altro lato, un ufficiale pilota dell’aeronautica militare, il quale, durante un periodo di congedo straordinario senza assegni concessogli dall’amministrazione, aveva svolto, anch’egli senza autorizzazione, attività lavorativa retribuita quale pilota di elicotteri presso una società spagnola. In entrambi i casi, tali soggetti si sono visti richiedere dalle amministrazioni di appartenne le somme percepite a titolo di compenso.
La Consulta, però, dopo aver riunito i giudizi (poiché avevano a oggetto la medesima questione), ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale poiché entrambi i giudici rimettenti, trascurando di compiere una esauriente ricognizione del contesto regolativo di riferimento, hanno completamente omesso di esaminare e di risolvere motivatamente il problema sulla sussistenza della rispettiva giurisdizione in ordine ai ricorsi davanti ad essi instaurati.
In merito, infatti –scrive la Corte Costituzionale– il comma 7-bis dello stesso art. 53 stabilisce che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
D’altronde, anche le sezioni unite civili della Cassazione hanno già avuto modo di affermare che sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa di un soggetto che, legato all’amministrazione da un rapporto di impiego o di servizio, causi un danno con azioni od omissioni connesse alla violazione non solo dei doveri tipici delle funzioni concretamente svolte, ma anche di quelli ad esse strumentali, attenendo al merito e, dunque, ai limiti interni della potestas iudicandi, ogni questione attinente al tipo e all’ammontare del danno stesso diverso da quello all’immagine (Cassazione, sez Unite, ordinanza n. 22688 del 02.11.2011).
I giudici remittenti, dunque, non hanno indicato le ragioni per le quali ciascuno di essi implicitamente esclude che la disciplina di cui al richiamato comma 7-bis possa trovare applicazione alle vicende di cui ai giudizi loro devoluti (“le quali, per di più, apparendo del tutto analoghe anche sotto il profilo della normativa applicabile, risulterebbero tuttavia contemporaneamente attribuite sia alla giurisdizione ordinaria sia a quella amministrativa”).
Per di più, spiega la Corte, la questione proposta dal TAR Puglia va dichiarata manifestamente inammissibile anche per carente motivazione sulla rilevanza, poiché il giudice amministrativo non ha descritto con sufficienza le circostanze di fatto del giudizio a quo, relative alla situazione di un ufficiale pilota dell’aeronautica militare collocato in aspettativa, senza peraltro considerare una serie di altre circostanze tra cui la particolare situazione del dipendente posto in aspettativa per il quale lo stesso TU per il pubblico impiego esclude dalla disciplina sanzionatoria, tra gli altri, proprio i compensi derivanti “da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo” (commento tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Sovrintendenza non salva la casa sull’albero.  È abusiva la casa di 70 metri quadrati costruita, sull’albero senza autorizzazione, in una zona sottoposta a vincolo ambientale.
Reati edilizi. L’ok sulla compatibilità non esclude che il manufatto in legno di grandi dimensioni sia abusivo.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 21.05.2015 n. 21029, respinge il ricorso di Marcello Dell’Utri e conferma la condanna.
L’ex senatore aveva realizzato nella Villa di Torno sul lago di Como la “bird watching” su un albero a scopo contemplativo. Secondo il ricorrente il manufatto doveva essere considerato al pari di una pertinenza, non aveva un negativo impatto sull’ambiente con il quale si armonizzava perfettamente, ed era rimovibile. Tra le carte giocate della difesa per escludere la punibilità, c’era anche il parere favorevole Soprintendenza riguardo alla compatibilità. Diverso il punto di vista della Suprema corte. La casa sull’albero, in legno, era su due piani più torretta, grande circa 70 metri quadrati con un volume di 180 metri cubi.
La struttura, che raggiungeva un’altezza di 3,69, copertura compresa, era fissata a terra con «plinti di cemento in cui erano annegati i pilastri di legno che la sostenevano, le saette di sostegno della struttura a sbalzo erano fissate al fusto dell’albero con profili metallici».
La descrizione tecnica della casa, secondo i giudici di merito ai quali la Cassazione si allinea, è sufficiente per affermare l’impatto sul paesaggio ed escludere la tesi della facile rimovibilità. Un manufatto decisamente sovradimensionato rispetto all’uso meramente contemplativo per il quale era stato realizzato. Non è utile neppure il via libera ottenuto in via preliminare dalla Sovrintendenza propedeutico ad una sanatoria poi disapplicata.
L’ok, relativo a un piano iniziale diverso da quello realizzato, non sarebbe stato comunque utile per escludere la punibilità. La Cassazione ricorda, infatti, che il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell’abuso eseguito in una zona vincolata non esclude la punibilità di un’azione che si configura come reato di pericolo.
Per l’illecito non serve, infatti, un effettivo pregiudizio per l’ambiente dal momento che le sole condotte penalmente non rilevanti sono quelle che “a occhio” non sono idonee a compromettere i valori protetti. A questo proposito la Suprema corte sottolinea che in nome della rilevanza costituzionale del paesaggio, si giustifica la funzione anticipata di tutela affidata al diritto penale.
Per il ricorrente non c’è neppure l’errore scusabile come dimostrato dalla «pacifica prosecuzione dei lavori nonostante fosse stato emesso un ordine di sospensione».
Dimostrazione dell’esistenza «di una pregressa intenzione diretta a realizzare l’evento vietato». Persa anche l’occasione di ottenere la sospensione condizionale della pena, condizionata in base alla sentenza d’appello alla demolizione dell’opera entro 90 giorni. Azione riparatoria non più possibile perché la villa era stata venduta
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.05.2015).
---------------
MASSIMA
Sotto quest'ultimo aspetto, va chiarito che
il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del delitto paesaggistico previsto dall'art. 181, comma 1-bis,d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Sez. 3, n. 7216 del 17/11/2010, dep. 25/02/2011, Zolesio ed altro, Rv. 249526), con la conseguenza che, a fronte di una contestazione di lavori eseguiti, come nella specie, su aree dichiarate di notevole interesse pubblico (e comunque in tutte le ipotesi di contestazione della fattispecie delittuosa ex art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2001), l'accertamento di compatibilità paesaggistica è del tutto irrilevante, a prescindere dall'ambito di operatività dell'art. 181, comma 1-ter, che esclude, a determinate condizioni, la rilevanza penale (non anche amministrativa dal punto di vista sanzionatorio) dell'art. 181, comma 1 (e non invece del comma 1-bis) ed anche a prescindere dalla rimessione in pristino che, ai sensi dell'art. 181, comma 1-quinquies, estingue la contravvenzione di cui al comma 1 e giammai il delitto dì cui al comma 1-bis.
...
Va a tale proposito ricordato come questa Corte -nell'affermare il richiamato principio secondo il quale il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del delitto paesaggistico previsto dall'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 22.01.2004, n. 42- abbia anche affermato che
la mancata estensione alla fattispecie delittuosa della causa di non punibilità, prevista dall'art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42 del 2004 per la sola fattispecie contravvenzionale di cui al comma primo, non viola il principio di offensività e tanto sul rilievo che, quanto alla incidenza del principio di offensività nel delitto di specie, la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale dell'originaria fattispecie di cui all'art. 1-sexies della legge 08.08.1985, n. 431 (l'art. 181, d.lgs. del 2004 ripropone relativamente al 10 e 2° comma le previsioni già contenute nell'art. 163, d.lgs. 29.10.1999, n. 490, ed ancor prima dall'art. 1-sexies, D.L. 27.06.1985, n. 312, conv. L. 08.08.1985, n. 431, ponendosi con questi precedenti in sostanziale continuità normativa, salvo modifiche formali) sotto il profilo dell'asserito contrasto di detta norma con i principi costituzionali di cui agli artt. 13, 25 e 27 Cost., nella parte in cui sottopone a sanzione penale tutte le modifiche ed alterazioni, con opere non autorizzate, di beni specificamente tutelati dal vincolo paesaggistico, senza valutare la concreta incidenza dannosa per i beni tutelati, pur rigettando la questione, ha tuttavia affermato che, con riferimento all'offensività in concreto delle condotte incriminate, l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo presunto, è devoluto in ogni caso al sindacato del giudice penale, mentre la mancanza di offensività in concreto, lungi dall'integrare un potenziale vizio di costituzionalità, implica una valutazione di merito rimessa al giudice (sentenza n. 247 del 1997).
Non vi è dubbio (e lo stesso ricorrente ne è consapevole) che
la fattispecie incriminatrice descritta nell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 configuri, al pari di quella contravvenzionale, un reato di pericolo. Da ciò consegue che, per la configurabilità dell'illecito, non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano ictu oculi inidonee a compromettere i valori del paesaggio.
Come questa Corte ha affermato
il principio di offensività deve essere inteso, al riguardo, in termini non di concreto apprezzamento di un danno ambientale, bensì dell'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto. Nel caso di specie la sentenza impugnata ha dato conto dell'entità dell'opera eseguita e del fatto che la stessa è risultata -sulla base della documentazione anche fotografica in atti- non irrilevante sotto il profilo oggettivo, oltre ad essere stata realizzata in area dichiarata di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento.
Pertanto i giudici, dandone congrua motivazione, hanno valutato l'intervento idoneo a compromettere l'ambiente, pervenendo alla corretta conclusione circa la sussistenza di un'effettiva messa in pericolo del paesaggio, oggettivamente insita nella minaccia ad esso portata e valutabile come tale ex ante, nonché una violazione dell'interesse dalla P.A. ad una corretta informazione preventiva ed all'esercizio di un efficace e sollecito controllo.
Ne consegue che la condotta, nella situazione data, ha realizzato il pericolo pronosticato in astratto dal legislatore, su cui fonda la natura dei reati di pericolo presunto, con la conseguenza che solo astraendosi dalla fattispecie concreta, come adeguatamente ricostruita dal giudice di merito, è possibile, con estrapolazione logico-fattuale non consentita, ritenere vinta quella ipotetica presunzione, postulata nel ricorso, che il legislatore ha ritenuto di porre a fondamento del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
In altri termini, pur volendo distinguere, per la ricaduta che, in materia, può esercitare il principio di offensività, i reati di pericolo astratto (dove il pericolo si ritiene effettivamente implicito nella condotta) dai reati di pericolo presunto (dove il pericolo non è necessariamente insito nella condotta, poiché nel momento in cui la stessa viene posta in essere è possibile controllare l'esistenza o meno delle condizioni per il verificarsi dell'evento lesivo) e sussumendo la fattispecie incriminatrice, secondo una corretta operazione ermeneutica fatta propria e pronosticata dal ricorrente, nel novero dei reati di pericolo presunto, la verifica condotta dai Giudici del merito è ampiamente nel senso della concreta offensività della condotta a produrre l'evento temuto.
Sul punto, è sufficiente considerare la sproporzione rilevata dai Giudici del merito tra lo scopo per il quale si assume che l'opera doveva essere realizzata (mero avvistamento degli uccelli, "bírd watching") e la consistenza del manufatto nonché il suo stabile radicamento al suolo e la oggettiva funzione della struttura a poter essere persino adibita all'uso abitativo, con la conseguenza che neppure sarebbe stata fornita ex adverso la prova negativa, il cui onere normalmente si adempie fornendo la prova dei corrispondenti fatti positivi diretti a svalutare i primi o a vincere le presunzioni sui quali essi si radicano, della non offensività ex ante della condotta realizzata in relazione al fatto storico contestato.
Va allora ricordato che
il paesaggio costituisce bene di rilevanza costituzionale, opzione che legittima anche la funzione anticipata di tutela affidata al diritto penale in tale nevralgico settore della vita della comunità, sull'indiscutibile rilievo che il preciso riconoscimento della valenza costituzionale attribuita al bene "ambiente-territorio" secondo una concezione dinamica del "paesaggio" (art. 9, comma 2, Cost.) giustifica una tutela che esige il controllo e la direzione degli interventi che, ricadendo sul territorio stesso, influiscono sul paesaggio che, come è stato opportunamente osservato, non può essere assolutamente confinato in forma statica, quale mera conservazione del visibile.
Questa Corte ha fornito in passato una interpretazione rigorosa del principio di offensività in questa materia, affermando che la sanzione penale è posta in riferimento a condotte che violino l'interesse pubblico a che l'autorità deputata alla tutela dei beni ambientali possa valutare previamente (ossia anteriormente alla realizzazione dell'opera) il suo possibile impatto ambientale. Questo interesse pubblico, che è sotteso strumentalmente a quello avente ad oggetto direttamente la tutela del paesaggio, è leso -ed in ciò risiede l'offensività della condotta- quando non viene resa possibile questa valutazione preventiva. In tal caso la lesione del bene tutelato e l'offensività della condotta sussistono anche ove ex post la stessa autorità amministrativa possa verificare che l'opera non comportava alcun impatto ambientale negativo (Sez. F, n. 35527 del 31/08/2001, Fontana ed altri, Rv. 219895 e in motivazione).
Si tratta di un orientamento -enunciato in tema di protezione delle bellezze naturali in relazione alla modificazione dello stato di luoghi vincolati ai sensi della legge 29.06.1939 n. 1497 integrante il reato previsto dall'art. 1-sexies d.l. 27.06.1985 n. 312, convertito nella legge n. 431 del 1985- che, agli effetti penali, tuttora non smentisce (v. sub 3 del considerato in diritto) quanto la disciplina positiva, a determinate condizioni, espressamente ammette o implicitamente esclude, ossia la rilevanza della sanatoria paesaggistica in relazione agli abusi ex art. 181, comma 1, escludendola categoricamente per quelli, come nel caso in esame, di cui al comma 1-bis.
Il principio di offensività, di ardua declinazione normativa e in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine iniuria"), opera, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, su due piani, "rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo - applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato" (così testualmente Corte cost. n. 265 del 2005 e, in senso conforme, v. Corte cost. nn. 360 del 1995, 263 del 2000, 519 del 2000, 354 del 2002).
Con specifico riferimento si reati paesaggistici, la Corte costituzionale ha chiarito che
l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, anche per i reati formali e di pericolo presunto, in ogni caso, è devoluta al sindacato del giudice penale, tanto sul presupposto che "non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto" (sentenze n. 360 del 1995 già citata; n. 133 del 1992; n. 333 del 1991; per il reato paesaggistico, sentenza n. 67 del 1992).
Né può configurarsi una irragionevole od arbitraria valutazione operata dal legislatore, nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta in violazione delle speciali disposizioni stabilite a tutela delle zone di particolare interesse ambientale, contemporaneamente alla introduzione di vincoli paesistici generalizzanti, in relazione a categorie di beni, in quanto la ratio della scelta legislativa deve essere ricercata nella valutazione (così sent. n. 248 del 1997, cit.) che "l'integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che pertanto va salvaguardato nella sua interezza", giustificandosi perciò la configurazione del reato a "carattere formale e di pericolo in quanto il vincolo posto in determinate parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al suo governo" (sent. n. 67 del 1992,
cit.).
Da ciò deriva pure come al Giudice di merito sia affidata la delicata operazione di bilanciamento tra principi per la verifica della concreta offensività ex ante della condotta proprio in subiecta materia (Corte cost. sent. 247 del 1997, cit.), operazione che deve tenere perciò in debito conto l'interesse pubblico a che l'autorità deputata alla tutela dei beni ambientali possa valutare previamente (ossia anteriormente alla realizzazione dell'opera) il suo possibile impatto ambientale.
Ciò conferma che,
in materia di tutela del paesaggio, non hanno rilievo penale soltanto le condotte che si prospettano ictu oculi inidonee a compromettere i valori del paesaggio, con la conseguenza che la ritenuta compatibilità paesaggistica intervenuta ex post non implica necessariamente che la condotta possa, tout court, stimarsi inoffensiva ex ante (come invece si assume nel ricorso) con riferimento alla fattispecie incriminatrice ex art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004.
5. Peraltro, quantunque il ricorrente non abbia sollevato alcuna questione in tal senso, non è possibile estendere, per via interpretativa, l'esclusione della punibilità prevista dal d.lgs. n. 42 del 2004, commi 1-ter e 1- quater, in conseguenza dell'accertamento di compatibilità paesaggistica, anche alla contestata incriminazione di cui all'art. 181, comma 1-bis dello stesso decreto legislativo, non sussistendo omogeneità e piena identità di funzione fra le discipline poste a raffronto per diversità dell'oggetto materiale del reato e dello scopo delle incriminazioni.
Questa Corte ha perciò affermato, con condivisibili pronunce alle quali occorre dare continuità, che
è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 181, comma primo-ter, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 42 e 97 Cost., nella parte in cui non prevede che, nonostante il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'opera, siano comunque applicabili le sanzioni penali contemplate dallo stesso art. 181 al comma primo bis atteso che la diversità delle situazioni disciplinate dalle norme richiamate rende non irragionevole una disciplina normativa differenziata (Sez. 3, n. 13736 del 26/02/2013, Manzella, Rv. 254762; Sez. 3, n. 7216 del 17/11/2010, dep. 25/02/2011 Zolesio ed altro, Rv. 249527).
Con il delitto paesaggistico di cui all'art. 181, comma 1-bis, il legislatore ha ritenuto di sanzionare più severamente quelle condotte che, configurate come delitto e non come contravvenzioni, sono state ritenute maggiormente offensive del bene tutelato dell'integrità ambientale, consistenti o in lavori di qualsiasi genere eseguiti, come nel caso di specie, su immobili o aree tutelate già in precedenza con apposito provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico, ovvero in lavori di consistente entità (come determinata con i parametri richiamati dalla lett. b) del citato comma) che ricadono su immobile o aree tutelate per legge ai sensi dell'art. 142 dello stesso testo normativo.
6. Neppure può essere sostenuta la carenza dell'elemento soggettivo in capo al ricorrente.
La fattispecie di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, è punita a titolo di dolo generico (Sez. 3, n. 48478 del 24/11/2011, Mancini, Rv. 251635) con la conseguenza che, quanto alla coscienza dell'antigiuridicità della condotta, il presupposto della responsabilità penale è la conoscibilità, da parte del soggetto agente, dell'effettivo contenuto precettivo della norma.
Nella fattispecie in esame, indipendentemente dal fatto di aver o meno incaricato esperti della materia, l'imputato aveva il dovere di informarsi preventivamente (anche) circa l'eventuale assoggettamento a vincoli dell'area sulla quale andava ad eseguire una costruzione in legno di rilevanti dimensioni e ancorata al suolo e non ha dimostrato (anzi si deve ritenere abbia escluso a cagione dell'affidamento riposto verso terzi) di avere assunto alcuna informazione al riguardo presso gli organi competenti.
Peraltro, la pacifica prosecuzione dei lavori nonostante fosse stato emesso l'ordine di sospensione degli stessi è stata correttamente e logicamente ritenuta dai Giudici del merito quale ulteriore indice comprovante l'esistenza di una pregressa intenzione diretta a realizzare l'evento vietato e ciò esclude la configurazione di un errore, peraltro genericamente invocato, su norma extrapenale, che abbia potuto cagionare un errore sul fatto costituente il reato (ex art. 47, comma 3, cod. pen.) attraverso la incolpevole percezione di una diversa realtà.
Va poi precisato che -nel caso di esecuzione di lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici che ricadano, come nella specie, su aree dichiarate di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori- non può essere escluso il reato sotto il profilo soggettivo, per errore sulla non necessità dell'autorizzazione, perché nemmeno in virtù del criterio della ignoranza inevitabile, teorizzato nella sentenza 24.03.1988, n. 364 della Corte costituzionale, è lecito scusare chi compia o abbia consentito ad altri di eseguire lavori di qualsiasi genere su aree sottoposte al più rigoroso vincolo senza informarsi delle leggi penali che disciplinano la materia e la cui doverosa conoscenza avrebbe dovuto indurre a desistere da qualsiasi manomissione del luogo al massimo livello protetto.
Ne consegue che il ricorrente ha volontariamente posto in essere un'attività edilizia senza richiedere l'autorizzazione all'autorità amministrativa preposta alla tutela del vincolo sicché, in assenza di dubbi circa la diretta volizione del comportamento illecito, neppure si rinvengono elementi idonei a configurare l'errore scusabile sul precetto di cui all'art. 5 cod. pen. ovvero l'errore su norma extrapenale ex art. 47, comma 3, cod. pen..

VARIPratica legittima «prenotare» la sosta. Cassazione. Colpevole di lesioni chi urta l’occupante.
Grossi problemi per chi contesta la “prenotazione” del parcheggio, in attesa che giunga il titolare, quando cioè si chiede a un amico, o al passeggero, di occupare di persona uno spazio visto in lontananza.
Se ne è occupata la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 21.05.2015 n. 19075, ritenendo colpevole di lesioni l’automobilista che, indispettito dall’impropria prenotazione, ha urtato, seppur lievemente, chi manteneva il posto.
Non si è dato peso alla convinzione dell’automobilista che riteneva che l’occupante si sarebbe spostato all’ultimo momento, sicché l’urto non era voluto, perché si è tenuto presente il solo contatto fisico. Da questo caso quotidiano, si possono trarre suggerimenti per evitare contrasti, quando ad esempio i posti (a sedere) risultino occupati in modo improprio, con oggetti vari quali giornali o borse di plastica. Chi occupa più di un posto, commette un apparente abuso, ma in termini giuridici l’occupante può ritenersi un delegato, incaricato dell’operazione materiale, purché la prenotazione abbia tempi e modi ragionevoli.
Chi sta in fila o aspetta il turno rispetta il principio giuridico «prior in tempore potior in iure», dal quale deriva la precedenza a chi giunga per primo. Una norma sul tema era contenuta nel Codice della navigazione anteriore al 2009, quando la concorrenza tra aspiranti concessionari era risolta sulla base della cronologia delle domande (oggi si decide sulla base della qualità dell’offerta).
Lo stesso Codice della navigazione disciplinava anche il diritto a mantenere il posto occupato (cosiddetto diritto “di insistenza”), simile a quello di chi si allontana dal posto per un motivo particolare (toilette, un caffè), ma può tornare sul suo posto perché non ha espresso una volontà di abbandonare, cioè non ha espresso l’intenzione di rinunciare alla situazione di vantaggio. Per manifestare la volontà di mantenere il posto, possono usarsi segnali particolari, purché il segnale sia inequivoco e riconducibile alla persona. Quindi non basta un oggetto casuale ma è necessario un oggetto specifico, riferibile all’utente.
L’oggetto che materializza l’occupazione, non deve quindi avere carattere indifferenziato ed equivoco, ma deve essere espressivo di una specifica continuità. Stesso ragionamento opera nelle prenotazioni di una fila, quando si chiede a una persona di occupare un posto, prenotando una situazione di vantaggio.
Chi incarica altri di “tenere il posto” effettua una delega, che può essere anche verbale e non deve necessariamente essere rivolta ad un soggetto che possegga le stesse qualità del sostituito: ad esempio, un professionista può chiedere ad un dipendente di fare la fila in suo nome anche se l’operazione prenotata, quando verrà il turno, richiederà una qualità specifica, posseduta solo dal professionista che ha conferito l’incarico.
Chi non sopporta i soprusi altrui, deve evitare il rischio di un «esercizio arbitrario delle proprie ragioni» (articolo 392 del codice penale). Il codice impone di rivolgersi a un giudice, ma se il sopruso è evidente è ammessa la reazione a caldo. Sempre che, come sottolinea la Cassazione, non si giunga ad un contatto fisico (lesioni)o verbale (ingiurie)
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.05.2015).

EDILIZIA PRIVATAIn termini generali, la SCIA (come la precedente DIA) non modifica la disciplina sostanziale dell’attività interessata, bensì il titolo di legittimazione, sostituendo il tradizionale provvedimento di autorizzazione da emettersi a seguito della domanda del privato, con un procedimento di verifica ad iniziativa pubblica necessaria: si inverte pertanto il meccanismo, dovendo l’autorità amministrativa esercitare un controllo ex post sulla denuncia “abilitante” presentata dal soggetto interessato.
Secondo l’art. 19, comma 3, della L. 214/1990, nel termine di sessanta giorni (o di trenta giorni in materia edilizia, ex art. 19, comma 6-bis, della stessa L. 241/1990) dal ricevimento della segnalazione, l'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 2, “adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni”, restando salvo il potere dell'amministrazione competente "di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies", mentre, "in caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci, l'amministrazione...può sempre e in ogni tempo adottare i provvedimenti di cui al primo periodo".
Il comma 4 prevede che, decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3 (ovvero di cui al comma 6-bis in ambito edilizio), all'amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente.
Sulla base del delineato quadro normativo, la giurisprudenza ha elaborato alcuni principi:
• è illegittimo l'operato dell'amministrazione comunale che, in presenza di una denuncia d'inizio attività (assimilabile sotto questo aspetto alla SCIA), adotta provvedimenti inibitori o sanzionatori dopo che sia decorso il termine previsto per il consolidamento del titolo, senza rispettare i limiti e le condizioni in base ai quali è possibile esercitare i poteri di autotutela ai sensi degli artt. 21-quinques e 21-nonies della L. 241/1990;
• il termine (di 60 giorni) per l'esercizio del potere inibitorio doveroso è perentorio mentre, decorso tale spazio temporale, l’autorità conserva soltanto un potere residuale di autotutela;
• quest’ultimo deve essere esercitato dall'amministrazione competente entro un termine ragionevole, e va supportato dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del titolo tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un logico affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione;
• anche in materia di commercio, ogni atto di ordinario esercizio di pubblici poteri resta subordinato al rispetto delle regole generali che informano i rapporti tra amministrazioni e amministrati: così, è necessario comunicare l’avvio del procedimento, consentire all’interessato e a eventuali cointeressati e controinteressati di parteciparvi, dimostrare la sussistenza dei presupposti che ai sensi degli articoli 19 e 21-quinquies e 21-nonies della L. 241/1990 ne consentono l’esercizio, ivi compreso il rispetto del tempo ragionevole per porre in essere il provvedimento di secondo grado, la comparazione dell'interesse pubblico con l'aspettativa del privato, la motivazione in ordine alle ragioni di fatto che ne giustificano l’adozione;
• la valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, giustifica la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
2. Parte ricorrente ha anzitutto dedotto la violazione dell’art. 19 della L. 241/1990 e del principio di affidamento, l’eccesso di potere per carenza di istruttoria, difetto di motivazione, illogicità e ingiustizia manifesta, in quanto il potere di intervento sulla SCIA può essere esercitato entro il termine di 60 giorni dalla sua presentazione, salva la possibilità di agire ex post a tutela di preminenti interessi pubblici (pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale), che non sono stati rilevati nella fattispecie: il Comune era da oltre un anno privo del potere ordinario di inibizione degli effetti della SCIA, tenuto conto che il provvedimento dispone una semplice archiviazione, senza menzionare né motivare l’autotutela con riferimento ai requisiti contemplati all’art. 21-quinques della L. 241/1990.
Il motivo è meritevole di accoglimento, avendo l'amministrazione pacificamente adottato l'atto di controllo inibitorio oltre il termine di legge.
2.1 In termini generali, la SCIA (come la precedente DIA) non modifica la disciplina sostanziale dell’attività interessata, bensì il titolo di legittimazione, sostituendo il tradizionale provvedimento di autorizzazione da emettersi a seguito della domanda del privato, con un procedimento di verifica ad iniziativa pubblica necessaria: si inverte pertanto il meccanismo, dovendo l’autorità amministrativa esercitare un controllo ex post sulla denuncia “abilitante” presentata dal soggetto interessato.
Secondo l’art. 19, comma 3, della L. 214/1990, nel termine di sessanta giorni (o di trenta giorni in materia edilizia, ex art. 19, comma 6-bis, della stessa L. 241/1990) dal ricevimento della segnalazione, l'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 2, “adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni”, restando salvo il potere dell'amministrazione competente "di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies", mentre, "in caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci, l'amministrazione...può sempre e in ogni tempo adottare i provvedimenti di cui al primo periodo".
Il comma 4 prevede che, decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3 (ovvero di cui al comma 6-bis in ambito edilizio), all'amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente.
2.2 Sulla base del delineato quadro normativo, la giurisprudenza ha elaborato alcuni principi:
• è illegittimo l'operato dell'amministrazione comunale che, in presenza di una denuncia d'inizio attività (assimilabile sotto questo aspetto alla SCIA), adotta provvedimenti inibitori o sanzionatori dopo che sia decorso il termine previsto per il consolidamento del titolo, senza rispettare i limiti e le condizioni in base ai quali è possibile esercitare i poteri di autotutela ai sensi degli artt. 21-quinques e 21-nonies della L. 241/1990 (Consiglio di Stato, sez. IV – 20/02/2014 n. 788 in materia edilizia, con riflessioni che ben possono essere estese alla DIA –e alla SCIA– in materia commerciale;
• il termine (di 60 giorni) per l'esercizio del potere inibitorio doveroso è perentorio mentre, decorso tale spazio temporale, l’autorità conserva soltanto un potere residuale di autotutela (Consiglio di Stato, sez. VI – 14/11/2012 n. 5751; TAR Veneto, sez. II – 26/01/2015 n. 59);
• quest’ultimo deve essere esercitato dall'amministrazione competente entro un termine ragionevole, e va supportato dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del titolo tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un logico affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione (sentenza TAR Campania Salerno, sez. I – 07/04/2015 n. 732, resa in ambito edilizio);
• anche in materia di commercio, ogni atto di ordinario esercizio di pubblici poteri resta subordinato al rispetto delle regole generali che informano i rapporti tra amministrazioni e amministrati: così, è necessario comunicare l’avvio del procedimento, consentire all’interessato e a eventuali cointeressati e controinteressati di parteciparvi, dimostrare la sussistenza dei presupposti che ai sensi degli articoli 19 e 21-quinquies e 21-nonies della L. 241/1990 ne consentono l’esercizio, ivi compreso il rispetto del tempo ragionevole per porre in essere il provvedimento di secondo grado, la comparazione dell'interesse pubblico con l'aspettativa del privato, la motivazione in ordine alle ragioni di fatto che ne giustificano l’adozione (TAR Friuli Venezia Giulia – 25/09/2014 n. 463).
• la valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, giustifica la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio (Consiglio di Stato, adunanza plenaria – 29/07/2011 n. 15).
2.3 Nella fattispecie, i 60 giorni erano abbondantemente decorsi quando l’amministrazione è intervenuta, e non affiora alcun elemento o circostanza a supporto dell’esercizio della potestà di autotutela. Non è stata neppure adombrata l’unica ipotesi derogatoria della perentorietà del predetto termine contemplata dal legislatore, ossia l’esistenza di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà "false o mendaci", che abilita l'amministrazione ad assumere i provvedimenti repressivi "sempre e in ogni tempo" (cfr. TAR Abruzzo L’Aquila – 19/03/2015 n. 163) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.05.2015 n. 739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 19, comma 4, della legge 241/1990 pone significative limitazioni al potere di intervento in autotutela dell’amministrazione, una volta che la SCIA abbia conseguito efficacia per decorrenza del termine di controllo pari a 30 giorni fissato dal comma 6-bis della medesima disposizione normativa.
Tuttavia, il potere di controllo non si può tuttavia considerare esaurito nel termine breve di 30 giorni, qualora il progetto allegato alla SCIA contenga elementi di ambiguità che, pur non essendo qualificabili come dichiarazioni sostitutive false o mendaci ex art. 19, comma 3, della legge 241/1990, rendano comunque l’esame più difficoltoso, omettendo o non evidenziando a sufficienza eventuali criticità e il percorso argomentativo seguito per superarle.
In particolare, quando vengano in rilievo interventi su parti comuni, o interventi che alterano il collegamento tra edifici posti a confine, è compito del progettista dare il giusto risalto a queste situazioni, per consentire agli uffici comunali di effettuare una verifica completa del progetto. Se non vi è piena trasparenza, la sanzione appropriata consiste nella (ragionevole) dilatazione dei tempi di controllo.

Sul termine di controllo della SCIA
8. L’art. 19, comma 4, della legge 241/1990 pone significative limitazioni al potere di intervento in autotutela dell’amministrazione, una volta che la SCIA abbia conseguito efficacia per decorrenza del termine di controllo pari a 30 giorni fissato dal comma 6-bis della medesima disposizione normativa.
9. Nel caso il esame il termine è in effetti decorso (09.01.2014-17.02.2014), e il Comune non evidenzia pericoli per il patrimonio artistico e culturale o per l’ambiente (e tantomeno per la salute, la sicurezza pubblica e la difesa nazionale). Sull’edificio della ricorrente non grava un vincolo paesistico in senso proprio: l’esame paesistico è imposto dall’inquadramento del centro storico nella classe 5 di sensibilità paesistica, situazione non coincidente con quella descritta nell’art. 19, comma 4, della legge 241/1990. L’edificio, benché l’architrave in pietra collocato sopra l’ingresso riporti la data del 1706, non è neppure assoggettato a vincolo monumentale.
10. Il potere di controllo non si può tuttavia considerare esaurito nel termine breve di 30 giorni, qualora il progetto allegato alla SCIA contenga elementi di ambiguità che, pur non essendo qualificabili come dichiarazioni sostitutive false o mendaci ex art. 19, comma 3, della legge 241/1990, rendano comunque l’esame più difficoltoso, omettendo o non evidenziando a sufficienza eventuali criticità e il percorso argomentativo seguito per superarle.
In particolare, quando vengano in rilievo interventi su parti comuni, o interventi che alterano il collegamento tra edifici posti a confine, è compito del progettista dare il giusto risalto a queste situazioni, per consentire agli uffici comunali di effettuare una verifica completa del progetto. Se non vi è piena trasparenza, la sanzione appropriata consiste nella (ragionevole) dilatazione dei tempi di controllo.
11. Nel caso in esame, la relazione paesistica datata 08.01.2014 evidenzia la formazione in gronda di un “piccolo dislivello” con il tetto del vicino, senza però una precisa quantificazione. Inoltre, come viene sottolineato nel provvedimento del 07.04.2014, omette di riferire che l’intervento riguarda anche parti comuni dell’edificio. Poiché entrambe le questioni assumono importanza nell’esame della SCIA, si deve riconoscere la legittimità dell’estensione del termine di conclusione del procedimento.
Le ordinanze di sospensione e di rimessione in pristino sono quindi qualificabili come atti finali della procedura tempestivamente adottati, e non come provvedimenti in autotutela (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.05.2015 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano, con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.

In riferimento alla violazione delle distanze, il Collegio deve rilevare che il D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’art. 9 -Limiti di distanza tra i fabbricati- comma 1, n. 2, dispone: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:.. 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;”.
Al riguardo occorre innanzitutto precisare che, secondo la consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis, in tal senso, Cassazione civile, sezione II, 27.03.2001, n. 4413, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759), dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano, con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007 , n. 3094, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto.
Proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici, rendeva necessitata e vincolante l’adozione, da parte dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di annullamento in autotutela, il cui contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Al riguardo il Collegio ritiene che principio per certo rilevante per il caso in esame è quello ben consolidato nella condivisibile giurisprudenza e in forza del quale se è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto (cfr. in tal senso, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6554, nonché Sez. V, 12.10.2004 n. 6554).
Proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici, rendeva necessitata e vincolante l’adozione, da parte dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di annullamento in autotutela, il cui contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27.08.2012, n. 4619).
Concludendo sul punto, il Collegio rileva che il provvedimento di annullamento è stato adottato a seguito di un accertamento tecnico completo e approfondito, la cui forza fidefaciente non è scalfita dalle contestazioni prospettate da parte ricorrente, le cui doglianze appaiono, pertanto, infondate
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn generale, gli allevamenti di animali costituiscono in ogni caso industrie nocive di cui al D.M. 12.02.1971, oggi D.M. 05.09.1994.
L'allevamento avicolo, infatti, è qualificabile come industria insalubre di prima classe, ai sensi dell'art. 216 t.u. leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265 del 1943 e nell'elenco contenuto nel D.M. 05.09.1994, n. 1, lett. c), e ciò indipendentemente dalla sua natura tradizionale o intensiva.
Nella dizione <allevamenti di animali>, classificati tra le industrie insalubri di 1 classe dai d.m. 12.02.1971 e 23.12.1976, sono compresi tutti i tipi di allevamento, anche quelli di tipo “tradizionale” che danno sempre luogo ad attività agricola (allevamenti di bestiame previsti dall'art. 2135 c. c., intendendosi per bestiame solo i bovini, ovini, caprini, equini e suini, ossia animali da lavoro, carne, latte e lana), o quelli che possono acquistare carattere agrario solo come attività connesse all'agricoltura, se ed in quanto esercitate nell'ambito di un'impresa di coltivazione del fondo, come gli allevamenti degli animali da cortile e le altre attività di allevamento, quali la coniglicoltura, la pollicoltura, l'apicoltura, ecc..
Non vi è alcuna normativa nazionale che escluda l’ubicabilità di allevamenti di animali costituenti industrie nocive ai sensi del D.M. 12/02/1971 all’interno delle aree a destinazione agricola.
L'art. 216 t.u. del 27.07.1934 n. 1265 impone unicamente che le industrie insalubri della prima classe, vale a dire quelle produttive di "vapori, gas o altre esalazioni insalubri" pericolose per la salute umana, tra le quali sono compresi gli allevamenti di bestiame (D.M. citato, lett. C, n. 1), siano "isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni".
La prescrizione normativa nazionale non contiene, tuttavia, alcuna fissazione di distanze minime, consentendo, anzi, che quelle imposte dalla disciplina di legge o di piano regolatore possano in ipotesi essere derogate se venga dimostrato che l'esercizio dell'attività non reca pregiudizi alla salute del vicinato.
Divieti e limitazioni all’istallazione di industrie insalubri (tra cui allevamento zootecnici) in zona agricola possono ben essere previste, tuttavia, negli strumenti urbanistici in sede di pianificazione del territorio.

La prima censura è infondata.
Il Collegio evidenzia innanzitutto come le NTA e la delibera comunale n. 20/2009, diano vita, sia per quanto riguarda la tipologia di attività installabili nell’area, che per quanto riguarda le distanze, a una disciplina di non piana interpretazione, che lascia zone grigie non espressamente disciplinate e fonte di possibile incertezza applicativa.
Detto ciò, il medesimo Collegio osserva che l’art. 17 delle NTA prevede che le zone territoriali omogenee agricole E siano “destinate prevalentemente all'esercizio diretto delle attività agricole ed all'insediamento di nuclei, edifici e attrezzature, necessari appunto all'esercizio di tali attività”… “Tali zone sono destinate alla conduzione del fondo e all’esercizio dell’attività agricola in generale”…. In essa è consentita la costruzione di: …. 6) Impianti per allevamenti zootecnici…”.
Il medesimo articolo successivamente prevede che “dalle zone agricole sono escluse le industrie nocive ai sensi del D.M. 12/02/1971”.
Il Collegio rileva come non sia corretto l’assunto di parte ricorrente che, ai sensi delle NTA, un allevamento intensivo come quello in questione non sia realizzabile in zona agricola, rientrando tra le industrie nocive, in quanto la previsione di cui al punto 6 dell’art. 17 delle NTA –che espressamente contempla la realizzazione di allevamenti zootecnici in zona agricola– si riferirebbe solo agli allevamenti di tipo tradizionale (esclusi dal novero delle industrie nocive), e non a quelli di tipo intensivo assimilabili a impianti industriali.
Osserva in proposito il medesimo Collegio che, in generale, gli allevamenti di animali costituiscono in ogni caso industrie nocive di cui al D.M. 12.02.1971, oggi D.M. 05.09.1994.
L'allevamento avicolo, infatti, è qualificabile come industria insalubre di prima classe, ai sensi dell'art. 216 t.u. leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265 del 1943 e nell'elenco contenuto nel D.M. 05.09.1994, n. 1, lett. c) (Cons. Stato, Sez. V, Sent., 04.09.2013, n. 4409), e ciò indipendentemente dalla sua natura tradizionale o intensiva.
Nella dizione <allevamenti di animali>, classificati tra le industrie insalubri di 1 classe dai d.m. 12.02.1971 e 23.12.1976, sono compresi tutti i tipi di allevamento, anche quelli di tipo “tradizionale” che danno sempre luogo ad attività agricola (allevamenti di bestiame previsti dall'art. 2135 c. c., intendendosi per bestiame solo i bovini, ovini, caprini, equini e suini, ossia animali da lavoro, carne, latte e lana), o quelli che possono acquistare carattere agrario solo come attività connesse all'agricoltura, se ed in quanto esercitate nell'ambito di un'impresa di coltivazione del fondo, come gli allevamenti degli animali da cortile e le altre attività di allevamento, quali la coniglicoltura, la pollicoltura, l'apicoltura, ecc. (TAR Veneto, 08.05.1980, n. 325).
Non vi è alcuna normativa nazionale che escluda l’ubicabilità di allevamenti di animali costituenti industrie nocive ai sensi del D.M. 12/02/1971 all’interno delle aree a destinazione agricola.
L'art. 216 t.u. del 27.07.1934 n. 1265 impone unicamente che le industrie insalubri della prima classe, vale a dire quelle produttive di "vapori, gas o altre esalazioni insalubri" pericolose per la salute umana, tra le quali sono compresi gli allevamenti di bestiame (D.M. citato, lett. C, n. 1), siano "isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni" (TAR Piemonte Torino Sez. II, Sent., 21/02/2009, n. 477; Cons. Stato, Sez. V, 08.06.1998, n. 778).
La prescrizione normativa nazionale non contiene, tuttavia, alcuna fissazione di distanze minime, consentendo, anzi, che quelle imposte dalla disciplina di legge o di piano regolatore possano in ipotesi essere derogate se venga dimostrato che l'esercizio dell'attività non reca pregiudizi alla salute del vicinato (Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6612; sez. V, 13.10.2004, n. 6648).
Divieti e limitazioni all’istallazione di industrie insalubri (tra cui allevamento zootecnici) in zona agricola possono ben essere previste, tuttavia, negli strumenti urbanistici in sede di pianificazione del territorio.
In tal senso l’art. 17 delle NTA del PRG del Comune in questione ha disciplinato l’utilizzo urbanistico delle zone a destinazione agricola in apparente antinomia.
Da un lato, ha infatti, previsto la realizzabilità, in zona a destinazione agricola, di impianti di allevamenti zootecnici, senza porre alcuna limitazione qualitativa o quantitativa.
Dall’altro, ha vietato nella medesima zona l’installazione di industrie nocive (tra cui rientrano gli allevamenti di animali).
L’apparente incongruenza deve essere risolta in termini di rapporto di specialità tra norme, dove le industrie nocive costituiscono la norma generale che disciplina, vietandone l’installazione in zona agricola, la categoria generale delle industrie nocive (produttive di vapori, gas o altre esalazioni insalubri), mentre la previsione della localizzabilità di allevamenti zootecnici nell’ambito della medesima zona si pone in termini di specialità/eccezionalità, prendendo specificamente in esame la species degli allevamenti di animali nell’ambito del più ampio genere delle industrie nocive per consentirne in via d’eccezione la localizzazione in area agricola.
Diversamente opinando, non avrebbe avuto senso prevedere nelle NTA la possibilità di installazione di allevamenti zootecnici a fronte di un divieto generale di localizzazione di industrie nocive.
Né risulta convincente l’interpretazione ipotizzata da parte ricorrente che, come indicato, argomenta il divieto della presenza dalle zone agricole dell’allevamento in questione in base alla previsione della lettera H dell’art. 17 delle NTA, che in riferimento agli allevamenti zootecnici realizzabili in zona agricola, indica i parametri di distanza minima, superficie minima del lotto, indice di fabbricabilità fondiaria, altezza massima e quanto altro “per la costruzione di allevamenti di tipo tradizionale (ossia basati prevalentemente sull'utilizzazione degli elementi della terra) di cui al n° 4 del presente articolo”.
Rileva il Collego come la circostanza che l’art. 17 delle NTA nulla prescriva per gli allevamenti di tipo intensivo, non significa che la previsione della lettera H sia esaustiva rispetto alla tipologia di allevamenti localizzabili in zona a destinazione agricola.
In particolare, la circostanza che la lettera H si limiti a disciplinare le caratteristiche degli allevamenti basati in via prevalente sull'utilizzazione degli elementi della terra di tipo tradizionale non esclude la localizzabilità in zona agricola di quelli di altro tipo.
Né, d’altra parte, è sostenibile che l’ubicazione di un allevamento di tipo intensivo, per la sua assimilabilità ad impianto di tipo industriale, debba trovare naturale collocazione nell’ambito delle aree industriali del PRG comunale.
L’art. 22 delle medesime NTA nel disciplinare le Zone industriali artigianali di tipo D1 non fa alcun cenno agli allevamenti di tipo zootecnico mentre, in caso di localizzazione ripartita tra allevamenti tradizionali e allevamenti intensivi, tale articolo avrebbe ben dovuto disciplinare disponendone l’inserimento in questa destinazione di zona.
Inoltre, l’impianto in questione non avrebbe potuto trovare spazio nell’area a destinazione industriale D1 che espressamente esclude l’installazione di industrie nocive, di talché non appare logica una interpretazione che, sulla base del dato formale della previsione delle NTA (la lettera H) che disciplina solo gli allevamenti tradizionali, intenda dare alle norme un significato che rende impossibile la realizzazione di un impianto di allevamento di tipo intensivo nell’intero territorio comunale, non potendo lo stesso essere localizzato né in zona agricola, né in zona industriale.
L’interpreazione da accogliere , nella pur non chiara formulazione del testo delle NTA, anche al fine di evitare incongruenze e illogicità, è nel senso dell’inesistenza di limitazioni tipologiche nella localizzazione di allevamenti zootecnici in zona agricola.
Tale interpretazione è stata peraltro, quella concretamente adottata nella prassi dall’amministrazione comunale che ha nel tempo autorizzato tutti gli impianti di allevamento avicoli in zona agricola senza operare alcuna distinzione.
La censura va quindi rigettata (TAR Campania, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'interpretazione della norma alla quale accede la giurisprudenza più recente è nel senso di valorizzare il presupposto applicativo della doppia conformità di guisa da escludere cittadinanza alla pur divisata sanatoria giurisprudenziale.
Secondo l’orientamento maggiormente seguito in sede pretoria, infatti, predicare l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 06.06.2001) alle sole violazioni di ordine formale; inoltre si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio.
--------------
Il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni.
I. Il ricorso è infondato.
Viene all’esame del Collegio la questione della legittimità del provvedimento con il quale il Comune di Montoro ha respinto l’istanza di accertamento di conformità avanzata dai ricorrenti per la sanatoria di un fabbricato, sito alla località Macchioni della frazione San Bartolomeo.
Tale atto denegante si fonda sulla seguente testuale motivazione: “la mancanza del lotto minimo di mq. 4.000,00 previsto dalle norme di attuazione del piano regolatore generale; - la destinazione del fabbricato a civili abitazioni in contrasto con le normative vigenti in zona agricola che prevedono la realizzazione di un immobile a servizio di un fondo agricolo con maggiore destinazione d’uso a pertinenza agricola”.
Poiché le ricorrenti, nel corso del procedimento, avevano evidenziato di avere acquistato, con atto di compravendita rep. n. 37680 del 15.12.2012, un’ulteriore consistenza immobiliare al rappresentato fine di conseguire la minimale estensione del lotto, a tal riguardo, nel corredo motivazionale dell’atto impugnato, specificamente si osserva che “Solo successivamente all’accertamento edilizio ed all’emissione dell’ordinanza n. 124 del 14/09/2012, e precisamente in data 15/12/2012, i coniugi G.M. e P.L. hanno acquistato un terreno confinante per raggiungere le dimensioni del lotto minimo”.
I.1. Parte ricorrente contesta la legittimità di tale diniego, assumendo, nell’ambito del primo motivo di ricorso, che la conseguita conformità urbanistica ed edilizia del manufatto alla data (16.01.2014) cui risale l’istanza di sanatoria, attraverso il predetto atto di compravendita di un terreno attiguo (foglio n. 18, part.lle 1671-1673-320), sarebbe sufficiente ai fini del rilascio del sospirato titolo edilizio, ostando il principio della doppia conformità di cui all’art. 36 d.p.r. n. 380/2001 solo nell’ipotesi di variazione peggiorativa della disciplina edilizia ed urbanistica di zona e non anche nell’ipotesi di conformità dell’intervento alla data di rilascio del titolo. Sussisterebbero, in ogni caso, i presupposti per la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, risultando così sufficiente la conformità sopraggiunta dell’intervento al momento della proposizione della domanda.
I rilievi sollevati non colgono nel segno, in quanto trascurano la precisa formulazione del citato art. 36, che così dispone: “1. In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articolo 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
L'interpretazione della norma alla quale accede la giurisprudenza più recente è nel senso di valorizzare il presupposto applicativo della doppia conformità di guisa da escludere cittadinanza alla pur divisata sanatoria giurisprudenziale.
Secondo l’orientamento maggiormente seguito in sede pretoria, infatti, predicare l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 06.06.2001) alle sole violazioni di ordine formale; inoltre si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio (TAR Perugia, sez. I, 03.12.2014, n. 590; TAR Napoli, sez. VIII, 20.03.2014, n. 1690; TAR Aosta-Valle d'Aosta - sez. I, 11.03.2014, n. 13; TAR Firenze-Toscana - sez. III, 27.03.2013, n. 497; Consiglio di Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Il conseguimento del lotto minimo solo in data successiva alla realizzazione del manufatto non integra quindi il presupposto per rilascio del titolo edilizio secondo i due riferimenti temporali normativamente imposti. Né vi sono spiragli per accedere alla lettura restrittiva della norma auspicata in ricorso, non potendosi ricavare dal suo tratto testuale che il requisito della doppia conformità non sia richiesto in assenza di modifiche della disciplina urbanistica intercorse tra i due momenti in cui la verifica di compatibilità deve essere effettuata. Ciò che invariabilmente richiede la norma infatti è che, in relazione a ciascuno di essi, le opere oggetto di sanatoria devono risultare conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente. La censura in esame va quindi disattesa.
I.2. Nemmeno persuade il secondo mezzo, col quale si assume la infondatezza del secondo versante motivazionale, afferente al rilevato contrasto della destinazione d’uso con le normative vigenti in zona agricola, non potendosi condividere quanto auspicato dai ricorrenti nel senso che il rilevato contrasto si sarebbe potuto superare con una semplice prescrizione sul rapporto tra le diverse destinazioni, in quanto, come da costante orientamento della giurisprudenza, la sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 36, per sua stessa natura, non può contenere prescrizioni atte a modificare l’esistente.
Questa stessa Sezione (28.05.2014, n. 1017) ha, infatti, di recente evidenziato che il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni. Ad ogni modo, stante la idoneità del corno motivazionale afferente alla rilevata mancanza del requisito del lotto minimo all’epoca di realizzazione del manufatto a sorreggere la impugnata determinazione, la disamina del motivo in esame diviene superflua.
Costituisce invero “ius receptum” che quando la reiezione di una pretesa vantata dall'interessato si fondi su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna sufficiente a sorreggere la determinazione negativa, il consolidamento anche di uno solo dei motivi di diniego, per la mancata deduzione di censure contro di esso o per l'infondatezza delle relative doglianze, comporta l'inammissibilità delle contestazioni rivolte contro tutti gli altri elementi ostativi. Infatti, laddove un atto sia plurimotivato, ovvero fondato su più profili motivazionali da soli idonei a sorreggerlo, la mancata formulazione di censure avverso una di tali parti motivazionali rende il ricorso inammissibile per difetto di interesse a ricorrere, restando l'atto idoneamente sorretto dal profilo motivazionale non oggetto di impugnativa (TAR Napoli–Campania - sez. VII, 05.12.2014, n. 6377) (cfr. TAR Napoli–Campania - sez. VI, 10.02.2015, n. 978) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che, in virtù dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990 n. 241, come inserito dall'art. 14, comma 1, l. 15/2005, si assiste ad una dequotazione dei vizi formali del provvedimento, e ciò vale anche con riferimento al diaframma procedimentale innescato dal preavviso di diniego.
Questo Tribunale ha già avuto modo di osservare che nel procedimento amministrativo, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento finale, in quanto la disposizione contenuta nell'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

I.3. Va ravvisata l’infondatezza anche del terzo mezzo, col quale si assume la violazione dell’art. 10-bis per difetto di motivazione sulle osservazioni rese a seguito del preavviso di diniego, dovendosi rilevare che nella comunicazione dei motivi ostativi prot. n. 4774 del 07.03.2014 contiene ampie argomentazioni a sostegno del contestato diniego in relazione ai punti valorizzati nella nota dei ricorrenti prot. n. 5621 del 19.03.2014, inerenti alla proporzione tra le destinazioni d’uso delle parti (agricola ed abitativa) del fabbricato. Peraltro, la censura, per il suo carattere formale, non è in grado di inficiare ex se la legittimità dell’atto impugnato, stante la fondatezza del rilievo sollevato dall’amministrazione in ordine alla sopravvenienza del requisito del lotto minimo.
E’ noto infatti che, in virtù dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990 n. 241, come inserito dall'art. 14, comma 1, l. 15/2005, si assiste ad una dequotazione dei vizi formali del provvedimento, e ciò vale anche con riferimento al diaframma procedimentale innescato dal preavviso di diniego.
Questo Tribunale (sez. I, 10.10.2014, n. 1719) ha già avuto modo di osservare che nel procedimento amministrativo, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento finale, in quanto la disposizione contenuta nell'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: - “L'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da una specifica motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, in quanto l'interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi ed al ripristino della legalità è in re ipsa, non ravvisandosi alcun affidamento del privato meritevole di tutela, e non potendosi consentire l'utilizzo libero ed indiscriminato delle facoltà edificatorie sul territorio, soltanto perché le autorità preposte al controllo siano eventualmente intervenute a reprimerle con ritardo”;
- “L'ordine di demolizione delle opere abusive non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto per il quale non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; tale ordine, infatti, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica e ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati”;
- l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto; l'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria;
- “Nella motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica definizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento della medesima inottemperanza”.

II. Nemmeno fondate risultano le censure, per vizi propri, sollevate avverso la susseguente ordinanza demolitoria, in quanto:
- infondata è la censura di cui al quinto mezzo, in ordine al preteso difetto motivazionale, atteso che, come da consolidato orientamento giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, “L'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da una specifica motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, in quanto l'interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi ed al ripristino della legalità è in re ipsa, non ravvisandosi alcun affidamento del privato meritevole di tutela, e non potendosi consentire l'utilizzo libero ed indiscriminato delle facoltà edificatorie sul territorio, soltanto perché le autorità preposte al controllo siano eventualmente intervenute a reprimerle con ritardo” (cfr. TAR Catania–Sicilia - sez. I, 12.03.2015, n. 756);
- parimenti non persuade quanto dedotto col sesto mezzo, in ordine alla pretesa obliterazione del principio del contraddittorio, in quanto, come da convincente insegnamento giurisprudenziale, “L'ordine di demolizione delle opere abusive non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto per il quale non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; tale ordine, infatti, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica e ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati” (cfr. TAR Campobasso–Molise - sez. I, 27.03.2015, n. 141);
- nemmeno coglie nel segno il settimo mezzo, col quale si denuncia la mancata indicazione delle norme urbanistiche violate e la mancata qualificazione dell’abuso, in quanto, come da costante insegnamento giurisprudenziale (TAR Napoli–Campania - sez. VI, 12.03.2015, n. 1521), l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto; l'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria;
- è parimenti infondato l’ottavo ed ultimo motivo di ricorso, circa la mancanza di indicazioni relative alla successiva acquisizione, in quanto, come da preciso insegnamento giurisprudenziale, “Nella motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica definizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento della medesima inottemperanza” (cfr. TAR Napoli–Campania - sez. VI, 10.02.2015, n. 978) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa censura con la quale il ricorrente ritiene applicabili alla vasca di compensazione (della realizzanda piscina) le distanze previste dall’art. 889 c.c. per pozzi, cisterne fossi e tubi deve essere respinta, perché nel caso all’esame il manufatto realizzato si sostanzia nella realizzazione di un opera corrispondente ad un muro di contenimento che ha sopravanzato l’originario profilo della balza del terreno, e in quanto tale deve essere qualificato come una costruzione, dato che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze, “la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera”.
--------------
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’erroneità della considerazione del vano di alloggiamento dei motori (della realizzanda piscina) come idoneo a configurare volume computabile dal punto di vista urbanistico e paesaggistico.
La censura non può essere accolta perché, come osservato dal Comune nelle proprie difese, costituiscono vani tecnici non computabili volumetricamente dal punto di vista urbanistico, le fattispecie indicate dagli strumenti urbanistici, quali il sottotetto, il vano scala, il vano ascensore e il volume delle opere di natura tecnica collocate al di sopra del solaio di copertura, mentre “tutte le strutture tecnologiche di dimensioni rilevanti, che non rientrano nella definizione di volume tecnico, partecipano alla determinazione del volume edificabile o rapporto di copertura per gli edifici produttivi e sono soggette alla normativa sulla edificabilità del P.I.”, e pertanto il vano di alloggiamento dei motori che internamente misura 5,00 m per 1,60, con un’altezza utile pari a 3,90 m, ed è sovrastato da una terrazza, non rientra nel novero delle fattispecie definibili come volumi tecnici non rilevanti ai fini urbanistici.

... per l'annullamento:
- della determina prot. n. 413 del 20/1/2015 notificata il 21/01/2015, emessa dall'Area Tecnica Edilizia Privata e Sportello Unico del Comune di Costermano di rigetto dell'istanza di rilascio di permesso di costruire in variante in sanatoria relativa alla realizzazione di una piscina a servizio di civile abitazione presentata il 28/08/2013 prot. n. 6974, presentata dal sig. H.W.;
- dell'ordinanza n. 4 prot. n. 1701 del 03/03/20105 di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi emessa dall'Area Tecnica Edilizia Privata e Sportello Unico del Comune di Costermano il 04/03/2015.
...
Il ricorrente è il progettista e direttore dei lavori di realizzazione di una piscina privata nello scoperto a servizio di un’abitazione unifamiliare di proprietà del Sig. H.W. nel territorio del Comune di Costermano in area soggetta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico forestale, per la quale è stato rilasciato il permesso di costruire n. 10646 del 28.05.2013.
Il progetto originario prevedeva la realizzazione della piscina alla distanza di m 3,56 dal confine di proprietà all’interno di una balza del terreno e sul lato sud ovest, che fronteggia la proprietà confinante, la realizzazione di un muro di sostegno del preesistente terrapieno di contenimento della balza.
Nel corso degli scavi sono stati riscontrati dei problemi alla staticità dell’immobile a causa dell’eccessiva vicinanza dello scavo all’abitazione.
La piscina è stata quindi traslata in direzione sud ovest, in avvicinamento rispetto alla proprietà confinante.
Rispetto al progetto autorizzato è stata eliminata la vasca di compensazione prevista sul lato nord est della piscina, e la stessa è stata realizzata sul lato sud ovest alla distanza di m 1,16 dal confine, con la funzione di raccolta delle acque che scendono dal bordo della piscina, infine è stato realizzato un vano di alloggiamento dei motori e filtri della piscina non previsto dal progetto, della misura di m 5 per 1,6 e altezza di m. 3,9, sovrastato da una terrazza.
Il 28.08.2013 è stata presentata un’istanza di accertamento di conformità e un’istanza per l’accertamento di compatibilità paesaggistica dei lavori abusivamente realizzati.
Il Comune, con provvedimento prot. n. 413 del 20.01.2015, ha respinto l’istanza di sanatoria e accertamento di compatibilità paesaggistica e, con ordinanza n. 4, prot. n. 1701 del 03.03.2015, ha ordinato la demolizione delle opere e il ripristino dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
La censura con la quale, nell’ambito del primo motivo, il ricorrente deduce che le opere realizzate non soggiacciono alla disciplina delle distanze dai confini perché sono interrate in quanto ricomprese all’interno dell’originaria balza del terreno, è infondata.
Infatti nel caso all’esame la necessità del rispetto delle distanze dai confini emerge già dall’esame dei prospetti redatti dalla stessa parte ricorrente come allegati alla domanda di sanatoria e dalla comparazione il progetto originariamente assentito (cfr. doc. 3b allegato al ricorso) e quello realizzato oggetto dell’istanza di sanatoria e tra lo “stato dei luoghi originale” e “lo stato di sanatoria” (cfr. doc. 4d allegato al ricorso).
Nel realizzare la traslazione della piscina e della vasca di compensazione, è stato operato un avanzamento nel lato sud ovest, verso la proprietà confinante, superando in parte l’originario profilo della balza.
Il progetto originario prevedeva infatti la realizzazione della piscina alla distanza di m 3,56 dal confine di proprietà all’interno di una balza del terreno, e sul lato sud ovest, che fronteggia la proprietà confinante, la realizzazione di un muro di sostegno del preesistente terrapieno di contenimento della balza.
Le opere realizzate, il dato si ricava dalla sovrapposizione delle sezioni relative allo stato di fatto preesistente e alle opere oggetto di sanatoria (cfr. doc. 4d allegato al ricorso), distano invece dal confine circa 2,68 m per quanto riguarda la piscina che, come emerge dal raffronto tra le sezioni A-A dello “stato dei luoghi originale” e dello “stato di sanatoria” in taluni punti è stata realizzata ad un’altezza maggiore a quella originaria della balza, e 1,16 m per quanto riguarda la vasca di compensazione, il che rende evidente che sono state superate le precedenti distanze dal confine con dei manufatti, la vasca di compensazione e la piscina, creati artificialmente oltre l’originario profilo della balza, e che complessivamente emergono dal sottostante vialetto per circa 3,90 m.
Pertanto l’assunto secondo il quale tali opere non dovrebbero soggiacere alla disciplina sulle distanze dai confini perché completamente interrate è infondato.
La censura con la quale il ricorrente ritiene applicabili alla vasca di compensazione le distanze previste dall’art. 889 c.c. per pozzi, cisterne fossi e tubi deve essere respinta, perché nel caso all’esame, come appena evidenziato, il manufatto realizzato si sostanzia nella realizzazione di un opera corrispondente ad un muro di contenimento che ha sopravanzato l’originario profilo della balza del terreno, e in quanto tale deve essere qualificato come una costruzione, dato che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze, “la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (per una fattispecie analoga cfr. Cassazione civile Sez. II 17.06.2011 n. 13389).
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere respinte.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’erroneità della considerazione del vano di alloggiamento dei motori come idoneo a configurare volume computabile dal punto di vista urbanistico e paesaggistico.
La censura non può essere accolta perché, come osservato dal Comune nelle proprie difese, costituiscono vani tecnici non computabili volumetricamente dal punto di vista urbanistico, le fattispecie indicate dagli strumenti urbanistici, quali il sottotetto, il vano scala, il vano ascensore e il volume delle opere di natura tecnica collocate al di sopra del solaio di copertura, mentre “tutte le strutture tecnologiche di dimensioni rilevanti, che non rientrano nella definizione di volume tecnico, partecipano alla determinazione del volume edificabile o rapporto di copertura per gli edifici produttivi e sono soggette alla normativa sulla edificabilità del P.I.”, e pertanto il vano di alloggiamento dei motori che internamente misura 5,00 m per 1,60, con un’altezza utile pari a 3,90 m, ed è sovrastato da una terrazza, non rientra nel novero delle fattispecie definibili come volumi tecnici non rilevanti ai fini urbanistici.
Sono parimenti infondate le censure proposte avverso l’ordinanza di demolizione, di cui al terzo e quinto motivo, con le quali il ricorrente contesta la sanzionabilità dell’abuso con l’ordinanza di demolizione anziché con una sanzione pecuniaria.
Infatti, come sopra evidenziato, nel caso all’esame le opere poste in essere costituiscono una nuova costruzione che comporta una modificazione e trasformazione permanente del territorio, e sono pertanto soggette al rilascio del permesso di costruire (cfr. Tar Campania, Napoli, 06.06.2013, n. 2980; Tar Puglia, Bari, Sez. III, 26.01.2012, n. 245; Consiglio di Stato, Sez. VI 05.03.2013 n. 1316; Consiglio di Stato, Sez. III, 29.04.2003, n. 26197; Cass. pen., Sez. III, 19.03.2014, n. 19444), ricadono in area soggetta a vincolo paesaggistico, e hanno comportato un aumento volumetrico dal punto di vista urbanistico, in violazione delle distanze dai confini.
Pertanto costituiscono opere in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso di costruire rilasciato, per le quali è prevista la demolizione.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 535 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittima l’ordinanza di demolizione ancorché mancante dell'indicazione dell’area di sedime da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale in caso di inottemperanza poiché, conformemente all’indirizzo giurisprudenziale prevalente, deve essere ammessa la predetta indicazione anche in un momento successivo.
Il settimo motivo, con il quale il ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione per la mancata indicazione dell’area di sedime da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale in caso di inottemperanza, deve essere respinta, perché, conformemente all’indirizzo giurisprudenziale prevalente, deve essere ammessa la predetta indicazione anche in un momento successivo (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13; Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.11.2013, n. 5593; Tar Campania, Napoli, Sez. VII, 05.12.2014, n. 6381; Tar Lazio, Roma, Sez. I 19.06.2014, n. 6497) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimità dell'ordine di demolizione laddove non fornisce alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso (52 anni) e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato.
La qualificazione delle riscontrate difformità in termini di variante essenziale (e, dunque, di abuso totale) risulta viziata da difetto di motivazione e di istruttoria.
Risulta dagli atti, invero, che la differenza tra l’edificio licenziato nel 1958 (licenza edilizia n. 13294 del 1958) e l’edificio realizzato consiste soltanto nella maggiore superficie di mq. 3,194 per 2 piani (per un totale di circa mq. 6,55) e nel fatto che il fabbricato è stato costruito in una posizione leggermente diversa da quanto indicato in linea di massima nel progetto (uno spostamento di circa 45 metri).
Il carattere lieve di tali difformità, anche in considerazione del fatto che nel progetto approvato con la licenza edilizia del 1958 mancavano quote o misure che vincolassero l’esatta localizzazione dell’edificio (essendo presenti solo indicazioni di massima), rende immotivata la qualificazione di tali difformità in termini di variante essenziale e, dunque, di abuso totale.
Va, peraltro, rilevato che, anche a ritenere vincolanti le indicazioni (di massima) contenute nel progetto approvato relative alla localizzazione dell’edificio, la fattispecie di indebita traslazione della localizzazione dell’edificio sul lotto è stata introdotta solo con l’art. 8 della legge n. 47 del 1985 (oggi trasporto nell’art. 32, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001), in epoca cioè ampiamente successiva rispetto alla realizzazione dell’intervento oggetto del presente giudizio.
---------------
A ciò deve aggiungersi il notevole lasso temporale trascorso dalla commissione del supposto abuso (risalente alla fine degli anni ’50) e l’adozione del provvedimento di demolizione (avvenuta nel 2010).
Deve, al riguardo ricordarsi come la giurisprudenza, anche quella maggiormente rigorosa nell’affermare che l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell´abuso edilizio ed il protrarsi dell´inerzia dell´amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso tale approdo affermando che “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l´affermazione dell´accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Alla luce di tale orientamento, tenuto conto della limitate entità delle difformità riscontrate e del notevole lasso di tempo trascorso dal supposto abuso, il provvedimento impugnato si appalesa illegittimo laddove non fornisce alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato.

5. L’appello merita accoglimento.
6. Il Comune di Bologna ha ravvisato nella fattispecie in esame una ipotesi di variazione essenziale rispetto al titolo edilizio, rilevando che l’edificio era stato realizzato su un diverso mappale rispetto a quello di progetto, oltre che con difformità rispetto al progetto stesso. Muovendo da tale premessa, il Comune ha ritenuto che le difformità riscontrate dessero luogo ad un abuso totale e, di conseguenza, richiamando l’art. 31 d.P.R. n. 380 del 2011 e l’art. 40 l.r. n. 23 del 2004, ha ordinato la demolizione dell’edificio.
7. La qualificazione delle riscontrate difformità in termini di variante essenziale (e, dunque, di abuso totale) risulta, tuttavia, viziata da difetto di motivazione e di istruttoria.
Risulta dagli atti, invero, che la differenza tra l’edificio licenziato nel 1958 (licenza edilizia n. 13294 del 1958) e l’edificio realizzato consiste soltanto nella maggiore superficie di mq. 3,194 per 2 piani (per un totale di circa mq. 6,55) e nel fatto che il fabbricato è stato costruito in una posizione leggermente diversa da quanto indicato in linea di massima nel progetto (uno spostamento di circa 45 metri).
Il carattere lieve di tali difformità, anche in considerazione del fatto che nel progetto approvato con la licenza edilizia del 1958 mancavano quote o misure che vincolassero l’esatta localizzazione dell’edificio (essendo presenti solo indicazioni di massima), rende immotivata la qualificazione di tali difformità in termini di variante essenziale e, dunque, di abuso totale.
8. Va, peraltro, rilevato che, anche a ritenere vincolanti le indicazioni (di massima) contenute nel progetto approvato relative alla localizzazione dell’edificio, la fattispecie di indebita traslazione della localizzazione dell’edificio sul lotto è stata introdotta solo con l’art. 8 della legge n. 47 del 1985 (oggi trasporto nell’art. 32, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001), in epoca cioè ampiamente successiva rispetto alla realizzazione dell’intervento oggetto del presente giudizio.
9. A ciò deve aggiungersi il notevole lasso temporale trascorso dalla commissione del supposto abuso (risalente alla fine degli anni ’50) e l’adozione del provvedimento di demolizione (avvenuta nel 2010).
Deve, al riguardo ricordarsi come la giurisprudenza, anche quella maggiormente rigorosa nell’affermare che l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell´abuso edilizio ed il protrarsi dell´inerzia dell´amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso tale approdo (Consiglio di Stato sez. V 15/07/2013 n. 3847) affermando che “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l´affermazione dell´accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Alla luce di tale orientamento, tenuto conto della limitate entità delle difformità riscontrate e del notevole lasso di tempo trascorso dal supposto abuso, il provvedimento impugnato si appalesa illegittimo laddove non fornisce alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato.
10. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello deve, pertanto, essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.05.2015 n. 2512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: I Testimoni di Geova pagano la tassa rifiuti.
I testimoni di Geova pagano la tassa rifiuti. L'esenzione dal tributo per gli edifici adibiti al culto è applicabile solo laddove vi sia un'intesa tra la confessione religiosa e lo stato italiano volta regolamentare i rapporti ai sensi dell'articolo 8 della Costituzione.

Ad affermarlo è la Ctr Lombardia, sezione staccata di Brescia, nella sentenza 18.05.2015 n. 2231/67/15.
La vicenda vedeva la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova ricorrere in appello contro una cartella esattoriale Tarsu da 700 euro. Un comune del bergamasco aveva richiesto la tassa rifiuti all'ente, in quanto proprietario di un immobile sito nel proprio territorio.
Secondo la ricorrente, l'articolo 5 del regolamento comunale Tarsu prevedeva l'esenzione «per gli edifici adibiti al culto delle religioni riconosciute dallo stato, limitatamente ai locali destinato all'attività di culto vere e proprie». Così come l'articolo 62 del dlgs n. 507/1993 stabilisce la non imponibilità dei locali «che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati». La Ctp di Bergamo respingeva il gravame con la sentenza n. 128/2/13, sul presupposto che la ricorrente non fosse religione riconosciuta dallo stato italiano.
Da qui l'appello in Ctr, che non trova migliore sorte. Secondo i giudici regionali, il contribuente deve dimostrare «l'esistenza di una intesa con lo stato italiano atta a concretizzare legislativamente l'articolo 8 della Costituzione». Quest'ultimo afferma il principio di eguaglianza delle religioni fra di loro, laddove compatibili con l'ordinamento nazionale. Tuttavia, la norma dispone pure che i rapporti con lo stato «sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze».
Accordi di cui, aggiunge la Ctr bresciana, i testimoni di Geova non hanno dimostrato l'esistenza. La documentazione prodotta in giudizio, tra cui il certificato del ministero dell'interno che attesta lo status di «ente di culto riconosciuto con dpr n. 783/1986», non viene ritenuta sufficiente dal collegio. Da qui la conferma della sentenza appellata e la condanna dell'appellante alle spese di lite (articolo ItaliaOggi del 26.05.2015).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale le norme degli strumenti urbanistici locali che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini non sono derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica.
Le norme sulle distanze di cui all’art. 873 e ss c.c. sono, invece, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e mirano unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose. Esse, in quanto tali, sono suscettibili di deroga mediante convenzione tra privati.
---------------
L’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” va inteso nel senso che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali vanno annoverate le NTA del PRG del Comune, oltre al D.M. 1444/1968.
La giurisprudenza, nel ribadire la natura di norma primaria imperativa dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967), ne ha sancito la prevalenza anche rispetto ad eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione che, per questo, “vengono caducate ed automaticamente sostituite dalla anzidetta disposizione”.

Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente chiarire, da un lato, che le ricorrenti contestano l’applicazione dell’art. 46 NTA del PRG e delle previsioni di al D.M. 1444/1968, dall’altro, che la disposizione del D.M. 1444/1968 che trova indubbia applicazione è quella di cui al secondo comma dell’art. 9, che reca una disciplina specifica delle distanze tra edifici per il caso in cui tra i fabbricati siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli.
Poste tali premesse, è possibile procedere con l’esame delle singole censure.
Con riferimento alla pretesa applicazione della deroga di cui all’art. 879 cc., il Collegio richiama, condividendolo, il consolidato orientamento giurisprudenziale, ai sensi del quale, le norme degli strumenti urbanistici locali, che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini non sono derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica (v. in tal senso, ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.06.2010 n. 4181, Cass. Civ., Sez. II, 31.05.2006, n. 12966).
Le norme sulle distanze di cui all’art. 873 e ss c.c. sono, invece, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e mirano unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose. Esse, in quanto tali, sono suscettibili di deroga mediante convenzione tra privati.
Il fatto che gli edifici progettati confinano con vie pubbliche è pacifico e non contestato dalle ricorrenti, che anzi richiamano tale circostanza proprio al fine di rivendicare l’applicazione della previsione di cui all’art. 879 c.c..
Il diniego opposto all’istanza rileva distanze irregolari dalla viabilità di Via Marconi e Via Cortese.
In realtà, se ciò può valere ad escludere il rispetto delle distanze codicistiche (artt. 873, 878 e 879, comma secondo, codice civile), non può arrivare a far superare l’obbligo di rispetto delle distanze imposte da leggi e da regolamenti urbanistici (cfr. Cass. Civile II, 16.04.2007 n. 9077).
L’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” va inteso nel senso che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali vanno annoverate le NTA del PRG del Comune di Bari, oltre al D.M. 1444/1968 (in tal senso TAR Piemonte, sez. I, sent. 1034 del 13.06.2014, TAR Palermo,sez. III n. 2049, del 17/10/2012).
La giurisprudenza, nel ribadire la natura di norma primaria imperativa dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967), ne ha sancito la prevalenza anche rispetto ad eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione che, per questo, “vengono caducate ed automaticamente sostituite dalla anzidetta disposizione” (Così Cons. Stato, Sez. IV, sent. 7731 del 02.11.2010).
Nel caso in esame, tuttavia, non si rinvengono contrasti fra le NTA del PRG del Comune di Bari, in particolare la disposizione di cui all’art. 46, e l’art. 9 D.M. 1444/1968, risultando, piuttosto, il ricorso teso ad escludere l’applicabilità di entrambe le previsioni al progetto edilizio oggetto di istanza di permesso di costruire.
Né, per le medesime ragioni, assume rilievo la previsione inserita con il Decreto c.d. “del Fare” (D.L. 21.06.2013 n. 69 convertito, con modificazioni, dalla L. 09.08.2013, n. 98) che ha introdotto all’interno del Testo Unico dell’Edilizia l’art. 2-bis il quale prevede che “ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
Le ricorrenti, infatti, come già evidenziato, rivendicano l’applicazione della deroga di cui all’art. 879 c.c. e, più specificamente, delle deroghe alla disciplina delle distanze, non rinvenibili nel caso in esame, avendo il Comune resistente inteso, piuttosto, applicare l’art. 46 NTA del PRG, in senso conforme alle previsioni di cui all’art. 9 del D.M. 1444/1968 (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 14.05.2015 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE’ ormai consolidata in giurisprudenza la configurabilità di una responsabilità precontrattuale anche della pubblica amministrazione, perché anche su di essa grava l’obbligo sancito dall’art. 1337 Cod. civ. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative.
Pertanto, se durante la fase formativa del contratto la pubblica amministrazione viola quel dovere di lealtà e di correttezza, ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l’affidamento della controparte (anche colposamente, perché non occorre un particolare comportamento di malafede, né la prova dell’intenzione di arrecare pregiudizio all’altro contraente) in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale.
La responsabilità precontrattuale non discende infatti dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della pubblica amministrazione e dalla cui violazione discende l’illegittimità dell’atto. Essa, al contrario, deriva dalla violazione delle regole comuni (in particolare del principio generale di buona fede in senso oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ..) che trattano del "comportamento" precontrattuale, ponendo in capo alla pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali.
Invero, nello svolgimento della sua attività di ricerca del contraente l’Amministrazione è tenuta non soltanto a rispettare le norme dettate nell’interesse pubblico (la cui violazione implica l’annullamento del provvedimento ed una eventuale responsabilità da attività provvedimentale illegittima), ma anche le norme generali sulla correttezza di cui all’art. 1337 Cod. civ. prescritte dal diritto comune (la violazione delle quali fa nascere appunto la responsabilità precontrattuale).
Da qui l’ordinaria possibilità che una responsabilità precontrattuale sussista nonostante la legittimità del provvedimento.
Del resto, come la giurisprudenza ha ulteriormente chiarito, la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
Nei casi di responsabilità precontrattuale propriamente detti, infatti, ciò che il privato lamenta è la lesione della sua corretta autodeterminazione negoziale.
Questa, del resto, è anche la ragione per la quale, in caso di responsabilità precontrattuale da ingiustificato recesso dalla trattative (nel cui ambito si inquadra la vicenda in esame, in cui viene in rilievo la revoca degli atti di gara), il danno è commisurato non al c.d. interesse positivo (ovvero alle utilità economiche che il privato avrebbe tratto dall’esecuzione del contratto), ma al c.d. interesse negativo, da intendersi, appunto, come interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, a non investire inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a trattative destinate poi a rivelarsi del tutto inutili.
La giurisprudenza è, dunque, concorde nell’affermare che, ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, non si deve tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art. 1337 c.c. (da ultimo, Consiglio di Stato n. 3831/2013; Consiglio di Stato n. 633/2013, che estende la tutela anche al caso di revoca legittima degli atti di una procedura di aggiudicazione di un appalto di lavori per sopravvenuta indisponibilità delle risorse finanziarie).

6.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento, alla stregua delle considerazioni che seguono. Gioverà preliminarmente una sintetica ricostruzione del quadro esegetico.
6.a.- E’ ormai consolidata in giurisprudenza la configurabilità di una responsabilità precontrattuale anche della pubblica amministrazione, perché anche su di essa grava l’obbligo sancito dall’art. 1337 Cod. civ. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative.
Pertanto, se durante la fase formativa del contratto la pubblica amministrazione viola quel dovere di lealtà e di correttezza, ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l’affidamento della controparte (anche colposamente, perché non occorre un particolare comportamento di malafede, né la prova dell’intenzione di arrecare pregiudizio all’altro contraente) in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale.
La responsabilità precontrattuale non discende infatti dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della pubblica amministrazione e dalla cui violazione discende l’illegittimità dell’atto. Essa, al contrario, deriva dalla violazione delle regole comuni (in particolare del principio generale di buona fede in senso oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ..) che trattano del "comportamento" precontrattuale, ponendo in capo alla pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali.
Invero, nello svolgimento della sua attività di ricerca del contraente l’Amministrazione è tenuta non soltanto a rispettare le norme dettate nell’interesse pubblico (la cui violazione implica l’annullamento del provvedimento ed una eventuale responsabilità da attività provvedimentale illegittima), ma anche le norme generali sulla correttezza di cui all’art. 1337 Cod. civ. prescritte dal diritto comune (la violazione delle quali fa nascere appunto la responsabilità precontrattuale) (cfr. in questi termini Cons. Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6).
Da qui l’ordinaria possibilità che una responsabilità precontrattuale sussista nonostante la legittimità del provvedimento.
Del resto, come la giurisprudenza ha ulteriormente chiarito (cfr. Cass., SS.UU., 12.05.2008, n. 11656), la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
Nei casi di responsabilità precontrattuale propriamente detti, infatti, ciò che il privato lamenta è la lesione della sua corretta autodeterminazione negoziale.
Questa, del resto, è anche la ragione per la quale, in caso di responsabilità precontrattuale da ingiustificato recesso dalla trattative (nel cui ambito si inquadra la vicenda in esame, in cui viene in rilievo la revoca degli atti di gara), il danno è commisurato non al c.d. interesse positivo (ovvero alle utilità economiche che il privato avrebbe tratto dall’esecuzione del contratto), ma al c.d. interesse negativo, da intendersi, appunto, come interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, a non investire inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a trattative destinate poi a rivelarsi del tutto inutili.
La giurisprudenza è, dunque, concorde nell’affermare che, ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, non si deve tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art. 1337 c.c. (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 15.07.2013 n. 3831; Consiglio di Stato, sez. VI, 01.02.2013 n. 633, che estende la tutela anche al caso di revoca legittima degli atti di una procedura di aggiudicazione di un appalto di lavori per sopravvenuta indisponibilità delle risorse finanziarie).
Alla luce del riferito quadro giurisprudenziale, appare agevole lo scrutinio del ricorso in esame (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.05.2015 n. 981 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Condizionatori non condizionati. Sì all'uso di parti comuni, ma no agli impianti rumorosi. I principi contenuti in due sentenze della Cassazione. Restano i limiti generali.
Per l'installazione dei condizionatori si possono anche utilizzare le parti comuni dello stabile condominiale e il fatto che l'impianto sia visibile dalla sede stradale non implica di per sé lesione del decoro architettonico dell'edificio. Occorre invece avere maggiore attenzione nel valutare l'impatto acustico del manufatto, con particolare riguardo al rumore avvertito dai condomini che abitano nelle vicinanze del medesimo, essendo necessario tenere conto delle effettive condizioni del luogo interessato e non limitarsi alla semplice verifica del rispetto del limite dei 3 decibel fissato dalla normativa sull'inquinamento acustico. Con l'arrivo dell'estate si ripropongono quindi le tradizionali diatribe tra condomini relativamente al posizionamento degli impianti di condizionamento dell'aria sulle parti comuni.

Con due recenti pronunce (sentenza 04.05.2015 n. 8857 e sentenza 12.05.2015 n. 9660) la II Sez. civile della Corte di Cassazione è intervenuta a chiarire alcuni aspetti che contribuiscono a definire il quadro di un equo contemperamento degli opposti interessi dei condomini.
In primo luogo i giudici di legittimità hanno nuovamente evidenziato come sia del tutto legittimo per il condomino che intenda raffrescare l'aria del proprio appartamento utilizzare le parti comuni dell'edificio. Questo comportamento, infatti, costituisce niente altro che attuazione del diritto che ogni condomino ha di utilizzare le parti comuni, anche per trarne un maggiore godimento rispetto agli altri (art. 1102 c.c.).
In particolare la Suprema corte ha puntualizzato come la tutela dell'uso paritetico del bene comune debba essere applicata nell'ottica dell'utilizzo concreto che del medesimo ragionevolmente faranno gli altri condomini e non anche dell'identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta gli stessi ne potrebbero fare.
Dal punto di vista del decoro architettonico, invece, è stato osservato come lo stesso possa dirsi leso soltanto laddove la realizzazione di un'opera che muti anche un singolo aspetto o elemento del fabbricato sia tale da riflettersi negativamente sull'insieme dell'aspetto dello stabile. Detto vulnus all'uniformità architettonica deve poi a maggior ragione escludersi nel caso in cui risultino ulteriori e precedenti interventi sull'edificio che abbiano portato all'inserimento di nuovi elementi (antenne, altri condizionatori ecc.).
Interessanti, poi, le considerazioni dei giudici di legittimità in merito alla valutazione delle immissioni rumorose derivanti da questo genere di impianti. La Suprema corte, infatti, nel cassare sul punto una delle sentenze impugnate, ha chiarito come non si possa affermare in via generale che il rispetto del limite dei 3 decibel fissato dalla normativa sull'inquinamento acustico valga di per sé a rendere lecita l'immissione, poiché detto limite riguarda più propriamente la tutela della quiete pubblica.
Laddove, al contrario, il giudice civile sia chiamato a verificare il disturbo arrecato al singolo proprietario confinante con il manufatto dal quale si genera il rumore, diventa necessario verificare in concreto lo stato dei luoghi, al fin di valutare la tollerabilità o meno dell'immissione.
---------------
Il regolamento condominiale può vietare espressamente l'installazione.
L'installazione di un condizionatore all'interno di un appartamento rappresenta, dal punto di vista tecnico, un'operazione semplice. Si consideri, infatti, che gli attuali impianti sono generalmente costituiti da due corpi: uno da posizionare all'interno della proprietà e l'altro (il motore) all'esterno.
La collocazione di quest'ultimo elemento non presenta particolari problemi se il condomino dispone di un ampio terrazzo e/o giardino o, in alternativa, di un balcone sufficientemente ampio da poterlo contenere. Quando, al contrario, sorge la necessità di installare il motore all'esterno, per esempio sulla facciata del caseggiato, la questione diventa più complessa, perché vengono coinvolti gli interessi, spesso contrastanti, degli altri condomini.
- Installazione di condizionatori nelle parti comuni: la comunicazione all'amministratore. In via generale, ogni condomino può eseguire, nella porzione di sua proprietà esclusiva, tutte le opere che ritiene opportune, purché non siano anche solo potenzialmente capaci di arrecare un danno alle parti comuni dell'edificio.
L'installazione del corpo motore in facciata in genere non crea particolari problemi di statica e sicurezza per l'edificio, ma può determinarne la lesione del c.d. decoro architettonico. Tale situazione ricorre per esempio se viene installato il compressore di un condizionatore d'aria sulla facciata condominiale in posizione sporgente e perpendicolare sopra uno degli ingressi condominiali e senza alcun consenso dell'assemblea (soprattutto se il fabbricato ha struttura e linee architettoniche residenziali ed è inserito in un ambito paesaggistico protetto).
Per evitare possibili conflitti sarebbe quindi consigliabile che il condomino che intende installare tali apparecchi, prima di dare l'avvio ai lavori, si facesse carico di avvisare preventivamente l'amministratore. Quest'ultimo, a sua volta, dovrebbe sottoporre la questione all'assemblea e spiegare ai condomini che non si può impedire l'installazione dell'impianto ove non sia alterata la destinazione della facciata o di altra parte comune e non sia impedito agli altri partecipanti di fare ugualmente uso degli spazi condominiali.
L'assemblea, però, potrà legittimamente rifiutare il placet preventivo al condomino che, per esempio, voglia occupare una rilevante porzione del muro perimetrale con un motore di dimensioni mastodontiche, impedendo così agli altri condomini ogni possibilità di utilizzare ugualmente la facciata (per installare un altro condizionatore, una targa, una tubazione ecc.).
- I limiti del regolamento di condominio. Ove una norma del regolamento condominiale vieti espressamente l'installazione di condizionatori in facciata, il singolo condomino non può che attenersi a tale disposizione che, però, è valida solo se contenuta in un regolamento predisposto dal costruttore del caseggiato (c.d. contrattuale) e sia stata accettata dai singoli acquirenti degli appartamenti nei relativi atti di acquisto oppure sia stata deliberata dalla totalità dei condomini in sede di approvazione del c.d. regolamento assembleare. Questo significa che il singolo condomino non può installare un condizionatore in facciata nemmeno se è stato autorizzato dall'assemblea con una delibera approvata a maggioranza.
- Il problema del rumore. Per l'installazione dei condizionatori non è richiesto il rispetto delle norme di legge in tema di distanze: il manufatto può occupare parte del muro perimetrale della proprietà del vicino (o essere sistemato in adiacenza della proprietà del condomino limitrofo).
Tuttavia l'impianto non può comportare immissioni intollerabili in direzione della proprietà degli altri condomini vicini, dovendosi cioè evitare la fuoriuscita rilevante di vapore e acqua calda o la produzione di rumori insopportabili.
Per quanto riguarda il rumore, la giurisprudenza ritiene violato il limite della normale tollerabilità delle immissioni acustiche allorché sul luogo che subisce le immissioni si riscontri un incremento dell'intensità del livello medio del rumore di fondo di oltre 3 decibel.
-
Condizionatore e sanzioni penali. Chi abita in un condominio deve comunque controllare che il proprio condizionatore non sia troppo rumoroso, perché in caso di superamento dei limiti imposti dalla legge si rischia non solo un'azione giudiziaria civile per danni, ma anche di essere coinvolti in un processo penale che si può concludere con una condanna per disturbo al riposo delle persone (art. 659 codice penale).
In particolare, secondo i giudici, ricorre tale situazione quando è dimostrato che i condizionatori determinano un rumore tale da poter disturbare il riposo e le occupazioni di un numero indeterminato di persone, anche se una sola di esse si sia in concreto lamentata.
- Le limitazioni contenute nei regolamenti edilizi comunali. Prima di installare un impianto sul muro condominiale è anche importante verificare che non ci siano limitazioni nei regolamenti comunali: questi ultimi, infatti, possono prevedere che detti impianti siano collocati sulla copertura degli edifici oppure lungo facciate interne o secondarie oppure che, se installati su facciate poste nei pressi di strade principali, gli stessi siano dipinti in un colore uguale a quello della facciata (articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015).

LAVORI PUBBLICI: La pubblica amministrazione deve tenere un comportamento corretto in tutte le fasi della procedura pubblica che portano al consenso contrattuale e informare il contraente privato di tutte le circostanze che potrebbero determinare l’invalidità o l’inefficacia del contratto. Se ciò non avviene sussiste responsabilità precontrattuale in capo all’ente pubblico.
Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto sussistente la responsabilità della stazione appaltante che in seguito a licitazione privata, aveva stipulato un importante contratto di appalto con una società di costruzioni chiedendo la consegna immediata dei lavori per ragioni di urgenza, salvo poi sospenderli dopo 17 mesi perché la Corte dei conti aveva negato la registrazione, rendendo il contratto inefficace.

Il motivo e’ fondato.
2.1.- E’ necessario considerare che la responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione, contrariamente a quanto trapela dalla sentenza impugnata, non è responsabilità da provvedimento, ma da comportamento, e presuppone la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto (v. Cons. di Stato, sez. 4, n. 790/2014, in caso di revoca legittima degli atti della procedura di gara), sicché non rileva la legittimità dell’esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo di aggiudicazione o in altri provvedimenti successivi, ma la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto. La ragione dell’evoluzione della giurisprudenza in tal senso, con una piena equiparazione dell’Amministrazione ad ogni contraente privato, si spiega considerando che tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica si pongono quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale.
Ad analoga conclusione è pervenuta questa Corte che ha ammesso la responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione, prima e a prescindere dall’aggiudicazione, anche nell’ambito del procedimento strumentale alla scelta del contraente, nel quale essa instaura trattative (multiple o parallele) idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici specifici e differenziati nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti ed è, quindi, tenuta al rispetto dei principi generali di comportamento (di cui agli articoli 1337 e 1338 c.c.) posti a tutela degli interessi delle parti (v. Cass. n. 15260/2014, che ha superato il precedente orientamento espresso, ad esempio, da Cass. n. 477/2013, n. 12313/2005, sez. un. n. 4673/1997; anche secondo Cons. di Stato, sez. IV, n. 1142/2015, “il rispetto dei principi di cui agli articoli 1337 e 1338 c.c., non può essere circoscritto al singolo periodo successivo alla determinazione del contraente”).
La Corte d’appello, alla quale era stato chiesto di valutare la correttezza complessiva del comportamento dell’Amministrazione committente, avuto riguardo al rispetto dei principi di buona fede e correttezza (articoli 1337 e 1338 c.c.), si è limitata a rilevare la legittimità formale degli atti della procedura di licitazione privata, ma tale risposta è evidentemente inadeguata perché contrastante con il seguente principio di diritto: la responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione, anche nell’ambito della procedura pubblicistica di scelta del contraente, non è responsabilità da provvedimento, ma da comportamento e presuppone la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto; pertanto, non rileva la legittimità dell’esercizio della funzione pubblica espressa nel provvedimento amministrativo di aggiudicazione e in altri provvedimenti successivi (anche emessi in autotutela), ma la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, poiché tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica si pongono quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale.
2.2.- Una simile evoluzione del formante giurisprudenziale rafforza la conclusione cui da tempo è pervenuta questa Corte che ha ritenuto configurabile la responsabilità precontrattuale della P.A. in presenza di una relazione specifica tra soggetti che è possibile, anche nell’ambito della procedura amministrativa di scelta del contraente, a seguito dell’aggiudicazione, ad esempio nel caso di omessa redazione del contratto formale senza giustificazione e, a maggior ragione, quando –come nella specie– sia stato stipulato il contratto, nel caso di omessa trasmissione dello stesso all’autorità di controllo (v. Cass. n. 2255/1987) e quando l’Amministrazione abbia preteso l’adempimento della prestazione prima dell’approvazione del contratto da parte dell’autorità di controllo, comportamento questo che è suscettibile di dar luogo, ove l’approvazione non sia intervenuta, a responsabilità precontrattuale, in considerazione dell’affidamento ragionevolmente ingenerato nell’altra parte (v. Cass. n. 23393/2008, n. 3383/1981, n. 3008/1968; quest’ultima sentenza, pur avendo affermato che l’Amministrazione non è tenuta a rispondere dell’attività direttamente svolta dall’organo di controllo, l’ha ritenuta responsabile per non avere comunicato tempestivamente la mancata approvazione di una sua delibera e per avere sollecitato la prestazione del privato).
La sentenza impugnata ha omesso di indagare sulle ragioni che avevano indotto la Corte dei conti a formulare osservazioni sulle scelte tecniche di realizzazione dell’opera e, soprattutto, ha omesso di dare il necessario rilievo alla consegna anticipata dei lavori in via d’urgenza e, quindi, all’impegno organizzativo e di spesa posto a carico dell’impresa per l’esecuzione di un contratto rivelatosi poi ineseguibile per la mancata registrazione del decreto di approvazione del contratto.
In tal modo ha trascurato che la Pubblica Amministrazione, in pendenza del procedimento di controllo ed approvazione del contratto stipulato con il privato e in osservanza dell’obbligo generale di comportamento secondo correttezza e buona fede, deve tenere informato l’altro contraente delle vicende attinenti al procedimento di controllo, in modo che questi sia posto in grado di evitare i pregiudizi connessi agli sviluppi e ai tempi dell’indicato procedimento, a prescindere dagli strumenti di tutela spettanti al privato a seguito dell’eventuale esito negativo del controllo (recesso e rimborso delle spese sostenute) (v. Cass., sez. un., n. 5328/1978).
Del resto, un riconoscimento del legittimo affidamento dell’appaltatore (per avere dovuto iniziare l’esecuzione del contratto prima della sua approvazione) era già espresso nell’articolo 337, secondo comma, della legge 20.03.1865 n. 2248, all. F, che gli riconosceva il diritto alla reintegrazione nelle spese per i lavori eseguiti qualora l’approvazione non fosse poi intervenuta.
Il principio di diritto, cui la Corte d’appello dovrà attenersi in sede di rinvio, è il seguente: nel caso in cui, all’esito della procedura di evidenza pubblica, sia stipulato il contratto la cui efficacia sia condizionata all’approvazione da parte dell’autorità di controllo (nella specie, alla registrazione del decreto di approvazione da parte della Corte dei conti), l’Amministrazione committente ha l’obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza (articoli 1337 e 1338 c.c.), cioè di tenere informato l’altro contraente delle vicende attinenti al procedimento di controllo e di fare in modo che non subisca i pregiudizi connessi agli sviluppi e all’esito del medesimo procedimento, essendo in condizioni di farlo, in ragione del suo status professionale nel quale è implicita una posizione di garanzia nei confronti di coloro che si rapportano ad essa; l’Amministrazione è quindi responsabile qualora, avendo preteso l’anticipata esecuzione della prestazione, abbia accettato il rischio del successivo mancato avveramento della condizione di efficacia del contratto a causa della mancata registrazione del decreto di approvazione, in tal modo frustrando il legittimo e ragionevole affidamento del privato nella eseguibilità del contratto.
2.3.- Nel ragionamento della Corte romana si sente l’eco del tradizionale principio che esclude la configurabilità di una responsabilità dell’Amministrazione, a norma dell’articolo 1338 c.c., per non avere informato l’altra parte di una causa di invalidità o inefficacia del contratto di cui debba presumersi la conoscenza e conoscibilità con l’uso della normale diligenza, a causa della mancanza del visto ministeriale necessario ex lege per quella registrazione, ovvero della stessa natura legale della condicio juris di cui si tratta (la registrazione del decreto di approvazione del contratto da parte della Corte dei conti). Questo principio merita una rimeditazione.
Si e’ dato conto (nel precedente p. 2.1.) dell’esito finale di un lungo percorso che, a partire dagli anni sessanta dello scorso secolo (v., tra le prime pronunce, Cass. n. 1142/1963), ha condotto la giurisprudenza di legittimità a riconoscere che le deroghe alla disciplina privatistica stabilite dalla legge di contabilità di Stato non giustificavano l’esenzione da responsabilità della Pubblica Amministrazione, la quale (prima di essere configurabile, in casi sempre meno numerosi, come pubblico potere) è un soggetto di diritto comune e, in quanto tale, anch’essa soggetta agli obblighi generali di comportamento di buona fede e correttezza.
Il lento incedere della responsabilità dell’Amministrazione in ambito precontrattuale, tuttavia, secondo una parte della dottrina, non può dirsi completato, come dimostrato dalla rigida interpretazione dell’articolo 1338 c.c., che impone alla parte che “conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa d’invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte” di “risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto”.
In effetti, la giurisprudenza di questa Corte ha escluso la responsabilità della P.A., per omessa informazione, in presenza di invalidità derivanti dall’affidamento di un contratto a trattativa privata anziché con il metodo della licitazione privata (v. Cass. n. 11135/2009), dalla mancanza dei requisiti per partecipare alla gara conclusasi con l’aggiudicazione annullata in sede giurisdizionale (v. Cass. n. 7481/2007), dal difetto di forma scritta del contratto (v., tra le altre, Cass. n. 4635/2006), dall’incommerciabilità della res (v. Cass. n. 1987/1985), dal fatto che il prezzo di cessione in proprietà di alloggio economico e popolare sia inferiore a quello determinabile per legge (v. Cass., sez. un., n. 835/1982), ecc..
E’ costante l’affermazione secondo cui la responsabilità prevista dall’articolo 1338 c.c., a differenza di quella di cui all’articolo 1337, tutela l’affidamento di una delle parti non nella conclusione del contratto, ma nella sua validità, sicché non è configurabile una responsabilità precontrattuale della P.A. ove l’invalidità del contratto derivi da norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati e, quindi, tali da escludere l’affidamento incolpevole della parte adempiente (v. Cass. n. 7481/2007, n. 4635/2006).
Tale principio e’ estensibile alle cause di inefficacia del contratto (v. Cass. n. 16149/2010), tra le quali rientra la mancata approvazione del contratto stipulato da una P.A., nei cui confronti è configurabile la responsabilità “in applicazione analogica dei principi fissati dall’articolo 1338 c.c.” (v. Cass., sez. un., n. 5328/1978).
Nell’interpretazione della norma in esame è necessario verificare cosa si intenda per “norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati”, posto che qualunque norma di legge, imperativa o proibitiva che sia o “avente efficacia di diritto obiettivo” (Cass. n. 4635/2006), dovrebbe o potrebbe essere conosciuta da chiunque per presunzione assoluta, nel qual caso l’articolo 1338 c.c. sarebbe facilmente fuori gioco.
Si è osservato in dottrina che il riferimento al principio ignorantia legis non excusat (la cui assolutezza, peraltro, è venuta meno in seguito a Corte costit. n. 364/1988) sarebbe improprio in questa materia, dal momento che il contraente non evidenzia la propria ignoranza al fine di evitare la produzione degli effetti ricollegati dall’ordinamento alla mancata osservanza della norma di legge (visto che non è in discussione la invalidità o inefficacia del contratto), ma agisce soltanto per il risarcimento del danno conseguente alla violazione dell’obbligo di informazione che è posto dalla legge a carico dell’altra parte. E si è anche rilevato, seppure con riferimento ad ipotesi previste dalla legge a fini diversi, che l’ordinamento attribuisce rilievo all’errore di diritto che abbia inficiato la volontà del contraente quando sia stato essenziale (articolo 1429 c.c., n. 3) e riconoscibile e lo tutela con l’annullamento del contratto nel suo interesse.
A queste serie obiezioni si è replicato osservando che è lo stesso articolo 1338 c.c. a riconoscere il risarcimento del danno in favore della parte che abbia confidato “senza sua colpa” nella validità del contratto. La parte che è in colpa perché a conoscenza della invalidità o inefficacia del contratto, non può addossare alla controparte il danno (quantomeno per l’intero) che è conseguenza del proprio comportamento, alla luce di un principio generale desumibile anche dall’articolo 1227 c.c., comma 1.
E’ invero evidente che, estendendo eccessivamente il dovere di diligenza a carico della parte che dovrebbe ricevere l’informazione circa la causa di invalidità o inefficacia del contratto, sarebbero compromessi lo scopo e l’utilità dell’articolo 1338 c.c. che non è norma meramente ripetitiva dell’articolo 2043, né dell’articolo 1337 c.c., il quale, obbligando le parti a comportarsi secondo buona fede, già impone loro implicitamente di rendersi reciprocamente le informazioni necessarie per pervenire alla conclusione di un contratto che sia eseguibile.
L’articolo 1338 c.c., pone, invece, significativamente a carico di una sola delle parti, cioè di quella che, in ragione delle circostanze di fatto e tenuto conto della sua posizione sociale o professionale, conosca o debba conoscere l’esistenza di una causa di invalidità o inefficacia, l’obbligo specifico di informare l’altra parte, la quale ha diritto a ricevere l’informazione e, in mancanza, al risarcimento del danno per avere ragionevolmente confidato nella validità ed efficacia del contratto.
La parte obbligata ha la facoltà di dimostrare che l’altra parte aveva confidato nella validità del contratto colpevolmente e non “senza sua colpa” (come richiesto dall’articolo 1338), ma dovrà dedurre fatti e circostanze specifiche che dimostrino che, in quel determinato rapporto, fosse effettivamente a conoscenza della causa che viziava il contratto concluso o da concludere.
Non si esclude la possibilità di desumere tale conoscenza dal tipo di invalidità o inefficacia e, in definitiva, dalla natura della norma violata, ma non e’ possibile riconoscerla automaticamente rispetto a qualunque norma “avente efficacia di diritto obiettivo” (Cass. n. 4635/2006) che, in tesi, sarebbe conoscibile dalla generalità dei cittadini e, quindi, da qualunque potenziale contraente, al fine di escludere la responsabilità dell’altra parte che aveva l’obbligo legale di informare.
Altrimenti, l’articolo 1338 c.c. verrebbe privato della sua principale funzione che è di compensare l’asimmetria informativa nelle contrattazioni tra parti che non sono su un piano di parità, come avviene nei rapporti con la Pubblica Amministrazione.
E ciò non soltanto in ragione del fatto che la procedura di evidenza pubblica è da essa governata sulla base dell’esercizio di poteri previsti da norme di azione tradotte nella lex specialis della gara, ma anche in ragione dello status professionale e del bagaglio di conoscenze tecniche ed amministrative di cui essa è in possesso (è significativo che la giurisprudenza amministrativa abbia talora valutato la colpa della P.A. con riferimento al criterio di imputazione soggettiva della responsabilità del professionista di cui all’articolo 2236 c.c., introducendo un parametro di imputazione del danno riferito al grado di complessità delle questioni implicate dall’esecuzione della prestazione, v. Cons. di Stato, sez. 5 , n. 1300/2007; sez. 4 , n. 5500/2004).
Pertanto, il principio ignorantia legis non excusat, in materia contrattuale, non ha un valore generale e assoluto dal quale si possa desumere in modo incondizionato e aprioristico l’inescusabilità dell’ignoranza dell’invalidità contrattuale che trovi fondamento (come di regola) in norme di legge, dovendosi piuttosto indagare caso per caso sulla diligenza e, quindi, sulla scusabilità dell’affidamento del contraente, avendo riguardo non solo (e non tanto) alla conoscibilità astratta della norma, ma anche all’esistenza di interpretazioni univoche della stessa e, soprattutto, alla conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l’invalidità.
Infatti, come notato da autorevole dottrina, il contraente che ignori una norma di legge o intenda sottrarsi alla sua osservanza si trova in una situazione ben diversa dal contraente che, eventualmente in presenza di interpretazioni non univoche della giurisprudenza, credeva che la fattispecie concreta fosse tale da non rientrare nella previsione legale d’invalidità a lui nota.
In tale secondo caso, l’astratta conoscibilità della norma non dimostra necessariamente che il privato sia in colpa, specialmente quando questi contragga con un’Amministrazione che non solo rimanga silente, ma improvvidamente conduca il procedimento sino alla stipulazione di un contratto destinato ad essere caducato o a rimanere inefficace e talora ne pretenda l’anticipata esecuzione, in tal modo frustrando il suo legittimo affidamento nell’eseguibilità dello stesso e nella legalità dell’azione amministrativa.
In altri termini, l’astratta conoscenza della norma non è elemento decisivo per la percezione –che rileva ai fini applicativi dell’articolo 1338 c.c.– della invalidità o inefficacia del contratto, per la quale spesso si richiede la necessaria cooperazione dell’altro contraente, il quale è tenuto a comunicare le circostanze di fatto cui la legge ricollega la invalidità o inefficacia, quando ne sia (o ne debba essere) informato in ragione delle sue qualità professionali o istituzionali e, in mancanza, non può sfuggire alla responsabilità per culpa in contraendo.
L’obbligo del clare loqui, e cioè di comunicare alle parti tutte le cause di invalidità negoziale di cui abbia o debba avere conoscenza, e’ imposto all’Amministrazione –anche in ragione della sua funzione istituzionale di rappresentanza e, quindi, di protezione degli interessi di coloro che entrano in rapporti con essa– non solo nell’ambito del procedimento di formazione del contratto secondo il modulo privatistico della trattativa privata, ma anche nel procedimento di evidenza pubblica, a tutela dell’affidamento delle imprese concorrenti nel rispetto delle prescrizioni della lex specialis.
Proprio in tale ottica, nel caso di annullamento dell’aggiudicazione con caducazione del contratto (fenomeno assimilabile alla mancata registrazione da parte della Corte dei conti), la giurisprudenza amministrativa ha ammesso la tutela dell’imprenditore che, a norma dell’articolo 1338 c.c., abbia fatto legittimo affidamento nell’aggiudicazione dell’appalto e nella successiva stipulazione del contratto e che abbia ignorato, senza sua colpa, una causa di invalidità, con conseguente responsabilità dell’Amministrazione appaltante per non essersi astenuta dalla stipulazione del negozio che doveva sapere essere invalido, rientrando nei suoi poteri conoscere le cause dell’illegittimità dell’aggiudicazione e, tuttavia, ingenerando nell’impresa l’incolpevole affidamento di considerare valido ed efficace il contratto (v. Cons. di Stato, sez. 3 , n. 279/2013).
In conclusione, può essere enunciato il seguente principio di diritto:
accertare se un contraente abbia confidato colpevolmente o incolpevolmente nella validità ed efficacia del contratto (concluso o da concludere) con la Pubblica Amministrazione –al fine di escludere o affermare la responsabilità di quest’ultima, a norma dell’articolo 1338 c.c.,– è un’attività propria del giudice di merito, il quale deve verificare in concreto se la norma (di relazione) violata sia conosciuta o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto (e sia quindi causa di invalidità “autoevidente”), tenuto conto della univocità dell’interpretazione della norma e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l’invalidità; in presenza di norme (di azione) che l’Amministrazione è tenuta istituzionalmente a conoscere ed applicare in modo professionale (come, ad esempio, quelle che disciplinano il procedimento di scelta del contraente), essa ha l’obbligo di informare il privato delle circostanze che potrebbero determinare la invalidità o inefficacia e, comunque, incidere negativamente sulla eseguibilità del contratto, pena la propria responsabilità per culpa in contraendo, salva la possibilità di dimostrare in concreto che l’affidamento del contraente sia irragionevole, in presenza di fatti e circostanze specifiche (
massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. I civile, nella sentenza 12.05.2015 n. 9636).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 338 del t.u delle leggi sanitarie del 1934, i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E' vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge. In base al secondo comma le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano ai cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10 anni dal seppellimento dell'ultima salma.
L’art. 338 del T.U. del 1934, secondo la giurisprudenza costituisce una norma che si impone alla pianificazione comunale anche modificandola ex lege se non abbia recepito le disposizioni legislative. Il vincolo cimiteriale, espresso dall'art. 338 del r.d. 27.07.1934, n. 1265 ha natura assoluta e si impone, in quanto limite legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienicosanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale.
Anche la previsione del secondo comma dell’art. 338, relativa ai cimiteri di guerra, ha la medesima natura, pertanto, si deve ritenere che anche tale vincolo si imponga all’Amministrazione comunale ex lege, indipendentemente dalle previsioni contrarie del piano; peraltro tale vincolo ex lege cessa, in base alla espressa previsione normativa, dopo dieci anni dall’ultima sepoltura.
Ritiene il Collegio, conformemente a quanto di recente affermato dal Tar Veneto, rispetto al vincolo cimiteriale relativo al Comune di Costermano, che qualora l’amministrazione comunale abbia recepito nelle proprie norme di piano il vincolo cimiteriale questo derivi anche da tali disposizioni comunali. “Il vincolo, in tal caso, trova la propria autonoma fonte normativa, infatti, nelle previsioni dello strumento urbanistico comunale relative alle aree interessate dall’intervento edilizio. La limitazione temporale relativa alle aree limitrofe ai cimiteri militari di guerra del vincolo cimiteriale, prevista dall’art. 338 R.D. n. 1265/1934, non priva, infatti, i Comuni del potere di individuare delle fasce di rispetto anche a tutela della sacralità dei cimiteri militari di guerra”.
Nel caso di specie, il vincolo è contenuto, nelle norme di piano regolatore del Comune di Pomezia, sia in forza del richiamo operato dalle norme tecniche di attuazione al T.U. del 1934 sia nelle tavole di piano. Ne deriva che tale vincolo può cessare solo a seguito di una variante del piano regolatore, rispetto alla quale l’amministrazione comunale non sarebbe vincolata al rispetto del vincolo cimiteriale ai sensi del secondo comma dell’art. 338, ma, nell’esercizio della propria discrezionalità, potrebbe anche destinare l’area ad usi comunque compatibili con la presenza del cimitero di guerra, rilevante non più sotto il profilo igienico sanitario, ma di rispetto della sacralità del luogo o del monumento storico.
---------------
Non rilevano nel caso di specie le diposizioni dei commi successivi dell’art. 338, citate dalla difesa ricorrente. Infatti, le ipotesi disciplinate da tali disposizioni, nel testo modificato dalla legge n. 166 del 2002, riguardano i casi in cui il Consiglio comunale può ridurre la fascia di rispetto cimiteriale. In particolare, in base a tali disposizioni, il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Inoltre, per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
Secondo la costante giurisprudenza, tale eccezionale potere comunale può essere adoperato in maniera legittima solo per ragioni di interesse pubblico, “non anche per agevolare singoli proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o intendano effettuare, interventi edilizi su un'area, resa a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale. L'unico procedimento, attivabile dai singoli proprietari all'interno della fascia di rispetto, pertanto, è quello finalizzato agli interventi di cui all'art. 338, comma 7, dello stesso r.d. n. 1265/1934 (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti), restando attivabile solo d'ufficio -per i motivi anzidetti- la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione”.

Con il presente ricorso è stato impugnato il provvedimento del dirigente del settore lavori pubblici ed urbanistica del Comune di Pomezia del 27.10.2014, con il quale è stato negato il permesso di costruire per la realizzazione di un distributore di carburanti con locali commerciali annessi, richiesto dalla società ricorrente il 13.05.2013, in relazione alla esistenza, in base al piano regolatore generale, nell’area interessata della fascia di rispetto cimiteriale relativa al cimitero militare germanico.
...
Ritiene il Collegio di poter prescindere dall’accertamento della effettiva data di ultima sepoltura nel cimitero tedesco, in relazione alla natura del vincolo cimiteriale sull’area interessata.
Ai sensi dell’art. 338 del t.u delle leggi sanitarie del 1934, i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E' vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge. In base al secondo comma le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano ai cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10 anni dal seppellimento dell'ultima salma.
L’art. 338 del T.U. del 1934, secondo la giurisprudenza costituisce una norma che si impone alla pianificazione comunale anche modificandola ex lege se non abbia recepito le disposizioni legislative. Il vincolo cimiteriale, espresso dall'art. 338 del r.d. 27.07.1934, n. 1265 ha natura assoluta e si impone, in quanto limite legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienicosanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale (Consiglio di Stato n. 2405 del 2014; Consiglio di Stato n. 5571 del 2013; Consiglio di Stato n. 4403 del 2011).
Anche la previsione del secondo comma dell’art. 338, relativa ai cimiteri di guerra, ha la medesima natura, pertanto, si deve ritenere che anche tale vincolo si imponga all’Amministrazione comunale ex lege, indipendentemente dalle previsioni contrarie del piano; peraltro tale vincolo ex lege cessa, in base alla espressa previsione normativa, dopo dieci anni dall’ultima sepoltura.
Ritiene il Collegio, conformemente a quanto di recente affermato dal Tar Veneto, rispetto al vincolo cimiteriale relativo al Comune di Costermano, che qualora l’amministrazione comunale abbia recepito nelle proprie norme di piano il vincolo cimiteriale questo derivi anche da tali disposizioni comunali. “Il vincolo, in tal caso, trova la propria autonoma fonte normativa, infatti, nelle previsioni dello strumento urbanistico comunale relative alle aree interessate dall’intervento edilizio. La limitazione temporale relativa alle aree limitrofe ai cimiteri militari di guerra del vincolo cimiteriale, prevista dall’art. 338 R.D. n. 1265/1934, non priva, infatti, i Comuni del potere di individuare delle fasce di rispetto anche a tutela della sacralità dei cimiteri militari di guerra” (Tar Veneto n. 87 del 2015).
Nel caso di specie, il vincolo è contenuto, nelle norme di piano regolatore del Comune di Pomezia, sia in forza del richiamo operato dalle norme tecniche di attuazione al T.U. del 1934 sia nelle tavole di piano. Ne deriva che tale vincolo può cessare solo a seguito di una variante del piano regolatore, rispetto alla quale l’amministrazione comunale non sarebbe vincolata al rispetto del vincolo cimiteriale ai sensi del secondo comma dell’art. 338, ma, nell’esercizio della propria discrezionalità, potrebbe anche destinare l’area ad usi comunque compatibili con la presenza del cimitero di guerra, rilevante non più sotto il profilo igienico sanitario, ma di rispetto della sacralità del luogo o del monumento storico.
Il provvedimento comunale, basato, quindi, sull’esistenza della fascia di rispetto cimiteriale nella pianificazione comunale deve dunque ritenersi legittimo.
Non rilevano, invece, nel caso di specie, le diposizioni dei commi successivi dell’art. 338, citate dalla difesa ricorrente. Infatti, le ipotesi disciplinate da tali disposizioni, nel testo modificato dalla legge n. 166 del 2002, riguardano i casi in cui il Consiglio comunale può ridurre la fascia di rispetto cimiteriale. In particolare, in base a tali disposizioni, il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Inoltre, per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
Secondo la costante giurisprudenza, tale eccezionale potere comunale può essere adoperato in maniera legittima solo per ragioni di interesse pubblico, “non anche per agevolare singoli proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o intendano effettuare, interventi edilizi su un'area, resa a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale. L'unico procedimento, attivabile dai singoli proprietari all'interno della fascia di rispetto, pertanto, è quello finalizzato agli interventi di cui all'art. 338, comma 7, dello stesso r.d. n. 1265/1934 (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti), restando attivabile solo d'ufficio -per i motivi anzidetti- la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione” (Consiglio di Stato n. 3410 del 2014).
Sostiene poi la difesa ricorrente la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, in quanto nel provvedimento impugnato si fa riferimento ad un preavviso di rigetto inviato il 18.03.2014 ed alla mancata presentazione delle osservazioni, mentre queste sarebbero state presentate il 04.04.2014. Tale censura non può essere accolta.
In primo luogo, come è noto, la costante giurisprudenza, a cui il Collegio ritiene di aderire, afferma che la violazione dell'art. 10-bis della legge generale sul procedimento non produce ex se la invalidità del provvedimento finale, dovendo la disposizione di preavviso di rigetto essere interpretata alla luce dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990, per cui occorre valutare il contenuto sostanziale della determinazione conclusiva, allorché questa risulti non incisa dal vizio formale (Consiglio di Stato n. 4448 del 2013).
Nel caso di specie, il diniego è basato sulla inedificabilità derivante dalla fascia di rispetto cimiteriale, che, fino ad una modifica del p.r.g. da parte del Consiglio Comunale, non assegna alcuna discrezionalità degli uffici del Comune.
Inoltre, nel caso di specie, risulta che dalla data di invio del preavviso di rigetto, 18.03.2014, a quella di adozione del provvedimento finale, 27.10.2014, vi sia stata la presentazione di documentazione integrativa, il 04.04.2014 ed il 24.04.2014, nonché colloqui intercorsi con il dirigente della sezione urbanistica (cfr. nota indirizzata del 28.04.2014 indirizzata al Comune di Pomezia).
Infine, il procedimento concluso con il provvedimento impugnato è successivo ad un ulteriore procedimento relativo all’annullamento in autotutela, con provvedimento del 26.04.2013, di un precedente permesso di costruire rilasciato il 18.01.2013, procedimento in cui era stata già assicurata la partecipazione della società ricorrente. Anche sotto tale profilo deve dunque ritenersi infondata la censura relativa alla violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990.
Quanto al censurato difetto di motivazione, nel provvedimento impugnato deve ritenersi sufficiente il richiamo al vincolo cimiteriale derivante dal p.r.g., che comporta un vincolo assoluto di inedificabilità (cfr. Consiglio di Stato n. 3410 del 2014).
Il ricorso è pertanto infondato e deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 12.05.2015 n. 6896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAtti di indagine. Il comune giustificato dal segreto.
La richiesta di accesso agli atti di indagine della polizia locale trova un limite nell'attività di polizia giudiziaria. In questo caso, il comune non può essere trasparente ed è condizionato dal segreto istruttorio.

Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 12.05.2015 n. 2357.
Un dipendente comunale indagato ha richiesto di poter accedere al proprio fascicolo personale ma senza completo successo, ovvero senza ricevere informazioni sugli atti di indagine svolti dalla polizia municipale su delega dell'autorità giudiziaria.
Contro questa misura limitativa anche della trasparenza amministrativa, l'interessato ha proposto ricorso ai giudici di palazzo Spada, ottenendo conferma della legittimità dell'operato degli uffici comunali.
In buona sostanza non basta l'interesse del richiedente per accedere a questi atti. Serve sempre anche il nullaosta dell'autorità giudiziaria (articolo ItaliaOggi del 26.05.2015).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è infondato e va respinto.
Al riguardo si deve osservare, infatti, come rilevato dal TAR per la Liguria nella pronuncia ora oggetto d’impugnativa, che avverso il precedente diniego su medesima istanza di accesso, adottato dal Comune di Savona con nota prot. n. 39915 del 26.08.2013, è già intervenuta la sentenza n. 319/2014, oramai divenuta irrevocabile e che l’appellante ha motivato la nuova istanza ripetendone l’oggetto e indicandone, a giustificazione, gli stessi motivi che hanno originato la precedente richiesta.
Orbene, atteso che nel caso di specie nella richiesta di accesso non sono stati introdotti elementi di novità e l’interessato si è limitato a reiterare l’originaria istanza o, al più, a illustrare ulteriormente le proprie ragioni, non si ravvisa motivo per discostarsi dalla decisione del TAR Liguria che, comunque, ha verificato l'inesistenza della lamentata violazione del diritto di accesso (cfr. C.d.S., Ad. plen. nn. 6 e 7 del 2006, C.d.S., Sez. V, n. 1661 dell'08.04.2014).
L'accesso agli atti amministrativi non può riguardare, infatti, atti su cui operi il segreto istruttorio penale, perché formatisi in occasione di attività di indagine compiute dalla polizia municipale quale organo di polizia giudiziaria, su delega del pubblico ministero, atti per i quali in assenza di autorizzazione di quest’ultimo è esclusa in radice l'ostensibilità.
Pertanto, se da un lato gli atti oggetto delle istanze di accesso formulate dal Sig. G. inerenti indagini penali, quand’anche esistenti, non sono ostensibili, dall'altro deve constatarsi che il ricorrente non ha provato l'esistenza di altri dati, notizie ed informazioni ai quali non gli sarebbe stato concesso di accedere, limitandosi a sostenere che l'interesse sotteso alle istanze di accesso era quello di verificare quali atti di indagine il Comune di Savona tenesse ipoteticamente serbati nel fascicolo personale o più in generale negli archivi e che, a suo dire, erano stati utilizzati per promuovere procedimenti disciplinari e per fornire informazioni alla locale Prefettura presso la quale era in trattazione una domanda per ottenere i benefici concessi ai tutori dell'ordine in quanto "vittime del dovere".
Fermo restando quanto sopra rappresentato circa la non ostensibilità degli atti d’indagine penale, si riscontra che in ambito disciplinare il Comune si è attivato a seguito della comunicazione di cui all'art. 129 disp. att. c.p.p. e in merito alla richiesta dei benefici spettanti alle "vittime del dovere" ha fornito alla Prefettura un dettagliato rapporto relativo al servizio prestato dal ricorrente, così come richiesto dalla stessa.

EDILIZIA PRIVATASecondo l’orientamento oggi prevalente, predicare l’operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, desumibile da una fitta trama di norme costituzionali, e poi ribadito expressis verbis dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990, sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria (art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre verrebbero in tale modo ad essere premiati gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni, da altri, invece, violate e risulterebbe anche fortemente limitata la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio, posto a presidio della disciplina del governo e del territorio.

4. - E’ evidente peraltro che il perno centrale intorno al quale ruota il ricorso è costituito dalla terza censura, con la quale si invoca, seppure in via subordinata al mancato riconoscimento della doppia conformità (implicita peraltro nel precedente giudicato amministrativo, concernente l’ordinanza di demolizione del 1999), richiesta dall’art. 17 della l.r. n. 21 del 2004 per l’accertamento di conformità, la c.d. sanatoria giurisprudenziale, sussistendo attualmente le condizioni per assentire la sanatoria edilizia, in subordine ipotizzandosi anche l’illegittimità costituzionale della disciplina statale e regionale relativa all’accertamento di conformità, nella prospettiva che non sia ragionevole né conforme al canone del buon andamento imporre la demolizione dell’opera, allorché poi sussista la possibilità giuridica di riedificazione dello stesso immobile.
Anche tale motivo non appare meritevole di condivisione.
A questo proposito non può il Collegio non richiamare il proprio recente precedente (TAR Umbria, 03.12.2014, n. 590) con il quale si è precisato che, secondo l’orientamento oggi prevalente, predicare l’operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, desumibile da una fitta trama di norme costituzionali, e poi ribadito expressis verbis dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990, sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria (art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre verrebbero in tale modo ad essere premiati gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni, da altri, invece, violate e risulterebbe anche fortemente limitata la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio, posto a presidio della disciplina del governo e del territorio.
Anche in relazione alla prospettata questione di legittimità costituzionale, il precedente da ultimo richiamato ne ha rilevato la manifesta infondatezza, proprio alla stregua delle coordinate ermeneutiche inferibili dalla giurisprudenza costituzionale, la quale ha più volte ribadito la natura di principio, vincolante per la legislazione regionale, della “doppia conformità” (Corte cost. 31.03.1998, n. 370; 13.05.1993, n. 231; 27.02.2013, n. 101) (TAR Umbria, sentenza 12.05.2015 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Tar Lazio. Appalto in salvo se la newco è già pronta.
Perde l'appalto l'impresa ammessa al concordato preventivo. E non può invocare l'ipotesi «con continuità» introdotta dal decreto sviluppo 2012 se non prova che è in procinto di fondare una new company in grado di proseguire nell'attività imprenditoriale.

È quanto emerge dalla sentenza 11.05.2015 n. 6781, pubblicata dalla Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
L'azienda non gestirà più il servizio di raccolta dei rifiuti urbani nel Comune. E ciò perché l'ammissione alla procedura concorsuale prima della novella estrometteva automaticamente dalle gare per i servizi pubblici. Non può venire in soccorso dell'impresa il concordato con continuità aziendale introdotto dal decreto 83/2012.
Per evitare di perdere la commessa deve presentare la relazione di un professionista qualificato che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto. Serve anche la dichiarazione di un altro operatore qualificato in possesso dei requisiti di certificazione, richiesti per l'affidamento dell'appalto, il quale si è impegnato nei confronti del concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione dell'appalto e a subentrare all'impresa ausiliata nel caso in cui questa fallisca nel corso della gara ovvero dopo la stipulazione del contratto oppure non sia per qualsiasi ragione più in grado di dare regolare esecuzione all'appalto.
Nella specie però l'impresa prospetta ma non prova la sua intenzione di costruire una newco che possa proseguire nell'attività imprenditoriale (articolo ItaliaOggi del 28.05.2015).
---------------
MASSIMA
La ricorrente agisce nel presente giudizio per contestare l’indizione, da parte del comune resistente, di una gara per l’affidamento del servizio di raccolta rifiuti, sostenendo che le norme del bando sarebbero nei suoi confronti immediatamente escludenti e comunque immediatamente lesive poiché essa intendeva continuare a curare il servizio nelle forme dell’in house.
Il ricorso è inammissibile per carenza di legittimazione e di interesse, così come denunciato dal comune di Lariano nella sua prima memoria difensiva e sottolineato nella ordinanza cautelare n. 5100 del 2010, la quale ha fatto espresso riferimento allo stato giuridico della ricorrente.
Come ha rilevato la giurisprudenza (cfr. TAR Valle d'Aosta Aosta Sez. Unica, Sent., 18/04/2013, n. 23),
l’avvio della procedura di ammissione al concordato preventivo determina il venir meno della legittimazione a partecipare alle gare pubbliche.
Dispone l'articolo 38, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 163 del 2006: "
Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: a) che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all'articolo 186-bis del R.D. 16.03.1942, n. 267, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni".
L'art. 186-bis della legge fallimentare, rubricato: “Concordato con continuità aziendale”, è stato introdotto dall'art. 33, comma 1, lett. h), del D.L. 22.06.2012, n. 83, convertito dalla L. 07.08.2012, n. 134 e, dunque, non è applicabile al caso di specie ratione temporis. Pertanto, all’epoca dell’adozione del bando impugnato l’ammissione al concordato preventivo era sempre preclusivo della partecipazione alle gare pubbliche.
Per mere ragioni di completezza, si soggiunge che
l’art. 186-bis citato comunque non sarebbe stato applicabile al caso in esame. Esso infatti prevede al comma 4 che "L'ammissione al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici, quando l'impresa presenta in gara:
a) una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto;
b) la dichiarazione di altro operatore in possesso dei requisiti di carattere generale, di capacità finanziaria, tecnica, economica nonché di certificazione, richiesti per l'affidamento dell'appalto, il quale si è impegnato nei confronti del concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione dell'appalto e a subentrare all'impresa ausiliata nel caso in cui questa fallisca nel corso della gara ovvero dopo la stipulazione del contratto, ovvero non sia per qualsiasi ragione più in grado di dare regolare esecuzione all'appalto. Si applica l'articolo 49 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163
".

Nel caso di specie, tali presupposti non ricorrono e, inoltre, la ricorrente ha unicamente prospettato, e non provato, la propria intenzione di costruire una new company che avrebbe potuto proseguire nell’attività imprenditoriale.
Pertanto,
deve ritenersi che la ricorrente sia sprovvista della legittimazione attiva e dell’interesse alla impugnazione di un bando di gara recante clausole ritenute immediatamente escludenti nei suoi confronti: infatti, essa non avrebbe comunque la possibilità di partecipare alla suddetta gara, essendo carente dei requisiti.
Il Consiglio di Stato ha, in proposito, avuto recentemente modo di riaffermare che "
Secondo l'insegnamento della adunanza plenaria da cui il Collegio non intende discostarsi, i requisiti generali e speciali devono essere posseduti alla data di scadenza del bando, a quella di verifica dei requisiti da parte della stazione appaltante, a quelle dell'aggiudicazione provvisoria e definitiva (..)” (Cons. St., ad. plen., 07.04.2011, n. 4, par. 59 e Sez. VI, 18.12.2012, n. 6487).
La carenza di legittimazione e di interesse si riscontra, per gli stessi motivi, anche in relazione alla pretesa della ricorrente di dover curare il servizio in house ai sensi dell’art. 23-bis del D.lgs. n. 112/2008: il suo stato giuridico, infatti, esclude anche siffatta eventualità.
Va, dunque, dichiarata l’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva e di interesse al ricorso.

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati, compensi da uno solo. Obbligato è chi ha conferito la procura e il mandato. La Corte di cassazione ha ritenuto infondato un ricorso sul soggetto tenuto all'esborso.
Se, oltre alla procura alle liti, all'avvocato è stato conferito un mandato, obbligato al pagamento del compenso professionale dovuto non può essere una persona diversa da quella che gli ha conferito la procura.

Lo hanno stabilito i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 08.05.2015 n. 9297.
Il thema decidendum. Un avvocato otteneva un decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di compensi professionali nei confronti di tre persone. Costoro, però, proponevano opposizione asserendo di non aver mai avuto rapporti professionali con l'avvocato, poiché l'attività professionale di cui si chiedeva il pagamento dell'onorario era stata svolta in realtà da un altro legale, il quale interveniva sostenendo che l'altro avvocato non aveva mai svolto attività per conto degli intimati. La Corte d'appello rigettava l'opposizione.
Ricorso in Cassazione. Il ricorso viene ritenuto infondato dalla Cassazione. Secondo i giudici di piazza Cavour obbligato al pagamento del compenso professionale dovuto ad un professionista legale potrà essere anche una persona diversa da quella che gli ha conferito la procura alle liti. Ma tale principio non potrà essere applicato al caso di specie, perché i tre intimati avevano conferito un mandato, e non soltanto una procura alle liti, all'avvocato al quale non volevano poi riconoscere alcun compenso.
Gli Ermellini evidenziano che non c'è dubbio che obbligato al pagamento del compenso professionale dovuto ad un avvocato ben possa essere anche persona diversa da quella che gli ha conferito la procura alle liti. Ma nel caso di specie i clienti effettivamente conferirono un mandato (e non soltanto una procura alle liti) all'avvocato (articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: Solo il cliente può dimostrare l'imperizia del proprio legale.
Solo il cliente può dimostrare che l'avvocato ha svolto l'attività di difesa con imperizia o con impiego inferiore alla comune diligenza, altrimenti sarà lecito che le singole voci della parcella vengano liquidate al di sopra del minimo tariffario.

Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con sentenza 07.05.2015 n. 9237.
Il thema decidendum
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici di piazza Cavour, il cliente oltre a negare il diritto dell'avvocato al compenso per l'attività stragiudiziale esorbitante i limiti dell'incarico conferitogli, aveva altresì contestato specificamente le voci della notula presentata dal professionista.
La prova spetta al cliente
Gli Ermellini hanno, pertanto, osservato che, in tema di liquidazione del compenso per l'esercizio della professione forense, sarà il cliente a fornire la prova che l'avvocato abbia svolto poco bene l'attività difensionale affidatagli, altrimenti le singole voci ben possono essere liquidate al di sopra del minimo tariffario.
Secondo i giudici supremi, solo se il professionista legale richieda compensi al di sopra del massimo previsti, lo stesso sarà chiamato a fornire, a norma dell'articolo 2697 c.c., la prova degli elementi costitutivi del diritto fatto valere, cioè delle circostanze che nel caso concreto giustifichino detto maggiore compenso, restando in difetto applicabile la tariffa nell'ambito dei parametri previsti.
Il principio: quesito e censura di diritto
Nella stessa sentenza, poi, la Cassazione ha ribadito il principio secondo cui il quesito inerente ad una censura in diritto, poiché ha la funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio giuridico generale, non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere l'organo giudicante in grado di poter comprendere, dalla sua sola lettura, l'errore asseritamente compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile (articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015).

URBANISTICAPremesso che la convenzione di lottizzazione, anche se istituto di complessa ricostruzione a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre un incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal codice civile, la richiesta di proroga inoltrata al Comune dalla società odierna appellata costituiva una proposta di modifica delle condizioni contrattuali, che avrebbe dovuto essere accettata da controparte secondo i comuni principi civilistici.
Infatti, alla stregua della vigente normativa la durata della convenzione di lottizzazione non risulta soggetta a regole di impronta pubblicistica, costituendo materia rimessa all’accordo tra lottizzante e Amministrazione: ciò si ricava dal fatto che sul punto il legislatore –che pure ha analiticamente regolato il contenuto delle convenzioni de quibus– si è limitato a fissare il termine massimo di durata (stabilito in dieci anni ex art. 28, comma 5, nr. 3, della legge 17.08.1942, nr. 1150) e a ribadire che in convenzione deve comunque essere indicata la durata della convenzione, la cui concreta definizione è però rimessa alle parti.
Pertanto, per una modifica dell’accordo si applica la normativa codicistica ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 07.08.1990, nr. 241: in particolare, trattandosi nella specie di atto negoziale, che presuppone la ricerca del consenso del privato su un certo assetto di interessi ed attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne consegue che la sua modifica necessita della manifestazione di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla loro formazione.

... per l’annullamento e/o la riforma, previa sospensione dell’efficacia, della sentenza della Sez. II del TAR del Veneto del 09.10.2014, nr. 1287, resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., con la quale è stato accolto il ricorso nr. 1200/2014.
...
Il Comune di Vigonza ha impugnato la sentenza –resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.– con la quale il TAR del Veneto, provvedendo sul ricorso proposto dalla Direzionale Vigonza S.a.s. di Endrizzi Luigi & C., ha:
- accolto la domanda di accertamento dell’insussistenza dell’inadempimento all’obbligo stabilito dall’art. 8, ultimo comma, della convenzione di lottizzazione sottoscritta il 18.05.2007;
- preso atto della rinuncia alle ulteriori domande, aventi a oggetto la declaratoria di insussistenza dei presupposti per l’escussione da parte del Comune di Vigonza della polizza fideiussoria di cui all’art. 16, ultimo comma, della convenzione medesima, e la condanna del Comune alla restituzione delle somme pagate per effetto dell’escussione della detta polizza.
...
12. Passando all’esame del secondo motivo d’appello, questo è invece fondato e meritevole di accoglimento.
Ed invero, premesso che la convenzione di lottizzazione, anche se istituto di complessa ricostruzione a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre un incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal codice civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2013, nr. 4810), la richiesta di proroga inoltrata al Comune dalla società odierna appellata costituiva una proposta di modifica delle condizioni contrattuali, che avrebbe dovuto essere accettata da controparte secondo i comuni principi civilistici.
Infatti, alla stregua della vigente normativa la durata della convenzione di lottizzazione non risulta soggetta a regole di impronta pubblicistica, costituendo materia rimessa all’accordo tra lottizzante e Amministrazione: ciò si ricava dal fatto che sul punto il legislatore –che pure ha analiticamente regolato il contenuto delle convenzioni de quibus– si è limitato a fissare il termine massimo di durata (stabilito in dieci anni ex art. 28, comma 5, nr. 3, della legge 17.08.1942, nr. 1150) e a ribadire che in convenzione deve comunque essere indicata la durata della convenzione, la cui concreta definizione è però rimessa alle parti.
Pertanto, per una modifica dell’accordo si applica la normativa codicistica ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 07.08.1990, nr. 241: in particolare, trattandosi nella specie di atto negoziale, che presuppone la ricerca del consenso del privato su un certo assetto di interessi ed attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne consegue che la sua modifica necessita della manifestazione di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla loro formazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, nr. 693).
A ciò si aggiunga che la Giunta Comunale, organo istituzionalmente competente a esprimere la volontà del Comune in subiecta materia, non si era mai formalmente pronunciata sulla richiesta di proroga, limitandosi a esprimere un avviso preliminare ed espressamente differendo la “formalizzazione” del proprio assenso all’adempimento delle suindicate condizioni.
Se questo è vero, ne discende che il “parere favorevole” di cui alla nota del 24.04.2103 non avrebbe potuto essere inteso in nessun caso come accettazione della richiesta di modifica contrattuale, essendo detto parere subordinato a una serie di condizioni: è noto infatti (ed è principio pacificamente applicabile alla fattispecie che qui occupa, giusta quanto sopra evidenziato) che l’accettazione della proposta contrattuale accompagnata da condizioni diverse equivale a nuova proposta ai sensi dell’art. 1326, comma 5, cod. civ. (cfr. Cass. civ., sez. III, 01.04.2010, nr. 7999).
Si potrebbe bensì sostenere che la società richiedente abbia accettato siffatta “controproposta” con la nota del 27.05.2013, con la quale si è detta disponibile ad assolvere alle condizioni richieste dal Comune: ma, anche in tale prospettiva, ci si troverebbe dinanzi ad una condizione sospensiva (evincibile dalla nota comunale, in cui –come detto- si faceva dipendere la “formalizzazione” della proroga dall’avverarsi di tutte e tre le condizioni richieste), e quindi medio tempore la modifica convenzionale concordata non aveva efficacia, essendo chiaramente interesse della parte privata adoperarsi affinché, con l’avverarsi delle condizioni, il nuovo regolamento contrattuale divenisse efficace (ciò che, in ipotesi positiva, sarebbe avvenuto con effetto ex tunc, e quindi senza soluzione di continuità nella durata della convenzione).
Orbene, poiché la società odierna appellata, con la citata nota del 03.04.2014, ha confessato di non aver adempiuto (e di non poter adempiere) alle condizioni de quibus, resta acquisito che non era applicabile alla presente fattispecie il citato art. 30, comma 3-bis, del d.l. nr. 69 del 2013, in quanto sopravvenuto dopo la scadenza dell’originario termine pattuito in convenzione e in pendenza delle suindicate condizioni sospensive.
Ne consegue che risulta immune da censure il successivo operato del Comune, il quale si è attivato sul corretto presupposto dell’intervenuta scadenza della convenzione (e, quindi, dell’inadempimento del concessionario).
13. Ma v’è di più, ché le conclusioni raggiunte non muterebbero quand’anche si seguisse l’impostazione della parte odierna appellata, la quale assume la non applicabilità alla vicenda che occupa delle norme civilistiche e la sua riconducibilità all’esercizio di potestà autoritativa del Comune.
Infatti, se anche si ammettesse –come sembra aver fatto il primo giudice– che il Comune avesse il potere di “procedimentalizzare” l’istanza di proroga proposta dalla società concessionaria, e in tal modo sottrarla all’applicazione delle regole civilistiche (ciò che appare quanto meno discutibile, essendo evidente che il regime degli accordi sostitutivi del procedimento discende dalla legge, e non certo da un’opzione delle parti), siffatto supposto procedimento non poteva in ogni caso considerarsi positivamente concluso, dal momento che il “parere favorevole” comunicato con la nota del 24.04.2013, che era dichiaratamente prodromico a una successiva determinazione definitiva (mai intervenuta) della Giunta Comunale, era perciò stesso un mero atto endoprocedimentale, come tale inidoneo a far scattare la proroga richiesta dalla società istante.
14. Alla luce dei rilievi che precedono, restano assorbite le ulteriori questioni sollevate nell’appello del Comune e, in particolare, quella della pretesa incostituzionalità del citato art. 30, comma 3-bis, del d.l. nr. 69 del 2013.
Inoltre, risulta superfluo anche l’esame della nuova documentazione depositata dalla società appellata in data 11.03.2015 (relazione tecnica attestante lo stato dei lavori), sia sotto il profilo della sua ammissibilità, sia sotto quello del suo contenuto, essendo evidente che il problema di quanto già eseguito, e di quanto eventualmente per ciò dovuto alla società, dovrà essere affrontato tra le parti dell’originaria convenzione in altra sede ed è estraneo al presente giudizio.
15. In conclusione, s’impone una decisione di accoglimento dell’appello principale, con la conseguente riforma della sentenza impugnata e la reiezione del ricorso di prime cure (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.05.2015 n. 2313 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti, lecito impartire ordini. Sì a direttive se riguardano il risultato delle prestazioni. Sentenza della Cassazione sui rapporti tra committente e dipendenti dell'appaltatore.
Perché si configuri un appalto illecito, non è sufficiente avere offerto la prova che il committente abbia dato ordini ai dipendenti dell'appaltatore. Occorre indagare il contenuto di tali ordini e provare che essi riguardano la prestazione di lavoro di fatto svolta.

Così afferma oggi la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 06.05.2015 n. 18667.
Una precisazione di principio destinata non soltanto a «rivoluzionare» le dinamiche delle indagini penali sugli appalti di servizi da parte di ispettori del lavoro e delle Procure, finora solitamente «superficiali», fissandosi l'attribuzione del reato sul mero riscontro di stereotipi indici presuntivi (es. proprietà dei beni utilizzati; promiscuità con i dipendenti dell'appaltante; e, tra l'altro, provenienza degli ordini ai lavoratori). Ma anche a favorire l'organizzazione degli appalti labour intensive praticati comunemente. In sostanza, un deciso monito ai giudici di merito a non aderire a tesi accusatorie preconcette, specie se vi è in campo, come nel caso, una cooperativa.
Nella vicenda, gli ispettori inerivano l'esistenza del reato in forza di una (solo) asserita commistione tra le due società, desunta dal fatto che i locali, in cui operavano i lavoratori della cooperativa, e le attrezzature impiegate fossero di proprietà della committente, e dalla circostanza che quest'ultima esercitasse potere organizzativo e direttivo sui lavoratori.
Per la Suprema corte, tuttavia, perché si configuri un appalto in frode alla legge, non basta che ricorra la circostanza (nel caso provata) che il personale del committente sia venuto a impartire ordini agli ausiliari dell'appaltatore. Occorre piuttosto la prova che le direttive impartite siano inerenti a concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Diversamente, come afferma ora la Cassazione, se le disposizioni ai lavoratori «appaltati» si riferissero solamente al risultato di tali prestazioni (che in sé possono formare l'oggetto genuino dell'appalto), non potrebbero sorgere motivi di censura e punizione da parte dell'ordinamento. I giudici di merito avrebbero omesso di compiere tale genere di sottile, ma determinante, valutazione dei rapporti tra i soggetti coinvolti.
Sempre stigmatizzando il consueto modo di procedere per equazioni (indimostrate), la Corte di cassazione ha considerato non accettabile la valutazione in malam partem, operata dagli ispettori prima, e nel merito giudiziale, poi, di altri elementi di per loro neutri. Come con riferimento all'uso dei locali e di attrezzature del committente da parte dell'appaltatore, legittimamente concessigli in comodato gratuito. Illogico, a parere della Cassazione, inerire solo da ciò l'inesistenza di una reale organizzazione dei mezzi e dell'assunzione effettiva del rischio d'impresa.
In definitiva, a parere della Suprema Corte, perché possa dirsi ricorrere il reato di appalto illecito deve contemporaneamente essere fornita la prova dell'effettiva inesistenza di un rischio di impresa; del difetto di organizzazione, comunque sia, dei mezzi necessari all'esecuzione dell'appalto; dell'assenza di un potere organizzativo e diretto sui lavoratori, non escluso, di per sé, da eventuali ordini impartiti dal committente (articolo ItaliaOggi del 26.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAL’accertamento di conformità deve riguardare opere già provviste di doppia conformità e solo formalmente abusive, in quanto carenti di titolo ma conformi alla disciplina urbanistica. Non è dunque ammissibile una sanatoria mediante lavori di regolarizzazione (come appunto nella specie) e non di semplice completamento.
Circa la c.d. sanatoria giurisprudenziale (per cui sarebbe sufficiente la regolarità edilizia ed urbanistica solo al momento della presentazione della domanda di sanatoria) essa è affermata in un orientamento giurisprudenziale minoritario e non condivisibile, rispetto a quello che postula il requisito della doppia conformità, conformemente d’altra parte al dettato normativo delle conferenti disposizioni statuali e regionali.
In quest’ultima, in particolare, correttamente si afferma, tra l’altro, che detto istituto, di matrice giurisprudenziale, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione.

L’Amministrazione, ha precisato, in effetti, che gli abusi hanno determinato, già al momento della realizzazione degli stessi, la non conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche della zona in cui ricade il lotto interessato (sul punto nemmeno vi è specifica e puntuale confutazione da parte della ricorrente).
Ha evidenziato poi, con ampio e condivisibile excursus argomentativo (che il Collegio fa proprio): che l’accertamento di conformità deve riguardare opere già provviste di doppia conformità e solo formalmente abusive, in quanto carenti di titolo ma conformi alla disciplina urbanistica; che non è dunque ammissibile una sanatoria mediante lavori di regolarizzazione (come appunto nella specie) e non di semplice completamento; che circa la c.d. sanatoria giurisprudenziale (per cui sarebbe sufficiente la regolarità edilizia ed urbanistica solo al momento della presentazione della domanda di sanatoria) essa è affermata in un orientamento giurisprudenziale minoritario e non condivisibile, rispetto a quello che postula il requisito della doppia conformità, conformemente d’altra parte al dettato normativo delle conferenti disposizioni statuali e regionali (sul punto, in aggiunta a quanto sopra, questo Collegio si limita a richiamare, per tutte, le pronunce del CdS, V, n. 3961/2012; IV, n. 3072/2013; V, n. 3220/2013).
In quest’ultima, in particolare, correttamente si afferma, tra l’altro, che detto istituto, di matrice giurisprudenziale, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.05.2015 n. 6371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICARitiene il Collegio che non sia illegittimo la presizione di PGT che, al fine della trasformazione edificatoria dell’A.T. 1.8, ponga la realizzazione della nuova infrastruttura viaria con oneri a carico dei privati proprietari delle aree da trasformare.
Invero, costituisce principio generale della disciplina urbanistica quello per il quale la realizzazione di nuovi insediamenti è sempre subordinata alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, il cui onere, in caso di interventi attuativi convenzionati, deve ricadere sui privati proprietari degli ambiti da trasformare.
Tale principio trova esplicita emersione, in particolare, nell’articolo 28, quinto comma, nn. 1) e 2) della legge 1942, n. 1150 e nelle corrispondenti previsioni dell’articolo 46, comma 1, lett. a) e b), della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, ove si prevedono quali contenuti necessari delle convenzioni urbanistiche sia la cessione, da parte dei privati, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, sia l’assunzione dell’onere per la realizzazione di tali opere a carico dei medesimi lottizzanti.
Ne discende che l’imposizione degli oneri per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria a carico dei proprietari dell’ambito costituisce una previsione necessitata da parte dello strumento urbanistico generale.
A tale conclusione non osta il rilievo, evidenziato dal ricorrente, che –nel caso di specie– la realizzazione dell’infrastruttura viaria presenti costi molto superiori rispetto a quelli che sarebbero teoricamente dovuti a titolo di quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione primaria, in relazione alle superfici edificatorie da realizzare.
E invero, la suddetta quota di contributo di costruzione è funzionale alla realizzazione del principio di distribuzione tra tutti i proprietari della spesa occorrente per le opere necessarie alla trasformazione del territorio, che siano state o verranno realizzate dal Comune. Come tale, essa è dovuta a prescindere dall’esistenza o dalla necessità di realizzare le opere di urbanizzazione e, inoltre, viene determinata senza tener conto né della concreta utilità che riceve il beneficiario del titolo edificatorio, né delle spese effettivamente necessarie per l'esecuzione delle opere.
La previsione del contributo per oneri di urbanizzazione opera, quindi, su un piano diverso rispetto alle disposizioni legislative sopra richiamate in tema di piani attuativi convenzionati, le quali pongono l’infrastrutturazione primaria dell’area, con oneri integralmente a carico del privato, quale condizione cui è subordinata la possibilità stessa di dare attuazione alle trasformazioni edificatorie previste dallo strumento urbanistico.

6. Con il primo motivo il ricorrente censura la previsione contenuta all’articolo 3.4 delle Norme di Attuazione del PGT, relativo agli “Ambiti di trasformazione della costa di Pianazzola e delle frazioni del versante nord”, laddove, nella “Scheda Ambito di Trasformazione 1.8. Campedello 2” (doc. 14-F del ricorrente, p. 46) si prevede la realizzazione, nel suddetto ambito, di una strada a carico dei privati proprietari.
Secondo quanto allegato nel ricorso, la realizzazione della strada comporterebbe una spesa di circa 178.000,00 euro, che risulterebbe sproporzionata ed esorbitante a fronte degli oneri di urbanizzazione primaria che sarebbero dovuti in relazione alle superfici realizzabili nel medesimo ambito, stimati in circa 25.000,00 euro.
Ad avviso del ricorrente, la previsione del PGT si porrebbe in contrasto con l’articolo 46, comma 1, lett. b), della legge regionale della Lombardia, il quale prevedrebbe la necessità di corrispondere un conguaglio per le opere eseguite in luogo del versamento degli oneri di urbanizzazione.
Sarebbe, inoltre, violato l’articolo 23 della Costituzione, in quanto la censurata previsione del PGT recherebbe una prestazione patrimoniale imposta in difetto di ogni previsione di legge.
6.1 Rileva il Collegio che dalla lettura del capitolo 4 della “Relazione illustrativa di sintesi del progetto” del Piano delle Regole del PGT di Chiavenna risulta che la “individuazione di un nuovo tracciato viario alternativo all’attuale nella frazione di Campedello (Area di Trasformazione 1.7 e 1.8) e realizzazione di un nuovo innesto sulla strada statale” figurano tra i “servizi e le attrezzature previste” negli ambiti di trasformazione (doc. 14-E del ricorrente, p. 14).
Nel successivo capitolo 5 della stessa Relazione, dedicato alla “Stima di massima dei costi”, si legge inoltre che “gli interventi previsti nelle aree di trasformazione, così come descritti nel capitolo precedente, sono a totale carico dei soggetti privati interessati dalle trasformazioni stesse: tali costi non vengono quindi considerati in tale stima” (doc. 14-E del ricorrente, p. 16).
Da questi dati si evince che il PGT ha ritenuto indispensabile, al fine della trasformazione edificatoria dell’A.T. 1.8, la realizzazione della nuova infrastruttura viaria, prevedendo di porre il relativo onere a carico dei privati proprietari delle aree da trasformare.
6.2 Ora, a fronte della indicazione della strada come necessaria opera di urbanizzazione primaria –e prescindendo, in questa sede, dalle censure allegate dal ricorrente attinenti alla ragionevolezza della previsione di tale necessità– ritiene il Collegio che non sia illegittimo aver posto l’onere dell’opera a carico dei privati interessati.
Ed invero, costituisce principio generale della disciplina urbanistica quello per il quale la realizzazione di nuovi insediamenti è sempre subordinata alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, il cui onere, in caso di interventi attuativi convenzionati, deve ricadere sui privati proprietari degli ambiti da trasformare.
Tale principio trova esplicita emersione, in particolare, nell’articolo 28, quinto comma, nn. 1) e 2) della legge 1942, n. 1150 e nelle corrispondenti previsioni dell’articolo 46, comma 1, lett. a) e b), della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, ove si prevedono quali contenuti necessari delle convenzioni urbanistiche sia la cessione, da parte dei privati, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, sia l’assunzione dell’onere per la realizzazione di tali opere a carico dei medesimi lottizzanti.
Ne discende che l’imposizione degli oneri per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria a carico dei proprietari dell’ambito costituisce una previsione necessitata da parte dello strumento urbanistico generale.
A tale conclusione non osta il rilievo, evidenziato dal ricorrente, che –nel caso di specie– la realizzazione dell’infrastruttura viaria presenti costi molto superiori rispetto a quelli che sarebbero teoricamente dovuti a titolo di quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione primaria, in relazione alle superfici edificatorie da realizzare.
E invero, la suddetta quota di contributo di costruzione è funzionale alla realizzazione del principio di distribuzione tra tutti i proprietari della spesa occorrente per le opere necessarie alla trasformazione del territorio, che siano state o verranno realizzate dal Comune. Come tale, essa è dovuta a prescindere dall’esistenza o dalla necessità di realizzare le opere di urbanizzazione e, inoltre, viene determinata senza tener conto né della concreta utilità che riceve il beneficiario del titolo edificatorio, né delle spese effettivamente necessarie per l'esecuzione delle opere (ex multis, Cons. St., Sez. VI, 15.07.2013, n. 3788; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.07.2014, n. 1997).
La previsione del contributo per oneri di urbanizzazione opera, quindi, su un piano diverso rispetto alle disposizioni legislative sopra richiamate in tema di piani attuativi convenzionati, le quali pongono l’infrastrutturazione primaria dell’area, con oneri integralmente a carico del privato, quale condizione cui è subordinata la possibilità stessa di dare attuazione alle trasformazioni edificatorie previste dallo strumento urbanistico.
6.3 Le considerazioni sopra esposte non sono infirmate dal tenore dell’articolo 46, comma 1, lett. b) della legge regionale n. 12 del 2005, richiamato dalla parte ricorrente; previsione normativa, questa, che –al contrario– conferma ulteriormente quanto sopra illustrato.
Nella disposizione in esame si legge, invero, che “ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente legge, è corrisposta la differenza” .
Il legislatore regionale ha quindi inteso chiarire che, in occasione della stipulazione delle convenzioni relative ai piani attuativi, il conguaglio è consentito solo laddove le opere direttamente realizzate dalla parte privata comportino oneri inferiori rispetto alle relative quote del contributo di costruzione. Nessun conguaglio è, invece, previsto nell’ipotesi inversa, ossia ove la realizzazione diretta delle opere comporti un onere maggiore rispetto al contributo.
Giova, inoltre, tenere presente che la stessa disposizione richiamata prosegue stabilendo che “al comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al piano attuativo, nonché all'entità ed alle caratteristiche dell'insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale”. Previsione, questa, che chiarisce ancor più esplicitamente che l’impegno economico a carico del privato per la realizzazione di interventi attuativi debba avere ad oggetto –per quanto qui rileva– o la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione primaria o la corresponsione della somma effettivamente necessaria per la loro realizzazione, a prescindere da quanto sarebbe dovuto a titolo di contributo concessorio commisurato agli oneri di urbanizzazione primaria.
6.4 Alla luce di quanto precede, le previsioni del PGT di Chiavenna censurate dal ricorrente risultano, quindi, rispondenti al quadro legislativo di riferimento. Conseguentemente, esse non danno luogo neppure alla dedotta violazione dell’articolo 23 della Costituzione, non essendo ravvisabile alcuna prestazione patrimoniale imposta in violazione del principio di legalità.
6.5 In definitiva, per le suesposte ragioni, va ribadito il rigetto del primo motivo di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.05.2015 n. 1101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFotovoltaico, basta la Scia per il terrazzo di casa.
Basta la Scia per installare i pannelli fotovoltaici sul pergolato realizzato nel terrazzo di casa. Accolto il ricorso del proprietario, bocciata la tesi del comune: il permesso di costruire non serve perché la segnalazione di inizio attività risulta sufficiente anche per le pertinenze dei fabbricati. Altro che permesso di costruire.
Il comune deve convincersi, per installare il fotovoltaico sul terrazzo al proprietario basta la Scia, a patto che i pannelli siano montati sul pergolato di legno: le linee guida che disciplinano l'installazione degli impianti energetici, infatti, prevedono che la segnalazione di inizio attività basta e avanza per le opere realizzate sulle pertinenze degli edifici. E dunque anche per i pergolati.

Lo stabilisce il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 27.04.2015 n. 2134.
Accolto, dunque, il ricorso del proprietario di casa contro la sentenza sfavorevole del Tar Emilia Romagna. L'impianto «incriminato» non è piccolo: i pannelli sono otto per un'area totale di tredici metri quadrati.
Eppure basta il titolo edilizio più semplice, anche se il pergolato di legno fa da sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili invece di sostenere le piante rampicanti, come avviene di solito (articolo ItaliaOggi del 22.05.2015).
---------------
MASSIMA
6.– In via preliminare è necessario ricostruire il quadro normativo e gli orientamenti giurisprudenziali rilevanti.
6.1.– L’art. 6, comma 2, lettera d), del d.p.r. n. 380 del 2001 dispone che sono soggetti a comunicazione di inizio lavori gli interventi consistenti, tra l’altro, nell’installazione di «pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona A) di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444».
Le linee guida per l’autorizzazione degli impianti in esame prevedono che essi possono essere installati «su edifici esistenti e loro pertinenze», inclusi, pertanto, anche i pergolati.
L’art. 10 dello stesso decreto dispone, invece, che occorre il permesso di costruire per: «a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni».
6.2.–
La giurisprudenza amministrativa, in mancanza di una definizione legislativa di pergolato, ha avuto modo di affermare che esso può essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni (Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2011, n. 5409).
Si è, inoltre, precisato che «
la nozione di pergolato non muta se alle piante si sostituiscono i pannelli fotovoltaici, sicché gli stessi devono essere collocati in modo tale da lasciare spazi per il filtraggio della luce e dell’acqua e non devono caratterizzarsi come copertura stabile e continua degli spazi sottostanti» (Cons. Stato, sez. I, 25.06.2014, n. 2162).

EDILIZIA PRIVATASecondo l’inequivocabile tenore della disposizione recata dall’art. 4 del D.M. n. 1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”; la giurisprudenza anche di questa Sezione ha avuto modo di affermare come le norme sulle distanze di cui al D. M. 1444/1968 hanno carattere pubblicistico ed inderogabile e vincolano i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
In particolare, la giurisprudenza in materia ha statuito che trattandosi di norma volta ad “impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è pertanto non eludibile”.
A tal proposito il Collegio sottolinea che “le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi”.
Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici “anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali” dovendosi le prime ritenere automaticamente inserite nel p.r.g. al posto della norma illegittima.
---------------
L’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, rubricato “Limiti di distanza tra i fabbricati”, prescrive i limiti minimi di distanza tra edifici a seconda delle diverse zone territoriali omogenee, e segnatamente, in ipotesi di costruzione di “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (comma 1, n. 2), prevede che la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all’altezza del fabbricato finitimo più alto, se questa sia maggiore di 10 metri (comma 2).
In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati confinanti (l’edificio pregresso e/o quello di nuova costruzione) presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10 metri) va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più alto.
La misura minima della distanza, tuttavia, è derogabile in due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2 dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori rispetto a quelle previste dal comma 1 soltanto per i piani particolareggiati e per le lottizzazioni convenzionate, e non anche per gli interventi edilizi diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi tra i quali ricomprendere il permesso di costruire, come, appunto, nel caso in questione.

Occorre, anzitutto, premettere che secondo l’inequivocabile tenore della disposizione recata dall’art. 4 del D.M. n. 1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”; la giurisprudenza anche di questa Sezione ha avuto modo di affermare come le norme sulle distanze di cui al D. M. 1444/1968 hanno carattere pubblicistico ed inderogabile e vincolano i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici (cfr. Cons. St., Sez. IV 05.12.2005 n. 6909).
In particolare, la giurisprudenza in materia ha statuito che trattandosi di norma volta ad “impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è pertanto non eludibile”.
A tal proposito il Collegio sottolinea che “le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi” (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 6909 del 2005 cit.).
Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici “anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali” dovendosi le prime ritenere automaticamente inserite nel p.r.g. al posto della norma illegittima (cfr. in tal senso Cass. civ., Sez. II, 29.05.2006, n. 12741).
In particolare, l’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, rubricato “Limiti di distanza tra i fabbricati”, prescrive i limiti minimi di distanza tra edifici a seconda delle diverse zone territoriali omogenee, e segnatamente, in ipotesi di costruzione di “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (comma 1, n. 2), prevede che la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all’altezza del fabbricato finitimo più alto, se questa sia maggiore di 10 metri (comma 2).
In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati confinanti (l’edificio pregresso e/o quello di nuova costruzione) presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10 metri) va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più alto.
La misura minima della distanza, tuttavia, è derogabile in due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2 dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori rispetto a quelle previste dal comma 1 soltanto per i piani particolareggiati e per le lottizzazioni convenzionate, e non anche per gli interventi edilizi diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi tra i quali ricomprendere il permesso di costruire, come, appunto, nel caso in questione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2015 n. 2130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon trova spazio nell’ordinamento (connotato da una disciplina puntuale ed esauriente delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia) la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata.
Difatti, predicarne l’operatività, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost., oltre che dall’art. 1 comma 1, l. n. 241 del 1990 (secondo cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo del condono, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 32 cit.) alle sole violazioni di ordine formale.
Si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio.

Difatti, non trova spazio nell’ordinamento (connotato da una disciplina puntuale ed esauriente delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia) la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata.
Difatti, predicarne l’operatività, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost., oltre che dall’art. 1 comma 1, l. n. 241 del 1990 (secondo cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo del condono, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 32 cit.) alle sole violazioni di ordine formale.
Si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio (cfr. TAR Napoli Campania, sez. VIII 03/07/2012 n. 3153, con argomenti che, sia pure con riguardo alla domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380, sono riproducibili anche nel presente giudizio) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.04.2015 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA- Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio", cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da poter esser visto dall'esterno.
Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non all'intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la "prospectio" sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale peso. Non può sussistere veduta quando, pur essendo possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino.
- “Secondo l'uso corrente, che deve ritenersi recepito dal legislatore nella definizione delle vedute (art. 900 c.c.), l'espressione "affacciarsi" denota la posizione che l'osservatore assume per potere, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, vedere obliquamente e lateralmente sul fondo altrui, tenendo il petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa, sicché l'esistenza di un parapetto alto soltanto cinquantacinque centimetri esclude che un'apertura possa considerarsi veduta”.
- “la "porta-finestra" che consenta la "inspectio", ma non la "prospectio", ossia lo sguardo frontale sul fondo del vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non integra veduta, sebbene permetta occasionalmente e fugacemente, nel momento dell'uscita, la visione globale e mobile del fondo alieno”.
---------------
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che impone la distanza minima di dieci metri, deve osservarsi solo tra edifici contrapposti ed anche se solo su uno di essi sono aperte le finestre, essendo tale norma volta a stabilire nell'interesse pubblico un'idonea intercapedine tra gli edifici e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza; mentre in caso di una parete finestrata perpendicolare, la distanza va computata sulla base dell'art. 907 c.c., che impone una distanza minima di tre metri dalle vedute esistenti sul fondo del vicino.

Quanto al secondo profilo, occorre indagare ed accertare la natura della porta-finestra ed in particolare se essa possa definirsi “veduta” (come sostiene la ricorrente, dedicando a tale qualificazione ampia parte del motivo di ricorso) ovvero “luce”, atteso che solo in ipotesi di veduta è applicabile l’invocato art. 907 c.c..
In punto di fatto, l’apertura in questione dà attualmente accesso ad un solaio che non risulta munito, su tutti i lati, di parapetto. Infatti, a seguito dell’ordinanza collegiale del Tribunale di Bari del 28.11.2009, alla originaria proprietaria dell’immobile dotato di porta-finestra (dante causa dell’odierna ricorrente) è stato ordinato di rimuovere la ringhiera apposta sul lastrico (originariamente sprovvisto di parapetto su tutti i lati) che, pertanto, è praticabile, dalla porta-finestra, in totale mancanza di protezioni e presidi di sicurezza per chi via acceda.
L’ordinanza in questione, peraltro, ha anche affermato che l’apposizione della ringhiera ha determinato la realizzazione di un’opera finalizzata all’esercizio di una servitù di affaccio non preesistente e tale da turbare il possesso della proprietà del lastrico.
Così ricostruita in fatto la situazione, deve escludersi, per la porta-finestra, la natura di veduta atteso che essa è sfornita di alcun parapetto che consenta di affacciare in sicurezza sul lastrico altrui.
(“Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio", cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente. Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da poter esser visto dall'esterno. Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non all'intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la "prospectio" sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale peso. Non può sussistere veduta quando, pur essendo possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino.” Tribunale Bari, sez. I, del 18/01/2012, n. 201;
Secondo l'uso corrente, che deve ritenersi recepito dal legislatore nella definizione delle vedute (art. 900 c.c.), l'espressione "affacciarsi" denota la posizione che l'osservatore assume per potere, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, vedere obliquamente e lateralmente sul fondo altrui, tenendo il petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa, sicché l'esistenza di un parapetto alto soltanto cinquantacinque centimetri esclude che un'apertura possa considerarsi veduta.” (Cassazione civile sez. II, del 12/12/1980, n. 6403).
Ed ancora: “la "porta-finestra" che consenta la "inspectio", ma non la "prospectio", ossia lo sguardo frontale sul fondo del vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non integra veduta, sebbene permetta occasionalmente e fugacemente, nel momento dell'uscita, la visione globale e mobile del fondo alieno.” Cassazione civile, sez. VI, del 13/08/2014, n. 17950;).
Esclusa la natura di veduta per l’apertura in esame, deve escludersi conseguentemente, l’applicabilità dell’art. 907 c.c. e della distanza legale di mt. 3 prescritta sia in obliquo sia al di sotto delle vedute.
Parimenti infondate sono le ulteriori doglianze articolate nell’unico motivo di ricorso.
Non risulta sussistente la violazione dell’art. 32 NTA (che prescrive il distacco minimo dai confini di mt. 5) in quanto tale disposizione, non vale, per sua espressa deroga, in ipotesi di costruzione in aderenza (recita testualmente l’art. 32 NTA: “distacco minimo dai confini (Dc)= 5 mt. salvo aderenza”); ipotesi ricorrente nel caso in esame.
Parimenti è a dirsi per l’invocato rispetto dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968.
Deve rilevarsi, infatti, che l’edificio da realizzarsi non ha alcuna parete frontistante con quella della ricorrente su cui insiste la porta-finestra, pertanto, non può trovare applicazione la disposizione invocata che riguarda le costruzioni antistanti (“L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che impone la distanza minima di dieci metri, deve osservarsi solo tra edifici contrapposti ed anche se solo su uno di essi sono aperte le finestre, essendo tale norma volta a stabilire nell'interesse pubblico un'idonea intercapedine tra gli edifici e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza; mentre in caso di una parete finestrata perpendicolare, la distanza va computata sulla base dell'art. 907 c.c., che impone una distanza minima di tre metri dalle vedute esistenti sul fondo del vicino” (Consiglio di Stato, sez. V, del 18/02/2003, n. 871 e TAR Genova (Liguria) sez. I , 16/02/2005 n. 221) (TAR Pugli-Bari, Sez. III, sentenza 22.04.2015 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADevesi, invero, evidenziare che la tettoia con profili in ferro e copertura in vetro antisfondamento, realizzata dal ricorrente a copertura della preesistente terrazza in assenza del preventivo titolo edificatorio, è appoggiata a dei sostegni imbullonati nel pavimento della terrazza stessa e su un lato al muro dell’immobile a circa mt. 2,90 di altezza, ha larghezza di metri 6,10, lunghezza di metri 5,60 e superficie di circa 30 metri quadri.
Trattasi, all’evidenza, di una tettoia di rilevanti dimensioni, che ha comportato una modificazione della sagoma e del prospetto dell’immobile, tale da produrre una perdurante e visibile alterazione della parte di edificio su cui è stata inserita e, in ogni caso, da accrescere l’abitabilità dell’immobile di proprietà del ricorrente, consentendovi lo svolgimento di varie attività della vita quotidiana.
Non pare, quindi, potersi dubitare del fatto che tale intervento -data la sua natura non precaria o pertinenziale- fosse da assoggettare al previo rilascio del permesso di costruire e a conseguente ingiunzione di demolizione in caso di abusività, come, del resto, costantemente messo in evidenza dalla giurisprudenza amministrativa, che, nel tempo, ha avuto modo per l’appunto di chiarire la necessità del permesso di costruire per l’esecuzione di strutture “le cui dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite; quando cioè per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o della parte dello stesso cui accedono".
E’ stato, infatti, precisato che "gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell'immobile cui accedono. Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, quando quindi per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono".

... per l'annullamento, quanto al ricorso introduttivo, dell’ordinanza prot. P.G./E 0030637/2009 cod. ESP/8.i.2009 dd. 26.01.2010 recante ordine di rimozione o demolizione di asserite opere abusive (segnatamente consistenti in copertura di vetro su esistente terrazza dell’unità immobiliare residenziale sia in via ... n. 109 e distinta al N.C.E.U. fg. 33, mapp. 12, sub 20) a firma del dirigente del Servizio Edilizia Privata del Comune di Udine, notificata in data 11.02.2010;
...
Il ricorso e i motivi aggiunti successivamente proposti non sono fondati.
Devesi, invero, evidenziare che la tettoia con profili in ferro e copertura in vetro antisfondamento, realizzata dal ricorrente a copertura della preesistente terrazza in assenza del preventivo titolo edificatorio, è appoggiata a dei sostegni imbullonati nel pavimento della terrazza stessa e su un lato al muro dell’immobile a circa mt. 2,90 di altezza, ha larghezza di metri 6,10, lunghezza di metri 5,60 e superficie di circa 30 metri quadri.
Trattasi, all’evidenza, di una tettoia di rilevanti dimensioni, che ha comportato una modificazione della sagoma e del prospetto dell’immobile, tale da produrre una perdurante e visibile alterazione della parte di edificio su cui è stata inserita e, in ogni caso, da accrescere l’abitabilità dell’immobile di proprietà del ricorrente, consentendovi lo svolgimento di varie attività della vita quotidiana.
Non pare, quindi, potersi dubitare del fatto che tale intervento -data la sua natura non precaria o pertinenziale- fosse da assoggettare al previo rilascio del permesso di costruire e a conseguente ingiunzione di demolizione in caso di abusività, come, del resto, costantemente messo in evidenza dalla giurisprudenza amministrativa (in termini C.d.S., V, 28.04.2014, n. 2196), che, nel tempo, ha avuto modo per l’appunto di chiarire la necessità del permesso di costruire per l’esecuzione di strutture “le cui dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite; quando cioè per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o della parte dello stesso cui accedono" (TAR Campania-Napoli, sez. VI, sent. 12.11.2010, n. 24047; in questo senso anche TAR Calabria-Reggio Calabria, sez. I, 23.08.2010, n. 915; TAR Campania-Napoli, sez. VI, 07.09.2009, n. 4899, sez. III, 19.01.2010, n. 195; sez. II, 29.01.2009, n. 492, id. 06.11.2008, n. 19292, ecc.).
E’ stato, infatti, precisato che "gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell'immobile cui accedono. Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, quando quindi per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono" (TAR Campania-Napoli, sez. II, sent. 02.12.2009, n. 8320; in questo senso anche TAR Campania-Napoli, sez. II, 13.07.2009, n. 3870, TAR Campania-Napoli, sez. IV, 18.11.2008, n. 19754, Cons. St., sez. V, 13.03.2001, n. 1442).
Sulla scorta delle considerazioni dianzi svolte possono venire, pertanto, pacificamente disattese le doglianze svolte dal ricorrente col II, III e IV motivo del ricorso introduttivo, essendo evidente che l’opera in concreto realizzata ha modificato la sagoma della parte di edificio cui accede, ha creato un nuovo spazio in termini di superficie coperta, decisamente superiore a quella che, in base all’art. 16, comma 1, lett. j), della l.r. 19/2009, potrebbe consentire di ricondurre l’intervento alla cd. attività edilizia libera. Necessitando, dunque, del previo rilascio del permesso di costruire, soggiace alle misure sanzionatorie stabilite dalla legge in caso di sua accertata mancanza ovvero alla rimozione/demolizione (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 22.04.2015 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo; né si configurano particolari esigenze o conseguenze connesse alla partecipazione procedimentale dell’interessato.

L’abusività dell’intervento realizzato appalesa, inoltre, di per sé l’infondatezza del I motivo di gravame.
Al di là del fatto, che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, risulta documentato che il medesimo ha presenziato alle attività di controllo espletate dal personale della Polizia Municipale e che può imputare solo alla sua negligenza l’omessa (formale) conoscenza dell’avvio del procedimento sanzionatorio, peraltro avviato con tempestività dal Comune di Udine (vedi all. 2, 3 e 5 – fascicolo doc. Comune), il Collegio ritiene che il vizio di omessa comunicazione di avvio del procedimento non possa, in ogni caso, inficiare la legittimità del provvedimento impugnato.
Invero, pur avendo ritenuto in una recente pronuncia (TAR FVG, I, 19.12.2014, n. 658) di poter trarre dall’omesso invio di tale comunicazione argomenti a supporto della fondatezza dell’impugnazione proposta avverso l’ordine di demolizione di una pergotenda del tutto provvisoria e aperta su tutti i lati, adibita a protezione stagionale dalla pioggia e dal sole, questo Collegio ritiene che non sussistono validi motivi (non essendo stati esplicitati nemmeno nell’isolato revirement dianzi citato) per abbandonare l’orientamento consolidato, a mente del quale “l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo; né si configurano particolari esigenze o conseguenze connesse alla partecipazione procedimentale dell’interessato” (C.d.S. n. 2196/2014 cit.; in termini TAR FVG, I, n. 339/2013 e n. 498/2012) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 22.04.2015 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Valutazione dei dirigenti: diritto di accesso agli atti dell'Organismo indipendente di valutazione
Sono ostensibili gli atti dell'OIV relativi alla valutazione dei dirigenti allorquando gli stessi siano necessari per poter adeguatamente tutelare la posizione giuridica dell'istante, assunta come lesa dalle valutazioni negative formulate dal medesimo organismo.
Il D.Lgs. 14/03/2013, n. 33 (recante il “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”) all’art. 20, rubricato “obbligo di pubblicazione dei dati relativi alla valutazione della performance e alla distribuzione dei premi al personale”, stabilisce che: <<Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati relativi all'ammontare complessivo dei premi collegati alla performance stanziati e l'ammontare dei premi effettivamente distribuiti. Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati relativi all'entità del premio mediamente conseguibile dal personale dirigenziale e non dirigenziale, i dati relativi alla distribuzione del trattamento accessorio, in forma aggregata, al fine di dare conto del livello di selettività utilizzato nella distribuzione dei premi e degli incentivi, nonché i dati relativi al grado di differenziazione nell'utilizzo della premialità sia per i dirigenti sia per i dipendenti>>.
L'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti imposti dal d.lgs. 33 del 2013, ai sensi dell’art. 46 del medesimo decreto legislativo, costituiscono elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, nonché eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine dell'amministrazione e sono comunque valutati ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili.
Alla luce della richiamata normativa i dati relativi all’ammontare delle risorse destinate al pagamento del trattamento accessorio dei dirigenti, nonché i criteri di valutazione utilizzati per il riparto dei fondi destinati alle indennità di risultato dei dirigenti, sono soggetti ex lege a pubblicazione, in ossequio al principio di trasparenza “intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 1, d.lgs. 33 del 2013).
Dall’attuale obbligo di pubblicazione e accessibilità totale e generalizzata di tali dati, i quali sono soggetti all’accesso civico per violazione degli obblighi di trasparenza, consegue, a maggior ragione, che non possono essere sottratti all’accesso degli interessati a norma dell’art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241 i documenti relativi all’ammontare delle risorse destinate al pagamento del trattamento accessorio dei dirigenti, i criteri di valutazione utilizzati per il riparto dei fondi destinati alle indennità di risultato dei dirigenti, nonché i documenti inerenti la valutazione dei dirigenti.
---------------
Né può essere invocato, al fine di escludere l’accesso alle schede di valutazione dei dirigenti, il diritto alla riservatezza dei dirigenti per quanto riguarda le informazioni psico-attitudinali contenute in tali schede.
Secondo la disciplina generale dell’accesso ai documenti amministrativi, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie rispetto a quelle alla riservatezza dei soggetti terzi, ed in tal senso il dettato normativo richiede che l’accesso sia garantito "comunque" a chi debba acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura dei propri interessi giuridicamente protetti (art. 24, comma 7, l. n. 241/1990); la medesima norma, tuttavia, specifica con molta chiarezza come non bastano esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed ammettendosi solo nei limiti in cui sia "strettamente indispensabile" la conoscenza di documenti, contenenti "dati sensibili e giudiziari".
Secondo la consolidata e condivisibile giurisprudenza amministrativa, nel caso in cui l’interesse ostensivo dell’istante si contrapponga a quello alla riservatezza di soggetti terzi, vale la regola enunciata dall’art. 24 comma 7 l. n. 241 del 1990, che determina la prevalenza delle esigenze ostensive sulle esigenze di riservatezza di terzi ove le prime siano funzionali alla difesa in giudizio delle ragioni dell'istante; e tanto anche quando si tratti di esigenze di riservatezza afferenti dati sensibili o addirittura ultrasensibili della persona. Tuttavia, l’art. 24 comma 7 l. n. 241 del 1990, impone un’attenta valutazione -da effettuare caso per caso- circa la stretta funzionalità dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia, attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango costituzionale rispetto al diritto di difesa.
Applicando i principi esposti al caso di specie, il Collegio ritiene che la conoscenza delle schede di valutazione dei dirigenti, ivi compresi i giudizi psico-attitudinali, sia strettamente funzionale e necessaria alla tutela dell’interesse della ricorrente, dirigente amministrativo, sottoposta a valutazione negativa dal competente organismo indipendente, a conoscere le valutazioni del personale dirigente, al fine di verificare i criteri seguiti dall’organismo di valutazione e di sindacare l’incidenza degli aspetti attitudinali negativi sul voto complessivo attribuito dall’organismo indipendente di valutazione.
Sussiste, pertanto, il diritto di accesso dell’interessata a conoscere gli atti dell’organismo di valutazione recanti le valutazioni degli altri dirigenti, perché solo attraverso l’accesso a tali atti, l’istante può tutelare in giudizio la propria posizione giuridica soggettiva, asseritamente lesa da giudizi negativi ricevuti dal medesimo organismo di valutazione. Difatti attraverso l’esame delle schede richieste l’istante può confrontare le valutazioni in esse espresse con i propri giudizi e spiegare così le proprie ragioni di censura avverso valutazioni dell’organismo di valutazione, che eventualmente appaiano in evidente discrepanza con i criteri di equità ed imparzialità, oltre che con i criteri prefissati che soprassiedono alla valutazione dei risultati conseguiti dai dirigenti.
Ritiene, pertanto, il Collegio che le esigenze defensionali alla base dell'accesso sono da ritenere prevalenti sulla tutela della riservatezza e pertanto il diritto di accesso alle schede di valutazione degli altri dirigenti non può essere negato sul presupposto che verrebbe violato il loro diritto alla riservatezza di dati psicoattitudinali sia perché depone, in senso contrario, l’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 sia perché un eventuale improprio utilizzo delle schede da parte dell'interessato-ricorrente può adeguatamente essere tutelato dall'ordinamento.

... per l'annullamento del provvedimento 14.05.2014, n. 30330, di rigetto dell'istanza presentata dalla ricorrente per l'accesso ai seguenti documenti: verbali di riunione dell'organismo indipendente di valutazione per le attività di valutazione dei dirigenti per gli anni 2010, 2011, 2012 e 2013; schede di valutazione di tutto il personale dirigente; indicazione dell’entità del fondo per l’indennità di risultato e il piano di riparto dello stesso per le annualità sopra indicate;
...
5.- Il ricorso è fondato.
5.1.- Il D.Lgs. 14/03/2013, n. 33 (recante il “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”) all’art. 20, rubricato “obbligo di pubblicazione dei dati relativi alla valutazione della performance e alla distribuzione dei premi al personale”, stabilisce che: <<Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati relativi all'ammontare complessivo dei premi collegati alla performance stanziati e l'ammontare dei premi effettivamente distribuiti. Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati relativi all'entità del premio mediamente conseguibile dal personale dirigenziale e non dirigenziale, i dati relativi alla distribuzione del trattamento accessorio, in forma aggregata, al fine di dare conto del livello di selettività utilizzato nella distribuzione dei premi e degli incentivi, nonché i dati relativi al grado di differenziazione nell'utilizzo della premialità sia per i dirigenti sia per i dipendenti>>.
L'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti imposti dal d.lgs. 33 del 2013, ai sensi dell’art. 46 del medesimo decreto legislativo, costituiscono elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, nonché eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine dell'amministrazione e sono comunque valutati ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili.
Alla luce della richiamata normativa i dati relativi all’ammontare delle risorse destinate al pagamento del trattamento accessorio dei dirigenti, nonché i criteri di valutazione utilizzati per il riparto dei fondi destinati alle indennità di risultato dei dirigenti, sono soggetti ex lege a pubblicazione, in ossequio al principio di trasparenza “intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 1, d.lgs. 33 del 2013).
Dall’attuale obbligo di pubblicazione e accessibilità totale e generalizzata di tali dati, i quali sono soggetti all’accesso civico per violazione degli obblighi di trasparenza, consegue, a maggior ragione, che non possono essere sottratti all’accesso degli interessati a norma dell’art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241 i documenti relativi all’ammontare delle risorse destinate al pagamento del trattamento accessorio dei dirigenti, i criteri di valutazione utilizzati per il riparto dei fondi destinati alle indennità di risultato dei dirigenti, nonché i documenti inerenti la valutazione dei dirigenti.
5.2.- Né può essere invocato, al fine di escludere l’accesso alle schede di valutazione dei dirigenti, il diritto alla riservatezza dei dirigenti per quanto riguarda le informazioni psico-attitudinali contenute in tali schede.
Secondo la disciplina generale dell’accesso ai documenti amministrativi, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie rispetto a quelle alla riservatezza dei soggetti terzi, ed in tal senso il dettato normativo richiede che l’accesso sia garantito "comunque" a chi debba acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura dei propri interessi giuridicamente protetti (art. 24, comma 7, l. n. 241/1990); la medesima norma, tuttavia, specifica con molta chiarezza come non bastano esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed ammettendosi solo nei limiti in cui sia "strettamente indispensabile" la conoscenza di documenti, contenenti "dati sensibili e giudiziari".
Secondo la consolidata e condivisibile giurisprudenza amministrativa, nel caso in cui l’interesse ostensivo dell’istante si contrapponga a quello alla riservatezza di soggetti terzi, vale la regola enunciata dall’art. 24 comma 7 l. n. 241 del 1990, che determina la prevalenza delle esigenze ostensive sulle esigenze di riservatezza di terzi ove le prime siano funzionali alla difesa in giudizio delle ragioni dell'istante; e tanto anche quando si tratti di esigenze di riservatezza afferenti dati sensibili o addirittura ultrasensibili della persona. Tuttavia, l’art. 24 comma 7 l. n. 241 del 1990, impone un’attenta valutazione -da effettuare caso per caso- circa la stretta funzionalità dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia, attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango costituzionale rispetto al diritto di difesa (Consiglio di Stato sez. III 05.06.2012 n. 3310; Consiglio di Stato sez. VI 20.11.2013 n. 5515; Consiglio di Stato sez. VI 28.09.2012 n. 5153).
Applicando i principi esposti al caso di specie, il Collegio ritiene che la conoscenza delle schede di valutazione dei dirigenti, ivi compresi i giudizi psico-attitudinali, sia strettamente funzionale e necessaria alla tutela dell’interesse della ricorrente, dirigente amministrativo, sottoposta a valutazione negativa dal competente organismo indipendente, a conoscere le valutazioni del personale dirigente, al fine di verificare i criteri seguiti dall’organismo di valutazione e di sindacare l’incidenza degli aspetti attitudinali negativi sul voto complessivo attribuito dall’organismo indipendente di valutazione.
Sussiste, pertanto, il diritto di accesso dell’interessata a conoscere gli atti dell’organismo di valutazione recanti le valutazioni degli altri dirigenti, perché solo attraverso l’accesso a tali atti, l’istante può tutelare in giudizio la propria posizione giuridica soggettiva, asseritamente lesa da giudizi negativi ricevuti dal medesimo organismo di valutazione. Difatti attraverso l’esame delle schede richieste l’istante può confrontare le valutazioni in esse espresse con i propri giudizi e spiegare così le proprie ragioni di censura avverso valutazioni dell’organismo di valutazione, che eventualmente appaiano in evidente discrepanza con i criteri di equità ed imparzialità, oltre che con i criteri prefissati che soprassiedono alla valutazione dei risultati conseguiti dai dirigenti.
Ritiene, pertanto, il Collegio che le esigenze defensionali alla base dell'accesso sono da ritenere prevalenti sulla tutela della riservatezza e pertanto il diritto di accesso alle schede di valutazione degli altri dirigenti non può essere negato sul presupposto che verrebbe violato il loro diritto alla riservatezza di dati psicoattitudinali sia perché depone, in senso contrario, l’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 sia perché un eventuale improprio utilizzo delle schede da parte dell'interessato-ricorrente può adeguatamente essere tutelato dall'ordinamento.
6.- Alla luce di tutte le considerazioni svolte il ricorso merita accoglimento, con conseguente obbligo dell’Amministrazione provinciale di consentire l’accesso ai documenti richiesti (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 16.04.2015 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sottotetti con rischio di carico. Oltre al cambio di destinazione d’uso serve il rispetto delle norme antisismiche.
Ristrutturazioni. Valutazioni approfondite sulla staticità con progetto firmato da un tecnico per evitare le sanzioni penali.
Lavori a rischio nei sottotetti, per il cumulo di norme edilizie, sul cemento armato e zone sismiche.
Lo sottolinea, da ultimo, la Corte di Cassazione -Sez. III penale- con la sentenza 15.04.2015 n. 15429, che sanziona la posa in opera di un parquet, di un radiatore, di infissi, serramenti e servizi igienici su impianti di scarico già esistenti. I lavori erano avvenuti nel sottotetto di un Comune del Salernitano, in zona sismica, senza essere preceduti né da comunicazioni, né da adeguate progettazioni.
L’errore che ha causato la condanna penale scaturisce da una lettura semplificata del recupero dei sottotetti, con meri cambi di destinazione, trascurando l’insidia rappresentata dalla portata dei solai. Un sottotetto può, ad esempio, sopportare 80 kg per mq, mentre il pavimento di una residenza sopporta fino a 250 chili per mq. Questa rilevante differenza dovrebbe essere tenuta presente sempre, anche indipendentemente da divieti e sanzioni penali che scattano quando l’edificio è in cemento armato o in zona sismica.
I sottotetti sono quindi solo in apparenza agevolmente trasformabili e non deve indurre ad interventi affrettati la giurisprudenza che tollera, nel sottotetto, la presenza di mobilio (Tar Brescia, sentenza n. 40/2004, Consiglio di Stato, 2586/2003), o quella che esige un titolo edilizio solo qualora vi si realizzino luci, vedute, gas, acqua, telefono ed impianti fognari (Consiglio di Stato, sentenza 1071/1995).
Inoltre, per usare un sottotetto non basta invocare lo “sblocca Italia” (Dl 133/2013, convertito nella legge 164/2014), che consente sempre i cambi di destinazione all’interno di una stessa categoria funzionale. Non ha infatti rilievo la circostanza che il sottotetto, in un edificio di abitazione, appartenga ad un’omogenea categoria di «residenze» (Consiglio di Stato, sentenza 357/2015).
L’esigenza di recupero dei sottotetti ha indotto molte Regioni a legiferare ma nemmeno le leggi regionali liberano dalle verifiche statiche, indispensabili, quando vi è cemento armato o sismicità. Le prime incomprensioni che sorgono in materia riguardano la terminologia, poiché le norme tecniche usano il termine «riparazioni» (articoli 17-19 legge 64/1974 sul cemento armato), mentre le norme urbanistiche sembrano di più facile applicazione, parlando di «manutenzioni» e di «ristrutturazioni». Ma quando si è in zona sismica o si utilizza il cemento armato, prevalgono le norme tecniche. Tra queste vi è il Dm infrastrutture 14.01.2008, che distingue tra interventi strutturali o non strutturali e secondo cui ogni modifica di destinazione d’uso da sottotetto a vano abitabile, va classificata come ristrutturazione edilizia quando variano in modo significativo carichi e classe d’uso dell’immobile.
Anche le Regioni hanno voce in capitolo, poiché spetta loro individuare le “parti strutturali” di edifici su cui si può intervenire solo rispettando le norme sismiche e sul cemento armato. Intervento strutturale può essere, ad esempio, l’apertura di un passaggio da un piano residenziale al sottotetto è soggetta ad asseverazioni ed elaborati grafici , in aggiunta al necessario titolo edilizio (Tar Catanzaro, sentenza 125/2006).
In caso di errori o omissioni, i controlli sono affidati ai Comuni, ad esempio utilizzando l’articolo 32 del Dpr 380/2001 (Tu edilizia), che qualifica come variante essenziale il mero cambio di destinazione in contrasto con la normativa sul cemento armato e sulle zone sismiche, imponendo il permesso di costruire. Se manca il permesso di costruire, vi sono sanzioni ripristinatorie (demolizione) oltre che penali. La violazione di norme penali sul cemento armato o le zone sismiche è considerata un reato permanente, che cessa solo con il rispetto delle procedure e delle valutazioni che escludano rischi.
---------------
In bilico anche i vecchi recuperi.
Il passato. Quando si è intervenuti con modifiche strutturali.

Anche il recupero dei sottotetti senza cemento armato o in epoche precedenti il vincolo sismico, può comunque riservare sorprese. In questi casi la modifica dell’uso dei sottotetti sembra possa rimanere nell’ambito delle opere di manutenzione o addirittura dei cambi di destinazione senza opere, ma vi è il diritto degli acquirenti e inquilini di ottenere controlli sulla qualità dell’immobile che intendono acquistare o abitare. Basta infatti una libreria, un tramezzo fuori posto o una vasca idromassaggio per generare forti rischi ed incidere sull’utilizzabilità del bene.
Stesso controllo possono chiedere i condomini, per i potenziali danni a strutture comuni. Utilizzando il parametro delle «riparazioni» che incidono sui carichi, si può infatti sostenere, anche senza che sia utilizzato il cemento armato ed anche per modifiche anteriori la sismicità, l’esistenza di rischi. Di qui l’importanza della
sentenza 15.04.2015 n. 15429 della Corte di Cassazione, che colloca l’esecuzione di elementi di apparente mera manutenzione quali un parquet, un radiatore, infissi e serramenti, tra le «riparazioni» (articoli 17-19 legge 64 del 1974) al di fuori della manutenzione ordinaria.
Gli elementi da tener presenti per rendersi conto della necessità di approfondimenti possono essere vari: il mancato o tardivo allineamento catastale (Dl 78/2010), l’esistenza di una mera comunicazione di inizio attività o di una Scia per modifiche interne, l’assenza di un progetto di un ingegnere o di un architetto. In questi casi, anche modifiche poco significative sulle strutture orizzontali (quali la realizzazione di due finestre, Cassazione, sentenza 6460/2010), devono generare una valutazione sulla sicurezza.
Il parametro di maggior cautela è quello della distinzione tra opere strutturali o non strutturali (Dm Infrastrutture 14.01.2008). Tale norma colloca ogni modifica di destinazione d’uso da sottotetto a vano abitabile, tra le ristrutturazioni edilizie (e non tra le manutenzioni ordinarie), tutte le volte che vi sia una variazione significativa dei carichi variabili o della classe d’uso della costruzione.
 
--------------
Sul territorio oneri urbanistici a costi variabili. Gli altri fattori. Incentivi o penalizzazioni locali.
Il recupero del sottotetto è, di norma, catalogato nella categoria delle ristrutturazioni edilizie. Il cittadino che decide di mettere mano alla propria casa, dando nuova vita alla mansarda inutilizzata, dovrà dunque far fronte a due tipi di oneri: quelli di urbanizzazione primaria e secondaria (che coprono una quota dei servizi comunali, dalle reti alle tubature, dalla presenza di scuole e biblioteche) oltre al costo vero e proprio di costruzione.
Non mancano, tuttavia, le eccezioni. In senso restrittivo (più tasse per chi recupera) o di segno contrario (per incentivare il minor consumo di suolo).
Va nella prima direzione la scelta di Lazio e Lombardia. Su questi territori la norma regionale permette ai Comuni di decidere se deliberare o meno un incremento del costo urbanistico, fino a un massimo del 20 per cento. Ancora più stringente la posizione della Sicilia: qui, oltre al contributo di costruzione, è dovuta una somma pari al 20% del valore catastale incrementato a seguito dell'aumento di superficie. In Abruzzo, ancora, la legge prevede il raddoppio dei soli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
Scelta di segno opposto quella di alcune regioni del Nordovest, che invece incentivano il recupero anche sotto il profilo economico con l’obiettivo di limitare la nuova edificazione. In Piemonte il contributo può, infatti, essere ridotto della metà se, nel recupero del sottotetto, non è prevista la realizzazione di un’unità immobiliare autonoma ed è trascritta una dichiarazione notarile di pertinenza dei locali all’abitazione principale.
Stessa norma in Liguria, applicata anche nel caso in cui venga recuperato un alloggio a destinazione popolare o turistica.
Per ciò che riguarda, invece, l’osservanza della norma nazionale che, in presenza di una nuova costruzione, prescrive uno standard di destinazione di spazi a parcheggi in misura pari a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione, questa regola è riportata tout court solo dalla legge dell’Emilia Romagna, che precisa anche la possibilità per i Comuni di monetizzare la mancata disponibilità degli spazi. Buona parte delle altre regioni (Abruzzo, Lazio, Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte e Puglia) prevede che gli spazi siano reperiti o monetizzati solo se viene realizzata nel sottotetto un’unità immobiliare autonoma.
La Liguria, a tal proposito, precisa anche, nella nuova legge, che la superficie dello spazio destinato alle auto non deve essere inferiore a 12,50 metri quadrati e su tale parametro deve essere calcolata anche l’eventuale corresponsione della quota parcheggi non disponibile con il versamento di soldi alla Città. Infine, in Veneto il rispetto dello standard è richiesto solo se il consiglio comunale lo pretende con delibera mentre in Basilicata e Calabria soltanto se la mansarda resa abitabile supera rispettivamente il 15% o il 25% del volume dell’intero edificio.
---------------
Riutilizzo facilitato per altezze e vedute in diciotto Regioni. Le deroghe. Norme più permissive.
I restyling più recenti delle leggi regionali sul recupero dei sottotetti sono quelli della Liguria e delle Marche. La prima Regione, con la legge 30/2014, ha riscritto buona parte della precedente disciplina, in vigore da oltre 13 anni (Lr 24/2001), ma ridotta alla semi-paralisi dalla mancanza di una direzione chiara (ora introdotta) che superasse la troppa giurisprudenza prodotta, specie nel savonese, sulle modalità di rilascio dei permessi. Le Marche hanno invece affidato alla legge sulla semplificazione edilizia (la n. 17/2015), il compito di rinnovare i contenuti di una disciplina ferma al 2010, aggiornando il parco edifici su cui si può intervenire dando nuova vita alle mansarde (tutti quelli esistenti al 30.06.2014) e ritoccando altezze minime e rapporti di aero/illuminazione.
Al di là delle modifiche più recenti, dal Sud al Nord Italia, quasi ovunque, le Regioni hanno in vigore regole per il recupero, a fini abitativi (e non solo), dei sottotetti in fabbricati esistenti.
La prima Giunta a muoversi in tal senso, in Italia, è stata la Lombardia. Poi, a poco a poco, si sono aggiunti altri casi: oggi i territori che hanno leggi specifiche sono 18. A questi si aggiungono la Valle d’Aosta (con norme nella legge urbanistica) e la Provincia di Bolzano (con una delibera) con cui si dettano regole per agevolare l’abitabilità delle soffitte (si veda la tabella). Inoltre, pur mancando una normativa strutturata, qualche eccezione ai limiti urbanistici relativi alle altezze per consentire il recupero delle mansarde è presente anche in Provincia di Trento (Dpgp 2330/2003, Dgr 28/2003 e la legge 23/1981 sui servizi alberghieri).
La maggior parte delle leggi regionali approvate riguarda sottotetti in edifici realizzati a una certa data prefissata (che è stata aggiornata nel tempo, con modifiche alla legge madre). Diversi gli elementi in comune. Primo fra tutti, la decisione di ammorbidire i rigidi requisiti di abitabilità prescritti dalle norme statali (legge 457/1978 e Dm Sanità 05.07.1975), che fissano l’altezza media necessaria per il recupero a 2,7 metri e il rapporto tra le finestre e il pavimento delle stanze a 1/8.
In genere, nelle discipline locali, ci si accontenta di un’altezza media di 2,4 metri, ma non manca chi ne richiede solo 2,2 metri (come la Calabria, la Campania o il Molise) o addirittura 2 metri (il Lazio) e 1,9 metri (il Friuli). Così il rapporto di aero-illuminazione scende a 1/10 (Molise), a 1/12 (Marche), a 1/15 (a Bolzano e in Calabria), a 1/16 (in Emilia Romagna e Liguria, ma non solo), addirittura a 1/32 nei centri storici della Vallée.
Rispetto alle misure minime, sono in genere agevolati i comuni delle zone montane: anche se il concetto di “montano” varia da regione a regione, da un minimo di 300 metri fino a 1.100 metri. Fanno eccezione a questa regola la Basilicata, la provincia di Bolzano, la Sicilia, l’Umbria e (dopo l’ultima revisione) anche la Liguria.
Altro tratto simile è che il recupero del sottotetto deve avvenire a fini abitativi. In Liguria, però, è ammesso anche l’uso a fini turistici-ricettivi mentre in Umbria si amplia al terziario e al direzionale e in Valle d’Aosta sono agevolate tutte le destinazioni. Per consentire il riuso del solaio non è infrequente anche la concessione di deroghe alle norme previste per le nuove costruzioni e l’abbattimento delle barriere architettoniche.
Se viene, infine, concessa spesso l’apertura di finestre e lucernari per assicurare l’osservanza dei requisiti di aero-illuminazione, quasi ovunque è invece esclusa la possibilità di sopraelevazione e la modifica delle pendenze dei tetti (mentre a volte è consentito l’abbassamento dei soffitti dei locali sottostanti per recuperare spazio, purché si preservi un minimo di 2,7 metri di altezza).
Fanno eccezione sette territori: Lombardia, Liguria, Umbria, Lazio, Sardegna, Friuli ed Emilia Romagna che danno diritto al sopralzo, ma solo allo scopo di raggiungere i parametri di altezza minima per l’abitabilità. In Valle d’Aosta questa deroga è consentita solo nei centri storici
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.05.2015 - tratto da www.centrosctudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAQualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio amato, diverso dalla semplice manutenzione ordinaria, deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, conseguendone, in difetto, la violazione dell'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Invero, la normativa antisismica non distingue tra opere interne ed opere esterne, ma prescrive il controllo di qualsiasi costruzione, riparazione o sopraelevazione. La giurisprudenza di questa corte nel concetto di costruzione, sotto il vigore della disciplina previgente, faceva rientrare qualsiasi opera a prescindere dal titolo abilitativo richiesto (concessione o autorizzazione) e dalle sue caratteristiche o dimensioni e ciò al fine di consentire il controllo preventivo e documentale dell'attività edile eseguita in zone sismiche.
La vigilanza sull'attività edilizia nei comuni considerati sismici si affianca a quella ordinaria basata sul rilascio di un titolo abilitativo conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie. Nelle zone sismiche l'attività edilizia è quindi soggetta ad un duplice controllo: a quello operato dall'ufficio tecnico regionale, riguardante la sicurezza delle costruzioni rispetto ai fenomeni sismici, ed a quello dell'autorità comunale, attinente all'osservanza degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi. Quindi, sia in base alla disciplina attuale, che a quella previgente, qualsiasi intervento edilizio, fatta eccezione per quelli di semplice manutenzione ordinaria, se eseguito in zona sismica deve essere preventivamente denunciato all'ufficio tecnico ai fine di consentire i dovuti controlli in merito al rispetto della disciplina vigente in materia di costruzione in zone sismiche.
---------------
La modifica della destinazione d'uso del locale sottotetto in un vano abitabile non può essere considerata alla stregua di un intervento di manutenzione ordinaria perché si tratta di un intervento di ristrutturazione edilizia, in questo caso con opere (messa in opera di parquet, apposizione di un radiatore, installazione di infissi e serramenti, apposizione di servizi igienici in costanza di impianti di scarico ancorché già esistenti).
Va peraltro aggiunto che il D.M. Ministero delle Infrastrutture del 14/01/2008 - Approvazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni in cemento armato ed in zone sismiche, disciplina espressamente (capitolo 8) gli interventi non dichiaratamente strutturali effettuati su edifici esistenti, prescrivendo (paragrafo 8.3) che «le costruzioni esistenti devono essere sottoposte a valutazione della sicurezza quando ricorra anche una delle seguenti situazioni: (...) cambio della destinazione d'uso della costruzione o di parti di essa, con variazione significativa dei carichi variabili e/o della classe d'uso della costruzione».
Sottotetti ed ambienti residenziali hanno carichi variabili diversi (capitolo 3, paragrafo 3.1.4); ne consegue che la trasformazione del vano sottotetto non abitabile in ambiente residenziale comporta sempre la necessaria valutazione di sicurezza, con conseguente divieto di iniziare i lavori senza l'autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.

3. Qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio amato, diverso dalla semplice manutenzione ordinaria, deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, conseguendone, in difetto, la violazione dell'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Sez. 3, 34604 del 17/06/2010; cfr., altresì, Sez. 3, n. 45958 del 26/10/2005, che ha condivisiblmente affermato che <<la normativa antisismica non distingue tra opere interne ed opere esterne, ma prescrive il controllo di qualsiasi costruzione, riparazione o sopraelevazione. La giurisprudenza di questa corte nel concetto di costruzione, sotto il vigore della disciplina previgente, faceva rientrare qualsiasi opera a prescindere dal titolo abilitativo richiesto (concessione o autorizzazione) e dalle sue caratteristiche o dimensioni e ciò al fine di consentire il controllo preventivo e documentale dell'attività edile eseguita in zone sismiche (Cass. n. 10640 del 1985; 21.07.1992 n. 8140; Cass. Sez. 3, n. 7353 del 1995; 02.06.1999 n. 6923). La vigilanza sull'attività edilizia nei comuni considerati sismici si affianca a quella ordinaria basata sul rilascio di un titolo abilitativo conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie. Nelle zone sismiche l'attività edilizia è quindi soggetta ad un duplice controllo: a quello operato dall'ufficio tecnico regionale, riguardante la sicurezza delle costruzioni rispetto ai fenomeni sismici, ed a quello dell'autorità comunale, attinente all'osservanza degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi. Quindi, sia in base alla disciplina attuale, che a quella previgente, qualsiasi intervento edilizio, fatta eccezione per quelli di semplice manutenzione ordinaria, se eseguito in zona sismica deve essere preventivamente denunciato all'ufficio tecnico ai fine di consentire i dovuti controlli in merito al rispetto della disciplina vigente in materia di costruzione in zone sismiche>>).
La modifica della destinazione d'uso del locale sottotetto in un vano abitabile non può essere considerata alla stregua di un intervento di manutenzione ordinaria perché si tratta di un intervento di ristrutturazione edilizia, in questo caso con opere (messa in opera di parquet, apposizione di un radiatore, installazione di infissi e serramenti, apposizione di servizi igienici in costanza di impianti di scarico ancorché già esistenti).
Va peraltro aggiunto che il D.M. Ministero delle Infrastrutture del 14/01/2008 - Approvazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni in cemento armato ed in zone sismiche (Pubblicato nella Gazz. Uff. 04.02.2008, n. 29, S.O.), disciplina espressamente (capitolo 8) gli interventi non dichiaratamente strutturali effettuati su edifici esistenti, prescrivendo (paragrafo 8.3) che «le costruzioni esistenti devono essere sottoposte a valutazione della sicurezza quando ricorra anche una delle seguenti situazioni: (...) cambio della destinazione d'uso della costruzione o di parti di essa, con variazione significativa dei carichi variabili e/o della classe d'uso della costruzione
».
Sottotetti ed ambienti residenziali hanno carichi variabili diversi (capitolo 3, paragrafo 3.1.4); ne consegue che la trasformazione del vano sottotetto non abitabile in ambiente residenziale comporta sempre la necessaria valutazione di sicurezza, con conseguente divieto di iniziare i lavori senza l'autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.04.2015 n. 15429).

EDILIZIA PRIVATA: Come già ricordato da questa Sezione, per effetto dell'art. 19, ultimo comma, della L. n. 241 del 1990, in caso di presentazione di una DIA o di una SCIA (segnalazione certificata di inizio attività), reputate illegittime, i soggetti che si considerano lesi dall'attività edilizia possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia di quest'ultima, esperire "esclusivamente", l'azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 31 del c.p.a..
Avendo questa Sezione già in precedenza affermato che la disposizione di cui al citato art. 19 vieta sostanzialmente l'impugnazione diretta della DIA o della SCIA -non costituenti provvedimenti amministrativi, neppure impliciti- ma consente la sola tutela giurisdizionale secondo il citato meccanismo di cui all'art. 31 c.p.a.; mentre, l’art. 133, comma 1, lett. a) n. 3, in tema di giurisdizione esclusiva, a chiusura del sistema dei rimedi esperibili dal terzo pregiudicato dalla D.I.A., implicitamente ammette l’impugnazione dei “provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione certificata, denuncia e dichiarazione d’inizio attività”.
Neppure sussistono i presupposti per dichiarare l’obbligo del Comune di ordinare il ripristino dei luoghi e la demolizione della nuova costruzione, residuando, al di là del portato motivazionale della presente sentenza, ancora margini di esercizio della discrezionalità da parte del Comune, insiti nella decisione sull’annullamento in autotutela della DIA; tenuto conto, che nel caso di specie gli interessi dei destinatari debbono ricevere adeguata considerazione, accanto all’interesse pubblico, essendo stata ultimata la costruzione del nuovo edificio.

4. Deve, invece, essere dichiarata inammissibile la domanda di accertamento della illegittimità/inefficacia della DIA del 22.10.2012 e della successiva SCIA del 02.07.2013.
Come già ricordato da questa Sezione con la sentenza n. 233 del 17.02.2013, resa nel precedente giudizio sul silenzio, infatti, per effetto dell'art. 19, ultimo comma, della L. n. 241 del 1990, in caso di presentazione di una DIA o di una SCIA (segnalazione certificata di inizio attività), reputate illegittime, i soggetti che si considerano lesi dall'attività edilizia possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia di quest'ultima, esperire "esclusivamente", l'azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 31 del c.p.a..
Avendo questa Sezione già in precedenza affermato che la disposizione di cui al citato art. 19 vieta sostanzialmente l'impugnazione diretta della DIA o della SCIA -non costituenti provvedimenti amministrativi, neppure impliciti- ma consente la sola tutela giurisdizionale secondo il citato meccanismo di cui all'art. 31 c.p.a. (cfr. Sez. II: 05.03.2012, n. 298; 15.02.2013, n. 230); mentre, l’art. 133, comma 1, lett. a) n. 3, in tema di giurisdizione esclusiva, a chiusura del sistema dei rimedi esperibili dal terzo pregiudicato dalla D.I.A., implicitamente ammette l’impugnazione dei “provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione certificata, denuncia e dichiarazione d’inizio attività”.
Quello appena descritto è d’altra parte il percorso seguito dai ricorrenti, che hanno prima reagito giudizialmente al silenzio della P.A., ottenendo la condanna di quest’ultima a provvedere sulla loro diffida, e poi hanno impugnato il provvedimento del 23.04.2014 di diniego di autotutela.
5. Neppure sussistono i presupposti per dichiarare l’obbligo del Comune di Vicenza di ordinare il ripristino dei luoghi e la demolizione della nuova costruzione, residuando, al di là del portato motivazionale della presente sentenza, ancora margini di esercizio della discrezionalità da parte del Comune, insiti nella decisione sull’annullamento in autotutela della DIA; tenuto conto, che nel caso di specie gli interessi dei destinatari debbono ricevere adeguata considerazione, accanto all’interesse pubblico, essendo stata ultimata la costruzione del nuovo edificio.
Inoltre, non risulta che nel caso in esame siano state poste in essere falsità progettuali tali da legittimare un vincolato intervento sanzionatorio, venendo in rilievo, come testimoniato dalla presente motivazione, solo questioni interpretative di norme legislative e regolamentari (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.04.2015 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi/Tar Sicilia. La tassa tardiva non esclude dalla graduatoria.
Torna in graduatoria nel concorso pubblico il candidato escluso perché non aveva pagato in tempo la tassa. E ciò perché il contributo richiesto per accedere alla selezione è solo il corrispettivo del servizio reso e non investe il profilo dei requisiti soggettivi per partecipare al bando.

Lo precisa il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, con la sentenza 26.03.2015 n. 752.
Si ritrova in gara per due dottorati universitari l'ingegnere che ha avuto molte difficoltà a pagare la tassa di partecipazione alla tornata concorsuale, a causa di Internet che fa le bizze: solo il vecchio e caro sportello dell'Ateneo riesce a risolvere telefonicamente il problema e a fare ammettere con riserva il laureato alla selezione (consigliandogli di pagare il bollettino sotto forma di «tassa universitaria»).
Ora l'interessato riesce a far annullare la parte del bando in base alla quale è stata decisa la sua esclusione. In effetti il versamento del contributo risulta comunque avvenuto prima della prova: si tratta di una mera irregolarità che ben può essere sanata dal momento che non altera la par condicio fra i partecipanti alla procedura.
La sanzione dell'esclusione è sproporzionata rispetto agli scopi che la clausola del bando intendeva perseguire. Né l'esclusione concorre alla realizzazione dell'interesse pubblico ex articolo 97 della Costituzione, che afferma il principio del buon andamento della pubblica amministrazione. L'Università è condannata a pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 28.05.2015).

EDILIZIA PRIVATACome osservato dalla costante giurisprudenza, la circostanza che dal punto di vista meramente pubblicistico un intervento sia consentito, non esclude che ad esso ostino ragioni operanti sul diverso piano dei rapporti tra privati e che l’amministrazione nell’esercizio del potere decisionale ne debba tener conto ove queste vengano portate alla sua attenzione.
---------------
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, la comunicazione del preavviso di rigetto non è applicabile alla D.I.A./S.C.I.A., in relazione alla particolare natura di tale procedimento, nel quale l'Amministrazione può intervenire in un arco temporale ristretto.

Ritenuto che:
- il ricorso sia infondato;
- ed infatti, con riferimento al primo motivo, l’intervento sopra descritto, insistendo su di uno spazio vuoto soprastante la proprietà comune e su di un muro condominiali, richiedeva l’assenso dell’effettivo proprietario di tali beni, ovvero del Consorzio di Gestione “I borghi di Garda Resort Village”, come rilevato dal Comune di Peschiera del Garda in entrambi i provvedimenti impugnati;
- peraltro, come risulta dalla documentazione in atti, lo Statuto del Consorzio di Gestione espressamente vieta qualsiasi modifica alle parti comuni dell’edificio non previamente consentite dal Consorzio;
- correttamente il Comune, nell’intervenire sulla SCIA in sanatoria, ha ritenuto rilevante il mancato assenso del Consorzio; ed invero, come osservato dalla costante giurisprudenza, la circostanza che dal punto di vista meramente pubblicistico un intervento sia consentito, non esclude che ad esso ostino ragioni operanti sul diverso piano dei rapporti tra privati e che l’amministrazione nell’esercizio del potere decisionale ne debba tener conto ove queste vengano portate alla sua attenzione (cfr., da ultimo, Cons. St., V, 27.05.2014, n. 2726);
- ne consegue che l’intervento in questione, essendo stato eseguito senza previa acquisizione di un titolo abilitativo, doveva necessariamente essere sanzionato con l’ordine di demolizione, mentre, la S.C.I.A. in sanatoria, in quanto presentata da soggetto non legittimato dalla previa autorizzazione del Consorzio, doveva essere inibita nei suoi effetti;
- entrambi i provvedimenti impugnati risultano quindi legittimi in quanto basati su validi ed incontestabili presupposti;
- quanto alla violazione dell'art. 10-bis della L. n. 241 del 1990, dedotta con il secondo motivo di ricorso -non essendo stato il provvedimento inibitorio impugnato preceduto dal preavviso di rigetto- secondo costante e condivisa giurisprudenza, la comunicazione del preavviso di rigetto non è applicabile alla D.I.A./S.C.I.A., in relazione alla particolare natura di tale procedimento, nel quale l'Amministrazione può intervenire in un arco temporale ristretto (cfr. TAR Veneto n. 875 19.06.2014; Cons. Stato, Sez. IV, 12.09.2007, n. 4828) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.03.2015 n. 359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il giudizio di verifica della congruità di un'offerta sospetta di anomalia, per giurisprudenza consolidata, ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, con irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento; esso non ha per oggetto “la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto, rilevando che l’offerta nel suo complesso appaia “seria”.
Risulta diffusa, benché non pacifica, l’opzione giurisprudenziale secondo cui in tema di anomalia delle offerte, sussiste un puntuale ed analitico onere di motivazione “solo nel caso in cui l'Amministrazione esprima un giudizio negativo sulle giustificazioni”, mentre non sussiste nel caso di esito positivo della relativa verifica, essendo sufficiente in tal caso motivare il provvedimento per relationem alle giustificazioni presentate dal concorrente, sempre che esse non siano manifestamente illogiche.
---------------
Nelle gare pubbliche il giudizio di anomalia o di incongruità dell'offerta espresso dalla stazione appaltante costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta, potendo quindi il giudice amministrativo sindacare tali valutazioni sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, “ma senza procedere ad una autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, posto che ciò costituirebbe un'inammissibile invasione della sfera propria della Pubblica amministrazione.
---------------
Dalle valutazioni effettuate dalla Cooperativa ... e vagliate dall’Amministrazione, non può invero verosimilmente escludersi la sussistenza di un margine pur esiguo di utile, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante, in termini di ricadute positive quali la qualificazione ed il fatturato per le successive gare d’appalto specie nell’attuale contesto di recessione economica.

3. Venendo all’esame delle suddette censure, non ritiene il Collegio di poterle ritenere meritevoli di accoglimento, potendosi pertanto prescindere dall’esame delle eccezioni in rito, per ragioni di economia del giudizio.
Come noto, il giudizio di verifica della congruità di un'offerta sospetta di anomalia, per giurisprudenza consolidata, ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, con irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento; esso non ha per oggetto “la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto, rilevando che l’offerta nel suo complesso appaia “seria” (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 27.08.2014, n. 4368; id. sez. III, 09.07.2014, n. 3492; id. sez. IV, 23.07.2012, n. 4206; id. sez. V, 22.02.2011, n. 1090; id. sez. VI, 24.08.2011, n. 4801; TAR Puglia-Bari sez. I, 08.03.2012, n. 506).
Risulta diffusa, benché non pacifica, l’opzione giurisprudenziale secondo cui in tema di anomalia delle offerte, sussiste un puntuale ed analitico onere di motivazione “solo nel caso in cui l'Amministrazione esprima un giudizio negativo sulle giustificazioni”, mentre non sussiste nel caso di esito positivo della relativa verifica, essendo sufficiente in tal caso motivare il provvedimento per relationem alle giustificazioni presentate dal concorrente, sempre che esse non siano manifestamente illogiche (TAR Sicilia-Catania sez. III, 30.05.2012, n. 1416; Consiglio di Stato sez. III, 22.12.2014, n. 6349; id. sez. V, 18.04.2012, n. 1513; id. sez. V, 20.06.2011, n. 3675; id. 13.02.2010, n. 741; id. sez. V, 18.04.2012, n. 1513; TAR Puglia-Bari sez. I, 08.03.2012, n. 506).
3.1. Muovendo da tali preliminari considerazioni, ritiene il Collegio che, nel caso in esame, la verifica di congruità dell’offerta sospettata di anomalia effettuata dalla stazione appaltante -al di là di specifiche e singole incongruenze di alcuni voci indicate nell’offerta- sia immune dalle censure dedotte, alla luce delle giustificazioni fornite dall’interessata, non essendo imposto né dalla normativa né dalla lex specialis l’indicazione espressa dell’utile in sede di offerta economica.
3.2. Quanto ai costi per la promozione di attività culturali (gite e visite) la Cooperativa ACTL ha fornito dimostrazione della capacità di assorbirli al proprio interno, mediante l’utilizzo dei propri soci lavoratori (ben 450) senza necessità di rivolgersi al mercato esterno, così come per i costi per l’acquisto di spazi pubblicitari, laddove è stato parimenti chiarito che l’inserzione pubblicitaria non viene realizzata su giornali bensì mediante articoli di promozione del servizio sociale oggetto di affidamento, senza alcun costo.
3.3. Non priva di profili di incongruità, invece, pare la voce relativa ai costi c.d. amministrativi, stimati dalla ACTL in 625 euro, relativamente alla stipulazione del contratto, dal momento che l’art. 11, c. 13, del D.lgs. 163/2006 richiamato dalla difesa comunale, nel prevedere come alternativa alla forma pubblica amministrativa la stipulazione mediante scrittura privata semplice, va in realtà integrato dal R.D. 18.11.1923 n. 2440, tutt’ora vigente, i cui artt. 16 e 17 impongono la forma pubblica in ipotesi di affidamento mediante evidenza pubblica, con la conseguenza che soltanto le spese per diritti di segreteria ammonterebbero a 517,36 euro (tenuto conto della riduzione del 50% spettante alle Onlus) a cui aggiungersi 200,00 euro di spese fisse di registrazione, per un totale di 717,36 euro a cui debbono aggiungersi le spese per l’accensione delle richieste garanzie e per l’assicurazione RCO/RCT. Trattasi comunque di scostamenti marginali e di lieve entità del tutto irrilevanti ai fini della verifica di serietà dell’offerta nel suo insieme.
3.4. Ad ogni modo, pare al Collegio nel caso di specie del tutto tranciante, in punto di fatto, la sussistenza di una differenza davvero minima tra l’offerta economica della ricorrente (pari a 124.880,35 euro) e quella della controinteressata (pari a 123.445,00 euro) inferiore di soli circa 1.435,00 euro, risultando l’utile di impresa ipotizzabile se non identico del tutto equiparabile, in considerazione dello scopo non lucrativo delle cooperative sociali, rilevando solo la circostanza che la struttura dell'offerta sia tale da garantire uno svolgimento efficiente ed efficace del servizio, nel pieno perseguimento degli interessi pubblici della stazione appaltante (TAR Molise 24.09.2008, n. 714).
Considerazioni analoghe possono svolgersi anche per le altri “voci” asseritamente inattendibili, pur tenendosi sempre presente che nelle gare pubbliche il giudizio di anomalia o di incongruità dell'offerta espresso dalla stazione appaltante costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta, potendo quindi il giudice amministrativo sindacare tali valutazioni sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, “ma senza procedere ad una autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, posto che ciò costituirebbe un'inammissibile invasione della sfera propria della Pubblica amministrazione” (Consiglio di Stato sez. V, 22.01.2015, n. 246).
Conclusivamente, non può dirsi che la quantificazione dei costi effettuata dall’aggiudicataria risulti in perdita atteso che dalle valutazioni effettuate dalla Cooperativa ACTL e vagliate dall’Amministrazione, non può invero verosimilmente escludersi la sussistenza di un margine pur esiguo di utile, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante, in termini di ricadute positive quali la qualificazione ed il fatturato per le successive gare d’appalto (Consiglio di Stato sez. IV, 23.07.2012, n. 4206; id. sez. III, 11.04.2012, n. 2073) specie nell’attuale contesto di recessione economica (TAR Trentino Alto Adige 24.10.2013, n. 299).
Ritiene pertanto il Collegio che il giudizio di anomalia effettuato non presenti profili di illogicità, irragionevolezza o travisamento sindacabili da questo giudice (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 23.07.2012, n. 4206; TAR Puglia-Bari sez. I, 08.03.2012, n. 506) con conseguente infondatezza di tutte le censure di cui al I motivo di gravame (TAR Umbria, sentenza 14.03.2015 n. 114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Come noto, la questione della possibilità per la Commissione di gara di introduzione di sub-criteri di valutazione predeterminati dal bando, in termini generali e sistematici, è stata lungamente dibattuta nell’arco temporale precedente l’entrata in vigore del Codice contratti pubblici, avendo anche ingenerato la rimessione alla Corte di Giustizia europea per la valutazione di compatibilità con il diritto comunitario.
Con l’entrata in vigore del Codice contratti pubblici approvato con D.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’art. 83, c. 4, nel testo originario, ha previsto che “Il bando per ciascun criterio di valutazione prescelto prevede, ove necessario, i sub-criteri e i sub-pesi o i sub-punteggi. Ove la stazione appaltante non sia in grado di stabilirli tramite la propria organizzazione, provvede a nominare uno o più esperti con il decreto o la determina a contrarre, affidando ad essi l'incarico di redigere i criteri, i pesi, i punteggi e le relative specificazioni, che verranno indicati nel bando di gara. La commissione giudicatrice, prima dell'apertura delle buste contenenti le offerte, fissa in via generale i criteri motivazionali cui si atterrà per attribuire a ciascun criterio e sub-criterio di valutazione il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando”.
Già in riferimento a tale primo testo normativo, parte della giurisprudenza aveva assunto orientamento non restrittivo in ordine ai poteri specificativi o integrativi delle prescrizioni del bando, richiedendo comunque quantomeno la condizione della fissazione di tali sub-parametri prima dell’apertura delle buste contenenti le offerte.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza 24.01.2008 (proc. C-532/2006), ha precisato che "…tutti gli elementi presi in considerazione dall’autorità aggiudicatrice per identificare l’offerta economicamente più vantaggiosa e la loro importanza relativa siano noti ai potenziali offerenti al momento in cui presentano le offerte ... infatti i potenziali offerenti devono essere messi in condizione di conoscere, al momento della presentazione delle loro offerte, l’esistenza e la portata di tali elementi ... pertanto un’amministrazione aggiudicatrice non può applicare regole di ponderazione o sottocriteri per i criteri di aggiudicazione che non abbia preventivamente portato a conoscenza degli offerenti … gli offerenti devono essere posti su un piano di parità durante l’intera procedura, il che comporta che i criteri e le condizioni che si applicano a ciascuna gara debbano costituire oggetto di un’adeguata pubblicità da parte delle amministrazioni aggiudicatici".
A sua volta, la Commissione CE, con nota del 30.01.2008, ha avviato una procedura di infrazione contro lo Stato italiano proprio in riferimento alla sospetta incompatibilità del comma 4 dell’art. 83 Codice contratti pubblici con le direttive comunitarie 2004/18/CE e 2004/17/CE, in quanto consentiva alle commissione giudicatrici la fissazione di criteri motivazionali dei punti attribuiti alle offerte, non previsti nei documenti di gara.
Al fine di superare tale incompatibilità, il legislatore, mediante il terzo D.lgs. correttivo del Codice contratti pubblici (11.09.2008 n. 152) ha novellato il comma 4 del citato art. 83, eliminandone l’ultimo capoverso ed espungendo tout court il potere della Commissione di gara di specificare e dettagliare i criteri di valutazione, andando oltre anche le limitazioni imposte dal diritto comunitario.
Alla stregua della suddetta novella, tutti i criteri di valutazione delle offerte, nessuno escluso debbono essere dettagliatamente specificati nella lex specialis della procedura. La giurisprudenza si è pertanto consolidata nel ritenere illegittima la procedura di una gara di appalto per violazione dell’art. 83, c. 4, nel caso in cui i criteri di valutazione delle offerte non siano dettagliatamente indicati nel bando e la commissione abbia dovuto integrare, con più dettagliati sottocriteri la generica ripartizione del punteggio complessivamente previsto nella lex specialis.
Più di recente, il Consiglio di Stato ha ribadito che sia l’art. 83, c. 4, Codice contratti pubblici, nel testo novellato, sia il diritto comunitario impediscono che la Commissione, dopo la presentazione delle offerte, possa stabilire elementi di specificazione dei criteri generali previsti dalla lex specialis ai fini della valutazione delle offerte attraverso la previsione di sottovoci integrative, dovendo anche essi essere determinati dalla stessa disciplina di gara, eliminando ogni margine di discrezionalità in capo alla commissione.
Alla Commissione di gara, conclusivamente, può essere pertanto devoluta solo un’attività meramente interpretativa degli eventuali sottocriteri di valutazione indicati nella lex specialis, come previsto anche dell'art. 53 della direttiva 2004/18/Ce, che ha segnalato la mancanza di uno specifico potere integrativo per l'organo giudicante della gara.

5. Quanto al merito, la censura di violazione dell’art. 83, c. 4, del Codice contratti pubblici merita condivisione.
5.1. In punto di fatto, va chiarito come nella fattispecie per cui è causa, l’art. 24 del Capitolato speciale ha previsto quali criteri di valutazione dell’offerta tecnica i parametri a) “requisiti del personale” con un punteggio massimo attribuibile di 20 punti, b) “progetto/offerta” (max. 40 punti) e c) “progetto tecnico di sviluppo e di informazione” (max. 10 punti).
Dal verbale di gara n. 3 del 12.09.2014 emerge l’introduzione ex novo da parte della Commissione dei sub parametri c1 e c2 per la valutazione del parametro c, oltre il frazionamento del parametro b in 5 sotto voci con l’attribuzione di un range di punteggio da 1 a 8. Per ognuno dei sub elementi introdotti, il relativo punteggio è stato moltiplicato per il coefficiente tra 0 ed 1 attribuito dalla Commissione.
5.2. Ad avviso della stazione appaltante e della controinteressata, la Commissione non avrebbe introdotto criteri novativi di valutazione, essendosi limitata a suddividere in parti uguali i punteggi massimi previsti dalla lex specialis in corrispondenza degli stessi sub elementi in cui il medesimo capitolato articola gli elementi di valutazione.
Osserva il Collegio, quanto al parametro b, la completa mancanza in sede di disciplinare di gara di una graduazione, tra le diverse voci che lo compongono, del punteggio massimo di 40 punti ivi previsto, lasciando inevitabilmente alla Commissione un ambito di piena discrezionalità in merito alla concreta pesatura degli stessi. Analoghe considerazioni valgono quanto al parametro c.
5.3. Come noto, la questione della possibilità per la Commissione di gara di introduzione di sub-criteri di valutazione predeterminati dal bando, in termini generali e sistematici, è stata lungamente dibattuta nell’arco temporale precedente l’entrata in vigore del Codice contratti pubblici, avendo anche ingenerato la rimessione alla Corte di Giustizia europea per la valutazione di compatibilità con il diritto comunitario (Consiglio di Stato sez. VI, ordinanza 09.07.2004, n. 5033).
Con l’entrata in vigore del Codice contratti pubblici approvato con D.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’art. 83, c. 4, nel testo originario, ha previsto che “Il bando per ciascun criterio di valutazione prescelto prevede, ove necessario, i sub-criteri e i sub-pesi o i sub-punteggi. Ove la stazione appaltante non sia in grado di stabilirli tramite la propria organizzazione, provvede a nominare uno o più esperti con il decreto o la determina a contrarre, affidando ad essi l'incarico di redigere i criteri, i pesi, i punteggi e le relative specificazioni, che verranno indicati nel bando di gara. La commissione giudicatrice, prima dell'apertura delle buste contenenti le offerte, fissa in via generale i criteri motivazionali cui si atterrà per attribuire a ciascun criterio e sub-criterio di valutazione il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando”.
Già in riferimento a tale primo testo normativo, parte della giurisprudenza aveva assunto orientamento non restrittivo in ordine ai poteri specificativi o integrativi delle prescrizioni del bando, richiedendo comunque quantomeno la condizione della fissazione di tali sub-parametri prima dell’apertura delle buste contenenti le offerte (ex multis Consiglio di Stato sez VI, 22.03.2007, n. 1369; TAR Lombardia Milano sez III, 23.08.2006, n. 1930).
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza 24.01.2008 (proc. C-532/2006), ha precisato che "…tutti gli elementi presi in considerazione dall’autorità aggiudicatrice per identificare l’offerta economicamente più vantaggiosa e la loro importanza relativa siano noti ai potenziali offerenti al momento in cui presentano le offerte ... infatti i potenziali offerenti devono essere messi in condizione di conoscere, al momento della presentazione delle loro offerte, l’esistenza e la portata di tali elementi ... pertanto un’amministrazione aggiudicatrice non può applicare regole di ponderazione o sottocriteri per i criteri di aggiudicazione che non abbia preventivamente portato a conoscenza degli offerenti … gli offerenti devono essere posti su un piano di parità durante l’intera procedura, il che comporta che i criteri e le condizioni che si applicano a ciascuna gara debbano costituire oggetto di un’adeguata pubblicità da parte delle amministrazioni aggiudicatici".
A sua volta, la Commissione CE, con nota del 30.01.2008, ha avviato una procedura di infrazione contro lo Stato italiano proprio in riferimento alla sospetta incompatibilità del comma 4 dell’art. 83 Codice contratti pubblici con le direttive comunitarie 2004/18/CE e 2004/17/CE, in quanto consentiva alle commissione giudicatrici la fissazione di criteri motivazionali dei punti attribuiti alle offerte, non previsti nei documenti di gara.
Al fine di superare tale incompatibilità, il legislatore, mediante il terzo D.lgs. correttivo del Codice contratti pubblici (11.09.2008 n. 152) ha novellato il comma 4 del citato art. 83, eliminandone l’ultimo capoverso ed espungendo tout court il potere della Commissione di gara di specificare e dettagliare i criteri di valutazione, andando oltre anche le limitazioni imposte dal diritto comunitario.
5.4. Alla stregua della suddetta novella, tutti i criteri di valutazione delle offerte, nessuno escluso debbono essere dettagliatamente specificati nella lex specialis della procedura. La giurisprudenza si è pertanto consolidata nel ritenere illegittima la procedura di una gara di appalto per violazione dell’art. 83, c. 4, nel caso in cui i criteri di valutazione delle offerte non siano dettagliatamente indicati nel bando e la commissione abbia dovuto integrare, con più dettagliati sottocriteri la generica ripartizione del punteggio complessivamente previsto nella lex specialis (Consiglio di Stato sez V, 22.02.2011, n. 1094; id. sez. V, 01.10.2010 n. 7256: id. sez. IV, 12.05.2008, n. 2189; id. sez. III. 01.12.2012, n. 514).
5.5. Più di recente, il Consiglio di Stato ha ribadito che sia l’art. 83, c. 4, Codice contratti pubblici, nel testo novellato, sia il diritto comunitario impediscono che la Commissione, dopo la presentazione delle offerte, possa stabilire elementi di specificazione dei criteri generali previsti dalla lex specialis ai fini della valutazione delle offerte attraverso la previsione di sottovoci integrative, dovendo anche essi essere determinati dalla stessa disciplina di gara, eliminando ogni margine di discrezionalità in capo alla commissione (Consiglio di Stato sez III, 01.02.2012, n. 514; id. sez III, 29.11.2011, n. 6306; id. sez III, 22.03.2011, n. 1749; id. sez. V, 22.02.2011, n. 1097; vedi anche TAR Lombardia Milano sez. I, 14.02.2014, n. 473; TAR Abruzzo 19.07.2010, n. 532; TAR Lombardia-Brescia 15.07.2011, n. 1078; TAR Sicilia-Catania 29.04.2011, n. 1071).
5.6. Alla Commissione di gara, conclusivamente, può essere pertanto devoluta solo un’attività meramente interpretativa degli eventuali sottocriteri di valutazione indicati nella lex specialis, come previsto anche dell'art. 53 della direttiva 2004/18/Ce, che ha segnalato la mancanza di uno specifico potere integrativo per l'organo giudicante della gara (Consiglio di Stato sez. V, 22.02.2011, n. 1092).
5.7. Ciò premesso, è incontrovertibile come nel caso di specie la Commissione abbia introdotto sub-criteri di valutazione assolutamente non contemplati dalla lex specialis, per giunta non solo dopo il termine di scadenza della presentazione delle offerte, ma ad offerte già aperte e note alla stazione appaltante, con evidente violazione dell’art. 84, c. 3, D.lgs. 163/2006 e s.m. e del principio comunitario ad esso sotteso di parità di trattamento, oltre che del principio di imparzialità (art. 97 Cost.).
5.8. Non ritiene il Collegio che l’operato della Commissione possa ritenersi legittimato dall’asserita inapplicabilità dell’art. 83, c. 4, in relazione all’appartenenza del servizio oggetto della gara tra quelli rientranti nell’allegato II B al D.lgs. 163/2006 (servizi socio sanitari) esclusi dall’applicazione delle norme del Codice contratti pubblici ad eccezione degli artt. 68 (specifiche tecniche) e 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento).
5.9. Sotto un primo profilo, perché la regola codificata dall’art. 83, c. 4, del Codice costituisce stretta espressione dei generali principi di imparzialità e par condicio e come tale risulta applicabile anche ai contratti esclusi di cui all’allegato II B del D.lgs. 163/2006, sottratti dall'applicazione delle norme di dettaglio dello stesso Codice -fatta eccezione per quelle specificamente richiamate dall'art. 20- ma al contempo assoggettati, ai sensi del successivo art. 27, al rispetto del principi generali di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità (Consiglio di Stato Adunanza Plenaria 03.03.2008, n. 1; TAR Piemonte sez. I, 22.11.2013, n. 1254). La predeterminazione in sede di norme di gara di tutti i criteri per la valutazione delle offerte è dunque ormai pacifico principio immanente in seno ad ogni procedimento di aggiudicazione di appalti pubblici.
5.10. Sotto un secondo ulteriore profilo, perché il citato art. 83 è stato espressamente richiamato dall’art. 24 del Capitolato con conseguente auto-vincolo della stazione appaltante (ex multis TAR Piemonte sez. I, 21.12.2012, n. 1376) non potendosi condividere quanto prospettato dalla difesa comunale e della controinteressata in merito alla volontà di richiamarne solo i principi in esso contenuti, risultando tal richiamo del tutto pieno ed incondizionato.
5.11. Conclusivamente, l’operato della Commissione si è pertanto posto oltre che in violazione della normativa primaria di riferimento, in aperta violazione con i principi comunitari di par condicio e trasparenza e con il principio di imparzialità, considerato che le offerte presentate erano già note.
Ne consegue la fondatezza delle assorbenti censure di violazione dell’art. 83, c. 4, del D.lgs. 163/2006 e s.m., oltre che di eccesso di potere, quanto alla introduzione dei sub-criteri di valutazione di cui al Disciplinare di gara, vizio che determina l’invalidità del bando, della fase di valutazione delle offerte tecniche e dell’intero procedimento di gara, ivi naturalmente compresa l’aggiudicazione definitiva.
6. Per i suesposti motivi il ricorso è fondato e va accolto, e per l’effetto vanno annullati gli atti impugnati (TAR Umbria, sentenza 14.03.2015 n. 114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La valenza che le previsioni del Documento di Piano sono destinate ad assumere nel contesto della pianificazione urbanistica comunale è stata approfondita dalla giurisprudenza dalla Sezione, la quale ha avuto modo recentemente di chiarire che “Le previsioni contenute nel documento di piano non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione; essendo a tal fine necessario l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole di dettaglio, definirà in maniera puntuale il quadro giuridico ad essi applicabile, con norme (queste sì) aventi carattere prescrittivo”.
In questo quadro, è stato altresì indagato il livello di dettaglio che le previsioni del Documento di Piano possono raggiungere, pervenendo alla conclusione che “l’art. 8, terzo comma, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 (...) non vieta in maniera assoluta che nelle schede relative a tali ambiti siano contenute talune singole prescrizioni di dettaglio, ma vieta esclusivamente che la disciplina da esse scaturenti sia nel suo complesso talmente dettagliata da non lasciare alcun margine di adattabilità al piano attuativo (che diverrebbe a questo punto addirittura inutile) (...)”.
In coerenza con tale orientamento, che il Collegio pienamente condivide, il limite alla possibilità, per il Documento di Piano, di introdurre previsioni aventi contenuto dettagliato va dunque rinvenuto nella funzione propria dello strumento, che –con specifico riferimento agli ambiti di trasformazione– consiste nell’ampio inquadramento delle scelte attinenti alla trasformazione delle aree. Tale inquadramento comporta –per sua stessa natura– che accanto alla previsione di margini di flessibilità nelle modalità per la realizzazione degli obiettivi di trasformazione, vi possa essere spazio anche per l’individuazione delle “invarianti”, ossia dei profili ed aspetti che, nella visione strategica che presiede allo strumento, devono costituire i punti fermi della successiva negoziazione finalizzata alla predisposizione dei piani attuativi.
Tali aspetti non negoziabili, o soggetti a limitata negoziazione, sono da ritenere legittimamente individuabili, in particolare, in corrispondenza di scelte che assumono carattere essenziale, costituendo il cardine per la realizzazione degli obiettivi previsti per la trasformazione dell’ambito, oppure laddove indicazioni puntuali siano rese necessarie da esigenze correlate alla cura di interessi di rilievo costituzionale primario, quali quelli attinenti alla tutela della salute, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali.

2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione del principio di nominatività e tipicità degli strumenti urbanistici. Ciò in quanto, con riferimento all’ambito di trasformazione AT 5, il Documento di Piano del Comune di Corbetta non si limiterebbe a indicare criteri di negoziazione e indicazioni di massima per la successiva pianificazione attuativa, ma recherebbe disposizioni dettagliate e vincolanti.
Tale deviazione dal modello tipico sarebbe resa evidente, in particolare, dall’obbligo imposto al privato di cedere un bene individuato (l’ex Consorzio agrario). Ne deriverebbe la violazione dell’articolo 8, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005, in base al quale il Documento di Piano “non contiene previsioni che producano effetti diretti sul regime dei suoli”.
2.1 Giova tenere presente, al riguardo, che i contenuti del Documento di Piano attinenti alla disciplina degli ambiti di trasformazione sono stabiliti dall’articolo 8, comma 2, lettera e), della legge regionale n. 12 del 2005. La disposizione prevede, in particolare, che il DdP “individua, anche con rappresentazioni grafiche in scala adeguata, gli ambiti di trasformazione, definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le vocazioni funzionali e i criteri di negoziazione, nonché i criteri di intervento, preordinati alla tutela ambientale, paesaggistica e storico-monumentale, ecologica, geologica, idrogeologica e sismica, laddove in tali ambiti siano comprese aree qualificate a tali fini nella documentazione conoscitiva”.
La valenza che le previsioni del Documento di Piano sono destinate ad assumere nel contesto della pianificazione urbanistica comunale è stata approfondita dalla giurisprudenza dalla Sezione, la quale ha avuto modo recentemente di chiarire che “Le previsioni contenute nel documento di piano non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione; essendo a tal fine necessario l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole di dettaglio, definirà in maniera puntuale il quadro giuridico ad essi applicabile, con norme (queste sì) aventi carattere prescrittivo” (così TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 05.12.2014, n. 2971).
In questo quadro, è stato altresì indagato il livello di dettaglio che le previsioni del Documento di Piano possono raggiungere, pervenendo alla conclusione che “l’art. 8, terzo comma, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 (...) non vieta in maniera assoluta che nelle schede relative a tali ambiti siano contenute talune singole prescrizioni di dettaglio, ma vieta esclusivamente che la disciplina da esse scaturenti sia nel suo complesso talmente dettagliata da non lasciare alcun margine di adattabilità al piano attuativo (che diverrebbe a questo punto addirittura inutile) (...)” (così TAR Milano, n. 2971 del 2014, cit.).
In coerenza con tale orientamento, che il Collegio pienamente condivide, il limite alla possibilità, per il Documento di Piano, di introdurre previsioni aventi contenuto dettagliato va dunque rinvenuto nella funzione propria dello strumento, che –con specifico riferimento agli ambiti di trasformazione– consiste nell’ampio inquadramento delle scelte attinenti alla trasformazione delle aree. Tale inquadramento comporta –per sua stessa natura– che accanto alla previsione di margini di flessibilità nelle modalità per la realizzazione degli obiettivi di trasformazione, vi possa essere spazio anche per l’individuazione delle “invarianti”, ossia dei profili ed aspetti che, nella visione strategica che presiede allo strumento, devono costituire i punti fermi della successiva negoziazione finalizzata alla predisposizione dei piani attuativi.
Tali aspetti non negoziabili, o soggetti a limitata negoziazione, sono da ritenere legittimamente individuabili, in particolare, in corrispondenza di scelte che assumono carattere essenziale, costituendo il cardine per la realizzazione degli obiettivi previsti per la trasformazione dell’ambito, oppure laddove indicazioni puntuali siano rese necessarie da esigenze correlate alla cura di interessi di rilievo costituzionale primario, quali quelli attinenti alla tutela della salute, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.03.2015 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'istituto perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento "in due pilastri fondamentali" del nostro ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare l'Amministrazione nell'esercizio della propria attività di pianificazione e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis e 11 della legge n. 241 del 1990. Non è quindi necessaria la presenza di puntuali norme che configurino in maniera specifica i modelli secondo i quali l’istituto stesso si può sostanziare.
Nell’esercizio della pianificazione, l’Amministrazione dispone di un ampio potere di delineare le previsioni aventi funzione perequativa, anche in certa misura adattando i modelli configurati dalla legislazione regionale al fine di renderli più aderenti alle proprie esigenze contingenti.
In conformità a tali precedenti, che il Collegio condivide, deve quindi escludersi che le previsioni normative in materia di perequazione urbanistica siano da reputare di stretta interpretazione.
---------------
La Sezione ha da tempo chiarito quale sia la distinzione intercorrente tra gli istituti della “cessione perequativa” e della “cessione compensativa”.
Si è al riguardo affermato che “la cessione perequativa è prevista dall’art. 11, comma 1 e 2, della L.R. 12/2005 ed è alternativa all’espropriazione perché non prevede l’apposizione di un vincolo pre-espropriativo sulle aree destinate a servizi pubblici ma prevede che tutti i proprietari, sia quelli che possono edificare sulle loro aree sia quelli i cui immobili dovranno realizzare la città pubblica, partecipino alla realizzazione delle infrastrutture pubbliche attraverso l’equa ed uniforme distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei relativi obblighi nei confronti del Comune.
La cessione compensativa invece si caratterizza per l’individuazione da parte del pianificatore di aree, destinate alla costruzione della città pubblica, rispetto ai quali l’amministrazione non può rinunciare a priori al vincolo ed alla facoltà imperativa ed unilaterale di acquisizione coattiva delle aree. In queste aree, il Comune appone il vincolo pre-espropriativo ed entro il termine di cinque anni deve fare ricorso all'espropriazione con la possibilità di ristorare il proprietario mediante attribuzione di ‘crediti compensativi’ od aree in permuta in luogo dell’usuale indennizzo pecuniario”.
Ancor più esplicitamente, la Sezione ha recentemente chiarito che “L’istituto della compensazione, a differenza di quello della perequazione, non ha quale precipua finalità quella di mitigare le disuguaglianze che si producono con la pianificazione urbanistica: esso semplicemente mira ad individuare una forma di remunerazione alternativa a quella pecuniaria per i proprietari dei suoli destinati all’espropriazione, consistente nell’attribuzione di diritti edificatori che potranno essere trasferiti, anche mediante cessione onerosa (cfr. comma 4 dell’art. 11 cit.), ai proprietari delle aree destinate all’edificazione”.
Da tali indicazioni si evince chiaramente che il primo e fondamentale tratto distintivo tra la cessione perequativa e quella compensativa attiene alla circostanza che solo la seconda presuppone l’imposizione di una destinazione del suolo al soddisfacimento di esigenze di interesse pubblico, che è invece estranea alla prima.

Quanto alla natura degli istituti perequativi e delle fonti normative che li disciplinano, giova anzitutto richiamare l’orientamento già espresso dalla Sezione. In particolare, è stato recentemente evidenziato che, in coerenza con i principi enucleati dalla giurisprudenza, “(...) l'istituto perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento "in due pilastri fondamentali" del nostro ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare l'Amministrazione nell'esercizio della propria attività di pianificazione e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis e 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010 n. 4545; si vedano anche TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.07.2002 n. 670, TAR Veneto sez. I, 19.05.2009, n. 1504). Non è quindi necessaria la presenza di puntuali norme che configurino in maniera specifica i modelli secondo i quali l’istituto stesso si può sostanziare” (così TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.05.2014, n. 1282).
Si è quindi affermato che, nell’esercizio della pianificazione, l’Amministrazione dispone di un ampio potere di delineare le previsioni aventi funzione perequativa, anche in certa misura adattando i modelli configurati dalla legislazione regionale al fine di renderli più aderenti alle proprie esigenze contingenti (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.07.2014, n. 1975; Id. 11.06.2014, n. 1542).
In conformità a tali precedenti, che il Collegio condivide, deve quindi escludersi che le previsioni normative in materia di perequazione urbanistica siano da reputare di stretta interpretazione, come affermato invece dalla ricorrente.
3.2 Quanto all’inquadramento della fattispecie concreta, occorre altresì tenere presente che la Sezione ha da tempo chiarito quale sia la distinzione intercorrente tra gli istituti della “cessione perequativa” e della “cessione compensativa”.
Si è al riguardo affermato che “la cessione perequativa è prevista dall’art. 11, comma 1 e 2, della L.R. 12/2005 ed è alternativa all’espropriazione perché non prevede l’apposizione di un vincolo pre-espropriativo sulle aree destinate a servizi pubblici ma prevede che tutti i proprietari, sia quelli che possono edificare sulle loro aree sia quelli i cui immobili dovranno realizzare la città pubblica, partecipino alla realizzazione delle infrastrutture pubbliche attraverso l’equa ed uniforme distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei relativi obblighi nei confronti del Comune.
La cessione compensativa invece si caratterizza per l’individuazione da parte del pianificatore di aree, destinate alla costruzione della città pubblica, rispetto ai quali l’amministrazione non può rinunciare a priori al vincolo ed alla facoltà imperativa ed unilaterale di acquisizione coattiva delle aree. In queste aree, il Comune appone il vincolo pre-espropriativo ed entro il termine di cinque anni deve fare ricorso all'espropriazione con la possibilità di ristorare il proprietario mediante attribuzione di ‘crediti compensativi’ od aree in permuta in luogo dell’usuale indennizzo pecuniario
” (così TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 17.09.2009, n. 4671).
Ancor più esplicitamente, la Sezione ha recentemente chiarito che “L’istituto della compensazione, a differenza di quello della perequazione, non ha quale precipua finalità quella di mitigare le disuguaglianze che si producono con la pianificazione urbanistica: esso semplicemente mira ad individuare una forma di remunerazione alternativa a quella pecuniaria per i proprietari dei suoli destinati all’espropriazione, consistente nell’attribuzione di diritti edificatori che potranno essere trasferiti, anche mediante cessione onerosa (cfr. comma 4 dell’art. 11 cit.), ai proprietari delle aree destinate all’edificazione” (così TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1542 del 2014, cit.).
Da tali indicazioni si evince chiaramente che il primo e fondamentale tratto distintivo tra la cessione perequativa e quella compensativa attiene alla circostanza che solo la seconda presuppone l’imposizione di una destinazione del suolo al soddisfacimento di esigenze di interesse pubblico, che è invece estranea alla prima
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.03.2015 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le disposizioni del precedente PRG non vincolano il Comune in occasione del nuovo esercizio della potestà pianificatoria, poiché l’Ente non è affatto tenuto a “riconoscere” le potenzialità edificatorie attribuite ai suoli dallo strumento previgente, potendo queste ultime essere limitate o escluse, laddove ciò risulti funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico, in coerenza con gli obiettivi assegnati alla nuova pianificazione.
La giurisprudenza ha del resto chiarito che “l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico–sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima (...)”.

Al riguardo, deve tuttavia tenersi presente che le disposizioni del precedente PRG non vincolano il Comune in occasione del nuovo esercizio della potestà pianificatoria, poiché l’Ente non è affatto tenuto a “riconoscere” le potenzialità edificatorie attribuite ai suoli dallo strumento previgente, potendo queste ultime essere limitate o escluse, laddove ciò risulti funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico, in coerenza con gli obiettivi assegnati alla nuova pianificazione.
La giurisprudenza ha del resto chiarito che “l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico–sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima (...)” (così Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.03.2015 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIRicorsi nelle gare, basta mera conoscenza dell'esito.
La mera conoscenza dell'esito negativo di una gara è sufficiente a far decorrere il termine per la proposizione del ricorso avverso gli atti, rilevando la conoscenza successiva dei motivi e dei singoli vizi di legittimità degli stessi solo al fine della proposizione di motivi aggiunti.

È quanto è stato ribadito dai giudici della II Sez. del TAR Piemonte con la sentenza 26.02.2015 n. 396.
Da tale sottolineatura, che trova concorde anche altra giurisprudenza, ne consegue l'onere di presentare, sempre e comunque, una tempestiva impugnazione anche nel caso in cui non sia ancora nota l'esistenza di eventuali vizi della procedura.
Già la Corte di giustizia, con la sentenza pronunciata l'08/05/2014 nella causa C-161/13, si è espressa nel senso che il principio della certezza del diritto e il favor per la celerità delle procedure di gara impone che le informazioni ottenute a seguito di accesso agli atti di gara non possono servire a proporre un ricorso dopo la scadenza del termine previsto a tale scopo dalla normativa nazionale, ed è stato, inoltre, evidenziato che si deve ritenere possibile la riapertura di detto termine quando alla decisione lesiva abbia fatto seguito, successivamente, una nuova decisione che abbia modificato quella precedente e sempre che sia possibile affermare che il ricorrente non era già prima in condizione di apprezzare (sulla base anche della ordinaria diligenza) l'esistenza di eventuali violazioni della normativa relativa alle procedure di gara.
Pertanto il termine per l'impugnazione del ricorso decorre dal momento in cui l'interessato abbia, o debba avere, piena conoscenza della pretesa violazione della normativa in materia di gara d'appalto. I giudici amministrativi piemontesi hanno, altresì, affermato che ai fini della decorrenza del termine per proporre ricorso avverso una decisione di aggiudicazione si rende necessaria la conoscenza (non solo delle ragioni della decisione ma anche) dei vizi che affliggerebbero la gara, ma d'altro canto che è anche onere dell'interessato di attivarsi al fine di acquisire tale conoscenza.
Secondo i giudici torinesi il legislatore ha inteso porre, sui partecipanti alle gare, l'onere di esercitare l'accesso agli atti di gara non appena ricevuta, dalla stazione appaltante, la relativa comunicazione completa delle indicazioni di cui al ricordato art. 79, comma 5-quater, del dl 163/2006 (articolo ItaliaOggi Sette del 25.05.2015).
----------------
MASSIMA
10.3.1. E’ noto che, a dispetto di quanto già la Corte di Giustizia aveva precisato nel caso C-406/2008 Uniplex, si è consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale
la mera conoscenza dell’esito negativo di una gara è sufficiente a far decorrere il termine per la proposizione del ricorso avverso gli atti di gara, rilevando la conoscenza successiva dei motivi e dei singoli vizi di legittimità degli stessi solo al fine della proposizione di motivi aggiunti (ex multis: C.d.S. sez. V n. 2609/2012; C.d.S. sez. III n. 2407/2012; C.d.S., sez. IV, n. 3583/2011): tale orientamento, dal quale consegue l’onere di presentare sempre e comunque una tempestiva impugnazione anche laddove non sia ancora nota l’esistenza di eventuali vizi della procedura, è stato tuttavia (nuovamente) messo in discussione con ordinanza del TAR Puglia-Bari, sez. I, n. 427/2013, che ha chiesto alla Corte di Giustizia della Unione Europea di valutare la conformità alla direttiva 1993/13/CEE di una norma o di una prassi nazionale che, ai fini della proposizione di un ricorso diretto a far valere la violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, faccia decorrere il termine per la presentazione del ricorso dal momento in cui il soggetto ha avuto, o avrebbe dovuto avere contezza della violazione stessa, precludendo altresì di dare rilevanza, ai medesimi fini, alla conoscenza dei vizi di cui l’interessato abbia avuto conoscenza tardiva a causa del comportamento della stazione appaltante.
10.3.2. Ebbene, la Corte di Giustizia, con sentenza pronunciata l’08/05/2014 nella causa C-161/13, caso Idronamica, dopo aver ricordato che nel caso Uniplex la Corte si era già espressa nel senso che il principio della certezza del diritto ed il favor per la celerità delle procedure di gara impone che le informazioni ottenute a seguito di accesso agli atti di gara non possono servire a proporre un ricorso dopo la scadenza del termine previsto a tale scopo dalla normativa nazionale, ha ulteriormente precisato che
si deve ritenere possibile la riapertura di detto termine quando alla decisione lesiva abbia fatto seguito, successivamente, una nuova decisione che abbia modificato quella precedente e sempre che sia possa affermare che il ricorrente non era già prima in condizione di apprezzare -sulla base delle informazioni ottenute a tempo debito o di quelle che avrebbe potuto tempestivamente ottenere con l’ordinaria diligenza- l’esistenza di eventuali violazioni della normativa relativa alle procedure di gara.
Per chiarezza espositiva va precisato che nel caso sottoposto alla attenzione della Corte si era verificato che successivamente alla aggiudicazione definitiva ed alla scadenza del termine di 30 giorni, di cui all’art. 120 comma 5 c.p.a., per l’impugnativa della medesima, la stazione appaltante aveva consentito il recesso di una delle imprese facenti parte del raggruppamento aggiudicatario, provvedendo poi alla stipula del contratto con quel raggruppamento che però, nella sopravvenuta nuova formazione, non coincideva con quello aggiudicatario.
La Corte, pur enunciando il principio di cui sopra, non ha mancato di rilevare che nella specie l’interessato aveva in realtà censurato irregolarità commesse prima della originaria aggiudicazione dell’appalto, ed ha quindi ribadito che in linea generale, e fatto salvo il caso di intervenuta modifica della determina di aggiudicazione definitiva, la possibilità di spiegare ricorso deve intendersi garantita solo entro il termine di impugnazione riconosciuto in generale dalla normativa nazionale, fatte salve diverse disposizioni riconosciute espressamente dal diritto nazionale.
10.3.3. Il Collegio ritiene che dalla dianzi ricordata sentenza della Corte di Giustizia U.E. si possa trarre un insegnamento particolarmente interessante per il caso di specie, segnatamente per il fatto che essa, fatta salva l’ipotesi –non ricorrente nel caso di specie– in cui l’aggiudicazione (o l’atto da impugnare) venga in seguito modificata, ha confermato il principio -già espresso nel caso Uniplex- secondo il quale
il termine per l’impugnazione del ricorso decorre dal momento in cui l’interessato abbia, o debba avere, piena conoscenza della pretesa violazione della normativa in materia di gara d’appalto.
Da entrambe le pronunce si evince, più in dettaglio, che
ai fini della decorrenza del termine per proporre ricorso avverso una decisione di aggiudicazione necessita la conoscenza (non solo delle ragioni della decisione ma anche) dei vizi che affliggerebbero la gara, ma d’altro canto che è anche onere dell’interessato di attivarsi al fine di acquisire tale conoscenza: la Corte, infatti, parla specificamente (al punto 37 della sentenza Idronamica) di “data in cui il ricorrente ha conosciuto o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni”, così evidenziando che alla conoscenza effettiva può essere equiparata, secondo una fictio juris, anche una conoscenza “legale”, cioè una conoscenza che, seppure in concreto non sussistente, il soggetto avrebbe potuto acquisire ove posto in condizione di esercitare l’accesso alle informazioni.
10.3.4. Ciò premesso va ricordato che con la disposizione di cui all’art. 79, comma 5-quater, del D.L.vo 163/2006, introdotta con D.L.vo 53/2010, il legislatore ha stabilito che “Fermi i divieti dell’accesso previsti all’art. 13, l’accesso agli atti del procedimento in cui sono adottati gli atti oggetto di comunicazione ai sensi del presente articolo è consentito entro dieci giorni dall’invio della comunicazione dei provvedimenti medesimi mediante visione ed estrazione di copia. Non occorre istanza scritta di accesso e provvedimento di ammissione, salvi i provvedimenti di differimento o di esclusione dall’accesso adottati ai sensi dell’art. 13. Le comunicazioni di cui al comma 5 indicano se ci sono atti per i quali l’accesso é vietato o differito ed indicano l’ufficio presso cui l’accesso può essere esercitato, e i relativi orari, garantendo che l’accesso sia consentito durante tutto l’orario in cui l’ufficio è aperto al pubblico o il personale presta servizio”.
Tale disposizione, ad avviso del Collegio, denota che
il legislatore non ha semplicemente inteso facilitare l’accesso agli atti delle gare pubbliche: infatti, prescrivendo che nelle varie comunicazioni le stazioni appaltanti rappresentino ai partecipanti l’immediata possibilità di esercitare l’accesso evidenziando comunque la natura degli atti per i quali l’accesso è differito o non consentito; stabilendo la accessibilità a priori di ogni documento, salvo quelli, da indicarsi partitamente, per i quali sussistano le condizioni per differire o non consentire l’accesso; imponendo inoltre che detto accesso sia consentito in ogni momento durante gli orari di servizio del personale, e dunque anche fuori dagli orari di apertura al pubblico degli uffici; con tutto ciò, insomma, è evidente che il legislatore ha agito con la finalità di evitare che i partecipanti alle gare possano posticipare l’impugnativa delle varie decisioni accampando pretesti o scuse per giustificare la mancata piena conoscenza delle motivazioni di esse e dei possibili vizi della gara, il che è quanto dire che il legislatore ha precisamente inteso porre, sui partecipanti alle gare, l’onere di esercitare l’accesso agli atti di gara non appena ricevuta, dalla stazione appaltante, la relativa comunicazione completa delle indicazioni di cui al ricordato art. 79, comma 5-quater.
L’introduzione di un tale onere, a carico del partecipante ad una gara d’appalto, non trova, ad avviso del Collegio, ostacolo nelle modalità di accesso garantite dalla norma da ultimo citata: anzi il Collegio ritiene che siffatto accesso non sia ontologicamente diverso da quello che sarebbe garantito ove esercitato previa presentazione di apposita istanza.

E’ quindi opinione del Collegio che
non ha senso distinguere l’accesso garantito dall’art. 79, comma 5-quater, definendolo come “semplificato” o “informale”, dal momento che esso costituisce (per le ragioni già precisate) un onere (di guisa che un eventuale accesso “formale” successivo diventa irrilevante) e perché esso è comunque idoneo a consentire all’interessato di determinarsi compiutamente in ordine alla decisione di proporre il ricorso.
10.3.5. Il Collegio ritiene che la norma dianzi esaminata non si ponga in contrasto con la normativa europea in materia di appalti, stante che nei casi Uniplex e Idronamica la Corte di Giustizia, sia pure con specifico riferimento alla impugnativa della aggiudicazione definitiva in un settore specifico degli appalti, ha già avuto modo di affermare l’equipollenza tra la conoscenza effettiva e quella che l’interessato avrebbe potuto o dovuto conseguire esercitando l’accesso agli atti.
Il Collegio ritiene pertanto condivisibile quella opzione ermeneutica, già fatta propria anche da altre pronunce (come quella del TAR Umbria, sez. I n. 448/2014, nonché del C.d.S., sez. III, n. 4432/2014), che ha ritenuto che
il termine per impugnare l’aggiudicazione definitiva e gli altri atti che, a norma dell’art. 79 C.C.P., debbano essere ritualmente comunicati ai partecipanti, decorre dalla ricezione di essi laddove tale informativa consenta di apprezzare compiutamente sia le ragioni del provvedimento sia la presenza di eventuali vizi della procedura; in caso contrario il termine per l’impugnazione degli atti di gara deve farsi comunque decorrere dal giorno in cui l’interessato ha esercitato l’accesso agli atti, accesso che la stazione appaltante deve, ai sensi dell’art. 79, comma 5-quater, C.C.P., garantire entro i dieci giorni successivi a ciascuna comunicazione.
Più precisamente,
laddove non sia provato che l’interessato ha in concreto esercitato l’accesso prima del decorso del menzionato termine di dieci giorni, il termine decorrerà dalla scadenza di esso dovendosi a tale momento ritenere acquisita una conoscenza “legale” degli atti della procedura; di converso, solo dimostrando che la stazione appaltante non ha adempiuto agli obblighi nascenti dall’art. 79, comma 5-quater, C.C.P. l’interessato potrà ottenere di far decorrere il termine per l’impugnativa da un momento successivo, sempre che i provvedimenti da impugnare non contengano già sufficienti elementi per consentire la proposizione di un ricorso.

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 29 (Responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività), comma 1, ultima parte, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevede che l’autore dell’abuso edilizio sia tenuto alle spese per l'esecuzione in danno in caso di demolizione delle opere realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso.
Qui si controverte se si possa configurare la sussistenza di questo obbligo di legge non già per lo stretto intervento di effettiva demolizione, ma anche per precedenti interventi (nella specie: di appaltatori dell’amministrazione comunale) andati a vuoto per ragioni comunque imputabili all’interessato, come quando si è dichiarato disponibile a effettuare direttamente l’intervento ripristinatorio e così ha dato causa alla interruzione della demolizione medesima.
Il Collegio ritiene che l’obbligo suddetto delle spese per l’esecuzione in danno ben ricomprenda anche le spese per siffatti precedenti interventi non portati a buon fine, pur se diretti alla demolizione. Vi è infatti uno spontaneo accollo di una demolizione in danno, e il fatto che questa non venga poi realizzata non può che ridondare in oggettivo danno dell’inadempiente accollante. Si è del resto in presenza, da parte dell’interessato, di un implicito riconoscimento della imputabilità del loro insuccesso, oltre che della conferma dell’assunzione dell’obbligo.
In sostanza, l’interessata aveva essa stessa chiesto di rinviare la demolizione, impegnandosi ad eseguire spontaneamente la stessa in un prossimo futuro: e tanto vale a configurare questa situazione.
---------------
L’ingiunzione di pagamento della somma occorsa per i lavori di demolizione in danno, atto meramente esecutivo e vincolato rispetto alle precedenti determinazioni, non richiede un’autonoma comunicazione di inizio del procedimento di cui all’art. 7, l. 07.08.1990, n. 241.
L’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che l’opera acquisita sia demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell'abuso.

2. L’appello è infondato nel merito.
L’art. 29 (Responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività), comma 1, ultima parte, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevede che l’autore dell’abuso edilizio sia tenuto alle spese per l'esecuzione in danno in caso di demolizione delle opere realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso.
Qui si controverte se si possa configurare la sussistenza di questo obbligo di legge non già per lo stretto intervento di effettiva demolizione, ma anche per precedenti interventi (nella specie: di appaltatori dell’amministrazione comunale) andati a vuoto per ragioni comunque imputabili all’interessato, come quando si è dichiarato disponibile a effettuare direttamente l’intervento ripristinatorio e così ha dato causa alla interruzione della demolizione medesima.
Il Collegio ritiene che l’obbligo suddetto delle spese per l’esecuzione in danno ben ricomprenda anche le spese per siffatti precedenti interventi non portati a buon fine, pur se diretti alla demolizione. Vi è infatti uno spontaneo accollo di una demolizione in danno, e il fatto che questa non venga poi realizzata non può che ridondare in oggettivo danno dell’inadempiente accollante. Si è del resto in presenza, da parte dell’interessato, di un implicito riconoscimento della imputabilità del loro insuccesso, oltre che della conferma dell’assunzione dell’obbligo.
In sostanza, l’interessata aveva essa stessa chiesto di rinviare la demolizione, impegnandosi ad eseguire spontaneamente la stessa in un prossimo futuro: e tanto vale a configurare questa situazione.
E’ infondato anche il motivo di appello con cui l’appellante deduce la duplicazione di contratti del Comune con i due contraenti, perché il secondo appaltatore Icomes ha provveduto a demolire nell’anno 2011 le opere abusive, mentre l’appaltatore Ati Edil Soccavo era intervenuto nei due precedenti episodi del giugno e del luglio 2010, non portati a compimento.
Non ha rilievo la circostanza che l’effettivo contratto tra il Comune e l’appaltatore Ati Edil Soccavo fosse di alcuni giorni successivo al primo intervento in quanto, come dedotto dall’amministrazione comunale, già prima vi era stata una consegna urgente dei lavori e riserva e successiva stipulazione del contratto.
Allo stesso modo, non rileva la presenza eventuale di un’altra impresa ai tentativi andati a vuoto, se ciò non ha determinato –o non si dimostra che abbia determinato– una duplicazione effettiva dei costi in relazione allo specifico intervento.
E’ infondata anche la censura di appello che contesta la corretta quantificazione, sostenendo che, nel rapporto tra la effettiva demolizione (circa euro 28.000) e i tentativi andati a vuoto (circa 10.000 euro) vi sarebbe una sproporzione non giustificata.
Il Collegio osserva che talune delle voci della nota relativa all’intervento di demolizione (smaltimento dei rifiuti e altro) non possono essere contenute nelle note relative agli interventi inutili. Tuttavia, è evidente che le spese sostenute dall’appaltatore, e dovute a sua volta dal Comune, comprendessero i costi vivi sostenuti in quelle giornate, certo inferiori al reale intervento di demolizione, ma non per questo indifferenti.
L’ingiunzione di pagamento della somma occorsa per i lavori di demolizione in danno, atto meramente esecutivo e vincolato rispetto alle precedenti determinazioni, non richiede un’autonoma comunicazione di inizio del procedimento di cui all’art. 7, l. 07.08.1990, n. 241 (tra varie, Cons. Stato, IV, 27.07.2011, n. 4506).
L’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che l’opera acquisita sia demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell'abuso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.02.2015 n. 715 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul risarcimento del danno derivante dal ritardo nel rilascio dell'autorizzazione all'installazione di un tabellone elettronico.
... per il risarcimento del danno derivante dal ritardo nel rilascio dell'autorizzazione all'installazione di un tabellone elettronico.
...
Passando all’esame della domanda, questo Tribunale ha già dichiarato illegittimo il ritardo serbato dal Comune di Angri sull’istanza proposta dalla società ricorrente per l’autorizzazione alla installazione di un tabellone elettronico nel territorio comunale, il tutto con sentenza n. 204/2007.
Non può, quindi, essere revocata in dubbio l’illegittimità del ritardo con cui il Comune di Angri concludeva il procedimento, avendo la società istante ottenuto il rilascio del provvedimento favorevole solo a seguito della determina del Commissario ad acta del 01.03.2007.
Se ciò è vero, non può, tuttavia, condividersi l’assunto della ricorrente volto a computare, ai fini del quantum risarcitorio richiesto, anche il tempo successivo alla suddetta delibera commissariale, atteso che non è dato riscontrare, ad avviso di questo Collegio, un ritardo colpevole nella attività amministrativa che si è svolta dopo il rilascio del provvedimento autorizzatorio.
Dalla narrazione dei fatti di causa, come contenuta in ricorso, e dall’esame della documentazione ad esso allegata, infatti, si evince che il Commissario ad acta subordinava l’esecutività dell’atto di autorizzazione all’approvazione di una apposita convenzione, da delibarsi mediante delibera giuntale, atteso che il tabellone avrebbe dovuto avere una prevalente finalità pubblica e rientrare nella previsione di cui all’art. 15 del regolamento comunale per la disciplina dell’arredo commerciale.
Risulta, poi, che con nota del 16.03.2007, il Responsabile U.O.C. del Comune rilevava la difformità della proposta di convenzione, trasmessa dalla società in data 14.03.2007, al punto 2 della autorizzazione, di modo che la convenzione veniva stipulata e sottoscritta solo in data 06.06.2007.
Vi è, quindi, uno spazio temporale, nello specifico dal 01.03.2007 al novembre 2007, con riferimento al quale non sono state sollevate specifiche censure in termini di illegittimità e che, del resto, non è stato preso in considerazione dalla sentenza di questo Tar n. 204/2007, né è dato evincere, dalla lettura del ricorso, se, una volta stipulata la convenzione, l’installazione del tabellone sia avvenuta solo nel novembre 2007 per circostanze imputabili ad un comportamento colpevole dell’amministrazione comunale.
Conseguentemente, la richiesta risarcitoria avanzata col presente ricorso deve essere proporzionalmente ridotta, andando ad escludere dal computo dei danni asseritamente subiti quelli relativi al periodo sopra indicato (marzo-novembre 2007) e ricomprendendovi soltanto il periodo decorrente dalla data di iniziale presentazione dell’istanza alla data di effettivo rilascio dell’autorizzazione con provvedimento commissariale (17.01.2006-05.03.2007).
Passando, quindi, all’esame del quantum debeatur, il Collegio prende atto del contenuto della relazione di parte, regolarmente depositata in uno all’atto introduttivo della lite, dalla quale si evince che il volume di affari per l’attività di sviluppo e diffusione di messaggi pubblicitari ammontava, relativamente agli anni 2008 e 2009, ad euro 16.333,35 ed euro 12.656,25, per una media annua di circa 15.000,00 euro, mentre nell’anno 2007, aveva raggiunto la cifra di soli euro 1.200,00.
Per tali ragioni, ed in mancanza di ulteriori elementi di prova circa il mancato guadagno lamentato dalla società istante, il Collegio stima equo riconoscere un lucro cessante per un solo anno di ritardo pari ad euro 10.000,00, escludendo, dalla somma così indicata, l’ammontare complessivo dei costi annui indicato in euro 13.800,00, atteso che tali costi sarebbero stati sostenuti dalla società anche in caso di tempestivo rilascio dell’autorizzazione ed installazione del tabellone di cui trattasi.
Il ricorso, quindi, va accolto con condanna del Comune di Angri al pagamento, in favore della società istante, della somma di euro 10.000,00 a titolo di risarcimento del danno da ritardo nella conclusione del procedimento, oltre interessi legali dalla data della comunicazione, o della notificazione se anteriore, della presente sentenza sino al soddisfo (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 26.01.2015 n. 207 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTIL'art. art. 51 del d.lgs. 163/2006, consente espressamente il subentro dei soggetti risultanti da operazioni di cessione, affitto di azienda, ovvero da trasformazione, fusione, e scissione durante la gara, previo accertamento dei requisiti di ordine generale, sia di ordine speciale (nei limiti temporali di cui all’esame del precedente motivo di ricorso).
Poiché nelle gare indette per l’aggiudicazione, l’istituto dell’avvalimento ha portata generale ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti di partecipazione, con riguardo al possesso dei requisiti tecnici in caso di cessione, sono certamente riconducibili al patrimonio di una società o di imprenditori cessionari prima della partecipazione alla gara di un ramo d’azienda i requisiti posseduti dal soggetto cedente, giacché essi devono considerarsi compresi nella cessione in quanto strettamente connessi all’attività propria del ramo ceduto.

Con il quarto motivo di ricorso la società Cosir s.r.l si duole del fatto che la società Lavajet Global s.r.l. avrebbe dovuto essere esclusa per mancanza dei requisiti di capacità tecnico-professionale richiesti dal bando di gara, segnatamente del fatturato specifico in servizi analoghi che, in base alla lex specialis, avrebbe dovuto essere pari almeno al 60% di quello globale, a sua volta fissato in almeno ad € 1.945.533,87 da conseguirsi nel triennio 2011-2013.
A tal riguardo la ricorrente, considerato il fatto che l’aggiudicataria è stata costituita solo il 02.08.2011 e che il dichiarato un fatturato specifico dalla stessa, pari a € 1.673.896, riguarda contratti stipulati dal 2009, conclude che “l’originaria affidataria dello stesso non poteva che essere non la Lavajet s.r.l.”.
Come già emerso, in effetti l’aggiudicataria ha concluso nell’anno 2011 un contratto d’affitto di ramo d’azienda dalla predetta soc. Lavajet s.r.l. che, come riconosciuto dalla ricorrente, ha comportato la anche la cessione dei relativi contratti su cui si è basata la dichiarazione di possesso dei requisiti da parte dell’aggiudicataria. E’ emerso anche che la predetta Lavajet s.r.l sia fallita nel 2012, su tale presupposto assume infatti la ricorrente che, ai sensi dell’art. 72 legge fallimentare, si sarebbe verificato lo “scioglimento” dei relativi contratti, nonché la sospensione del contratto d’affitto di ramo d’azienda a monte.
Conclude infine la ricorrente affermando che, dato il fatto che tutti i mezzi, attrezzature, esperienze professionali e fatturato dell’aggiudicataria dipendono da quelli posseduti dalla società Lavajet s.r.l., il fallimento di quest’ultima ha comportato l’inidoneità per l’aggiudicataria di avvalersi di tali requisiti.
Il motivo è infondato per le seguenti ragioni.
Con riguardo agli eventuali pregiudizi sul possesso dei requisiti generali che potrebbero riflettersi sulla concorrente Lavajet Global s.r.l., in conseguenza del fallimento della Società Lavajet s.r.l., si è già detto nell’esame del precedente terzo motivo di ricorso.
Ciò che qui rileva è il fatto, incontestato e dunque da ritenersi accertato, del prosieguo regolare dei due contratti con la subentrante Lavajet Global s.r.l. in forza del contratto d’affitto d’azienda.
Deve inoltre sottolinearsi, come affermato da costante giurisprudenza, il fatto che la concorrente può avvalersi dei requisiti maturati dall’impresa cedente, infatti è stato affermato che “detto art. 51 del d.lgs. 163/2006, consente infatti espressamente il subentro dei soggetti risultanti da operazioni di cessione, affitto di azienda, ovvero da trasformazione, fusione, e scissione durante la gara, previo accertamento dei requisiti di ordine generale, sia di ordine speciale (nei limiti temporali di cui all’esame del precedente motivo di ricorso). Poiché nelle gare indette per l’aggiudicazione, l’istituto dell’avvalimento ha portata generale ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti di partecipazione, con riguardo al possesso dei requisiti tecnici in caso di cessione, sono certamente riconducibili al patrimonio di una società o di imprenditori cessionari prima della partecipazione alla gara di un ramo d’azienda i requisiti posseduti dal soggetto cedente, giacché essi devono considerarsi compresi nella cessione in quanto strettamente connessi all’attività propria del ramo ceduto” (Consiglio di Stato, sez. V, 10.09.2010, n. 5803)
(TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 16.01.2015 n. 91 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTIA questo Collegio non sfugge l’orientamento costante della giurisprudenza in base al quale, nel caso in cui gli amministratori di una società partecipante ad una gara abbiano subito sentenza di condanna passata in giudicato, decreto penale di condanna irrevocabile, sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. e fatta eccezione per i casi di automatica esclusione ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs n. 163/2006, rientri nella discrezionalità della stazione appaltante valutare la loro gravità ai fini dell’esclusione del concorrente.
---------------
Come è noto, la giurisprudenza ha interpretato la incidenza sulla moralità professionale, nel senso della rilevanza dell'interesse dell'Amministrazione a non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata moralità professionale in relazione al tipo di contratto oggetto della gara.
Il requisito della moralità professionale richiesto per la partecipazione alle gare pubbliche di appalto è stato considerato mancante nell'ipotesi di commissione di un reato specifico connesso al tipo di attività che il soggetto deve svolgere (ex multis, Consiglio Stato, sez. V, 12.04.2007, n. 1723, Tar Lazio, Roma, Sez. III, 07.09.2011, n. 7141 proprio rispetto alla condanna per violazione della normativa antinfortunistica in una gara di appalto di lavori).
Anche la nozione di gravità del reato deve essere valutata non in relazione alla considerazione penalistica del reato, ma all’interesse dell’Amministrazione al corretto adempimento delle obbligazioni oggetto del contratto.
Ne deriva che, come è evidente, la gravità del reato, ai sensi dell’art. 38, non è esclusa dalla lieve pena edittale prevista nella fattispecie penale o dalla natura contravvenzionale dello stesso.
La gravità del reato deve essere valutata in relazione alla incidenza dello stesso sulla moralità professionale in relazione al contenuto del contratto oggetto della gara che assume, quindi, importanza fondamentale al fine di apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo concorrente.
In definitiva, il Collegio condivide quella giurisprudenza secondo cui è irrilevante rispetto a tale valutazione della stazione appaltante la gravità del reato sanzionato in sede penale in relazione alla pena edittale o al fatto che si tratti di contravvenzioni.

Deve, a questo punto, essere esaminato il quinto motivo di ricorso.
Con esso la società ricorrente si duole del fatto che, nonostante il legale rappresentante della società Lavajet Global Service s.r.l., il sig. R.D., abbia subito condanne penali, la società predetta non sia stata esclusa dalla procedura di gara.
Il motivo è fondato e deve essere accolto per le ragioni di seguito indicate.
A questo Collegio non sfugge l’orientamento costante della giurisprudenza in base al quale, nel caso in cui gli amministratori di una società partecipante ad una gara abbiano subito sentenza di condanna passata in giudicato, decreto penale di condanna irrevocabile, sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. e fatta eccezione per i casi di automatica esclusione ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs n. 163/2006, rientri nella discrezionalità della stazione appaltante valutare la loro gravità ai fini dell’esclusione del concorrente.
Nel caso qui esaminato, a fronte di provvedimenti definitivi del giudice penale a carico del sig. D., per i reati di “Attività di gestione rifiuti non autorizzata” ai sensi dell’art. 51, comma 1, lett. a), del d.lgs n. 22/97 e di “violazione delle norme di attuazione delle Direttive 91/156/CE sui rifiuti, 91/6897CE sui rifiuti pericolosi e 94/62CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio” ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 22/1997, risultati non depenalizzati, estinti o per i qual operi la riabilitazione, la decisione assunta dalla commissione di gara nella seduta del giorno 03.04.2014, di non escludere il concorrente, (verbale di gara n. 2) basata sulla mera constatazione che trattasi di “ammende le quali non incidono sulla moralità professionale” è difatti apodittica e priva di ogni sostegno motivazionale.
Come è noto, la giurisprudenza ha interpretato la incidenza sulla moralità professionale, nel senso della rilevanza dell'interesse dell'Amministrazione a non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata moralità professionale in relazione al tipo di contratto oggetto della gara.
Il requisito della moralità professionale richiesto per la partecipazione alle gare pubbliche di appalto è stato considerato mancante nell'ipotesi di commissione di un reato specifico connesso al tipo di attività che il soggetto deve svolgere (ex multis, Consiglio Stato, sez. V, 12.04.2007, n. 1723, Tar Lazio, Roma, Sez. III, 07.09.2011, n. 7141 proprio rispetto alla condanna per violazione della normativa antinfortunistica in una gara di appalto di lavori).
Anche la nozione di gravità del reato deve essere valutata non in relazione alla considerazione penalistica del reato, ma all’interesse dell’Amministrazione al corretto adempimento delle obbligazioni oggetto del contratto.
Ne deriva che, come è evidente, la gravità del reato, ai sensi dell’art. 38, non è esclusa dalla lieve pena edittale prevista nella fattispecie penale o dalla natura contravvenzionale dello stesso.
La gravità del reato deve essere valutata in relazione alla incidenza dello stesso sulla moralità professionale in relazione al contenuto del contratto oggetto della gara che assume, quindi, importanza fondamentale al fine di apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo concorrente.
In definitiva, il Collegio condivide quella giurisprudenza secondo cui è irrilevante rispetto a tale valutazione della stazione appaltante la gravità del reato sanzionato in sede penale in relazione alla pena edittale o al fatto che si tratti di contravvenzioni (Consiglio Stato, sez. VI, 04.06.2010, n. 3560).
Considerata la tipologia dei servizi da affidare, consistenti nello spazzamento, pulizia e ritiro di rifiuti e vista la natura dei reati per cui il sig. D. è stato condannato, ovvero svolgimento di attività di gestione rifiuti non autorizzata e di violazione delle norme dell’Unione europea sui rifiuti pericolosi, era pacificamente da effettuare una adeguata e congrua motivazione circa la non incidenza di tali fatti di reato sulla moralità dell’appaltatore, anche nel dovuto rispetto del principio di “par condicio” tra concorrenti, per poter assumere la decisione di ammettere alle successive fasi di gara l’impresa risultata vincitrice. Cosa, quest’ultima, non risultante dal verbale di gara n. 2 ove tale decisione è stata formalizzata, affermando semplicemente che le sanzioni applicate non incidono sulla moralità professionale, senza tuttavia indicarne le ragioni.
In conclusione, alla luce dei rilievi che precedono, il motivo è fondato
(TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 16.01.2015 n. 91 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' da escludere che possa riconoscersi natura equivalente al rilascio della concessione alla nota con cui il comune ha comunicato alla ricorrente il parere favorevole della commissione edilizia, non solo perché essa lo escludeva esplicitamente, affermandosi che: “La presente comunicazione non costituisce titolo per l’inizio dei lavori, né equipollente della concessione edilizia”, ma anche perché ne condizionava espressamente il rilascio alla produzione di ulteriori atti costituenti specifici oneri (impegnativo di cessione di aree per pista ciclabile e atto unilaterale d’obbligo di vincolo della destinazione d’uso).
Il collegio ritiene poi da escludere che possa riconoscersi natura equivalente al rilascio della concessione alla nota del 20.02.1995, con cui il comune ha comunicato alla ricorrente il parere favorevole della commissione edilizia, non solo perché essa lo escludeva esplicitamente, affermandosi che: “La presente comunicazione non costituisce titolo per l’inizio dei lavori, né equipollente della concessione edilizia”, ma anche perché ne condizionava espressamente il rilascio alla produzione di ulteriori atti costituenti specifici oneri (impegnativo di cessione di aree per pista ciclabile e atto unilaterale d’obbligo di vincolo della destinazione d’uso).
Ritiene pertanto il collegio che non vi fosse stato il rilascio della concessione anteriormente alla data di adozione della delibera di variante.
L’atto di salvaguardia risulta pertanto essere stato correttamente emanato dopo che la delibera di adozione della variante, con il cui contenuto il progetto risultava in contrasto, era divenuta regolarmente esecutiva, senza contare che le misure di salvaguardia trovano comunque applicazione a decorrere dalla data della deliberazione comunale di adozione della pianificazione (l. 1902/1952) e quindi ancor prima dell’esecutività. Dalle argomentazioni che precedono si evince pertanto che il comune ha agito in doverosa applicazione della normativa, per cui non sussiste, per definizione, spazio per alcun eccesso di potere (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.12.2014 n. 1539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parte ricorrente, dopo essersi limitata a comunicare l’inizio dei lavori “di scavo e sbancamento” non risulta effettivamente aver effettuato alcuna ulteriore opera sicuramente riconducibile all’esecuzione della concessione edilizia, tant’è che il verbale di sopralluogo, in nessun modo contestato, rilevava che gli unici lavori effettuati consistevano “in un modesto sbancamento del piano verde dell’area, con accumulo del materiale di riporto ai lati della stessa.
Nessun cantiere risulta impiantato, né risulta iniziata alcuna opera, anche di minima portata. Lo stesso sbancamento non risulta effettuato in epoca recente, visto che l’attuale piano del terreno e i cumuli di terra ai lati sono ricoperti di verde.”.
È evidente che quanto sopra non può ritenersi integrante un effettivo inizio dei lavori, mancando qualsiasi elemento in grado di far ritenere che fosse stato nei termini approntato un cantiere; e poi evidente che la corresponsione degli oneri dovuti, per quanto ingenti, non vale a sanare la totale mancanza dell’avvio dei lavori edili.
Per quanto sopra è evidente che il comune non poteva sottrarsi alla rilevazione della intervenuta decadenza, non trattandosi di atto disponibile da parte dell’ente locale. Per le stesse ragioni, e cioè la doverosità dell’operato comunale, è evidente che nessuna comunicazione di avvio di procedimento poteva ritenersi dovuta, tanto più che nessun apporto collaborativo del privato avrebbe potuto in alcun modo ovviare al contenuto vincolato dell’atto comunale.

Il ricorso numero 3284/1998 è infondato perché il provvedimento impugnato, a prescindere dall’evidente errore materiale rappresentato dal riferimento alla “mancata esecuzione” dei lavori entro un anno dal rilascio della concessione anziché “all’inizio dei lavori”, risulta pienamente rispondente al disposto normativo.
Come infatti lo stesso ricorrente ricorda, la concessione stessa prevedeva che i lavori dovessero essere iniziati entro un anno e parte ricorrente, dopo essersi limitata a comunicare l’inizio dei lavori “di scavo e sbancamento” non risulta effettivamente aver effettuato alcuna ulteriore opera sicuramente riconducibile all’esecuzione della concessione edilizia, tant’è che il verbale di sopralluogo, in nessun modo contestato, rilevava che gli unici lavori effettuati consistevano “in un modesto sbancamento del piano verde dell’area, con accumulo del materiale di riporto ai lati della stessa. Nessun cantiere risulta impiantato, né risulta iniziata alcuna opera, anche di minima portata. Lo stesso sbancamento non risulta effettuato in epoca recente, visto che l’attuale piano del terreno e i cumuli di terra ai lati sono ricoperti di verde.”.
È evidente che quanto sopra non può ritenersi integrante un effettivo inizio dei lavori (Consiglio di Stato sez. IV N. 4201/2014, TAR Palermo (Sicilia) sez. II N. 1081/2014), mancando qualsiasi elemento in grado di far ritenere che fosse stato nei termini approntato un cantiere; e poi evidente che la corresponsione degli oneri dovuti, per quanto ingenti, non vale a sanare la totale mancanza dell’avvio dei lavori edili.
Per quanto sopra è evidente che il comune non poteva sottrarsi alla rilevazione della intervenuta decadenza, non trattandosi di atto disponibile da parte dell’ente locale. Per le stesse ragioni, e cioè la doverosità dell’operato comunale, è evidente che nessuna comunicazione di avvio di procedimento poteva ritenersi dovuta, tanto più che nessun apporto collaborativo del privato avrebbe potuto in alcun modo ovviare al contenuto vincolato dell’atto comunale.
Infine anche il ricorso 230/1999 è evidentemente infondato per le stesse ragioni appena enunciate, con l’ulteriore precisazione che la reiterazione della dichiarazione di decadenza, in luogo di una correzione dell’errore materiale come precedentemente commesso, non ha di per sé effetto viziante dell’atto, che rimane atto vincolato e a contenuto dichiarativo e che rimane comunque indenne da tutti i motivi di ricorso per le ragioni già precedentemente esplicitate (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.12.2014 n. 1539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer “sagoma” di un edificio deve intendersi, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la “conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”.
Infine, infondata è l’ultima doglianza concernente la pretesa violazione dell’art. 9, co. 7, lett. l), del decreto legge n. 495/1996, in quanto illegittimamente il Comune resistente avrebbe sottoposto alla valutazione della Commissione edilizia il progetto di realizzazione del giardino pensile, trattandosi di mera variante a concessione edilizia già rilasciata, come tale assoggettata a semplice denunzia di inizio attività.
Sul punto, la confutazione della tesi del ricorrente deriva dalla mera lettura della richiamata disposizione, che esclude dal regime della d.i.a. gli interventi che alterino la sagoma dei manufatti. Infatti, per “sagoma” di un edificio deve intendersi, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la “conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti” (cfr. C.d.S., sez. VI, 15.03.2013, n. 1564).
In tal senso, sono evidenti le alterazioni della sagoma implicate dal progetto del ricorrente, come si rileva dagli elaborati grafici e dalla stessa relazione tecnica, in quanto è stata prevista, tra l’altro, la realizzazione di “arcate in cemento armato a vista” lungo tutto il perimetro del tetto e senza soluzione di continuità (TAR Basilicata, sentenza 01.10.2014 n. 712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La errata o insufficiente (non importa se dolosa o colposa) rappresentazione di circostanze di fatto esposte nella domanda e relativi allegati di concessione edilizia posta alla base del rilascio dell’atto della concessione edilizia che diversamente non sarebbe stata rilasciata, costituisce da sola ragione sufficiente per giustificare un provvedimento di annullamento di ufficio della concessione medesima, tanto che in tale situazione si può prescindere dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto.
Inoltre, come ha osservato il comune, “è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del permesso di costruire n. 16/04 del 23.04.2004, determinato dallo stesso soggetto richiedente”.
La errata o insufficiente (non importa se dolosa o colposa) rappresentazione di circostanze di fatto esposte nella domanda e relativi allegati di concessione edilizia posta alla base del rilascio dell’atto della concessione edilizia che diversamente non sarebbe stata rilasciata, costituisce da sola ragione sufficiente per giustificare un provvedimento di annullamento di ufficio della concessione medesima, tanto che in tale situazione si può prescindere dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto (in tal senso anche C. Stato, V, 12.10.2004, n. 6554) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.12.2008 n. 6554 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 22.05.2015

ã

     Sull'interpretazione dell'art. 31 del DPR n. 380/2001 (Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali) e, segnatamente, sui nuovi commi 4-bis, 4-ter, 4-quater che dispongono quanto segue:


4-bis. L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
(comma introdotto dall'art. 17, comma 1, lettera q-bis), legge n. 164 del 2014)

4-ter. I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.
(comma introdotto dall'art. 17, comma 1, lettera q-bis), legge n. 164 del 2014)

4-quater. Ferme restando le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, le regioni a statuto ordinario possono aumentare l'importo delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal comma 4-bis e stabilire che siano periodicamente reiterabili qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di demolizione.
(comma introdotto dall'art. 17, comma 1, lettera q-bis), legge n. 164 del 2014)
 

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Le eventuali ravvisate illegittimità costituzionali di norme di rango primario non esonerano le amministrazioni dalla doverosa applicazione delle stesse norme (fino a quando non intervenga un’abrogazione o una dichiarazione di illegittimità costituzionale), a meno che esse non siano “disapplicabili” in ragione di un loro manifesto contrasto con il diritto dell’Unione europea.
Al contempo, deve però osservarsi che anche alle amministrazioni, come al giudice, si impone comunque il dovere di interpretare ogni disposizione dell’ordinamento in chiave sistematica e in modo costituzionalmente orientato, sicché, tra più opzioni interpretative legittimamente percorribili, risulterà sempre preferibile quella più rispettosa delle altre previsioni vigenti nell’ordinamento e dei valori costituzionali che lo informano.
---------------
I nuovi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art. 31 DPR 380/2001 (con i quali è stato inserito un ulteriore meccanismo di deterrenza rispetto all’inadempimento delle ingiunzioni a demolire) debbono ritenersi automaticamente applicabili in Sicilia.
---------------
Il Consiglio ritiene che la sanzione amministrativa pecuniaria introdotta dal nuovo comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 sia “aggiuntiva”, ossia che essa si cumuli con le “altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”, sulla base delle osservazioni e delle considerazioni di seguito sviluppate.
Invero, va rilevato che nell’alveo semantico dell’imprecisa locuzione “altre misure e sanzioni previste da norme vigenti” potrebbero rientrare:
a) sanzioni penali;
b) sanzioni amministrative, pecuniarie o non pecuniarie;
c) sia misure con effetti punitivi sia di carattere non sanzionatorio (ossia le “altre misure”).
L
a sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 è stata introdotta, all’evidenza, proprio al fine di incentivare la compliance (ossia la spontanea attivazione) dei privati rispetto all’ordine di demolizione, attraverso una coazione indiretta rappresentata da una reazione punitiva dell’ordinamento, incidente sul patrimonio dei responsabili degli abusi eventualmente rimasti inerti a fronte di un dovere di esecuzione su di essi gravante; sicché ipotizzare che laddove si applichi la sanzione pecuniaria non si possa più far luogo all’acquisizione e alla demolizione sarebbe una conclusione abrogans e contrastante, non solo con la lettera della legge, ma anche con la stessa, riferita politica legislativa attuata con l’intervento normativo.
Al lume dei superiori rilievi può, nondimeno, ritenersi che, nel caso in esame, si sia al cospetto di un’ipotesi in cui l’ambito di applicazione del principio di specialità sia stato perimetrato direttamente dal Legislatore, segnatamente attraverso il ricorso alla precisazione “salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”. In questa prospettiva, però,
il vocabolo “salva” deve essere inevitabilmente interpretato nel senso di “fatta comunque salva cioè applicabile”, posto che, diversamente opinando, l’esegesi tornerebbe a quel corto circuito logico al quale si è sopra accennato (ossia, si finirebbe per azzerare una delle due sanzioni).
Va da sé che la cumulabilità tra la sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico e la demolizione d’ufficio delle opere abusive (e, ancor prima, l’acquisizione degli immobili oggetto degli illeciti edilizi) risulterebbe una soluzione ancor più convincente, qualora la seconda fosse in ipotesi qualificabile come “misura” e non come “sanzione”, dal momento che, in tale evenienza, nemmeno si porrebbero i problemi giuridici, sopra approfonditi, correlati all’operare del principio di specialità tra le sanzioni.
In conclusione,
l’avviso del Collegio è che la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso reale) a tutte le altre sanzioni e misure eventualmente previste per lo stesso “fatto”, come sopra definito, con la sola eccezione delle eventuali previsioni che dovessero comminare una sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è giustificata dal termine “altre” contenuto nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il principio di specialità, qualora ne ricorressero in concreto i presupposti di operatività.
Infine, per completezza dell’esame, va osservato che, nonostante l’atecnica (almeno per il diritto italiano) e generica terminologia utilizzata dal Legislatore (non comprendendosi a quale istituto i conditores iuris abbiano inteso far riferimento con l’uso della locuzione “altre misure”),
deve ritenersi che nell’insieme delle “altre misure” rientrino tutti gli effetti e gli atti di natura penale, amministrativa o civile correlati all’inottemperanza a un’ordinanza di demolizione.
Non potendo, peraltro, compiersi in questa sede un’accurata ed esaustiva disamina di tutte le possibili fattispecie, spetterà alle singole amministrazioni verificare di volta in volta l’esatta natura giuridica e l’eventuale cumulabilità delle “altre misure” con la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico.

---------------
Q
uesto Consiglio osserva che:
- la sanzione in discorso non costituisce affatto –almeno dal punto di vista giuridico– un’anticipazione a titolo risarcitorio delle spese necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, ma consiste piuttosto in uno strumento sia di coazione (indiretta dei responsabili degli abusi dei quali sia stata constata l’omessa demolizione) e di repressione delle condotte omissive prese in considerazione dal precetto della disposizione;
- il comma 4-ter dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 si limita ad indicare la destinazione esclusiva e obbligatoria delle somme derivanti dalla riscossione delle sanzioni, ma non influisce sul regime giuridico della relativa dosimetria, che è quello dettato dall’art. 11 della L. n. 689/1981;
- non è affatto opportuna –e, anzi, potrebbe costituire un indice sintomatico di eccesso di potere per sviamento- l’indicazione, da parte delle amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione pecuniaria.
Si presti attenzione: non si allude all’indicazione del testo dell’art. 31, comma 4-bis, del Testo unico, ossia non si sta facendo riferimento alla comminatoria della sanzione per il caso di constata inottemperanza (monito che sicuramente deve trovare collocazione all’interno dell’ingiunzione a demolire); piuttosto si intende richiamare e stigmatizzare le soluzioni, prospettate:
a) della quantificazione presuntiva della sanzione e
b) della commisurazione del quantum dovuto in rapporto alle spese necessarie per far fronte alla demolizione e sistemazione dei luoghi, sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario unico regionale per i lavori pubblici" vigente.

Contro la prima proposta, si osserva che la sanzione è un dispositivo giuridico consistente in una reazione dell’ordinamento a una condotta antigiuridica ritenuta meritevole di punizione; da ciò discende che
la concreta misura della sanzione da irrogare deve essere stabilita sempre successivamente alla condotta e non può mai essere predeterminata
(fatte salve le ipotesi di sanzione pecuniaria stabilita ex ante dalla legge in misura fissa), pena il frontale contrasto con i fondamentali principi della personalità e della proporzionalità della sanzione, sui quali riposa anche il dettato del surricordato art. 11.
Contro la seconda proposta
vanno poi richiamati i precedenti rilievi sul ruolo dell’art. 11, nella cui economia applicativa l’eventuale costo, sostenuto dall’amministrazione, per la demolizione e la risistemazione dei luoghi, può unicamente rilevare nei termini della valutazione pro reo da effettuare, in relazione all'opera eventualmente svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione.
D’altra parte il comma 5 dello stesso art. 31 accolla ai responsabili le spese della demolizione (ove effettuata) e, quindi, anche dal punto di vista della logica giuseconomica, sarebbe quantomeno ingiusta la duplicazione della relativa pretesa dell’amministrazione, una prima volta in sede di sanzione ai sensi del comma 4-bis e poi, una seconda volta, in via di rivalsa a demolizione (d’ufficio) avvenuta.
---------------
Questo Consiglio osserva che la demolizione (ex art. 31) non si configura come un esito obbligato dell’acquisizione delle opere edilizie abusive e della relativa area di sedime. Lo stesso comma 5 dell’art. 31 prevede difatti la possibilità della conservazione delle opere in presenza di dichiarati interessi pubblici non contrastanti con quelli urbanistici e ambientali.
---------------
Può tranquillamente affermarsi che la sanzione di cui al comma 4-bis dell’art. 31 non possa trovare applicazione ai casi previsti e disciplinati dall’art. 34 del Testo unico. Sebbene, infatti, anche quest’ultima previsione contempli un’ipotesi di demolizione, nondimeno prevale il principio di tassatività delle sanzioni amministrative, scolpito dall’art. 1, secondo comma, della citata L. n. 689/1981, in base al quale: “Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati.”.
Orbene, non vi è dubbio che, tenuto conto della ratio ispiratrice del nuovo comma 4-bis dell’art. 31 e della sua collocazione topografica,
non possano esistere dubbi di sorta circa la riferibilità della sanzione soltanto all’evenienza di un’inottemperanza, del responsabile dell’abuso, a un’ingiunzione a demolire relativa a illeciti interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La condotta sanzionata dalla previsione di cui al sunnominato comma 4-bis è di natura omissiva, ossia concerne la mancata demolizione, da parte del responsabile dell’abuso, entro il termine finale fissato dalla legge, delle opere in cui si siano concretati gli illeciti interventi edilizi.
Tale condotta si perfeziona e si colloca –sotto i profili logico, cronologico e giuridico– prima della eventuale demolizione eseguita d’ufficio dal comune (demolizione contemplata dal comma 5 dell’art. 31) e, di norma, anche prima della notificazione all’interessato dello stesso verbale di accertamento dell’inottemperanza, da cui scaturisce l’effetto legale dell’acquisizione delle opere, non demolite spontaneamente, al patrimonio comunale (ipotesi prevista dai commi 2 e 3 del medesimo articolo).
In altri termini, sulla base del combinato disposto dei commi 3, 4, 4-bis e 5 dell’art. 31 del Testo unico e dell’art. 4 della L.R. n. 17/1994, a seguito dell’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire delle opere di cui all’art. 31, comma 1, del Testo unico, si innesca una sequenza procedimentale, a più esiti, i cui snodi possono essere così ricostruiti:
I.) obbligo di applicare la sanzione di cui al comma 4-bis;
II.) acquisizione delle opere e delle aree al patrimonio comunale;
III.) in alternativa a II.), a) demolizione delle opere; b) conservazione delle opere in ragione di prevalenti interessi pubblici; c) ricorrendone i presupposti, concessione del diritto di abitazione degli immobili al responsabile dell’abuso.
---------------
Questo Consiglio
reputa di dover spendere alcune brevi, considerazioni anche sul tema dell’”autorità competente” a irrogare la sanzione di cui al comma 4-bis.
Ebbene, l’avviso di questo Consiglio è che detta autorità sia da individuarsi, di regola, nel comune. A tale conclusione si perviene sulla base delle seguenti argomentazioni:
- depone nel senso sopra indicato la collocazione della previsione nell’ambito di una disposizione che disciplina l’attività procedimentale dei comuni;
- concorre a siffatto esito interpretativo, in assenza di differenti indicazioni ricavabili dal dato positivo, il principio di concentrazione delle competenze amministrative, che risulterebbe gravemente vulnerato qualora l’attività di repressione degli illeciti edilizi di cui all’art. 31 del Testo unico fosse frammentata tra varie autorità;
- è, infine, coerente con detto approdo esegetico la L. n. 689/1981, laddove il combinato disposto degli artt. 13, primo comma (che recita: “Gli organi addetti al controllo sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro …“) e dell’art. 17, primo comma (che indica il prefetto quale autorità di competenza residuale nelle sole materie di competenza statale), conduce a ritenere che il potere di irrogare la sanzione si imputi in capo all’ente tenuto al rilascio del permesso di costruire e, comunque, incaricato della potestà di vigilanza sul corretto uso del territorio comunale.

---------------
OGGETTO: Applicazione dell’art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come integrato dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164 - Sanzioni conseguenti alla inottemperanza all'ordinanza di demolizione di opere abusivamente eseguite - Proposta di circolare.
...
PREMESSO
   A. – Con nota prot. n. 2324, del 02.02.2015, pervenuta il 03.02.2015 e recante in calce il “visto” dell’Assessore, il Dirigente generale del Dipartimento dell’urbanistica dell’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente (nel prosieguo: Assessorato) ha richiesto a questo Consiglio di esprimere un parere sulla questione succintamente descritta in oggetto e, in particolare, sulle soluzioni offerte nella bozza di circolare allegata alla predetta nota.
   B. – Per una migliore intelligenza delle problematiche sottoposte al vaglio di questo Consiglio giova riferire che:
- con il decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, sono state emanate, tra l’altro, misure urgenti anche relative al settore dell'edilizia, con l'intento di favorire la ripresa economica e delle attività produttive.
In particolare, l'art. 17 del citato decreto, rubricato “Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia”, al comma 1, lettera q-bis) –lettera aggiunta dalla legge di conversione- ha introdotto talune integrazioni all'art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, d’ora in poi: Testo unico), relativo agli “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”, intese ad incentivare le attività di vigilanza urbanistico-edilizia e la semplificazione delle procedure volte all'irrogazione di sanzioni ripristinatorie, a fronte della consumazione e dell’accertamento di illeciti legati all'abusivismo edilizio;
- le interpolazioni incidenti sull’art. 31 del Testo unico sono state operate con il metodo della “novellazione” e sono consistite, nell’inserimento –dopo il comma 4– di tre ulteriori commi dal seguente tenore: “
4-bis. L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
4-ter. I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.
4-quater. Ferme restando le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, le regioni a statuto ordinario possono aumentare l'importo delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal comma 4-bis e stabilire che siano periodicamente reiterabili qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di demolizione
.”;
- in conseguenza e per effetto delle riferite, recenti modifiche legislative,
l’art. 31 –che, come sopra accennato, disciplina la procedura dell’ingiunzione a demolire e delle conseguenze dell’eventuale inottemperanza a detta ingiunzione, nel caso di interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali– si è arricchito della previsione di una sanzione amministrativa pecuniaria, di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, da comminarsi a carico del responsabile dell'abuso una volta decorso il temine perentorio di novanta giorni dall'ingiunzione, per il caso di “constatata … inottemperanza” all’ordine di demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.
   C. – L’Assessorato richiedente, con la bozza di circolare in parola –affermata l’appartenenza della materia sanzionatoria all’esclusiva competenza legislativa statale (con la conseguenza della diretta applicabilità delle nuove disposizioni nell’ordinamento regionale siciliano, senza necessità di alcuna norma di recepimento)–, intende rispondere all’esigenza di fornire chiarimenti in ordine alle perplessità, rappresentate dal alcune amministrazioni locali dell’Isola, circa la natura della sanzione prevista dal nuovo comma 4-bis del su richiamato art. 31 del Testo unico.
Più in dettaglio,
nella ridetta bozza di circolare, l’Assessorato –oltre a richiamare le amministrazioni interessate a una puntuale e tempestiva osservanza del sunnominato art. 31, siccome novellato- ha esposto le seguenti considerazioni:
1)
la sanzione amministrativa pecuniaria, prevista oggi dal comma 4-bis dell’art. 31, dovrebbe reputarsi aggiuntiva rispetto ad altre sanzioni eventualmente stabilite, per la medesima violazione, dall’ordinamento (dovendosi interpretare in questo senso l’inciso normativo "… salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti", contenuto nel primo periodo del sunnominato comma 4-bis);
2)
la sanzione in discorso costituirebbe una sorta di anticipazione, a titolo risarcitorio, delle spese necessarie al ripristino dello stato dei luoghi; la nuova sanzione pecuniaria, difatti, sarebbe stata introdotta al fine di assicurare ai bilanci dei Comuni adeguate risorse finanziarie per far fronte tempestivamente alle demolizioni d'ufficio, come si desumerebbe dal comma 4-ter che riserva i proventi derivanti dalla sanzione "alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico";
3)
alla demolizione, in caso di inerzia del responsabile dell’abuso, dovranno provvedere direttamente le amministrazioni locali, con potere di rivalsa, per le spese sostenute, nei confronti del contravventore rimasto inadempiente;
4)
per ragioni di opportunità le amministrazioni competenti dovrebbero aver cura di evidenziare in seno all'ordinanza di demolizione, oltre alle conseguenze (come l’acquisizione gratuita delle opere e delle aree) derivanti dall’eventuale inottemperanza all’ingiunzione entro il termine previsto dalla legge, anche l'ammontare della ulteriore sanzione pecuniaria da quantificare (fatti salvi i casi previsti dall'art. 2, comma 27, del Testo unico, per i quali si applicherà sempre la misura massima) in forma presuntiva e da commisurare alle spese necessarie per far fronte alla demolizione e alla sistemazione dei luoghi, sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario unico regionale per i lavori pubblici" vigente;
5)
la previsione sanzionatoria in argomento troverebbe applicazione anche con riguardo alle fattispecie previste, rispettivamente, dal comma 5 dello stesso art. 31 e dall'art. 4 della L.R. 31.05.1994, n. 17 (diritto di abitazione), ma non al caso degli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, di cui all’art. 34 del Testo unico (ferma restando, anche in quest’ultima ipotesi, l'imputazione a carico del responsabile dell'abuso delle spese di demolizione e di inottemperanza all'ordinanza).
L’Assessorato ha chiesto di conoscere il parere di questo Consiglio in ordine al riferito contenuto della futura circolare.
CONSIDERATO
   1. – In via preliminare questo Consiglio non può astenersi dal richiamare l’attenzione dell’Assessorato sulla necessità che le circolari amministrative, al pari di tutti gli atti amministrativi, siano ben scritte, correndosi altrimenti il rischio di insinuare, nei destinatari, dubbi anche sulla attendibilità delle soluzioni giuridiche proposte.
Affinché un qualunque testo di contenuto giuridico possa ritenersi ben scritto occorre, tra l’altro, eliminare -ovunque ricorrano- gli errori grammaticali (nella fattispecie, “provincie” in luogo di “province”, negli indirizzi contenuti nell’incipit della circolare), bisogna poi utilizzare un preciso lessico giuridico (nella bozza l’uso dell’espressione “reati penali”, invece di “reati”, sottintende un grave errore concettuale, non conoscendo il nostro ordinamento figure di reati “non penali”), si deve controllare poi l’esattezza degli estremi delle fonti normative citate (ad esempio, “art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001” al posto dell’inesistente “art. 2, comma 27, del D.P.R. 380/2001”) e, infine, è indispensabile curare gli aspetti formali e “protocollari” dell’atto (nel caso in esame, balza agli occhi, nell’elenco delle Autorità alle quali dovrebbe essere indirizzata la futura circolare, l’errata indicazione delle corrette denominazioni di “Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”, per la sede di Palermo, e di “Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – Sezione staccata di Catania”).
Non ultimo si richiama l’attenzione sul rispetto delle disposizioni impartite con la circolare del Presidente del Consiglio dei Ministri del 02.05.2001, n. 1088, recante la “Guida alla redazione dei testi normativi”, pubblicata nella G.U.R.I., Serie Generale, n. 101 del 03.05.2001, S.O. n. 105.
   2. – Esaurite le doverose (ma non irrilevanti) considerazioni in ordine al drafting della bozza di circolare, può passarsi ad esaminare il merito dei quesiti, non senza previamente precisare in via generale che questo Consiglio, rispettivamente, può e deve esprimere il proprio parere su “affari” che gli siano sottoposti dalla Regione siciliana e sui “regolamenti” regionali, ma non anche sulle “circolari”.
Sennonché, all’insegna della leale collaborazione che sempre ha ispirato i rapporti tra Regione siciliana e questo Consiglio, si reputa di poter considerare la bozza di circolare in discorso alla stregua di un mero veicolo di questioni giuridiche di interesse generale. In questa prospettiva l’affare può essere, pertanto, esaminato.
   3. – Seguendo un rigoroso ordine logico, la prima questione da affrontare, sebbene non prospettata dall’Assessorato, concerne l’effettiva applicabilità, nell’ordinamento isolano, delle disposizioni recate dal sunnominato art. 17 del D.L. n. 133/2014. Sul punto, come sopra riferito,
l’Assessorato in sostanza ha mostrato di ritenere (nel primo paragrafo della circolare) che la lett. q-bis) del ridetto art. 17 rechi previsioni afferenti, sia pur indirettamente, alla materia penale e, quindi, come tali riservate all’esclusiva competenza legislativa statale.
Al riguardo questo
Consiglio ritiene che l’argomentare dell’Assessorato non sia condivisibile né convincente, apparendo al contrario evidente che l’introduzione di una sanzione amministrativa per una condotta che concerne un posterius rispetto all’illecito costituito dall’edificazione in assenza del permesso di costruire (o in difformità o con variazione essenziale rispetto a quest’ultimo) non giustifichi affatto l’evocazione della riserva statale in materia penale.
In proposito,
è sufficiente osservare che, nella più parte delle fattispecie di illeciti edilizi, la normativa urbanistica di ogni livello –da quella statale o regionale di rango primario, passando per le prescrizioni contenute nei piani e regolamenti comunali, fino a quanto sia dettagliato nel singolo provvedimento concessorio rilasciato al contravventore (v. l’art. 44, comma 1, lett. a) e b), del Testo unico, che punisce “l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste … dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire”, nonché la “esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso” stesso)– costituisce un c.d. “elemento integrativo” del precetto penale, ossia un dato sostanzialmente esterno al precetto sanzionatorio che quest’ultimo si limita a presupporre e presidiare ab extra (C.G.A., sez. riun., del 19.02.2013, n. 206/11).
Non vale tuttavia indugiare su una diffusa confutazione delle riferite tesi patrocinate dall’Assessorato (in relazione alle quali difetta, peraltro, una richiesta di parere) e occorre, invece, verificare unicamente se possano ritenersi vigenti, anche in Sicilia, in assenza di una norma legislativa regionale di recepimento, le previsioni di cui alla lett. q-bis) del ridetto art. 17 del D.L. n. 133/2014.
Deve, invero, ritenersi che la soluzione di tale questione, investendo un profilo pregiudiziale, condizioni lo scrutinio delle altre espressamente prospettate dall’Assessorato: risulterebbe, invero, inutile affrontare l’esegesi di una disposizione statale che fosse inapplicabile nell’Isola.
Al riguardo si impone di principiare dall’esame della giurisprudenza di questo Consiglio che, in sede giurisdizionale e consultiva, ha affermato –diversamente da quanto opinato dall’Assessorato- l’inapplicabilità, in sé, del Testo unico n. 380 del 2001 nel territorio siciliano. Occorre difatti considerare che lo Statuto della Regione siciliana, all’art. 14, attribuisce alla competenza legislativa esclusiva della stessa Regione la materia “urbanistica” (lett. f); nonché altresì anche le ulteriori materie concernenti: “tutela del paesaggio; conservazione delle antichità e delle opere artistiche” (lett. n).
In tali ambiti, ai quali va ricondotta anche la materia dell’edilizia (oltre a quella dell’urbanistica), le leggi statali non si applicano in Sicilia, se non in quanto siano richiamate –ed eventualmente in tale sede anche modificate– da una legge regionale (C.G.A., sez. riun., del 19.02.2013, n. 206/11, cit.).
Orbene, mentre non risulta ancora recepito nell’ordinamento isolano il Testo unico, è stata invece recepita la legge 28.02.1985, n. 47, mercé la L.R. 10.08.1985, n. 37 (nuove norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive), il cui art. 1, comma 1, testualmente recita: “La legge 28.02.1985, n. 47, … e successive modifiche ed integrazioni, ad eccezione degli articoli 3, 5, 23, 24, 25, 29 e 50, si applica nella Regione siciliana con le sostituzioni, modifiche ed integrazioni di cui alla presente legge”.
Questo Consiglio ha chiarito, in più occasioni (anche nel parere in ultimo citato, ma pure in C.G.A., sez. giurisd., 25.05.2009, n. 488), che la formula “successive modifiche ed integrazioni” (o analoga) con cui il Legislatore regionale opera, talora, il rinvio alla disciplina statale di rango primario, costituisce un indice di un’obiettivata volontà di effettuare un rinvio “mobile” e “dinamico” alla fonte statale di volta in volta menzionata; ossia un rinvio che si estende, automaticamente, a tutte le modificazioni e integrazioni future della disciplina evocata e, pertanto, anche alle modifiche e integrazioni sopravvenute all’introduzione del dispositivo normativo di rinvio: ciò al fine di consentire un continuo adeguamento dell’ordinamento regionale all’evoluzione normativa in ambito statale, attraverso una disciplina elastica e costantemente raccordata con il contesto giuridico di riferimento.
D’altronde anche il rinvio “mobile” alla legislazione statale (e il conseguente adeguamento “dinamico” a essa della legislazione regionale che opera il rinvio) è una valida modalità di esercizio delle potestà normative regionali, dal momento che il meccanismo di rinvio può essere in ogni momento revocato (mediante successiva legge regionale).
Nel riferito quadro di principi va calata l’ulteriore considerazione che nell’art. 31 del Testo unico, nel quale sono stati interpolati i nuovi commi introdotti dalla lett. q-bis) sunnominata, è transitato tutto il contenuto precettivo dell’art. 7 della legge n. 47/1985. Ebbene, l’art. 7, fino all’originario settimo comma, è stato recepito il Sicilia per effetto della sunnominata L.R. n. 37/1985, il cui art. 3 ha sostituito con tre commi l’originario comma ottavo della legge n. 47/1985.
Si può quindi affermare che, in relazione a quella parte della disciplina recata dall’art. 7 -ossia alla dispositivo che va dal primo al quinto comma e che più interessa l’oggetto della richiesta di parere- l’art. 31 del Testo unico deve reputarsi un mero aggiornamento dell’art. 7 della legge n. 47/1985 e che, dunque, anche l’art. 31 (nella ridetta parte) è sicuramente applicabile in Sicilia e che di siffatto articolo in parte qua devono reputarsi applicabili anche le “successive modifiche e integrazioni”.
Completa il ragionamento fin qui sviluppato l’osservazione che la volontà esternata dal Legislatore statale e la stessa tecnica utilizzata (id est, quella della novellazione) evidenziano il chiaro intento di intervenire sull’assetto normativo dei primi commi dell’art. 31 e, segnatamente, sulla disciplina del procedimento repressivo degli interventi eseguiti in assenza di premesso di costruire o in totale difformità o con variazioni essenziali.
Da ciò discende conclusivamente che pure i nuovi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art. 31 (con i quali è stato inserito un ulteriore meccanismo di deterrenza rispetto all’inadempimento delle ingiunzioni a demolire) debbono ritenersi automaticamente applicabili in Sicilia per effetto di quel sistema di rinvio dinamico del quale si è dato sopra conto.
Stante l’autonomia valutativa dell’Autorità richiedente e la natura non vincolante del presente parere, si rimette, quindi, all’Assessorato la scelta in ordine alla conservazione –nel terzo periodo del primo paragrafo della bozza di circolare- delle (erronee, ad avviso di questo Consiglio) motivazioni per le quali le nuove norme statali sarebbero applicabili anche in Sicilia, oppure alla riformulazione del paragrafo in questione, attraverso il recepimento, sia pur in forma sintetica (tramite, ad esempio, rinvio per relationem al presente parere), degli argomenti giuridici sopra spiegati.
   4. - Con il quesito riportato sub C.1),
l’Assessorato ha chiesto, in sostanza, a questo Consiglio di rendere un’interpretazione della clausola normativa, riportata nel nuovo comma 4-bis dell’art. 31 ("… salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti"): in particolare, l’Assessorato si è interrogato sulla natura “aggiuntiva”, o no, della sanzione amministrativa ivi disciplinata, ossia delle sua cumulabilità, o no, rispetto alle altre misure e sanzioni previste dall’ordinamento.
Per rispondere ai dubbi esegetici prospettati dall’Assessorato, occorre dapprima soffermare l’attenzione sulla circostanza che la sanzione in parola è stata espressamente definita dal Legislatore come “amministrativa pecuniaria”. Siffatta qualificazione, sul versante sistematico, porta l’interprete a rinvenire nella L. 24.11.1981, n. 689 il quadro dei principi generali della relativa disciplina. Come si avrà modo di argomentare nel prosieguo, tale inquadramento sistematico dell’istituto consente di far luce su alcune criticità segnalate dall’Autorità richiedente.
Tanto premesso, va poi ulteriormente osservato come la redazione normativa del nuovo comma 4-bis non brilli obiettivamente per chiarezza. Le perplessità manifestate dall’Assessorato poggiano, in effetti, su un dato letterale obiettivamente opaco il cui portato interpretativo è anfibologico: il vocabolo “salva” potrebbe invero sorreggere due esegesi completamente divergenti e tra loro incompatibili.
Più in dettaglio, il termine “salva” potrebbe intendersi nel senso di “a meno che” (nei termini, cioè, di una c.d. “clausola di riserva”) e, quindi, significare che la sanzione non si applichi laddove l’ordinamento preveda “altre misure e sanzioni” (e in questa prospettiva la sanzione sarebbe “alternativa”); oppure il termine “salva” potrebbe voler dire “fatta comunque applicabile”, sicché –oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria (che risulterebbe pertanto “aggiuntiva”)- troverebbero applicazione anche le “altre misure e sanzioni”.
Le incertezze si addenserebbero soprattutto attorno a detto secondo approdo interpretativo, avendo l’Assessorato ritenuto (si fa qui riferimento al contenuto della surricordata nota, prot. n. 2324, del 02.02.2015) che un eventuale cumulo della demolizione coattiva, della sanzione amministrativa pecuniaria e delle “altre misure e sanzioni” finisca per dare luogo a un potenziale repressivo non proporzionato per eccesso e, dunque, come tale, in odore di illegittimità costituzionale, anche per contrasto con ben noti principi, valevoli per tutto il diritto punitivo (senza distinzione tra sanzioni penali o amministrative) enunciati in sede europea.
A tal riguardo, pur non apparendo privi di suggestione alcuni dei dubbi sollevati dall’Assessorato, va tuttavia ricordato che, ovviamente,
le eventuali, ravvisate illegittimità costituzionali di norme di rango primario non esonerano le amministrazioni dalla doverosa applicazione delle stesse norme (fino a quando non intervenga un’abrogazione o una dichiarazione di illegittimità costituzionale), a meno che esse non siano “disapplicabili” in ragione di un loro manifesto contrasto con il diritto dell’Unione europea.
Al contempo, deve però osservarsi che anche alle amministrazioni, come al giudice, si impone comunque il dovere di interpretare ogni disposizione dell’ordinamento in chiave sistematica e in modo costituzionalmente orientato, sicché, tra più opzioni interpretative legittimamente percorribili, risulterà sempre preferibile quella più rispettosa delle altre previsioni vigenti nell’ordinamento e dei valori costituzionali che lo informano.

Muovendo dalle coordinate esegetiche sopra tratteggiate,
il Consiglio ritiene che la sanzione amministrativa pecuniaria introdotta dal nuovo comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 sia “aggiuntiva”, ossia che essa si cumuli con le “altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”, sulla base delle osservazioni e delle considerazioni di seguito sviluppate.
Innanzitutto va rilevato che nell’alveo semantico dell’imprecisa locuzione “altre misure e sanzioni previste da norme vigenti” potrebbero rientrare:
a) sanzioni penali;
b) sanzioni amministrative, pecuniarie o non pecuniarie;
c) sia misure con effetti punitivi sia di carattere non sanzionatorio (ossia le “altre misure”).

In via generale e in primo luogo i rapporti tra le sanzioni indicate nelle precedenti lettere a) e b) rinvengono una, non esaustiva, disciplina nell’art. 9 della su richiamata L. n. 689/1981, rubricato “Principio di specialità”, i cui primi due commi dispongono: “Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale.
Tuttavia quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali.
”.
Il fondamentale criterio applicativo del sunnominato art. 9 –dedicato al c.d. “concorso apparente di norme”– si basa, all’evidenza, sul concetto di “stesso fatto”, in relazione al quale la giurisprudenza ha avuto ripetute occasioni per affermare, anche in tempi risalenti, che:
- il concorso apparente, previsto dall'art. 9, è soggetto al principio di specialità, cioè all'applicazione della disposizione di natura speciale, e presuppone che le norme medesime prendano in considerazione e puniscano lo "stesso fatto", così che, in presenza di fattispecie che presentino un elemento di diversità, ancorché coincidenti in tutto od in parte con riguardo alla condotta del trasgressore, si deve ravvisare un concorso effettivo, non apparente, con applicazione delle rispettive sanzioni (ovvero, se si tratti di concorso formale, ai sensi dell'art. 8 della citata legge, della sanzione per la violazione più grave aumentata sino al triplo; v. Cass. civ., sez. I, 10.09.1991, n. 9494);
- lo “stesso fatto” ricorre allorquando il medesimo accadimento concreto, inteso come evento storicamente determinato, possa integrare il contenuto descrittivo di diverse previsioni legislative astratte a carattere sanzionatorio, con la conseguenza che il concorso apparente è escluso nel caso in cui i fatti ipotizzati dalla fattispecie astratta siano diversi nella loro materialità, nella loro oggettività giuridica, ovvero quando la norma che regola un fatto contenga una clausola di riserva o, infine, quando la norma che prevede una fattispecie di illecito faccia riferimento solo quoad poenam ad altra norma prevedente diversa fattispecie (Cass. civ., sez. II, 16.02.2009, n. 3745).
Ebbene, soprattutto alla stregua dei principi enunciati dal Supremo Collegio e da ultimo richiamati,
è possibile ricostruire, in via sistematica, la trama delle relazioni che legano la sanzione, il cui ambito di applicazione costituisce oggetto della richiesta di parere, alle altre previsioni sanzionatorie in astratto applicabili.
Invero, generalizzando i suddetti principi, si giunge alla conclusione secondo cui
la specialità di cui all’art. 9 della L. n. 689/1981 (si noti che la disposizione non distingue, quanto alla sua applicabilità, tra sanzioni amministrative pecuniarie e non pecuniarie) non operi allorquando:
a) sia diverso il “fatto” da punire oppure
b) sia lo stesso ordinamento a precluderne in via normativa gli effetti.

Sicuramente, nella fattispecie, non viene in rilievo la prima causa ostativa all’operare del principio di specialità. Non è seriamente controvertibile, infatti, che la demolizione d’ufficio dei manufatti acquisiti (in conseguenza dell’inottemperanza a un ordine di demolizione) consista in una sanzione amministrativa, ancorché non pecuniaria, dal momento che siffatta demolizione mutua la natura del relativo ed omologo ordine disposto dal giudice penale a norma del comma 9 dell’art. 31 del Testo unico (a proposito della quale la Corte di cassazione ha avuto modo di affermare che si tratta di sanzione amministrativa a carattere reale e a contenuto ripristinatorio; v., tra le altre decisioni, Cass. pen., sez. III, 21.10.2009, n. 47281); nemmeno può, del resto, obliterarsi la circostanza, nel caso che occupa il Consiglio, il “fatto” perseguito sia assai specifico e ben descritto dalla legge; si tratta infatti dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, constata dall’amministrazione procedente.
Se, dunque, si facesse riferimento soltanto a tale aspetto, non si ravviserebbe alcun ostacolo all’applicazione del principio di specialità, con la conseguenza di rendere comunque inapplicabile o il comma 4-bis o il comma 5 dell’art. 31 del Testo unico (a seconda delle valutazioni circa l’individuazione della norma speciale tra le due indicate).
Qualunque interprete non potrebbe, tuttavia, non convenire sull’assurdità di una conclusione siffatta, atteso che essa si porrebbe manifestamente in contrasto sia con la lettera della legge (che colloca, all’interno di un unico articolo, la sanzione amministrativa pecuniaria e pure quella amministrativa “ripristinatoria”) sia con la fondamentale ratio di supporto del recente intervento legislativo che, all’evidenza, è stata quella di rafforzare -colpendo con la comminatoria di una punizione di natura pecuniaria le inerzie dei destinatari sanzionati- i presidi normativi a garanzia dell’ottemperanza alle ingiunzioni a demolire:
la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 è stata introdotta, all’evidenza, proprio al fine di incentivare la compliance (ossia la spontanea attivazione) dei privati rispetto all’ordine di demolizione, attraverso una coazione indiretta rappresentata da una reazione punitiva dell’ordinamento, incidente sul patrimonio dei responsabili degli abusi eventualmente rimasti inerti a fronte di un dovere di esecuzione su di essi gravante; sicché ipotizzare che laddove si applichi la sanzione pecuniaria non si possa più far luogo all’acquisizione e alla demolizione sarebbe una conclusione abrogans e contrastante, non solo con la lettera della legge, ma anche con la stessa, riferita politica legislativa attuata con l’intervento normativo.
Al lume dei superiori rilievi può, nondimeno, ritenersi che, nel caso in esame, si sia al cospetto di un’ipotesi in cui l’ambito di applicazione del principio di specialità sia stato perimetrato direttamente dal Legislatore, segnatamente attraverso il ricorso alla precisazione “salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”. In questa prospettiva, però,
il vocabolo “salva” deve essere inevitabilmente interpretato nel senso di “fatta comunque salva cioè applicabile”, posto che, diversamente opinando, l’esegesi tornerebbe a quel corto circuito logico al quale si è sopra accennato (ossia, si finirebbe per azzerare una delle due sanzioni).
Va da sé che la cumulabilità tra la sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico e la demolizione d’ufficio delle opere abusive (e, ancor prima, l’acquisizione degli immobili oggetto degli illeciti edilizi) risulterebbe una soluzione ancor più convincente, qualora la seconda fosse in ipotesi qualificabile come “misura” e non come “sanzione”, dal momento che, in tale evenienza, nemmeno si porrebbero i problemi giuridici, sopra approfonditi, correlati all’operare del principio di specialità tra le sanzioni.
In conclusione,
l’avviso del Collegio è che la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso reale) a tutte le altre sanzioni e misure eventualmente previste per lo stesso “fatto”, come sopra definito, con la sola eccezione delle eventuali previsioni che dovessero comminare una sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è giustificata dal termine “altre” contenuto nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il principio di specialità, qualora ne ricorressero in concreto i presupposti di operatività.
Infine, per completezza dell’esame, va osservato che, nonostante l’atecnica (almeno per il diritto italiano) e generica terminologia utilizzata dal Legislatore (non comprendendosi a quale istituto i conditores iuris abbiano inteso far riferimento con l’uso della locuzione “altre misure”),
deve ritenersi che nell’insieme delle “altre misure” rientrino tutti gli effetti e gli atti di natura penale, amministrativa o civile correlati all’inottemperanza a un’ordinanza di demolizione.
Non potendo, peraltro, compiersi in questa sede un’accurata ed esaustiva disamina di tutte le possibili fattispecie, spetterà alle singole amministrazioni verificare di volta in volta l’esatta natura giuridica e l’eventuale cumulabilità delle “altre misure” con la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico
, invocando semmai nei casi dubbi, per tramite dell’Assessorato, un nuovo intervento consultivo di questo Consiglio.
   5. – I quesiti formulati sub C.2) e C.3) -la cui stretta embricazione logica ne consente una trattazione congiunta– intercettano essenzialmente problematiche di dosimetria sanzionatoria. L’Assessorato ritiene che la previsione punitiva in discorso consista in una sorta di anticipazione, a titolo risarcitorio, delle spese necessarie al ripristino dello stato dei luoghi e tale finalismo normativo risulterebbe evidente dalla circostanza che l’introduzione della sanzione avrebbe lo scopo di fornire ai Comuni adeguate risorse finanziarie per far fronte alle demolizioni d'ufficio, come si desumerebbe dal successivo comma 4-ter del medesimo art. 31.
Muovendo da tale premessa, l’Assessorato suggerisce come opportuna l’indicazione, da parte delle amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione pecuniaria, da quantificare in forma presuntiva e da commisurare alle spese necessarie per far fronte alla demolizione e alla sistemazione dei luoghi, sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario unico regionale per i lavori pubblici" vigente.
Questo Consiglio dissente recisamente sia dalla premessa sia dalle conclusioni del riferito argomentare. Appare evidente come le considerazioni sviluppate dall’Assessorato poggino su un’indebita sovrapposizione di piani che, invece, dal punto di vista giuridico, devono rimanere del tutto distinti. Segnatamente l’Assessorato ritiene che lo scopo della previsione della sanzione sia quello di procurare entrate ai bilanci delle amministrazioni comunali onde consentire loro di provvedere alle esecuzioni d’ufficio delle demolizioni.
Orbene, questo Consiglio non esclude che quello appena indicato possa esser stato l’obiettivo di politica legislativa che abbia giustificato l’introduzione della sanzione in esame, ma la circostanza, quand’anche ipoteticamente rispondente al vero, sarebbe in ogni caso poco rilevante, in quanto –una volta entrate a far parte dell’ordinamento giuridico- le disposizioni vivono di vita propria, cioè dispongono in modo autonomo rispetto alle finalità ipoteticamente avute di mira dal Legislatore e pure spiegano gli effetti che sono ad esse obiettivamente riconducibili sulla base dell’applicazione delle regole che governano l’interpretazione della legge.
Tanto chiarito, va osservato che
gli unici scopi, costituzionalmente legittimi, che può avere una sanzione, amministrativa o penale, sono quelli della retribuzione giuridica del responsabile, nonché della prevenzione generale e speciale (mentre la primaria finalità delle pene è la rieducazione del condannato ex art. 27 Cost.). In nessun caso la sanzione può trovare giustificazione nell’esigenza di fronteggiare immediate finalità di bilancio.
Sebbene la cronaca offra spesso esempi di improprio utilizzo delle sanzioni per esigenze di copertura dei disavanzi degli enti locali (specialmente nella materia della circolazione stradale),
deve tuttavia ritenersi che applicare le previsioni sanzionatorie per la soddisfazione di dette esigenze non sia semplicemente inopportuno, ma del tutto abnorme e in radicale contrasto con i principi sui quali si fonda l’intero diritto punitivo.
Ai bisogni finanziari di un ente pubblico deve piuttosto provvedersi con il ricorso agli strumenti predisposti a tal fine quali il procacciamento di entrate tributarie o l’alienazione di cespiti patrimoniali o il ricorso all’indebitamento, ove consentito; l’uso per questo fine delle sanzioni potrebbe ridurre, anzi, l’efficacia dissuasiva delle medesime, posto che i destinatari di esse percepirebbero il relativo esercizio del potere repressivo come ingiusto e non proporzionato.

Ciò non significa, si badi bene, che non si possa stabilire in via legislativa quale debba essere la destinazione dei proventi delle sanzioni irrogate e riscosse (siccome dispone, nel caso in esame, il comma 4-ter del novellato art. 31) e, però, il alcun modo siffatta destinazione può interferire, all’inverso, sul regime legale di determinazione e di quantificazione della sanzione.
Tale regime, nell’ordinamento italiano, trova infatti una compiuta disciplina generale nell’art. 11 della citata L. n. 689/1981, rubricato “Criteri per l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie”, secondo cui: “Nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche.”.
Riesaminate pertanto, alla stregua dei superiori rilievi, le affermazioni contenute nella bozza di circolare,
questo Consiglio osserva che:
- la sanzione in discorso non costituisce affatto –almeno dal punto di vista giuridico– un’anticipazione a titolo risarcitorio delle spese necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, ma consiste piuttosto in uno strumento sia di coazione (indiretta dei responsabili degli abusi dei quali sia stata constata l’omessa demolizione) e di repressione delle condotte omissive prese in considerazione dal precetto della disposizione;
- il comma 4-ter dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 si limita ad indicare la destinazione esclusiva e obbligatoria delle somme derivanti dalla riscossione delle sanzioni, ma non influisce sul regime giuridico della relativa dosimetria, che è quello dettato dall’art. 11 della L. n. 689/1981;
- non è affatto opportuna –e, anzi, potrebbe costituire un indice sintomatico di eccesso di potere per sviamento- l’indicazione, da parte delle amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione pecuniaria.
Si presti attenzione: non si allude all’indicazione del testo dell’art. 31, comma 4-bis, del Testo unico, ossia non si sta facendo riferimento alla comminatoria della sanzione per il caso di constata inottemperanza (monito che sicuramente deve trovare collocazione all’interno dell’ingiunzione a demolire); piuttosto si intende richiamare e stigmatizzare le soluzioni, prospettate:
a) della quantificazione presuntiva della sanzione e
b) della commisurazione del quantum dovuto in rapporto alle spese necessarie per far fronte alla demolizione e sistemazione dei luoghi, sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario unico regionale per i lavori pubblici" vigente.

Contro la prima proposta, si osserva che la sanzione è un dispositivo giuridico consistente in una reazione dell’ordinamento a una condotta antigiuridica ritenuta meritevole di punizione; da ciò discende che
la concreta misura della sanzione da irrogare deve essere stabilita sempre successivamente alla condotta e non può mai essere predeterminata (fatte salve le ipotesi di sanzione pecuniaria stabilita ex ante dalla legge in misura fissa), pena il frontale contrasto con i fondamentali principi della personalità e della proporzionalità della sanzione, sui quali riposa anche il dettato del surricordato art. 11.
Contro la seconda proposta
vanno poi richiamati i precedenti rilievi sul ruolo dell’art. 11, nella cui economia applicativa l’eventuale costo, sostenuto dall’amministrazione, per la demolizione e la risistemazione dei luoghi, può unicamente rilevare nei termini della valutazione pro reo da effettuare, in relazione all'opera eventualmente svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione.
D’altra parte il comma 5 dello stesso art. 31 accolla ai responsabili le spese della demolizione (ove effettuata) e, quindi, anche dal punto di vista della logica giuseconomica, sarebbe quantomeno ingiusta la duplicazione della relativa pretesa dell’amministrazione, una prima volta in sede di sanzione ai sensi del comma 4-bis e poi, una seconda volta, in via di rivalsa a demolizione (d’ufficio) avvenuta.

   6. – L’ultima considerazione introduce al punto sub C.3), laddove l’Assessorato ha ritenuto di dover chiarire che alla demolizione, in caso di inerzia del responsabile dell’abuso, dovranno provvedere direttamente le amministrazioni locali, con potere di rivalsa, per le spese sostenute, nei confronti del contravventore rimasto inadempiente.
Sul punto questo Consiglio osserva unicamente che
la demolizione non si configura come un esito obbligato dell’acquisizione delle opere edilizie abusive e della relativa area di sedime (v., infra, il §. 7). Lo stesso comma 5 dell’art. 31 prevede difatti la possibilità della conservazione delle opere in presenza di dichiarati interessi pubblici non contrastanti con quelli urbanistici e ambientali.
   7. – Con il quesito sub C.5), l’Assessorato ha chiesto una conferma in merito all’applicabilità della sanzione di cui al comma 4-bis dell’art. 31 anche con riguardo:
a) alle fattispecie previste dal comma 5 dello stesso art. 31;
b) alla fattispecie di cui all'art. 4 della legge regionale 31.05.1994, n. 17.
L’Assessorato ha, poi, osservato che la medesima sanzione non sarebbe invece applicabile al caso degli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, di cui all’art. 34 del Testo unico (ferma restando però l'imputazione a carico del responsabile dell'abuso delle spese di demolizione e di inottemperanza all'ordinanza).
Sovvertendo, per esigenze di economia motivazionale, l’ordine delle questioni sollevate dall’Assessorato
può tranquillamente affermarsi che la sanzione non possa trovare applicazione ai casi previsti e disciplinati dall’art. 34 del Testo unico. Sebbene, infatti, anche quest’ultima previsione contempli un’ipotesi di demolizione, nondimeno prevale il principio di tassatività delle sanzioni amministrative, scolpito dall’art. 1, secondo comma, della citata L. n. 689/1981, in base al quale: “Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati.”.
Orbene, non vi è dubbio che, tenuto conto della ratio ispiratrice del nuovo comma 4-bis dell’art. 31 e della sua collocazione topografica,
non possano esistere dubbi di sorta circa la riferibilità della sanzione soltanto all’evenienza di un’inottemperanza, del responsabile dell’abuso, a un’ingiunzione a demolire relativa a illeciti interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
I quesiti di cui sub a) e b) impongono una risposta affermativa nei termini di seguito specificati. Ed invero, oltre a richiamare quanto sopra osservato (v., supra, il §. 4), vale in aggiunta ribadire che
la condotta sanzionata dalla previsione di cui al sunnominato comma 4-bis è di natura omissiva, ossia concerne la mancata demolizione, da parte del responsabile dell’abuso, entro il termine finale fissato dalla legge, delle opere in cui si siano concretati gli illeciti interventi edilizi.
Tale condotta si perfeziona e si colloca –sotto i profili logico, cronologico e giuridico– prima della eventuale demolizione eseguita d’ufficio dal comune (demolizione contemplata dal comma 5 dell’art. 31) e, di norma, anche prima della notificazione all’interessato dello stesso verbale di accertamento dell’inottemperanza, da cui scaturisce l’effetto legale dell’acquisizione delle opere, non demolite spontaneamente, al patrimonio comunale (ipotesi prevista dai commi 2 e 3 del medesimo articolo).
In altri termini, sulla base del combinato disposto dei commi 3, 4, 4-bis e 5 dell’art. 31 del Testo unico e dell’art. 4 della L.R. n. 17/1994, a seguito dell’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire delle opere di cui all’art. 31, comma 1, del Testo unico, si innesca una sequenza procedimentale, a più esiti, i cui snodi possono essere così ricostruiti:
I.) obbligo di applicare la sanzione di cui al comma 4-bis;
II.) acquisizione delle opere e delle aree al patrimonio comunale;
III.) in alternativa a II.), a) demolizione delle opere; b) conservazione delle opere in ragione di prevalenti interessi pubblici; c) ricorrendone i presupposti, concessione del diritto di abitazione degli immobili al responsabile dell’abuso.

   8. – Infine, sebbene la questione non abbia costituito oggetto della richiesta di parere,
questo Consiglio -ritenendo di meglio assolvere in tal modo ai propri compiti istituzionali di organo di consulenza giuridico-amministrativa della Regione siciliana– reputa di dover spendere alcune brevi, considerazioni anche sul tema dell’”autorità competente” a irrogare la sanzione di cui al comma 4-bis.
Ebbene, l’avviso di questo Consiglio è che detta autorità sia da individuarsi, di regola, nel comune. A tale conclusione si perviene sulla base delle seguenti argomentazioni:
- depone nel senso sopra indicato la collocazione della previsione nell’ambito di una disposizione che disciplina l’attività procedimentale dei comuni;
- concorre a siffatto esito interpretativo, in assenza di differenti indicazioni ricavabili dal dato positivo, il principio di concentrazione delle competenze amministrative, che risulterebbe gravemente vulnerato qualora l’attività di repressione degli illeciti edilizi di cui all’art. 31 del Testo unico fosse frammentata tra varie autorità;
- è, infine, coerente con detto approdo esegetico la L. n. 689/1981, laddove il combinato disposto degli artt. 13, primo comma (che recita: “Gli organi addetti al controllo sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro …“) e dell’art. 17, primo comma (che indica il prefetto quale autorità di competenza residuale nelle sole materie di competenza statale), conduce a ritenere che il potere di irrogare la sanzione si imputi in capo all’ente tenuto al rilascio del permesso di costruire e, comunque, incaricato della potestà di vigilanza sul corretto uso del territorio comunale
(C.G.A.R.S., parere 15.04.2015 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla possibilità che il PRG inibisca la demolizione di un fabbricato, ancorché lesionato dal sisma, avente interesse storico riconosciuto dal medesimo strumento urbanistico e sulla possibilità che quest'ultimo obblighi la ricostruzione dell'immobile illegittimamente demolito.
Nel merito deve riconoscersi che la demolizione non potesse venire effettuata, nonostante le documentate lesioni strutturali dell’immobile causate dal sisma.
Invero, non è contestato come l'immobile ricadesse in zona classificata “A2”, definita dall’art. 59 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. “complessi edilizi ed edifici di interesse storico, architettonico e ambientale diffusi sul territorio”, e più specificamente in zona “A2.1 – Ville e parchi”. Nel medesimo art. 59 è specificato come ciascun organismo edilizio fosse stato “identificato e perimetrato” e che quando “individuato nelle tavole in scala 1:2000 con apposita retinatura, l’edificio principale conservato è classificato di interesse storico”.
E costituisce d’altra parte fatto notorio –ai sensi e per gli effetti dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ., applicabile anche al processo amministrativo– la possibilità di salvaguardare le strutture di immobili pericolanti con diverse soluzioni progettuali, anche a carattere cautelativo e provvisorio (tramite puntellamenti, in legno o metallo, fasciature o cerchiature esterne), fino a veri e propri interventi di stabile consolidamento, che nel caso di specie avrebbero potuto essere concordati con l’Amministrazione, se il privato interessato –benché preavvertito per le vie brevi dell’illegittimità dell’iniziativa– non avesse anticipato un intervento di integrale demolizione di una struttura, ancora presente sull’area (non essendo controverso che gli eventi sismici non avessero determinato il crollo totale dell’edificio).
Tenuto conto di quanto in precedenza esposto, il primo motivo di gravame può essere respinto, sotto il profilo dell’effettiva non conformità della demolizione dell’intero fabbricato, in rapporto alle norme di tutela allo stesso applicabili, anche in presenza di pur gravi lesioni, che tuttavia non impedivano l’immediata salvaguardia ed il successivo recupero di quanto ancora esistente, in ogni caso con progetto da sottoporre all’approvazione comunale.
---------------
La legge regionale dispone:
- da un lato che "su motivata richiesta dell’interessato, viene disposto che lo Sportello unico per l’edilizia possa limitarsi ad irrogare una “sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere….qualora accerti, con apposita relazione tecnica, l’impossibilità della restituzione in pristino, a causa della compromissione del bene tutelato”;
- dall'altro che "Qualora le opere abusive siano state eseguite su immobili vincolati, in base alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, lo Sportello unico per l’edilizia ordina la sospensione dei lavori e dispone, acquisito il parere della Commissione per la qualità architettonica ed il paesaggio, la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile dell’abuso, indicando criteri e modalità, diretti a ricostituire l’originario organismo edilizio ed irroga una sanzione pecuniaria da 2.000 a 20.000 euro”.
In entrambi i casi ogni apprezzamento sulla via più opportuna da seguire è rimesso all’Amministrazione comunale.
La richiamata legge regionale, peraltro, riproduce nella parte sostanziale il contenuto dell’art. 160 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che richiama gli obblighi di “protezione e conservazione”, gravanti su chi detenga un bene culturale, con obbligo di reintegrazione a spese del responsabile, per eventuali danni subiti dal bene stesso e pagamento di una somma, “pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa….quando la reintegrazione non sia possibile”.
Nella situazione in esame si segnalano, in effetti, cause di forza maggiore, riconducibili ad eventi sismici verificatisi nella Regione, ma non è controverso un conclusivo intervento umano, che ha impedito ulteriori verifiche da parte dei competenti organi amministrativi.
Si tratta di stabilire, in ogni caso, se il ripristino dello stato dei luoghi –se inteso come recupero del precedente tessuto edificatorio– possa definirsi “impossibile”, in presenza di totale demolizione di uno stabile.
Ad avviso del Collegio, tale valutazione deve essere rimessa al prudente apprezzamento dei predetti organi amministrativi: un apprezzamento che –soprattutto con riferimento ad immobili vincolati– ben potrebbe estendersi dal “ripristino tipologico” (come definito dall’art. 34 N.T.A ed ammesso per tale categoria di beni), alla fattispecie di ristrutturazione, prevista dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui detta norma inserisce tra gli interventi a carattere ristrutturativo "anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione” di un edificio, “con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”; la norma considera altresì l’ipotesi di immobili “eventualmente crollati o demoliti” e ne ammette la ricostruzione, “purchè sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, con riproduzione anche della medesima sagoma, ove gli edifici da ricostruire fossero stati soggetti a vincoli, ai sensi del citato d.lgs. n. 42 del 2004.
La distruzione, volontaria o accidentale, di un fabbricato non impedisce dunque, di per sé, la remissione in pristino, anche intesa come integrale ricostruzione, ove siano note o facilmente desumibili le caratteristiche tipologiche dell’immobile: quanto sopra, soprattutto in presenza di edifici vincolati, la cui presenza sul territorio (anche con identità diversa da quella originaria, ma fedelmente riprodotta) sia comunque ritenuta significativa, nonché idonea a garantire la persistenza dei valori protetti.
Non sembra inutile ricordare, a tale riguardo, come la puntuale riproduzione di strutture, di per sé irrimediabilmente compromesse, sia stata ritenuta ammissibile anche per un immobile di altissimo valore artistico e storico, come il settecentesco teatro “La Fenice” di Venezia, distrutto da un incendio alla fine degli anni novanta del secolo scorso e ricostruito, con totale ripristino delle caratteristiche antecedenti all’evento.
Nella situazione in esame, analoga dimensione della restituzione in pristino appare prefigurata dal citato art. 10, comma 2, della legge regionale n. 23 del 2004, che, per “opere abusive eseguite su immobili vincolati” (opere, fra cui non può non essere compresa la demolizione, ove non previamente autorizzata) prevede che si imponga al responsabile dell’abuso di “ricostituire l’originario organismo edilizio”, senza alcun limite circa l’attuale sussistenza dello stesso, in tutto o in parte.
Talché, il Collegio ritiene che la demolizione –benché integrale e da qualunque evento causata– non sia ontologicamente inconciliabile con la rimessa in pristino dello stato dei luoghi, anche sotto il profilo della ricostruzione di fabbricati preesistenti interamente demoliti, purché di conosciute caratteristiche e consistenza: quanto sopra, soprattutto con riferimento agli edifici vincolati, la cui presenza sul territorio riveste particolare importanza per l’interesse pubblico, tanto da giustificare la riproduzione delle strutture originali, di per sé non recuperabili.

... per la riforma della sentenza del TAR EMILIA ROMAGNA–sezione staccata di Parma, sez. I, n. 374/2014, resa tra le parti, concernente sanzione pecuniaria e ordine di rimessa in pristino stato dei luoghi;
...
Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, Parma, n. 374/14 del 22.10.2014 è stato respinto il ricorso proposto avverso l’ordinanza n. 8 del 04.02.2013, con cui veniva irrogata una sanzione pecuniaria di €. 20.000,00 e disposto il ripristino dello stato dei luoghi, a seguito dell’avvenuta demolizione di un edificio di interesse storico, parzialmente crollato a seguito di eventi sismici.
Nella citata sentenza si ricostruiva la seguente cronologia dei fatti:
- 13.06.2012, registrazione, nel protocollo del Comune di Casalgrande, della comunicazione –depositata il giorno precedente– di avvenuto, parziale crollo dell’edificio in questione, del cui rudere si preannunciava la demolizione;
- 12.06.2012, diffida verbale del Responsabile del Servizio Urbanistica ed edilizia privata del Comune a non effettuare detta demolizione;
- 15.06.2012, diffida formale a non demolire, notificata il successivo giorno 19;
- 21.06.2012, comunicazione di già avvenuta demolizione, completata il precedente giorno 14;
- 09.10.2012, comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio e ripristinatorio;
- 04.02.2013, emissione dell’atto impugnato.
Nella medesima sentenza l’impugnazione dell’atto da ultimo indicato era ritenuta manifestamente infondata, essendo la demolizione di cui trattasi vietata dagli strumenti urbanistici (art. 49, comma 7, NTA al PRG); la rimessa in pristino, in presenza di opere abusive su immobili vincolati, risultava inoltre prevista dall’art. 10 della legge regionale n. 23 del 21.10.2004, che sarebbe stata puntualmente applicata nel caso di specie.
La fedele ricostruzione, infine, avrebbe dovuto ritenersi possibile, oltre ad essere conforme al citato art. 49, comma 7, NTA.
...
La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne la legittimità, o meno, della completa demolizione di un fabbricato –già gravemente lesionato per eventi sismici– nonostante una previa comunicazione del competente ufficio comunale di inammissibilità di tale intervento, con riferimento alla normativa di zona (classificata A2.1 –“ville e parchi”– nel vigente piano regolatore generale - P.R.G.), nonché all’interesse storico dell’edificio, riconosciuto dal medesimo P.R.G..
Posto, inoltre, che detta demolizione risultasse non consentita, deve ulteriormente essere stabilito se, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, potesse anche venire disposta la ricostruzione del fabbricato, pur essendo lo stesso, ovviamente, non ripristinabile nella propria autentica identità, ma solo riproducibile “nello stesso luogo, con le stesse dimensioni (altezza, larghezza, lunghezza) e analoghe caratteristiche formali e architettoniche, relativamente alla parte esterna” con “tecniche costruttive” e “materiali edilizi” rapportati all’”edificio originario, salvo gli adeguamenti richiesti dalla normativa di settore”, come si legge nell’impugnata ordinanza n. 1684 del 04.02.2013, che recepiva in tal modo il parere della Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio.
In rapporto a quanto sopra deve essere esaminata, in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità, sollevata dal Comune di Casalgrande, per omessa enunciazione di censure avverso la sentenza appellata, come previsto dall’art. 101, comma 1, cod. proc. amm. Detta eccezione (oltre a non trovare concreto riscontro nell’atto di appello) risulta comunque infondata, in quanto la citata norma del codice del processo amministrativo –secondo cui “il ricorso in appello deve contenere….le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata”– deve trovare lettura coordinata con l’effetto devolutivo del gravame e con il principio di sinteticità, di cui all’art. 3, comma 2, dello stesso codice, nella misura in cui le censure avverso la sentenza appellata si traducano in mere contestazioni, riferite alla motivazione di quest’ultima: l’effetto devolutivo dell’appello, che comporta integrale rivalutazione delle questioni controverse, che vengano in tale sede riproposte, implica infatti modifica o integrazione di detta motivazione ove necessario (cfr. in tal senso Cons. St., sez. IV, 19.09.2012, n. 4974; Cons. St., sez. V, 17.09.2012, n. 4915; Cons. St., sez. VI,, 08.10.2013, n. 4934 e 22.07.2014, n. 3903; Cons. St., sez. III, 10.04.2012, n. 2057).
Va dunque precisato che l’inciso, contenuto nell’art. 101, comma 1, c.p.a. non deve ritenersi impositivo di tali censure anche in assenza di contestazioni, propriamente riferibili al contenuto della sentenza stessa (come nel caso di ravvisate ragioni di inammissibilità o irricevibilità dell’impugnativa, la cui omessa contestazione implicherebbe formazione di giudicato parziale), fermo restando che i motivi di appello, riproduttivi delle censure prospettate in primo grado, possono contenere in modo più o meno esplicito argomentazioni –nella fattispecie ampiamente presenti– contrarie a quelle espresse nella sentenza appellata.
Nel merito –e con riferimento alla prima questione, in precedenza prospettata– deve poi riconoscersi che la demolizione non potesse venire effettuata, nonostante le documentate lesioni strutturali dell’immobile.
Non è contestato, in effetti, che quest’ultimo ricadesse in zona classificata “A2”, definita dall’art. 59 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. “complessi edilizi ed edifici di interesse storico, architettonico e ambientale diffusi sul territorio”, e più specificamente in zona “A2.1 – Ville e parchi”. Nel medesimo art. 59 è specificato come ciascun organismo edilizio fosse stato “identificato e perimetrato” e che quando “individuato nelle tavole in scala 1:2000 con apposita retinatura, l’edificio principale conservato è classificato di interesse storico”.
Nel provvedimento impugnato (ordinanza n. 1684/2013 cit.), in effetti, si fa specifico richiamo alla “retinatura grafica” apposta sull’edificio di cui trattasi “nella cartografia di base dello strumento urbanistico comunale vigente”; il valore storico dell’edificio era poi sottolineato nella diffida a non operare la totale demolizione del medesimo: diffida espressa con atto n. prot. 8642, trasmesso dal comune all’attuale appellante il 15.06.2012 e non reso oggetto di impugnativa. Nella medesima diffida si invitava il dott. V. alla “messa in sicurezza dell’area, al fine di salvaguardare l’incolumità delle persone”, che potessero accedervi, nonché alla “messa in sicurezza dell’edificio, al fine di evitare nuovi crolli”.
Costituisce d’altra parte fatto notorio –ai sensi e per gli effetti dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ., applicabile anche al processo amministrativo– la possibilità di salvaguardare le strutture di immobili pericolanti con diverse soluzioni progettuali, anche a carattere cautelativo e provvisorio (tramite puntellamenti, in legno o metallo, fasciature o cerchiature esterne), fino a veri e propri interventi di stabile consolidamento, che nel caso di specie avrebbero potuto essere concordati con l’Amministrazione, se il privato interessato –benché preavvertito per le vie brevi dell’illegittimità dell’iniziativa– non avesse anticipato un intervento di integrale demolizione di una struttura, ancora presente sull’area (non essendo controverso che gli eventi sismici non avessero determinato il crollo totale dell’edificio).
Tale intervento non era consentito dal già citato art. 59 N.T.A., che nell’intera zona A2 ammette solo “manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro scientifico, restauro e risanamento conservativo”, con limitata possibilità di ristrutturazione edilizia, nel “rispetto dei caratteri architettonici e ambientali del luogo”, nonché di quelli dell’“edificio esistente”; negli edifici classificati di interesse storico, inoltre, sono consentiti “interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro scientifico, restauro e risanamento conservativo, ripristino tipologico e demolizione”.
Quanto al tipo di demolizione, cui da ultimo la norma fa riferimento, deve ritenersi che la disposizione sia riferita solo a superfetazioni o singole parti pericolanti, in coordinamento logico con quanto prescritto dall’art. 49, comma 7, delle medesime N.T.A,, secondo cui, in zona A, “Nel caso di fabbricati parzialmente crollati è possibile provvedere alla totale demolizione, senza possibilità di recupero dei volumi e delle superfici esistenti. Tale possibilità è limitata agli edifici incongrui e non è consentita per i beni storici o per gli edifici vincolati dal P.R.G.”.
Nella situazione in esame, la documentazione fotografica prodotta mostra un edificio lesionato, ma ben identificabile sotto il profilo strutturale, il cui valore storico si afferma (senza puntuali contestazioni di controparte) evidenziato da apposita retinatura grafica sulla cartografia di base, come previsto dall’art. 59, comma 2 N.T.A.; nel provvedimento impugnato, peraltro, il responsabile del settore precisa di avere illustrato il significato di tale retinatura al dott. V. nell’incontro in data 12.06.2012, ancora una volta senza che tale circostanza venga smentita (con gli effetti, di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.).
Il citato dott. V., a sua volta, produce “quattro schede, servite per la predisposizione del P.R.G.”, con descrizione della proprietà di cui trattasi, il cui “valore morfologico” risulta definito “nullo”, con possibilità di effettuazione di qualsiasi intervento edilizio.
Dette schede, tuttavia, non possono integrare né modificare le norme di piano, già in precedenza ricordate, circa la natura degli interventi effettuabili nell’area di cui trattasi, fermo restando che il valore morfologico (ovvero architettonico o artistico) appare indipendente dall’affermato valore storico-testimoniale dell’edificio, riconosciuto sul piano cartografico nei termini in precedenza illustrati e ribadito, con parere in data 29.10.2012, dalla Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio, che –previa approfondita indagine– ha riconosciuto all’edificio demolito “un interesse storico, in quanto testimone di un’architettura destinata a sede di un’attività casearia, tipica del periodo successivo alla seconda guerra mondiale”.
In tale contesto, sembra appena il caso di sottolineare l’irrilevanza di considerazioni puramente soggettive, esposte dalla difesa dell’appellante, circa il “valore nullo” ed il carattere di mera “superfetazione” dell’edificio demolito, in contrasto con l’apprezzamento di merito dell’Autorità competente, trasfuso nella disciplina urbanistica sia dell’area che dei singoli edifici.
Tenuto conto di quanto in precedenza esposto, il primo motivo di gravame può essere respinto, sotto il profilo dell’effettiva non conformità della demolizione dell’intero fabbricato, in rapporto alle norme di tutela allo stesso applicabili, anche in presenza di pur gravi lesioni, che tuttavia non impedivano l’immediata salvaguardia ed il successivo recupero di quanto ancora esistente, in ogni caso con progetto da sottoporre all’approvazione comunale.
Gli altri motivi di gravame investono la possibilità –fattuale e giuridica– di procedere ad integrale riedificazione di un edificio non più esistente, di cui non sarebbero ipotizzabili la restituzione in pristino, né il recupero dei valori tutelati, connessi all’identità originaria.
A sostegno di tali argomentazioni, l’appellante richiama il secondo comma dell’art. 10 della legge regionale dell’Emilia Romagna n. 23 del 21.10.2004 (Vigilanza e controllo dell’attività edilizia), nella parte in cui –su motivata richiesta dell’interessato– viene disposto che lo Sportello unico per l’edilizia possa limitarsi ad irrogare una “sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere….qualora accerti, con apposita relazione tecnica, l’impossibilità della restituzione in pristino, a causa della compromissione del bene tutelato”.
Il Comune resistente, invece, richiama la prima parte del medesimo comma, in cui è previsto quanto segue: “Qualora le opere abusive siano state eseguite su immobili vincolati, in base alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, lo Sportello unico per l’edilizia ordina la sospensione dei lavori e dispone, acquisito il parere della Commissione per la qualità architettonica ed il paesaggio, la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile dell’abuso, indicando criteri e modalità, diretti a ricostituire l’originario organismo edilizio ed irroga una sanzione pecuniaria da 2.000 a 20.000 euro”.
In entrambi i casi, come è reso evidente dal testo delle norme richiamate, ogni apprezzamento sulla via più opportuna da seguire è rimesso all’Amministrazione, cui non è stato invece consentito, nel caso di specie, di valutare direttamente la situazione di fatto, conseguente ai danni provocati dal sisma, per circostanze sopravvenute imputabili all’appellante.
La stessa documentazione fotografica da quest’ultimo prodotta, infatti, dimostra l’esistenza –prima dell’ultima demolizione– di un edificio interessato da parziali crolli e in apparenza pericolante, ma dai tratti identificativi chiaramente ancora presenti, tali da rendere ipotizzabili sia il consolidamento che la fedele riproduzione della struttura. La disposizione normativa invocata dall’appellante, d’altra parte, richiedeva “motivata richiesta dell’interessato” (come sottolineato dal Comune resistente), nonché “apposita relazione tecnica” dello Sportello unico per l’edilizia: presupposti insussistenti nel caso di specie e non più ipotizzabili, avendo l’interessato operato, di propria iniziativa, la rimozione delle strutture rimaste.
La richiamata legge regionale, peraltro, riproduce nella parte sostanziale il contenuto dell’art. 160 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che richiama gli obblighi di “protezione e conservazione”, gravanti su chi detenga un bene culturale, con obbligo di reintegrazione a spese del responsabile, per eventuali danni subiti dal bene stesso e pagamento di una somma, “pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa….quando la reintegrazione non sia possibile”. Nella situazione in esame si segnalano, in effetti, cause di forza maggiore, riconducibili ad eventi sismici verificatisi nella Regione, ma non è controverso un conclusivo intervento umano, che ha impedito ulteriori verifiche da parte dei competenti organi amministrativi.
Si tratta di stabilire, in ogni caso, se il ripristino dello stato dei luoghi –se inteso come recupero del precedente tessuto edificatorio– possa definirsi “impossibile”, in presenza di totale demolizione di uno stabile.
Ad avviso del Collegio, tale valutazione deve essere rimessa al prudente apprezzamento dei predetti organi amministrativi: un apprezzamento che –soprattutto con riferimento ad immobili vincolati– ben potrebbe estendersi dal “ripristino tipologico” (come definito dall’art. 34 N.T.A ed ammesso per tale categoria di beni), alla fattispecie di ristrutturazione, prevista dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui detta norma inserisce tra gli interventi a carattere ristrutturativo "anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione” di un edificio, “con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”; la norma considera altresì l’ipotesi di immobili “eventualmente crollati o demoliti” e ne ammette la ricostruzione, “purchè sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, con riproduzione anche della medesima sagoma, ove gli edifici da ricostruire fossero stati soggetti a vincoli, ai sensi del citato d.lgs. n. 42 del 2004.
La distruzione, volontaria o accidentale, di un fabbricato non impedisce dunque, di per sé, la remissione in pristino, anche intesa come integrale ricostruzione, ove siano note o facilmente desumibili le caratteristiche tipologiche dell’immobile: quanto sopra, soprattutto in presenza di edifici vincolati, la cui presenza sul territorio (anche con identità diversa da quella originaria, ma fedelmente riprodotta) sia comunque ritenuta significativa, nonché idonea a garantire la persistenza dei valori protetti.
Non sembra inutile ricordare, a tale riguardo, come la puntuale riproduzione di strutture, di per sé irrimediabilmente compromesse, sia stata ritenuta ammissibile anche per un immobile di altissimo valore artistico e storico, come il settecentesco teatro “La Fenice” di Venezia, distrutto da un incendio alla fine degli anni novanta del secolo scorso e ricostruito, con totale ripristino delle caratteristiche antecedenti all’evento.
Nella situazione in esame, analoga dimensione della restituzione in pristino appare prefigurata dal citato art. 10, comma 2, della legge regionale n. 23 del 2004, che, per “opere abusive eseguite su immobili vincolati” (opere, fra cui non può non essere compresa la demolizione, ove non previamente autorizzata) prevede che si imponga al responsabile dell’abuso di “ricostituire l’originario organismo edilizio”, senza alcun limite circa l’attuale sussistenza dello stesso, in tutto o in parte.
In contrario avviso rispetto a quanto sostenuto dall’appellante, pertanto, il Collegio ritiene che la demolizione –benché integrale e da qualunque evento causata– non sia ontologicamente inconciliabile con la rimessa in pristino dello stato dei luoghi, anche sotto il profilo della ricostruzione di fabbricati preesistenti interamente demoliti, purché di conosciute caratteristiche e consistenza: quanto sopra, soprattutto con riferimento agli edifici vincolati, la cui presenza sul territorio riveste particolare importanza per l’interesse pubblico, tanto da giustificare la riproduzione delle strutture originali, di per sé non recuperabili.
Anche il secondo e il terzo motivo di gravame –riferiti ad accesso di potere e violazione di legge (N.T.A. del P.R.G. –artt. 46 e 59–, art. 10, comma 2, L.reg. n. 23 del 2004; art. 160, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004, già in precedenza esaminati)– non possono quindi trovare accoglimento, sotto profili che sorreggono adeguatamente la legittima emanazione del provvedimento impugnato in primo grado, con assorbimento di ogni ulteriore ragione difensiva e conclusivo rigetto dell’appello (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.04.2015 n. 2139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittima l'ordinanza comunale di ingiunzione di sanzione pecuniaria e di ripristino dello stato dei luoghi (ricostruzione) a fronte dell'avvenuta abusiva demolizione di fabbricato, ancorché lesionato dal sisma.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 8 in data 04.02.2013 del Comune di Casalgrande di ingiunzione di sanzione pecuniaria e di ripristino dello stato dei luoghi.
...
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
L’immobile demolito dal ricorrente V.V. insiste su area classificata dal PRG comunale come zona A2 “Complessi edilizi ed edifici di interesse storico, architettonico e ambientale diffusi nel territorio” e, in particolare in sottozona A2.1 “Ville e parchi”; la circostanza è documentata dal Comune e non è contestata dal ricorrente.
L’art. 49 delle NTA, nel dettare prescrizioni generali per le zone A, al comma 7 stabilisce: “Nel caso di fabbricati parzialmente crollati è possibile provvedere alla totale demolizione senza possibilità di recupero dei volumi e delle superfici esistenti. Tale possibilità è limitata agli edifici incongrui e non è consentita per i beni storici o per gli edifici vincolati dal PRG” (cfr. doc. 16 id.).
E’ certo, dunque, che la demolizione dell’immobile in discorso fosse vietata dagli strumenti urbanistici.
L’art. 10 della L.R. 21.10.2004, n. 23, sotto la rubrica “Salvaguardia degli edifici vincolati”, al comma 2, prevede: “Qualora le opere abusive siano state eseguite su immobili vincolati in base alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, lo Sportello unico per l'edilizia ordina la sospensione dei lavori e dispone, acquisito il parere della Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio, la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile dell'abuso, indicando criteri e modalità diretti a ricostituire l'originario organismo edilizio, ed irroga una sanzione pecuniaria da 2.000 a 20.000 euro. Su richiesta motivata dell'interessato presentata a seguito della avvenuta sospensione dei lavori, lo Sportello unico per l'edilizia irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere, determinato ai sensi dell'articolo 21, comma 2, qualora accerti, con apposita relazione tecnica, l'impossibilità della restituzione in pristino a causa della compromissione del bene tutelato. In tale ipotesi il Comune può prescrivere l'esecuzione di opere dirette a rendere l'intervento consono al contesto ambientale, assegnando un congruo termine per l'esecuzione dei lavori. Lo Sportello unico per l'edilizia si pronuncia sulla richiesta entro novanta giorni, decorsi i quali la richiesta stessa si intende rifiutata”.
Nel caso di specie il Comune ha fatto pedissequa applicazione della norma innanzi richiamata applicando la sanzione pecuniaria e disponendo il ripristino dell’immobile abusivamente demolito.
4.1. Infondato è il primo ordine di censure riferito all'errata interpretazione ed applicazione degli artt. 49 e 59 delle NTA e dell’art. 10 L.R. 23/2004; infatti, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, tale speciale disciplina, riferita ai complessi edilizi di interesse storico, architettonico ed ambientale diffusi nel territorio, siti nelle zone classificate dal vigente P.R.G. come A2, non consente la demolizione.
In questo caso, pertanto, l'immobile per cui è causa è stato abusivamente demolito, in palese contrasto con le norme sopra indicate.
Al riguardo giova precisare che il V., dopo aver comunicato al Comune il crollo di parte dell'edificio e l’intenzione di demolirlo, era stato informato dell’impossibilità di procedere alla demolizione e diffidato dapprima verbalmente (nel corso dell’incontro del 12.06.2012) e successivamente per iscritto (con nota del 16.06.2012).
Ciononostante ha proceduto alla demolizione in spregio alla normativa a lui nota nonché all’espressa diffida formalizzatagli dal Comune.
4.2. Infondato è il secondo ordine di censure atteso che, dalla semplice lettura della norma di cui all’art. 10 L.R. 23/2004, si ricava senza possibilità di equivoci che la sanzione pecuniaria va applicata congiuntamente all’ordine di ripristino.
Viceversa la possibilità di irrogare una sanzione doppia è lasciata all’ipotesi residuale in cui si accerti l’impossibilità della ricostruzione e vi sia una richiesta motivata dell’interessato: presupposti, questi, del tutto assenti nel caso di specie.
4.3. Infondato è, infine, il terzo ordine di censure riferito all'asserita impossibilità di ordinare il recupero di un immobile non più esistente, poiché demolito.
La disposizione contenuta nell'art. 49, comma 7, delle NTA del P.R.G. del comune di Casalgrande, innanzi riportata, nel prescrivere che la demolizione non è consentita per i beni storici o per gli edifici vincolati dal PRG, anche se parzialmente crollati, implicitamente ammette anche la fedele integrale ricostruzione di questi ultimi; ricostruzione che, nel caso di specie, il Comune ha ordinato previa presentazione di una proposta progettuale da assoggettare a valutazione preventiva ai sensi dell’art. 16 L.R. 31/2002.
Per quanto precede il ricorso deve essere respinto (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 22.10.2014 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Di nuovo sulla mobilità volontaria riservata agli enti di area vasta (Province) (CGIL-FP di Bergamo, nota 14.05.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Informazioni ai Sindaci in merito al personale delle Amministrazioni Comunali legittimato a svolgere funzioni di polizia giudiziaria. Direttive di polizia giudiziaria alla Polizia Municipale (Procura della Repubblica di Lecce, nota 05.05.2015 n. 3287/15 d prot.).

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: Competenze dei Geometri - Decisione Consiglio di Stato n. 883/2015, annullamento delibera Comune di Torri del Benaco n. 96/2012 (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 07.05.2015 n. 5126 di prot.).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROLavori in quota, le misure per il rischio caduta dall'alto.
Suva ha pubblicato il documento “Lavori sui tetti” sui lavori in quota con le misure per il rischio caduta dall'alto.
Il rischio di caduta dall’alto non va mai sottovalutato quando si lavora in quota; è sempre opportuno adoperare tutte le misure di prevenzione e protezione opportune.
In questo articolo proponiamo la guida Suva su “Lavori sui tetti”, rivolta sia a coloro che svolgono attività lavorative sui tetti che ai progettisti, contenente le indicazioni e le misure di sicurezza da adottare per ridurre i rischi nei lavori in quota.
La pubblicazione illustra attraverso immagini, schemi esplicativi e tabelle le principali misure di protezione da adottare quando si lavora su un’impalcatura o su un tetto, analizzando i diversi dispositivi di protezione individuale.
Nel dettaglio sono affrontati i seguenti argomenti:
Pianificazione, coordinamento, responsabilità
Panoramica delle misure di protezione prescritte
Dispositivi anticaduta su tetti inclinati (a partire da una pendenza di 10°)
Dispositivi anticaduta su tetti piani
Materiale informativo (14.05.2015 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROLana di roccia e lana di vetro: tutti i pericoli, gli effetti sulla salute e le modalità di smaltimento.
La Conferenza Stato Regioni ha approvato le linee guida per la riduzione del rischio da esposizione alle fibre artificiali vetrose (FAV).
Con il termine FAV (fibre artificiali vetrose) si intende una serie di prodotti e materiali costituiti da fibre che includono una larga varietà di prodotti inorganici fibrosi ottenuti sinteticamente, come le lane di vetro, di scoria e di roccia (utilizzate per l’isolamento termico, acustico e la protezione incendio) o le fibre ceramiche refrattarie, fibre di silicato.
Linee guida lana di roccia, lana di vetro e fibre vetrose
In considerazione del largo impiego delle FAV in edilizia, grazie alle loro buone caratteristiche di isolamento termico e acustico, e dei possibili effetti anche gravi che possono provocare alla salute (effetti irritativi, all’apparato respiratorio, ecc.), la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni ha approvato le linee guida finalizzate alla riduzione del rischio da esposizione a fibre artificiali vetrose (FAV).
Il documento fornisce le procedure utili a consentire una corretta valutazione dei rischi e l'individuazione delle misure di prevenzione da adottare al fine di tutelare la salute della popolazione e dei lavoratori, sia in ambienti di lavoro che di vita.
Le Linee guida contengono le indicazioni per una corretta modalità di impiego, uso e manutenzione da rispettare.
Questi gli argomenti trattati:
le proprietà chimico-fisiche
la classificazione di pericoli e aspetti normativi
i metodi di prova ai fini della classificazione delle fibre
la tipologia di utilizzo e settori di impiego
gli effetti sulla salute
l'esposizione a fibre vetrose artificiali nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008)
i valori di riferimento e dati di esposizione
la gestione operativa dei rifiuti contenenti fibre minerali
le indicazioni operative
Gli allegati contengono la Nota metodologica relativa all'analisi del materiale fibroso in massa e gli obblighi e le responsabilità del medico competente (14.05.2015 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 22.05.2015, "Aggiornamento albo delle imprese boschive (L.r. 31/2008 – art. 57)" (decreto D.S. 15.05.2015 n. 3930).

PATRIMONIO: G.U. 20.05.2015 n. 115 "Procedure di alienazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 24.02.2015).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 19.05.2015, "Definizione dei criteri e delle modalità per l’erogazione del contributo regionale finalizzato al completamento della pianificazione territoriale e urbanistica locale (PGT) per i comuni commissariati con d.g.r. X/3195 del 26.02.2015" (deliberazione G.R. 14.05.2015 n. 3580).

PATRIMONIO: G.U. 15.05.2015 n. 111 "Modalità per l’individuazione di un modello unico di rilevamento e potenziamento della rete di monitoraggio e di prevenzione del rischio sismico per la predisposizione del piano di messa in sicurezza degli edifici scolastici" (D.P.C.M. 02.04.2015).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 20 del 15.05.2015, "Modifica dell’articolo 14 del regolamento regionale 08.02.2010, n. 3 - «Regolamento di polizia idraulica ai sensi dell’articolo 85, comma 5, della legge regionale 05.12.2008, n. 31 - ‘Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale’»" (Regolamento Regionale 12.05.2015 n. 4).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 15.05.2015, "Criteri per l’attivazione di servizi di rimozione e smaltimento dell’amianto in matrice compatta proveniente da utenze domestiche nel territorio dei comuni della Lombardia ai sensi dell’art. 30 della l.r. 08.07.2014 n. 19" (deliberazione G.R. 30.04.2015 n. 3494).

PATRIMONIO: G.U. 13.05.2015 n. 109 "Misure per l’efficientamento energetico degli edifici scolastici" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 14.04.2015).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 19 dell'08.05.20158, "Modifiche alla legge regionale 21.10.2013, n. 8 (Norme per la prevenzione e il trattamento del gioco d’azzardo patologico), alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e alla legge regionale 02.02.2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)" (L.R. 06.05.2015 n. 11).
---------------
Di interesse si legga:
Art. 2 - (Modifiche agli articoli 33, 41 e 52 della l.r. 12/2005)

DOTTRINA E CONTRIBUTI

CONSIGLIERI COMUNALI: R. Panozzo, La decadenza del consigliere comunale per mancata partecipazione alle sedute – Massimario minimo (18.05.2015 - tratto da www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Sgueo, Il diritto di accesso agli atti (Giornale di diritto amministrativo n. 3/2014).

PUBBLICO IMPIEGO: V. Giannotti, Collaudo affidato a dipendenti di altre p.a. Ricostruzione della normativa per i compensi e le incompatibilità di diritto (Azienditalia - il Personale n. 1/2014).

URBANISTICA: Il comune può speculare sulle aree a standards ricevute con i piani attuativi (14.09.2011 - link a http://venetoius.myblog.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Dimissioni, parla la legge. Efficaci dall'assunzione al protocollo dell'ente. Lo statuto comunale non può derogare alla competenza statale.
Può essere modificato lo statuto comunale introducendo una specifica procedura in ordine alla decorrenza del termine di efficacia delle dimissioni rese dal sindaco, previsto dall'art. 53, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000?

Secondo un costante orientamento, il dies a quo per il computo del termine di cui al predetto art. 53 è identificato nel giorno in cui le dimissioni vengono assunte al protocollo dell'ente.
In merito alla possibilità da parte dello statuto comunale di disciplinare la suddetta materia, in linea generale lo Stato ha competenza esclusiva, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p), in ordine alla potestà legislativa in materia di disciplina elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane.
La legge n. 131/2003, all'art. 4, comma 2, prescrive che lo statuto, in armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica, stabilisce i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione.
Il Consiglio di stato con sentenza n. 832, del 03.03.2005, alla luce proprio degli artt. 114 e 117 della Costituzione, ha ribadito la competenza esclusiva dello stato in materia di organi di governo che evidentemente non può essere autonomamente disciplinata dal comune, neppure in sede statutaria, in mancanza di una norma legislativa statale che ne delimiti l'intervento integrativo.
Con sentenza n. 492/2008, il Tar Calabria ha osservato che «lo statuto comunale, anche a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, è da qualificarsi come atto normativo secondario, capace, entro certi limiti, di innovare l'ordinamento e che, nell'ambito della gerarchia delle fonti, può essere considerato come fonte subprimaria, incapace di derogare o di modificare una legge e collocata appena al disopra delle fonti regolamentari».
Pertanto la modifica in parola, concernente la disciplina relativa alle dimissioni del sindaco, esula completamente dalla materia riservata alla disciplina statutaria dell'ente (articolo ItaliaOggi del 15.05.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Atti di sindacato ispettivo.
Quali sono le materie sulle quali può essere esercitato il diritto dei consiglieri di svolgere atti di sindacato ispettivo? È ammissibile lo svolgimento di mozioni aventi ad oggetto specifiche attività di carattere strettamente gestionale, sottratte alla competenza dell'organo consiliare?

Tale diritto è previsto dall'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che, al comma 3, demanda allo statuto e al regolamento la disciplina concernente le modalità di presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
La dottrina definisce «mozioni» gli atti approvati dal consiglio per esercitare un'azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare procedure e stabilire adempimenti dell'amministrazione nei confronti del Consiglio.
Il Tar Puglia–sezione di Lecce– I sez., sentenza n. 1022/2004, individua la mozione quale «istituto a contenuto non specificato, trattandosi di un potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali l'interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di «introduzione a un dibattito» che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio della mozione».
Il regolamento del consiglio del comune in questione definisce la mozione «una proposta concreta tendente a provocare l'indirizzo di una condotta o azione del sindaco, o della giunta o di un singolo assessore, oppure a fissare criteri da seguire nella contrattazione di un determinato affare, oppure a far pronunciare il consiglio comunale circa importanti fatti politici od amministrativi».
La normativa regolamentare non sembrerebbe, pertanto, porre limiti di materia al diritto dei consiglieri di presentare mozioni che, in quanto atti preordinati a promuovere una deliberazione del consiglio, costituiscono una delle modalità attraverso cui quest'ultimo esercita la funzione di indirizzo e di controllo politico–amministrativo prevista, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, tra le attribuzioni dell'organo rappresentativo dell'ente (articolo ItaliaOggi del 15.05.2015).

APPALTI: Il termine per la stipula del contratto di appalto.
DOMANDA:
Parcheggi a pagamento per il solo periodo estivo cioè 90 giorni (giugno-agosto) secondo il codice contratti che prevede la stipula del contratto entro 60 giorni dalla aggiudicazione definitiva, essendo già a maggio significa che il servizio inizierà dopo giugno e quindi non è possibile assicurare i 90 giorni previsti dal bando creando un danno all'aggiudicatario che si rivarrà contro il Comune.
E' possibile aggiudicare subito sotto riserva di legge in tale caso il servizio, motivando che in caso contrario scaturisce un danno certo per l'ente?
RISPOSTA:
Il termine di 60 giorni tra la aggiudicazione definitiva e la stipulazione del contratto di appalto è un termine perentorio, non dilatorio. Ciò comporta che la stipula deve avvenire entro e non oltre il termine di sessanta giorni, altrimenti l'aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto.
Ma il fatto che il termine non sia dilatorio, significa che non debbano necessariamente trascorrere 60 giorni prima che sia compiuto l’atto, potendosi procedere alla stipula del contratto anche prima, purché si sia proceduto -da parte dell'amministrazione- alla verifica del possesso dei requisiti prescritti ("Divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro il termine di sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero l'ipotesi di differimento espressamente concordata con l'aggiudicatario", art. 11, comma 9, Codice contratti) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di agibilità parziale.
DOMANDA:
Si chiede un parere in merito alla possibilità di rilasciare il certificato di agibilità parziale di una unità immobiliare residenziale posta al piano primo di un immobile plurifamiliare composto da più livelli, nel quale esiste l’ascensore seppure al momento attuale non funzionate e mai collaudato.
Nel particolare anche alla luce delle disposizioni specifiche introdotte dalla legge n. 98/2013, di conversione del D.L. n. 69/2013 (Decreto del Fare), che stabilisce per il certificato di agibilità l’introduzione del comma 4-bis all’art. 24 del Testo unico dell’edilizia, che prevede il rilascio di agibilità parziale degli edifici.
In concreto, secondo la recente disciplina il certificato di agibilità può essere rilasciato per singoli edifici o singole porzioni della costruzione, purché funzionalmente autonomi, qualora siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all’intero intervento edilizio e siano state completate e collaudate le parti strutturali connesse, nonché collaudati e certificati gli impianti relativi alle parti comuni, oppure per singole unità immobiliari, purché siano completate e collaudate le opere strutturali connesse, siano certificati gli impianti e siano completate le parti comuni e le opere di urbanizzazione primaria dichiarate funzionali rispetto all’edificio oggetto di agibilità parziale.
Pertanto atteso che relativamente al caso specifico non risultano collaudati e certificati gli impianti relativi alle parti comuni (ascensore), mentre risultano certificati gli impianti della singola unità immobiliare, che è posizionata al piano primo e pertanto ad un livello per il quale singolarmente non sarebbe essenziale l’esistenza dell’ascensore, si chiede parere in merito alla possibilità di rilasciare il certificato di agibilità parziale per tale unità immobiliare.
RISPOSTA:
Si ritiene che, sul punto, la normativa sia abbastanza chiara, né suscettibile di interpretazioni estensive, dal momento che si tratta di una normativa "derogatoria".
L'articolo 30 del decreto legge n. 69/2013, integrando l'articolo 24 del Testo Unico Edilizia D.P.R. n. 380/2001, ha introdotto la possibilità del rilascio del certificato di agibilità parziale che, nel caso di edifici singoli o singole porzioni della costruzione (caso di specie), può essere rilasciato a condizione che: - siano funzionalmente autonomi; - siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio; - siano state completate e collaudate le parti strutturali connesse, nonché collaudati e certificati gli impianti relativi alle parti comuni.
Nella fattispecie concreta, la concessione edilizia è stata rilasciata in virtù di un progetto che contempla, tra gli impianti relativi alle parti comuni, anche l’ascensore (che, attualmente, non funziona, né è stato oggetto di collaudo).
Mancando quindi uno dei presupposti richiesti dalla richiamata normativa, sarebbe illegittimo il rilascio del certificato di agibilità parziale, ponendosi come irrilevante, sotto il profilo giuridico, il fatto che l'immobile sia ubicato al primo piano e quindi non sia essenziale l'utilizzo dell’ascensore (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Sulle attività extra non autorizzate dal datore di lavoro del pubblico dipendente.
Il rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico, nei limiti infraprecisati, è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative.

La ratio di tale divieto, che permane anche in un sistema “depubblicizzato” a rimarcare la peculiarità dell’impiego presso la p.a., va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” art. 98 cost.), per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.
Centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e il prestigio della p.a..
Tuttavia, nell’impiego pubblico il divieto di espletare incarichi extraistituzionali non è così assoluto. Difatti, il regime vigente, codificato dall’art. 53 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165, pur individuando, al primo comma, situazioni di incompatibilità assoluta
(sancite dagli artt. 60 e seguenti del d.P.R. 10.01.1957, n. 3 per lo svolgimento di attività imprenditoriali, agricole, commerciali, libero-professionali, ed altri lavori pubblici o privati, il cui espletamento porta alla decadenza dall’impiego previa diffida, prevede anche, al comma 7 del cennato art. 53, attività occasionali espletabili dal dipendente pubblico previa autorizzazione datoriale ed anche attività “liberalizzate”, ovvero liberamente esercitabili senza previa autorizzazione, in quanto espressive di basilari libertà costituzionali (art. 53, co. 6, d.lgs. n. 165 cit.).
---------------
Nel caso di attività extra espletabili (ergo non vietate in assoluto) per la loro occasionalità e “non professionalità”, ma previa autorizzazione datoriale,
tale autorizzazione è ragionevolmente prescritta dall’art. 53, co. 7, al fine di verificare in concreto:
a)
se l’espletamento dell’incarico possa ingenerare, anche in via solo ipotetica o potenziale, situazione di conflittualità con gli interessi facenti capo all’amministrazione e, quindi, con le funzioni (ad essi strumentali) assegnate sia al singolo dipendente che alla struttura di appartenenza;
b)
la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza (che dovrà comunque non solo essere svolto fuori dall’orario di lavoro, ma pure compatibilmente con le esigenze di servizio), nonché con le mansioni e posizioni di responsabilità attribuite al dipendente, interpellando eventualmente a tal fine il responsabile dell’ufficio di appartenenza, che dovrà esprimere il proprio parere o assenso circa la concessione dell’autorizzazione richiesta;
c)
la occasionalità o saltuarietà, ovvero non prevalenza della prestazione sull’impegno derivante dall’orario di lavoro ovvero l’impegno complessivo previsto dallo specifico rapporto di lavoro, con riferimento ad un periodo determinato;
d)
la materiale compatibilità dello specifico incarico con il rapporto di impiego, tenuto conto del fatto che taluni incarichi retribuiti sono caratterizzati da una particolare intensità di impegno;
e)
specificità attinenti alla posizione del dipendente stesso (incarichi già autorizzati in precedenza, assenza di procedimenti disciplinari recenti o note di demerito in relazione all’insufficiente rendimento, livello culturale e professionale del dipendente);
f)
corrispondenza fra il livello di professionalità posseduto dal dipendente e la natura dell’incarico esterno a lui affidato.
Questo generale regime autorizzatorio
ha una evidente e condivisibile ratio sia civilistica-lavoristica che pubblicistica: consentire al datore di valutare la compatibilità di tale attività extralavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in modo terzo ed imparziale, della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore alla P.A., in ossequio anche al principio costituzionale di tendenziale esclusività (98 cost.) e di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 cost.).
Tali considerazioni escludono profili di possibile incostituzionalità ex artt. 97 e 98 cost., essendo indefettibile sia la richiesta di autorizzazione, sia la ragionevole discrezionalità del dirigente nel concederla alla stregua dei suddetti parametri. Il non richiederla comporta dunque ragionevoli sanzioni, disciplinari e pecuniarie, tese a tutelare proprio i sunteggiati principi costituzionali.
Tale regime pubblicistico di esclusività
opera anche per il personale in part-time. Difatti, le liberalizzazioni negli incarichi esterni per il personale in part-time (ma solo per quello al 50% della prestazione lavoristica) si sono avute solo con la successiva legge 23.12.1996, n. 662, il cui articolo 1, co. 56, statuisce che “le disposizioni di cui all'articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29 (oggi art. 53, c. 1, d.lgs. n. 165 N.D.R.), e successive modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno”.
L’inosservanza di tale basilare precetto sulla previa doverosa autorizzazione comporta dunque per tutti i dipendenti, compresi quelli in part-time, sia sanzioni disciplinari che la sanzione pecuniaria oggetto del contendere in questa sede. Recita infatti l’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165 che “il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Soggiunge il novello comma 7-bis del d.lgs. n. 165 (introdotto dalla l. n. 190 del 2012) che “
L'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”: trattasi di norma, quest’ultima, non innovativa, ma meramente ricognitiva di un pregresso prevalente indirizzo tendente a radicare in capo alla Corte dei Conti la giurisdizione in materia nel termine prescrizionale quinquennale, escludendo quella del giudice ordinario propugnata da un minoritario indirizzo giurisprudenziale sulla base di una qualificazione della pretesa in chiave civilistica-lavoristica.
Si tratta invero di una ipotesi di responsabilità tipica, in cui la sanzione (integrale riversamento di quanto percepito contra legem) è predeterminata per legge, ma la stessa soggiace comunque agli altri presupposti del giudizio di responsabilità erariale (in primis elemento soggettivo) nonché alla limitazione derivante dalla prescrizione quinquennale.
---------------
1. La fattispecie al vaglio della Sezione, già oggetto di sentenze 25.11.2014 n. 216 e 30.12.2014 n. 233 di questa Corte, attiene alla pretesa risarcitoria avanzata dalla Procura Regionale nei confronti di una dipendente pubblica che, nell’arco temporale 2003-2007, ha svolto attività retribuita presso terzi senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165 del 2001.
La norma, nel testo vigente anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 42, della legge 190 del 2012 (c.d. legge anticorruzione) avvenuta il 28.11.2012, disponeva: “
I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Con l’entrata in vigore della legge anticorruzione il primo inciso è stato completato dalla previsione: “
Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi”.
2. Giova premettere, sul piano sistematico, che, come già rimarcato in sentenza n. 216 del 2014 della Sezione,
il rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico, nei limiti infraprecisati, è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative.
La ratio di tale divieto, che permane anche in un sistema “depubblicizzato” a rimarcare la peculiarità dell’impiego presso la p.a., va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” art. 98 cost.), per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.
Centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e il prestigio della p.a..

Un simile obbligo di esclusività non è rinvenibile nell’impiego privato, nel quale il codice civile si limita a vietare esclusivamente attività extralavorative del dipendente che si pongano in concorrenza con l’attività del datore (art. 2105 c.c.).
Tuttavia, nell’impiego pubblico il divieto di espletare incarichi extraistituzionali non è così assoluto. Difatti, il regime vigente, codificato dall’art. 53 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165, pur individuando, al primo comma, situazioni di incompatibilità assoluta (sancite dagli artt. 60 e seguenti del d.P.R. 10.01.1957, n. 3 per lo svolgimento di attività imprenditoriali, agricole, commerciali, libero-professionali, ed altri lavori pubblici o privati: su tale ipotesi da ultimo C. conti, sez. Sicilia, 24.07.2014 n. 927), il cui espletamento porta alla decadenza dall’impiego previa diffida, prevede anche, al comma 7 del cennato art. 53, attività occasionali espletabili dal dipendente pubblico previa autorizzazione datoriale ed anche attività “liberalizzate”, ovvero liberamente esercitabili senza previa autorizzazione, in quanto espressive di basilari libertà costituzionali (art. 53, co. 6, d.lgs. n. 165 cit.).
Nel caso in esame non si verte né nella prima ipotesi (attività assolutamente vietate ex art. 53, co. 1, d.lgs. n. 165), stante la saltuarietà e non professionalità dei lavori svolti dalla convenuta, né nella terza (attività liberalizzate ex art. 53, co. 6), non rientrando le attività svolte dalla convenuta nel numerus clasusus di quelle che non richiedono autorizzazione.
Pertanto, nella specie, la condotta della M. rientra pacificamente nella seconda tipologia, ovvero tra quelle espletabili (ergo non vietate in assoluto) per la loro occasionalità e “non professionalità”, ma previa autorizzazione datoriale.
Tale autorizzazione è ragionevolmente prescritta dall’art. 53, co. 7, al fine di verificare in concreto:
a)
se l’espletamento dell’incarico, già prima della legge n. 190 del 2012 (e del d.P.R. n. 62 del 2013, che esaltano l’antico e già preesistente problema dei conflitti di interesse) possa ingenerare, anche in via solo ipotetica o potenziale, situazione di conflittualità con gli interessi facenti capo all’amministrazione e, quindi, con le funzioni (ad essi strumentali) assegnate sia al singolo dipendente che alla struttura di appartenenza (problema particolarmente delicato nel comparto Sanità);
b)
la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza (che dovrà comunque non solo essere svolto fuori dall’orario di lavoro, ma pure compatibilmente con le esigenze di servizio), nonché con le mansioni e posizioni di responsabilità attribuite al dipendente, interpellando eventualmente a tal fine il responsabile dell’ufficio di appartenenza, che dovrà esprimere il proprio parere o assenso circa la concessione dell’autorizzazione richiesta;
c)
la occasionalità o saltuarietà, ovvero non prevalenza della prestazione sull’impegno derivante dall’orario di lavoro ovvero l’impegno complessivo previsto dallo specifico rapporto di lavoro, con riferimento ad un periodo determinato;
d)
la materiale compatibilità dello specifico incarico con il rapporto di impiego, tenuto conto del fatto che taluni incarichi retribuiti sono caratterizzati da una particolare intensità di impegno;
e)
specificità attinenti alla posizione del dipendente stesso (incarichi già autorizzati in precedenza, assenza di procedimenti disciplinari recenti o note di demerito in relazione all’insufficiente rendimento, livello culturale e professionale del dipendente);
f)
corrispondenza fra il livello di professionalità posseduto dal dipendente e la natura dell’incarico esterno a lui affidato.
Questo generale regime autorizzatorio, a cui sottostanno anche le categorie di pubblici dipendenti non privatizzati (magistrati, militari, polizia, diplomatici, prefetti etc.), ha una evidente e condivisibile ratio sia civilistica-lavoristica che pubblicistica: consentire al datore di valutare la compatibilità di tale attività extralavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in modo terzo ed imparziale, della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore alla P.A., in ossequio anche al principio costituzionale di tendenziale esclusività (98 cost.) e di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 cost.).
Tali considerazioni escludono profili di possibile incostituzionalità ex artt. 97 e 98 cost., essendo indefettibile sia la richiesta di autorizzazione, sia la ragionevole discrezionalità del dirigente nel concederla alla stregua dei suddetti parametri. Il non richiederla comporta dunque ragionevoli sanzioni, disciplinari e pecuniarie, tese a tutelare proprio i sunteggiati principi costituzionali.
Tale regime pubblicistico di esclusività, osserva incidentalmente il Collegio, opera anche per il personale in part-time. Difatti, le liberalizzazioni negli incarichi esterni per il personale in part-time (ma solo per quello al 50% della prestazione lavoristica) si sono avute solo con la successiva legge 23.12.1996, n. 662, il cui articolo 1, co. 56, statuisce che “le disposizioni di cui all'articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29 (oggi art. 53, ci. 1, d.lgs. n. 165 N.D.R.), e successive modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno”.
L’inosservanza di tale basilare precetto sulla previa doverosa autorizzazione comporta dunque per tutti i dipendenti, compresi quelli in part-time, sia sanzioni disciplinari che la sanzione pecuniaria oggetto del contendere in questa sede. Recita infatti l’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165 che “il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Soggiunge il novello comma 7-bis del d.lgs. n. 165 (introdotto dalla l. n. 190 del 2012) che “
L'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”: trattasi di norma, quest’ultima, non innovativa, ma meramente ricognitiva di un pregresso prevalente indirizzo (Cass., sez. un., 02.11.2011 n. 22688) tendente a radicare in capo alla Corte dei Conti la giurisdizione in materia nel termine prescrizionale quinquennale, escludendo quella del giudice ordinario propugnata da un minoritario indirizzo giurisprudenziale (C. conti, Sez. Lombardia, 27.01.2012 n. 31, riformata in appello da C conti, Sez. I, 13.03.2014 n. 406) sulla base di una qualificazione della pretesa in chiave civilistica-lavoristica.
Si tratta invero di una ipotesi di responsabilità tipica, in cui la sanzione (integrale riversamento di quanto percepito contra legem) è predeterminata per legge, ma la stessa soggiace comunque agli altri presupposti del giudizio di responsabilità erariale (in primis elemento soggettivo) nonché alla limitazione derivante dalla prescrizione quinquennale. Tale ultima affermazione è in linea con precedenti di questa Corte (Sez. Toscana, 08.09.2014 n. 159; Sez. Calabria 10.05.2013 n. 161; Sez. I, 13.03.2014 n. 406).
3. Tale conclusione, come già statuito dalla Sezione con sentenza n. 216 del 2014, porta ad escludere qualsiasi profilo di difetto di giurisdizione: difatti, quale che sia la sua portata temporale, il novello comma 7-bis del d.lgs. n. 165 introdotto dalla l. n. 190 del 2012 è meramente ricognitivo ed esplicativo della pregressa giurisdizione contabile in materia, già desumibile dai principi generali e statuita dalla giurisprudenza, per cui la fattispecie sub iudice è ben giudicabile da questa Corte.
4. Ciò chiarito sul piano sistematico, e ribadita la giurisdizione di questa Corte, va sviluppata qualche ulteriore preliminare considerazione rispetto al merito.
E’ incontestato che la sig.ra M., per sua stessa ammissione, non abbia mai richiesto al datore alcuna autorizzazione a fronte del pluriennale espletamento di occasionali attività extralavorative.
Come già segnalato in sentenza n. 216 del 2014 della Sezione, la previsione normativa alla base della pretesa della Procura, ad avviso del Collegio (che non condivide la rimessione alla Consulta operata da TAR Puglia, Sezione di Lecce in data 30.05.2013), non appare in primo luogo in contrasto con nessun parametro costituzionale: non certo con l’art. 36 cost., cui fa riferimento il Tar Puglia, in quanto l’art. 53, co. 7, nell’imporre la refusione di quanto introitato contra legem, non viola affatto il precetto secondo cui «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ....», ma regola legittimamente il prevalente buon funzionamento dell’azione pubblica e del leale ed imparziale rapporto tra datore pubblico e suoi dipendenti, in ossequio all’esclusività tendenziale sancita dall’art. 98 cost..
Né la norma urta con l’art. 97 cost., come parimenti adombrato dal Tar Puglia, in quanto, al contrario, ne esalta e concretizza la portata, regolando e sanzionando un profilo lavoristico dell’impiego pubblico proprio in vista del buon andamento e della imparzialità dell’azione pubblica. In buona sostanza, l’aggiunta di una sanzione amministrativa a quella disciplinare rafforza la finalità sottesa all’art. 53, co. 7, ed all’art. 98 cost., ovvero prevenire e reprimere condotte che possono porsi in contrasto con il buon andamento e l’imparzialità della p.a. e dei suoi funzionari.
Pertanto la questione, pur se rilevante, si ritiene manifestamente infondata. Il presente giudizio non va dunque sospeso in attesa del pronunciamento della Corte costituzionale sul punto.
Né vengono lesi con tale norma (art. 53, co. 7 cit.) altri principi stabiliti dalla Convenzione Europea: non vi è alcuna “ingiustificata ingerenza dell’autorità pubblica nel godimento del diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU)”, ma una mera regolamentazione di esercizio di alcuni profili della prestazione lavoristica con la PA per preservarne l’integrità ed indipendenza nello svolgere attività in possibile contrasto; non vi è lesione alcuna del “rispetto del principio di legalità (art. 7 CEDU)”, essendo la sanzione amministrativa de qua rispettosa del principio nella sua formulazione ex lege; non vi è infine alcuna “arbitrarietà dell’ingerenza dello Stato e giusto equilibrio tra gli interessi generali e la salvaguardia dei diritti dell’individuo (artt. 6 – 8 e 14 CEDU)”, essendo ben ragionevole l’intervento legislativo statale nel bilanciare l’interesse pubblico al buon funzionamento e all’imparzialità della PA con le pretese del lavoratore ad agire in contesti extralavorativi.
L’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165 introduce dunque una sanzione amministrativa (tra l’altro rispondente ai doverosi canoni di riserva di legge, (tipicità, tassatività, offensività), rafforzativa di quella disciplinare ed avente una ragionevole ratio preventiva e dissuasiva.
5. Venendo alle componenti strutturali dell’illecito amministrativo in esame, evidenti, riconosciuti ed incontestati appaiono la condotta ed il danno ex lege determinato dalla convenuta. Parimenti sussistente è la colpa grave della M. a fronte del chiaro precetto normativo, un tempo contenuto nell’art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993 e poi nell’art. 53, co. 1, d.lgs. n. 165 del 2001. La limpida formulazione, unita al noto principio ignorantia legis non excusat (nella specie l’ignoranza è ingiustificabile per la chiarezza testuale), rende non ipotizzabile una buona fede della convenuta (per mancata divulgazione dei precetti in materia da parte del datore di lavoro, opportuna ma non certo doverosa).
Né assume rilievo la eccellente resa della prestazione di lavoro presso l’Azienda San Gerardo della M. nel periodo di espletamento, in orari extralavorativi, di altre attività, in quanto tale circostanza non ha alcun valore ai fini della previa autorizzazione datoriale, la cui ratio, come sopra rimarcato, non attiene solo alla valutazione (ex ante e non certo ex post come implicitamente vorrebbe la difesa) sulla fisica compatibilità tra attività lavorativa e extralavorativa, ma anche alla sussistenza di conflitti, anche potenziali, di interesse (che nel comparto Sanità vanno valutati con particolare rigore).
6. Venendo dunque al danno ed alla sua quantificazione, va preliminarmente individuata la pretesa risarcitoria azionata, essendo stata eccepita la prescrizione quinquennale dalla difesa della convenuta, secondo la quale, a fronte delle date degli introiti (2003-2007), il primo atto con cui è stata reclamata dall’amministrazione la refusione degli stessi risale all’11.02.2013.
Tuttavia, nella specie è da ritenere inapplicabile la regola della decorrenza della prescrizione dalla scoperta del fatto in caso di doloso occultamento (art. 1, co. 2, l. n. 20 del 1994), in quanto, come statuito da questa Corte “
Il doloso occultamento non coincide con la commissione dolosa del fatto dannoso ma richiede un’ulteriore condotta indirizzata a impedire la conoscenza del fatto e che, comunque, perché di occultamento doloso si possa parlare, occorre un comportamento che, pur se può comprendere la causazione del fatto dannoso, deve tuttavia includere atti specificamente volti a prevenire il disvelamento di un danno ancora in fieri oppure a nascondere un danno ormai prodotto” “un comportamento volto al raggiro, callido, teso con atti commissivi al nascondimento, di cui deve lasciar baluginare l’intenzionalità” (Sez. III, 20.12.2012 n. 830).
Come già statuito con la già citata sentenza n. 216 del 2014,
perché di occultamento doloso si possa parlare, occorre un comportamento che, pur se può comprendere la causazione del fatto dannoso, deve tuttavia includere atti specificamente volti a prevenire il disvelamento di un danno ancora in fieri oppure a nascondere un danno ormai prodotto (Sez. Liguria, 02.07.2014 n. 85; Sez. Lombardia, 29.01.2014 n. 23; Sez. III n. 830/2012; Sez. I n. 85/2012; Sez. Sicilia n. 1/2012; Sez. II n. 27/2009; Sez. III n. 32/2002; Sez. I, n. 40/2009; Sez. III n. 474 del 2006, Sez. Liguria 11.06.2009, n. 287; Sez. Veneto, 07.07.2005, n. 992; Sez. Lombardia, 12.12.2005, n. 728).
In sintesi, l’occultamento doloso del danno non può considerarsi provato dal solo silenzio serbato dal dipendente sulle attività extralavorative prestate.
Nella specie è invece applicabile la regola della decorrenza della prescrizione da quando il fatto dannoso diviene conoscibile secondo ordinari criteri di diligenza (c.d. conoscibilità obiettiva). In altre parole, pur non vertendosi in materia di doloso occultamento del danno da parte della convenuta, non riscontrandosi condotte maliziose tese a celare i proventi aliunde percepiti, appare ben evidente, alla luce del basilare parametro dell’art. 2935 c.c., alla cui stregua va letto l’art. 1, co. 2, della legge 14.01.1994 n. 20 (“
il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in 5 anni decorrenti dalla data in cui è stata realizzata la condotta produttiva del danno“), che la percepibilità, intesa come “conoscibilità obiettiva” (e non certo soggettiva, ancorata cioè a possibili indolenti riscontri subiettivi tardivi) del danno erariale arrecato dalla convenuta da parte dell’amministrazione danneggiata, va individuata nella data dell’ispezione svolta dalla Guardia di Finanza nel 2012.
Nella specie, a fronte del non palesato (in quanto non autorizzato) espletamento di dette prestazioni extralavorative da parte della M. non risulta provata una pregressa conoscenza da parte del datore di lavoro (come avvenuto invece in analoga fattispecie vagliata da questa Sezione con sentenza 216/214) prima della formale messa in mora aziendale inoltrata con nota informativa 11.02.2013 prot. 2662, inviata alla convenuta sulla base della comunicazione 17.12.2012 n. 2276 alla Azienda San Gerardo degli esiti della suddetta verifica ispettiva della Guardia di Finanza 05.11.2012 n. 156592/12, momento della “conoscibilità” del fatto dannoso.
E’ incontestato dunque che le prestazioni extralavorative della convenuta si siano svolte in un arco temporale dal 2003 al 2007 e chi siano state rese conoscibili solo nel 2012: l’azione della Procura è dunque tempestiva.
Ciò chiarito, l’importo introitato contra legem dalla convenuta, e che andava riversato all’amministrazione ex art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165, va dunque determinato in euro 37.542,20 lordi indicati dalla Procura a seguiti di analitici conteggi della Guardia di Finanza agli atti.
Circa il suo computo al netto o al lordo della tassazione, ritiene il Collegio, in consapevole contrasto con minoritari indirizzi di questa Corte (Sez. Campania n. 14 del 14.01.2010; Sez. Liguria n. 50 del 29.03.2013; Sez. Puglia n. 1558 del 27.11.2013), e in sintonia con un prevalente e più ragionevole indirizzo giurisprudenziale (v. Cons. Stato, Sez. III, 04.07.2011 n. 3984; Cons. Stato, Sez. VI, 02.03.2009 n. 1164; TAR Lombardia, Sez. IV, 07.03.2013 n. 614; C. conti, Sez. III, 27.03.2014 n. 167, e n. 273 del 06.05.2014; Sez. Toscana, 08.09.2014 n. 159; Sez. Lazio n. 897 del 16.12.2013; Sez. Lombardia 25.11.2014 n. 216 e 30.12.2014 n. 233), che
l'interpretazione dell'art. 53, co. 7, d.lgs. 165/2001 deve essere nel senso che la somma da recuperare è quella al netto delle imposte già corrisposte dalla convenuta a titolo di ritenuta d’acconto, ovvero l’importo effettivamente entrato nella sfera patrimoniale del dipendente. Pertanto, dall’importo lordo di Euro 37.542,20 reclamato dalla Procura, va detratta la ritenuta d’acconto del venti per cento già operata dall’erogatore, come rettamente richiesto dalla difesa, con conseguente riduzione ad euro 30.033,76 netti l’importo dovuto al datore.
Tale importo non può essere ulteriormente ridotto, a seguito della tassazione sul reddito imponibile, non risultando depositate le dichiarazioni dei redditi della convenuta tese ad evidenziare tasse ulteriori eventualmente pagate dalla convenuta nel periodo 2003-207 a seguito degli introiti extralavorativi de quibus.
In ogni caso la convenuta, ove ritenga, sulla base di questa sentenza dagli effetti restitutori, di aver versato al Fisco, per gli anni tributari pertinenti, somme in più, in quanto derivanti da redditi da lavori extra poi versati al proprio datore ex art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165, potrà reclamarne la refusione nelle pertinenti sedi tributarie.
Peraltro, tenuto conto dell’ineccepibile curriculum professionale, del suo leale riconoscimento della condotta contra legem, della qualifica non apicale della M., che può comportare una non adeguata conoscenza della applicazione concreta del regime delle incompatibilità (sul quale la Azienda sanitaria non ha inopportunamente svolto attività formativa/divulgativa), l’importo può equitativamente essere ridotto, nell’esercizio ragionevole del potere riduttivo dell’addebito, ad euro 22.500,00, ad oggi già rivalutati, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al saldo effettivo.
Alla refusione del predetto danno all’Azienda Ospedaliera “Ospedale di San Gerardo” di Monza va dunque condanna la convenuta.
La convenuta va altresì condannata al pagamento delle spese di giudizio, liquidate come da dispositivo (Corte dei Conti, Sez. giursdiz. Lombardia, sentenza 16.04.2015 n. 54).

INCARICHI PROFESSIONALI: La regola secondo cui i debiti per incarichi a legali esterni, ove maggiori rispetto a quelli contabilizzati senza una causa di oggettiva imprevedibilità, con una non ingiustificata “irrisorietà” o “non congruità” dell’importo contabilizzato, devono essere riconosciuti attraverso la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio deve essere confermata anche nel mutato quadro normativo, per effetto dell’entrata in vigore, dal 01.01.2015, della nuova contabilità pubblica (Dlgs. n. 118/2011).
Nel caso di impegni per incarichi a legali esterni risalenti ad annualità anteriori al 2015, per cui la prestazione per il corrispettivo non sia ancora esigibile, il residuo va riaccertato ai sensi dell’articolo 3, comma 4, del D.lgs. n. 118/2011 per addivenire alla ricollocazione temporale dello stesso secondo il principio della competenza finanziaria rafforzata: infatti, «se l’obbligazione non è esigibile, si provvede alla cancellazione dell’impegno ed alla sua immediata re-imputazione all’esercizio in cui si prevede che sarà esigibile, anche sulla base delle indicazioni presenti nel contratto di incarico al legale».
---------------
In pratica,
a partire dal 2015, ove l’impegno sia stato in origine sottostimato, per cause oggettive, in sede di bilancio preventivo, annualmente, deve essere adeguato l’’importo stanziato, di modo che vi siano risorse sufficienti per l’impegno ed il pagamento del corrispettivo, consentendo al Consiglio di controllare costantemente l’evolversi della spesa a fronte di fatti nuovi e imprevedibili.
Ove peraltro emergesse una non congruità dell’impegno originario imputabile a circostanze soggettive, imputabili al professionista o al funzionario che ha consentito alla spesa, la maggior somma dovrà invece essere oggetto della procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), nei limiti del valutato “arricchimento” per l’ente.
Altrimenti opinando, infatti, il funzionario che ha operato in modo incauto o non diligente potrebbe facilmente sottrarsi alla responsabilità diretta (art. 191, comma 4, TUEL) e al filtro valutativo che la legge prevede che il Consiglio eserciti in sede di riconoscimento del debito per prestazioni per beni e servizi, a garanzia della propria competenza autorizzativa delle spesa.

---------------
Con la nota richiamata in epigrafe il Sindaco di Santa Maria La Carità (NA) ha chiesto alla Sezione un parere in ordine alla corretta procedura per l’imputazione in bilancio dei maggiori oneri per parcelle professionali presentate a conclusione di un giudizio da parte degli avvocati incaricati della difesa tecnica del Comune.
L’Ente fa l’ipotesi di un impegno a suo tempo assunto in bilancio all’atto del conferimento dell’incarico in una misura “irrisoria”, «senza pattuire condizioni e modalità di espletamento dell'incarico e senza indicare i criteri di determinazione della parcella da presentare a saldo, a conclusione del giudizio».
Chiede pertanto di sapere, nel caso in cui «la parcella presentata dal professionista incaricato, a conclusione del giudizio, si [discostasse] significativamente dall'impegno iniziale assunto» quale sia la procedura corretta da seguire tra:
«a) attivazione del procedimento per il riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell'art. 194, comma 1, lett. e), del T.U.E.L 18.08.2000, n. 267, per provvedere al pagamento della quota della spesa eccedente l'impegno assunto al momento del conferimento dell'incarico, "nei limiti degli accertati e dimostrali utilità e arricchimento per l'ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza";
b) la semplice integrazione dell'impegno assunto per la quota di spesa eccedente
».
Il Comune soggiunge un ulteriore quesito, subordinato al primo sopra esposto. Segnatamente, nel caso in cui si ritenesse corretto procedere nel senso del riconoscimento del debito fuori bilancio (ipotesi sub. a), «chiede di conoscere come debba essere determinato il requisito dell'arricchimento. In particolare, si chiede di conoscere se l'arricchimento deve essere stabilito secondo i valori minimi dei nuovi parametri professionali approvati con D.M. n. 55/2014 e se, dunque, qualora la parcella presentata dal professionista (tenuto conto dell'esito positivo del giudizio, del numero delle udienze, del valore della causa prossimo al limite massimo dello scaglione) superi tali valori minimi, il Comune sia legittimato a rideterminarla d'ufficio secondo i minimi tariffari senza correre il rischio di essere citato in giudizio dal professionista ed essere condannato al pagamento della parcella così come dallo stesso redatta con l'ulteriore aggravio della rifusione delle spese legali».
...
1. Il thema quaestionandi riguarda la corretta procedura contabile da seguire nel caso in cui emerga un debito per parcelle professionali emesse da legali a conclusione di un giudizio, in misura superiore al quantum a suo tempo impegnato al momento del conferimento dell’incarico, impegno poi confluito tra i residui del bilancio dell’ente locale.
In particolare si chiede di sapere se, in tal caso, la maggiore prestazione, debba ritenersi un debito contabilmente nuovo, da impegnarsi, per competenza, nell’esercizio finanziario di presentazione della parcella sul pertinente capitolo di bilancio, nei limiti dello stanziamento (con la procedura ordinaria di cui all’art. 191 TUEL), ovvero debba ritenersi lo stesso un debito per competenza riferibile all’esercizio in cui è stato conferito l’incarico che, pertanto, non può che essere riconosciuto con l’eccezionale procedura dei debiti fuori bilancio (ex art. 194 TUEL, sub specie di debito per prestazioni e servizi ai sensi della lett. e).
Il tema è stato abbondantemente esaminato dalla giurisprudenza contabile (cfr., ex plurimis, SCRC Emilia Romagna parere 25.07.2013 n. 256 e 311/2012/PAR nonché SRC Campania nn. 261/2014/PAR, 241/2014/PRSP e 35/2014/PRSP) nel precedente sistema di contabilità basato sul principio della competenza finanziaria “semplice”, prima dell’entrata in vigore, per tutti gli enti locali, del D.lgs. n. 118/2011, a partire dal 01.01.2015. Tale giurisprudenza, peraltro, per i principi che esprime rimane per gran parte attuale, salvo le precisazioni che seguono.
2. Secondo tale pregressa giurisprudenza,
i debiti per prestazioni professionali devono essere imputati nell’esercizio in cui è stato conferito l’incarico legale, nel rispetto del principio di prudenza e di sana gestione finanziaria, in una misura pari ad una stima, la più precisa possibile, del costo finale della prestazione. Ciò in aderenza al principio contabile n. 2, cpv. 108, del Testo approvato dall’Osservatorio del Ministero dell’Interno il 12.03.2008, ai sensi del quale «l’ente deve determinare compiutamente, anche in fasi successive temporalmente, l’ammontare del compenso (esempio gli incarichi per assistenza legale) al fine di evitare la maturazione di oneri a carico del bilancio non coperti dall’impegno di spesa inizialmente assunto. Il regolamento di contabilità dell’ente potrà disciplinare l’assunzione di ulteriore impegno, per spese eccedenti l’impegno originario, dovute a cause sopravvenute ed imprevedibili».
L’obbligo di procurarsi un congruo preventivo del corrispettivo, oltre a gravare sulla pubblica amministrazione e discendere da principi di sana gestione contabile, è oggi un espresso obbligo gravante sullo stesso professionista per effetto delle innovative disposizioni di cui all’art. 9 del D.L. n. 1/2012 conv. L. n. 27/2012. Tale norma ha abrogato le tariffe professionali e ha stabilito che «Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito al momento del conferimento dell'incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico […]».
Detto in altri termini,
l’ente, da un lato, è tenuto in sede di incarico a concordare nel titolo il corrispettivo affinché il suo ammontare risulti definito o, quantomeno, sufficientemente determinabile, di modo che, a scadenza, la liquidazione dell’onorario e della spesa trovi preventiva e sufficiente provvista nella contabilità dell’ente, evitando la formazione di debiti fuori bilancio.
Nel vecchio sistema contabile, in base al principio della competenza finanziaria “semplice”, tale stima preventiva si traduceva, di norma, nell’impegno nell’anno d’incarico e nella traslazione di tale impegno in conto residui negli anni successivi.
Diversamente
la sottostima del compenso, la mancanza assoluta di stima o la sua contabilizzazione per importi irrisori non poteva che comportare e comporta la formazione di un debito extra-bilancio.
Infatti,
in caso di stima mancante in assoluto o oggettivamente inadeguata in relazione alle caratteristiche della causa (mediante l’impegno di una somma “irrisoria” o comunque ingiustificatamente incongrua), l’unica via perseguibile per la riconduzione del debito al bilancio dell’ente è quella del ricorso alla procedura del riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e) (sussistendo il debito, in alternativa, direttamente in capo al funzionario che ha consentito la prestazione, ex art. 191, comma 4, TUEL).
In tale ipotesi, infatti, sarebbero state violate le norme contabili che presidiano la corretta imputazione in bilancio della spesa; il titolo e la fattispecie generativa dell’obbligazione, inoltre, riguarderebbero integralmente un esercizio precedente nel quale l’ammontare della spesa non è stato correttamente rilevato.
In definitiva,
l'adozione di una formale deliberazione di riconoscimento consente la verifica sull'utilità del patrocinio, nonché di attivare il controllo in relazione a possibili profili di responsabilità erariale, stante l'obbligo di trasmissione delle deliberazioni di riconoscimento dei debiti fuori bilancio alla competente Procura presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti (art. 23 della Legge n. 289/2002).
Infatti, come è noto,
il procedimento di riconoscimento dei debiti fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente perfezionata all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo il debito insorto con la volontà amministrativa (SRC Lombardia parere 22.07.2013 n. 339 e n. 482/2013/PAR). Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo (verificando, in primo luogo, la sussunzione in una delle fattispecie tipizzate dall’art. 194 TUEL) e, dall’altro, a reperire modalità di copertura finanziaria (indicate sempre nell’art. 194 TUEL).
Si ricorda poi come la giurisprudenza contabile (SRC Lombardia n. 65/2013 e n. 436/2013, SCR Liguria n. 122/2010 e n. 56/2011) abbia costantemente ritenuto eccezionale la disciplina dell’art. 194 TUEL, salva l’interpretazione estensiva delle ipotesi ivi considerate quando funzionale al non aggravamento della situazione debitoria dell’ente (ad esempio in tema di provvedimenti giurisdizionali legittimanti il riconoscimento, cfr. SRC Campania n. 42/2014/PRSP).
Per altro verso, eccezionalmente, la giurisprudenza ha talvolta ammesso che eventuali maggiori oneri successivamente liquidati, esclusivamente per fatti sopravvenuti ed imprevedibili, quali lo sviluppo del processo in termini di maggiore tempo e complessità procedimentale causata dalla peculiarità della causa, avrebbero potuto essere impegnati per competenza nell’esercizio di manifestazione degli stessi, secondo l’ordinaria procedura di spesa (art. 191 TUEL), integrando l’originario impegno a residuo, con un nuovo impegno nel pertinente capitolo di spesa (cfr. Sez. Lombardia, deliberazioni nn. 19/2009/PAR e 441/2012/PAR; SRC Campania n. 9/2007/PAR; SRC Sardegna deliberazione n. 2/2007/PAR).
La ratio di tale orientamento, da un lato, è che l’ente, ricorrendo tali eccezionali presupposti (fatti sopravvenuti ed imprevedibili) non avrebbe violato le norme che presidiano la procedura di spesa e, per altro verso, il titolo giuridico alla base del residuo originario rimarrebbe immutato e non coinciderebbe con la “causa” del nuovo debito; detto in altri termini, si sarebbe in presenza di una nuova obbligazione giuridica, sorta in un esercizio successivo a fronte di fatti nuovi, imputabili secondo il principio della competenza finanziaria in un esercizio finanziario diverso da quello in cui l’incarico è stato assunto.
In relazione a queste tipologie di debiti sopravvenuti, scaturenti da un titolo a suo tempo regolarmente registrato e imputato ma che, per fatti oggettivamente non preventivabili, si fossero manifestati in sede di liquidazione in un importo superiore a quello a suo tempo impegnato, la giurisprudenza contabile ha parlato di “passività pregresse
(cfr. SRC Lombardia parere 22.07.2013 n. 339 e n. 482/2013/PAR).
3.
La regola secondo cui i debiti per incarichi a legali esterni, ove maggiori rispetto a quelli contabilizzati senza una causa di oggettiva imprevedibilità, con una non ingiustificata “irrisorietà” o “non congruità” dell’importo contabilizzato, devono essere riconosciuti attraverso la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio deve essere confermata anche nel mutato quadro normativo, per effetto dell’entrata in vigore, dal 01.01.2015, della nuova contabilità pubblica (Dlgs. n. 118/2011).
Peraltro, i sopra richiamati principi elaborati in sede ermeneutica vanno arricchiti dal sistema di regole oggi espressamente previsto per gli incarichi a legali eterni, in adattamento al nuovo principio della competenza finanziaria “potenziata” o “rafforzata”, articolatamente disciplinato negli allegati di cui al richiamato decreto, sia in sede di principi generali (Allegato 1, punto 16) che in sede di principi “applicati” (Allegato 4.2, §2).
Secondo tali principi, come è noto, le obbligazioni devono essere registrate in bilancio tenendo conto non solo del perfezionamento del titolo, ma anche della scadenza (esigibilità) della prestazione che, nel caso di spesa per l’acquisto di beni e servizi, di norma, coincide con l’adempimento della prestazione da parte del fornitore (Allegato 4.2, al § 5.2., lett. b).
Nel caso di impegni per incarichi a legali esterni risalenti ad annualità anteriori al 2015, per cui la prestazione per il corrispettivo non sia ancora esigibile, il residuo va riaccertato ai sensi dell’articolo 3, comma 4, del D.lgs. n. 118/2011 per addivenire alla ricollocazione temporale dello stesso secondo il principio della competenza finanziaria rafforzata: infatti, «se l’obbligazione non è esigibile, si provvede alla cancellazione dell’impegno ed alla sua immediata re-imputazione all’esercizio in cui si prevede che sarà esigibile, anche sulla base delle indicazioni presenti nel contratto di incarico al legale».
Inoltre, in deroga al principio secondo cui nel fondo pluriennale vincolato confluiscono solo entrate correnti vincolate ed entrate destinate al finanziamento di investimenti (Allegato 4.2., § 5.4) «Nell’esercizio in cui l’impegno è cancellato si iscrive, tra le spese, il fondo pluriennale vincolato al fine di consentire la copertura dell’impegno nell’esercizio in cui l’obbligazione è imputata».
Cionondimeno, il richiamato principio subisce una deroga (in sostanza continuando ad applicare il pregresso criterio della competenza finanziaria “semplice”) nel caso di incarichi a legali esterni dal cui contesto non sia possibile desumere la scadenza: ai sensi del principio contabile applicato di cui all’Allegato 4.2, al § 5.2., lett. g), infatti, «gli impegni derivanti dal conferimento di incarico a legali esterni, la cui esigibilità non è determinabile, sono imputati all’esercizio in cui il contratto è firmato, in deroga al principio della competenza potenziata, al fine di garantire la copertura della spesa».
Tale imputazione, peraltro, presuppone la necessità che la spesa sia stata congruamente stimata «al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio». Tale necessità viene resa costante, imponendo un obbligo di verifica annuale; il § 5.2, lett. c), infatti, prevede che l’ente chieda «ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla base della quale è stato assunto l’impegno e, di conseguenza, provvede ad assumere gli eventuali ulteriori impegni».
In pratica,
a partire dal 2015, ove l’impegno sia stato in origine sottostimato, per cause oggettive, in sede di bilancio preventivo, annualmente, deve essere adeguato l’’importo stanziato, di modo che vi siano risorse sufficienti per l’impegno ed il pagamento del corrispettivo, consentendo al Consiglio di controllare costantemente l’evolversi della spesa a fronte di fatti nuovi e imprevedibili.
Ove peraltro emergesse una non congruità dell’impegno originario imputabile a circostanze soggettive, imputabili al professionista o al funzionario che ha consentito alla spesa, la maggior somma dovrà invece essere oggetto della procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), nei limiti del valutato “arricchimento” per l’ente.
Altrimenti opinando, infatti, il funzionario che ha operato in modo incauto o non diligente potrebbe facilmente sottrarsi alla responsabilità diretta (art. 191, comma 4, TUEL) e al filtro valutativo che la legge prevede che il Consiglio eserciti in sede di riconoscimento del debito per prestazioni per beni e servizi, a garanzia della propria competenza autorizzativa delle spesa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 01.04.2015 n. 110).

PUBBLICO IMPIEGO: I giornalisti in pensione collaborano con la p.a..
I giornalisti in quiescenza possono continuare a collaborare con la pubblica amministrazione. Alle predette attività, infatti, non si applica il divieto imposto dall'articolo 6 del dl n. 90/2014 il quale è circoscritto ai soli incarichi di studio, consulenza e a quelli dirigenziali.

È quanto si legge nel testo della deliberazione n. 15/2015, con cui la Corte dei conti -Sez. centrale di controllo di legittimità sugli atti delle amministrazioni pubbliche- ha fatto chiarezza sulla portata normativa delle disposizioni introdotte al citato articolo 6, dove si prescrive che è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
Oggetto del casus belli è un contratto di attività giornalistica, consistente nella cura della comunicazione ed informazione istituzionale, stipulato nel dicembre dello scorso anno tra il Ministero dello sviluppo economico ed una giornalista in pensione. Analizzando lo stesso, il collegio della magistratura contabile ha preliminarmente rilevato che, per ascrivere o meno tale contratto nell'alveo del divieto normativo imposto, occorre individuarne la natura e che, in dettaglio, questo viene espressamente intestato quale «contratto di collaborazione ex art. 2 Ccnl giornalisti del 26.03.2009».
A seguito delle osservazioni formulate in istruttoria, il Mise rilevava che l'incarico esaminato non ammette alcun vincolo di subordinazione, lo svolgimento di responsabilità gestionali né l'assegnazione di risorse umane o di capitoli di spesa dell'Amministrazione, prevedendo esclusivamente lo svolgimento dell'attività giornalistica.
Sul punto, la Corte ha osservato che la norma limitatrice si esprime nel senso che il divieto si circoscrive ai soli «incarichi di studio» ed «incarichi di consulenza», oltre che agli «incarichi dirigenziali». Pertanto, un contratto di natura giornalistica non può rientrare nel divieto normativo sopra citato.
La limitazione imposta dal legislatore, infatti, è da valutare come criterio di stretta interpretazione e, quindi, non è possibile estenderne gli effetti fondandosi su semplici analogie. In poche parole, il divieto di conferire incarichi a soggetti in quiescenza è applicabile ai soli casi espressamente indicati all'articolo 6 del dl n. 90/2014 (articolo ItaliaOggi del 15.05.2015).

NEWS

CONDOMINIONon è un obbligo inviare il rogito. Anagrafe condominiale. I documenti.
Il garante si pronuncia sulla legittimità della richiesta al condòmino di copia del titolo di proprietà ai fini della compilazione dei registri previsti dall’'articolo 1130 n. 6 del Codice civile, ritenendo che l’amministratore non abbia il potere di pretendere tale documento e che pertanto la richiesta sia non fondata e il relativo trattamento di dati eccessivo rispetto alle finalità perseguite.
La pronuncia appare condivisibile, poiché la norma richiede che l’amministratore conosca i dati relativi al titolare di diritti reali e non autorizza affatto a richiedere più di tali elementi, rispetto ai quali la copia dell’atto di acquisto è sicuramente qualcosa di più, che contiene dati estranei alle finalità di compilazione dei registri. Anche ove il condòmino non adempia alla richiesta di comunicazione di tali dati, l’amministratore potrà ricavarli dai pubblici registri con una semplice visura e addebitandone i relativi costi, ma non potrà procurarsi copia del titolo se non eccedendo i limiti del Codice della privacy e, plausibilmente, anche quelli previsti dallo stesso codice civile.
L’indicazione di ragionevolezza e adeguatezza, con invito all’amministratore di attenersi a quanto strettamente indicato dalla legge, può essere spunto di riflessione interessante anche per ciò che attiene alla questione dei dati relativi alle condizioni di sicurezza.
Diversa è l’ipotesi prevista dall’articolo 63 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile che, all’ultimo comma, pone in capo al soggetto che vende l’unità immobiliare l’obbligo di trasmettere copia autentica dell’atto ove voglia liberarsi dal vincolo di solidarietà con l’acquirente. In tal caso l’obbligo è espressamente previsto dalla legge ed ha tutt’altra ragione, prima fra tutte quella di dare data certa al venir meno della responsabilità patrimoniale del cedente nei confronti del condominio
 (articolo IL Sole 24 Ore del 19.05.2015).

COMPETENZE PROGETTUALI: Cemento armato per i geometri. La pronuncia del Cds non è vincolante.
Geometri contro il Consiglio di stato. La recente sentenza (n. 883/2015) che ne ha escluso la competenza nel progettare opere in cemento armato, sostenendone la riserva per ingegneri e architetti, non ha infatti «un valore assoluto». E i professionisti devono continuare a regolarsi come hanno sempre fatto.

Con una circolare ah hoc (nota 07.05.2015 n. 5126 di prot.) il Consiglio nazionale dei geometri interviene sul tema delle competenze in materia di costruzioni civili, dopo che i giudici di palazzo Spada avevano annullato la delibera di un comune che gli riconosceva la possibilità di progettare modeste costruzioni in cemento armato (si veda ItaliaOggi del 03/03/2015).
Il punto di partenza per i geometri è semplice: la decisione del Cds è in contrasto con diverse altre pronunce precedenti e oltretutto la sentenza «di primo grado aveva tracciato un orientamento del tutto contrario a quello oggi manifestato dal Cds». Secondo i Cng «non si può fare a meno di osservare come giudici diversi ma appartenenti a diversi gradi della medesima giustizia amministrativa seguano differenti e contrapposti giudizi». Non solo, perché secondo il consiglio nazionale di categoria ha avuto un orientamento interpretativo restrittivo sulle competenze dei geometri «considerate immotivatamente insussistenti anche in mancanza di norme espresse».
E in questo senso, si legge ancora nella circolare, il Cds non ha tenuto nel giusto conto neanche «l'espressa abrogazione della riserva per le opere in cemento armato in favore di ingegneri e architetti recentemente operata dal dlgs 212/2010 in quanto ritenuta norma inutile e di cui anche la Corte suprema di cassazione ha preso espressamente atto». Ma, soprattutto, c'è una giurisprudenza ampiamente contrastante, che va avanti da anni e che non può essere cancellata da una sola sentenza negativa.
E il documento del Cng lo dice chiaramente: «si invitano codesti collegi a non assegnare un valore assoluto alla pronuncia in esame, collegandovi effetti eccessivamente negativi, in considerazione del fatto che tale sentenza è una in un ambito, come detto, di pronunzie contrastanti». Tutte le decisioni nascono da «liti giudiziarie, spesso intraprese per questioni di compenso professionale». Riguardano, quindi, casi particolari e non l'intera categoria (articolo ItaliaOggi del 19.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATABonus 65%, documenti doppi. Occorrono scheda informativa e asseverazione tecnica. Le risposte dell'Enea per usufruire della detrazione in caso di sostituzione di finestre.
Per usufruire della detrazione del 65% in caso di sostituzione di finestre per immobili adibiti a impresa o ad abitazione privata occorre l'asseverazione di un tecnico abilitato, corredata da una scheda informativa semplificata. L'asseverazione di un tecnico abilitato, deve specificare il valore della trasmittanza termica degli infissi dismessi (eventualmente stimandola in base alle caratteristiche del profilato e della tipologia del vetro) e di quelli nuovi.
La scheda informativa semplificata (o allegato F al «decreto edifici») va invece compilata a video, anche a cura dell'utente finale senza l'ausilio del tecnico, e va inviata all'Enea via web. Tutto questo si applica anche per le unità immobiliari a destinazione d'uso diversa da quella residenziale (aziende, uffici, attività commerciali e produttive) purché univocamente definite come singola unità.

Questa una delle risposte contenute nelle Faq Enea aggiornate al 30.04.2015.
Dal 2008 sono ammesse a detrazione anche le pompe di calore ad alta efficienza e gli impianti geotermici a bassa entalpia, purché questi rispondano ai requisiti prestazionali previsti dall'allegato I del «decreto edifici». Inoltre dal 2015 sono ammessi anche i generatori di calore a biomassa. Quindi, anche per le pompe di calore, gli impianti geotermici e le caldaie a biomassa, come per le caldaie a condensazione, è possibile trasmettere a Enea solo l'allegato E.
Nel caso invece di altri tipi di impianti termici, si può usufruire delle detrazioni fiscali, sempre che, al termine dei lavori, gli stessi assicurino un indice di prestazione energetica per la climatizzazione invernale non superiore a quanto tabellato nell'allegato A al dm 11/03/2008. In quest'ultimo caso, la documentazione da trasmettere a Enea non è stata semplificata nel tempo e rimane ancora costituita dall'allegato A e dall'allegato E.
- Comunicazione preventiva. Non occorre inviare alcuna comunicazione preventiva. La normativa vigente impone solamente che entro 90 giorni dal termine dei lavori debba essere trasmessa a Enea, per via telematica tramite l'applicativo raggiungibile dalla homepage del sito, cliccando sul link «invio», la documentazione costituita dall'attestato di qualificazione energetica e la scheda descrittiva degli interventi realizzati o in alcuni casi, una documentazione semplificata, costituita dal solo allegato E (nel caso di sostituzione di impianti termici con caldaie a condensazione, pompe di calore ad alta efficienza o impianti geotermici a bassa entalpia o di sostituzione di scaldacqua di tipo tradizionale con scaldacqua a pompa di calore o di sostituzione o nuova installazione di generatori di calore a biomassa, o dal solo allegato F (nel caso di sostituzione di infissi in singole unità immobiliari o di installazione di pannelli solari o di schermature solari).
Effettuata la trasmissione, in automatico ritorna al mittente da Enea una ricevuta informatica con il Cpid (codice personale identificativo), valida a tutti gli effetti come prova dell'avvenuto invio (articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIASostanze e rifiuti da rielencare. Riflessi per sicurezza sul lavoro e rischi ambientali. Dal 1° giugno diventano operative a livello nazionale le norme Ue sugli inquinanti.
Il 01.06.2015 entra a pieno regime l'operatività delle nuove norme comunitarie sulla classificazione di sostanze chimiche e rifiuti, che chiamerà imprese e operatori del settore ad aggiornare anche i propri adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro e prevenzione dei pericoli di incidenti industriali.

Saranno, infatti, direttamente applicabili sul territorio nazionale (in quanto provvedimenti di natura «self executing», dunque pure in assenza di un intervento di adeguazione del legislatore interno) i regolamenti europei 1272/2008, 1357/2014 e 1342/2014 nonché la decisione 2014/995 recanti, rispettivamente, la nuova disciplina su: classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele; attribuzione delle caratteristiche di pericolo ai rifiuti; gestione dei rifiuti contenenti inquinanti organici persistenti; elenco europeo dei rifiuti.
A cascata, le prescrizioni comunitarie imporranno un aggiornamento delle misure di prevenzione e protezione da adottare ex dlgs 81/2008 per i lavoratori esposti alle sostanze chimiche e una verifica delle soglie di rischio che fanno scattare la normativa Seveso per gli stabilimenti che le utilizzano.
Classificazione sostanze. A eccezione di quelle già immesse sul mercato e di quelle oggetto di specifica proroga al 2016 (ex regolamento 2015/491/Ue), dal 01.06.2015 classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele dovranno avvenire secondo i dettami del regolamento Ce 1272/2008 (c.d. disciplina «Clp», acronimo di classification, labelling and packaging).
Salve le citate eccezioni, il regolamento del 2008 sostituirà, infatti, pienamente dalla citata data le analoghe disposizioni dettate dalle direttive 67/548/Cee e 1999/45/Ce e integrerà quelle del regolamento Ce 1907/2006 su registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche (c.d. disciplina «Reach», acronimo di registration, evaluation, authorisation and restriction of chemicals).
Caratteristiche di pericolo rifiuti. Dal 01.06.2015 l'attribuzione ai rifiuti delle caratteristiche di pericolo dovrà essere effettuata in base al nuovo allegato III della direttiva 2008/98/Ce, riformulato dall'Ue mediante il regolamento Ue 1357/2014 per adeguare la normativa comunitaria al citato provvedimento del 2008.
Le novità coincidono con una riformulazione delle classi generali di pericolo (che passano da «H» ad «Hp»), il rimodellamento di alcune categorie e valori limite, la rivisitazione degli specifici criteri per l'attribuzione delle caratteristiche di rischio. In assenza di un intervento del legislatore nazionale, non si potrà dunque più far riferimento all'attuale allegato I alla Parte quarta del dlgs 152/2006, nel quale appaiono a oggi i criteri ereditati dalla precedente versione della direttiva 2008/98/Ce.
Elenco europeo dei rifiuti. Sempre dal 01.06.2015 il nuovo elenco cui fare riferimento per l'attribuzione ai rifiuti dei codici europei sarà quello dettato (sempre per ragioni di armonizzazione con il regolamento Ce 1272/2008) dalla decisione 2014/995/Ue in sostituzione di quello recato dalla decisione 2000/532/Ce. Il nuovo elenco fa, infatti, espresso riferimento al regolamento del 2008 sia per la classificazione delle sostanze pericolose che per le classi «Hp».
Ritoccati anche i codici dei rifiuti, con l'introduzione di nuove voci (la «010310*» relativa ad alcuni fanghi da attività estrattive, le «160307*» e «190308*» per il mercurio) e la riformulazione di altre («010309» e «190304*»). Anche in questo caso il prevalere delle norme Ue renderà obsolete, in caso d'inerzia del legislatore nazionale, le regole dell'attuale allegato «D» alla Parte quarta del dlgs 152/2006 che ospita l'elenco dei rifiuti tradotto dalla previgente decisione 2000/532/Ce.
Rifiuti con Pop. A incidere sulla classificazione dei rifiuti, in questo caso dal successivo 18.06.2015, sarà anche la diretta applicabilità del nuovo regolamento Ue 1342/2014 di rivisitazione del novero dei c.d. Pop (persistent organic pollutants, ossia inquinanti organici persistenti rilasciati da alcuni processi industriali e altamente nocivi per salute e ambiente) che ai sensi del regolamento Ce 850/2004 fanno scattare particolari oneri gestori per i rifiuti che li contengono.
Secondo la nuova decisione 2014/995/Ue devono senz'altro essere classificati come pericolosi i rifiuti contenenti dibenzo-p-diossine, dibenzofurani policlorurati, Ddt, clordano, esaclorocicloesani (compreso lindano), dieldrin, endrin, eptacloro, esaclorobenzene, clordecone, aldrin, pentaclorobenzene, mirex, toxafene esabromobifenile e/o pcb in quantità superiori ai limiti di concentrazione ex allegato IV del citato regolamento Ce 850/2004.
Sicurezza sul lavoro. Le nuove regole su classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze chimiche ex regolamento Ce 1272/2008 imporranno dal 01.06.2015 anche l'aggiornamento delle misure di prevenzione e protezione dei lavoratori. Come già anticipato dal MinLavoro con circolare 30.06.2011 n. 14877, ai sensi del dlgs 81/2008 dovranno essere riviste alla luce di tali novità valutazione dei rischi, informazione e formazione dei lavoratori, sorveglianza sanitaria e segnaletica di sicurezza in relazione alle sostanze chimiche pericolose, cancerogene e mutagene presenti nei luoghi di lavoro.
Disciplina Seveso. Anche in assenza dell'attesa riformulazione della disciplina sul controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con l'uso di determinate sostanze pericolose, dal 01.06.2015 il pieno regime del regolamento Ce 1272/2008 appare comunque produrre effetti sull'applicazione dell'attuale dlgs 334/1999, laddove nelle note del suo allegato I è indicato che le sostanze o i preparati non classificati come pericolosi ma rilevanti ai fini del rischio devono essere oggetto di «classificazione provvisoria» ai sensi della normativa Ue.
Entro la stessa data del 01.06.2015 (dead line stabilita dall'Ue) il legislatore nazionale dovrebbe comunque recepire la nuova direttiva Seveso rubricata come 2012/18/Ue, direttiva fondata proprio sulla nuova classificazione delle sostanze ex regolamento Ce 1272/2008.
In base allo schema di decreto legislativo in itinere (già licenziato in prima lettura dal governo lo scorso marzo) gli stabilimenti obbligati agli stringenti parametri di sicurezza Seveso saranno quelli che utilizzano determinate sostanze chimiche (ora categorizzate in base al regolamento del 2008) sopra determinate soglie e suddivisi in due categorie: stabilimenti «di soglia inferiore» (tenuti a notifica della propria posizione alle Autorità pubbliche e redazione del documento di politica di prevenzione, pedissequamente a quelli individuati dagli articoli 6 e 7 dell'attuale dlgs 334/1999); stabilimenti «di soglia superiore» (onerati anche dalla redazione del rapporto di sicurezza, come previsto dall'attuale articolo 8 del dlgs 334/1999).
Il tutto, a differenza però dell'uscente dlgs 334/1999, con la previsione della totale esenzione dagli obblighi Seveso che utilizzano le citate sostanze sotto i limiti previsti (c.d. impianti «sotto soglia») (articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Il nuovo Durc si prepara al debutto. La verifica verrà compiuta direttamente da parte dei destinatari della certificazione.
Adempimenti. Giovedì prossimo il ministero presenterà la procedura semplificata per il documento di regolarità contributiva.

La nuova procedura di rilascio online del documento unico di regolarità contributiva (Durc) «sarà presto attiva».
Ad annunciarlo è il ministero del Lavoro che giovedì prossimo presenterà ufficialmente le novità in una conferenza stampa.
Sembra dunque prossimo al completamento il percorso indicato dal decreto legge 34/2014 con cui è stata prevista una semplificazione per il rilascio del Durc. Un percorso che ha richiesto molto più tempo di quanto stabilito, dato che in base allo stesso Dl 34/2014 il ministero del Lavoro avrebbe dovuto emanare entro il 20 maggio dell’anno scorso un decreto attuativo.
Rispetto al sistema attualmente vigente, infatti, le linee guida a cui si dovrà conformare il provvedimento di regolamentazione prevedono la creazione di una piattaforma telematica attraverso la quale chiunque vi abbia interesse, compresa l’impresa stessa, potrà verificare in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’Inps, dell’Inail e delle Casse edili (per le imprese del relativo comparto).
In sostanza, l’interrogazione fornirà una sorta di visto che avrà validità di 120 giorni dalla data di acquisizione: questo impianto porterà, di fatto, a sostituire a ogni effetto il documento unico di regolarità contributiva, ovunque previsto, salvo specifiche ipotesi di esclusione, che verranno espressamente individuate dal decreto attuativo.
Finora è la singola azienda che ha necessità di utilizzare il Durc, perché per esempio gestisce un servizio in convenzione, a dover richiedere il documento e poi, una volta ricevuto, inviarlo al soggetto richiedente. In futuro, invece, dovrebbe essere direttamente il soggetto destinatario a effettuare la verifica accedendo al sistema online.
Il vantaggio maggiore consiste nel fatto che la nuova “certificazione” sarà praticamente a 360 gradi poiché -nelle ipotesi di godimento di benefici normativi e contributivi- il sistema dovrebbe individuare anche le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale e in materia di tutela delle condizioni di lavoro, da considerare ostative alla regolarità (articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006). Inoltre l’interrogazione assolverà all’obbligo di verificare la sussistenza del requisito di ordine generale previsto dall’articolo 38, comma 1, del codice degli appalti pubblici (Dlgs 163/2006).
In effetti la prossima attivazione del Durc online, però, suscita qualche perplessità presso i consulenti del lavoro. «Ancora oggi gli archivi Inps non sono perfettamente aderenti alle posizioni delle aziende e quindi capita che il sistema rilevi irregolarità anche quando non ci sono –osserva Vincenzo Silvestri, vicepresidente con delega ai rapporti con l’Inps del Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro–. Con la procedura attuale un datore di lavoro riceve una notifica e ha tempo per mettersi in regola. Nel momento in cui saranno le amministrazioni interessate a verificare direttamente la regolarità contributiva dei fornitori, tutto sarà affidato all’automatismo della procedura Durc online, con il rischio che le presunte anomalie che produrrà il sistema andranno a complicare sempre di più la vita delle aziende invitate a regolarizzare posizioni fantasma».
Per un efficace funzionamento della nuova procedura non solo sarà necessaria una puntuale interconnessione tra le banche date degli enti coinvolti ma occorrerà, altresì, che la stessa preveda il raccordo con la disciplina che attualmente regola il processo di rilascio del Durc, ad esempio in materia di preavviso di irregolarità. Dovrà, quindi, essere sempre esperibile –prima di dichiarare l’eventuale irregolarità- l’invito al soggetto inadempiente di “sistemare” la propria posizione nel termine di 15 giorni o di far valere la sussistenza di eventuali crediti da compensare.
Il completamento del percorso di semplificazione del Durc era stato sollecitato una decina di giorni fa dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. «Nei giorni scorsi -afferma il consigliere Vito Jacono- abbiamo presentato all’Inps una richiesta di chiarimenti sul Durc all’Inps, ma dall’istituto di previdenza ci hanno risposto che tutti i problemi erano stati risolti. Siamo in attesa di testare con mano questa innovazione»
(articolo IL Sole 24 Ore del 16.05.2015).

APPALTI: Appalti, così le centrali uniche. Illegittima la presenza, anche indiretta, di società private. L'Anci ha raccolto le ultime pronunce Anac. Ammessi gli enti con meno di 10 mila abitanti.
Nelle centrali di committenza è illegittima la presenza, seppur indiretta, di società private. È obbligatorio l'affidamento tramite centrale anche per le concessioni di costruzione e gestione (o di lavori pubblici). È possibile avvalersi delle stazioni uniche appaltanti anche da parte dei comuni con meno di 10.000 abitanti. Non è conforme a legge la richiesta a pena di esclusione del pagamento di un corrispettivo all'aggiudicatario del contratto.

Sono questi alcuni dei principali orientamenti espressi negli ultimi mesi dall'Autorità nazionale anticorruzione in tema di centrali di committenza che l'Anci ha raccolto in un documento messo a disposizione di tutti i comuni.
 L'obiettivo è quello di orientarsi su come l'organismo di vigilanza presieduto da Raffaele Cantone interpreta alcuni profili applicativi dell'art. 33, comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici sull'obbligo di ricorso alle centrali di committenza e alle altre forme di aggregazione della domanda.
La sintesi ha come riferimento anche il recente documento di consultazione predisposto il 29 aprile dall'Anac che, si ricorda, gestisce l'elenco delle centrali di committenza (aperto a città metropolitane e unioni o consorzi di comuni che, negli ultimi tre anni hanno avviato appalti per almeno 260 mln di euro, con un minimo di 50 mila euro l'anno). A tale riguardo la sintesi Anci sottolinea il fatto che nel documento che sarà in consultazione fino a fine mese si chiarisce che le società «in house» partecipate/controllate da enti locali sono anche esse assoggettate all'obbligo di ricorso alle centrali di committenza se affidano a terzi contratti di lavori, forniture e servizi.
Venendo però ai veri e propri provvedimenti dell'Autorità, l'Anci prende le mosse dalla determina Anac n. 3/2015 nella quale innanzitutto si precisa che formalmente sia le Sua (Stazioni uniche appaltanti), sia i «soggetti aggregatori» altro non sono che centrali di committenza che, dal punto di vista operativo, si caratterizzano come organizzazione «a rete» (con l'ulteriore precisazione che della Sua possono avvalersi anche i comuni con popolazione inferiore ai 10 mila abitanti).
Dal punto di vista dell'ambito di applicazione oggettivo, l'Anci mette in evidenza anche il passaggio della determina n. 3 in cui l'Anac afferma l'esclusione dei servizi sanitari, ricreativi, legali, di investigazione, di trasporto e alberghieri, dall'obbligo di affidamento tramite centrale di committenza di cui all'art. 33, comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici. Diversamente l'obbligo esiste per le concessioni di costruzione e gestione. L'Anac, ricorda sempre l'Anci, ha inoltre stabilito che nell'ambito di una Unione dei comuni già costituita non esiste la necessità di costituire una centrale unica di committenza e che i comuni che hanno aderito a una centrale di committenza non sono obbligati a far parte di uno stesso ambito provinciale ma possono quindi appartenere anche a più province.
Molto articolato è poi il riferimento al profilo del pagamento del corrispettivo per le prestazioni svolte dalle centrali di committenza, che è stato oggetto di una segnalazione a governo e parlamento in quanto materia da chiarire e sulla quale intervenire per presunte illegittimità rilevate dall'Anac.
In sostanza l'Autorità ha ritenuto che non possa essere previsto negli atti di gara, a pena esclusione (ma in violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione), l'obbligo di pagamento di un corrispettivo da parte dell'aggiudicatario del contratto.
Per l'Anac manca infatti una norma che abiliti una stazione appaltante a richiedere il pagamento di una commissione agli aggiudicatari delle proprie gare di appalti (anche se ciò è previsto per l'uso del sistema informatico di negoziazione del Mef in Asp (Application service provider) e per Consip). Eventualmente, dice l'Anac, il rimborso dovrebbe essere comunque determinato in maniera fissa e non variabile in funzione del prezzo offerto in sede di gara (ribasso) (articolo ItaliaOggi del 15.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Procura Lecce. Ai vigili i controlli edilizi.
Nessuna interferenza dei tecnici comunali con le indagini penali in materia edilizia. Qualsiasi determinazione nella delicata materia spetta solo alla polizia municipale che deve riferire direttamente all'autorità giudiziaria. E in caso di negligenza sono guai grossi per i primi cittadini.

Lo ha messo nero su bianco la Procura di Lecce con la nota 05.05.2015 n. 3287/15 di prot..
Nell'ambito dei controlli urbanistici non appare sempre chiaro il ruolo e la qualifica dei tecnici comunali. A parere della procura di Lecce non ci sono dubbi. Gli operatori degli uffici tecnici, pur se qualificati e senz'altro coinvolti nei controlli e nelle verifiche edilizie, sono dei pubblici ufficiali e non hanno alcuna qualifica di polizia giudiziaria.
La questione è esplosa nel territorio pugliese a seguito di un sequestro preventivo penale effettuato, senza titolo, da un tecnico comunale. La procura ha quindi ritenuto di chiarire definitivamente i ruoli e le qualifiche di tutti i soggetti coinvolti nelle attività di vigilanza locale. Tutto il personale tecnico comunale non può avere alcuna qualifica di polizia giudiziaria e deve limitarsi a effettuare attività amministrativa. Spetta solo ai vigili urbani intervenire con le rispettive qualifiche di agente o ufficiale di polizia giudiziaria nell'ambito di un controllo per un abuso edilizio. I tecnici possono essere nominati ausiliari di pg ma non possono interferire con le pratiche penali.
La normativa a parere della procura è molto chiara. Sia il dpr 380/2001 che la legge 64/1974 non attribuiscono alcuna qualifica di polizia giudiziaria agli organi tecnici dei comuni. I sindaci a loro volta, prosegue la nota, non possono attribuire la qualifica di comandante della polizia municipale (e quindi indirettamente le relative funzioni di polizia giudiziaria) a soggetti diversi dagli operatori di vigilanza.
Nella provincia di Lecce, prosegue la circolare, un comandante è stato infatti sostituito con un architetto, funzionario dell'ufficio tecnico comunale. Questa pratica deve immediatamente essere segnalata alla procura come ogni altra indebita intromissione nell'attività di polizia (articolo ItaliaOggi del 15.05.2015).

ENTI LOCALIMini-enti, Dup semplice. Piccoli comuni liberi sulla programmazione. Primo restyling per l'ordinamento contabile delle autonomie locali.
Dup semplificato (ma non troppo) per i piccoli comuni.

È una delle novità contenute nel primo decreto correttivo al nuovo ordinamento contabile degli enti territoriali (dlgs 118/2011) licenziato dall'apposita commissione ministeriale e al momento consultabile sul sito Arconet.
Il Dup (Documento unico di programmazione) è disciplinato dal principio contabile applicato sulla programmazione (allegato 4/1 del dlgs 118), che lo definisce come «il presupposto necessario di tutti gli altri documenti di programmazione», facendone, quindi, il cardine dell'intera architettura contabile dell'ente locale. Il Dup si compone di due sezioni: da un lato, la sezione strategica, che ha un orizzonte temporale di riferimento pari a quello del mandato amministrativo ed è chiamata a individuare, in coerenza con il quadro normativo di riferimento, gli indirizzi di policy dell'ente; dall'altro lato, la sezione operativa, che contiene la programmazione operativa riferita ad un arco temporale pari a quello del bilancio di previsione (triennale).
L'art. 170, comma 6, del Tuel prevede che gli enti locali con popolazione fino a 5.000 abitanti presentino un Dup semplificato secondo le modalità indicate nel principio applicato, ma quest'ultimo prevede al momento una semplificazione estremamente limitata. In pratica, viene solo alleggerita la sezione strategica (che può limitarsi a declinare «gli indirizzi generali di natura strategica relativi alle risorse e agli impieghi e sostenibilità economico finanziaria attuale e prospettica» e le correlate risorse umane), ma per il resto il documento presenta la stessa struttura imposta per gli enti maggiori.
Con le modifiche introdotte dalla commissione, invece, viene inserito un nuovo paragrafo ad hoc (il n. 8.4) dedicato specificamente al Dup semplificato. Esso lascia maggiore libertà agli enti di minori dimensioni demografiche (principalmente comuni, ma anche unioni) nella costruzione del documento, abbandonando la divisione in sezioni.
Tuttavia, i contenuti minimi richiesti non cambiano di molto: occorre infatti individuare le principali scelte che caratterizzano il programma dell'amministrazione da realizzare nel corso del mandato amministrativo e gli indirizzi generali di programmazione riferiti a tale periodo, in coerenza con il quadro normativo di riferimento e con gli obiettivi generali di finanza pubblica e tenendo conto della situazione socio-economica del proprio territorio.
Anzi, il Dup si arricchisce dell'analisi delle modalità di organizzazione e gestione dei servizi pubblici ai cittadini (tenuto conto dei fabbisogni e dei costi standard e del ruolo degli eventuali organismi, enti strumentali e società controllate e partecipate) e della verifica sulla coerenza e compatibilità della gestione presente e futura con le disposizioni del patto di stabilità interno e con i vincoli di finanza pubblica.
Ricordiamo che, per tutti gli enti locali che non hanno partecipato alla sperimentazione, il primo Dup riguarderà gli esercizi 2016 e successivi (per quest'anno, invece, rimane la vecchia relazione previsionale e programmatica) e dovrà essere predisposto dalla giunta e presentato al consiglio entro il prossimo 31 luglio (articolo ItaliaOggi del 15.05.2015).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOMobbing, il datore risponde per colpa. Per la Cassazione è responsabile nel caso di inerzia rispetto a comportamenti noti.
Contenzioso. Risarcimento dei danni a carico dell’azienda anche se le iniziative vessatorie sono opera di un superiore gerarchico.
La circostanza che le iniziative vessatorie riconducibili al mobbing siano state compiute da un dipendente in posizione di superiorità gerarchica rispetto alla vittima non costituisce una situazione idonea ad escludere la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2049 del codice civile, ove quest’ultimo sia rimasto colpevolmente inerte rispetto alla reiterazione del comportamento illecito.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, afferma questo principio con la sentenza 15.05.2015 n. 10037, nella quale si ricollega il coinvolgimento datoriale per i danni arrecati da fatto illecito dei propri dipendenti ad una forma di responsabilità per colpa riconducibile al fatto che non erano state adottate misure volte ad eliminare il compimento delle iniziative vessatorie.
La Corte rimarca che la durata e la reiterazione delle azioni persecutorie, unitamente alle modalità attraverso cui il responsabile gerarchico aveva posto in essere la condotta mobbizzante, erano tali da far ritenere che il datore di lavoro fosse a conoscenza delle iniziative ostili a cui era sottoposta la vittima. Da tale assunto deriva, per la Cassazione, che il datore di lavoro risulta responsabile per essere rimasto inerte a fronte del compimento dei fatti lesivi e che, pertanto, allo stesso sia direttamente ascrivibile, in aggiunta al soggetto aggressore, la condanna per il risarcimento dei danni sul piano psico-fisico sopportati dal dipendente/vittima.
La Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi sul caso di una dipendente di un ente comunale, esposta alla sottrazione delle proprie mansioni, all’ingiustificato spostamento presso un ufficio aperto al pubblico, alla diretta subordinazione ad un funzionario prima a lei sottoposto e ad una più generale emarginazione dal contesto lavorativo ed ambientale, con riflessi di cocente umiliazione per la dipendente. A causa delle iniziative vessatorie subite, la dipendente del Comune era rimasta vittima, tra gli altri effetti, di una psicosi paranoide di cui non aveva mai sofferto in passato.
Nella sentenza 10037/2015 viene riconosciuto che sussistono i tipici elementi che contraddistinguono e caratterizzano il “mobbing”, individuati dalla Suprema corte nei parametri costituiti dall’instaurazione di un ambiente ostile, dalla durata protratta nel tempo delle azioni vessatorie e dalla loro frequente ripetizione, dalla presenza di un intento persecutorio e dalla subordinazione gerarchica della vittima all’aggressore. La Cassazione ha attribuito, inoltre, rilievo alla dequalificazione professionale subita dalla dipendente del Comune non in quanto condotta passibile di autonoma risarcibilità, ma in quanto elemento teso a confermare la sottoposizione della vittima ad una più complessiva volontà mobbizzante dell'aggressore.
Sulla scorta di queste valutazioni, la Cassazione ha confermato la sentenza resa dalla Corte d’appello de L’Aquila, che aveva esteso all’ente comunale, in qualità di datore di lavoro, il risarcimento dei danni sopportati dalla dipendente.
È interessante rimarcare come la Cassazione pervenga a queste conclusioni facendo applicazione dell’articolo 2049 del codice civile, laddove tale disposizione viene generalmente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che la responsabilità datoriale per i danni arrecati dal fatto illecito dei dipendenti possa essere esclusa solo in assenza di un nesso di occasionalità necessaria tra il fatto illecito e le mansioni del dipendente aggressore.
L’unico limite alla risarcibilità del danno a carico del datore di lavoro, in forza di tale indirizzo giurisprudenziale, risiede nel fatto che la condotta persecutoria sia totalmente svincolata dal rapporto di lavoro e dalle mansioni del soggetto aggressore. Tale prospettazione risulta abbandonata dalla sentenza in esame, che ricollega, invece, la responsabilità datoriale alla presenza di una colpevole inerzia per non aver rimosso il fatto lesivo
(articolo IL Sole 24 Ore del 20.05.2015).

EDILIZIA PRIVATAIn via generale, più volte questo Consiglio di Stato ha puntualizzato che, al fine di individuare se un manufatto sia o meno interrato va fatto riferimento al livello naturale del terreno.
Sul punto, è poi appena il caso di osservare che non spetta al verificatore, ma solo al giudice, trarre dal risultato dell’accertamento le conclusioni in ordine all’individuazione e all’interpretazione del parametro normativo e alla sua applicazione alla specifica fattispecie.

La questione chiave della controversia in esame è rappresentata dalla definizione di “piano interrato”, alla luce della normativa edilizia vigente nel Comune di Folignano e dei concetti generali, poiché dalla considerazione del solaio come interrato o meno deriva la conformità, o meno, del manufatti ai parametri urbanistici.
Occorre quindi ricordare che all’art. 13, comma 1, lettera u), del locale regolamento edilizio, approvato dalla regione Marche il 28.09.1992, definisce piano interrato “il piano sito al piede dell’edificio quando le pareti perimetrali sono completamente comprese entro la linea di terra, salvo le porzioni strettamente necessarie per bocche di lupo, accessi, carrabili e pedonali, purché realizzati in trincea rispetto alla linea di terra”.
A sua volta, la definizione di linea di terra è contenuta nel medesimo art. 13, alla lettera m: “la linea di terra è definita dall’intersezione della parete prospetto con il piano stradale o il piano del marciapiede o il piano del terreno a sistemazione definitiva”.
Ne consegue, secondo il Tribunale amministrativo, che è comunque possibile utilizzare come parametro il terreno a sistemazione definitiva: quindi, come ha osservato il verificatore, il piano in questione è qualificabile come interrato ai sensi del regolamento edilizio.
Tale ricostruzione non può essere condivisa, innanzitutto perché, come è evidente, àncora la definizione rilevante (e le importanti conseguenze in termini di controllo dell’attività edilizia) ad una circostanza che è nella piena disponibilità dell’interessato modificare. Se la linea di terra può essere quella derivante dalla sistemazione del terreno, è infatti palese che rientra nella facoltà di chi vuole costruire innalzarne la quota mediante riempimenti del terreno, e usufruire quindi dei più favorevoli parametri, in termini di altezza, di cubatura, distanza dal confine, di volumetria e di standards validi per le costruzioni interrate.
Questa conclusione manifesta l’illogicità delle premesse: occorre quindi interpretare la definizione di cui al rammentato art. 13 in termini che ne consentano la riconduzione al sistema, operazione che postula la considerazione del “piano del terreno a sistemazione definitiva” negli stessi termini “piano stradale” e del “piano del marciapiede”.
Tutti tali elementi, in altre parole, per essere considerati quali validi parametri per l’attività edilizia, devono preesistere alla realizzazione dell’opera considerata, dovendone regolare ex ante le caratteristiche ammissibili: se ciò è evidente per il piano stradale e per il marciapiede, anche la sistemazione definitiva deve essere quella esistente prima dell’attività costruttiva, e indipendente dalla stessa.
In altre parole, la sistemazione definitiva da assumere a parametro secondo l’art. 13 lettera m non può essere quella realizzata mediante riempimento del terreno da parte del costruttore, come è avvenuto nel caso di specie, secondo quanto si legge nella relazione della verificazione al quale il primo giudice aveva affidato la descrizione dello stato dei luoghi: “se si dovesse ritenere che la linea di terra è rappresentata dalla originaria morfologia del terreno, si dovrebbe conseguentemente affermare che porzioni delle murature perimetrali del piano si trovino fuori delle linea originaria del terreno…rendendo conseguentemente tale livello un piano seminterrato”, mentre solo “se si dovesse ritenere che la linea di terra è rappresentata dalla morfologia del terreno modificata a seguito dell’attività progettuale si dovrebbe affermare che il piano è interamente delimitato da cavedi interrati” (pagina 13).
La presenza di terrapieni artificiali è poi evidenziata (pagine 15 e 16 della relazione) come “particolarmente evidente” sui lati nord ed est dell’edificio.
Da tale descrizione emerge che del tutto erroneamente il Comune, prima, e il Tribunale amministrativo, poi, hanno considerato il manufatto come interrato, utilizzando la linea di terra come modificata dallo stesso costruttore.
Del resto, in via generale, più volte questo Consiglio di Stato ha puntualizzato che, al fine di individuare se un manufatto sia o meno interrato va fatto riferimento al livello naturale del terreno (cfr. sez. V, 06.12.2010, n. 8547).
Sul punto, è poi appena il caso di osservare che non spetta al verificatore, ma solo al giudice, trarre dal risultato dell’accertamento le conclusioni in ordine all’individuazione e all’interpretazione del parametro normativo e alla sua applicazione alla specifica fattispecie; così come alla tesi delle parti resistenti secondo cui la sistemazione del terreno è stata necessaria per ovviare alla particolare conformazione del luogo, particolarmente acclive, è agevole osservare che dall’ammissibilità della sistemazione non può derivare l’applicazione di misure applicative relative a particolari e diverse definizioni edilizie (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.05.2015 n. 2477 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa, pur evidenziando la preminenza della tutela paesaggistica nella valutazione dei contrapposti interessi che vengono in gioco nel governo del territorio, non ha tuttavia mancato di conferire rilevanza al profilo della concreta compromissione dei luoghi, nel senso di escludere che le competenti autorità possano limitarsi ad una aprioristica negazione della legittimità di qualsiasi intervento sul territorio senza valutare, soprattutto per i c.d. abusi edilizi minori, la ricorrenza di un reale pregiudizio al paesaggio.
In particolare, si è ritenuto che il provvedimento amministrativo che neghi all’interessato il rilascio di un’autorizzazione paesaggistica deve rendere intelligibili le ragioni del ritenuto contrasto dell'opera con il paesaggio circostante, così da consentire, se del caso, l'adozione di eventuali accorgimenti volti a consentire il recupero della compatibilità ambientale e paesaggistica.
Più in generale, si è posto l’accento sul dovere di motivazione dell’autorità procedente che, vieppiù con riguardo ad opere di modesto impatto visivo, deve evidenziare con chiarezza i profili del ritenuto contrasto con gli interessi paesaggistici.
Ciò, del resto, è in linea con l’evoluzione normativa: se originariamente l’art. 146, comma 10, lett. c, del d.lgs. n. 42 del 2004 in nessuna ipotesi consentiva il rilascio in sanatoria dell’autorizzazione paesaggistica successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, a seguito del primo correttivo introdotto con il d.lgs. n. 157 del 2006 (poi ulteriormente modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008) è adesso possibile la sanatoria paesaggistica, anche successivamente alla realizzazione degli interventi, nelle ipotesi di cui al (nuovo) art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, ossia anche per l’ipotesi in cui si tratti di intervento di modeste dimensioni che non incida sulle superfici o sui volumi.

4. Il ricorso è fondato solo in parte, con riguardo all’impugnazione della sola determinazione (la n. 3, del 15.10.2013) con la quale è stata ordinata la demolizione dei manufatti per motivi di tutela ambientale.
La giurisprudenza amministrativa, pur evidenziando la preminenza della tutela paesaggistica nella valutazione dei contrapposti interessi che vengono in gioco nel governo del territorio, non ha tuttavia mancato di conferire rilevanza al profilo della concreta compromissione dei luoghi, nel senso di escludere che le competenti autorità possano limitarsi ad una aprioristica negazione della legittimità di qualsiasi intervento sul territorio senza valutare, soprattutto per i c.d. abusi edilizi minori, la ricorrenza di un reale pregiudizio al paesaggio (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1117 del 2013; TAR Campania, Salerno, sez. I, sent. n. 624 del 2014).
In particolare, si è ritenuto che il provvedimento amministrativo che neghi all’interessato il rilascio di un’autorizzazione paesaggistica deve rendere intelligibili le ragioni del ritenuto contrasto dell'opera con il paesaggio circostante, così da consentire, se del caso, l'adozione di eventuali accorgimenti volti a consentire il recupero della compatibilità ambientale e paesaggistica (cfr., ex multis, TAR Campania, Salerno, sez. I, sent. n. 1236 del 2012).
Più in generale, si è posto l’accento sul dovere di motivazione dell’autorità procedente che, vieppiù con riguardo ad opere di modesto impatto visivo, deve evidenziare con chiarezza i profili del ritenuto contrasto con gli interessi paesaggistici (si vd., ad esempio, TAR Lombardia, Brescia, sez. II, sent. n. 530 del 2011, con riferimento ad una recinzione; TAR Sardegna, sez. II, sent. n. 241 del 2014, con riferimento ad una modesta tettoia).
Ciò, del resto, è in linea con l’evoluzione normativa: se originariamente l’art. 146, comma 10, lett. c, del d.lgs. n. 42 del 2004 in nessuna ipotesi consentiva il rilascio in sanatoria dell’autorizzazione paesaggistica successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, a seguito del primo correttivo introdotto con il d.lgs. n. 157 del 2006 (poi ulteriormente modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008) è adesso possibile la sanatoria paesaggistica, anche successivamente alla realizzazione degli interventi, nelle ipotesi di cui al (nuovo) art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, ossia anche per l’ipotesi in cui si tratti di intervento di modeste dimensioni che non incida sulle superfici o sui volumi.
L’impugnata ordinanza di demolizione non si mostra in linea con le coordinate appena tracciate. Essa infatti, nel sanzionare la realizzazione di manufatti di scarsa rilevanza edilizia, non ha indicato le ragioni per le quali si rinveniva, nella specie, la compromissione del paesaggio o dell’ambiente, limitandosi a ritenere integrato, in modo del tutto apodittico, un illecito paesaggistico-ambientale.
Significativa, nella sua assoluta carenza di motivazione, è invero la lapidaria affermazione (che si legge nella determinazione n. 3) secondo cui “gli interventi di che trattasi non possono beneficiare della compatibilità paesaggistica di cui all’art. 167, comma 4, del D.Lgs. 42/2004 e s.m.i.”, senza che si spieghi in base a quali elementi di fatto si sia giunti a siffatta conclusione.
Le opere contestate, invero, come si evince dalle fotografie depositate in giudizio, sono assolutamente modeste e di scarso impatto visivo, trattandosi di manufatti costruiti esclusivamente all’interno della proprietà dei ricorrenti (e difficilmente visibili dall’esterno, come attendibilmente sostenuto dai ricorrenti, senza che dagli atti, neppure dal verbale di sopralluogo compiuto dai tecnici comunali, emergano evidenze contrarie), facilmente amovibili, non in grado di incidere sulle superfici o sui volumi esistenti (ciò, anche con riferimento a quello che l’amministrazione ha denominato “basso fabbricato” il quale, però, è in realtà assimilabile ad un pergolato, pur se realizzato in struttura non leggera ed ancorato al suolo: cfr. fotografie nn. 3 e 4 dei ricorrenti) ed aventi dimensioni di scarso rilievo (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 15.05.2015 n. 841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' vero che ai sensi dell’art. 4 del d.m. 26.09.1997 l’applicazione dell’indennità risarcitoria è obbligatoria anche se dalla predetta valutazione emerga che il parametro danno sia pari a zero, ma ciò non toglie che la sanzione, ai sensi dell’art. 167, comma 5, è stabilita in un importo equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione.
La giurisprudenza, al riguardo, ha in più occasioni affermato che il computo del quantum della sanzione amministrativa in relazione al “profitto conseguito”, a differenza di quello effettuato sulla base del “danno ambientale”, deve avvenire mediante una disamina compiuta ed esaustiva della documentazione che si profili utile al fine di ricostruire il vantaggio economico che il trasgressore ha tratto dall’illecito commesso (da acquisire eventualmente anche presso quest’ultimo), ossia avvalendosi di elementi oggettivi di valutazione, di modo che la quantificazione operata possa essere oggetto di una dimostrazione articolata ed analitica.
Il profitto conseguito non può essere presunto, in quanto va identificato nell’incremento del valore venale che gli immobili acquistano per effetto della trasgressione, incremento che viene determinato come differenza tra il valore attuale ed il valore dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere abusive.
Detto in altre termini, il meccanismo di quantificazione del profitto enucleato dall’art. 3 del d.m. 26.09.1997 ovviamente non prescinde dalla dimostrazione dell’esistenza di tale arricchimento ottenuto con la realizzazione dell’abuso, come bene dimostra anche il ricorso allo strumento della perizia di stima al fine della determinazione della sanzione pecuniaria, perizia che, nella vicenda controversa, non risulta essere intervenuta.
---------------
L’indennità di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 ha carattere restitutorio e non meramente afflittivo, come si desume dalla sua alternatività rispetto alla demolizione, e dal fatto che l’art. 167, comma 6, stabilisce che le somme riscosse «sono utilizzate per finalità di salvaguardia, nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e di riqualificazione degli immobili e delle aree degradati».
Tale natura della sanzione in esame la distingue dalle altre sanzioni pecuniarie, con diversa finalità punitiva, e preclude l’applicazione di talune delle disposizioni di cui alla legge n. 689 del 1981, tra cui, appunto, quella sul cumulo giuridico, presupponente peraltro un’unica azione od omissione, non postulabile, peraltro, in forza della sola affermazione dell’unicità della lottizzazione.
---------------
E’ assolutamente prevalente la giurisprudenza secondo cui la prescrizione della sanzione ex art. 167 dlgs 42/2004 comincia a decorrere dalla cessazione della situazione di illiceità (e dunque dal giorno del conseguimento dell’autorizzazione, anche in via di sanatoria, nel caso di specie risalente al giugno 2010), sicché l’indennità de qua, riguardando illeciti permanentemente rilevanti, può essere irrogata anche a distanza di tempo e senza la necessità di motivazione in ordine al ritardo dell’esercizio del potere.

3. - Con il secondo motivo si deduce poi che i provvedimenti gravati non hanno quantificato il profitto conseguito dal proprietario per la realizzazione dell’opera abusiva, peraltro inesistente, senza neppure effettuare la perizia di stima.
Il motivo appare meritevole di positiva valutazione, nei termini che seguono.
Si evince dai provvedimenti impugnati che le opere abusive non hanno prodotto un danno ambientale, mentre è affermato il conseguimento di un profitto, senza peraltro darne alcuna indicazione e, tanto meno, motivazione.
Ora, è vero che ai sensi dell’art. 4 del d.m. 26.09.1997 l’applicazione dell’indennità risarcitoria è obbligatoria anche se dalla predetta valutazione emerga che il parametro danno sia pari a zero (in termini anche TAR Umbria, 28.02.2013, n. 126), ma ciò non toglie che la sanzione, ai sensi dell’art. 167, comma 5, è stabilita in un importo equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione.
Parte ricorrente allega che profitto non vi sia stato, in quanto le modifiche apportate rispetto agli originari atti abilitativi hanno riguardato opere interne, la cui realizzazione non produce un incremento di valore degli immobili.
Anche tale assunto, evidentemente, non ha un valore assoluto, ma ciò che inequivocabilmente difetta nei provvedimenti gravati è la motivazione/giustificazione in ordine al profitto conseguito, che non può evidentemente essere presunto, od affermato in modo indimostrato.
La giurisprudenza, al riguardo, ha in più occasioni affermato che il computo del quantum della sanzione amministrativa in relazione al “profitto conseguito”, a differenza di quello effettuato sulla base del “danno ambientale”, deve avvenire mediante una disamina compiuta ed esaustiva della documentazione che si profili utile al fine di ricostruire il vantaggio economico che il trasgressore ha tratto dall’illecito commesso (da acquisire eventualmente anche presso quest’ultimo), ossia avvalendosi di elementi oggettivi di valutazione, di modo che la quantificazione operata possa essere oggetto di una dimostrazione articolata ed analitica (in termini TAR Lazio, I-quater, 13.02.2009, n. 1450).
Il profitto conseguito non può essere presunto, in quanto va identificato nell’incremento del valore venale che gli immobili acquistano per effetto della trasgressione, incremento che viene determinato come differenza tra il valore attuale ed il valore dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere abusive (TAR Toscana, Sez. III, 16.04.2012, n. 724). Detto in altre termini, il meccanismo di quantificazione del profitto enucleato dall’art. 3 del d.m. 26.09.1997 ovviamente non prescinde dalla dimostrazione dell’esistenza di tale arricchimento ottenuto con la realizzazione dell’abuso, come bene dimostra anche il ricorso allo strumento della perizia di stima al fine della determinazione della sanzione pecuniaria, perizia che, nella vicenda controversa, non risulta essere intervenuta.
Ne consegue che i provvedimenti impugnati risultano illegittimi in quanto inficiati dai denunciati vizi di difetto di motivazione e di istruttoria.
4. - Per completezza, si procede, in sintesi, alla disamina delle restanti censure.
In particolare, con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 8 della legge n. 689 del 1981, nell’assunto che l’unitarietà delle condotte contestate, interessanti un’unica lottizzazione, avrebbe dovuto indurre all’applicazione del più favorevole trattamento del cumulo giuridico delle sanzioni.
Il motivo non appare persuasivo, in quanto l’indennità di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 ha carattere restitutorio e non meramente afflittivo, come si desume dalla sua alternatività rispetto alla demolizione, e dal fatto che l’art. 167, comma 6, stabilisce che le somme riscosse «sono utilizzate per finalità di salvaguardia, nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e di riqualificazione degli immobili e delle aree degradati». Tale natura della sanzione in esame la distingue dalle altre sanzioni pecuniarie, con diversa finalità punitiva, e preclude l’applicazione di talune delle disposizioni di cui alla legge n. 689 del 1981, tra cui, appunto, quella sul cumulo giuridico, presupponente peraltro un’unica azione od omissione, non postulabile, peraltro, in forza della sola affermazione dell’unicità della lottizzazione.
5. - Deve essere infine disatteso anche l’ultimo mezzo, con cui si deduce, in via di mero tuziorismo, la prescrizione quinquennale della sanzione ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del 1981, invocando un precedente del TAR Campania, che la farebbe decorrere dal momento dell’accertamento dell’illecito.
E’ invero assolutamente prevalente la giurisprudenza, anche di questo Tribunale Amministrativo (TAR Umbria, 31.03.2011, n. 97), secondo cui la prescrizione comincia a decorrere dalla cessazione della situazione di illiceità (e dunque dal giorno del conseguimento dell’autorizzazione, anche in via di sanatoria, nel caso di specie risalente al giugno 2010), sicché l’indennità prevista dall’art. 167, riguardando illeciti permanentemente rilevanti, può essere irrogata anche a distanza di tempo e senza la necessità di motivazione in ordine al ritardo dell’esercizio del potere (in termini anche Cons. Stato, Sez. I, 31.03.2011, n. 97) (TAR Umbria, sentenza 15.05.2015 n. 213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Pa, l’impresa va informata degli ostacoli al contratto. Appalti. Enti con responsabilità precontrattuale piena.
La Pubblica amministrazione deve tenere un comportamento corretto in tutte le fasi della procedura pubblica che portano al consenso contrattuale e informare il contraente privato delle circostanze che potrebbero determinare l’invalidità o l’inefficacia del contratto. Se non avviene la responsabilità precontrattuale è dell’ente pubblico.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. I civile, nella sentenza 12.05.2015 n. 9636.
La vicenda che ha dato modo di precisare la portata applicativa degli articoli 1337 e 1338 del Codice civile quando uno dei contraenti è una Pa ha visto contrapporsi una società di costruzioni e il vecchio ministero dei Lavori pubblici (oggi accorpato a quello dei Trasporti) che, in seguito a licitazione privata, avevano stipulato un contratto di appalto per la costruzione per opere nella laguna di Venezia e sul naviglio Brenta.
Il ministero aveva proceduto alla consegna immediata dei lavori per ragioni di urgenza, salvo sospenderli dopo 17 mesi per il no della Corte dei conti alla registrazione, rendendo il contratto inefficace. I giudici accogliendo il ricorso dell’impresa hanno affermato la responsabilità precontrattuale dell'ente pubblico sottolineando che a questi fini è rilevante la «correttezza del comportamento complessivamente tenuto» in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica che «si pongono quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale».
E in questo contesto, la consegna dei lavori d’urgenza per un’opera poi divenuta ineseguibile avrebbe ingenerato nell’impresa «un ragionevole affidamento in ordine alla regolare esecuzione», mentre il ministero avrebbe dovuto informare il contraente privato della possibilità che i giudici contabili negassero la registrazione, e su eventuali altre incognite per quali il contratto poteva non andare a buon fine
(articolo IL Sole 24 Ore del 13.05.2015).

PATRIMONIO: Incidenti, se manca guard-rail paga il gestore della strada. Sentenza della Cassazione potrebbe pesare sui bilanci dei comuni.
Le casse dei gestori delle strade, in particolare quelle delle amministrazioni locali, potrebbero essere messe a rischio da una recente pronuncia della Corte di Cassazione.

Nella sentenza 12.05.2015 n. 9547, la III Sez. civile ha stabilito la responsabilità di un comune per le conseguenze di un incidente che ha visto finire fuori strada un autobus in un punto privo di guard-rail. Nel rimettere la causa alla Corte di Appello competente, il supremo organo giurisdizionale ha evidenziato la necessità di una consulenza tecnica che stabilisca se la presenza di adeguate protezioni avrebbe potuto attutire le conseguenze del fatto funesto. In questo caso, l'assenza o l'inadeguatezza del guard-rail, può essere il presupposto per una richiesta di risarcimento danni.
Nelle motivazioni della sentenza, poi, la Corte di Cassazione ha sottolineato come la possibilità che un veicolo esca di strada lungo un tratto pericoloso debba essere tenuta in considerazione dal gestore dell'arteria, indipendentemente dal atto che questa evenienza si verifichi per un'infrazione al Codice da parte del conducente. In tali casi, l'assenza o l'inadeguatezza del guard-rail, può essere considerata motivo di responsabilità civile ed essere così il presupposto per una richiesta di risarcimento danni, anche, appunto, in presenza di concorso di colpa di chi si trovava alla guida o di altri soggetti coinvolti.
Infatti, l'attuale dettato normativo e la giurisprudenza impongono proprio al custode della strada di provvedere all'installazione e alla manutenzione della segnaletica e delle pertinenze previste da leggi e regolamenti tecnici, comprese le protezioni quali i guard-rail o i "new jersey"
(commento tratto da www.ansa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' necessaria la preventiva acquisizione del permesso di costruire per la realizzazione di un muro di recinzione allorquando, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare, come nel caso di specie sia per dimensioni che per materiali impiegati (muro alto 1,10 m. con sovrastante ringhiera in metallo di metri 0,80), l'assetto urbanistico del territorio, rientrando nel novero degli interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Per quel che concerne, infine, le opere di cui al punto 3, il Collegio non può che riaffermare, tenuto conto della consistenza dell’opere di recinzione (muro alto 1,10 m. con sovrastante ringhiera in metallo di metri 0,80) la necessaria preventiva acquisizione del permesso di costruire, tenuto conto che la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire allorquando, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare, come nel caso di specie sia per dimensioni che per materiali impiegati, l'assetto urbanistico del territorio, rientrando nel novero degli interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 12.05.2015 n. 6886 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la posa in opera di un cancello in ferro in sostituzione di un pregresso cancello in materiale ligneo:
- non comporta trasformazione urbanistica ed edilizia tale da richiedere il rilascio del permesso di costruire;
- in quanto attività edilizia libera o al più integrante intervento di mera manutenzione ordinaria, esula dall’assoggettamento ad autorizzazione paesaggistica in ossequio all’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004, non potendosi conseguentemente comminare ex art. 167 stesso decreto, la sanzione della riduzione in pristino per la sua mancata previa acquisizione.

- Premesso che il ricorrente ha realizzato la posa in opera di un cancello in ferro in sostituzione di un pregresso cancello in materiale ligneo;
- Considerato che il ricorrente nella comunicazione inizio lavori del 05.11.2014, contrariamente a quanto assume il Comune nel gravato provvedimento, ha indicato la posa del nuovo cancello in ferro in sostituzione del precedente quale uno degli oggetti dell’attività che stava ponendo in essere;
- ritenuto che l’apposizione di un cancello non comporta trasformazione urbanistica ed edilizia (TAR Marche, 08.07.2014 n. 706; TAR Emilia-Romagna – Parma, Sez. I 13.03.2014 n. 81) tale da richiedere il rilascio del permesso di costruire (TAR Lazio–Latina, 26.10.2011 n. 840; TAR Molise, 30.05.2013 n. 351);
- ritenuto pertanto che non sussistono i presupposti per l’applicazione della sanzione demolitoria irrogata ai sensi dell’art. 31 del DPR n. 380/2001;
- evidenziato che l’apposizione di un cancello, in quanto attività edilizia libera o al più integrante intervento di mera manutenzione ordinaria, esula dall’assoggettamento ad autorizzazione paesaggistica in ossequio all’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004, non potendosi conseguentemente comminare ex art. 167 stesso decreto, la sanzione della riduzione in pristino per la sua mancata previa acquisizione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.05.2015 n. 2600 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Urbanistica, abusivo il titolo edilizio contro i concorrenti.
L'azienda può bloccare l'insediamento di un concorrente nella sua zona se ritiene che il competitor abbia ottenuto un permesso di costruire irregolare: il tutto per il soppalco che intendere realizzare in sede. Chi teme la riduzione delle vendite risulta infatti autorizzato a ricorrere al Tar come portatore di un interesse legittimo, che la legge indica come vicinanza all'abuso edilizio, ma che in base a un'interpretazione estensiva ben può essere ritenuto anche di carattere commerciale.

È quanto emerge dalla sentenza 11.05.2015 n. 1495, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Parcheggio sufficiente. La legittimazione del concorrente a impugnare il titolo edilizio dell'azienda rivale davanti deve ritenersi frutto di una lettura «ampliata ed eccezionale», ma pur sempre sussistente, della nozione di interesse ad agire.
La normativa indica come requisito per adire il giudice solo il collegamento con l'area del presunto abuso senza specificare altro: l'interesse, dunque, ben può essere patrimoniale invece che alla tutela del paesaggio, laddove risulta in grado di distinguere la posizione della società che vuole l'off limits della concorrenza da tutti gli altri che vivono o operano nell'area.
Nella specie, però, l'operazione non riesce perché il parcheggio pertinenziale predisposto dall'agenzia immobiliare concorrente risulta sufficiente anche se a circa un chilometro di distanza dalla sede. Bisognerà però vedere se la nuova società utilizzerà davvero il soppalco come archivio e non come bagno, secondo i sospetti del rivale: in tal caso potrebbe scattare una nuova causa (articolo ItaliaOggi del 19.05.2015).
---------------
MASSIMA
Appartiene infatti ad una giurisprudenza pressoché consolidata il principio secondo cui l’impugnazione dei titoli edilizi è consentita in capo a chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione assentita, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di uno specifico interesse, essendo sufficiente la “vicinitas” quale elemento che distingue la posizione giuridica di un soggetto da quella della generalità dei consociati (Cons. St. IV sez. 18/04/2014 n. 1995; Cons. St. V sez. 21/05/2013 n. 2757; TAR Molise 26/05/2014 n. 346; TAR Campania–Salerno I sez. 01/10/2012 n. 1750).
Peraltro, un interesse commerciale declinato in termini di vicinitas determina “un’ipotesi allargata ed eccezionale di legittimazione che supera i tradizionali confini della vicinitas per ampliarla a tutela dell’interesse commerciale” (TAR Liguria I sez. 26/11/2012 n. 1507).

EDILIZIA PRIVATA: Sullo stereotipato (illegittimo) parere contrario del tipo “Considerato che le modifiche del territorio, consistenti in profonde trasformazioni morfologiche, alterazione dei profili e dei pendii naturali, nonché dei muri di sostegno, appaiono comunque tali da essere incompatibili con la tutela dei valori paesistico-ambientali”.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che, nel procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ridisegnato dal d.lgs. n. 42 del 2004, l’apporto della Soprintendenza si qualifica, non tanto quale esercizio di una funzione meramente consultiva, quanto come espressione di un potere decisorio complesso, cosicché si richiede una compiuta esposizione delle eventuali ragioni logico-giuridiche ostative.
Ne consegue che l’eventuale parere negativo deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano di ammettere un determinato intervento.
Sicché è illegittimo il parere negativo della Soprintendenza che si è limitata a formulare un’apodittica valutazione di contrasto con le esigenze di tutela, senza operare puntuali riferimenti alle caratteristiche concrete del contesto paesaggistico nel quale si colloca l’iniziativa edificatoria né agli specifici valori ambientali che ne sarebbero risultati compromessi.

5) Il terzo e ultimo motivo posto a fondamento del parere negativo della Soprintendenza è così formulato: “Considerato che le modifiche del territorio, consistenti in profonde trasformazioni morfologiche, alterazione dei profili e dei pendii naturali, nonché dei muri di sostegno, appaiono comunque tali da essere incompatibili con la tutela dei valori paesistico-ambientali”.
Come dedotto con il quinto motivo di gravame, anche questa ragione di diniego (che parrebbe comprendere le opere di scavo per la realizzazione del nuovo percorso carrabile, seppure non espressamente menzionate) appare inficiata per carenza di motivazione.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che, nel procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ridisegnato dal d.lgs. n. 42 del 2004, l’apporto della Soprintendenza si qualifica, non tanto quale esercizio di una funzione meramente consultiva, quanto come espressione di un potere decisorio complesso, cosicché si richiede una compiuta esposizione delle eventuali ragioni logico-giuridiche ostative (cfr., fra le molte, Cons. Stato, sez. VI, 25.02.2008, n. 653).
Ne consegue che l’eventuale parere negativo deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano di ammettere un determinato intervento (TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008, n. 2187).
Nel caso in esame, la Soprintendenza si è limitata a formulare un’apodittica valutazione di contrasto con le esigenze di tutela, senza operare puntuali riferimenti alle caratteristiche concrete del contesto paesaggistico nel quale si colloca l’iniziativa edificatoria né agli specifici valori ambientali che ne sarebbero risultati compromessi.
Tanto più che il regime di mantenimento (IS-MA) previsto dal vigente piano paesistico nella zona in cui ricade l’intervento ammette anche interventi di nuova edificazione, ritenendo “compatibile con la tutela dei valori paesistico-ambientali, o addirittura funzionale ad essa, un incremento della consistenza insediativa o della dotazione di attrezzature ed impianti” (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 08.05.2015 n. 462 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con vincoli d’inedificabilità assoluta.
Quanto al primo motivo, va ribadito che, così come ha avuto occasione di affermare questo Tribunale in fattispecie analoghe alla presente (fra le tante, sez. III, 30.07.2009 n. 1392; sez. III, 14.12.2005, n. 1593; sez. I, 10.12.2001, n. 180) non può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con vincoli d’inedificabilità assoluta (cfr., altresì, C.G.A., 28.01.2002, n. 39).
Il 16° comma dell'art. 26 della legge regionale 10.08.1985, n. 37, infatti, esclude espressamente che possa formarsi un provvedimento implicito di silenzio-assenso sulle istanze di condono "nei casi di insanabilità di cui al decimo comma" dell'art. 23, e cioè nelle ipotesi in cui, appunto, le opere abusivamente realizzate ricadano nella fascia di inedificabilità assoluta dei 150 metri dalla battigia (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati, considerato, altresì, che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime.
Con riguardo al dedotto vizio di violazione delle garanzie partecipative, è sufficiente richiamare, sul punto, la consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale, secondo cui i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati, considerato, altresì, che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime (cfr. ex plurimis: Cons. Stato, IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Sicilia, Palermo, II, 06.06.2007, n. 1617; 27.03.2007, n. 979; III, 20.03.2006, n. 608; 20.04.2005, n. 577; Catania, III, 03.03.2003, n. 374; TAR Campania, IV, 12.02.2003, n. 797; 14.06.2002, n. 3499; 28.03.2001, n. 1404) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' principio vigente nella materia de qua, confermato dalla recente legislazione (art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) che esplicitamente richiede la cd. “doppia conformità” -valevole anche riguardo al caso in esame- quello secondo cui la concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti, sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio del provvedimento di sanatoria o condono..
L'accertamento di conformità previsto dall'art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47, poi confluito nel citato art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria.
Il provvedimento di accertamento di conformità assume, pertanto, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l'autorità procedente valutare l'assentibilità dell'opera eseguita senza titolo, sulla base della normativa urbanistica e edilizia vigente, in relazione ad entrambi i momenti considerati dalla norma.
---------------
Alla luce del costante orientamento della giurisprudenza, non è obbligatorio il parere della commissione edilizia comunale, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie di sanatoria, in quanto, tra l’altro, non espressamente previsto dalla normativa specifica in materia.

Quanto al secondo motivo: la questione essenziale è se l’immobile di cui trattasi si trovasse sia al tempo della sua edificazione, sia a quello della richiesta di sanatoria, secondo la regola della cd. doppia conformità -di cui in seguito si dirà e che parte ricorrente ha del tutto omesso di considerare- entro la fascia d’inedificabilità assoluta dei 150 metri dalla battigia ai sensi del combinato disposto degli artt. 23 della l.r. n. 37 del 1985 e 15, lett. a), della l.r. n. 78 del 1976, e, in caso affermativo, se la costruzione sia stata iniziata prima dell' entrata in vigore della medesima legge (16.06.1976) e le sue strutture essenziali portate a compimento entro il 31.12.1976.
Ebbene, va rilevato che parte ricorrente, su cui gravava tale prova, non ha assolto detto onere, essendosi limitata a contestare labialmente e genericamente l’attendibilità probatoria del fotopiano cui ha fatto riferimento il Comune intimato per accertare che alla data del 15.06.1976 l’immobile de quo non era ancora esistente e neanche in fase di avvio di edificazione: ne discende, quanto meno, che la dichiarazione resa sul punto dalla prima proprietaria al fine dell’ottenimento del titolo edilizio in sanatoria, non sarebbe veritiera.
Nessuna documentazione ha allegato parte ricorrente (ad es. atto di acquisto, perizie tecniche, planimetrie, fotografie aeree, fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali, sopralluoghi, e così via), da valere almeno quale principio di prova, volto a dimostrare che alla data di commissione dell’abuso edilizio, e al momento della domanda di sanatoria, l’immobile non si trovasse entro la fascia dei 150 dalla battigia, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso del Comune acquisiti, verosimilmente, anche sulla base della documentazione prodotta in seno all’istanza di sanatoria, richiamata nella motivazione del diniego di sanatoria, dalla quale evincere anche la localizzazione dell’opera (in materia di ripartizione dell'onere della prova, rispetto al profilo specifico della data di realizzazione delle opere da sanare, ex multis v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2011, n. 752; sez. V, 06.02.1999, n. 124; 24.10.1996, n. 1275; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.05.2011, n. 3813; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 27.04.2011, n. 2365; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 19.04.2011, n. 1003).
Resta pertanto incontestabile che dalla ripresa aerea del 15.06.1976, sull’area in questione non è stata rilevata l’esistenza di alcun manufatto, magari in fase di iniziale edificazione, restando irrilevante l’asserita finalità di studio per la quale tale ripresa aerea sarebbe stata originariamente effettuata, poiché ciò, ovviamente, non incide sul dato notorio che l’aerofotogrammetria è attualmente il sistema di rilevamento più utilizzato nella realizzazione di cartografia per uso tecnico attesa la velocità di tracciamento dei particolari del terreno e la precisione geometrica che la caratterizza, relativamente a zone molto ampie di territorio da cartografare.
A fronte di tale omesso principio di prova, ritiene il Collegio di non poter far uso del proprio potere acquisitivo, seppur sollecitato dalla ricorrente.
Giova, a questo punto, ricordare che è principio vigente nella materia de qua, confermato dalla recente legislazione (art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) che esplicitamente richiede la cd. “doppia conformità” -valevole anche riguardo al caso in esame- quello secondo cui la concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti, sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio del provvedimento di sanatoria o condono (cfr. TAR Sicilia, Palermo, III, 09.11.2009, n. 1743; II, 11.02.2003, n. 805; TAR Sicilia, Catania, I, 09.01.2009, n. 5).
L'accertamento di conformità previsto dall'art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47, poi confluito nel citato art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria.
Il provvedimento di accertamento di conformità assume, pertanto, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l'autorità procedente valutare l'assentibilità dell'opera eseguita senza titolo, sulla base della normativa urbanistica e edilizia vigente, in relazione ad entrambi i momenti considerati dalla norma.
E’ altrettanto privo di fondamento l’assunto che vorrebbe attribuire effetto viziante alla mancanza del parere della Commissione edilizia comunale, alla luce del costante orientamento della giurisprudenza, anche di questo Tribunale, secondo il quale non è obbligatorio il parere della commissione edilizia comunale, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie di sanatoria, in quanto, tra l’altro, non espressamente previsto dalla normativa specifica in materia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.10.1998, n. 1306; TAR Sicilia, Palermo, III, 03.05.2012, n. 906; TAR Lazio, Roma, II-bis, 21.01.2013, n. 646) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio, pur conoscendo quell’orientamento espresso da una parte della giurisprudenza sulla specifica questione della rilevanza del lunghissimo lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e l’esercizio del potere repressivo che ravvisa un onere di congrua motivazione -avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso- circa la sussistenza di un pubblico interesse diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato, aderisce al diverso indirizzo giurisprudenziale maggioritario secondo cui il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica può essere esercitato in ogni tempo e i relativi provvedimenti non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine all'interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione antecedente alla violazione, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso allo scopo di ripristinare l'assetto urbanistico-edilizio violato, anche nel caso in cui l'abuso sia commesso in data risalente, non sussistendo alcun affidamento legittimo del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto contra jus che il tempo non può consolidare, né legittimare l'interessato a dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
Quanto al quinto motivo, il Collegio, pur conoscendo quell’orientamento espresso da una parte della giurisprudenza sulla specifica questione della rilevanza del lunghissimo lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e l’esercizio del potere repressivo che ravvisa un onere di congrua motivazione -avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso- circa la sussistenza di un pubblico interesse diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (v. Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705), aderisce, anche rispetto al caso di specie, al diverso indirizzo giurisprudenziale maggioritario secondo cui il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica può essere esercitato in ogni tempo e i relativi provvedimenti non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine all'interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione antecedente alla violazione, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso allo scopo di ripristinare l'assetto urbanistico-edilizio violato, anche nel caso in cui l'abuso sia commesso in data risalente, non sussistendo alcun affidamento legittimo del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto contra jus che il tempo non può consolidare, né legittimare l'interessato a dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781; V, 11.01.2011, n. 79; IV, 31.08.2010, n. 3955; IV, 01.10.2007, n. 5049 e n. 5050; V, 07.09.2009, n. 5229; IV, 10.12.2007, n. 6344; VI, 19.10.1995, n. 1162; V, 12.03.1996).
Ne consegue, anche, che, nel caso di specie, non è configurabile la responsabilità ex art. 1218 c.c. in capo al Comune intimato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12 comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto.
RITENUTO che il secondo ricorso per motivi aggiunti è infondato.
Parte ricorrente, invero, reitera le stesse censure proposte avverso il presupposto diniego di sanatoria, di cui è stato già effettuato il vaglio con esito negativo.
Residua l’esame della censura specifica, di cui al secondo motivo, con la quale si aggiunge che solo una porzione dell’immobile in cui è inserita l’unità abitativa di proprietà di parte ricorrente, ricadrebbe entro i 150 m dalla battigia e che l’eventuale demolizione della parte non sanabile pregiudicherebbe la staticità dell’edificio nella sua interezza e, per tale ragione, sarebbe applicabile la sanzione pecuniaria in alternativa a quella demolitoria.
Invero, secondo un consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12 comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto (per tutte TAR Sicilia, Palermo, III, 11.06.2014, n. 1503).
Nella specie nessuna dimostrazione di tal fatta è stata fornita dalla ricorrente, che si è limitata ad affermazioni generiche (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon è il solo rilascio del titolo edilizio a determinare l’obbligo di versamento degli oneri concessori, dato che rileva anche l’esecuzione dell’attività edilizia assentita, con la conseguenza che “ove ci sia stata voltura a favore di terzi del titolo edilizio da parte dell'originario titolare, unita al mancato avvio da parte di costui di alcuna attività edificatoria, l'intestatario iniziale della concessione deve essere ritenuto libero da ogni obbligo pecuniario nei confronti dell'ente concedente per oneri concessione e per contributo di costruzione”, in considerazione del rilievo che l’avvenuta voltura del titolo edilizio accettata dal Comune, estingue il rapporto con l’originario dante causa, perché la voltura del titolo edilizio opera “come una novazione soggettiva liberatoria del debitore originario per accettazione del Comune”.
... per l'annullamento:
A) quanto al ricorso introduttivo:
- richiesta di accertamento della insussistenza in capo al Comune di Tezze sul Brenta del credito di € 4.885,41 di cui il medesimo Comune si è dichiarato titolare nei confronti della signora T.G. ed ha chiesto il pagamento alla ricorrente con lettera del 24.05.2012 prot. n. 6321 e successiva lettera del 30.05.2013 prot. 6774;
- richiesta di accertamento della insussistenza in capo al Comune di Tezze sul Brenta del credito di € 235,93 di cui il medesimo Comune si è dichiarato titolare nei confronti della signora T.G. per interessi maturati sulla somma di € 4.885,41 e di cui ha chiesto il pagamento mediante cartella di pagamento n. 12420140004298334 emessa da Equitalia Nord spa e notificata dalla medesima in data 09.06.2014;
- richiesta di annullamento della cartella di pagamento n. 12420140004298334 emessa da Equitalia Nord spa e notificata dalla medesima Equitalia Nord spa alla signora T.G. in data 09.06.2014;
...
La ricorrente ha ottenuto dal Comune di Tezze sul Brenta il permesso di costruire n. 7925 del 02.01.2004 per realizzare un fabbricato residenziale.
Il Comune ha determinato nella somma di € 4.885,41 l’importo del contributo per costi di costruzione che sono stati regolarmente versati.
In data 16.02.2004 i terreni sono stati venduti alla ditta “l’immobiliare Srl” prima che iniziassero i lavori, e l’11.03.2004, il Comune ha effettuato la voltura del permesso di costruire.
Con nota del 24.05.2012, il Comune ha chiesto alla ricorrente il pagamento di ulteriori somme a titolo di contributo per il costo di costruzione, a causa del mutamento di orientamento interpretativo consolidatosi in giurisprudenza circa la necessità di applicare la misura minima del 5% prevista dall’art. 16 del DPR 06.06.2001, n. 380, in luogo di quella del 2,5% prevista dalla normativa regionale da ritenersi implicitamente abrogata per effetto della sopravvenuta norma statale di principio.
La ricorrente ha prodotto memorie al Comune deducendo di non essere tenuta al pagamento perché il titolo edilizio era stato volturato a terzi, senza ottenere alcun riscontro.
Con cartella di pagamento n. 12420140004298334 notificata il 09.06.2014, Equitalia ha chiesto la somma di € 5.365,36, di cui 4.885,41 per mancato pagamento del contributo di costruzione, ed € 235,93 per interessi e il resto per spese di esazione.
...
Il ricorso è fondato per la censura, che ha carattere assorbente, contenuta nel primo motivo del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti.
Infatti nel caso all’esame l’ulteriore richiesta di pagamento degli oneri non poteva essere rivolta nei confronti della ricorrente che ha ceduto i terreni e ha provveduto a volturare il titolo edilizio in favore di un soggetto terzo prima dell’inizio dei lavori.
Sul punto è sufficiente richiamare l’orientamento giurisprudenziale, che il Collegio condivide, secondo cui non è il solo rilascio del titolo edilizio a determinare l’obbligo di versamento degli oneri concessori, dato che rileva anche l’esecuzione dell’attività edilizia assentita, con la conseguenza che “ove ci sia stata voltura a favore di terzi del titolo edilizio da parte dell'originario titolare, unita al mancato avvio da parte di costui di alcuna attività edificatoria, l'intestatario iniziale della concessione deve essere ritenuto libero da ogni obbligo pecuniario nei confronti dell'ente concedente per oneri concessione e per contributo di costruzione” (cfr. Tar Sicilia, Catania, Sez. I 12.10.2010, n. 4104; id. 26.03.2009 n. 60; Tar Toscana, Sez. III, 12.06.2012 n. 1126), in considerazione del rilievo che l’avvenuta voltura del titolo edilizio accettata dal Comune, estingue il rapporto con l’originario dante causa, perché la voltura del titolo edilizio opera “come una novazione soggettiva liberatoria del debitore originario per accettazione del Comune” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.11.2011, n. 6033; Consiglio Giust. Amm. Sic., 13.10.2011, n. 666; Tar Veneto, Sez. II, 16.06.2011, n. 1042, punto 5.2 in diritto; Tar Puglia, Lecce, Sez. II, 14.07.2003, n. 4731; Tar Campania, Napoli, Sez. V, 12.03.2008, n. 1220).
In definitiva il ricorso deve essere accolto per il primo dei motivi del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti che, comportando l’accertamento che la ricorrente non è il soggetto passivo della pretesa creditoria che il Comune ha avanzato con le note del 25.05.2012 e del 30.05.2013, e quindi l’annullamento degli atti impugnati perché rivolti nei confronti della ricorrente anziché nei confronti della Società in cui favore è stato volturato il titolo edilizio ed ha eseguito i lavori, ha carattere assorbente delle ulteriori censure, con le quali la ricorrente contesta nel merito la pretesa creditoria del Comune, ed anche della domanda di risarcimento, formulata espressamente in via subordinata all’eventuale reiezione di tutte le censure proposte (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di misure demolitorie il principio generale è che non sia necessaria alcuna specifica motivazione sull'esistenza di un interesse pubblico in quanto è pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera edilizia, costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
---------------
E' stata in giurisprudenza dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso, il suo accertamento e l'adozione della misura sanzionatoria e sul punto sono emersi diversi orientamenti giurisprudenziali.
Il Collegio aderisce alla prevalente tesi che non richiede alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico indipendentemente dal passaggio del tempo dall'abuso o dal suo accertamento e il provvedimento sanzionatorio non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
Nel caso di abusi edilizi, infatti, vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell'ordinamento e che confida nell'omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza: di contro, l'abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell'obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell'Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Si rileva poi che consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all'apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni.
Inoltre, nel caso di specie, i manufatti abusivi ricadono in zona sottoposta oltre che a vincolo paesaggistico, a vincolo assoluto d’inedificabilità e ciò induce a escludere, già in via autonoma, la necessità di motivare l'esistenza di un interesse pubblico alla demolizione la cui prevalenza sull'interesse privato deve considerarsi in re ipsa.

Altrettanto destituito di fondamento è il quarto e ultimo motivo.
In materia di misure demolitorie il principio generale è che non sia necessaria alcuna specifica motivazione sull'esistenza di un interesse pubblico in quanto è pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera edilizia, costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis Cons. Stato, VI, 28/06/2004, n. 4743; id., sez. V, 10/07/2003, n. 4107; TAR Napoli, Sez. IV, 04/02/2003, n. 617; 15/07/2003, n. 8246) e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28/01/2013, n. 496; id. Sez. IV, 28/12/2012, n. 6702).
Stante questo principio generale, è stata in giurisprudenza dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso, il suo accertamento e l'adozione della misura sanzionatoria e sul punto sono emersi diversi orientamenti giurisprudenziali.
Il Collegio, anche riguardo al caso di specie, aderisce alla prevalente tesi che non richiede alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico indipendentemente dal passaggio del tempo dall'abuso o dal suo accertamento e il provvedimento sanzionatorio non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, Sez. VI, 21/10/2013, n. 5088; id., Sez. VI, 04/10/2013, n. 4907; Cons. Stato Sez. VI, 28/01/2013, n. 496; id., Sez. IV, 16/04/2012, n. 2185; id. Sez. IV, 28/12/2012, n. 6702, id., Sez. VI, 27/03/2012, n. 1813; id., Sez. IV, 27/10/2011, n. 5758; id., Sez. IV, 20/07/2011, n. 4403; id., Sez. V, 27/04/2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; id., Sez. V, 11/01/2011, n. 79; id., Sez. V, 09/02/2010, n. 628; TAR Milano Sez. II, 08/09/2011, n. 2183; TAR Lazio Sez. I-quater, 23/06/2011, n. 5582; TAR Napoli Sez. III, 16/06/2011, n. 3211; id., Sez. VIII, 09/06/2011, n. 3029).
Nel caso di abusi edilizi, infatti, vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell'ordinamento e che confida nell'omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza: di contro, l'abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell'obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell'Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Brescia, Sez. I, 22/02/2010, n. 860).
Si rileva poi che consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all'apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni (TAR Napoli, Sez. IV, 22.05.2013, n. 2679).
Inoltre, nel caso di specie, i manufatti abusivi ricadono in zona sottoposta oltre che a vincolo paesaggistico, a vincolo assoluto d’inedificabilità e ciò induce a escludere, già in via autonoma, la necessità di motivare l'esistenza di un interesse pubblico alla demolizione la cui prevalenza sull'interesse privato deve considerarsi in re ipsa (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 05.05.2015 n. 1080 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla veranda non si bluffa. Consiglio di stato: manufatti metallici addio.
Altro che volume tecnico. Quel manufatto in alluminio sul balcone è una vera e propria veranda e deve essere abbattuta perché realizzata senza permesso di costruire: il fatto che la struttura contenga davvero la caldaia non basta di per sé a trasformarla in un locale «servente», quasi fosse una pertinenza, se le dimensioni risultano ben maggiori rispetto alla superficie sufficiente a contenere gli impianti tecnologici.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 04.05.2015 n. 2226.
Funzione e natura
Niente da fare per il proprietario: dovrà rassegnarsi a smantellare il manufatto in alluminio che ha realizzato sul balcone, addossandolo al muro perimetrale dell'edificio. E ciò perché l'opera costituisce un vero abuso edilizio: è a tutti gli effetti una veranda realizzata contro legge.
A fare di un manufatto una veranda, infatti, non conta se l'opera risulta chiusa da tutti i lati. Ciò che rileva invece è la funzione svolta, mentre bastano l'incremento dei volumi e la modifica della sagoma dell'edificio a integrare la violazione delle norme edilizie: i locali hanno anche l'impianto idrico ed elettrico e dunque non possono affatto essere considerati una centrale termica.
Le dimensioni del locale «incriminato» -che misura un metro e mezzo, per quasi un metro e tre metri e venti- confermano che si tratta di una veranda che è soltanto «travestita» da locale caldaia. Al proprietario non resta che pagare 3 mila euro di spese per i due gradi di giudizio (articolo ItaliaOggi del 14.05.2015).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza le risultanze catastali costituiscono sempre un elemento probatorio generico e di carattere sussidiario, al quale si può ricorrere solo nei casi di obiettiva e assoluta mancanza di altri elementi e che non può assumere una rilevanza probatoria assoluta, quale è quella che, invece, illegittimamente ha inteso attribuirgli il Comune.
E nel caso di specie, a supporto dell’ordinanza di demolizione gravata il Comune ha indicato il mero confronto tra mappe catastali da cui risulterebbero incongruenze che secondo il Comune stesso testimonierebbero l’esecuzione di opere abusive oltre che su di una CTU dalla quale emergerebbe la natura abusiva delle opere realizzate sui lotti in questione.
Il Comune, tuttavia, non ha ritenuto di effettuare nemmeno un sopralluogo per verificare la situazione di fatto ed accertare se la differenza tra le mappe catastali osservate fosse effettivamente dovuta ad un intervento abusivo ovvero ad un’imperfetta rappresentazione operata in sede di redazione grafica delle tavole catastali.
---------------
Nella relazione del CTU, depositata nel giudizio pendente innanzi al Tribunale civile, si afferma che all’esito del sopralluogo compiuto dal CTU in data 10.03.2014: <<si è osservato, oltre allo stato dei luoghi in riferimento alle planimetrie catastali in possesso finora descritto e graficizzato, anche lo stato delle murature che costituiscono i fabbricati oggetto di causa per riuscire a fare un’esatta analisi storica. Si è riscontrata l’antichità della costruzione che presenta pareti in muratura formate da ciottoli e si può affermare, pertanto, che data l’antica tipologia costruttiva il fabbricato è sicuramente precedente al 1967>>.
Nella successiva relazione depositata in data 01.12.2014 nel medesimo giudizio civile, lo stesso CTU rileva inoltre la scarsa affidabilità delle planimetrie catastali, ribadendo che l’edificio non ha subito ampliamenti negli ultimi 50 anni.
Il presupposto del gravato provvedimento consistente nella realizzazione di interventi non autorizzati in epoca successiva al 1967 risulta contraddetto in modo convincente e circostanziato nella ripetuta relazione di CTU che ha posto in evidenza taluni elementi fattuali (stile architettonico e materiali adoperati) che depongono univocamente per la conclusione ivi raggiunta dal CTU, secondo cui gli ultimi interventi sul fabbricato di proprietà del ricorrente risalgono ad oltre 50 anni fa.
---------------
La giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942 esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale.

... per l'annullamento dell’ordinanza del Responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Bojano n. 8 del 22.01.2014, successivamente notificata in data 27.01.2014 con cui viene ingiunta al ricorrente la demolizione e rimessa in pristino di una parte del fabbricato di proprietà e di ogni ulteriore atto presupposto, consequenziale e comunque connesso;
- nonché per la condanna del Comune di Bojano al risarcimento dei danni subiti e subendi dal ricorrente per effetto dei provvedimenti impugnati e della condotta gravemente colposa dell'Amministrazione.
...
Il motivo di ricorso è meritevole di accoglimento alla stregua delle puntualizzazioni che di seguito si espongono.
In effetti a supporto dell’ordinanza gravata il Comune di Bojano ha indicato il mero confronto tra mappe catastali da cui risulterebbero incongruenze che secondo il Comune testimonierebbero l’esecuzione di opere abusive oltre che su di una CTU dalla quale emergerebbe la natura abusiva delle opere realizzate sui lotti in questione.
Il Comune, tuttavia, non ha ritenuto di effettuare nemmeno un sopralluogo per verificare la situazione di fatto ed accertare se la differenza tra le mappe catastali osservate fosse effettivamente dovuta ad un intervento abusivo ovvero ad un’imperfetta rappresentazione operata in sede di redazione grafica delle tavole catastali.
A tale proposito il Collegio rileva che secondo la giurisprudenza le risultanze catastali costituiscono sempre un elemento probatorio generico e di carattere sussidiario, al quale si può ricorrere solo nei casi di obiettiva e assoluta mancanza di altri elementi e che non può assumere una rilevanza probatoria assoluta, quale è quella che, invece, illegittimamente ha inteso attribuirgli il Comune di Bojano (cfr. ex multis TAR Basilicata, 14.09.2014, n. 584).
Vero è che l’ordinanza richiama anche una relazione peritale, ma dalle risultanze ivi rassegnate il Collegio ritiene non potersi giungere ad alcuna conclusione che avvalori la pretesa natura abusiva delle opere indicate nel gravato provvedimento.
Diversamente la relazione del medesimo CTU, depositata nel giudizio pendente innanzi al Tribunale civile di Bucarest (RG n. 1111/2010) depone per la conclusione esattamente opposta. Nella relazione si afferma che all’esito del sopralluogo compiuto dal CTU in data 10.03.2014: <<si è osservato, oltre allo stato dei luoghi in riferimento alle planimetrie catastali in possesso finora descritto e graficizzato, anche lo stato delle murature che costituiscono i fabbricati oggetto di causa per riuscire a fare un’esatta analisi storica. Si è riscontrata l’antichità della costruzione che presenta pareti in muratura formate da ciottoli e si può affermare, pertanto, che data l’antica tipologia costruttiva il fabbricato è sicuramente precedente al 1967>>. Nella successiva relazione depositata in data 01.12.2014 nel medesimo giudizio civile, lo stesso CTU rileva inoltre la scarsa affidabilità delle planimetrie catastali, ribadendo che l’edificio non ha subito ampliamenti negli ultimi 50 anni.
Il presupposto del gravato provvedimento consistente nella realizzazione di interventi non autorizzati in epoca successiva al 1967 risulta contraddetto in modo convincente e circostanziato nella ripetuta relazione di CTU che ha posto in evidenza taluni elementi fattuali (stile architettonico e materiali adoperati) che depongono univocamente per la conclusione ivi raggiunta dal CTU, secondo cui gli ultimi interventi sul fabbricato di proprietà del ricorrente risalgono ad oltre 50 anni fa.
Ciò sottrae eventuali ampliamenti realizzati sul corpo di fabbrica del ricorrente alla disciplina edilizia autorizzativa introdotta a partire dalla l. n. 765/1967.
E infatti, la giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942 esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani. Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale (TAR Umbria, Sez. I, 10.05.2013, n. 281; TAR Campania, sez. VI, 15.09.2010, n. 17416; TAR Umbria, sez. I, 14.07.1981, n. 250).
Tali rilievi, unitamente all’evidenziato deficit dell’istruttoria comunale sottesa al gravato provvedimento conducono all’accoglimento del gravame, non potendosi riscontrare alcuna mancanza di titoli abilitativi, come invece ritenuto nell’impugnato provvedimento.
Né potrebbe disporsi la sospensione del presente procedimento, come richiesto da parte resistente, atteso che esso non “dipende” in alcun modo da quello pendente innanzi al Tribunale civile di Campobasso.
Nel presente giudizio, assume rilievo la CTU predisposta nel procedimento pendente innanzi al Tribunale di Campobasso limitatamente all’analisi e descrizione della situazione di fatto, senza che assuma rilievo l’esito di quel giudizio del tutto distinto ed autonomo dal presente.
Peraltro, la ragionevolezza degli argomenti impiegati e l’assenza di evidenti vizi logici, consentono al Collegio di utilizzare le medesime risultanze anche per fondare il proprio convincimento, senza la necessità di esperire un analogo accertamento sulla datazione delle opere oggetto di causa anche nel presente giudizio.
Il ricorso deve pertanto essere accolto e il diniego impugnato dichiarato illegittimo ed annullato (TAR Molise, sentenza 04.05.2015 n. 186  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In virtù dell’art. 2043 del codice civile, qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno, conseguendone che sono elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale: il fatto illecito, il nesso di causalità, l’ingiustizia (o antigiuridicità) del danno, la colpevolezza e il danno.
Dal punto di vista processuale va, peraltro, osservato che anche il processo amministrativo è regolato dal principio dell'onere della prova, contenuto nell'art. 2697 c.c., in base al quale chi vuole far valere in giudizio un diritto deve indicare e provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, come, del resto, ora chiaramente disposto dall’art. 64 c.p.a., che stabilisce, per l’appunto, che “Spetta alle parti l'onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni” (comma 1) e che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite” (comma 2).
Grava, conseguentemente, su chi si pretende danneggiato il preciso onere di allegare e provare i citati elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito dato che, in presenza di fattispecie di danno risarcibile, la condanna all’effettivo risarcimento non è conseguenza automatica dell’illegittimità dell’atto.

La domanda risarcitoria va, invece, respinta, in quanto, nella fattispecie portata all’attenzione di questo giudice, non si ravvisano i presupposti per darvi corso.
Al riguardo, non appare ultroneo rammentare che, in virtù dell’art. 2043 del codice civile, qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno, conseguendone che sono elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale: il fatto illecito, il nesso di causalità, l’ingiustizia (o antigiuridicità) del danno, la colpevolezza e il danno.
Dal punto di vista processuale va, peraltro, osservato che anche il processo amministrativo è regolato dal principio dell'onere della prova, contenuto nell'art. 2697 c.c., in base al quale chi vuole far valere in giudizio un diritto deve indicare e provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, come, del resto, ora chiaramente disposto dall’art. 64 c.p.a., che stabilisce, per l’appunto, che “Spetta alle parti l'onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni” (comma 1) e che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite” (comma 2).
Grava, conseguentemente, su chi si pretende danneggiato il preciso onere di allegare e provare i citati elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito dato che, in presenza di fattispecie di danno risarcibile, la condanna all’effettivo risarcimento non è conseguenza automatica dell’illegittimità dell’atto.
Nella fattispecie nessun elemento specifico è stato addotto dal ricorrente e conseguentemente la pretesa risarcitoria non può essere accolta (TAR Molise, sentenza 04.05.2015 n. 186  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso: secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, <<chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento>>, e con riguardo alla data di realizzazione di opere, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell’opera.
---------------
La giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942 esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale.

Elemento centrale del giudizio odierno consiste nello stabilire se le opere indicate nell’istanza di Permesso di costruire e, precedentemente, nell’ordine di demolizione n. 28 del 20.09.2010 costituiscano o meno manufatti abusivi, realizzati, cioè, ex novo in violazione delle disposizioni urbanistiche ovvero, come sostenuto dal ricorrente, si tratti solo di parti dell’edificio preesistenti oggetto di semplici interventi di manutenzione.
Ciò premesso, in linea di principio l’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso (Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2012, n. 478): secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, <<chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento>>, e con riguardo alla data di realizzazione di opere, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell’opera (cfr. da ultimo TAR Molise, 13.03.2015, n. 107; TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 02.10.2013, n. 814; Consiglio di Stato, sez. IV, 27.11.2010 n. 8298; si veda anche TAR Campania, sez. VIII – 02.07.2010 n. 16569; TAR Lombardia Brescia, sez. I – 08.04.2010, n. 1506; TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 02.10.2013, n. 814).
Ritiene il Collegio che tale onere sia stato assolto nella fattispecie con il deposito da parte della ricorrente in data 02.01.2015 della Consulenza Tecnica d’Ufficio eseguita nell’ambito del procedimento civile (contrassegnato dal numero di RG 1111/2010) pendente innanzi al Tribunale di Campobasso civile tra lo stesso sig. -OMISSIS- e la società proprietaria di un terreno confinante, avente ad oggetto i terreni e le opere su cui verte anche il presente giudizio.
La relazione preparata dal CTU incaricato dal Tribunale, esamina dettagliatamente lo stato dei luoghi, confrontandoli con le risultanze catastali ed evidenzia che queste ultime non corrispondono perfettamente ai primi. Con particolare riferimento alla particella catastale 564 (fg. 24) su cui in particolare insisterebbero, secondo quanto rilevato nell’ordinanza di demolizione n. 28/2010, gli ampliamenti abusivamente realizzati per i quali è stato richiesto il Permesso in sanatoria, la relazione premette che i rilievi aerofotogrammetrici eseguiti nel 1963 testimoniano l’esistenza, già a quel tempo, di una costruzione nella zona in questione.
Ciò che più rileva, però, è la specifica considerazione del consulente tecnico (contenuta alla pag. 12 della relazione de 14.09.2014) secondo cui la contestazione effettuata in quel giudizio in base alla quale sarebbero stati realizzati sulla particella 564 interventi edilizi successivi alla costruzione “non è stata riscontrata, in quanto, dall’analisi del fabbricato, non risultano effettuati di recente ampliamenti o opere rientranti nella straordinaria manutenzione, ma solo opere, sia interne che esterne, ordinaria manutenzione come riscontrato anche dal tecnico comunale”.
Ne consegue che il presupposto dell’assenza di titoli abilitativi per gli interventi realizzati sulla predetta particella su cui si fonda l’ordine di demolizione e, per quello che interessa nel presente giudizio, anche il gravato diniego di rilascio del Permesso in sanatoria risultano smentiti dalla ripetuta relazione di CTU, in modo convincente e circostanziato evidenziando taluni elementi fattuali (stile architettonico e materiali adoperati) che depongono univocamente per la conclusione secondo cui gli ultimi interventi edilizi sul fabbricato di proprietà del ricorrente risalirebbero ad oltre 50 anni fa.
Ciò sottrae eventuali ampliamenti realizzati sul corpo di fabbrica del ricorrente alla disciplina edilizia autorizzativa introdotta a partire dalla l. n. 765/1967 e dal conseguente obbligo di munirsi di eventuali titoli abilitativi.
E infatti, la giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942 esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani. Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale (TAR Umbria, Sez. I, 10 maggio 2013, n. 281; TAR Campania, sez. VI, 15 settembre 2010, n. 17416; TAR Umbria, sez. I, 14 luglio 1981, n. 250) (TAR Molise, sentenza 04.05.2015 n. 182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOImpianti, chi si distacca paga. Il condominio non può sopportare i costi di adattamento. La Cassazione sul riparto spese di riscaldamento autonomo e valvole termostatiche.
Nel caso in cui un condomino abbia provveduto a installare nel proprio appartamento un impianto autonomo di riscaldamento aggiuntivo a quello centralizzato, la successiva installazione delle valvole termostatiche che comporti la difficoltà di tenere distinti i consumi relativi ai diversi impianti può essere corretta dal punto di vista tecnico, ma gli eventuali maggiori costi derivanti da tale adattamento rimangono interamente a carico del condomino che vi ha dato causa.

Questo il principio che si può evincere dalla sentenza 29.04.2015 n. 8724 della II Sez. civile della Corte di Cassazione.
Nel caso di specie un condomino aveva impugnato la delibera con cui l'assemblea aveva deciso di installare le valvole termostatiche sui singoli elementi radianti collegati al riscaldamento centralizzato e di ripartire i consumi annuali per il 20% in base alla tabella millesimale e per l'80% secondo i consumi effettivi rilevati dai contatori. Il condomino, che sosteneva di avere installato un impianto aggiuntivo autonomo nel proprio appartamento, si lamentava del fatto che così facendo sarebbe stato tecnicamente impossibile distinguere i consumi dell'impianto comune da quelli dell'impianto autonomo, così di fatto privandolo del diritto di utilizzare anche quest'ultimo in alternativa a quello centralizzato, pena l'addebito di spese ingiustificate e comunque non controllabili.
L'impugnazione, disattesa in primo grado, era invece stata accolta dai giudici di appello, costringendo quindi il condominio a portare la questione dinanzi alla Suprema corte.
I giudici di legittimità hanno quindi avuto modo di chiarire in primo luogo il fatto che la scelta (libera) di ogni condomino di distaccarsi dall'impianto centralizzato, oltre a dover essere esercitata con le modalità volta per volta previste dalla normativa temporalmente e territorialmente applicabile, non può mai concretarsi in un aggravio di costi per la collettività condominiale, essendo finalizzata a soddisfare interessi personali. Tuttavia, ferma restando la legittimità della delibera condominiale con la quale si adotti il sistema di termoregolazione, la Cassazione ha parimenti osservato come sia nel diritto del condomino che si sia distaccato dall'impianto centralizzato ottenere, ove tecnicamente possibile, di eliminare il rischio di una sovrapposizione dei consumi con soluzioni che non comportino maggiori costi per la compagine condominiale.
Di qui la decisione di cassare la sentenza impugnata e di rinviarla ad altra sezione della corte di appello, proprio allo scopo di appurare nello specifico la possibilità tecnica di installare, a parità di spesa, le valvole termostatiche con modalità tali da rendere trasparenti i consumi dell'impianto centralizzato e di quello autonomo. In caso contrario, infatti, ove cioè detta soluzione comporti maggiori spese per gli altri condomini, i giudici sono stati chiari nell'evidenziare come i relativi costi non possano che essere sopportati dal condomino nell'interesse esclusivo del quale sia stato installato l'impianto autonomo.
---------------
L'iter corretto da seguire.
La riforma del condominio ha inserito nell'ambito della normativa condominiale una nuova disposizione che consente il distacco dall'impianto centralizzato. Questa possibilità era già stata ammessa dai giudici, che avevano anche precisato le condizioni per distaccarsi dall'impianto comune.
La legge di riforma si è limitata a recepire i principi affermati dalla giurisprudenza, senza precisare però il corretto iter da seguire per evitare un distacco illegittimo. Si deve considerare, infatti, che l'impianto di riscaldamento viene dimensionato e progettato per servire un determinato numero di unità immobiliari. Di conseguenza il distacco (soprattutto se multiplo) può determinare problemi tecnici tali da non garantire condizioni climatiche adeguate nei vari alloggi. Il problema è che la legge non prevede l'obbligo di preventiva informazione all'amministratore o all'assemblea.
Tuttavia, se si vuole scongiurare il pericolo di interminabili liti giudiziarie, il condomino che intende distaccarsi (prima di iniziare le operazioni) dovrà informare l'amministratore (che a questo punto dovrà rimettere la questione all'assemblea), dimostrando la sussistenza delle condizioni di legge e, cioè, l'assenza di notevole squilibrio termico e la mancanza di aggravio delle spese.
In ogni caso il condomino rinunciante, mentre è esonerato dal dover sostenere le spese per l'uso del servizio centralizzato, è invece obbligato a concorrere nelle spese di conservazione e manutenzione (e messa a norma) dell'impianto centralizzato. È vero, infatti, che il condomino non perde la proprietà proporzionale dell'impianto, bensì ne rinuncia al solo godimento.
- Il notevole squilibrio termico. Bisogna rilevare che se l'abitazione del condominio che si vuole distaccare si trova, per esempio, al primo piano dello stabile, confinante sopra e sotto e su tutti i lati con vani di proprietà di altri condomini che usufruiscono dello stesso impianto di riscaldamento, ne deriva, per immediata percezione, che l'interruzione del riscaldamento nei locali al primo piano comporterà per i vicini una diminuzione di calore.
Come hanno chiarito i giudici, però, la diminuzione di calore che subiscono i condomini confinanti con il distaccato non può essere considerata come notevole squilibrio termico. Tuttavia se lo squilibrio può non essere notevole con un distacco o due, potrebbe quasi sicuramente esserlo al terzo o al quarto (dipendendo dal numero delle unità servite). Pertanto i primi condomini potranno distaccarsi, mentre quelli successivi, incorrendo nel divieto, dovranno astenersene. Occorrerà pertanto valutare caso per caso a seconda dei singoli impianti interessati.
- L'aggravio delle spese. Secondo la legge è sufficiente l'aumento di pochi centesimi di spesa a carico degli altri condomini perché si concretizzi l'aggravio di spesa e quindi il distacco sia da considerarsi illegittimo. Pertanto, seppure lo squilibrio funzionale fosse minimo, ma il distacco determinasse un piccolo aumento di spesa, la rinuncia al servizio sarebbe illegittima. Di conseguenza i soggetti che si distaccano rimangono obbligati alla corresponsione anche delle spese di esercizio (carburante, corrente elettrica ecc.) se e nella misura in cui dal loro distacco non consegua una diminuzione di tali oneri a carico degli altri condomini: se le spese rimangono uguali non è corretto che i rimanenti fruitori del servizio si facciano carico anche delle spese di chi non ne fruisce.
- Il problema del contrasto tra legislazione nazionale e regionale. La legge di riforma del condominio si è quindi preoccupata che dall'intervento non derivino squilibri all'impianto termico o aggravi di spesa per gli altri condomini, ma ha totalmente ignorato di considerare se l'intervento (o gli interventi nel medesimo palazzo) non vadano a inquinare o a consumare di più rispetto a quanto già faceva l'impianto centralizzato.
In altre parole, la nuova norma che consente il distacco non è inserita in una disciplina organica avente a oggetto il contenimento dei consumi energetici e, pertanto, non è preordinata al perseguimento di finalità di risparmio energetico né di riduzione delle emissioni inquinanti. Tutto questo in controtendenza rispetto a quanto prevede quella diversa legislazione nazionale che ha recepito le direttive europee in materia di contenimento de consumi energetici, la quale preferisce il mantenimento degli impianti centralizzati rispetto alla creazione di nuovi impianti autonomi.
Del resto, emerge come anche nella disciplina regionale si ritenga preferibile -dal punto di vista tecnico- il mantenimento degli impianti centralizzati negli edifici esistenti, impedendo la loro trasformazione in impianti autonomi, a meno che non esistano cause tecniche o di forza maggiore che rendono necessaria tale trasformazione. In particolare le regioni più virtuose, esercitando la concorrente potestà legislativa loro spettante in materia, hanno introdotto da tempo divieti o limitazioni all'installazione di impianti termici individuali.
Così la regione Piemonte ha ritenuto, nell'ambito della sua potestà legiferante, di vietare, in un'ottica di salvaguardia dell'aria e del miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici piemontesi, gli interventi finalizzati al distacco e alla trasformazione di impianti centralizzati in autonomi negli edifici che hanno più di 4 unità abitative.
Nella legislazione della regione Lombardia, nel caso di edifici costituiti da o più unità immobiliari nelle quali si sia optato per l'installazione di impianti termici indipendenti per ciascuna unità immobiliare, anche a seguito di decisione condominiale di dismissione dell'impianto termico centralizzato o di decisione autonoma del singoli, permane invece l'obbligo di produrre, oltre a una relazione tecnica, l'attestato di prestazione energetica.
In altre parole è fatto obbligo al responsabile dell'impianto autonomo di realizzare preliminarmente una verifica energetica che metta a confronto diverse soluzioni impiantistiche, redigendo altresì una relazione con le motivazioni della soluzione prescelta. E quando la somma dei singoli impianti è uguale o maggiore di 100 kW, oltre alla relazione tecnica e all'Ace, bisogna produrre anche la diagnosi energetica (articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi (come, nel caso di specie, quelli abilitativi all’edificazione) è disciplinato dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 07.08.1990, nel testo introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005, n. 15, come successivamente modificato ed integrato, in termini che confermano (richiedendo la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, da far valere entro un “termine ragionevole”, nonché “tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati”) il pacifico indirizzo giurisprudenziale, secondo cui l’autotutela costituisce espressione di un potere discrezionale dell’Amministrazione, sindacabile (per quanto riguarda la ragionevolezza del termine, l’avvenuto bilanciamento di interessi e la motivazione fornita) nei noti limiti, che circoscrivono al riguardo il giudizio di legittimità.
Non appaiono condivisibili, pertanto, alcune delle argomentazioni difensive del comune resistente, secondo cui l’annullamento in via di autotutela di titoli abilitativi, come quelli di cui si discute, non richiederebbe “una motivazione dell’interesse pubblico, diversa dalla necessità di ripristinare la legalità violata, stante la natura di illecito permanente dell’abuso”, così come non potrebbe ammettersi “alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può avere legittimato”.
Così argomentando, in effetti, l’Amministrazione comunale esclude qualsiasi differenza fra repressione degli abusi edilizi (per i quali valgono le regole sopra enunciate) ed intervento in via di autotutela su titoli abilitativi che, anche se illegittimi, sono assistiti da autoritarietà ed efficacia fino al relativo annullamento, con conseguente carattere non abusivo dell’edificazione, realizzata in conformità.
Non sembra inutile ricordare, al riguardo, le pronunce della Corte Costituzionale che –prima assicurando la congruità dell’indennizzo rispetto al valore del bene espropriato, poi escludendo la reiterabilità “sine die” dei vincoli preordinati all’esproprio– hanno in pratica ribadito la concezione dello “ius aedificandi” come facoltà insita nel diritto di proprietà, attribuendo alla concessione edilizia –al di là del “nomen iuris”, poi modificato dal T.U. approvato con D.P.R. n. 380/2001– natura sostanzialmente autorizzativa.

Premesso quanto sopra, sembra opportuno ricordare che l’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi (come, nel caso di specie, quelli abilitativi all’edificazione) è disciplinato dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 07.08.1990, nel testo introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005, n. 15, come successivamente modificato ed integrato, in termini che confermano (richiedendo la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, da far valere entro un “termine ragionevole”, nonché “tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati”) il pacifico indirizzo giurisprudenziale, secondo cui l’autotutela costituisce espressione di un potere discrezionale dell’Amministrazione, sindacabile (per quanto riguarda la ragionevolezza del termine, l’avvenuto bilanciamento di interessi e la motivazione fornita) nei noti limiti, che circoscrivono al riguardo il giudizio di legittimità (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 02.09.2013, n. 4352; Cons. St., sez. V, 22.01.2014, n. 322 e 25.07.2014, n. 3964; Cons. St., sez. IV, 07.07.2014, n. 3426).
Non appaiono condivisibili, pertanto, alcune delle argomentazioni difensive del comune resistente, secondo cui l’annullamento in via di autotutela di titoli abilitativi, come quelli di cui si discute, non richiederebbe “una motivazione dell’interesse pubblico, diversa dalla necessità di ripristinare la legalità violata, stante la natura di illecito permanente dell’abuso”, così come non potrebbe ammettersi “alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può avere legittimato”.
Così argomentando, in effetti, l’Amministrazione comunale esclude qualsiasi differenza fra repressione degli abusi edilizi (per i quali valgono le regole sopra enunciate) ed intervento in via di autotutela su titoli abilitativi che, anche se illegittimi, sono assistiti da autoritarietà ed efficacia fino al relativo annullamento, con conseguente carattere non abusivo dell’edificazione, realizzata in conformità.
Non sembra inutile ricordare, al riguardo, le pronunce della Corte Costituzionale che –prima assicurando la congruità dell’indennizzo rispetto al valore del bene espropriato, poi escludendo la reiterabilità “sine die” dei vincoli preordinati all’esproprio– hanno in pratica ribadito la concezione dello “ius aedificandi” come facoltà insita nel diritto di proprietà, attribuendo alla concessione edilizia –al di là del “nomen iuris”, poi modificato dal T.U. approvato con D.P.R. n. 380/2001– natura sostanzialmente autorizzativa (cfr. in tal senso Corte Cost. 30.01.1980, n. 5, 21.04.1983, n. 127 e 20.05.1999, n. 179 cit.).
La medesima confusione, fra opere abusive e opere realizzate in attuazione di ius aedificandi debitamente autorizzato, si rinviene nel richiamo –operato ancora dalla difesa comunale– al principio della “doppia conformità”, prescritto in materia di sanatoria (essendo le opere abusive regolarizzabili “ex post”, ma solo se conformi alla disciplina vigente sia alla data di realizzazione delle stesse, sia a quella dell’istanza di sanatoria): tale principio, tuttavia, può riguardare la fase successiva all’atto di annullamento in via di autotutela, ma non può anche giustificare l’emanazione di tale atto.
Nella situazione in esame, infatti, l’Amministrazione giustifica l’autoannullamento anche con l’attuale non sanabilità delle opere, in quanto non potrebbe esservi autorizzazione paesaggistica successiva e non rileverebbe la nuova disciplina urbanistica della ristrutturazione –ora consentita dal Comune anche con dislocazione dell’area di sedime– poiché quest’ultima disciplina non era ancora vigente alla data di realizzazione delle opere di cui trattasi.
Tali considerazioni non possono ritenersi attinenti al legittimo esercizio della potestà di autotutela, che deve considerare la legittimità del provvedimento che ne è oggetto in base al principio “tempus regit actum” e –una volta accertata l’effettiva sussistenza di vizi, rapportabili all’emanazione dell’atto– è poi chiamata a valutare discrezionalmente la sussistenza degli ulteriori presupposti per intervenire, previo bilanciamento degli interessi sia pubblici che privati.
Sulla base delle predette argomentazioni, il Collegio ritiene che l’appello meriti parziale accoglimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.04.2015 n. 2123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIRitardi. La notifica postale è esimente.
Se per la notifica l'avvocato si affida all'ufficio postale, non ha responsabilità circa l'esito della notifica medesima.

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 24.04.2015 n. 8395.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati ad esprimersi su un caso in cui veniva considerato negligente il comportamento del professionista legale che affidava al servizio postale la notifica di un atto di opposizione a decreto ingiuntivo, a soli cinque giorni dalla scadenza dei termini perentori e si chiedeva il riconoscimento della responsabilità del medesimo avvocato per il ritardo dovuto alle dinamiche postali.
Gli Ermellini ribadendo, quindi, che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati, per quanto riguarda il notificante, al solo compimento delle attività a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell'atto da notificare all'ufficiale giudiziario; hanno, poi, evidenziato come già la Corte costituzionale (Corte cost., 22.10.2002, n. 477) ha stabilito che è costituzionalmente illegittimo il combinato disposto dell'art. 149 del codice di procedura civile e dell'art. 4, comma terzo, della legge 20.11.1982, n. 890, nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell'atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario.
Pertanto è da ritenersi irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di un'attività riferibile non al notificante, ma a soggetti diversi (l'ufficiale giudiziario e l'agente postale come ausiliario di questo), e perciò del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo.
È altresì evidente che il destinatario ha il dovere, secondo il principio del perfezionamento della notificazione di fare attenzione solo alla data di ricezione dell'atto, attestata dall'avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo (articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015).

CONDOMINIOCONTENZIOSO/ L’avvocato lo sceglie l’amministratore.
L’amministratore può incaricare un avvocato di fiducia per rappresentare in giudizio il condominio senza bisogno di alcuna autorizzazione, purché la difesa attenga a questioni rientranti nelle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 del Codice civile o nei maggiori poteri conferitegli dal regolamento o dall’assemblea.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. II civile (sentenza 23.04.2015 n. 8309), dando torto a un condòmino che eccepiva il difetto di rappresentanza dell’amministratore in quanto aveva conferito il mandato difensivo ad un avvocato senza alcuna delibera dell'assemblea che a ciò lo autorizzasse e senza alcuna ratifica successiva (articolo IL Sole 24 Ore del 19.05.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla questione relativa alla durata quinquennale dell’autorizzazione paesaggistica ed alla possibilità -o meno- per la stessa di subire sospensioni per fatti non imputabili al suo titolare quali il factum principis.
L’art. 146, c. 4, del d.lgs. 42/2004, nella parte in cui prevede la durata quinquennale dell’autorizzazione paesaggistica, secondo principi di logicità, coerenza e ragionevolezza del sistema giuridico, non può non tener conto del factum principis sopravvenuto.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale che ritiene che il decorso del termine quinquennale di efficacia produca, ex se, la caducazione ex lege, totale ed automatica, degli effetti dell’autorizzazione, senza trovare alcun ostacolo in fatti impeditivi anche di carattere assoluto, quali il factum principis o la causa di forza maggiore, compresi i provvedimenti di sequestro; tuttavia ritiene che tale orientamento debba essere rimeditato alla luce della nuova formulazione dell’art. 146 del d.lgs. 42/2004, vigente al momento di adozione del provvedimento impugnato.
Il 4° comma dell’art. 146 del d.lgs. 42/2004, come modificato dall'art. 4, comma 16, lett. e), n. 1), D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla L. 12.07.2011, n. 106, vigente ratione temporis, stabilisce che “L'autorizzazione è efficace per un periodo di cinque anni, scaduto il quale l'esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione.”
La nuova formulazione della norma avvenuta ad opera dell'art. 4, comma 16, lett. e), n. 1), D.L. 13.05.2011, n. 70, al dichiarato intento di semplificare i procedimenti amministrativi relativi ad interventi edilizi nei Comuni che adeguano gli strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici regionali, al Codice dei beni, ha sostituito il termine “valida” con quello di “efficace”, così dando rilievo alla possibilità dell’atto di produrre effetti giuridici.
In particolare, secondo quieti principi di carattere generale, l'efficacia del provvedimento amministrativo indica l'idoneità dello stesso a produrre l’effetto giuridico voluto.
La validità del provvedimento non attiene invece al profilo propriamente degli effetti e/o conseguenze giuridiche, occupandosi piuttosto dei requisiti di legittimità dello stesso.
Nel caso dell’autorizzazione paesaggistica, la previgente formulazione, nello stabilire la sua validità quinquennale, esprimeva quindi un valore assoluto che non ammetteva deroghe, sicché non poteva ritenersi rilevante il factum principis.
La nuova accezione “efficace” ha ovviamente inteso apportare una modificazione evidente dell’istituto, dato che altrimenti non avrebbe senso la “novella” legislativa, spostando l’attenzione sugli effetti e quindi sulla capacità dell’autorizzazione a spiegare effetti giuridici, con le ovvie conseguenze anche in caso di cessazione temporanea dell'efficacia, cioè di sospensioni dell’idoneità del provvedimento a produrre effetti, sospensioni che –in quanto tali– non influiscono sulla durata quinquennale dell’efficacia, prevista dalla norma.

2. il ricorso è fondato e deve essere accolto.
2.1. Viene all’attenzione del Collegio la questione relativa alla durata dell’autorizzazione paesaggistica e alla possibilità o meno per la stessa di subire sospensioni per fatti non imputabili al suo titolare quali il factum principis.
Secondo la ricostruzione della ricorrente, condivisa dalla sezione nell’ordinanza cautelare 07.11.2014 n. 577, l’art. 146, c. 4, del d.lgs. 42/2004, nella parte in cui prevede la durata quinquennale dell’autorizzazione paesaggistica, secondo principi di logicità, coerenza e ragionevolezza del sistema giuridico, non può non tener conto del factum principis sopravvenuto.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale che ritiene che il decorso del termine quinquennale di efficacia produca, ex se, la caducazione ex lege, totale ed automatica, degli effetti dell’autorizzazione, senza trovare alcun ostacolo in fatti impeditivi anche di carattere assoluto, quali il factum principis o la causa di forza maggiore, compresi i provvedimenti di sequestro (cfr. Cons. St., VI, 20.12.2012, n. 6576; Tar Sardegna, II, n. 33/2013 cit., Tar Salerno, II, 25.03.2010, n. 2351, Tar Veneto, II, 16.11.1998, n. 2072); tuttavia ritiene che tale orientamento debba essere rimeditato alla luce della nuova formulazione dell’art. 146 del d.lgs. 42/2004, vigente al momento di adozione del provvedimento impugnato.
Il 4° comma dell’art. 146 del d.lgs. 42/2004, come modificato dall'art. 4, comma 16, lett. e), n. 1), D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla L. 12.07.2011, n. 106, vigente ratione temporis, stabilisce che “L'autorizzazione è efficace per un periodo di cinque anni, scaduto il quale l'esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione.”
La nuova formulazione della norma avvenuta ad opera dell'art. 4, comma 16, lett. e), n. 1), D.L. 13.05.2011, n. 70, al dichiarato intento di semplificare i procedimenti amministrativi relativi ad interventi edilizi nei Comuni che adeguano gli strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici regionali, al Codice dei beni, ha sostituito il termine “valida” con quello di “efficace”, così dando rilievo alla possibilità dell’atto di produrre effetti giuridici.
In particolare, secondo quieti principi di carattere generale, l'efficacia del provvedimento amministrativo indica l'idoneità dello stesso a produrre l’effetto giuridico voluto.
La validità del provvedimento non attiene invece al profilo propriamente degli effetti e/o conseguenze giuridiche, occupandosi piuttosto dei requisiti di legittimità dello stesso.
Nel caso dell’autorizzazione paesaggistica, la previgente formulazione, nello stabilire la sua validità quinquennale, esprimeva quindi un valore assoluto che non ammetteva deroghe, sicché non poteva ritenersi rilevante il factum principis.
La nuova accezione “efficace” ha ovviamente inteso apportare una modificazione evidente dell’istituto, dato che altrimenti non avrebbe senso la “novella” legislativa, spostando l’attenzione sugli effetti e quindi sulla capacità dell’autorizzazione a spiegare effetti giuridici, con le ovvie conseguenze anche in caso di cessazione temporanea dell'efficacia, cioè di sospensioni dell’idoneità del provvedimento a produrre effetti, sospensioni che –in quanto tali– non influiscono sulla durata quinquennale dell’efficacia, prevista dalla norma.
2.2. Nella specie, l’autorizzazione paesaggistica del 31.01.2008 è stata annullata dalla Soprintendenza:
a) con decreto 17.06.2008, impugnato con ricorso dinanzi a questo Tar n. 1463/2008 definito con sentenza n. 797/2010, gravata dinanzi al Consiglio di Stato che si è pronunciato con sentenza n. 657/2010;
b) con decreto dell’11.02.2011 impugnato con ricorso n. 530/2011 dinanzi a questo Tar, accolto con sentenza n. 1583/2011.
Gli atti della Soprintendenza hanno indubbiamente provocato la sospensione degli effetti dell’autorizzazione, e quindi della sua efficacia, dalla adozione degli atti di annullamento fino alla data di deposito delle sentenze di accoglimento dei ricorsi avverso gli annullamenti citati, per un periodo di circa un anno e nove mesi la prima volta e sette mesi la seconda volta.
Dal che discende che tale periodo di sospensione del tutto illegittimamente è stato pretermesso dall’A.C. intimata.
Il ricorso, sotto l’aspetto suindicato, merita quindi accoglimento (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 23.04.2015 n. 1361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Web ko? Si torna al bando. Tar Trento dà ragione a un farmacista.
Torna in corsa per il bando il farmacista che vuole concorrere all'assegnazione di una nuova sede: è stato escluso solo perché la pagina web dedicata dall'amministrazione non risponde secondo le regole fissate per la procedura. E per il malfunzionamento della piattaforma tecnologica la responsabilità non è soltanto di chi ha realizzato il progetto ma anche del dipendente che, venuto a conoscenza dei fatti, non si è attivato per ripristinare la legalità.

È quanto emerge dalla sentenza 15.04.2015 n. 149, pubblicata dal TRGA Trentino Alto Adige-Trento.
Sistema fallato
Il farmacista ha già partecipato a due bandi in altre Regioni ma la domanda è scartata perché manca l'indicazione della Pec. Ci riprova a Trento, ma la pagina web dedicata non risponde: al sistema risulta che il candidato ha già esaurito le possibilità di partecipare al bando per nuove farmacie riconducibile al Cresci Italia.
Il punto è che, disciplinare alla mano, non è così: la piattaforma tecnologica non ha previsto che la semplice presentazione di domande inammissibili consente la presentazione di ulteriori istanze di partecipazione. Insomma: la mancata risposta online dell'ente costituisce un provvedimento implicito che è senz'altro ricorribile davanti al giudice amministrativo. E soprattutto la falla nel sistema risulta imputabile all'amministrazione «come plesso» e alle persone che la compongono.
I dipendenti dell'ente non soltanto devono accorgersi quando lo strumento informatico contrasta con la disciplina legale della procedura ma sono pure tenuti a intervenire per soddisfare le legittime pretese dell'istante (articolo ItaliaOggi del 14.05.2015).
---------------
MASSIMA
3.2.1. Orbene, osserva il Collegio come
l’informatica costituisca sicuramente, per la pubblica Amministrazione, uno strumento ormai doveroso e imprescindibile, puntualmente disciplinato dall’ordinamento (d.lgs. 07.03.2005, n. 82, e relative norme attuative) al fine di raggiungere crescenti obiettivi di efficienza e efficacia dell’azione amministrativa.
3.2.2.
Sarebbe nondimeno gravemente errato vedere nel procedimento informatico una sorta di amministrazione parallela, che opera in piena indipendenza dai mezzi e dagli uomini, e che i dipendenti si devono limitare a osservare con passiva rassegnazione (se non con il sollievo che può derivare dal discarico di responsabilità e decisioni): le risposte del sistema informatico sono invece oggettivamente imputabili all’Amministrazione, come plesso, e dunque alle persone che ne hanno la responsabilità.
3.2.3. Così,
se lo strumento informatico determina situazioni anomale, vi è anzitutto una responsabilità di chi ne ha predisposto il funzionamento senza considerare tali conseguenze; ma v’è altresì la responsabilità, almeno omissiva, del dipendente che, tempestivamente informato, non si è adoperato per svolgere, secondo i principi di legalità e imparzialità, tutte quelle attività che, in concreto, possano soddisfare le legittime pretese dell’istante, nel rispetto, comunque recessivo, delle procedure informatiche.

PUBBLICO IMPIEGOCorte di cassazione. Dirigente infedele, anche la p.a., paga.
La responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione per illeciti commessi dai propri dipendenti sussiste anche laddove il funzionario agisca con dolo e per fini esclusivamente personali. Per la condanna dell'amministrazione, infatti, è sufficiente che la condotta del reo sia resa possibile in ragione del contesto di adempimento di una specifica mansione pubblica, a nulla rilevando che l'intento perseguito non possa, in alcun modo, essere ricondotto alla finalità istituzionale pubblica.

Lo ha stabilito la VI Sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza 31.03.2015 n. 13799.
Nel caso concreto una dirigente pubblica è stata rinviata a giudizio con l'accusa di aver commesso i reati di peculato, truffa aggravata e falso. In particolare, i fatti contestati all'imputata si riferivano a reiterate appropriazioni di titoli di credito, effetti cambiari e varie altre somme in suo possesso per ragioni di servizio.
Nell'ambito del giudizio di primo grado è stato richiesto l'intervento in giudizio del ministero della giustizia, quale responsabile civile per i danni cagionati dall'imputata in conseguenza della commissione dei reati.
Il tribunale di primo grado, pur condannando la dirigente, ha escluso ogni addebito per mancata vigilanza nei confronti del ministero, esito poi confermato dalla Corte d'appello. Per entrambi i giudici di merito, infatti, l'agente avrebbe agito nel proprio esclusivo interesse, e tanto bastava per manlevare da rimproveri l'amministrazione di appartenenza: nelle parole della Corte «in tema di responsabilità della pubblica amministrazione per fatto illecito del dipendente non è sufficiente la sola contestualità tra condotta criminosa e lo svolgimento delle mansioni affidate», dovendosi riscontrare una sovrapposizione tra l'intento perseguito dal reo e l'interesse istituzionale dell'ufficio, i.e. il fatto di reato deve risultare finalizzato anche al raggiungimento dei fini istituzionali.
La parte civile, non condividendo la tesi svolta dalla Corte territoriale, ha dunque proposto ricorso per cassazione, insistendo per la condanna al risarcimento del danno in via solidale del ministero.
La Corte capitolina, nel pronunciarsi sulla vicenda, è tornata ad occuparsi del delicato problema inerente la responsabilità dell'amministrazione per i reati dolosi commessi dai propri dipendenti in occasione del loro ufficio ai sensi dell'art. 28, Cost.: tale norma, infatti, da un lato prevede la diretta responsabilità di dipendenti e funzionari dello Stato e degli enti pubblici secondo (anche) le leggi penali; dall'altro prevede la responsabilità civile dello Stato e degli enti pubblici «in tali casi», e quindi senza alcuna distinzione tra inosservanza di leggi civili o penali.
Con una sentenza tanto severa quanto chirurgica gli ermellini hanno ribaltato il verdetto della Corte d'appello, affermando la responsabilità risarcitoria -per omessa vigilanza- del ministero.
Secondo gli ermellini, infatti, l'interpretazione resa dai giudici della Corte d'appello porta a restringere (per non dire cancellare) gli spazi in cui -pur a fronte di delitti dolosi dei dipendenti- residua una responsabilità risarcitoria della p.a. di appartenenza: in tal senso -si spiega- «poiché nessuno scopo o interesse di dolosa violazione di legge, e tantomeno di dolosa commissione di reati che tale tipologia di elemento soggettivo pretendono, potrebbe mai essere, per definizione, riconducibile a finalità istituzionale propria della pubblica amministrazione, questa non dovrebbe (o addirittura potrebbe) mai rispondere dei danni che un proprio appartenente abbia cagionato dolosamente, pur quando abbia agito in un contesto in cui proprio e solo l'adempimento di una mansione pubblica gli abbia permesso di perseguire il proprio intento, ancorché personale».
Al contrario -si osserva- la responsabilità dell'apparato pubblico deve considerarsi un principio di ordine generale posto che all'amministrazione, e solo ad essa, spettano la selezione e l'organizzazione delle persone che in concreto svolgono le sue proprie funzioni.
In conclusione, ad avviso della Corte, permane la «potenziale» responsabilità civile della p.a. per le condotte di propri dipendenti che, sfruttando l'adempimento di funzioni pubbliche ad essi espressamente attribuite, e in esclusiva ragione di un tale adempimento che quindi costituisce l'occasione necessaria e strutturale del contatto, tengano condotte, anche di rilevanza penale e pur volte a perseguire finalità esclusivamente personali, che cagionino danni a terzi, ogniqualvolta le condotte che cagionano danno risultino non imprevedibile ed eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni (articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015).

CONDOMINIOSì alle clausole se sono «trasparenti». Per la Cassazione la «trascrizione» non è più elemento obbligatorio.
Regolamento. I vincoli contrattuali limitano poteri e facoltà: devono essere conoscibili per i condomini.
Senza una reale conoscenza delle clausole il regolamento condominiale contrattuale è zoppo. Le clausole “contrattuali” inserite all’interno di un regolamento di condominio, a differenza di quelle “regolamentari”, che disciplinano la gestione e l’uso delle cose comuni, impongono pesi, limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà (o sulle parti comuni). E per avere efficacia vincolante per gli acquirenti dei singoli appartamenti è necessario che siano inserite in modo chiaro ed esplicito e vengano rese note, ossia conoscibili, per essere accettate, assumendo così carattere di convenzione.
Saranno sicuramente vincolanti quelle clausole di natura contrattuale che fanno parte del regolamento redatto dal costruttore-venditore e sottoscritte e accettate dagli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari ai cui atti di acquisto è stato allegato il regolamento, così come avranno efficacia vincolante per tutti i condòmini che lo abbiano approvato all’unanimità in assemblea.
Affinché però tali clausole siano vincolanti per gli eredi e gli altri aventi causa è necessario che delle clausole abbiano avuto conoscenza e siano state accettate, cosa che normalmente si ottiene mediante l’istituto della trascrizione.
Il regolamento non è un atto di per sé trascrivibile, in quanto non rientra tra quelli indicati nell’articolo 2643 del Codice civile che costituiscono, modificano o trasferiscono diritti reali.
La presenza di eventuali limitazioni richiede che esse siano rese note e accettate anche dai terzi, cosa possibile con la trascrizione del regolamento quale allegato all’atto di acquisto o ad altri atti trascrivibili, indicano nella nota di trascrizione, per ciascun condominio, tra l’altro, l’eventuale denominazione, l’ubicazione e il codice fiscale (articolo 2959 n. 1 del Codice civile post riforma).
A tal proposito la Corte di Cassazione ha di recente precisato che le clausole di natura contrattuale sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora «indipendentemente dalla trascrizione del regolamento, nell’atto di acquisto si sia fatto riferimento al regolamento di condominio che –seppur non inserito materialmente- deve ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 27.03.2015 n. 6299).
Deve trattarsi di conoscenza effettiva del regolamento perché «allorché nell’atto di acquisto è previsto l’obbligo di rispettare il regolamento da redigere in futuro, questo non sarà vincolante mancando, in tal caso, uno schema negoziale definitivo suscettibile di essere compreso, per comune volontà delle parti, nell’oggetto del contratto». In quest’ultima ipotesi, pertanto, il regolamento può vincolare l’acquirente solo se, successivamente alla sua redazione, quest’ultimo vi presti «volontaria adesione» (Cassazione, sentenza 856/2000).
Prima della redazione, questo impegno non costituisce adesione e, quindi, non produce effetti vincolanti, così come non può valere come approvazione di un regolamento allo stato inesistente, in quanto è solo il corretto richiamo dei singoli atti di acquisto a un determinato regolamento già esistente, che consente di ritenere quest’ultimo come facente parte per relationem di ogni singolo atto (Cassazione, sentenza 7359/1992).
I divieti e i limiti alle facoltà inseriti nei regolamenti, possono essere espressi anche mediante l’ elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare.
In quest’ultimo caso i divieti e i limiti devono risultare da espressioni chiare, «avuto riguardo più che alla clausola in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà (…)corrisponda ad un interesse meritevole di tutela» (Cassazione, sentenza 19229/2014)
(articolo IL Sole 24 Ore del 19.05.2015).

TRIBUTI: Le aree verdi attrezzate non pagano l'Imu.
Le aree destinate a verde pubblico non essendo suscettibili di sfruttamento edilizio non possono essere sottoposte al pagamento dell'Ici.

È il principio ribadito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 25.03.2015 n. 5992, Sez. V civile; è chiaro che quest'ultimo principio, oggi deve ritenersi valido per l'Imu, che ha sostituito l'Ici.
La vicenda riguardava il comune di Pineto, che aveva impugnato la sentenza della Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo, la quale aveva confermato la decisione dei giudici di primo grado con cui avevano annullato gli avvisi di accertamento Ici, inerenti agli anni 1998-2003.
L'adita Corte di cassazione ha nuovamente precisato che un'area destinata dal Prg a verde pubblico attrezzato impedisce ai privati ogni trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di area edificabile, come definita dagli stessi giudici di legittimità con sentenza n. 13917 del 2007.
Questi tipi di aree (ossia le aree verdi vincolate a verde pubblico attrezzato) non rientrano tra quegli spazi urbani aventi le caratteristiche per essere sottoposti all'imposizione fiscale dell'Ici, oggi Imu, come stabilito, per esempio, per le aree fabbricabili, dall'art. 1, comma 2, del dlgs n. 504, del 1992 (articolo ItaliaOggi del 19.05.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLavoro con la p.a. tra Tar e Tribunale.
In materia di controversie relative al rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, spetta al giudice amministrativo la giurisdizione solo in relazione alle controversie relative al personale in regime di diritto pubblico e a quelle sui procedimenti concorsuali volti alla successiva instaurazione del rapporto di lavoro.

Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, con la sentenza 06.03.2015 n. 493.
I giudici amministrativi calabresi hanno, altresì, osservato che nel caso in cui la procedura di assunzione, pur se preceduta da verifiche attinenti al possesso dei requisiti legittimanti un titolo preferenziale all'impiego, fosse svincolata dal meccanismo concorsuale, la cognizione apparterrebbe, invece, al giudice ordinario, anche in ossequio a un consolidato orientamento giurisprudenziale (si veda in proposito Cassazione civile, sezioni unite, 23.11.2000 n. 1203).
Circa il caso sul quale i giudici calabresi sono stati chiamati a esprimersi, i provvedimenti oggetto di impugnativa erano tutti inseriti in una procedura di stabilizzazione di lavoratori di pubblica utilità, la cui natura è equipollente a una assunzione senza espletamento di concorso pubblico, pertanto, hanno osservato i magistrati, riconducibile alla ipotesi di costituzione del rapporto lavorativo tra il singolo lavoratore e l'amministrazione pubblica datoriale.
Quindi, poiché ai sensi dell'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo del 30.03.2001, n. 165, è stato devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario il contenzioso inerente ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ivi comprese le controversie «concernenti l'assunzione al lavoro», occorre, secondo il Tar catanzarese declinare la giurisdizione in favore del competente giudice ordinario (in termini, cfr. anche Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 11.02.2008, n. 151; Tar Calabria, Catanzaro, 12.04.2010, n. 447, che fanno riferimento a Cass. civ., sez. un., 29.11.2006, n. 25276), d'innanzi al quale la causa potrà essere riproposta ai sensi dell'art. 11 c.p.a. e 59 legge 28.06.2009, n. 69 (articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015).
---------------
MASSIMA
Deve affermarsi il difetto di giurisdizione di questo plesso di giustizia amministrativa sulla vicenda controversa.
Osserva questo Tribunale che
in materia di controversie relative al rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, il giudice amministrativo ha mantenuto la giurisdizione solo in relazione alle controversie relative al personale in regime di diritto pubblico e a quelle sui procedimenti concorsuali volti alla successiva instaurazione del rapporto di lavoro.
Pertanto, quando la procedura di assunzione, pur se preceduta da verifiche attinenti al possesso dei requisiti legittimanti un titolo preferenziale all'impiego, è svincolata dal meccanismo concorsuale, la cognizione appartiene al giudice ordinario (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 23.11.2000 n. 1203).
Orbene, nel caso di specie, i provvedimenti oggetto di impugnativa sono tutti inseriti in una procedura di stabilizzazione di lavoratori di pubblica utilità, la cui natura è equipollente ad una assunzione senza espletamento di concorso pubblico, quindi riconducibile alla ipotesi di costituzione del rapporto lavorativo tra il singolo lavoratore e l'amministrazione pubblica datoriale.
Ed allora,
poiché ai sensi dell'art. 63, comma 1, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, è stato devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario il contenzioso inerente ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ivi comprese le controversie “concernenti l'assunzione al lavoro”, occorre, dunque, declinare la giurisdizione in favore del competente giudice ordinario (in termini, cfr. anche TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 11.02.2008, n. 151; TAR Calabria, Catanzaro, 12.04.2010, n. 447, che fanno riferimento a Cass. Civ., Sez. Un., 29.11.2006, n. 25276), d’innanzi al quale la causa potrà essere riproposta ai sensi dell’art. 11 c.p.a. e 59 l. 28.06.2009, n. 69.

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale sia gli oneri di urbanizzazione che il costo di costruzione gravanti sul titolare di una concessione edilizia abbiano natura giuridica di corrispettivi di diritto pubblico, e vadano, quindi, inquadrati nell’ambito delle prestazioni patrimoniali imposte, con la conseguenza che non può prescindersi da un’espressa previsione di legge.
Ciò comporta che, “non offrendo la legge, che ne disciplina il regime, alcun indicatore normativo speciale che faccia ritenere comunque applicabile la disciplina civilistica della solidarietà derivante dalla fattispecie dell’accollo, la parte cedente che non ha iniziato l’edificazione e quindi non abbia realizzato, neppure in minima parte, la costruzione degli edifici, viene a trovarsi liberata, in virtù della voltura del titolo edilizio, dall’obbligo di corrispondere gli oneri di concessione ed il contributo di costruzione di cui alla L. n. 10 del 1977, non essendosi verificato il presupposto di esigibilità del credito pubblico, ovvero la materiale trasformazione urbanistica del territorio”.
Laddove, invece, il presupposto di esigibilità del credito, ossia l’edificazione, abbia avuto consistenza in capo al dante causa ed al cessionario, sia il dante causa che il cessionario sono solidarmente tenuti nei confronti dell’amministrazione al pagamento degli oneri concessori, in quanto, in tal caso, l’identico fenomeno urbanistico ed edilizio ha tratto origine da due coautori.

... va rilevato che il problema da affrontare è se la voltura dell’originario permesso di costruire implichi che il dante causa del titolo edificatorio non sia più tenuto al pagamento degli oneri concessori.
Sull’argomento, la giurisprudenza è divisa e non sussiste un univoco orientamento.
Il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale sia gli oneri di urbanizzazione che il costo di costruzione gravanti sul titolare di una concessione edilizia abbiano natura giuridica di corrispettivi di diritto pubblico, e vadano, quindi, inquadrati nell’ambito delle prestazioni patrimoniali imposte, con la conseguenza che non può prescindersi da un’espressa previsione di legge.
Ciò comporta che, “non offrendo la legge, che ne disciplina il regime, alcun indicatore normativo speciale che faccia ritenere comunque applicabile la disciplina civilistica della solidarietà derivante dalla fattispecie dell’accollo, la parte cedente che non ha iniziato l’edificazione e quindi non abbia realizzato, neppure in minima parte, la costruzione degli edifici, viene a trovarsi liberata, in virtù della voltura del titolo edilizio, dall’obbligo di corrispondere gli oneri di concessione ed il contributo di costruzione di cui alla L. n. 10 del 1977, non essendosi verificato il presupposto di esigibilità del credito pubblico, ovvero la materiale trasformazione urbanistica del territorio” (Cons. Giust. Amm. Sic., 13.10.2011, n. 666).
Laddove, invece, il presupposto di esigibilità del credito, ossia l’edificazione, abbia avuto consistenza in capo al dante causa ed al cessionario, sia il dante causa che il cessionario sono solidarmente tenuti nei confronti dell’amministrazione al pagamento degli oneri concessori, in quanto, in tal caso, l’identico fenomeno urbanistico ed edilizio ha tratto origine da due coautori (cfr., TAR Sicilia, Catania, sez. I, 26.03.2009, n. 602) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.06.2012 n. 1126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema di oneri concessori sussiste anche quando la domanda del privato è diretta ad ottenere la restituzione di quanto si assume indebitamente versato ovvero trattenuto dalla P.A..
Tanto perché gli oneri concessori versati al Comune sono ripetibili sulla base della mera circostanza che la concessione edilizia non è stata utilizzata, anche a prescindere dall'intervento di un atto amministrativo di accertamento.
Nella fattispecie, infatti, trova piena applicazione l'art. 34 D.Lg.vo n. 80/1998 (poi sostituito dall'art. 7 L. n. 205/2000) che ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo tutte le controversie, aventi per oggetto qualsiasi iniziativa della Pubblica Amministrazione in materia di urbanistica e di edilizia.
---------------
A norma dell'art. 4, comma 6, della legge 10/1977 (ora art. 11 D.L.vo 380/2001), la concessione edilizia è trasferibile ai successori o aventi causa. In tal modo le norme riconoscono esplicitamente la natura <reale> del titolo edilizio, che viene, pertanto, rilasciato in ragione della titolarità di una situazione giuridica soggettiva ontologicamente ricollegata ad un determinato bene immobile.
Non è poi lecito dubitare che le somme pagate a titolo di contributi per oneri di urbanizzazione relativamente ad una concessione edilizia sono ripetibili se la concessione non sia stata utilizzata.
Ne consegue inevitabilmente il principio secondo cui sussiste una intrinseca connessione tra l'abilitazione all’esercizio dell'attività di edificazione ed il rapporto obbligatorio relativo ai contributi di urbanizzazione e di costruzione.
Ciò significa che il venir meno della titolarità della concessione e quindi del diritto di edificazione in capo all'originario concessionario con il trasferimento dei relativi diritti in testa al subentrante, destinatario della volturazione e titolare quindi dello ius aedificandi, di norma e salva diversa ed esplicita pattuizione tra cedente e cessionario, comportano anche il trasferimento a carico ed a favore di quest'ultimo, dal momento della volturazione, di tutti indistintamente i diritti e gli obblighi connessi e/o derivanti dalla concessione stessa.
Insomma, se, come detto, esiste una connessione innegabile tra ius aedificandi e diritti ed obblighi relativi agli oneri concessori, tali diritti e tali obblighi, salva esplicita deroga, non possono perpetuarsi in capo al soggetto originario concessionario che ha alienato il terreno interessato dalla trasformazione dopo il rilascio della concessione, quest’ultima volturata ad un nuovo soggetto, che è proprio quello e solo quello che poi in concreto può esercitare lo ius aedificandi.
D’altra parte, se è vero che, una volta intervenuta la volturazione della concessione edilizia, legittimato passivo rispetto alle misure repressive di lavori eventualmente condotti in difformità dalla concessione è soltanto il terzo subentrante e non l'originario titolare della concessione edilizia, lo stesso principio non può non affermarsi anche rispetto alle obbligazioni pecuniarie connesse alla concessione edilizia volturata dopo il suo rilascio e derivanti dall’avvenuto, o meno, concreto utilizzo della concessione stessa.
Né può pervenirsi a conclusione diversa solo perché la giurisprudenza ha ritenuto che la voltura della concessione comporta una <novazione soggettiva> della stessa.
Tale affermazione non incide, infatti, sul dato incontestabile che la concessione edilizia non ha natura <personale>, ma <reale>, nel senso che suo presupposto è comunque una situazione soggettiva attiva del richiedente in relazione ad un bene determinato e che da tale natura discende la possibilità di trasferimento della stessa insieme con l'area, subordinato ad un provvedimento di voltura che rappresenta un mero accertamento del fatto del subingresso di un nuovo soggetto nel rapporto giuridico originario.
Nella suindicata prospettiva, se è vero che l'atto di volturazione non comporta la corresponsione di ulteriori contributi concessori che restano quelli fissati in occasione del rilascio del titolo originario, è altrettanto vero che tali oneri, sia per la parte adempiuta che per quella non ancora adempiuta, salva diversa pattuizione recepita dall’Amministrazione, si trasferiscono automaticamente al subentrante, sia perché non rilevano sotto il profilo dell'intuitus personae, inerendo ad un atto che non ha carattere personale, sia perché connessi alla capacità di disporre del diritto di edificazione, nella specie in concreto non esercitato dal subentrante.
---------------
Nel caso della voltura della concessione edilizia, non essendo la prestazione oggetto dell'obbligazione contributiva caratterizzata in senso personale, si ha in realtà una modificazione dell'oggetto del rapporto, con l'effetto della liberazione da ogni diritto ed obbligo del primitivo concessionario in concomitanza con la perdita del diritto ed edificare.
Nel caso in esame, pertanto, la ricorrente, ove avesse effettivamente realizzato il progetto, sarebbe stata sicuramente tenuta a corrispondere le altre rate di contributo; alla stessa stregua, non avendo edificato, ove non esista un patto contrario, ha diritto alla ripetizione degli oneri che in relazione alla concessione sono stati pagati.
---------------
Tanto basta per l’accoglimento del ricorso e per l’affermazione dell’obbligo del Comune di provvedere in relazione alla domanda proposta dalla ricorrente, innanzitutto verificando se, per ipotesi, dall’atto di cessione emerga la diversa volontà di conservare in capo alla cedente il diritto al rimborso dei contributi già versati in caso di mancato utilizzo della concessione e, in caso di esito negativo di tale indagine, restituendo quanto versato alla cessionaria.

... avverso il silenzio opposto dal Comune alla richiesta della ricorrente di restituzione delle somme versate per oneri concessori inerenti alla concessione edilizia volturata in suo favore e dalla stessa rinunziata.
...
1- Col ricorso in esame l’Associazione IPERVEN ha nella sostanza impugnato il comportamento inerte opposto dal Comune intimato alla sua richiesta di restituzione delle somme pagate dalla sua dante causa (Circolo nautico di Torre Annunziata) in relazione alla concessione edilizia n. 15 del 16.09.1992, a suo tempo volturata in suo favore e successivamente da essa stessa rinunziata.
A tale ricostruzione del ricorso si perviene nella fattispecie applicando il principio consolidato secondo il quale il giudice amministrativo -fermo restando il principio di specificità enucleato dall'art. 6 R.D. 17.08.1907 n. 642- è legittimato ad operare un'interpretazione dei motivi e del petitum formalmente dedotti, avendo riguardo sia alle censure espressamente enunciate sia a quelle non esposte in un titolo ad hoc che possono, però, essere desunte dall'esposizione dei fatti e dal contesto del ricorso (Cfr. Cons. Stato, VI Sez. 27.09.1977 n. 777 e 28.09.2000 n. 5194, IV Sez. 05.07.1989 n. 457 , V Sez., 21.10.1992 n. 1026).
Dalla lettura dell’atto introduttivo del giudizio emerge, infatti, che la parte ricorrente si duole principalmente della mancata risposta alla sua richiesta di restituzione di quanto corrisposto e ancora detenuto dal Comune sine titulo, sicché è da ritenere che nella fattispecie sussistano i presupposti per l'applicazione dell'art. 21-bis della legge 06.12.1971, n. 1034, come novellato dall'art. 2 della legge 21.07.2000 n. 205.
D’altra parte, allo stato degli atti non sarebbe possibile pronunciare né positivamente né negativamente sulla (per la verità pure formulata) domanda di accertamento del diritto alla restituzione e di conseguente condanna del Comune, in quanto manca la prova –che evidentemente la parte ricorrente avrebbe dovuto fornire– circa l’inesistenza nell’accordo di cessione della concessione edilizia di una qualche (per la verità, inusuale) clausola che conservi il diritto della cedente all’ eventuale restituzione dei contributi già versati.
D’altra parte, nella fattispecie, non appare ostativo all'esperimento del rimedio del silenzio-rifiuto la circostanza che oggetto sostanziale del ricorso risulti, prima facie, un <diritto soggettivo>, qual è la pretesa patrimoniale alla restituzione di somme indebitamente versate, in quanto, a ben considerare, la peculiarità del caso di specie consiste proprio nel fatto che sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ordine al rapporto cui inerisce la richiesta rimasta inevasa (Cons. Stato Sez. V 10.02.2004 n. 497).
Nel caso in esame, attraverso l’impugnazione del silenzio, la parte ricorrente mira innanzitutto e soprattutto a far cessare il comportamento inerte del Comune ed a costringere lo stesso a pronunciarsi sulla base della documentazione in suo possesso, ivi incluso l’atto di cessione della concessione.
Ad ogni modo, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema di oneri concessori sussiste anche quando la domanda del privato è diretta ad ottenere la restituzione di quanto si assume indebitamente versato ovvero trattenuto dalla P.A. (cfr. ex multis Consiglio di Stato Sez. V n. 4102/2003, vedi pure più in generale Consiglio di Stato Sez. V n. 6821/2004).
Tanto perché gli oneri concessori versati al Comune sono ripetibili sulla base della mera circostanza che la concessione edilizia non è stata utilizzata, anche a prescindere dall'intervento di un atto amministrativo di accertamento (Cfr. Cons. Stato Sez. V 22.02.1998 n. 1145, TAR Marche, 11.05.1995, n. 228).
Nella fattispecie, infatti, trova piena applicazione l'art. 34 D.Lg.vo n. 80/1998 (poi sostituito dall'art. 7 L. n. 205/2000) che ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo tutte le controversie, aventi per oggetto qualsiasi iniziativa della Pubblica Amministrazione in materia di urbanistica e di edilizia.
2- Passando all’esame del merito del ricorso, il Collegio ricorda che, a norma dell'art. 4, comma 6, della legge 10/1977 (ora art. 11 D.L.vo 380/2001), la concessione edilizia è trasferibile ai successori o aventi causa. In tal modo le norme riconoscono esplicitamente la natura <reale> del titolo edilizio, che viene, pertanto, rilasciato in ragione della titolarità di una situazione giuridica soggettiva ontologicamente ricollegata ad un determinato bene immobile.
Come già notato, non è poi lecito dubitare che (Cons. St., sez. V 22.02.1988, n. 105) le somme pagate a titolo di contributi per oneri di urbanizzazione relativamente ad una concessione edilizia sono ripetibili se la concessione non sia stata utilizzata (TAR Abruzzo Pescara 15.12.2006 n. 890).
Ne consegue inevitabilmente il principio secondo cui sussiste una intrinseca connessione tra l'abilitazione all’esercizio dell'attività di edificazione ed il rapporto obbligatorio relativo ai contributi di urbanizzazione e di costruzione (cfr. Cons. Stato Sez. V 12.06.1995, n. 894).
Ciò significa che il venir meno della titolarità della concessione e quindi del diritto di edificazione in capo all'originario concessionario con il trasferimento dei relativi diritti in testa al subentrante, destinatario della volturazione e titolare quindi dello ius aedificandi, di norma e salva diversa ed esplicita pattuizione tra cedente e cessionario, comportano anche il trasferimento a carico ed a favore di quest'ultimo, dal momento della volturazione, di tutti indistintamente i diritti e gli obblighi connessi e/o derivanti dalla concessione stessa.
Insomma, se, come detto, esiste una connessione innegabile tra ius aedificandi e diritti ed obblighi relativi agli oneri concessori, tali diritti e tali obblighi, salva esplicita deroga, non possono perpetuarsi in capo al soggetto originario concessionario che ha alienato il terreno interessato dalla trasformazione dopo il rilascio della concessione, quest’ultima volturata ad un nuovo soggetto, che è proprio quello e solo quello che poi in concreto può esercitare lo ius aedificandi.
D’altra parte, se è vero che, una volta intervenuta la volturazione della concessione edilizia, legittimato passivo rispetto alle misure repressive di lavori eventualmente condotti in difformità dalla concessione è soltanto il terzo subentrante e non l'originario titolare della concessione edilizia (TAR Lombardia, Milano, sez. II 18.02.1984 n. 66), lo stesso principio non può non affermarsi anche rispetto alle obbligazioni pecuniarie connesse alla concessione edilizia volturata dopo il suo rilascio e derivanti dall’avvenuto, o meno, concreto utilizzo della concessione stessa.
Né può pervenirsi a conclusione diversa solo perché la giurisprudenza ha ritenuto che la voltura della concessione comporta una <novazione soggettiva> della stessa.
Tale affermazione non incide, infatti, sul dato incontestabile che la concessione edilizia non ha natura <personale>, ma <reale>, nel senso che suo presupposto è comunque una situazione soggettiva attiva del richiedente in relazione ad un bene determinato e che da tale natura discende la possibilità di trasferimento della stessa insieme con l'area, subordinato ad un provvedimento di voltura che rappresenta un mero accertamento del fatto del subingresso di un nuovo soggetto nel rapporto giuridico originario.
Nella suindicata prospettiva, se è vero che l'atto di volturazione non comporta la corresponsione di ulteriori contributi concessori che restano quelli fissati in occasione del rilascio del titolo originario (cfr. Cons. Stato sez. V. n. 616/1988 citata), è altrettanto vero che tali oneri, sia per la parte adempiuta che per quella non ancora adempiuta, salva diversa pattuizione recepita dall’Amministrazione, si trasferiscono automaticamente al subentrante, sia perché non rilevano sotto il profilo dell'intuitus personae, inerendo ad un atto che non ha carattere personale, sia perché connessi alla capacità di disporre del diritto di edificazione, nella specie in concreto non esercitato dal subentrante.
Tutto quanto sopra induce il Collegio a ritenere che, nel caso della voltura della concessione edilizia, non essendo la prestazione oggetto dell'obbligazione contributiva caratterizzata in senso personale, si ha in realtà una modificazione dell'oggetto del rapporto, con l'effetto della liberazione da ogni diritto ed obbligo del primitivo concessionario in concomitanza con la perdita del diritto ed edificare.
Nel caso in esame, pertanto, la ricorrente, ove avesse effettivamente realizzato il progetto, sarebbe stata sicuramente tenuta a corrispondere le altre rate di contributo; alla stessa stregua, non avendo edificato, ove non esista un patto contrario, ha diritto alla ripetizione degli oneri che in relazione alla concessione sono stati pagati.
3- Tanto basta per l’accoglimento del ricorso e per l’affermazione dell’obbligo del Comune di provvedere in relazione alla domanda proposta dalla ricorrente, innanzitutto verificando se, per ipotesi, dall’atto di cessione emerga la diversa volontà di conservare in capo alla cedente il diritto al rimborso dei contributi già versati in caso di mancato utilizzo della concessione e, in caso di esito negativo di tale indagine, restituendo quanto versato alla cessionaria (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 12.03.2012 n. 1220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 14.05.2015

ã

Tecnici Comunali (pubblici dipendenti) e quota annuale di iscrizione all'albo/ordine professionale a carico dell'ente: quali sono i termini corretti della questione??

     Nei giorni scorsi la stampa specializzata ha dato risalto ad una sentenza della Corte di Cassazione secondo cui spetta all'ente pubblico di appartenenza (nella fattispecie INPS) pagare la quota annuale di iscrizione del dipendente avvocato. Di seguito l'articolo:


PUBBLICO IMPIEGO
Dipendenti iscritti in albi. La tassa la paga la p.a.. Sentenza della sezione lavoro della Corte di cassazione.
Avvocato rimborsato. È l'amministrazione che deve pagare al dipendente inserito nel ruolo professionale legale la tassa annuale di iscrizione all'elenco speciale annesso all'albo forense per l'esercizio della professione nell'interesse esclusivo dell'ente datore. E ciò perché opera lo schema ex articolo 1719 c.c.: il mandante deve tenere il mandatario indenne da tutte le diminuzioni patrimoniali che scaturiscono dall'incarico svolto. Se dunque il lavoratore ha anticipato di tasca propria, deve essere reintegrato dell'esborso perché il pagamento della quota all'Ordine non può ritenersi coperto dall'indennità di toga né inerente ai rimborsi spese.

È quanto emerge dalla sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Decisiva l'esclusiva
Niente da fare per l'Inps: dovrà rassegnarsi a restituire all'ex dipendente tutte le tasse versate dal lavoratore quando era impiegato all'ufficio legale dell'istituto. La Suprema corte dà seguito al parere pronunciato dal Consiglio di stato nell'affare 678/2010: non convince l'interpretazione della Corte dei conti secondo cui la tassa dovrebbe ritenersi «strettamente personale» perché legata all'integrazione del requisito professionale previsto per svolgere il rapporto con l'ente.
Decisiva è invece l'esclusività del rapporto che lega l'avvocato all'amministrazione: l'opera professionale risulta garantita nell'ambito della subordinazione, la tassa annuale da pagare all'Ordine rientra fra i costi per lo svolgimento dell'attività e deve dunque gravare sull'ente datore, che è l'unico beneficiario delle prestazioni.
L'amministrazione deve rimborsare perché la quota annuale per l'iscrizione all'elenco speciale dell'albo non può ritenersi riconducibile alla retribuzione e ha un regime tributario incompatibile con le spese sostenute nell'interesse della persona, come quelle affrontate per gli studi universitari e per l'acquisizione dell'abilitazione professionale.
L'analogia con il contratto di mandato, poi, è rilevata laddove nel lavoro dipendente si configura l'assunzione a compiere l'attività per conto e nell'interesse altrui: così è il datore che deve fornire i mezzi necessari al dipendente come il mandante al mandatario (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
 

     Per comprendere appieno la ratio della sentenza, di seguito se ne propone la parte saliente con relativa massima:


PUBBLICO IMPIEGO
Il pagamento della tassa annuale di iscrizione all'Elenco speciale annesso all'Albo degli avvocati, per l'esercizio della professione forense nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro, rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività, che, in via normale, devono gravare sull'Ente stesso.
Quindi, se tale pagamento viene anticipato dall'avvocato-dipendente deve essere rimborsato dall'Ente medesimo, in base al principio generale applicabile anche nell'esecuzione del contratto di mandato, ai sensi dell'art. 1719 cod. civ. secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali necessari.

5.- Lo stesso difetto di impostazione si rinviene anche con riguardo al primo e al terzo motivo di ricorso, essendo le censure con essi proposte incentrate su argomenti già spesi nel giudizio di appello ed espressamente ritenuti infondati dalla Corte, senza invece lambire le ragioni su cui si basa la sentenza impugnata e, in particolare, senza contestare il riferimento, in essa contenuto, alla disciplina del mandato.
6.- A tale ultimo riguardo deve essere, peraltro, precisato che la questione che ha dato origine alla presente controversia, è stata a lungo dibattuta, anche con riguardo agli avvocati dipendenti di Enti locali, dinanzi alla Corte dei Conti (specialmente in sede di controllo) e al Giudice amministrativo.
Tale questione ha finalmente trovato una soluzione definitiva —recepita anche dalla contrattazione collettiva— dopo che il Consiglio di Stato, con parere reso il 15.03.2011 nell'affare n. 678/2010 (di molto antecedente il presente ricorso) ha affermato che, quando sussista il vincolo di esclusività, l'iscrizione all'Albo è funzionale allo svolgimento di un'attività professionale svolta nell'ambito di una prestazione di lavoro dipendente, pertanto la relativa tassa rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività, che dovrebbero, in via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso svolgere altre attività lavorative, gravare sull'Ente che beneficia in via esclusiva dei risultati di detta attività.
Il Consiglio di Stato, per giungere a tale soluzione, ha fatto espresso riferimento all'indirizzo espresso da questa Corte nella sentenza 20.02.2007, n. 3928 —che viene contestata dall'attuale ricorrente— ricordando che, in tale sentenza è stato affermato che il pagamento della quota annuale di iscrizione all'Elenco speciale annesso all'Albo degli avvocati per l'esercizio della professione forense nell'interesse esclusivo del datore di lavoro è rimborsabile dal datore di lavoro, non rientrando né nella disciplina positiva dell'indennità di toga (art. 14, comma 17, d.P.R. n. 43 del 1990) a carattere retributivo, con funzione non restitutoria e un regime tributario incompatibile con il rimborso spese, né attenendo a spese nell'interesse della persona, quali quelle sostenute per gli studi universitari e per l'acquisizione dell'abilitazione alla professione forense.
D'altra parte, il Consiglio di Stato ha espressamente affermato di non condividere la le decisioni prese dalla Corte dei conti in sede di controllo, nelle quali è stato qualificato l'obbligo di corresponsione della tassa per l'iscrizione come strettamente personale, essendo legato all'integrazione del requisito professionale necessario per svolgere il rapporto con l'ente pubblico, mentre a tale giurisprudenza fa espressamente riferimento l'attuale ricorrente.
È stato anche precisato che nel lavoro dipendente si riscontra l'assunzione, analoga a quella che sussiste nel mandato, a compiere un'attività per conto e nell'interesse altrui, pertanto la soluzione adottata risponde ad un principio generale ravvisabile anche nell'esecuzione del contratto di mandato, ai sensi dell'art. 1719 cod. civ. secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali necessari.
7.- Ne consegue che, anche tenendo conto di tale evoluzione del quadro giurisprudenziale, la sentenza impugnata va esente da qualsiasi censura, trattandosi di una pronuncia che, con congrua e logica motivazione, muovendo dalla condivisione di quanto affermato da Cass. 20.02.2007, n. 3928, è pervenuta ad affermare la sussistenza del diritto al rimborso in oggetto facendo riferimento alle norme relative all'esecuzione del contratto di mandato (e, in particolare, all'art. 1719 cod. civ.), analogamente a quanto stabilito, quasi contemporaneamente, dal Consiglio di Stato, nel suindicato parere.
IV — Conclusioni
8.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione —liquidate nella misura indicata in dispositivo— seguono la soccombenza.
9.- Ai sensi dell'art. 384, primo comma, cod. proc. civ. si ritiene opportuno enunciare il seguente principio di diritto: "
Il pagamento della tassa annuale di iscrizione all'Elenco speciale annesso all'Albo degli avvocati, per l'esercizio della professione forense nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro, rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività, che, in via normale, devono gravare sull'Ente stesso. Quindi, se tale pagamento viene anticipato dall'avvocato-dipendente deve essere rimborsato dall'Ente medesimo, in base al principio generale applicabile anche nell'esecuzione del contratto di mandato, ai sensi dell'art. 1719 cod. civ. secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali necessari" (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 16.04.2015 n. 7776).
---------------
Dello stesso tenore si legga anche Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 03.04.2015 n. 6878.
 

     A seguito di tale pronunciamento il Consiglio Nazionale degli Architetti ha emanato una circolare indirizzata ai propri Ordini provinciali laddove, tra l'altro:
● si afferma che "La sentenza riguarda espressamente la professione forense, ma i principi giuridici contenuti nella sentenza appaiono estensibili anche alla professione di architetto.";
● "Si invitano gli Ordini in indirizzo a comunicare ai propri iscritti tale interpretazione giurisprudenziale, invitando i dipendenti pubblici iscritti agli albi a sottoporre la questione al proprio ente di appartenenza.".
     La circolare de qua è riportata a seguire:


PUBBLICO IMPIEGO
: OGGETTO: Dipendenti pubblici iscritti agli albi - Contributo annuale iscrizione a carico della P.A. (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, circolare 22.04.2015 n. 49).
---------------
Riferimenti menzionati:
- Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 16.04.2015 n. 7776
- Consiglio di Stato, Sez. I, parere parere 15.03.2011 n. 1081
 

     Ciò premesso, occorre precisare che la sentenza sopra menzionata riguarda, innanzitutto, un avvocato pubblico dipendente e l'ordinamento professionale degli avvocati così dispone:


R.D.L. 27.11.1933 n. 1578 - Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore
Art. 1
(10) (11) (12)
   Nessuno può assumere il titolo, né esercitare le funzioni di avvocato o di procuratore
(9) se non è iscritto nell'albo professionale. (13)
   Conservano tuttavia il titolo quegli avvocati e procuratori che, dopo averne acquistato il diritto, sono stati cancellati dall'albo per una causa che non sia di indegnità.
   La violazione della disposizione del primo comma di questo articolo, quando non costituisca più grave reato, è punita, nel caso di usurpazione del titolo di avvocato o di procuratore, a norma dell'art. 498 del codice penale, e, nel caso di esercizio abusivo delle funzioni, a norma dell'art. 348 dello stesso codice.
(13)
---------------
(9) A norma dell'art. 3, L. 24.02.1997, n. 27 , il termine "procuratore legale" si intende sostituito con il termine "avvocato"
(10) A norma dell'art. 1, comma 1, D.Lgs. 01.12.2009, n. 179, è indispensabile la permanenza in vigore delle disposizioni di cui al presente provvedimento, limitatamente agli articoli 1; 2, comma 2; 3; 4; da 7 a 22; 24; 26; 30; 31; da 33 a 93 ; 94, commi 1 e 2; da 95 a 101
(11) Per la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense vedi la L. 31.12.2012 n. 247
(12) Per la soppressione dell'albo dei procuratori legali, vedi gli artt. 1 e 2, L. 24.02.1997 n. 27
(13) La Corte costituzionale, con ordinanza 21.12.2001 n. 423, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo e terzo comma, convertito dalla legge 22.01.1934 n. 36, sollevata in riferimento agli articoli 33, quinto comma, e 3 della Costituzione.


L. 31.12.2012, n. 247 - Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense
Art. 2 - Disciplina della professione di avvocato
   1. L'avvocato è un libero professionista che, in libertà, autonomia e indipendenza, svolge le attività di cui ai commi 5 e 6.
   2. L'avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l'effettività della tutela dei diritti.
   3. L'iscrizione ad un albo circondariale è condizione per l'esercizio della professione di avvocato. Possono essere iscritti coloro che, in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito a seguito di corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, hanno superato l'esame di Stato di cui all'articolo 46, ovvero l'esame di abilitazione all'esercizio della professione di avvocato prima della data di entrata in vigore della presente legge. Possono essere altresì iscritti:
a) coloro che hanno svolto le funzioni di magistrato ordinario, di magistrato militare, di magistrato amministrativo o contabile, o di avvocato dello Stato, e che abbiano cessato le dette funzioni senza essere incorsi nel provvedimento disciplinare della censura o in provvedimenti disciplinari più gravi. L'iscritto, nei successivi due anni, non può esercitare la professione nei circondari nei quali ha svolto le proprie funzioni negli ultimi quattro anni antecedenti alla cessazione;
b) i professori universitari di ruolo, dopo cinque anni di insegnamento di materie giuridiche. L'avvocato può esercitare l'attività di difesa davanti a tutti gli organi giurisdizionali della Repubblica. Per esercitarla davanti alle giurisdizioni superiori deve essere iscritto all'albo speciale regolato dall' articolo 22 . Restano iscritti agli albi circondariali coloro che, senza aver sostenuto l'esame di Stato, risultino iscritti alla data di entrata in vigore della presente legge.
   4. L'avvocato, nell'esercizio della sua attività, è soggetto alla legge e alle regole deontologiche.
   5. Sono attività esclusive dell'avvocato, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla legge, l'assistenza, la rappresentanza e la difesa nei giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali.
   6. Fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l'attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all'attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati. È comunque consentita l'instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata, aventi ad oggetto la consulenza e l'assistenza legale stragiudiziale, nell'esclusivo interesse del datore di lavoro o del soggetto in favore del quale l'opera viene prestata. Se il destinatario delle predette attività è costituito in forma di società, tali attività possono essere altresì svolte in favore dell'eventuale società controllante, controllata o collegata, ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile. Se il destinatario è un'associazione o un ente esponenziale nelle diverse articolazioni, purché portatore di un interesse di rilievo sociale e riferibile ad un gruppo non occasionale, tali attività possono essere svolte esclusivamente nell'ambito delle rispettive competenze istituzionali e limitatamente all'interesse dei propri associati ed iscritti.
   7. L'uso del titolo di avvocato spetta esclusivamente a coloro che siano o siano stati iscritti ad un albo circondariale, nonché agli avvocati dello Stato.
   8. L'uso del titolo è vietato a chi sia stato radiato.
 

     Altrettanto può dirsi con riferimento agli assistenti sociali pubblici dipendenti allorché l'ordinamento professionale di riferimento così recita:


L. 23.03.1993 n. 84 - Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell'albo professionale
Art. 2 - Requisiti per l'esercizio della professione
   1. Per esercitare la professione di assistente sociale è necessario essere in possesso del diploma universitario di cui all'articolo 2 della legge 19.11.1990 n. 341, aver conseguito l'abilitazione mediante l'esame di Stato ed essere iscritti all'albo professionale istituito ai sensi dell'articolo 3 della presente legge.
   1-bis. Il decreto di riconoscimento della qualifica professionale ai sensi del Titolo III, del decreto legislativo 09.11.2007 n. 206, costituisce titolo per l'iscrizione nell'albo
(4).
   2. Con i decreti del Presidente della Repubblica di cui all'articolo 9 della legge 19.11.1990, n. 341, è definito l'ordinamento didattico del corso di diploma universitario di cui al comma 1.
---------------
(4) Comma aggiunto dal comma 1 dell'art. 63, D.Lgs. 26.03.2010 n. 59
 

     Se ne deduce, pertanto, che con riferimento agli avvocati nonché agli assistenti sociali se gli stessi vogliono esercitare la professione (fuori ovvero dentro la P.A.) sussiste l'obbligo (di legge) di essere iscritti al proprio Ordine professionale.
     Con riferimento, invece, ai Tecnici Comunali (laureati e diplomati) le cose non stanno negli stessi termini e, difatti, la legge statuisce quanto segue:


INGEGNERI ED ARCHITETTI


L. 24.06.1923, n. 1395 - Tutela del titolo e dell'esercizio professionale degli ingegneri e degli architetti
Art. 4
   Le perizie e gli altri incarichi relativi all'oggetto della professione di ingegnere e di architetto sono dall'autorità giudiziaria conferiti agli inscritti nell'albo.
   Le pubbliche amministrazioni, quando debbano valersi dell'opera di ingegneri o architetti esercenti la professione libera, affideranno gli incarichi agli inscritti nell'albo.
   Tuttavia, per ragioni di necessità o di utilità evidente, possono, le perizie e gli incarichi di cui nei precedenti commi, essere affidate a persone di competenza tecnica, anche non inscritte nell'albo, nei limiti e secondo le norme che saranno stabilite col regolamento.

R.D. 23/10/1925, n. 2537 - Approvazione del regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto
Art. 5
   Per esercitare in tutto il territorio del Regno e delle colonie le professioni di ingegnere e di architetto è necessario avere superato l'esame di Stato, a norma del R.D. 31.12.1923, n. 2909, ferme restando le disposizioni transitorie della L. 24.06.1923, n. 1395 e del presente regolamento.
   Soltanto però agli iscritti nell'albo possono conferirsi le perizie e gli incarichi di cui all'art. 4 della detta L. 24.06.1923, n. 1395 , salva in ogni caso l'eccezione preveduta nel capoverso ultimo dello stesso art. 4 e nell'art. 56 del presente regolamento.

Art. 56
   Le perizie e gli incarichi di cui all' art. 4 della L. 24.06.1923, n. 1395, possono essere affidati a persone non iscritte nell'albo soltanto quando si verifichi una delle seguenti circostanze:
a) che si tratti di casi di speciale importanza i quali richiedano l'opera di un luminare della scienza o di un tecnico di fama singolare, non iscritto nell'albo;
b) che si tratti di semplici applicazioni della tecnica, non richiedenti speciale preparazione scientifica o che non vi siano nella località professionisti iscritti nell'albo, ai quali affidare la perizia o l'incarico.

Art. 62
   Gli ingegneri ed architetti che siano impiegati di una pubblica amministrazione dello Stato, delle province o dei comuni, e che si trovino iscritti nell'albo degli ingegneri e degli architetti, sono soggetti alla disciplina dell'ordine per quanto riguarda l'eventuale esercizio della libera professione.
   I predetti ingegneri ed architetti non possono esercitare la libera professione ove sussista alcuna incompatibilità preveduta da leggi, regolamenti generali o speciali, ovvero da capitolati.
   Per l'esercizio della libera professione è in ogni caso necessaria espressa autorizzazione dei capi gerarchici nei modi stabiliti dagli ordinamenti dell'amministrazione da cui il funzionario dipende.
   [È riservata alle singole amministrazioni dello Stato la facoltà di liquidare ai propri funzionari i corrispettivi per le prestazioni compiute per enti pubblici o aventi finalità di pubblico interesse]
(15).
   [Tali corrispettivi saranno fissati sulla base delle tariffe per i liberi professionisti con una riduzione non inferiore ad un terzo né superiore alla metà, salvo disposizioni speciali in contrario. La riduzione non avrà luogo nel caso che la prestazione sia compiuta insieme con liberi professionisti, quali componenti di una commissione]
(16) (17).
---------------
(15) Comma abrogato dall'art. 18, L. 11.02.1994 n. 109, nel testo modificato dall' art. 13, L. 17.05.1999 n. 144
(16) Comma abrogato dall'art. 18, L. 11.02.1994 n. 109, nel testo modificato dall' art. 13, L. 17.05.1999 n. 144
(17) Vedi, anche, l'art. 21, L. 15.11.1973 n. 734

 

-----------------------------------------------
 

GEOMETRI

R.D. 11/02/1929, n. 274 - Regolamento per la professione di geometra

Art. 2
   Presso ogni locale associazione sindacale
(3) dei geometri legalmente riconosciuta è costituito l'albo dei geometri, in cui sono iscritti coloro che, trovandosi nelle condizioni stabilite dal presente regolamento, abbiano la residenza entro la circoscrizione dell'associazione medesima.
---------------
(3) Ora, collegio professionale ai sensi del D.Lgs.Lgt. 23.11.1944 n. 382 , recante norme dei Consigli degli ordini e collegi e sui Consigli nazionali professionali.
 

Art. 7
   Gli impiegati dello Stato e delle altre pubbliche Amministrazioni, ai quali, secondo gli ordinamenti loro applicabili, sia vietato l'esercizio della libera professione, non possono essere iscritti nell'albo; ma, in quanto sia consentito, a norma degli ordinamenti medesimi, il conferimento di speciali incarichi, questi potranno loro essere affidati, pure non essendo essi iscritti nell'albo.
   I suddetti impiegati, ai quali sia invece consentito l'esercizio della professione, possono essere iscritti nell'albo; ma sono soggetti alla disciplina del Comitato
(6) soltanto per ciò che riguarda il libero esercizio. In nessun caso la iscrizione nell'albo può costituire titolo per quanto concerne la loro carriera.
   Gli impiegati suddetti non possono, però, anche se inscritti nell'albo, esercitare la libera professione ove sussista alcuna incompatibilità preveduta da leggi, regolamenti generali o speciali, ovvero da capitolati.
   Per l'esercizio della libera professione è in ogni caso necessaria espressa autorizzazione dei capi gerarchi nei modi stabiliti dagli ordinamenti dell'amministrazione da cui l'impiegato dipende.
   È riservata alle singole Amministrazioni dello Stato la facoltà di liquidare ai propri impiegati i corrispettivi per le prestazioni compiute per enti pubblici o aventi finalità di pubblico interesse.
   Tali corrispettivi saranno fissati sulla base delle tariffe per i liberi professionisti con una riduzione non inferiore ad un terzo, né superiore alla metà, salvo disposizioni speciali in contrario.
   La riduzione non avrà luogo nel caso che la prestazione sia compiuta insieme con liberi professionisti, quali componenti di una Commissione.
---------------
(6) Ora, collegio professionale ai sensi del D.Lgs.Lgt. 23.11.1944 n. 382 , recante norme dei Consigli degli ordini e collegi e sui Consigli nazionali professionali
 

     Ora, da quanto sopra riportato, si può evincere quanto segue:
1) per fregiarsi del titolo di Avvocato
la legge impone di essere iscritto all'Ordine professionale; anche per l'Assistente sociale la legge impone di essere iscritto all'Ordine professionale, sia che si eserciti la Libera Professione, sia come dipendente ed anche nei casi di esercizio della professione a livello volontaristico (si legga qui);
2)
i Geometri a tempo pieno NON hanno mai potuto essere iscritti al Collegio professionale; solo di recente la legge lo consente [si legga al riguardo: Oggetto: iscrizione all'albo dei pubblici dipendenti (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 13.02.2014 n. 1593 di prot.)] ma valgono ugualmente, nella fattispecie, le considerazioni di cui al successivo punto 4)b);
3) anche i Geometri con contratto di lavoro part-time (non superiore al 50%) possono essere iscritti e, quindi, svolgere contemporaneamente il lavoro di pubblico dipendente e la libera professione (seppur coi limiti di cui alla Legge 23.12.1996 n. 662);
4) gli Ingegneri e Architetti, anche con contratto di lavoro full-time, possono (se lo vogliono) essere iscritti all'Ordine professionale precisando che:
   a)
l'iscrizione NON è necessaria/obbligatoria per svolgere il lavoro di pubblico dipendente addetto all'UTC, poiché la legge non lo prevede;
   b) se è vero, come è vero, che l'iscrizione all'Ordine è comunque possibile (a richiesta dell'interessato) è altrettanto vero che non è possibile svolgere la libera professione (doppio lavoro!! ... se non in termini risicati di cui all’articolo 53 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165) e, pertanto, la quota annuale di iscrizione (eventualmente versata) è di per sé infruttifera poiché non porta (all'iscritto) alcun tipo di beneficio ... detto altrimenti, "soldi buttati dalla finestra";
   c) possono svolgere solamente la cosiddetta "prestazione occasionale" nei termini e nei modi siccome ampiamente esplicitati con l'AGGIORNAMENTO AL 22.12.2014 [e ciò vale anche per i Geometri di cui al precedente punto 2)].
    
Ma perché non è necessaria/obbligatoria l'iscrizione all'Ordine affinché un ingegnere/architetto possa lavorare all'UTC quale dipendente?? Presto detto: vediamo cosa dispone il Codice dei contratti pubblici e relativo regolamento attuativo:


D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 - Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE

Art. 90 - Progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici

1. Le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici sono espletate:

a) dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti;
b) dagli uffici consortili di progettazione e di direzione dei lavori che i comuni, i rispettivi consorzi e unioni, le comunità montane, le aziende unità sanitarie locali, i consorzi, gli enti di industrializzazione e gli enti di bonifica possono costituire con le modalità di cui agli articoli 30, 31 e 32 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267;
c) dagli organismi di altre pubbliche amministrazioni di cui le singole stazioni appaltanti possono avvalersi per legge;
d) da liberi professionisti singoli od associati nelle forme di cui alla legge 23.11.1939, n. 1815, e successive modificazioni
(legge abrogata dall'art. 10, comma 11, legge n. 183 del 2011), ivi compresi, con riferimento agli interventi inerenti al restauro e alla manutenzione di beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici, i soggetti con qualifica di restauratore di beni culturali ai sensi della vigente normativa;
e) dalle società di professionisti;
f) dalle società di ingegneria;
f-bis) da prestatori di servizi di ingegneria ed architettura di cui alla categoria 12 dell'allegato II A stabiliti in altri Stati membri, costituiti conformemente alla legislazione vigente nei rispettivi Paesi;
(lettera aggiunta dall'art. 1, comma 1, lettera v), d.lgs. n. 152 del 2008)
g) da raggruppamenti temporanei costituiti dai soggetti di cui alle lettere d), e), f), f-bis) e h) ai quali si applicano le disposizioni di cui all'articolo 37 in quanto compatibili;
h) da consorzi stabili di società di professionisti e di società di ingegneria, anche in forma mista, formati da non meno di tre consorziati che abbiano operato nel settore dei servizi di ingegneria e architettura, per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, e che abbiano deciso di operare in modo congiunto secondo le previsioni del comma 1 dell'articolo 36. E' vietata la partecipazione a più di un consorzio stabile. Ai fini della partecipazione alle gare per l'affidamento di incarichi di progettazione e attività tecnico-amministrative ad essa connesse, il fatturato globale in servizi di ingegneria e architettura realizzato da ciascuna società consorziata nel quinquennio o nel decennio precedente è incrementato secondo quanto stabilito dall'articolo 36, comma 6, della presente legge; ai consorzi stabili di società di professionisti e di società di ingegneria si applicano altresì le disposizioni di cui all'articolo 36, commi 4 e 5 e di cui all'articolo 253, comma 8.
(probabile errore di coordinamento: si suppone che il rinvio sia all'art. 253, comma 15)

4. I progetti redatti dai soggetti di cui al comma 1, lettere a), b) e c), sono firmati da dipendenti delle amministrazioni abilitati all'esercizio della professione. I pubblici dipendenti che abbiano un rapporto di lavoro a tempo parziale non possono espletare, nell'ambito territoriale dell'ufficio di appartenenza, incarichi professionali per conto di pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, se non conseguenti ai rapporti d'impiego.

 

Art. 253 - Norme transitorie

16. I tecnici diplomati che siano in servizio presso l'amministrazione aggiudicatrice alla data di entrata in vigore della legge 18.11.1998, n. 415, in assenza dell'abilitazione, possono firmare i progetti, nei limiti previsti dagli ordinamenti professionali, qualora siano in servizio presso l'amministrazione aggiudicatrice ovvero abbiano ricoperto analogo incarico presso un'altra amministrazione aggiudicatrice, da almeno cinque anni e risultino inquadrati in un profilo professionale tecnico e abbiano svolto o collaborato ad attività di progettazione.

 

-----------------------------------------------

 

D.P.R. 05.10.2010 n. 207 - Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»
 

Art. 9 - Responsabile del procedimento per la realizzazione di lavori pubblici
(art. 7, d.P.R. n. 554/1999)

1. Le fasi di progettazione, affidamento ed esecuzione di ogni singolo intervento sono eseguite sotto la diretta responsabilità e vigilanza di un responsabile del procedimento, nominato dalle amministrazioni aggiudicatrici nell'ambito dei propri dipendenti di ruolo, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 10, comma 5, del codice, prima della fase di predisposizione dello studio di fattibilità o del progetto preliminare da inserire nell’elenco annuale di cui all’articolo 128, comma 1, del codice; per lavori, non assoggettati a programmazione ai sensi dell’articolo 128 del codice, il responsabile del procedimento è nominato contestualmente alla decisione di realizzare i lavori.
2. Il responsabile del procedimento provvede a creare le condizioni affinché il processo realizzativo dell’intervento risulti condotto in modo unitario in relazione ai tempi e ai costi preventivati, alla qualità richiesta, alla manutenzione programmata, alla sicurezza e alla salute dei lavoratori ed in conformità di qualsiasi altra disposizione di legge in materia.
3. Nello svolgimento delle attività di propria competenza il responsabile del procedimento formula proposte al dirigente cui è affidato il programma triennale e fornisce allo stesso dati e informazioni:

a) nelle fasi di aggiornamento annuale del programma triennale;

b) nelle fasi di affidamento, di elaborazione ed approvazione del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo;

c) nelle procedure di scelta del contraente per l'affidamento di appalti e concessioni;

d) sul controllo periodico del rispetto dei tempi programmati e del livello di prestazione, qualità e prezzo;

e) nelle fasi di esecuzione e collaudo dei lavori.

4. Il responsabile del procedimento è un tecnico, abilitato all'esercizio della professione o, quando l'abilitazione non sia prevista dalle norme vigenti, è un funzionario tecnico, anche di qualifica non dirigenziale, con anzianità di servizio non inferiore a cinque anni. Il responsabile del procedimento può svolgere per uno o più interventi, nei limiti delle proprie competenze professionali, anche le funzioni di progettista o di direttore dei lavori. Tali funzioni non possono coincidere nel caso di interventi di cui all’articolo 3, comma 1, lettere l) e m), ovvero di interventi di importo superiore a 500.000 euro. Il responsabile del procedimento può altresì svolgere le funzioni di progettista per la predisposizione del progetto preliminare relativo a lavori di importo inferiore alla soglia di cui all’articolo 28, comma 1, lettera c), del codice.
 

     Da quanto sopra riportato si evince che le disposizioni legislative citate ineriscono la sola progettazione e non il resto del mansionario del pubblico dipendente (quale, per esempio, l'istruttoria delle istanze edilizie, la repressione degli abusi edilizi, ecc.) tant'è che per essere assunti, nel bando di concorso, si chiede ai partecipanti (a seconda del posto da ricoprire in pianta organica) di essere diplomati piuttosto che laureati. Altra cosa è l'abilitazione ovvero l'iscrizione all'albo/ordine professionale siccome già detto più sopra.
     Pertanto, circa la progettazione all'interno dell'UTC possono discendere le seguenti considerazioni:
a) se trattasi di Ingegnere/Architetto (comunque una figura laureata),
necessita (sempre e comunque) che abbia conseguito l'abilitazione (esame di stato) e non corre l'obbligo (di legge) che sia anche  iscritto all'ordine professionale;
b) se trattasi di Geometra (comunque una figura diplomata), necessita:
   1)
dell'abilitazione (esame di stato) oppure 5 (cinque) anni di anzianità nella P.A. alla data di entrata in vigore della legge 18.11.1998 n. 415 (ovverosia al 19.12.1998);
   2)
dell'abilitazione (esame di stato) sempre e comunque se in servizio dal/dopo il 20.12.1998 (senza l'obbligo dell'iscrizione al Collegio professionale).

QUINDI??

     Quindi, non corrisponde al vero quanto affermato dal Consiglio Nazionale degli Architetti di cui alla circolare 22.04.2015 n. 49 in ordine all'obbligatorietà a carico dell'ente pubblico di appartenenza del versamento della quota annuale di iscrizione all'Ordine professionale con riferimento ai pubblici dipendenti, a fronte dell'emanato pronunciamento Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 16.04.2015 n. 7776, poiché -così come ampiamente esplicitato più sopra, non sussiste l'obbligo di legge di iscriversi al fine di poter lavorare all'interno dell'UTC.
     Tra l'altro, siccome notorio, le varie Sezz. territoriali della Corte dei Conti hanno ribadito più volte all'unisono (tranne in un unico caso -per quanto di nostra conoscenza- di cui alla
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria, sentenza 28.09.2007 n. 801) che laddove il tecnico laureato volesse comunque iscriversi all'Ordine professionale (per far cosa??) lo dovrebbe fare a spese proprie [al riguardo, si legga il materiale raccolto nell'apposito dossier PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale di iscrizione all'ordine professionale)] poiché, diversamente, si concretizzerebbe un danno erariale.
     E con riferimento a tale arresto è stato affermato che "La sentenza 801/2007 della Sezione Calabria è stata resa all’esito di un giudizio di responsabilità:
le decisioni assunte in tale sentenza, purché passata in giudicato, sono vincolanti soltanto per le parti del giudizio (art. 2909 c.c.). Le interpretazioni contenute in una sentenza costituiscono di regola un precedente non vincolante, mancando nel nostro ordinamento il principio dello stare decisis operante in altri sistemi giuridici. In secondo luogo occorre osservare che la soluzione adottata nella sentenza non può avere valenza generale, in quanto accoglie espressamente, per farne causa esimente, il concetto di “vantaggio economico” (art. 1, comma 1-bis, legge 20/1994) che costituisce criterio derogatorio la cui applicazione in concreto è demandata esclusivamente al giudice contabile in sede di responsabilità." (cfr.
Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Marche, parere 03.06.2008 n. 9).
     Concludendo, nulla toglie che ognuno la possa pensare come meglio crede e se qualcuno volesse manifestare il proprio avviso contrario siamo ben disponibili a ricevere e pubblicare (su questi schermi) le relative ragioni sottese.
14.05.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

VARI: GUIDA ALLE AGEVOLAZIONI FISCALI PER LE PERSONE CON DISABILITA' (aprile 2015 - Agenzia delle Entrate).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Conto termico: dal 20 maggio aperti i Registri per l’accesso agli incentivi riguardanti alcune tipologie di intervento sugli impianti termici (ANCE di Bergamo, circolare 08.05.2015 n. 107).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Rideterminazione del contributo di costruzione per tardivo aggiornamento del costo di costruzione (Regione Emilia Romagna, nota 29.04.2015 n. 277317 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Disciplina delle assenze per visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici. Articolo 55-septies, comma 5-ter, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 e successive modifiche ed integrazioni (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nota 29.04.2015 n. 26518 di prot.).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Atto di indirizzo per la corretta applicazione del D.M. 31.10.2013 n. 143 (Consiglio Nazionale dei Geologi, circolare 29.04.2015 n. 392).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Assenze dal servizio per visite, terapie, prestazioni specialistiche ed esami diagnostici - Sentenza TAR Lazio n. 5714/2015 di annullamento della Circolare n. 2/2014 della Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della Funzione Pubblica (Ministero della Salute, nota 24.04.2015 n. 14368 di prot.).

ENTI LOCALIOggetto: Utilizzo di Sistemi di Aeromobile a Pilotaggio Remoto (Droni) (ENAC, nota 14.04.2015 n. 40278 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 14.05.2015, "Procedimento amministrativo di irrogazione delle sanzioni per superamento dei limiti di esposizione e dei valori di attenzione stabiliti dal d.p.c.m. 08.07.2003 ed al mancato rispetto dei limiti e tempi previsti per l’attuazione dei piani di risanamento per gli impianti fissi per le telecomunicazioni e la radiotelevisione" (circolare regionale 12.05.2015 n. 3).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 12.05.2015, "Quarto aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 08.05.2015 n. 3696).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 12.05.2015, "Modulistica unificata e standardizzata per la presentazione della comunicazione di inizio lavori (CIL) e della comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) per gli interventi di edilizia libera: adeguamento della modulistica nazionale alle normative specifiche e di settore di Regione Lombardia" (deliberazione G.R. 08.05.2015 n. 3543).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 dell'11.05.2015, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.04.2015, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 05.05.2015 n. 71).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E. 06.05.2015 n. L 115 "DIRETTIVA (UE) 2015/720 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 29.04.2015 che modifica la direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell'utilizzo di borse di plastica in materiale leggero" (link a http://eur-lex.europa.eu).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: C. Bargellini, Sulle disposizioni vigenti in virtù delle quali il ritardo nella emissione dei certificati di pagamento per gli acconti o per la rata di saldo, e il ritardo nell'effettivo pagamento, fa sorgere per l’appaltatore il diritto agli interessi, legali e moratori (05.05.2015 - link a www.appaltieriserve.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: C. Carrera, Abbandono di rifiuti e recinzione del fondo: la responsabilità del proprietario (Urbanistica e appalti n. 12/2014).
---------------
Prendendo spunto dalla più recente giurisprudenza sulla responsabilità del proprietario del fondo per l’abbandono di rifiuti effettuato da terzi, il contributo esamina la questione della rilevanza colposa dei comportamenti omissivi del proprietario, con specifico riguardo alla omessa recinzione del fondo.
In particolare esso dà conto delle opinioni condivise (come l’applicazione del parametro della diligenza media) per poi affrontare le questioni controverse, dando ampio spazio al fondamento della responsabilità: questo, infatti, costituisce l’elemento decisivo per concludere che in capo al proprietario sussiste un obbligo di garanzia rivolto ad impedire il verificarsi di prevedibili eventi di abbandono.
Perciò non si può escludere che la mancata recinzione del fondo costituisca, nelle circostanze concrete, un comportamento negligente secondo il parametro della diligenza media.

EDILIZIA PRIVATA: D. Logozzo, La disciplina degli impianti pubblicitari (Urbanistica e appalti n. 12/2014).
---------------
Le decisioni in commento, conformandosi ad orientamenti consolidati nell’ambito della giurisprudenza amministrativa formatasi in materia di autorizzazioni all’installazione di impianti pubblicitari, offrono l’occasione per effettuare un’esegesi della disciplina ad essi applicabile, enucleabile sia dalle disposizioni di cui all’art. 23 del D.Lgs. n. 285/1992 (nuovo codice della strada), che da quelle di cui all’art. 153, D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).

INCARICHI PROFESSIONALI: A. Senatore, Incarichi legali ed evidenza pubblica (Urbanistica e appalti n. 11/2014).
---------------
Il presente contributo si propone di trattare il tema dell’affidamento di incarichi professionali da parte delle amministrazioni pubbliche a professionisti esterni ad esse, con particolare attenzione agli incarichi affidati agli avvocati.
Per tali affidamenti non solo saranno trattate le relative modalità e condizioni, ma altresì l’incidenza su di essi delle norme di cui alla recente Direttiva europea in materia di appalti.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA PUBBLICI CONTRATTI)

APPALTI SERVIZIImmobili, manutenzione trasparente. Determina Anac.
Appalti di manutenzione di immobili pubblici da affidare ponendo a base di gara i piani di manutenzione e chiedendo offerte migliorative; le stazioni appaltanti devono però prima procedere a una adeguata programmazione degli interventi e alla puntuale classificazione delle prestazioni; necessarie specifiche puntuali per la fase esecutiva dell'appalto.

Sono questi alcuni dei suggerimenti contenuti nella determinazione 28.04.2015 n. 7 dell'Anac recanti le linee guida per l'affidamento dei servizi di manutenzione degli immobili (anche i c.d. «global services»).
Si tratta di contratti che si caratterizzano per la loro natura «mista» (comprendenti lavori e/o servizi e/o forniture) per i quali il principio generale previsto dal codice dei contratti è che se l'oggetto principale è costituito da servizi (e i lavori, benché di valore economico superiore al 50%, assumono carattere meramente accessorio) l'appalto sarà inquadrato come appalto di servizi (il che significa che la qualificazione dell'appaltatore non sarà con richiesta di attestazione Soa).
L'Anac invita pertanto le stazioni appaltanti a effettuare una attenta analisi della tipologia dei singoli interventi da eseguire e, laddove dovesse emergere la necessità di effettuare «attività/lavorazioni che comportano una modificazione dello stato fisico dei beni/impianti», a prevedere nella documentazione di gara il possesso dei requisiti di qualificazione per lo svolgimento dei lavori.
In particolare l'Anac precisa che occorre procedere alla classificazione dell'appalto (se servizi o lavori), definire l'importo complessivo del contratto e stabilire ogni elemento relativo alla qualificazione, certificazione, abilitazione e a ogni altra tipologia di requisito richiesta dalla normativa vigente (articolo ItaliaOggi del 12.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZIImmobili, per gli appalti no al criterio del prezzo. Anac. Le istruzioni.
Quando affidano i servizi di manutenzione dei loro immobili, le Pubbliche amministrazioni devono utilizzare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, e non quello del prezzo più basso perché quest’ultimo non è adatto ai servizi complessi dal punto di vista tecnico e organizzativo.
L’indicazione arriva dall’Autorità anticorruzione, che nella determinazione 28.04.2015 n. 7 diffusa ieri traccia le Linee guida per i contratti pubblici sulla manutenzione degli immobili.
L’analisi proposta dall’Anac parte dal fatto che questo tipo di contratti è caratterizzato da un mix di attività diverse, che rientrano sia nel campo dei servizi (per esempio la gestione degli impianti) sia in quello dei lavori (manutenzioni, riparazioni e così via).
Per questa ragione, il primo problema riguarda la catalogazione dell’appalto, che deve basarsi sull’analisi oggettiva di quale fra le due sia la componente principale. Nel caso dei lavori, infatti, le procedure semplificate sono percorribili per appalti fino a 5.186.000 euro, mentre nei servizi questa via si chiude a quota 270mila euro, e di conseguenza non è lecito indicare come oggetto principale dell’appalto i lavori solo per eludere queste soglie.
La complessità dei contratti incide soprattutto sulla scelta dei criteri di aggiudicazione: l’obiettivo della Pa deve essere quello di scegliere la migliore combinazione fra prezzo e qualità, tenendo conto dell’intera durata dell’appalto. Per queste ragioni, il suggerimento dell’Autorità è quello di porre a base d’asta un canone periodico che sia calcolato per remunerare tutti gli interventi previsti dal contratto, comprese le riparazioni di eventuali guasti
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOANTICORRUZIONE/Le linee guida dell'Anac in materia di tutela del whistleblower.
Uno scudo per chi fa la soffiata. I dati di chi segnala l’illecito oscurati nelle comunicazioni.
Uno scudo protettivo per gli informatori anti corruzione. Il nome del dipendente pubblico che segnala illeciti (anche se non costituiscono reato, come fatti di mala amministrazione) deve essere criptato, tenuto separato dalla segnalazione e oscurato nelle comunicazioni interne.

L'Anac, Autorità nazionale anticorruzione, ha definitivamente approvato (determinazione 28.04.2015 n. 6) le linee guida in materia di tutela del whistleblower, il dipendente che fa la soffiata, specificando che le tutele dovrebbero essere estese anche ai consulenti esterni della p.a..
Rimane, invece, per il cittadino la possibilità di esposti anonimi, purché dettagliati. Ma vediamo le parti salienti del provvedimento dell'Anac.
La norma. La norma di riferimento (articolo 54-bis del dlgs 165/2001) tutela da sanzioni disciplinari, licenziamento e altre forme di ritorsione il pubblico dipendente che denuncia condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro. Il nome del segnalante non può essere rilevato in procedimenti disciplinari, se non nel caso in cui sia indispensabile per il diritto di difesa. Inoltre la segnalazione è esclusa dalla trasparenza amministrativa e deve essere inoltrata anche all'Anac.
Cosa segnalare. Possono essere segnalati non solo fatti di reato, ma anche le situazioni in cui si verifica un abuso di potere per ottenere vantaggi privati, e anche i fatti di mala amministrazione, compreso l'inquinamento dell'azione amministrativa dall'esterno. Le linee guida fanno alcuni esempi: sprechi, nepotismo, demansionamenti, ripetuto mancato rispetto dei tempi procedimentali, assunzioni non trasparenti, irregolarità contabili, false dichiarazioni, violazione delle norme ambientali e di sicurezza sul lavoro.
Fatti probabili. Non è necessario che il dipendente sia certo dell'effettivo avvenimento dei fatti denunciati e dell'autore degli stessi. È, invece, sufficiente che il dipendente, in base alle proprie conoscenze, ritenga altamente probabile che si sia verificato un fatto illecito.
Le segnalazioni devono essere il più possibile circostanziate e devono contenere il maggior numero di elementi al fine di consentire di effettuare le dovute verifiche. Non sono ammesse le segnalazioni fondate su semplici sospetti o voci.
Tutela. Per tutelare il segnalante l'Anac prescrive di tenere separati i dati identificativi del segnalante dal contenuto della segnalazione, con l'adozione di codici sostitutivi dei dati identificativi. Inoltre non è permesso risalire all'identità del segnalante se non nell'eventuale procedimento disciplinare a carico del segnalato. Va, poi, mantenuto riservato, per quanto possibile, anche in riferimento alle esigenze istruttorie, il contenuto della segnalazione durante l'intera fase di gestione della stessa.
Inoltre è meglio una procedura informatica a una modalità di acquisizione e gestione delle segnalazioni che comportino la presenza fisica del segnalante.
Nel caso di trasmissione a soggetti interni all'amministrazione, dovrà essere inoltrato solo il contenuto della segnalazione, eliminando tutti i riferimenti dai quali sia possibile risalire all'identità del segnalante. Nel caso di trasmissione all'Autorità giudiziaria, alla Corte dei conti o al Dipartimento della funzione pubblica, la trasmissione dovrà avvenire evidenziando che si tratta di una segnalazione pervenuta da un soggetto cui l'ordinamento riconosce una tutela rafforzata della riservatezza.
Collaboratori esterni. L'Anac, vista la lacuna normativa, si limita ad augurarsi un'integrazione della norma per tutelare consulenti e collaboratori a qualsiasi titolo e i collaboratori di imprese fornitrici dell'amministrazione.
Cittadini. Ai cittadini, sforniti delle descritte tutele, potrebbe rimanere la segnalazione anonima. L'Anac ricorda sono prese in considerazione anche le segnalazioni anonime, se, però, sono adeguatamente circostanziate e descritte nei particolari, e cioè se sono in grado di far emergere fatti e situazioni relativi a contesti determinati.
Stop alla protezione. Il limite della protezione per il dipendente pubblico è la diffamazione o la calunnia. Ma solo in presenza di una sentenza di primo grado sfavorevole al segnalante potranno cessano le misure di tutela della riservatezza dell'identità (articolo ItaliaOggi del 07.05.2015).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIUnioni, spese compensabili. I servizi associati devono essere più d'uno.
La possibilità di compensare le spese di personale all'interno delle unioni e delle convenzioni opera soltanto nell'ipotesi in cui esse gestiscano più funzioni fra quelle che le legge impone ai piccoli comuni di svolgere in forma associata.

È quanto afferma la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, nel parere 28.04.2015 n. 173.
L'art. 1, comma 450, della legge 190/2015, ha aggiunto all'art. 14 del dl 78/2010 (che impone ai piccoli comuni l'esercizio associato obbligatorio delle proprie funzioni fondamentali) il comma 31-quinquies, ai sensi del quale «nell'ambito dei processi associativi di cui ai commi 28 e seguenti, le spese di personale e le facoltà assunzionali sono considerate in maniera cumulata fra gli enti coinvolti, garantendo forme di compensazione fra gli stessi, fermi restando i vincoli previsti dalle vigenti disposizioni e l'invarianza della spesa complessivamente considerata».
Secondo i giudici contabili lombardi, si tratta di una disposizione di favore che, al fine di incentivare ulteriormente l'esercizio associato delle predette funzioni, consente al singolo comune di compensare le eventuali maggiori spese sostenute per il personale alle proprie dipendenze (o comunque a esso riferibili agli effetti della rendicontazione) che svolge le funzioni a vantaggio degli altri comuni, con i risparmi di spesa derivanti dal mancato impiego di personale per l'esercizio di altre funzioni associate assicurate dal personale dell'unione o a carico degli altri enti convenzionati.
Si richiede pertanto, sotto questo profilo, che sia predisposta una regolamentazione delle diverse funzioni associate tale da garantire le predette forme di compensazione, escludendo in ogni caso qualsiasi aumento della spesa della spesa per il personale che rimane soggetta ai vincoli stabiliti dalle disposizioni di coordinamento della finanza pubblica.
Ne deriva che il citato comma 31-quinquies non può essere applicato nel caso in cui il servizio associato sia solamente uno e il personale interessato faccia capo esclusivamente a un unico comune, il quale dovrà computarne per intero la spesa ai fini del rispetto dei vincoli imposti delle norme di coordinamento della finanza pubblica (articolo ItaliaOggi dell'08.05.2015).

TRIBUTINiente rimborsi Tia con la Tari. I minori incassi con la Tariffa diventano perdite definitive. La Corte conti Toscana sancisce l'autonomia della Tassa rifiuti rispetto al precedente sistema.
La Tassa sui rifiuti (Tari) non può essere usata per rimborsare i crediti Tia non riscossi dalle precedenti gestioni. I minori incassi derivanti dalla mancata riscossione dei crediti maturati sotto il previgente regime si traducono in perdite definitive a carico del soggetto gestore.

Questa la posizione della Corte dei conti Toscana, Sez. controllo, espressa nel recente parere 28.04.2015 n. 73 a seguito di richiesta specifica da parte di un ente locale.
La Corte, pur affermando un principio del tutto condivisibile (quello dell'autonomia del regime Tari rispetto al previgente regime Tia), sembra tuttavia giungere a conclusioni non pienamente convincenti e che rischiano in realtà di mettere in crisi il fondamentale principio del recupero totale dei costi del servizio (full cost recovery), che peraltro la stessa Corte riconosce e afferma nel medesimo parere. Vediamo meglio.
La vicenda specifica
La questione nasce da una richiesta di un comune della provincia di Pistoia di poter considerare quali «costi comuni diversi», nel piano finanziario Tari, ai fini della determinazione della relativa tariffa, tra l'atro, i «costi per crediti Tia-1 inesigibili», di cui sia stata accertata la perdita, per la parte non coperta da fondo rischi o garanzia assicurativa, temporalmente collocati nel periodo compreso tra il 2002 e il 2012.
La richiesta si fonda in particolare sul presupposto implicito che la tariffa debba assicurare il recupero totale dei costi del servizio. Tale principio, noto come «full cost recovery» costituisce dichiarata attuazione della direttiva comunitaria 91/156/Cee, ed è stato introdotto dall'art. 49, 4° comma, dlgs 05.02.1997, n. 22, con riferimento alla Tia-1, ed è oggi ribadito, con riferimento alla Tari, dall'art. 1, comma 654, legge 27.12.2013, n. 147.
Lo stesso principio è recepito dal metodo normalizzato per definire le componenti di costo da coprire con il gettito della tariffa e i criteri di determinazione della tariffa di riferimento relativa alla gestione dei rifiuti urbani (dpr 27.04.1999, n. 158), che correttamente include tra le componenti di costo sia gli accantonamenti a fondo rischi che le svalutazioni dei crediti non più esigibili.
La posizione della Corte
Nell'esaminare la questione posta alla sua attenzione la Corte non nega il principio del full cost recovery. Al contrario fa proprio tale principio, limitandosi esclusivamente a precisare che esso deve essere applicato nell'ambito di ciascun regime, senza possibilità di sovrapposizione alcuna.
In altre parole, secondo la Corte ciascuna tariffa, «deve essere costruita in modo da bastare a sé stessa, e non nascere già gravata da oneri pregressi (relativi a crediti non incassati, originati da tributi risalenti e ormai soppressi), che avrebbero dovuto trovare idonea copertura nel quadro dei rispettivi regimi normativi, attraverso adeguati accantonamenti o maggiori previsioni di entrata».
È per questo motivo che nella costruzione del piano tariffario relativo alla Tari, secondo la Corte non possono essere inseriti elementi di costo relativi al previgente regime di Tia. In effetti, consentire ora per allora al Comune di considerare, ai fini della quantificazione della tariffa, i mancati ricavi relativi ad altro tributo, non incassati dal precedente gestore, comporterebbe il trasferimento sull'utenza attuale di perdite, che avrebbero dovuto gravare su una platea almeno in parte diversa di soggetti.
Fin qui il ragionamento operato dalla Corte appare assolutamente condivisibile, soprattutto alla luce della diversa natura giuridica della Tari, rispetto alla Tia che incide naturalmente anche sulla definizione dei presupposti impositivi.
Se dunque alla luce delle ragioni sopra indicate è condivisibile separare le vicende della Tia da quelle della Tari, lascia invece perplessi la conclusione che sembra raggiungere la Corte secondo la quale, nel caso in cui tali modalità di copertura siano risultate insufficienti (e dunque per la parte dei mancati ricavi non coperta da fondi rischi o da maggiori entrate), «i minori incassi derivanti dalla mancata riscossione dei crediti maturati sotto il previgente regime si traducono in perdite definitive a carico del soggetto gestore (e cioè, nel caso di specie, la società in house affidataria del servizio)».
L'affermazione di tale principio, se non adeguatamente specificato, rischia di apparire in evidente contraddizione con il riconosciuto principio del full cost recovery. In tal caso infatti, la società di gestione si troverebbe a vedere non coperti una parte anche significativa dei costi di gestione, non certo per propria responsabilità, ma solo per la non corretta costruzione del sistema tariffario previgente. Più propriamente, l'impossibilità di coprire i mancati incassi dei crediti attraverso il sistema Tari dovrebbe essere posta a carico dei soggetti regolatori (enti locali e/o autorità) che hanno omesso di applicare il principio del full cost recovery nella determinazione della tariffa di riferimento.
Si può tuttavia ritenere che tale ambiguità nella posizione della Corte sia dovuta al fatto che la società di gestione in oggetto era una società in house e perciò non facilmente distinguibile dal soggetto regolatore. Per cui, nel caso di specie non vi era concretamente un interesse di un soggetto realmente terzo rispetto al titolare della potestà regolatoria.
Conseguentemente, ci si può ragionevolmente attendere che in una diversa fattispecie e di fronte a una concessione di servizi, possa essere affermato il principio che pare certamente più adeguato secondo il quale i mancati ricavi relativi ad altro tributo, non incassati dal precedente gestore, vanno coperti a carico del bilancio generale del soggetto che ha concretamente omesso di applicare il corretto principio del recupero integrale dei costi del servizio (articolo ItaliaOggi dell'08.05.2015).

SEGRETARI COMUNALIDiritti di rogito ai segretari in convenzione. Corte dei conti. Compenso legittimo anche se uno dei Comuni ha dirigenti in organico.
I segretari in convenzione tra Comuni con i dirigenti e a amministrazioni che ne sono prive possono percepire i compensi per il rogito negli enti privi di dirigente, e questi compensi vanno commisurati sul trattamento economico complessivo del segretario.
Sono queste le principali indicazioni offerte dalla Corte dei conti Lombardia nel parere 24.04.2015 n. 171.
I giudici scrivono espressamente che «il segretario comunale titolare del servizio di segreteria in convenzione ha diritto alla quota prevista di diritti di segreteria per l’attività svolta quale ufficiale rogante presso il Comune convenzionato non provvisto di dipendenti con qualifica dirigenziale; la misura del quinto dello stipendio, su cui parametrare il tetto massimo dei diritti di rogito erogabili, deve essere calcolata sul trattamento economico complessivamente fruito da parte del singolo segretario comunale».
La lettura è coerente con il dettato e la logica del Dl 90/2014, una norma che vieta la percezione dei diritti di rogito ai segretari che possono già usufruire di un salario accessorio elevato, in quanto commisurato con il trattamento economico più elevato percepito dai dirigenti dell’ente. Il parere interviene con una lettura estensiva della possibilità per i segretari di ricevere i compensi per le attività di rogito, e con un’interpretazione nuova e ancora più estensiva del tetto dei compensi che possono essere percepiti annualmente, ovviamente entro la soglia massima del 20% del trattamento economico annuo, soglia fissata direttamente dal legislatore . Si deve ricordare che su questa materia si attende il parere della sezione Autonomie che deve sciogliere i due nodi di fondo: i compensi per il rogito possono essere percepiti dai segretari assimilati ai dirigenti e che operano in Comuni privi di dirigenti? Qual è la misura di questi compensi, entro il tetto di 1/5 del trattamento economico annuo, e chi deve fissarne la misura?
Il parere richiama in premessa le indicazioni già formulate dalla stessa sezione Lombardia nella deliberazione n. 275/2014, con la quale è stato espresso un orientamento positivo per la percezione di questo compenso da parte di tutti i segretari nei Comuni privi di dirigente. In quella delibera era stato chiarito che nelle convenzioni tra Comuni privi di dirigente questo compenso spetta.
Su tale base si deve trarre la prima conclusione che i diritti di rogito, in caso di convenzione tra Comuni che hanno la dirigenza e Comuni che ne sono sprovvisti, spettano per le attività svolte negli enti privi di dirigenti. Il fatto che uno dei Comuni aderenti abbia i dirigenti non influisce sulla condizione dell’altro ente che ne è privo. Si devono sviluppare considerazioni per molti versi analoghe a quelle sostenute per consentire ai segretari assimilati ai dirigenti di ricevere questi compensi nelle amministrazioni prive di dirigenti: «Rimane irrilevante la circostanza che tale qualifica dirigenziale sia aliunde rivestita dall’interessato».
Il parere dà una lettura estensiva del tetto dei compensi che possono essere percepiti dai segretari: il compenso non va calcolato sulla sola quota a carico dell’ente privo di dirigenti, ma sul totale complessivo. Il dettato legislativo non contiene indicazioni né espresse né tacite in favore dell’una o dell’altra soluzione, e il parere si limita a giudicare come «maggiormente conforme al dato letterale della norma, che si riferisce allo stipendio in godimento» la lettura riferita al trattamento economico complessivo
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2015).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il consigliere supplente può dimettersi.
Le dimissioni contestuali dalla carica da parte di 4 consiglieri su 7 assegnati al comune, tra cui un consigliere supplente, nominato in sostituzione temporanea per l'intera durata della sospensione del consigliere titolare configurano l'ipotesi prevista dall'art. 141, comma 1, lett. b), n. 3, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ovvero determinano unicamente la cessazione dalla carica dei consiglieri dimissionari, con conseguente necessità di procedere alla loro surroga?

In merito alle dimissioni presentate dal consigliere supplente, l'art. 45 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, in materia di surrogazione e supplenza dei consiglieri comunali, dispone che in caso di sospensione di un consigliere ai sensi dell'articolo 59 (ora articolo 11 del decreto legislativo 31.12.2012, n. 235), il consiglio, nella prima adunanza successiva alla notifica del provvedimento di sospensione, procede alla temporanea sostituzione affidando la supplenza, per l'esercizio delle funzioni di consigliere, al candidato della stessa lista che ha riportato, dopo gli eletti, il maggior numero di voti. La supplenza ha termine con la cessazione della sospensione. Qualora sopravvenga la decadenza si fa luogo alla surrogazione a norma del comma 1.
Il chiaro contenuto letterale della norma specifica che, durante tale periodo, il candidato chiamato alla temporanea sostituzione del consigliere raggiunto da misura cautelare svolge le funzioni di consigliere per assicurare la funzionalità del consiglio stesso. Nel passato non sono intervenute pronunce della giurisprudenza concernenti gli eventuali limiti all'esercizio di tali funzioni; tuttavia, in relazione ai poteri del vicesindaco chiamato ad assumere i poteri del sindaco, il consiglio di stato, con i pareri nn. 94 del 21.02.1996 e 501 del 14.06.2001, ha precisato che il vicesindaco, chiamato in caso di assenza del sindaco a svolgere le funzioni vicarie, assume la veste di reggente con titolarità delle competenze, sia pure in via temporanea e straordinaria e compie tutti gli atti di competenza del sindaco.
In particolare, l'alto consesso ha sottolineato che eventuali limitazioni potranno essere stabilite da norme positive ma, in mancanza, è impossibile identificare a priori atti riservati al titolare e vietati al supplente. La preposizione alla carica in cui si è realizzata la vacanza implica, di norma, l'attribuzione di tutti i poteri del titolare, con la sola limitazione temporale connessa alla sua vacanza.
Conseguentemente, sulla base anche dei principi generali dell'ordinamento concernenti l'esercizio e la disponibilità dei diritti, nell'esercizio di tali funzioni rientra anche quella di rassegnare le dimissioni dalla carica. Nel caso di specie, sulla base del combinato disposto degli art. 38 e 141, comma 1, lett. b) n. 3 del citato decreto legislativo n. 267/2000, le dimissioni rassegnate, con le forme ivi indicate, dalla metà più uno dei membri assegnati comportano lo scioglimento del consiglio comunale.
Il consiglio di stato, più volte chiamato a intervenire sull'argomento, ha precisato che le dimissioni «ultra dimidium» abbiano natura di atto collettivo, caratterizzato dall'essenziale perseguimento del disegno unitario di provocare lo scioglimento del consiglio comunale con la volontà degli effetti volta non alla mera rinuncia alla carica bensì ad essa quale strumento per realizzare, unitariamente e concordemente da parte della maggioranza, l'intento comune dello scioglimento del consiglio (Consiglio di stato n. 846/2004; n. 2433/2014) (articolo ItaliaOggi dell'08.05.2015).

SICUREZZA LAVORO: Responsabilità del RSPP per mancata previsione del rischio specifico?
Quesito
E' possibile che un RSPP possa essere condannato penalmente per il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica, in danno di un lavoratore precipitato dall'alto durante l'esecuzione dei lavori, evidenziando in proposito che anche il RSPP, nella sua qualità, avrebbe dovuto prevedere lo specifico rischio caduta dall'alto ove avesse operato con la dovuta diligenza?
Risposta
L'obbligo dei titolari della posizione di sicurezza in materia di infortuni sul lavoro è articolato e comprende non solo l'istruzione dei lavoratori sui rischi connessi alle attività lavorative svolte e la necessità di adottare tutte le opportune misure di sicurezza, ma anche la effettiva predisposizione di queste, il controllo, continuo ed effettivo, circa la concreta osservanza delle misure predisposte per evitare che esse vengano trascurate o disapplicate nonché il controllo sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione.
Il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 40, comma 2, c.p..
La responsabilità del datore di lavoro non esclude, però, la concorrente responsabilità del RSPP. Anche il RSPP, infatti, che pure è privo dei poteri decisionali e di spesa (e quindi non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio), può essere ritenuto (cor)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione (Cass. pen., Sez. IV, 20.04.2011, n. 28779).
Di conseguenza, in tema di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non operativo ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico -Cass. Pen. n. 22233 del 2014- di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino in conseguenza della violazione dei suoi doveri (07.05.2015 - link a www.insic.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Compensi professionali spettanti al personale dell'Avvocatura comunale.
L'art. 9, comma 8, del d.l. 90/2014, convertito nella l. 114/2014, dispone che i commi 3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 del medesimo articolo si applicano a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto stesso.
In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 01.01.2015 le amministrazioni pubbliche non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad una problematica concernente il recente intervento legislativo che ha riformato gli onorari dell'Avvocatura generale dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici, nello specifico l'art. 9 del d.l. 90/2014, convertito in l. 114/2014. L'Ente precisa di essere dotato di un Ufficio legale interno e di aver adottato a suo tempo apposito regolamento di disciplina dei compensi professionali relativi alla gestione di controversie giudiziarie in caso di esito favorevole all'Amministrazione.
Ciò premesso il Comune istante, con riferimento in particolare a quanto contemplato al comma 8 dell'art. 9
[1] citato, specifica altresì di non aver provveduto nei termini all'adeguamento del regolamento in argomento. Di conseguenza, essendo spirato il termine previsto dal legislatore per l'adeguamento medesimo, chiede di conoscere il comportamento da adottare in merito alla richiesta di corresponsione dei compensi professionali avanzata dal 01.01.2015 dal personale dell'Avvocatura comunale, dipendente dell'Ente.
Com'è noto, il richiamato articolo 9 del d.l. 90/2014 ha riformato in modo radicale il regime degli onorari spettanti agli avvocati di Stato e degli enti pubblici.
La Corte dei conti
[2] ha evidenziato come, a seguito dell'intervenuta riforma, la disciplina attualmente vigente per le avvocature degli enti locali risulti maggiormente articolata rispetto a quella introdotta in precedenza dalla legge di stabilità del 2014 [3], 'contemplando il passaggio dal meccanismo della decurtazione percentuale dei compensi, a quello della combinazione del doppio tetto retributivo (generale e particolare) con quello del regime di riparto dei compensi secondo le norme regolamentari e della contrattazione collettiva basate su criteri meritocratici, con un tetto di spesa, ove l'onere sia posto a carico dell'ente, ovverosia in caso di sentenza favorevole con compensazione di spese o a seguito di transazione su sentenza favorevole'.
La richiamata sezione della Corte dei conti, nel procedere alla disamina dell'art. 9, ha evidenziato in dettaglio le regole attualmente in vigore sintetizzandole come di seguito:
- computabilità dei compensi professionali agli avvocati dipendenti pubblici nel limite retributivo individuale generale di cui all'art. 23-ter
[4] del d.l. 201/2011, convertito in l. 214/2011 (comma 1);
- in caso di sentenza favorevole (depositata dopo l'adeguamento dei regolamenti e contratti collettivi -fonti cui rinvia la legge- da effettuarsi entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge medesimo) con vittoria, totale o parziale, di spese, le somme recuperate dalla controparte sono ripartite tra gli avvocati dipendenti dell'ente nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva (comma 3, primo periodo), cioè con criteri oggettivamente misurabili basati sul rendimento individuale e sulla puntualità negli adempimenti processuali (comma 5), 'in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo' (comma 7 - limite retributivo individuale specifico). La parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell'amministrazione (comma 3, secondo periodo);
- in caso di sentenza favorevole (depositata dopo l'entrata in vigore del d.l. 90/2014) con compensazione integrale di spese (compresi i casi di transazione dopo sentenza favorevole), i compensi professionali sono corrisposti in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto, che non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013 (comma 6 - tetto finanziario complessivo) ed 'in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo' (comma 7).
Per la questione che ci occupa, assume rilievo -come si è detto- la disposizione contenuta nel comma 8 dell'art. 9 in esame.
Detta norma prevede che il primo periodo del comma 6 si applica alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del d.l. 90/2014, precisando altresì che i commi 3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 si applicano a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto stesso. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 01.01.2015, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1 (enti locali compresi) non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato.
La Corte dei conti
[5] ha sottolineato come, in assenza dell'adeguamento di regolamenti e contratti collettivi, a decorrere dal 01.01.2015, i compensi professionali in argomento non possano essere corrisposti.
Dal tenore della riportata disposizione risulta che l'effetto concreto del mancato adeguamento dei regolamenti (o contratti) entro il termine previsto dal legislatore comporta l'impossibilità di procedere alla corresponsione dei compensi professionali agli avvocati, a decorrere dal 01.01.2015.
Preso atto dell'impossibilità di procedere alla corresponsione dei compensi professionali in argomento in relazione alla contingente situazione prospettata, si ritiene comunque utile riportare alcune considerazioni generali espresse in materia dal giudice amministrativo
[6] in una recente pronuncia, che ricostruisce in modo articolato la figura dell'avvocato-dipendente e del quadro giurisprudenziale di riferimento.
In detta sede si è riscontrato, tra l'altro, che il trattamento economico accessorio del personale togato degli enti pubblici non è regolato in modo uniforme, riscontrandosi nella prassi significative divergenze tra le avvocature dei singoli enti.
Si è parimenti evidenziato come anche la giurisprudenza non presenti uniformità di vedute sui criteri di determinazione dei compensi aggiuntivi dovuti agli avvocati degli enti pubblici e, prima ancora, sul diritto degli stessi a percepire le c.d. 'propine'. La varietà di dette posizioni è per lo più dovuta all'assenza di una regolamentazione unitaria e analitica della materia, disciplinata da norme elastiche contenute, a seconda dei casi, in leggi, contratti collettivi e regolamenti e caratterizzata da prassi applicative spesso distanti e diversificate tra loro.
Un primo indirizzo giurisprudenziale, nell'evidenziare la specialità del personale togato rispetto agli altri dipendenti, riconosce per l'appunto ai legali dipendenti di enti pubblici il diritto a un compenso accessorio
[7]: tale principio è stato ritenuto prevalente sul principio di onnicomprensività della retribuzione, tradizionalmente sancito in materia di lavoro pubblico dalla legge e/o dalla contrattazione collettiva.
Un diverso indirizzo giurisprudenziale tende, invece, ad assimilare gli avvocati-dipendenti agli altri pubblici impiegati, attribuendo priorità assoluta alla disciplina speciale del rapporto di impiego e negando loro il diritto a ricevere un compenso aggiuntivo che tenga conto della particolare natura dell'attività svolta.
La Suprema Corte
[8] ha, ad esempio, affermato che 'Nessuna norma impone la corresponsione di onorari e competenze professionali da parte di enti pubblici i quali si avvalgono dell'attività dei propri uffici legali attraverso avvocati legati da rapporto di pubblico impiego, salvo che esista una disposizione amministrativa o una clausola contrattuale in tal senso. Deve pertanto ritenersi che, in assenza di specifica disciplina, un dipendente di un ente pubblico con mansioni di dirigente che svolga abitualmente, per espressa previsione contrattuale, anche l'attività di difesa in giudizio dell'ente, non abbia diritto a percepire, oltre alla normale retribuzione, anche onorari e competenze per l'attività professionale svolta'.
Il TAR Puglia prima citato ha richiamato in proposito la vigente disciplina contrattuale
[9] che recita testualmente: 'gli enti locali provvisti di Avvocatura costituita secondo i rispettivi ordinamenti disciplinano la corresponsione dei compensi professionali, dovuti a seguito di sentenza favorevole all'ente, secondo i principi di cui al R.D.L. 27.11.1933, n. 1578 e disciplinano, altresì, in sede di contrattazione decentrata integrativa la correlazione tra tali compensi professionali e la retribuzione di risultato'.
Il contratto collettivo applicato rimette, dunque, al regolamento -e quindi alla scelta di autonomia del singolo ente- la concreta disciplina dei compensi aggiuntivi spettanti agli avvocati degli enti locali, con il solo limite del rispetto dei 'principi' dettati dalla legge forense, che, nel testo attualmente vigente
[10] -asserisce il giudice amministrativo- sancisce il diritto degli avvocati dipendenti degli enti pubblici a un 'trattamento economico adeguato alla funzione svolta'.
Pertanto -si è rilevato in tale contesto- che, nel disciplinare la materia delle c.d. 'propine' dovute al personale togato, i regolamenti dei singoli enti pubblici conservano uno spazio di libertà in ordine al quantum debeatur e possono discostarsi dalla disciplina applicabile agli avvocati del libero foro, in quanto solo questi ultimi operano sul mercato in concorrenza tra loro, sopportano i costi e il rischio economico dell'attività svolta e non godono di alcuna retribuzione base.
Si osserva, da ultimo, che la Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Regione Friuli Venezia Giulia
[11], seppur interpellata in merito a questioni diverse da quella prospettata dal Comune istante [12], ha comunque precisato -incidenter tantum- che 'spetta all'Ente richiedente valutare la perdurante applicabilità degli articoli 59 del CCRL del 01.08.2002, relativo al personale non dirigente degli EELL della Regione Friuli Venezia Giulia e 46 [13] del successivo CCRL sottoscritto il 29.02.2008, relativo al personale dirigente, nella parte in cui prevedono che gli enti provvisti di Avvocatura costituiti secondo i rispettivi ordinamenti disciplinino la corresponsione dei compensi professionali, dovuti a seguito di sentenza favorevole all'ente, secondo i principi di cui al R.D. 27.11.1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore'), stante l'avvenuta abrogazione dell'intero corpus normativo ad opera della Legge 31.12.2012, n. 247 (Nuova disciplina dell'ordinamento forense), in vigore dal 01.02.2013, nonché della precedentemente intervenuta abrogazione del sistema tariffario di determinazione dei compensi dell'avvocatura ad opera del D.L. 24.01.2012, n. 1, come convertito nella Legge 24.03.2012, n. 27 (c.d. decreto liberalizzazioni).
Ciò tanto più in assenza di un sistema legale di determinazione dei compensi al di fuori dei parametri specificamente approvati con D.M. n. 140/2012 per la liquidazione giudiziale dei compensi medesimi - nelle more dell'entrata in vigore del Regolamento previsto dall'art. 13 della citata L. n. 247/2012 e in presenza della sola disciplina contrattuale e regolamentare, anche alla luce della affermata natura onnicomprensiva dei compensi, non più articolati in diritti e onorari (sul punto vd. Sez. reg.le Veneto delib. n. 200/2014/PAR).
Il predetto Collegio ha inoltre osservato che, pur essendo la corresponsione dei compensi in argomento (e il correlato diritto dell'avvocato dipendente) direttamente discendente dalla fonte normativa statale (il R.D. n. 1578/1933) e dalla fonte contrattuale, l'atto normativo interno -il regolamento appunto- detta le concrete modalità e la misura attraverso le quali sarà possibile procedere alla detta corresponsione, integrando per tale via la disciplina astrattamente prevista dalle fonti sovraordinate.
La Corte dei conti FVG ha affermato inoltre che 'Se così è, pare problematico ipotizzare una liquidazione dei compensi allorché il descritto procedimento di formazione della disciplina della relativa corresponsione non sia stato ancora perfezionato dall'Ente e dunque prevedere siccome conforme alla normativa complessivamente rilevante nella materia de qua un'attribuzione di compensi riferentisi a sentenze depositate in epoca anteriore al prescritto Regolamento'.
La predetta Sezione ha infine rammentato come la riforma organica della disciplina dei compensi professionali agli avvocati pubblici, contenuta nell'art. 9 del d.l. 90/2014, risponda alle urgenti e tuttora attuali necessità di contenimento della spesa pubblica complessiva, in particolare incidendo su quelle ipotesi (pronuncia di compensazione integrale delle spese e ipotesi di transazione dopo sentenza favorevole alle PP.AA.) nelle quali il compenso viene a gravare interamente, nella percentuale dovuta, sulle finanze pubbliche
[14].
---------------
[1] Si riportano di seguito i commi di interesse dell'art. 9 in esame: 1. I compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all'articolo 23-ter del decreto legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e successive modificazioni.
3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell'amministrazione.
5. I regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali. I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi informatici, secondo principi di parità di trattamento e di specializzazione professionale.
6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto, il quale non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013 (...)
7. I compensi professionali di cui al comma 3 e al primo periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo.
8. Il primo periodo del comma 6 si applica alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. I commi 3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 si applicano a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 1° gennaio 2015, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1 non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato.
[2] Cfr. sez, reg. di controllo per la Puglia, n. 49/PAR/2014.
[3] Cfr. art. 1, comma 457, della l. 147/2013, ora abrogato.
[4] '1. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (...) è definito il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (...), stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione (...)'.
[5] Nella pronuncia sopra citata.
[6] Cfr. TAR Puglia, sez. II, Lecce, sentenza n. 2543 del 2014.
[7] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Basilicata, Potenza, deliberazione n. 2/2010/PAR.
[8] Cfr. Cass. sez. lavoro, n. 17941 del 2006.
[9] Art. 27 del CCNL del 14.09.2000. Per gli enti locali del comparto unico del Friuli Venezia Giulia identica disposizione è contemplata all'art. 59 del CCRL del 01.08.2002, per il personale non dirigente, e all'art. 63 del CCRL del 19.06.2003, per il personale dirigente.
[10] Art. 23 della l. 247/2012.
[11] Cfr. deliberazione FVG/12/2015/PAR.
[12] In particolare, in relazione alla possibilità di prevedere la liquidazione dei compensi, spettanti ai legali interni in virtù delle disposizioni di fonte contrattuale, anche nel caso di sentenze depositate in data anteriore all'emanazione del regolamento in corso di adozione.
[13] Retribuzione di risultato di comparto.
[14] Vedasi, in proposito, la normativa dettata dal comma 6 dell'art. 9 che prevede sia un tetto di natura oggettiva (risorse che non possono superare il corrispondente importo stanziato per l'anno 2013), sia di natura soggettiva, riferibile cioè al trattamento retributivo individuale del singolo dipendente
(05.05.2015 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIPlanimetrie catastali ad accesso gratuito. Dall’Agenzia. Controlli e fiscalità.
L’agenzia delle Entrate ha messo a disposizione dei Comuni l’accesso gratuito alle planimetrie catastali degli immobili, per i controlli urbanistici e la gestione della fiscalità immobiliare locale.
Su questo tema si era registrato in passato uno scontro tra i Comuni e l’agenzia delle Entrate, la quale per la fornitura delle planimetrie pretendeva il pagamento di una somma, nonostante diverse previsioni normative già imponevano la fornitura gratuita (si veda la delibera della Corte dei conti dell’Emilia-Romagna 37/2013).
In particolare, si ricorda che l’articolo 50 del Dlgs 82/2005 prevede che qualunque dato trattato da una Pa, nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali, deve essere reso accessibile e fruibile alle altre amministrazioni quando l’utilizzazione del dato sia necessaria per lo svolgimento dei compiti istituzionali dell’amministrazione richiedente, senza oneri a carico di quest’ultima, salvo che per la prestazione di elaborazioni aggiuntive; il successivo articolo 59 precisa, poi, che nell’ambito dei dati territoriali di interesse nazionale rientra la banca dati catastale gestita dall’agenzia delle Entrate.
Il problema dell’accesso alle planimetrie si poneva soprattutto per gli immobili accatasti prima del 2006, perché a decorrere da quell’anno l’Agenzia invia ai Comuni i «Docfa» e con questi anche le planimetrie degli immobili.
L’apertura dell’Agenzia è quindi molto importante perché oggi i Comuni hanno la possibilità di acquisire con estrema velocità la planimetria catastale del fabbricato, accedendo al Portale Sister, già utilizzato dai Comuni per le visure catastali e per quanto attiene al mondo catastale, compreso l’invio di dati all’Agenzia stessa, come quelli relativi al mancato accatastamento degli immobili (procedura 336 di cui alla legge 311/2004), al controllo dei Docfa (articolo 34-quinquies del Dl 4/2006) o alla verifica delle domande di ruralità di cui al Dl 70/2011.
L’utilizzo delle planimetrie catastali è importante soprattutto per la gestione della Tari la quale si applica in base «alla superficie calpestabile», visto che si è per ora abbandonato il criterio della tassazione sulla base dell’80% della superficie catastale, utilizzabile solo in sede di accertamento.
Oltre alla Tari le planimetrie rappresentano un utile strumento per il controllo della conformità edilizia, ovvero tra quanto concessionato dal Comune e quanto dichiarato all’Agenzia e ciò ovviamente assume anche rilevanza fiscale, perché un ampliamento di un fabbricato non dichiarato in catasto porta a un aumento della rendita catastale e quindi dell’Imu.
E non occorre dimenticarsi che l’articolo 2, comma 12, del Dlgs 23/2011 prevede che il 75% delle sanzioni irrogate dall’Agenzia per l’inadempimento degli obblighi di dichiarazione degli immobili, e delle variazioni degli stessi, è devoluto al Comune ove sono ubicati gli immobili.
Al di là però di quanto può essere utile per il Comune avere gratuitamente a disposizione le planimetrie, al pari di quanto avviene già con le visure catastali, quello che rileva è che si riconosce sempre di più l’importanza dei Comuni nei processi di controllo del territorio
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2015).

CONDOMINIO - PATRIMONIOLegionella sempre sotto controllo. Rischi sanitari. Impianti idrici e di condizionamento.
Le cronache recenti hanno descritto casi di legionella nell'hinterland milanese. Il problema è strettamente connesso alla gestione del condominio, dove è centrale l'importanza della manutenzione e della pulizia degli impianti idro-termici e di climatizzazione.
Nelle reti sopravvive in basse concentrazioni (e quindi non è nociva) perché la temperatura è inferiore a 25°C . Invece diventa pericolosa nell'intervallo di temperatura tra 25°C e 55°C quando viene inalata sotto forma di aerosol (particelle di diametro da 1 a 5 micron emesse da un rubinetto, dal soffione di una doccia, eccetera).
La prevenzione va fatta così:
- evitare tubazioni con tratti terminali ciechi senza circolazione dell'acqua;
- evitare formazione di ristagni d'acqua (fondi di serbatoi, vasi di espansione);
- pulizia e disinfezione periodica degli impianti;
- mantenere in condizioni di pulizia ed in efficienza i «separatori di gocce»;
- controllare periodicamente lo stato di pulizia ed efficienza dei filtri applicati sui circuiti dell'aria;
- controllare periodicamente la temperatura dell'acqua ;
- programmare interventi biocidi per ostacolare la crescita di alghe e batteri;
- trattamento dell'acqua per evitare formazione di corrosioni, calcari e film biologici;
- tenere a disposizione gli schemi aggiornati degli impianti per le ricognizioni e visite periodiche sull'impianto idro-termico e dell’aria;
- verificare che le tubazioni dell'acqua fredda e quelle dell'acqua calda risultino ben coibentate e separate.
I metodi utilizzati per eliminare la la contaminazione nei sistemi idro-termici sono diversi:
elevando la temperatura a 70°C–80°C per tre giorni consecutivi e far scorrere l'acqua continuamente dai rubinetti per 30 minuti, con l'accortezza che anche nei punti più distanti l'acqua sia maggiore di 60°C; oppure distribuendo l'acqua tra 50°C e 60°C sino al punto di miscelazione con l'acqua fredda nei rubinetti di erogazione;
clorazione con una concentrazione di cloro di circa 3 mg/litro (milligrammi per litro) con personale qualificato
biossido di cloro con concentrazioni variabili da 0,1 mg/l a 1 mg/l;
lampade ultraviolette UV;
ionizzazione rame-argento (non va bene per tubazioni zincate);
perossido di idrogeno e argento.
In ogni caso, l’articolo 4, comma 14, del Dpr 59/2009 prevede che nel caso di installazione o ristrutturazione degli impianti termici, o sostituzione dei generatori di calore gli impianti devono essere dotati di impianto di trattamento dell'acqua
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2015).

CONDOMINIOConvocazione in «sicurezza». Il plico raccomandato o la posta certificata sono i mezzi più efficaci. Assemblea. L’amministratore può mettersi al riparo dalle contestazioni che mettono in forse le delibere.
Posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax, o consegna a mano, sono questi i mezzi che l’amministratore deve utilizzare per l’invio della convocazione di assemblea (articolo 66, comma 3, delle Disposizioni di attuazione del Codice civile dopo la legge 220/2012), pena l’invalidità delle delibere assunte per vizio di omessa convocazione. Tra l’altro, gli stessi mezzi, con le stesse accortezze, si possono utilizzare per l’invio del verbale di assemblea.
La convocazione deve essere scritta e personale, non essendo sufficiente l’affissione dell’avviso nella portineria o in bacheca o nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati neanche quando è obbligatoria come per la convocazione avente ad oggetto le modificazioni delle destinazioni di uso, per la quale è, comunque, previsto l’invio mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici (articolo 1117–ter, comma 2).
La spedizione della convocazione mediante posta raccomandata con ricevuta di ritorno permette di raggiungere la prova dell’avvenuto invio, mediante l’esibizione della distinta di spedizione della raccomandata, contenente l’avviso di convocazione, «integrata dalla presunzione che le raccomandate consegnate alla posta arrivano a destinazione e dal successivo comportamento del destinatario» (Cassazione, sentenza 2148/1987).
L’inserimento dell’avviso di convocazione nella cassetta della posta delle lettere del condomino è alla base della «ragionevole presunzione» della conoscenza dell’avviso, posto che si verifichi la fattispecie dell’articolo 1335 del Codice civile, cioè un’attività materiale idonea a portare l’atto nella sua sfera di conoscibilità del condòmino.
Per la giurisprudenza di legittimità «è irrilevante che un condomino, respingendo la raccomandata pervenutagli nei termini, si sia posto in condizione di non poter conoscere la data di convocazione» (Cassazione, sentenza 196/1970), in quanto ai fini della validità dell’assemblea «è sufficiente che l’invito all’assemblea, indipendentemente dalla sua effettiva conoscenza, sia stato regolarmente fatto ad ogni condomino» (Cassazione, sentenza 6863/1982).
È ovvio che quando un condòmino agisca per far valere l’invalidità della delibera assembleare, adducendo la sua mancata convocazione, incombe sul condominio l’onere di provare che tutti i condòmini siano stati tempestivamente avvisati della convocazione (Corte d’appello di Roma, sentenza 967/2010), così come nel caso di convocazione spedita in busta raccomandata e il destinatario contesti il contenuto della busta medesima: in tal caso è onere del mittente provarlo (Cassazione, sentenza 4482/2015).
È quindi consigliabile che l’amministratore utilizzi, invece della busta, un “plico” vale a dire il foglio su cui viene redatto l’avviso di convocazione all’assemblea, ripiegato e chiuso sui lati con l’indirizzo del destinatario, il mittente e l’affrancatura posti sulla parte esterna del foglio. In tal modo, il destinatario del plico contenente l’avviso di convocazione non ha possibilità, esibendo il plico stesso che ha ricevuto, di contestarne il contenuto.
La convocazione può essere consegnata anche a mano ma deve essere debitamente affrancata, annullata in un ufficio postale e, al momento del suo ritiro, che può essere fatto anche presso la portineria dello stabile, il condomino deve sottoscrivere una distinta valida come prova dell’avvenuta consegna.
Ammesso anche l’uso del fax come metodo di invio dell’avviso di convocazione anche se è opportuno, oltre che custodire la ricevuta, richiedere al destinatario di comunicare l’avvenuta ricezione del documento.
Valore probatorio, indiscusso, è invece riconosciuto all’invio della convocazione mediante l’uso della PEC, che fornisce la “certificazione” dell’invio e della ricezione della mail.
Escluso l’invio mediante la semplice mail, poiché solo alla posta certificata la legge riconosce il valore della tradizionale raccomandata (Tribunale di Genova, sentenza 3350/2014) (articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2015).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIPlanimetrie accessibili dai municipi. Anci-entrate.
I comuni potranno accedere gratuitamente alle planimetrie catastali degli immobili per i controlli urbanistici e la gestione della fiscalità immobiliare locale. Tutto grazie alla piattaforma telematica Sister che consente di visualizzare la planimetria di un immobile, con accesso diretto alle banche dati gestite dall'Agenzia delle entrate.

Per utilizzare il servizio, ricorda un comunicato delle Entrate, non sarà necessario sottoscrivere una nuova abilitazione.
Tutte le informazioni sulle modalità tecniche per l'accesso e la fruizione possono essere consultate sul sito dell'Agenzia delle entrate nella sezione «Consultare dati catastali e ipotecari-Consultazione banche dati - Sister-Scheda informativa». Il nuovo servizio sarà evidenziato, tramite un banner dedicato, anche sul sito istituzionale dell'Anci, www.anci.it.
Infine, le Entrate ricordano che presso gli sportelli catastali decentrati dei comuni sono attivi i servizi di rilascio gratuito delle visure e delle planimetrie catastali su richiesta dei singoli proprietari (articolo ItaliaOggi del 12.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOStatali, visite mediche ed esami come malattia. Il Mininfrastrutture recepisce la sentenza del Tar Lazio.
I dipendenti pubblici che si assentano dal servizio per l'espletamento di visite mediche o esami diagnostici, potranno essere considerati in malattia, invece che dover intaccare il proprio monte ore relativo ai permessi retribuiti o alle ferie. La giustificazione di tale assenza sarà data dalla semplice attestazione del medico o della struttura, anche privata, che ha reso la prestazione specialistica.

È quanto messo nero su bianco dalla direzione del personale del ministero delle infrastrutture nella recente circolare n. 24739/2015, con cui si recepiscono le conclusioni della sentenza n. 5714/2015 del Tar Lazio (si veda ItaliaOggi del 21 aprile scorso) sulla riconducibilità a malattia delle assenze dei lavoratori pubblici per sottoporsi a esami diagnostici o visite specialistiche.
Come si ricorderà, la circolare n. 2 del 17.02.2014 della funzione pubblica, interpretando restrittivamente norme previste nel Ccnl ministeri, obbligava i dipendenti delle pubbliche amministrazioni a dover utilizzare l'istituto dei permessi brevi retribuiti o dei permessi personali ex articolo 18 del Contratto nazionale di lavoro dei ministeriali (se non, addirittura, le ferie o le festività soppresse), ma non la malattia, per giustificare l'assenza dal servizio nel caso in cui gli stessi lavoratori dovevano sottoporsi a visite, terapie specialistiche ed esami diagnostici.
La sentenza del giudice amministrativo sopra richiamata ha statuito che Palazzo Vidoni, con una semplice circolare, non può modificare «assetti che riguardano le assenze dal servizio», in quanto investono aspetti che impongono modifiche al contratto collettivo di categoria e, quindi, il confronto con le organizzazioni dei lavoratori. In pratica, il Tar Lazio ha evidenziato che la materia «trova il suo naturale elemento di attuazione nella disciplina contrattuale e non in atti generali che impongono modifiche unilaterali».
Sulla scorta di questo annullamento, la circolare Mit in osservazione ha evidenziato che, in attesa di ricevere nuovi e più puntuali istruzioni dal dipartimento della funzione pubblica, si possa tornare sic et simpliciter al dettato normativo ex articolo 55-septies del dlgs n.165/2001, applicando la disciplina giuridica ed economica vigente prima dell'emanazione della già citata circolare n.2/2014 della stessa funzione pubblica.
Quindi, i dipendenti che da oggi in poi si assenteranno dal servizio per malattia, in quanto devono sottoporsi a visite o terapie specialistiche, ovvero ad esami diagnostici, potranno attestare l'assenza con la semplice certificazione del medico o della struttura (è irrilevante sotto questo profilo che la stessa sia pubblica o privata) che ha eseguito tale prestazione. Non sarà, quindi, necessario utilizzare i permessi retribuiti, le ferie, né vi è l'obbligo di produrre la certificazione telematica che il proprio medico curante trasmette all'Amministrazione tramite l'Inps; certificazione che è necessaria solo quando il dipendente è assente per «malattia».
A corollario delle conseguenze relative alla decisione del Tar Lazio, al momento circolano ipotesi di un accordo tra l'Aran e le organizzazioni sindacali, nel quale si prevedono permessi «specifici» per i lavoratori assenti per visita specialistica o per esami diagnostici che, pur rientrando nell'alveo della malattia, possano essere utilizzati anche ad ore (articolo ItaliaOggi del 12.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAI rifiuti cambiano targa. Sanzioni fino a 387 mila euro per chi bara. Dal 1° giugno in vigore il nuovo regolamento Ue di classificazione.
Dal 1° giugno nuovi criteri di classificazione dei rifiuti. Tra le novità, per evitare confusione sulle identificazioni dei codici di pericolo previsti dalla nuova classificazione andranno a scomparire i codici H e verranno introdotti i nuovi codici Hp. Pertanto entro il 1° giugno prossimo ogni azienda dovrà effettuare la nuova classificazione dei rifiuti con assegnazione codice di pericolo Hp per quelli classificati pericolosi, modificare le etichette del deposito temporaneo, e infine verificare le giacenze sul registro di carico/scarico del Sistri).

Tutto questo perché dal 1° giugno diventeranno applicabili il REGOLAMENTO (UE) N. 1357/2014 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2014, che sostituirà l'allegato III della direttiva quadro sui rifiuti (2008/98/Ce) e la nuova decisione della commissione europea 2014/955/Ue, che modifica la decisione 2000/532/Ce relativa all'elenco dei rifiuti.
Dal 1° giugno un secondo cambiamento riguarderà anche l'introduzione e la variazione di nuovi codici Cer (010310* fanghi rossi derivati dalla produzione di allumina contenenti sostanze pericolose, diversi da quelli di cui alla voce 010307, 070217 rifiuti contenenti silicio, diversi da quelli di cui alla voce 070216, 160307 mercurio metallico, 190308 mercurio parzialmente stabilizzato). Fino al 31 maggio varranno le vecchie caratteristiche di pericolo H. Per ora non è previsto nessun periodo transitorio.
Dal 1° giugno entreranno in vigore le nuove caratteristiche di pericolo Hp. Quindi dal 1° giugno l'azienda che non ha classificato correttamente i propri rifiuti in base alle nuove normative potrà incorrere in pesanti sanzioni. La falsa fornitura di indicazioni sulla natura, composizione e caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti o uso di un certificato falso (o inesistente) è punita sia con una sanzione pecuniaria che con una penale.
L'articolo 258, 4° comma, del dlgs 152/2006 punisce con l'arresto fino a due anni. E il dlgs 231/2011 con una sanzione pecuniaria che va da 150 a 250 quote (il valore di una quota è a discrezione del giudice e può andare da un minimo di euro 258 a un massimo di euro 1.549). Quindi la sanzione minima è di euro 38.700. Se l'azienda erra nella classificazione/caratterizzazione del rifiuto, potrebbe affidare il rifiuto a trasportatori e/o smaltitori non autorizzati. Quindi potrebbe configurarsi anche il reato di gestione illecita di rifiuti.
L'articolo 259, 1 comma, del dlgs n.152/2006 lo punisce con una sanzione penale dell'arresto fino a due anni e una sanzione amministrativa fino euro 26.000. Il dlgs 231 prevede una sanzione pecuniaria che va da 150 a 250 quote il massimo applicabile va da 38.700 a 387.250,00 euro (articolo ItaliaOggi del 12.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAUe, caccia ai finti sacchetti bio. Obbligo di etichettatura per le borse compostabili. Pubblicata in Guue la direttiva sui limiti di utilizzo, dal 2016, degli shopper in plastica.
Divieto di fornitura gratuita di sacchetti in plastica a bassa riutilizzabilità, bando dei marchi che vantano false proprietà ecologiche delle buste in polimeri, obbligo di etichettatura ad hoc per quelle realmente biodegradabili e compostabili.

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea del 06.05.2015 (n. L115) dell'attesa DIRETTIVA (UE) 2015/720 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 29.04.2015 che modifica la direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell'utilizzo di borse di plastica in materiale leggero, l'Unione europea apre un nuovo capitolo nella prevenzione dei rifiuti, impegnando gli Stati membri ad allineare le proprie legislazioni interne entro l'autunno 2016.
Obblighi di riduzione. Nel mirino della nuova direttiva 2015/720/Ue (di riformulazione dell'omonimo provvedimento madre in materia di imballaggi, la 94/62/Ce) ci sono le borse di plastica in materiale leggero, ossia quelle con spessore inferiore a 50 micron, responsabili secondo l'Ue della maggior parte dell'inquinamento a causa della loro alta diffusione e bassa riutilizzabilità rispetto a quelle di maggior consistenza, fatto che incentiva gli utenti al loro abbandono selvaggio.
Di conseguenza, per la riduzione a monte dell'utilizzo di tali sacchetti l'Unione europea impone agli Stati membri l'adozione di misure volte al raggiungimento di almeno uno dei seguenti obiettivi: (entro il 2018) divieto di fornitura gratuita di borse presso punti vendita di merci o prodotti, salvo adozione di altri strumenti di pari efficacia; (entro il 2019) riduzione del livello di utilizzo annuale entro le 90 borse pro capite (40 entro il 2025).
È lasciata facoltà ai singoli Stati di escludere da tali limitazioni le borse in materiale ultraleggero (quelle con spessore inferiore a 15 micron) fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi a fini igienici oppure per prevenire la produzione di rifiuti alimentari. Ma è pari facoltà degli stessi Stati sottoporre agli stringenti obiettivi tutti i sacchetti di plastica, dunque anche quelli di spessore superiore.
Per il raggiungimento degli obiettivi l'Ue chiede l'utilizzo di strumenti economici (come la fissazione del prezzo, imposte e prelievi) e (in deroga all'articolo 18 della direttiva madre) di restrizioni alla commercializzazione delle buste, purché proporzionate e non discriminatorie. Prescrizioni, quelle limitative del mercato, in parte già previste dall'attuale normativa nazionale italiana, che attraverso decreti legge 2/2012 e 91/2014 rispettivamente vieta e sanziona l'utilizzo di determinati sacchetti ad alto impatto ambientale.
Marchi ed etichette. Entro il novembre 2018 le borse biodegradabili e compostabili (quelle rispondenti alla norma europea En 13432) dovranno essere fornite di etichettatura recante informazioni sulle loro proprietà di compostaggio, secondo un disciplinare che la Commissione Ue adotterà entro il precedente 27.05.2017. Questo, in base a quanto emerge dalla parte motiva della nuova direttiva 2015/720/Ue, anche per arginare la diffusione di false indicazioni sulle qualità ecologiche di alcune borse in plastica.
È il caso, come sottolinea il nuovo provvedimento comunitario, dei sacchetti indicati da alcuni produttori come «oxo-biodegradabili», nomenclatura a parere dell'Ue fuorviante, poiché tali borse vedono comunque la presenza di specifici additivi che provocano nel tempo la scomposizione della plastica in particelle minute che permangono nell'ambiente.
Tant'è che per l'intera categoria dei «oxo-degradabili» la stessa Ue annuncia una serie di misure volte ad analizzarne ulteriormente impatto ambientale e, nel caso, a limitarne più ampiamente uso o impatto nocivo (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015).

SICUREZZA CANTIERICantieri, verifiche da incubo. Corposa la documentazione: oltre 50 tra piani e contratti. Il quadro delineato in una guida dell'Inail: 15 gli enti ispettivi autorizzati ai controlli.
Verifiche da incubo nei cantieri edili. Sono oltre 50 le voci dell'elenco dei documenti da tenere in originale nei cantieri, sia da parte delle imprese sia dei committenti, a disposizione di 15 organi ispettivi diversi.
A offrire un bilancio degli adempimenti burocratici sulla sicurezza è l'Inail nella guida «la progettazione della sicurezza nel cantiere», ammettendo che «la documentazione obbligatoria da tenere in cantiere è assai consistente».
La sicurezza sul lavoro. La sicurezza nei luoghi di lavoro è un tema di ricorrente attualità; ma quella nei cantieri edili lo è in maniera particolare. Del testo, anche l'ultima riforma (dlgs n. 81/2008), fra le novità, ha inteso incidere in modo speciale sulla disciplina delle opere edili, ridefinendo le vecchie regole così da attribuire alla sicurezza dei cantieri un carattere di requisito imprescindibile, che occorre pianificare, anche in presenza di più imprese, senza eccezioni di sorta. La sicurezza presenta tre elementi di attenzione:
• valutazione di tutti i rischi con conseguente predisposizione di misure idonee a prevenirli (misure di prevenzione e protezione);
• comunicazione di rischi e misure di prevenzione e protezione, attraverso l'informazione e la segnaletica;
• attuazione delle misure di prevenzione e protezione in relazione ai rischi preventivati e a quelli eventualmente insorgenti in fase esecutiva.
Secondo l'Inail il tutto può essere riassunto in due principi fondamentali: a) la sicurezza è un valore e come tale va salvaguardato con tutti i mezzi; b) la sicurezza va garantita sempre e comunque: non sono ammissibili deroghe. In materia di sicurezza nei cantieri edili, aggiunge l'Inail, l'indirizzo giurisprudenziale richiama il principio della protezione oggettiva, per il quale le norme antinfortunistiche sono finalizzate a tutelare il lavoratore soprattutto dagli infortuni derivanti da sua negligenza, imprudenza e imperizia (cassazione n. 41951/2006).
La documentazione. Il principio giurisprudenziale, però, sembra contrastare con una procedura di tutela che, il più delle volte, appare prediligere gli aspetti formali (verbali, piani ecc.) più di quelli sostanziali; quasi che la correttezza dei primi valesse a garantire la presenza dei secondi (senza, tuttavia, escludere il contrario).
Comunque sia, la sicurezza «progettata» ha prodotto, nel tempo, una mole eccessiva di atti e documenti obbligatori, da tenere obbligatoriamente sul cantiere, e che potrebbero essere richiesti dagli organi ispettivi in caso di verifiche. Anche l'Inail lo ammette: «è assai consistente». L'elenco dettagliato, con relativo soggetto obbligato, è nelle tabelle.
Chi può effettuare i controlli. Altrettanto esuberante, infine, è l'elenco degli organi con compiti di controllo, coordinamento e vigilanza che hanno accesso nei cantieri edili (di propria iniziativa o anche su richiesta): Arpa, aziende Asl, Direzione territoriale del lavoro (Dtl), Inail, Inps, Carabinieri, Polizia di stato, Vigili urbani, Capitaneria di porto, Guardia di finanza, Guardia forestale, Ispettorato ferrovie (lavori ferroviari), Ispettorato minerario (cave), Procura della repubblica Upg, Vigili del fuoco (su richiesta).
In tutto gli ispettori sono 15; in un mese, pertanto (almeno in teoria), un cantiere potrebbe essere visitato da un'ispezione ogni due giorni (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015).

VARIAsd, il legale non risponde in solido.
Il legale rappresentante di un'associazione sportiva non risponde personalmente, in via automatica, delle somme accertate in capo all'ente che rappresenta. La responsabilità ex articolo 38 del codice civile, infatti, presuppone la dimostrazione, a onere dell'amministrazione finanziaria, che il soggetto abbia concretamente agito in nome e per conto dell'associazione non riconosciuta; il solo possesso della carica, di contro, non consente di estendere alla persona fisica l'obbligazione tributaria che investe l'associazione.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 20.04.2015 n. 487/2/15 emessa dalla Ctp di Ancona.
A parere dei giudici marchigiani, la responsabilità prevista dall'articolo 38 del c.c., secondo cui delle obbligazioni «rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione», ha carattere meramente accessorio rispetto a quella primaria, che investe l'associazione e il suo patrimonio; dacché, chi invoca tale estensione di responsabilità ha l'onere di provare la concreta attività svolta dalla persona fisica in nome e nell'interesse dell'ente rappresentato, non essendo sufficiente la sola prova in ordine alla carica rivestita.
Per tali ragioni, le obbligazioni derivanti dall'avviso di accertamento spiccato nei confronti dell'associazione non riconosciuta restano a carico dell'ente, salvo che l'Agenzia delle entrate, che intenda far valere la responsabilità solidale in capo ai soggetti che ne avevano la rappresentanza, offra una precisa e circostanziata prova inerente lo svolgimento concreto di attività gestionale da parte delle persone fisiche.
La particolarità della questione trattata, per affermazione della stessa Ctp, ha consigliato l'integrale compensazione delle spese di giudizio tra le parti.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La vertenza nasceva dall'emissione, da parte dell'Agenzia delle entrate di Ancona, di un avviso di accertamento nei confronti di una associazione sportiva dilettantistica, scaturente da una verifica effettuata dalla Siae, per gli anni d'imposta 2008 e seguenti. L'atto veniva notificato personalmente al presidente dell'associazione, ritenuto responsabile in solido per le obbligazioni tributarie accertate in capo all'ente rappresentato.
Tale estensione di responsabilità era riconducibile alla disciplina recata dall'articolo 38 del codice civile, secondo cui rispondono personalmente delle obbligazioni dell'associazione anche le persone che hanno agito in nome e per conto della stessa. Il contribuente proponeva autonomo ricorso contro l'avviso di accertamento, senza entrare nel merito dei rilievi in esso contenuti, lamentando esclusivamente un'erronea applicazione dell'articolo 38 citato e sostenendo di non dover corrispondere alcunché di quanto richiesto e accertato in capo all'associazione.
Spettava, infatti, secondo la tesi di parte ricorrente, all'amministrazione provare la responsabilità personale del presidente dell'associazione, dimostrando che egli avesse concretamente agito in nome e per conto della stessa. Resisteva in giudizio l'Agenzia delle entrate, ritenendo fondata la richiesta personale al presidente, poiché la responsabilità solidale ex articolo 38 derivava esclusivamente dal possesso della carica di rappresentanza, dovendo, semmai, il contribuente fornire la prova di non aver agito per conto dell'associazione.
La Ctp di Ancona ha accolto il ricorso, condividendo in pieno la posizione difensiva assunta dal ricorrente. «La responsabilità personale e solidale prevista dall'articolo 38 del codice civile», osserva il collegio, «non è collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell'associazione, bensì all'attività concretamente svolta per conto di essa, attraverso il compiersi di rapporti obbligatori e concreti fra questa e i terzi».
Nessun automatismo, dunque, può derivare dal mero possesso della carica di rappresentanza. La responsabilità del presidente, aggiunge la Ctp, «ha un carattere accessorio rispetto a quella primaria dell'associazione, ne consegue che chi la invoca ha l'onere di provare la concreta attività svolta in nome e nell'interesse della persona, non essendo sufficiente la sola prova in ordine alla carica rivestita».
Dunque, per quanto attiene all'onere della prova, non è il rappresentante dell'associazione a dover provare di non aver concretamente agito in nome e per conto della stessa, bensì è l'Ufficio finanziario, che intenda far valere tale estensione, a dover offrire elementi di prova ulteriori rispetto al mero riscontro della legale rappresentanza.
Tutte queste ragioni hanno condotto la Ctp ad accogliere la domanda del ricorrente, pur decidendo per la compensazione delle spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015).

ENTI LOCALI - VARIPermessi per invalidi sorvegliati speciali.
Per ottenere il tagliando che permette al titolare di parcheggiare nelle zone riservate ai portatori del contrassegno invalidi non basta una generica patologia. Occorrerà dimostrare anche la ridotta capacità di deambulazione dell'interessato.

Lo ha chiarito il ministero delle infrastrutture e dei trasporti con il parere 10.04.2015 n. 1642.
Un comune friulano ha evidenziato che alcuni patronati hanno iniziato a formalizzare richieste di contrassegno invalidi riferendo la loro istruttoria alla ridotta autonomia dell'interessato ai sensi della legge 104/1992. Evitando quindi ogni riferimento alla ridotta capacità di deambulazione del soggetto.
A parere del ministero questa pratica non è corretta perché il contrassegno di parcheggio per disabili viene rilasciato specificamente per patologie afferenti alla deambulazione. Lo stesso articolo 381 del regolamento stradale, specifica la nota centrale, evidenzia che questa limitazione deve essere ben annotata nella certificazione medica. In pratica non basta l'attestazione di una generica invalidità per ottenere questo speciale tagliando.
Occorre anche l'evidenza di una ridotta capacità di deambulazione (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità, tabelle subito applicabili. I parametri del decreto sono utilizzabili in attesa del via libera di Corte conti. Personale. Dopo l’ok in Unificata restano le incognite sulle garanzie per tutto il trattamento accessorio.
In dirittura di arrivo il decreto che equipara gli inquadramenti dei dipendenti dei diversi comparti della Pa. Giovedì ha visto il vaglio della conferenza Unificata, che ha però formulato una serie di osservazioni sul nodo più delicato, cioè sulle garanzie di mantenimento del trattamento accessorio per i lavoratori interessati. Il Governo, dal canto suo, ha detto che “valuterà” le osservazioni, ma ha rilanciato l’urgenza di arrivare a un traguardo per il quale manca solo l’esame della Corte dei Conti.
L’obiettivo del provvedimento è di fornire uno strumento tecnico-operativo che consenta di individuare, in modo uniforme, l’inquadramento giuridico ed economico dei dipendenti che transitano da un comparto all’altro dell’amministrazione pubblica. In ogni caso, anche nelle more della definitiva approvazione, nulla vieta di far riferimento alle tabelle di raccordo allegate, in quanto, comunque, le amministrazioni sono tuttora chiamate a dare una risposta al problema.
A questo proposito, si evidenzia che, anche a regime, è onere dell’ente decidere il corretto inquadramento del dipendente che proviene per mobilità, poiché il decreto rappresenta un supporto normativo che non esclude un’attività istruttoria da parte dell’ente ricevente e la relativa responsabilità della decisione finale. L’articolo 2 del provvedimento, nello stabilire i criteri di inquadramento, specifica che gli elementi da considerare nell’equiparazione sono individuati nelle mansioni e i compiti da svolgere, le responsabilità affidate e i titoli professionali previsti nelle declaratorie dei contratti dei diversi comparti per l’accesso al profilo.
Un’attenzione particolare va prestata nei confronti della posizione economica maturata nell’amministrazione di partenza: questa non può, in nessun caso, dare origine a un inquadramento superiore di tipo giuridico, non potendo prescindere, per le progressioni di carriera, dal concorso pubblico in ossequio alla riforma Brunetta. Se è pur vero che il processo decisionale spetta al dirigente, l’applicazione pedissequa delle tabelle di correlazione non potrà esporre quest’ultimo, in caso di errore, alla colpa grave o, peggio, al dolo, salvandolo quanto meno dalla responsabilità erariale.
L’astrattezza della previsione del decreto fa venir meno, sempre in capo al responsabile, anche eventuali critiche di comportamenti di particolare favore o sfavore nei confronti del soggetto in mobilità. Peraltro, non è detto che il ricorso alle tabelle del provvedimento escluda automaticamente un giudizio di merito, nel caso in cui il lavoratore si ritenga danneggiato dal nuovo inquadramento.
Nessun problema viene in evidenza nella mobilità volontaria, in quanto al dipendente si applica il trattamento giuridico ed economico dell’ente di destinazione. Più contestata dalla parte sindacale è il meccanismo che regola il trattamento economico in caso di mobilità non volontaria e, quindi, quella che si verifica per accordo fra enti e quella disposta per riassorbire gli esuberi. Infatti, in questi casi, vengono garantite solo le voci fisse e continuative, indipendentemente dal fatto che costituiscano elementi fondamentali o accessori dello stipendio. Purtroppo nell’ordinamento non vi è una definizione di «fisso e continuativo», mentre la distinzione è ben chiara in ambito previdenziale. Ma anche in questo contesto, i ricorsi sulla natura della voce sono molto frequenti e non sempre le decisioni dei giudici vanno nella medesima direzione.
Il trattamento di miglior favore in godimento nell’ente di partenza viene garantito al dipendente con un assegno ad personam, che, però, ha natura riassorbibile con qualsiasi futuro aumento stipendiale. Questo significa che il dipendente si vedrà bloccata la sua retribuzione per anni, stante l’andamento dei rinnovi contrattuali e dei fondi per le risorse decentrate.
Una disposizione particolare è prevista per i segretari comunali e provinciali di fascia C, che dovranno essere collocati nella categoria o nell’area professionale più elevata presente nell’amministrazione di destinazione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIAumentano i controlli sull’impatto ambientale. Le Regioni possono solo imporre limiti più restrittivi. Via. Con l’abbassamento delle soglie per sottoporre a verifica i progetti.
Dal 26 aprile scorso sono applicabili i nuovi criteri di valutazione dei progetti di opere pubbliche sottoposti a verifica di Via (valutazione di impatto ambientale) di competenza delle regioni e delle province autonome. Con la conseguenza che abbassandosi le soglie di verifica l’analisi dell’impatto ambientale si allarga a un numero sempre maggiore di progetti di opere o infrastrutture.
Il decreto del ministero dell’Ambiente del 30.03.2015 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 84 dell’11.04.2015 e appunto entrato in vigore 15 giorni dopo), emanato a seguito del decreto legge n. 91/2014, ha infatti recepito le indicazioni fornite dalla Direttiva 2011/92/Ue e, quindi, ha definito i nuovi criteri integrativi e le soglie da applicare ai progetti di competenza regionale da assoggettare a procedura di verifica di Via, così come richiede il Codice dell’ambiente (Dlgs n. 152/2006, all’allegato IV della parte seconda).
Il decreto definisce altresì le modalità attraverso cui le Regioni e le Province autonome dovranno adeguare le proprie disposizioni locali.
In particolare, è riconosciuta alle Autonomie la possibilità di avviare una ulteriore fase di confronto con il ministero dell’Ambiente per modificare le soglie o i criteri di valutazione dei progetti, ma solo nell’ottica di imporre livelli di tutela ambientale più restrittivi e comunque non inferiori a quelli stabiliti a livello europeo.
L’applicazione dei nuovi criteri, dunque, comporterà sostanzialmente una riduzione delle soglie dimensionali dei progetti e, quindi, una estensione dell’applicazione delle procedure di Via.
È bene evidenziare che i criteri stabiliti dal decreto ministeriale costituiscono espressamente parte integrante del Dlgs n. 152/2006 e, quindi, sono direttamente vincolanti sia per le autorità che per i privati, senza necessità di un preventivo recepimento da parte delle regioni.
Il decreto, infatti, chiarisce che i criteri integrativi sono immediatamente applicabili dall’entrata in vigore del decreto (come detto dal 26 aprile scorso) e trovano diretta validità su tutto il territorio nazionale rispetto ai progetti di competenza regionale.
Le Regioni, dunque, possono adeguare i propri ordinamenti alle nuove disposizione, ma in attesa di tale adeguamento, dovranno osservare le linee guida ministeriali.
L’articolo 4 del provvedimento, inoltre, stabilisce che le nuove disposizioni debbano trovare applicazione rispetto a tutti i progetti per i quali la procedura di verifica di Via è oggi pendente, nonché per quei progetti rispetto ai quali la procedura autorizzativa è ancora in corso.
Invero, quest’ultima previsione è foriera di dubbi. Il riferimento generico alle autorizzazioni, infatti, potrebbe portare a ritenere che i nuovi criteri si applichino anche a quei progetti rispetto ai quali si è già conclusa la procedura di verifica di Via, ma che non sono stati ancora formalmente autorizzati. In tal caso, dunque, la verifica di Via dovrebbe essere ripetuta secondo la nuova disciplina.
Tuttavia, poiché la verifica di assoggettabilità a Via e la valutazione stessa sono fasi endoprocedimentali specifiche, parrebbe ingiustificata una ripetizione di queste fasi se già concluse, in quanto la ripetizione comporterebbe un notevole aggravio dei processi di autorizzazione e di realizzazione di progetti complessi.
Peraltro, tale lettura della norma parrebbe altresì contraddittoria rispetto alle previsioni del Codice ambiente e in particolare dell’articolo 6, comma 7, lett. c), del Dlgs n. 152/2006 (come modificato dal Dl 91/2014) secondo cui «fino alla data di entrata in vigore del suddetto decreto, la procedura di cui all’articolo 20 è effettuata caso per caso, sulla base dei criteri stabiliti nell’allegato V».
Poiché la stessa norma che ha previsto l’emanazione del decreto ministeriale, ammetteva espressamente la possibilità di portare avanti le procedure di verifica ai sensi della normativa precedente, risulterebbe illogico e contraddittorio che il decreto ministeriale intervenuto successivamente e in attuazione di questa disposizione, imponga oggi la ripetizione delle procedure ormai concluse ai sensi della previsione transitoria. Il tenore letterale del decreto, tuttavia, lascia aperto il dubbio interpretativo.
Infine, è bene osservare che lo stesso decreto prevede una fase di monitoraggio da parte del Ministero delle procedure applicative delle linee guida al fine di predisporre -se necessario- una loro revisione e aggiornamento nell’ottica di migliorare l’efficienza del procedimento di verifica di Via
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità, le tabelle di equiparazione tradiscono la Delrio.
Le tabelle di equiparazione ai fini della mobilità del personale, che hanno avuto il sì definitivo in Conferenza unificata, costituiscono non l'attuazione, ma l'ennesimo tradimento della riforma delle province, attivata dalla legge Delrio.

Lo schema di decreto, previsto dall'articolo 29-bis del dlgs 165/2001, infatti, non si limita a determinare la corrispondenza dei trattamenti retributivi per ogni categoria e posizione economica fissata dai contratti nazionali collettivi dei vari comparti.
Esso, all'articolo 3, comma 2, lettera a), contiene una clausola molto rilevante, capace di ridurre anche drasticamente il trattamento economico dei dipendenti provinciali in sovrannumero destinati alla mobilità: si prevede che i dipendenti manterranno soltanto il trattamento economico fondamentale e accessorio «limitatamente alle voci fisse e continuative». Il che significa, sostanzialmente, azzerare proprio il trattamento accessorio, dal momento che questo è composto da voci non fisse e non continuative, ma variabili.
Gli unici elementi stipendiali che resteranno a beneficio dei dipendenti saranno le progressioni orizzontali. Resta da capire se potranno conservare l'indennità di comparto, prevista proprio in via esclusiva per il comparto regioni ed enti locali. Considerando che si tratta di un elemento retributivo analogo a quello della progressione economica e finanziato dalla medesima parte stabile del fondo, tale emolumento dovrebbe considerarsi fisso e continuativo e, dunque, permanere.
Nessun'altra indennità accessoria, come quella per particolari responsabilità, turno, rischio, disagio, maneggio valori, retribuzione di posizione e risultato per le posizioni organizzative, potrà essere conservata, con la sola eccezione di quelle connesse al profilo professionale, come quelle previste per i docenti dei centri di formazione professionale o l'indennità di vigilanza per il personale della polizia provinciale, ma ciò a condizione che vengano mantenuti tali profili professionali a seguito della mobilità.
Tali previsioni del decreto si pongono in netto contrasto con l'articolo 1, comma 96, lettera a), della legge 56/2014, ai sensi del quale «il personale trasferito mantiene la posizione giuridica ed economica, con riferimento alle voci del trattamento economico fondamentale e accessorio, in godimento all'atto del trasferimento, nonché l'anzianità di servizio maturata; le corrispondenti risorse sono trasferite all'ente destinatario; in particolare, quelle destinate a finanziare le voci fisse e variabili del trattamento accessorio, nonché la progressione economica orizzontale, secondo quanto previsto dalle disposizioni contrattuali vigenti, vanno a costituire specifici fondi, destinati esclusivamente al personale trasferito, nell'ambito dei più generali fondi delle risorse decentrate del personale delle categorie e dirigenziale».
Come si nota, il meccanismo previsto dalla legge Delrio è totalmente diverso: prescinde dalle tabelle di equiparazione e garantisce ai dipendenti transitati in mobilità l'intero trattamento economico, tanto quello fisso e continuativo, quanto quello variabile, sul presupposto che il trasferimento sia finalizzato a supportare la gestione delle funzioni provinciali. Tanto che la norma della legge Delrio impone alle province di finanziare i costi dei trasferimenti assegnando le necessarie risorse agli enti subentranti, i quali dovrebbero creare specifici fondi decentrati riservati esclusivamente al personale provinciale.
L'impostazione del decreto delle tabelle di equiparazione, dunque, conferma che la legge 190/2014 ha di fatto totalmente disapplicato la legge Delrio, con tratti fortemente peggiorativi per il personale. L'imposizione alle province e città metropolitane di pesantissimi prelievi forzosi a beneficio del bilancio dello Stato (1 miliardo per il 2015, 2 nel 2016 e 3 nel 2017) non consente il trasferimento delle risorse del personale trasferito agli enti di destinazione.
Per questa ragione, a seguito dei trasferimenti, i dipendenti delle province perderanno totalmente la retribuzione accessoria e potranno ottenere eventuali indennità solo nei limiti degli spazi finanziari previsti dai fondi contrattuali decentrati degli enti di destinazione, che non potranno godere di trasferimenti finanziari da parte delle province, né saranno tenuti a creare i fondi decentrati riservati ai dipendenti provinciali (articolo ItaliaOggi del 09.05.2015).

PUBBLICO IMPIEGOVisite mediche, assenze imputate a malattia.
Funzione pubblica. La direttiva del ministero della Salute dopo il semaforo rosso alla circolare 2/2014.

Con la nota 24.04.2015 n. 14368 di prot. il Ministero della Salute corre ai ripari dopo l’annullamento da parte del Tar Lazio (sentenza 5714/2015) della circolare 2/2014 del Dipartimento della Funzione pubblica.
Si tratta della circolare con cui il Dipartimento ha ritenuto che, dopo l’entrata in vigore dell’articolo 55-septies, comma 5-ter, del Dlgs 165/2001 (introdotto dalla riforma di cui alla legge 125/2013), i pubblici dipendenti con necessità di eseguire visite mediche di controllo, in assenza di patologie in atto, dovessero fruire dei tre giorni di permesso per gravi motivi personali ovvero di altre tipologie di permesso variamente denominate dai contratti collettivi nazionali vigenti.
Il nuovo atto di indirizzo, ripercorrendo gli snodi fondamentali della sentenza 5714/2015, pur premettendo che essa non risulta ancora passata in giudicato e, pertanto, suscettibile di riforma, evidenzia che allo stato essa è non di meno immediatamente esecutiva.
Pertanto, in attesa delle modifiche contrattuali della disciplina dell’istituto in questione, le assenze dal servizio per visite, terapie, prestazioni specialistiche ed esami diagnostici del personale dipendente del ministero della Salute dovranno essere imputate a malattia secondo i criteri e le modalità già applicate in precedenza, secondo la prassi amministrativa e gli orientamenti giurisprudenziali formatisi prima della circolare 2/2014.
La recente direttiva ministeriale è stata inviata per conoscenza anche al dipartimento della Funzione pubblica e all’Aran, evidentemente per sollecitarne un intervento, il quale non potrà che sfociare nella convocazione di un tavolo di trattativa per la modifica della parte normativa dei contratto interessato, dal momento che secondo il regime delle fonti di cui all’articolo 2 del Dlgs 165/2001, confermato anche dal richiamo contenuto nell’articolo 55-septies, comma 5-ter, la disciplina della materia è riservata alla contrattazione collettiva nazionale e non alla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIASottoprodotti ridotti a rifiuto. Stoccati al massimo per un anno e non più vendibili. Il ministero dell'ambiente lavora a un decreto che rivoluziona la definizione dei residui.
Gli uffici del ministero dell'ambiente stanno lavorando a tappe forzate a un decreto che integri la nozione di sottoprodotto. Infatti, l'art. 184-bis, secondo comma 2, del Tua (dlgs 152/2006) prevede che con uno o più decreti siano adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti.
La bozza di decreto che ItaliaOggi ha potuto leggere introduce una serie di condizioni e limiti sconosciuti alla normativa primaria: per esempio la nozione di «residuo-rifiuto» e il vincolo che il sottoprodotto possa essere stoccato al massimo per un anno. Ma non basta: introduce la regola che il sottoprodotto sia in quantità tale da essere destinata al successivo utilizzo (condizione piuttosto difficile se il sottoprodotto è tipicamente un prodotto secondario della produzione), uno specifico formulario di identificazione e che non possa in alcun modo essere commercializzato.
Condizioni che non trovano alcun riscontro nel quadro normativo comunitario ed europeo. Completa il decreto un elenco non esaustivo di sottoprodotti da incentivare con il sistema delle tariffe delle fonti rinnovabili e che quindi diventano combustibili veri e propri. Insomma il sottoprodotto non è un rifiuto, ma in fondo non se ne discosta troppo se il dicastero introduce tali e tanti vincoli.
La dottrina e la normativa. La nozione di «sottoprodotto» viene introdotta dalla Corte europea di giustizia che, in ripetute sentenze, ne dà un quadro definitorio ad iniziare proprio dalle modalità produttive. All'evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia europea segue la Comunicazione interpretativa in materia di rifiuti e di sottoprodotti (datata 21.02.2007 Com 2007/59) che, benché antecedente alla direttiva del 2008, è ancora attuale ed offre spunti di riflessione. Con la direttiva 2008/98/Ce sui rifiuti trova ingresso nella normativa comunitaria la nozione di «sottoprodotto».
L'art. 5 della predetta direttiva stabilisce le condizioni affinché determinate sostanze suscettibili di un utilizzo economico possano essere reintrodotte nel ciclo economico senza la necessità di essere sottoposte alle operazioni di trattamento previste per i rifiuti. Una norma immediatamente operativa che non necessita di integrazioni e specificazioni (articolo ItaliaOggi del 07.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente, cinque nuovi reati. Spazio a disastro e smaltimento di rifiuti radioattivi. Dalla camera il via libera al ddl. Atteso ora da un ultimo passaggio al senato.
Nuove fattispecie di reato nel nostro ordinamento, fra cui disastro ambientale (per cui si prevede la reclusione da 5 a 15 anni) e smaltimento di rifiuti radioattivi, con aggravanti se i delitti sono commessi con la «longa manus» della mafia. Invece, sconti di pena per chi si attiva nella bonifica dei luoghi contaminati (ravvedimento operoso), mentre vengono soppresse le norme che vietavano l'uso della tecnica esplosiva dell'«air gun» per le ispezioni dei fondali marini, finalizzate alla ricerca di idrocarburi.

L'aula della camera ha approvato ieri pomeriggio il testo unificato delle proposte di legge (342-957-1814-B) che disciplinano i delitti contro l'ambiente, «reati piuttosto gravi, per i quali abbiamo previsto pene congrue, in un impianto normativo tutto sommato equilibrato», ha detto a ItaliaOggi Alfredo Bazoli (Pd), relatore del provvedimento; il parlamentare, inizialmente contrario, ha dovuto accettare il parere favorevole del governo (nella persona del ministro dell'ambiente Gianluigi Galletti) agli emendamenti soppressivi delle norme contro le ricerche petrolifere mediante l'«air gun» di Sc, Ap e Fi, passati con scrutinio segreto, che hanno imposto così l'obbligo di un nuovo esame del testo da parte dei senatori.
Come già sottolineato, dopo i casi Eternit (contaminazione da amianto a Casale Monferrato) e Terra dei fuochi (area fra Napoli e Caserta, in cui sono stati versati rifiuti altamente tossici) il legislatore ha messo nero su bianco cinque nuovi reati: per il disastro ambientale è contemplata una pena da 5 a 15 anni di carcere, per l'inquinamento, invece, da 2 a 6 anni (con multa da 10.000 a 100.000 euro); per entrambe le fattispecie si introducono aggravanti, in caso dalle azioni commesse contro l'ambiente derivino lesioni personali, o morte. Laddove, poi, i reati di inquinamento e di disastro ambientale vengano commessi per colpa, anziché per dolo, le pene previste vengono ridotte da un terzo a due terzi, mentre il traffico e il rilascio nei terreni di materiale ad alta radioattività cagionerà da 2 a 6 anni di carcere; impedire, poi, i controlli di luoghi inquinati costerà da 6 mesi a 3 anni (si veda anche tabella nella pagina).
Fra le norme rilevanti, il «premio» a chi si adopera per mettere in sicurezza le zone inquinate: mediante il cosiddetto ravvedimento operoso, infatti, pentirsi di quanto compiuto e rimediare risanando le aree alterate comporterà come beneficio la riduzione da un terzo alla metà della pena, e di un terzo per chi collaborerà con la magistratura, o con le forze di polizia «nella ricostruzione del fatto, nell'individuazione degli autori, o nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti».
Al contrario, il testo usa il «pugno di ferro» nei confronti di chi si macchierà di «omessa bonifica», giacché scatterà la punizione (con reclusione da uno a 4 anni e con una multa da 20.000 a 80.000 euro) per chi, pur essendovi obbligato dall'autorità giudiziaria, non provvederà a bonificare e a mettere in sicurezza i luoghi inquinati. All'orizzonte, dunque, il varo definitivo «entro maggio» (come promesso dal governo) della legge sugli ecoreati, «di portata storica» l'ha definita Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione giustizia di Montecitorio (articolo ItaliaOggi del 06.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOL’amministratore chiede l’agibilità. Quando non è stata ottenuta dal costruttore chi vende può avere problemi.
Edilizia. Secondo la legge l’edificio deve avere anche impianti a norma e attestazione energetica.
Non esiste una legge che impone al venditore di allegare all'atto di compravendita il certificato di agibilità, così come non esiste una legge che obbliga il notaio rogante di farne menzione nell'atto. Ma per i giudici le cose stanno diversamente: la mancanza del certificato di agibilità costituisce grave inadempimento e, come tale, causa di risoluzione del contratto, oltre al risarcimento del danno.
In particolare, il venditore si può vedere costretto a riprendersi l'immobile ed a restituire all'acquirente il prezzo, oltre a risarcire i danni, se sussistenti. Il problema è che sono moltissimi gli edifici in cui manca il certificato di agibilità perché il costruttore non si è preoccupato di richiederlo. Nel frattempo le leggi sono cambiate e per ottenerlo servono una serie di adempimenti che passano necessariamente dall'amministratore condominiale. Il suo ruolo, quindi, è centrale per evitare che i condòmini, quando desiderino cedere il proprio appartamento (vendendolo o affittandolo) si trovino in serie difficoltà.

Ma andiamo per gradi. Il Dl 145/2013, articolo 1, comma 7, stabilisce che i contratti di compravendita immobiliare devono contenere una clausola nella quale l'acquirente dichiara di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato in merito all'attestazione della prestazione energetica. Copia di questo attestato deve essere allegato al contratto. In caso di omessa dichiarazione o allegazione le parti sono soggette a una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 3.000 ad euro 18.000,00.
Altro adempimento richiesto dalla normativa in vigore dal 2010 (Dl 78/2010) è il cosiddetto “allineamento catastale” la cui violazione comporta la nullità degli atti di trasferimento delle proprietà immobiliari. Gli atti di trasferimento devono contenere, oltre all'identificazione catastale, anche il riferimento alle planimetrie depositate in Catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie.
La dichiarazione può essere sostituita da una attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato. Infine, non certo per importanza, il notaio è obbligato, ad inserire nel contratto, sempre pena la sua nullità, a seconda dell'epoca di costruzione dell'immobile, l'indicazione della licenza o della concessione edilizia, del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività oppure del titolo abilitativo in sanatoria.
Nulla, invece, viene detto dalla normativa in vigore sul certificato di agibilità. Si tratta di un vero e proprio “vuoto normativo” che comporta gravi ripercussioni su chi, e sono tanti, ogni giorno si appresta ad acquistare casa. Il certificato di agibilità (articolo 24 del Tu 380/2001) attesta, infatti, la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico dell'edificio e degli impianti in esso installati. Se l'edificio non gode di tali condizioni esso non potrà essere abitato.
Il certificato di agibilità viene rilasciato dal Comune; la domanda dovrà essere corredata dalla documentazione richiesta per legge, tra cui il certificato di conformità degli impianti e, ove previsto, il certificato di conformità alle norme antisismiche. Può essere ottenuto mediante espresso provvedimento, entro 30 giorni dalla domanda oppure mediante “silenzio-assenso” decorsi 30 dal parere positivo dell'Asl o 60 giorni in caso contrario. Quindi, anche se la consegna di questo certificato non è imposta dalla legge, l'acquirente può (o meglio deve) chiedere al venditore-costruttore fin dalla stipula del preliminare e, in ogni caso, al momento del contratto definitivo di compravendita, che gli venga esibito e consegnato il certificato di agibilità.
Ma quando, come spesso accade, non ci si è preoccupati di questo adempimento, occorre mobilitare l’amministratore e farne espressa richiesta. Se l'amministratore non è in possesso del certificato dovrà richiederlo con le modalità indicate prima. Anche il singolo condomino può farlo, sempre che l’immobile risulti agibile. In caso contrario dovranno essere apprestate dal condominio tutte quelle opere idonee a renderlo tale.
La mancanza del certificato, infatti, anche in assenza di una previsione legislativa, è stata valutata dai giudici come causa di risoluzione del contratto, principalmente in quanto costituisce una vendita di un bene diverso, inidoneo ad assolvere allo scopo che le parti si sono proposte.
In particolare, per i giudici il certificato di agibilità costituisce un requisito essenziale del bene compravenduto poiché incide sulla sua attitudine ad assolvere la sua funzione economico-sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 29.08.2011 n. 17707; Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 14.01.2014 n. 629)
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2015).

ENTI LOCALIServizi locali. Dall'Enac l'ok al volo per i droni.
Per sorvolare i centri abitati e le aree congestionate con le unità aeromobili a pilotaggio remoto occorre una preventiva autorizzazione dell'Ente nazionale per l'aviazione civile. È inoltre necessario che il velivolo abbia un adeguato livello di sicurezza e sia condotto da soggetti riconosciuti dall'organo tecnico centrale. In caso contrario scattano pesanti responsabilità anche per i soggetti committenti.

Lo ha evidenziato l'Enac con la nota 14.04.2015 n. 40278 di prot., indirizzata all'Associazione dei comuni italiani di via dei prefetti.
I sistemi senza pilota vengono utilizzati da diverse amministrazioni locali per effettuare rilievi di vario tipo. Questi strumenti di volo, specifica la nota dell'organo tecnico centrale, sono però considerati dalle normative internazionali al pari di aeromobili, soggetti quindi alla regolamentazione aeronautica.
L'impiego dei droni è stato quindi disciplinato dai singoli stati membri ed in Italia è stato adottato il regolamento sui mezzi aerei a pilotaggio remoto del 16.12.2013. Nel rispetto di questa disposizione normativa, risultano particolarmente critiche tutte quelle operazioni che prevedono il sorvolo delle città e delle zone densamente frequentate.
Conseguentemente, specifica l'Enac, per questo tipo di operazioni «è richiesto che l'operatore di tali sistemi a pilotaggio remoto sia autorizzato dall'Enac e l'apr, ovvero il drone, abbia un adeguato livello di sicurezza». In buona sostanza, per assicurare un adeguato livello di sicurezza occorrono organizzazioni riconosciute dall'Ente nazionale, note sul sito dell'Enac. Ad oggi nessun comune è stato autorizzato al sorvolo dei centri abitati.
Inoltre, solo aderendo al regolamento dell'Ente e affidando la commessa a soggetti abilitati, il soggetto committente può essere al sicuro da responsabilità civili, amministrative e penali per voli irregolari sul proprio territorio (articolo ItaliaOggi del 05.05.2015).

EDILIZIA PRIVATADossier doppio sul bonus 65%. Per sostituire finestre in appartamenti.
Doppia documentazione per usufruire della detrazione del 65% per la sostituzione delle finestre nel caso di singole unità immobiliari. Occorre infatti l'asseverazione di un tecnico abilitato, che specifichi il valore della trasmittanza termica degli infissi dismessi (eventualmente stimandola in base alle caratteristiche del profilato e della tipologia del vetro) e la scheda informativa semplificata (o allegato F al «decreto edifici», da compilare a video, anche a cura dell'utente finale senza l'ausilio del tecnico, e da inviare all'Enea via web).
Ciò vale anche per le unità immobiliari a destinazione d'uso diversa da quella residenziale (aziende, uffici, attività commerciali e produttive) purché univocamente definite come singola unità.

Queste una delle risposte contenute nelle Faq Enea aggiornate al 30.04.2015.
Non occorre inviare alcuna comunicazione preventiva. La normativa vigente impone solamente che entro 90 giorni dal termine dei lavori debba essere trasmessa ad Enea, per via telematica tramite l'applicativo raggiungibile dalla homepage del sito, cliccando sul link «invio», la documentazione costituita dall'attestato di qualificazione energetica e la scheda descrittiva degli interventi realizzati o in alcuni casi, una documentazione semplificata, costituita dal solo Allegato E (nel caso di sostituzione di impianti termici con caldaie a condensazione, pompe di calore ad alta efficienza o impianti geotermici a bassa entalpia o di sostituzione di scaldacqua di tipo tradizionale con scaldacqua a pompa di calore per a.c.s o di sostituzione o nuova installazione di generatori di calore a biomassa, comma 347) o dal solo Allegato F (nel caso di sostituzione di infissi in singole unità immobiliari o di installazione di pannelli solari o di schermature solari).
Effettuata la trasmissione, in automatico ritorna al mittente da Enea una ricevuta informatica con il CpID (Codice personale IDentificativo), valida a tutti gli effetti come prova dell'avvenuto invio (articolo ItaliaOggi del 05.05.2015).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALISequestri dai vigili, il Comune paga la custodia. Codice della strada. La Suprema corte sull’anticipo spese al posto del trasgressore.
Si apre un altro fronte critico nei conti dei Comuni: secondo la Cassazione, devono essere loro -e non le Prefetture- ad anticipare le spese di custodia dei veicoli sequestrati per violazioni al Codice della strada dai propri vigili urbani. Un capitolo secondario, perché probabilmente limitato a ciclomotori e motocicli. Ma non irrilevante, perché il contenuto della sentenza 08.05.2015 n. 9394, della I Sez. civile della Corte di Cassazione) potrà incidere anche sui contenziosi vecchi (ante 2007) ancora in corso su tutte le tipologie di veicolo.
Il 2007, infatti, è l’anno in cui è entrata a regime la “riforma” del sequestro (articolo 213, commi 2 bis-sexies, del Codice della strada) dettata dall’esigenza di non far più accumulare debiti alle Prefetture nei confronti delle autorimesse cui è affidata la custodia.
Le norme attuali riducono le fattispecie in cui occorre rivolgersi alle depositerie ai casi in cui sono coinvolti ciclomotori e motocicli e a quelli in cui il trasgressore o il proprietario del mezzo da sequestrare rifiutano di custodirlo o trasportarlo in un luogo di cui hanno la disponibilità. Inoltre, se l’interessato non ritira il veicolo portato in depositeria pagando le spese chi gestisce la struttura, questi acquisisce la proprietà del mezzo (custode-acquirente). Prima, invece, tutti i mezzi finivano in depositeria.
Proprio al regime precedente si riferisce la sentenza 9394/2015, che respinge il ricorso del Comune di Trento, condannato a pagare invece della Prefettura l’anticipo delle spese di custodia dei veicoli sequestrati dalla sua Polizia locale. Un principio analogo a quello già espresso dalle Sezioni unite (sentenza 564/2009) a proposito dei Carabinieri, affermando che le spese andavano sostenute non dal ministero dell’Interno ma da quello della Difesa, da cui l’Arma dipende.
Il principio nasce dall’articolo 11, comma 1, del Dpr 571/1982, secondo cui l’anticipo spese è a carico dell’«amministrazione cui appartiene il pubblico ufficiale che ha eseguito il sequestro». Secondo il Comune, però, il Dpr 571 si riferisce alle sole amministrazioni centrali e contrasta con le norme speciali contenute nella legge 689/1981 e nel Codice.
La Cassazione non trova invece alcun contrasto e aggiunge che è giusto che la responsabilità dell’operato degli agenti va legata all’amministrazione di appartenenza anche perché non c’è certezza del recupero delle somme dal trasgressore. Inoltre, non conta il fatto che lo stesso articolo 11 del Dpr 571, nel comma 4, stabilisca che le somme sono dovute dall’ufficio del registro: questa disposizione si riferisce solo alla forma tipica di pagamento che devono adottare gli organi statali, quando sono loro a doverle corrispondere
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.05.2015).

APPALTI SERVIZIServizi strumentali sempre con appalto.
Consiglio di Stato. Interpretazione «pro-concorrenza» del decreto Monti sulla spending review
Le Pa devono acquisire i servizi strumentali sul mercato, mediante gare, e non possono affidarli a società partecipate in house, secondo quanto previsto dalla normativa vigente.

L’innovativa interpretazione è stata elaborata dal Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 07.05.2015 n. 2291, con cui è stato annullato un affidamento di servizi di pulizie effettuato da un’Asl nei confronti di una propria società costituita per la gestione di vari servizi strumentali.
Nella pronuncia i giudici hanno vagliato il provvedimento dell’Asl alla luce dell’articolo 4, commi 7 e 8, del Dl 95/2012. Il comma 7 è finalizzato ad evitare distorsioni della concorrenza e in questa prospettiva dispone che, dal 1° gennaio 2014, le Pa acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal Codice dei contratti.
Il comma 8 invece prevede che, dalla stessa data, l’affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house.
Il Consiglio di Stato afferma che il tenore del comma 7 sembra univoco nell’individuare le procedure concorrenziali come modalità necessaria di acquisizione dei beni e servizi strumentali.
Rispetto all’affidamento in house come modalità derogatoria, la sentenza interviene in termini radicalmente diversi da precedenti pronunce e dalla sentenza del Tar oggetto dell’appello, che avevano letto la norma come possibilità di ricorrere all’affidamento diretto come “modello ordinario”.
I giudici, infatti, partono dal presupposto che l’in house, come costruito dalla giurisprudenza Ue, rappresenta, prima che un modello di organizzazione dell’amministrazione, un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga con gara.
In questa analisi, l’affidamento diretto del servizio confligge con la tutela della concorrenza in quanto sottrae al libero mercato quote di contratti pubblici. Pertanto, l’esistenza di una sua disciplina normativa a livello comunitario (oggi contenuta nell’articolo 12 della direttiva 24/2014/Ue) consente questa forma di affidamento, ma non obbliga i legislatori nazionali a disciplinarla, né impedisce loro di limitarla o escluderla in determinati ambiti.
Il Consiglio di Stato evidenzia quindi come l’articolo 4, comma 7, del decreto spending review costituisca norma (nazionale) preclusiva degli affidamenti diretti di servizi strumentali, con una scelta dichiaratamente pro-concorrenziale del legislatore, mentre interpreta il comma 8 come disposizione regolativa solo delle condizioni in base alle quali l’affidamento diretto sarebbe consentito nei casi in cui lo stesso articolo 4 ammette la costituzione o il mantenimento di società in house.
«È una sentenza storica -commenta Lorenzo Mattioli (presidente Anip, l’associazione imprese di pulizia e servizi integrati di Fise-Confindustria)- perché tutela il libero mercato e i diritti alla qualità e all’economicità dei servizi»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.05.2015).

APPALTI: Appalti, contributo unificato da pagare una volta sola.
È illegittimo richiedere più volte il contributo unificato nei ricorsi al Tar in materia di appalti pubblici; dal punto di vista comunitario si penalizza il diritto di difesa.

È quanto afferma l'avvocato generale Niilo Jääskinen nelle
conclusioni 07.05.2015 - causa C-61/14 presentate ieri alla Corte di giustizia su un ricorso del Tribunale di Trento.
La vicenda riguardava una società che, per ricorrere al Tar contro l'aggiudicazione di un appalto, aveva dovuto corrispondere più volte (ricorso introduttivo, ricorso incidentale, motivi aggiunti) il contributo unificato (che è graduato in relazione all'importo del contratto e alle diverse fasi procedurali). Veniva quindi posto il problema della conformità della disciplina italiana alla direttiva 89/665/Cee che, per le cause in materia di appalti pubblici, prevede oneri molto più alti rispetto agli altri ricorsi davanti alla giustizia amministrativa.
L'avvocato generale, nelle conclusioni rese note ieri, chiarisce che il problema non è l'entità del contributo: «un tributo giudiziario di 2.000, 4.000 o 6.000 euro, a seconda dei casi, non può costituire un impedimento all'accesso alla giustizia, anche prendendo in considerazione gli onorari di avvocato necessari».
Nessun problema neanche rispetto al fatto che le piccole e medie imprese siano svantaggiate e penalizzate: «Non si può ritenere che sia una restrizione indebita alla concorrenza a svantaggio delle piccole imprese».
Rappresenta invece un ostacolo al diritto di accesso alla giustizia prevedere, come ha fatto il legislatore italiano, un contributo in ogni fase del procedimento. In questo caso, dice l'avvocato generale, si determina un effetto dissuasivo alla presentazione dei ricorsi perché si aggrava il costo della tutela giurisdizionale.
Non si può discutere l'intento della norma (ridurre le liti temerarie e coprire i costi della giustizia amministrativa), ma la «richiesta plurima del contributo finisce per dissuadere l'impresa e comprime il diritto alla difesa» ponendosi quindi in posizione di incompatibilità rispetto alla direttiva 89/665. L'avvocato conclude poi che spetta al giudice nazionale accertare se la limitazione del diritto di difesa sia «necessaria e risponda effettivamente a finalità di interesse generale», come dice l'articolo 52 della Carta Ue (articolo ItaliaOggi del 09.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIGare, un costo equo per i ricorsi. Il ticket d’accesso va parametrato anche alle spese legali.
Giustizia amministrativa. Le conclusioni dell’avvocato generale sull’entità del contributo unificato.

Si profila una parziale vittoria dello Stato italiano nella lite sulla compatibilità comunitaria del contributo unificato dovuto qualora si impugnano atti di una gara pubblica: l’Avvocato Generale Niilo Jääskinen ha infatti depositato le proprie conclusioni 07.05.2015 - causa C-61/14, e si attende entro maggio la pronuncia della Corte di giustizia. Oggetto del contendere è l’importo del contributo unificato, che chi ricorre al giudice amministrativo deve versare all’inizio della lite e per ogni successiva integrazione che ampli la materia del contendere.
Per gli appalti pubblici il contributo si eleva dagli ordinari 650 euro fino a 6mila (per appalti di valore superiore a 1 milione di euro), e si rinnova nel caso di ricorso incidentale e di motivi aggiunti che introducano domande nuove. In grado di appello gli importi lievitano del 50 per cento.
L’Avvocato generale ha espresso la propria opinione ritenendo che la direttiva 89/665/CEE (sulle procedure di ricorso in materia di appalti) non osti a contributi più elevati di 650 euro, purché l’importo del tributo giudiziario non costituisca un ostacolo all’accesso alla giustizia né renda eccessivamente difficile l’esercizio della tutela giurisdizionale in materia di appalti.
La questione era stata sollevata dal Tribunale di giustizia amministrativa di Trento (ordinanza 366 del 2014) basandosi sul principio che impone una tutela giurisdizionale effettiva e non solo apparente, un ricorso non solo rapido ed efficace, ma anche accessibile. La Corte di giustizia già altre volte ha censurato l’eccessiva onerosità delle spese per i ricorsi (in materia ambientale), da valutare tenendo conto della situazione economica del ricorrente (sentenze 11.04.2013 n. 260/2011 e 530/2011 del 13.02.2014). Le conclusioni dell’Avvocato generale, cedendo il passo alla discrezionalità dello Stato, sottolineano che i costi dell’accesso alla giustizia negli appalti è anche fortemente condizionato dagli onorari degli avvocati, che si cumulano ai contributi riscossi dallo Stato. Uno spiraglio verso tributi piu lievi invece si apre per le impugnazioni di più atti appartenenti alla medesima serie procedimentale.
L’Avvocato generale sottolinea infatti che, se la lite tende a un unico risultato (petitum) e ha un’unica motivazione (causa petendi, cioè la volontà di prevalere nella gara), la tassazione cumulativa (di motivi aggiunti o di domande accessorie rispetto a quella iniziale) e la richiesta di più contributi (ognuno di importo elevato) hanno un effetto distorsivo e sproporzionato se confrontata con la tassazione originaria.
Spetta comunque allo Stato questo tipo di giudizio sul rapporto tra ricorso principale ed integrazioni successive: per esempio, nel caso che ha dato origine al giudizio comunitario, la lite inizialmente aveva avuto un costo di 2mila euro, ma tale importo era lievitato di quattro volte per successive specificazioni. Entro maggio, oltre alla parola definitiva della Corte comunitaria, si attende anche la pronuncia della nostra Corte costituzionale sull’esenzione dal pagamento del contributo unificato per le liti proposte dalle Onlus che operano nel settore della tutela dei diritti civili: la questione è stata discussa il 28 aprile e si fonda su argomenti comuni, quali l’eccessiva onerosità delle spese di giustizia
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'attribuzione delle mansioni superiori comporta anche l'attribuzione dei compensi della posizione organizzativa.
Se nell'ente sono in servizio diversi dipendenti di categoria D risulta illegittimo che si proceda a far ricorso alla norma che consente l'attribuzione di responsabilità in deroga a personale con qualifiche inferiori, essendo questa prevista solo per gli enti locali privi di posizioni dirigenziali di categoria D.
Ed è comunque irrilevante la circostanza dell'assenza di figure dirigenziali D nell'area specifica contabile di assegnazione del dipendente, atteso che la norma -quale condizione per l'operatività della deroga, da intendersi in via restrittiva per il suo carattere eccezionale- fa riferimento alla presenza o meno di figure dirigenziali in genere nell'ente locale, e non solo nella specifica area in questione.
---------------
Non potendo operare la deroga, ne risulta che il dipendente della categoria C che svolge mansioni rientranti nella categoria D ha diritto alla retribuzione prevista per quest'ultima, proprio quale diritto nascente dall'espletamento delle mansioni superiori, conformemente a quanto previsto dalla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato:
-  che, in materia di pubblico impiego contrattualizzato -come si evince anche dall'art. 56, comma 6, del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo, sostituito dall'ad. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, ora riprodotto nell'art. 32 del dlgs n. 165 del 2001- l'impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori (anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento) ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 Cost.;
- che deve trovare integrale applicazione -senza sbarramenti temporali di alcun genere- pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all'attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza 14/01/2008, la Corte d'appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza del tribunale della stessa sede del 07/04/2006, rilevato lo svolgimento da parte del lavoratore di mansioni -quale responsabile dell'area contabile- riconducibili a cat. D superiore e che erano state conferite con provvedimenti formali dell'ente (e considerata la soppressione dell'art. 56, co. 6, ad opera dell'art. 15 d.lgs. 387/1998 con efficacia retroattiva, ha accolto la domanda del lavoratore, ritenendo (a differenza del tribunale) non esservi mera attribuzione di incarico e posizione organizzativa ma assegnazione di mansioni superiori, ed ha condannato il datore al pagamento della somma di € 15.660 a titolo di differenze retributive per lo svolgimento delle dette mansioni superiori dal 01/01/1999 al 30/06/2003 ed a titolo di differenze di retribuzione di posizione e di risultato.
2. Avverso tale sentenza ricorre il datore per un motivo, cui resiste il lavoratore con controricorso.
Con unico motivo di ricorso si deduce (ex art. 360 n. 3 c.p.c.) violazione degli artt. 2 l. 191/1998, 109 d.lgs. 267/2000, 51 co. 3-ter l. 142/1990, e, per altro verso e con distinto -benché analogo quesito, violazione dell'art. 11 ccnl 31.03.1999, per aver trascurato le norme che consentono l'attribuzione ai responsabili di uffici e servizi dei compiti di attuazione dei programmi e degli obiettivi (negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale) e la norma del contratto collettivo che prevede l'attribuzione di retribuzione di posizione inferiore a quella dei dipendenti inquadrati nella qualifica superiore.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Il ricorso è infondato.
Occorre premettere che l'art. 8 del contratto collettivo disciplina le posizioni di lavoro -quale quella di responsabile di area- che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato, lo svolgimento di funzioni di direzione organizzative di particolari complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale ed organizzativa, e prevede che esse possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D (norma che trova corrispondenza nelle declaratorie di cui all'ali. A al contratto). L'art. 10, co. 2 e 3, prevede poi la retribuzione di posizione e di risultato per il personale della categoria D.
4. In correlazione con la facoltà prevista dall'art. 151, co. 3-bis, l. 142/1990, l'art. 11 del contratto collettivo prevede, poi, in deroga al principio generale che vuole una corrispondenza tra mansioni di assegnazione e qualifica prevista, che i comuni con minori dimensioni demografiche, ove siano privi di posizioni dirigenziali di categoria D, applicano la disciplina di cui agli artt. 8 ss ai dipendenti di categoria C cui sia attribuita la responsabilità degli uffici e dei servizi, corrispondendo la retribuzione prevista dal citato art. 11.
5. Nella specie, dal decreto n. 2/2000 del Presidente dell'ente locale risulta univocamente che vi erano nell'ente diversi dipendenti di categoria D (almeno cinque), sicché la comunità non poteva far ricorso alla norma che consente attribuzione di responsabilità in deroga a personale con qualifiche inferiori, essendo questa prevista solo per gli enti locali privi di posizioni dirigenziali di categoria D.
Resta invece irrilevante la circostanza dell'assenza di figure dirigenziali D nell'area specifica contabile di assegnazione del dipendente, atteso che la norma -quale condizione per l'operatività della deroga, da intendersi in via restrittiva per il suo carattere eccezionale- fa riferimento alla presenza o meno di figure dirigenziali in genere nell'ente locale, e non solo nella specifica area in questione.
6. Non potendo operare la deroga, ne risulta che il dipendente della categoria C che svolge mansioni rientranti nella categoria D ha diritto alla retribuzione prevista per quest'ultima, proprio quale diritto nascente dall'espletamento delle mansioni superiori, conformemente a quanto previsto dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 25837 del 11/12/2007), che ha affermato che, in materia di pubblico impiego contrattualizzato -come si evince anche dall'art. 56, comma 6, del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo, sostituito dall'ad. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, ora riprodotto nell'art. 32 del dlgs n. 165 del 2001- l'impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori (anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento) ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 Cost.; che deve trovare integrale applicazione -senza sbarramenti temporali di alcun genere- pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all'attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (nello stesso senso, con specifico riferimento alle mansioni superiori svolte con continuità negli enti locali in relazione al carattere eccezionale e temporaneo della facoltà di cui all'art. 151, co. 3-bis, su richiamato, Sez. L, Sentenza n. 21477 del 2008).
7. La retribuzione per le mansioni rientranti nella qualifica D è prevista dall'art. 10, co. 2, del ccnl, che prevede anche una indennità di posizione e di risultato specificamente determinata nel suo ammontare, somme cui correttamente ha fatto riferimento la sentenza impugnata al fine di determinare le somme differenziali spettanti al lavoratore
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 04.05.2015 n. 8884).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla nozione di veranda.
La consistenza del manufatto oggetto principale dell’ordinanza impugnata, realizzato senza assenso edilizio su un terrazzo dell’appartamento del ricorrente rientra nella definizione edilizia propria della veranda, definizione per la quale non rileva la chiusura su tutti i lati del manufatto stesso, essendo invece necessario e sufficiente l’effetto di incremento di volumetria e di modifica della sagoma dell’edificio causato dall’intervento edilizio (solo in presenza di una tettoia o di un porticato aperto da tre lati può essere esclusa la realizzazione di un nuovo volume).
Infatti:
- la veranda di cui trattasi non può essere considerata mero volume tecnico a protezione della caldaia, alla cui definizione difetta l’autonomia funzionale anche solo potenziale e la non adattabilità ad uso abitativo o diverso da quello necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi la costruzione principale: le dimensioni del manufatto sono, all’evidenza, ben maggiori di quelle necessarie a contenere la caldaia e ciò è sufficiente ad escluderne la riconducibilità alla categoria pretesa dall’appellante, anche ai sensi dell’art. 13 del regolamento edilizio comunale;
- in quanto comportante modifica del volume, della sagoma e del prospetto dell’edificio, l’intervento sanzionato rientra nella nozione della ristrutturazione edilizia come definita dall’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la cui realizzazione sconta il previo permesso di costruire da parte del Comune, a prescindere da qualunque considerazione circa la natura pertinenziale o meno del manufatto realizzato e dallo specifico oggetto dell’attività difensiva spiegata dal Comune nel corso del giudizio di primo grado;
- alla legittimità del provvedimento repressivo di un abuso edilizio non è necessaria, per pacifico e condiviso principio giurisdizionale, la specificazione di una specifica motivazione, né rileva l’asserita disparità di trattamento con altre situazioni analoghe, disparità che non può, in ogni caso, consentire il protrarsi di situazioni comunque non conformi alle norme, né la tutela del preteso legittimo affidamento, dato che la repressione di abusi edilizi costituisce, per il Comune, atto vincolato non soggetto a limiti temporali.

II) L’appello è infondato.
Come ha rilevato il primo giudice, la consistenza del manufatto oggetto principale dell’ordinanza impugnata, realizzato senza assenso edilizio su un terrazzo dell’appartamento del ricorrente rientra nella definizione edilizia propria della veranda, definizione per la quale non rileva la chiusura su tutti i lati del manufatto stesso, essendo invece necessario e sufficiente l’effetto di incremento di volumetria e di modifica della sagoma dell’edificio causato dall’intervento edilizio (solo in presenza di una tettoia o di un porticato aperto da tre lati può essere esclusa la realizzazione di un nuovo volume: per tutte, Cons. Stato, sez. V, 14.10.2013, n. 4997).
Per effetto di questa considerazione, che rende infondato il principale motivo dell’appello, devono essere respinti anche le ulteriori censure rivolte avverso la sentenza impugnata.
Infatti:
- la veranda di cui trattasi non può essere considerata mero volume tecnico a protezione della caldaia, alla cui definizione difetta l’autonomia funzionale anche solo potenziale e la non adattabilità ad uso abitativo o diverso da quello necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi la costruzione principale (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 21.01.201, n. 175): le dimensioni del manufatto sono, all’evidenza, ben maggiori di quelle necessarie a contenere la caldaia e ciò è sufficiente ad escluderne la riconducibilità alla categoria pretesa dall’appellante, anche ai sensi dell’art. 13 del regolamento edilizio comunale;
- in quanto comportante modifica del volume, della sagoma e del prospetto dell’edificio, l’intervento sanzionato rientra nella nozione della ristrutturazione edilizia come definita dall’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la cui realizzazione sconta il previo permesso di costruire da parte del Comune, a prescindere da qualunque considerazione circa la natura pertinenziale o meno del manufatto realizzato e dallo specifico oggetto dell’attività difensiva spiegata dal Comune nel corso del giudizio di primo grado;
- alla legittimità del provvedimento repressivo di un abuso edilizio non è necessaria, per pacifico e condiviso principio giurisdizionale, la specificazione di una specifica motivazione, né rileva l’asserita disparità di trattamento con altre situazioni analoghe, disparità che non può, in ogni caso, consentire il protrarsi di situazioni comunque non conformi alle norme, né la tutela del preteso legittimo affidamento, dato che la repressione di abusi edilizi costituisce, per il Comune, atto vincolato non soggetto a limiti temporali (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.05.2015 n. 2226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'abuso edilizio commesso dall'inquilino e sulle possibili conseguenze sul proprietario di casa.
In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e, segnatamente, rispetto all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell’opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
--------------
Come ha già osservato questo Consesso, l’ordine di demolizione è legittimamente, in caso di locazione, notificato anche al proprietario il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso, almeno dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza.
----------------
Se, nella specie, può ammettersi la completa estraneità e ignoranza nel momento della realizzazione dell’abuso e anche nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento dell’abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario, che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa dell’abuso realizzato.
Non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione dominicale la circostanza della stipulazione del contratto di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e del godimento dell’immobile, non fa affatto venire meno in assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull’entità immobiliare locata (si pensi alla manutenzione straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i profili, di vigilanza sull’immobile.
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza dell’abuso, ciò non può valere dal momento in cui il proprietario ne sia stato notiziato.
---------------
Essendo indubbio che a partire da una certa data o da un certo momento i proprietari erano venuti ben a conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sula loro proprietà, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza che regolano la materia, il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione, come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso (e in ciò si può convenire con la parte appellante), siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento contrattuale, diffide ad eliminare l’abuso, attività materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei casi di locazione.

L’appello è infondato.
In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e, segnatamente, rispetto all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell’opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
La tesi svolta in appello evidenzia che il Comune era consapevole di tale estraneità: l’amministrazione prima aveva diffidato e ordinato il ripristino al solo conduttore e solo successivamente, dopo tre mesi, si era rivolto anche ai proprietari; l’amministrazione era ben quindi a conoscenza della materiale indisponibilità dei proprietari, che permane tuttora.
Viene citata anche la relazione del 17.01.2012, dalla quale emergerebbe che, sulla base della segnalazione del Maresciallo della stazione forestale di Aymavilles del 16.08.2007 e del contratto di locazione, “solo a seguito di specifica richiesta dell’Ufficio, questa Amministrazione comunale ha desunto che l’area oggetto di deposito era locata e in disponibilità del predetto”.
I motivi di appello sono infondati, tenendo conto della posizione che in ogni caso ricopre il proprietario non autore dell’abuso edilizio e i suoi indiscutibili doveri, quanto meno, in modo sicuramente pregnante, a partire dal momento in cui sia venuto a conoscenza in modo formale della realizzazione abusiva sul suo immobile.
L’art. 77 della legge regionale n. 11 del 16.04.1998, mutuando la normativa nazionale del Testo unico dell’edilizia sul punto (art. 31), prevede al secondo comma, in continuità procedimentale con il primo comma che disciplina l’ordine di demolizione e ripristino dell’abuso edilizio, che “ove il responsabile dell’abuso non provveda alla demolizione e, in ogni caso, al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni, l’immobile oggetto dell’abuso e l’area di pertinenza dello stesso, determinata sulla base delle norme urbanistiche vigenti, e comunque non superiore a dieci volte l’area di sedime, sono acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune”.
Come ha già osservato questo Consesso (Cons. Stato, V, 26.02.2013, n. 1179), l’ordine di demolizione è legittimamente, in caso di locazione, notificato anche al proprietario il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso, almeno dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza (in tal senso, anche Cons. Stato, V, 31.03.2010, n. 1878; VI, 10.12.2010, n. 8705).
Se, nella specie, può ammettersi la completa estraneità e ignoranza nel momento della realizzazione dell’abuso e anche nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento dell’abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario, che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa dell’abuso realizzato.
Non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione dominicale la circostanza della stipulazione del contratto di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e del godimento dell’immobile, non fa affatto venire meno in assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull’entità immobiliare locata (si pensi alla manutenzione straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i profili, di vigilanza sull’immobile (così Cassazione civile, sezione III, 27.07.2011, n. 16422).
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza dell’abuso, ciò non può valere dal momento in cui il proprietario ne sia stato notiziato.
Il giudice di primo grado ha argomentato rilevando che, pur potendosi dare per dimostrato e ammesso che la parte proprietaria fosse del tutto estranea alla realizzazione delle opere abusive e ignorasse del tutto l’abuso fino alla data di comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, a partire da quella data (23.06.2008) e certamente a decorrere dalla successiva data del suo accesso agli atti (05.08.2009), la stessa parte proprietaria avrebbe dovuto attivarsi per la riduzione in pristino o quanto meno, dissociarsi completamente dalla condotta della parte conduttrice. Successivamente, in data 14.09.2009, avveniva il sopralluogo di verifica, con la presenza del signor C.S. in rappresentanza dei proprietari, che pertanto, a quel punto, erano pienamente a conoscenza di tutte le circostanze fattuali.
Anche la relazione comunale citata dall’appello, risalente al 17.01.2012, non può essere riportata a favore; con essa, certamente il Comune non si riferisce al periodo della stesura della relazione (anno 2012), essendo noto l’abuso ai proprietari almeno dal 2009; in essa si fa riferimento chiaramente a fatti accertati nel 2007 (epoca in cui era verosimile che i proprietari fossero nella ignoranza dell’abuso), mentre, come detto, è innegabile che successivamente, non tanto con la comunicazione del 23.06.2008, ma certamente con l’accesso presentato e esercitato in data 05.08.2009, poi con il sopralluogo del 14.09.2009, poi con l’ordinanza del 21.09.2009 notificata nei loro confronti, i proprietari erano oramai venuti a conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sulla loro proprietà.
Essendo indubbio quindi, che a partire da una certa data o da un certo momento, i proprietari erano venuti ben a conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sula loro proprietà, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza che regolano la materia, il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione (come prevede anche la legge regionale della Valle d’Aosta), come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso (e in ciò si può convenire con la parte appellante), siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento contrattuale, diffide ad eliminare l’abuso, attività materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei casi di locazione.
Rispetto a tale necessaria attività di dissociazione, che il primo giudice ha ritenuto insussistente tanto da relegarla ad una mera intenzione di fatto rimasta inattuata, risulta soltanto la mera dichiarazione, non documentata, peraltro, da parte degli appellanti, risalente al 13.04.2012, con cui essi dichiarano che “stanno formalizzando la risoluzione del contratto di locazione de quo”.
Rispetto a tale motivo di rigetto del ricorso originario, in realtà l’appello non deduce adeguatamente, al fine di sostenere e dimostrare una maggiore e sufficiente attività dissociativa.
Nel giudizio amministrativo, costituisce invece specifico onere dell’appellante formulare una critica puntuale della motivazione della sentenza appellata, posto che l’oggetto di tale giudizio è costituito da quest’ultima e non dal provvedimento gravato in primo grado, e che il suo assolvimento esige la deduzione di specifici motivi ed argomentazioni di contestazione della correttezza del percorso argomentativo che ha fondato la decisione appellata (per tale principio, Cons. Stato, IV, 13.12.2013, n. 6005).
E’ infondato il motivo di appello con cui si lamenta la omessa pronuncia per non avere il primo giudice esaminato e trattato il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria: è evidente come la sentenza, nell’esaminare il motivo con il quale si deduceva la estraneità dei proprietari rispetto all’abuso in relazione a tutte le circostanze fattuali, abbia esaminato tale censura sub specie di vizio di violazione di legge (sulla base della asserita violazione delle norme che stabiliscono la responsabilità dell’autore dell’abuso), accertando i medesimi fatti e le stesse censure (di asserito mancato accertamento dei fatti a sostegno della istruttoria circa la reale responsabilità dei proprietari inerti) riproposte poi come vizio di eccesso di potere, riproposto in modo ridondante, come ripetitivo del precedente, oltre che infondato, è il motivo di omessa pronuncia.
Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello va respinto, con conferma dell’appellata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.05.2015 n. 2211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'apposizione dei termini di efficacia della concessione edilizia e gli istituti della proroga (nei casi consentiti dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell'intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo.
---------------
La decadenza del titolo edilizio opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento diverso, infatti, la tesi prevalente in giurisprudenza, che il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche.
---------------
Per consolidata giurisprudenza, l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali di costruzione.
Detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.

... per l'annullamento della determinazione n. 1278 del 21.12.2010 del Direttore dell'Area 5 del Comune di Selargius, avente ad oggetto "Concessione Edilizia n. 58/2009 e n. 111/2010 per la realizzazione di un autolavaggio e sistemazione di parte dell'area a verde pubblico e parte a parcheggio - decadenza ex comma 2°, art. 15 D.P.R. 380/2001", con la quale veniva dichiarata la decadenza della concessione edilizia n. 58 del 25.06.2009 e della concessione edilizia n. 111/2010 di voltura della concessione edilizia n. 58 del 25.06.2009, per mancato inizio dei lavori entro un anno dal rilascio della concessione edilizia n. 58 del 25.06.2009;
...
Il ricorso è infondato.
La concessione edilizia n. 58/2009 recava espressamente l’indicazione (art. 2) che “L’inizio lavori dovrà avvenire entro un anno dalla data del rilascio della presente concessione e quindi entro la data del 30.06.2010, pena la decadenza della concessione stessa”.
La concessione n. 111/2010, adottata a seguito della presentazione dell’istanza di voltura da parte della società subentrante all’originaria concessionaria, stabiliva sul punto (art. 2) che “I termini di inizio e fine lavori sono i medesimi previsti dalla concessione n. 58/2009…”.
Orbene, non è superfluo ricordare che l'apposizione dei termini di efficacia della concessione edilizia e gli istituti della proroga (nei casi consentiti dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell'intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo (così Cons. St., V, 23.11.1996, n. 1414).
Con riguardo al caso di specie la ricorrente assume che, diversamente da quanto ritenuto dall’amministrazione, come da comunicazione di inizio lavori del 23.06.2010, questi ultimi sarebbero stati puntualmente iniziati prima della scadenza di efficacia del titolo edilizio.
L’argomento è privo di un significativo corredo probatorio.
Si richiama, infatti, in proposito, la dichiarazione resa dal geom. G.B. in data 26.11.2010 dalla quale tuttavia risulta che prima della scadenza del termine erano state effettuate mere operazioni preliminari (verifica delle quote plano altimetriche, individuazione del luogo migliore per l’accesso e l’uscita degli autocarri, affidamento dell’incarico a un geologo per il relativo studio dell’area), e la lettera dello studio legale C. & M. che peraltro, si limita a richiamare la corrispondenza intercorsa col geologo incaricato dell’indagine geognostica risalente ai giorni 3 e 15.10.2010, ossia ad epoca ben successiva alla scadenza della concessione risalente al 30.06.2010.
In proposito è opportuno ricordare che la decadenza del titolo edilizio opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento diverso, infatti, la tesi prevalente in giurisprudenza, che il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo (cfr. TAR Pescara, n. 61 del 04.02.2013; Consiglio di Stato n. 2915/2012).
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche (cfr. Tar Roma sentenza n. 5530/2005; Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 2915/2012).
Per contro, sempre sul piano probatorio, la difesa comunale ha depositato in data 19.02.2015 (all. 7) il verbale del sopralluogo effettuato nell’area interessata dall’intervento per cui è causa in data 29.10.2010, corredato da documentazione fotografica, dal quale si ricava che a tale data i lavori non risultavano affatto iniziati.
Del resto, per consolidata giurisprudenza, l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali di costruzione (così Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n. 1165); ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2000 n. 5242), circostanze, queste ultime, non comprovate nella specie dalla ricorrente.
Né, infine, assumono rilievo le ricordate vicende concernenti l’avvicendamento nella compagine sociale che, ad avviso della ricorrente, avrebbero determinato il ritardo nell’inizio dei lavori.
Tali accadimenti sono infatti, per quanto qui rileva, del tutto irrilevanti: mancando nel caso di specie sia una tempestiva richiesta di proroga, sia un formale provvedimento di sospensione del termine da parte dell’amministrazione, la concessione edilizia n. 28/2009 deve ritenersi decaduta fin dal 30.06.2010.
In conclusione quindi il ricorso si rivela infondato e va respinto (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 04.05.2015 n. 741 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIIl servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro è certamente rientrante tra le competenze specifiche degli architetti.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
- dell'avviso pubblico dell'Azienda Sanitaria Provinciale di Enna, pubblicato nella G.U.R.I. del 23.012015, per titoli e colloquio, per la formazione di una graduatoria da utilizzare per il conferimento di eventuali incarichi a tempo determinato di dirigente ingegnere - ruolo professionale, nella parte in cui, richiedendo tra i requisiti di ammissione la sola laurea in ingegneria vecchio ordinamento o laurea specialistica, ha escluso dalla partecipazione alla selezione la categoria professionale degli architetti;
- dell'avviso pubblico dell'Azienda Sanitaria Provinciale di Enna, pubblicato nella G.U.R.I. del 23.01.2015, per titoli e colloquio, per la formazione di una graduatoria da utilizzare per il conferimento di eventuali incarichi a tempo determinato presso il servizio prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, nella parte in cui, richiedendo tra i requisiti di ammissione la sola laurea in ingegneria vecchio ordinamento o laurea specialistica, ha escluso dalla partecipazione alla selezione la categoria professionale degli architetti;
...
- Ritenuto che appare assistito dal prescritto fumus di fondatezza il motivo di ricorso relativo al bando per “il servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro”, in quanto quest’ultimo è certamente rientrante tra le competenze specifiche degli architetti;
- Ritenuto che alla medesima conclusione non è possibile giungere per la diversa selezione di “dirigente ingegnere – ruolo professionale”, poiché non è prevista nel bando nessuna specifica indicazione in ordine alle concrete conseguenti mansioni da esercitare, sicché non è possibile stabilire a priori se gli incarichi conferibili rientrino o meno nella competenza degli architetti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia -Sezione staccata di Catania (Sezione Quarta)– accoglie nel limiti di cui alla parte motiva (TAR Sicilia-Catania, Sez. VI, ordinanza 04.05.2015 n. 331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla qualificazione dell'intervento di installazione tenda parasole.
Con riguardo alle tende parasole, il Collegio rileva che in giurisprudenza possono registrarsi tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un intervento privo di rilevanza edilizia, che non richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio.
Secondo un'opposta opinione, le tende solari sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo permanente e non a titolo precario e pertanto necessiterebbero del Permesso di costruire.
Secondo, infine, una posizione intermedia, l’istallazione di tende da sole rientrerebbe nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio condivide quest’ultima configurazione della natura giuridica degli interventi in questione come interventi di manutenzione straordinaria, che trova il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001, nel testo precedente alle modifiche introdotte dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Infatti, le tende solari, pur alterando lo stato dei luoghi nei quali vengono installate (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio, in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia.
Con particolare riferimento alle tende parasole installate proprio nell’ambito di attività del tipo di quella oggetto del presente giudizio, il Consiglio di Stato ha rilevato che: <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere che hanno finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di costruire)>>.
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie, l’intervento edilizio costituito dall’installazione di una struttura di supporto di una tenda rientri, per quanto di una certa ampiezza, nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria e che quindi non sia sottoposto al regime del Permesso di costruirre..
Il Collegio osserva ancora, per ragioni di completezza, che a seguito delle modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 prima dall’art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L. 22.05.2010, n. 73), e in ultimo con il D.L. 12.09.2014, n. 133, che ha convertito in legge il d.l. 11.09.2014, sul regime giuridico degli interventi di manutenzione straordinaria (entrate in vigore in data successiva a quella di accertamento delle opere per cui è causa), tali interventi possono ormai essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione, anche per via telematica, di inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00.

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 7 prot. 1986 del 06.03.2014 notificata il 10.03.2014 con cui il Responsabile del Terzo Settore del Comune di Agnone ha ingiunto al sig. -OMISSIS- di demolire l'opera realizzata e ripristinare lo stato dei luoghi entro 90 giorni, di ogni atto presupposto, connesso e/o conseguente.
...
Con riguardo alle tende parasole, il Collegio rileva che in giurisprudenza possono registrarsi tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un intervento privo di rilevanza edilizia, che non richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio (TAR Lombardia Milano, sez. III, 31.07.2006, n. 1890).
Secondo un'opposta opinione, le tende solari sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo permanente e non a titolo precario e pertanto necessiterebbero del Permesso di costruire (TAR Basilicata, sez. I, 27.06.2008, n. 337).
Secondo, infine, una posizione intermedia, l’istallazione di tende da sole rientrerebbe nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio condivide quest’ultima configurazione della natura giuridica degli interventi in questione come interventi di manutenzione straordinaria, che trova il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001, nel testo precedente alle modifiche introdotte dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Infatti, le tende solari, pur alterando lo stato dei luoghi nei quali vengono installate (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio, in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia (cfr. TAR Campania Napoli Sez. IV, 02.12.2008, n. 20791).
Con particolare riferimento alle tende parasole installate proprio nell’ambito di attività del tipo di quella oggetto del presente giudizio, il Consiglio di Stato ha rilevato che: <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere che hanno finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di costruire)>> (Cons. Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127).
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie, l’intervento edilizio costituito dall’installazione di una struttura di supporto di una tenda rientri, per quanto di una certa ampiezza, nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria e che quindi non sia sottoposto al regime del Permesso di costruire (TAR Campania, Napoli Sez. IV, 12.10.2011, n. 5324; TAR Campania, Napoli Sez. IV, 16.12.2011, 5919).
Il Collegio osserva ancora, per ragioni di completezza, che a seguito delle modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 prima dall’art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L. 22.05.2010, n. 73), e in ultimo con il D.L. 12.09.2014, n. 133, che ha convertito in legge il d.l. 11.09.2014, sul regime giuridico degli interventi di manutenzione straordinaria (entrate in vigore in data successiva a quella di accertamento delle opere per cui è causa), tali interventi possono ormai essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione, anche per via telematica, di inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00 (cfr. TAR Campania, sez. IV, 01.12.2014, n. 6197) (TAR Molise, sentenza 04.05.2015 n. 181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza di demolizione di opera abusiva allorché il comune ne sia a conoscenza (per iscritto) da oltre 10 anni e, nel frattempo, nulla ha fatto per reprimerlo.
La struttura abusiva in questione esiste da oltre 10 anni ed  il Comune era pienamente informato, come dimostrano le richieste, riferite espressamente anche alla tenda parasole, rivolte al ricorrente dallo stesso ente comunale di corrispondere il pagamento dei canoni di concessione per l’occupazione del suolo pubblico.
Tale situazione ha indubbiamente creato nel ricorrente un affidamento in ordine alla acquiescenza dell’ente comunale che non può non confluire nella complessiva positiva valutazione del ricorso, come già ritenuto in una recente pronuncia di questo stesso Tribunale da cui il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi.

Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve pertanto ritenere che l'ordine di demolizione si presenti comunque illegittimo dal momento che esplicitamente postula che per la sua realizzazione sia necessario il Permesso di costruire, trattandosi, per quanto più sopra esposto, di affermazione non corretta sul piano giuridico; né si può considerare in senso contrario la circostanza che l’area in questione è sottoposta a vincolo paesaggistico, atteso che la semplice menzione della circostanza che l’area in questione sia sottoposta a vincolo paesaggistico non costituisce un autonomo motivo dell’atto gravato tale da giustificare da solo il provvedimento negativo.
Anzi, al contrario, il mero riferimento a tali circostanze, in assenza di alcuna specificazione in ordine alla mancanza di autorizzazione paesaggistica e alla deduzione di tale circostanza come presupposto della misura sanzionatoria, non è sufficiente a far considerare l’aspetto dell’assenza di titolo paesaggistico quale motivazione della misura sanzionatoria, che si concentra invece sul profilo della necessità del permesso di costruire (cfr. TAR Campania, n. 6197/2014, cit.).
Alle considerazioni appena esposte, deve anche aggiungersi l’ulteriore rilievo, già evidenziato in sede cautelare, che la struttura in questione esiste da oltre 10 anni e che il Comune era pienamente informato, come dimostrano le richieste, riferite espressamente anche alla tenda parasole, rivolte al ricorrente dallo stesso ente comunale di corrispondere il pagamento dei canoni di concessione per l’occupazione del suolo pubblico.
Tale situazione ha indubbiamente creato nel ricorrente un affidamento in ordine alla acquiescenza dell’ente comunale che non può non confluire nella complessiva positiva valutazione del ricorso, come già ritenuto in una recente pronuncia di questo stesso Tribunale da cui il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi (cfr. TAR Molise 17.02.2014, n. 114).
Per tutte le suesposte ragioni che assorbono ogni altro profilo di doglianza il ricorso deve essere accolto e la gravata ordinanza deve quindi essere annullata (TAR Molise, sentenza 04.05.2015 n. 181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAcquisti Consip, decide il dirigente. Appalti. Consiglio di Stato.
L’adesione alla convenzione Consip esplica poteri gestionali di esclusiva competenza del dirigente/responsabile del servizio senza intermediazione politica.
È questo il concetto espresso dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 30.04.2015 n. 2194.
Nel caso trattato, l’appellante ha impugnato gli atti di adesione alla convenzione Consip per l’affidamento del servizio d’illuminazione pubblica, per due ragioni: il responsabile del servizio sarebbe stato carente di competenza ad aderire alla convenzione Consip, e l’atto si contrapponeva con un indirizzo della Giunta che prevedeva l’esternalizzazione del servizio con gara.
Sulla competenza, i giudici respingono l’obiezione con la considerazione che l’adesione alla convenzione Consip rientra nell’attività gestionale della dirigenza comunale in base all’articolo 107 del Tuel. Sulla supposta esigenza di un’intermediazione politica per valutare se aderire o meno alla convenzione Consip, in sentenza è chiarito che «si può comunque osservare che tra le competenze dell’organo giuntale non rientra quella della stipulazione di contratti o -il che è lo stesso- di adesione a convenzioni quadro. Dinanzi all’alternativa, inoltre, tra l’adesione ad una convenzione Consip e l’indizione di una gara ad hoc, la relativa opzione costituisce una scelta gestionale, e non certo un atto di indirizzo di competenza degli organi di governo locale».
Importanti sono anche le considerazioni dei giudici sulla valutazione economica dell’adesione alla convenzione L’assunto di base della ricorrente era la normativa impone alle Pa di acquisire beni e servizi «con la minore spesa possibile (...)anche sulla base delle convenzioni Consip, l’adesione alle quali andrebbe analiticamente motivata».
La sentenza ribatte che le norme vigenti esprimono per le convenzioni Consip un sicuro favore, come mostra il fatto che queste rilevano comunque come parametri di prezzo-qualità fungenti da limiti massimi per la stipulazione dei contratti.
In definitiva, quindi, la motivazione appare necessaria non tanto quando si decida di aderire alle convenzioni ma, piuttosto, quando si esprime una diversa valutazione e «l’amministrazione si determini in concreto nel senso di fare nuovamente ricorso al mercato, in quanto l’ente pubblico dovrà in tal caso far constare l’utilità della propria iniziativa rispetto ai parametri della convenzione Consip di settore»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo di costruzione posto a carico del costruttore trova causa nell’utilità che questi ne ritrae.
Trattandosi di principio di portata generale la deroga alla onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle sole ipotesi tassativamente previste dalla legge da intendersi di stretta interpretazione.
Ciò premesso si rileva che il pagamento del contributo di cui al citato art. 27 della L.R. n. 31/2002, ai sensi del successivo art. 30, comma 1, lett. a), è escluso unicamente “per gli interventi, anche residenziali, da realizzare nel territorio rurale in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12 della L. 09.05.1975, n. 153, ancorché in quiescenza”.
Ne deriva che ai fini del rilascio della concessione gratuita occorre il concomitante concorso di due requisiti: sul piano soggettivo, la qualità di imprenditore agricolo a titolo principale secondo la definizione di cui all’art. 12 della L. n. 153/1975; sul piano oggettivo, il nesso di preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del fondo.
La ricorrenza di una soltanto di dette condizioni non può, quindi, ritenersi requisito sufficiente a determinare la gratuità dell’intervento edilizio.
La pretesa esenzione non può, quindi, trovare applicazione nei confronti di soggetti differenti dall’imprenditore agricolo a titolo principale e deve essere debitamente documentata al momento in cui l’interessato richiede il titolo abilitativo per l’intervento edilizio.
---------------
In base al prevalente orientamento giurisprudenziale “la controversia sulla quantificazione del contributo di costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione della natura paratributaria del contributo” con la conseguenza che “trova campo elettivo d'applicazione, specie con riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la riduzione del pagamento del contributo, il criterio interpretativo delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva", proprio delle disposizioni tributarie. Ossia l'interprete, oltre a doversi attenere alla littera legis, deve individuare il criterio in base al quale è stata disposto il beneficio che deroga all'ordinario regime paratributario, al fine di non estenderne l'applicazione oltre i casi espressamente preveduti”.

La censura è infondata.
Sul punto occorre precisare che il contributo di costruzione posto a carico del costruttore trova causa nell’utilità che questi ne ritrae.
Trattandosi di principio di portata generale la deroga alla onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle sole ipotesi tassativamente previste dalla legge da intendersi di stretta interpretazione (Cons. di St., Sez. V, 07.05.2013, n. 2467).
Ciò premesso si rileva che il pagamento del contributo di cui al citato art. 27 della L.R. n. 31/2002, ai sensi del successivo art. 30, comma 1, lett. a), è escluso unicamente “per gli interventi, anche residenziali, da realizzare nel territorio rurale in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12 della L. 09.05.1975, n. 153, ancorché in quiescenza”.
Ne deriva che ai fini del rilascio della concessione gratuita occorre il concomitante concorso di due requisiti: sul piano soggettivo, la qualità di imprenditore agricolo a titolo principale secondo la definizione di cui all’art. 12 della L. n. 153/1975; sul piano oggettivo, il nesso di preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del fondo.
La ricorrenza di una soltanto di dette condizioni non può, quindi, ritenersi requisito sufficiente a determinare la gratuità dell’intervento edilizio (Cons. di St., sez. V, 14.05.2013, n. 2009).
La pretesa esenzione non può, quindi, trovare applicazione nei confronti di soggetti differenti dall’imprenditore agricolo a titolo principale e deve essere debitamente documentata al momento in cui l’interessato richiede il titolo abilitativo per l’intervento edilizio (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 18.09.2013, n. 1939).
Nel caso di specie in capo al ricorrente difetta la prescritta qualifica.
La Comunità Montana Valli del Nure e dell’Arda, infatti, a richiesta dell’Amministrazione, ha certificato la qualifica di IAP in capo a E.M. “in qualità di socio amministratore (persona giuridica) della predetta Società Agricola E.G. e C. Società Semplice e non in quanto ditta individuale (persona giuridica) coincidente con la persona fisica”.
La circostanza che l’intervento edilizio sia relativo ad opere assentite in forza di titolo richiesto dalla (e rilasciato alla) persona fisica determina l’insussistenza del presupposto legittimante l’invocata esclusione dal pagamento del contributo di costruzione.
L’esenzione in questione è ulteriormente inibita a causa della natura del fabbricato da realizzarsi atteso che non possiede il prescritto carattere rurale ma, come sostenuto dall’Amministrazione, deve classificarsi quale abitazione di lusso.
L’art. 9, comma 3, lett. e), del D.L. n. 557/1993, infatti, precisa che “i fabbricati ad uso abitativo, che hanno le caratteristiche delle unità immobiliari urbane appartenenti alle categorie A/1 ed A/8, ovvero le caratteristiche di lusso previste dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.08.1969, adottato in attuazione dell'articolo 13 della legge 02.07.1949, n. 408, e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 218 del 27.08.1969, non possono comunque essere riconosciuti rurali”.
Ai sensi dell’art. 5 del D.M. Lavori Pubblici 02.08.1969, sono considerate abitazioni di lusso “le case composte di uno o più piani costituenti unico alloggio padronale aventi superficie utile complessiva superiore a mq. 200 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine) ed aventi come pertinenza un'area scoperta della superficie di oltre sei volte l'area coperta”.
L’abitazione in questione è riconducibile a tale tipologia poiché ha superficie utile pari a mq. 232,11 (oltre mq. 158,40 non residenziali, mq. 56,44 per autorimessa e mq. 198,91 di porticati) e non può, pertanto, beneficare di alcuna esenzione.
Con il medesimo capo di impugnazione il ricorrente afferma ulteriormente che la circostanza che l’immobile presenti caratteristiche tali da essere riconducibile agli immobili di lusso potrebbe determinare il mancato riconoscimento della ruralità del fabbricato ai soli fini fiscali senza ricaduta alcuna sul regime del contributo di costruzione.
La doglianza è infondata in ragione della peculiare natura del contributo di costruzione.
Deve a tal proposito rilevarsi che in base al prevalente orientamento giurisprudenziale “la controversia sulla quantificazione del contributo di costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione della natura paratributaria del contributo (cfr., Tar Lombardia, sez. Brescia, 24.08.2012 n. 1467; Cons. St., sez. V, 14.12.1994 n. 1471)” con la conseguenza che “trova campo elettivo d'applicazione, specie con riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la riduzione del pagamento del contributo, il criterio interpretativo delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva", proprio delle disposizioni tributarie. Ossia l'interprete, oltre a doversi attenere alla littera legis, deve individuare il criterio in base al quale è stata disposto il beneficio che deroga all'ordinario regime paratributario, al fine di non estenderne l'applicazione oltre i casi espressamente preveduti” (TAR Liguria, Sez. I, 30.09.2014, n. 1401).
La posizione illustrata, dalla quale la Sezione non ha motivo di discostarsi, è coerente con il principio di stretta interpretazione cui devono soggiacere i casi di esonero dal contributo di concessione (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 29.01.2015, n. 516) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 30.04.2015 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Per quanto concerne i geometri, deve essere considerato che le loro competenze nella materia di cui al presente giudizio derivano da una competenza più generale alla progettazione di edifici ‘di modesta entità’.
Vanno quindi esaminate le disposizioni dell’art. 16, lett. m), del R.D. 11.02.1929, n. 274, che abilitano il geometra ad operare nella progettazione, nella direzione e nella vigilanza di modeste costruzioni civili.
Non vi sono ragioni per escludere che questa norma risponda al rinvio, del tutto aperto e privo di specificazioni o di esclusioni, operato dal soprarichiamato art. 6, primo comma, della legge 05.03.1990, n. 46, nei limiti del tipo di costruzioni considerate.
L’impianto di riscaldamento deve infatti considerarsi una parte essenziale della costruzione e il geometra è, in mancanza di esplicite disposizioni contrarie, certamente abilitato a progettarne la realizzazione nell’ambito delle progettazione complessiva, al pari dei numerosi altri impianti che la costruzione comporta, dato che la sua competenza è anche tecnicamente delimitata dalle dimensioni della costruzione alla quale l’impianto di riscaldamento non può non commisurarsi.
---------------
Il geometra, così come può svolgere attività di progettazione, di direzione e di vigilanza con riferimento a «modeste costruzioni civili», può anche presentare domande riguardanti la verifica di impianti di riscaldamento nelle medesime costruzioni.

1. – Il Collegio dei Geometri della Provincia di Genova e il suo Presidente in carica, geometra L.P., appellano la sentenza del TAR Liguria n. 166/2006, che ha dichiarato in parte infondato ed in parte inammissibile il ricorso per l'annullamento della nota 28.01.2002, n. 4146, con cui il dirigente del Comune di Genova ha disposto la non conformità della relazione tecnica presentata dal geom. P. nell’ambito di una domanda in sanatoria di opere edilizie riguardante la verifica di un impianto di riscaldamento installato in un’abitazione.
Tale atto è stato emesso poiché questo documento non è stato sottoscritto da un professionista (ingegnere o perito industriale) abilitato alla redazione di progetti impiantistici, come richiesto, in base all’interpretazione sostenuta dal Comune, dall’art. 6, comma 1, della legge n. 46/1990 e dall’art. 4 del DPR n. 477/1991.
...
10. – L’appello è in parte fondato e deve essere accolto con conseguente riforma della sentenza appellata nei limiti di cui in motivazione.
10.1. – Deve innanzitutto essere disattesa, salvo che per quanto statuito dalla presente sentenza al punto 10.9., l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dall’Ordine degli ingegneri e dal Collegio dei periti industriali nella memoria depositata in data 24.12.2014, che asserisce che l’appello censura la sentenza impugnata solo in relazione al rigetto del primo motivo di ricorso con la conseguenza che si debba ritenere che il secondo e il terzo motivo siano stati rinunciati.
Entrambi i motivi sono stati trascritti nell’atto di appello e la censura, espressa in questi termini, è smentita dagli atti di causa.
Allo stesso modo deve essere disattesa la eccezione di improcedibilità per carenza di interesse sollevata dall'interveniente ad opponendum, il Consiglio nazionale dei Periti industriali e dei Periti laureati, in quanto la loro asserzione non è suffragata da alcun riscontro, mentre è in ogni caso evidente l’interesse a contestare la valutazione negativa operata dal Comune, a prescindere dall’esito dell’opera interessata, trattandosi di una questione di principio che incide sull’ambito delle competenze professionali da considerare conformi alla normativa del settore.
10.2. – Passando all'esame del merito, il Collegio ritiene che la questione sostanziale oggetto del giudizio deve essere decisa su base esclusivamente normativa. Spetta infatti al legislatore definire espressamente i limiti di competenza di tipo generale rispetto a quelle tecnicamente più specifiche.
10.3. – Vanno quindi valutati gli effetti del combinato disposto costituito dalla legge 05.03.1990, n. 46, e dagli ordinamenti professionali a cui rinvia in particolare l’art. 6, comma 1, della medesima legge, interpretato in modo opposto dalle parti nel presente giudizio: "Per l'installazione, la trasformazione e l'ampliamento degli impianti di cui ai commi 1, lettere a), b), c), e) e g), e 2 dell'articolo 1 è obbligatoria la redazione del progetto da parte di professionisti, iscritti negli albi professionali, nell'ambito delle rispettive competenze".
10.4. – Preliminarmente, va notato che tale comma si limita a prevedere la redazione di un progetto riferito alla installazione, alla trasformazione e all’ampliamento degli impianti e non alla loro progettazione. Pertanto la rubrica dell’articolo "progettazione degli impianti" deve essere interpretato secondo il contenuto della norma, che è assai più semplice e limitato.
10.5. – Delimitato l’ambito della questione, è determinante ai fini della sua soluzione la interpretazione della disposizione, che prevede la definizione delle caratteristiche professionali degli operatori dai quali il progetto deve essere necessariamente redatto. Tale disposizione rinvia in modo puntuale e inoppugnabile alle disposizioni che precisano la competenza per ciascuna categoria di professionisti, senza alcuna specificazione ed esclusione, prevedendo quindi che ai fini della installazione, della trasformazione o dell’ampliamento degli impianti il progetto possa essere redatto da ciascun appartenente alla singola categoria nell’ambito delle competenze già previste dai rispettivi ordinamenti.
Ne consegue che la questione deve essere risolta per ciascuna categoria professionale all’interno del rispettivo ordinamento e secondo le logiche specifiche che lo informano.
10.6. - Per quanto concerne i geometri, deve essere quindi considerato che le loro competenze nella materia di cui al presente giudizio derivano da una competenza più generale alla progettazione di edifici ‘di modesta entità’.
Vanno quindi esaminate le disposizioni dell’art. 16, lett. m), del R.D. 11.02.1929, n. 274, che abilitano il geometra ad operare nella progettazione, nella direzione e nella vigilanza di modeste costruzioni civili.
Non vi sono ragioni per escludere che questa norma risponda al rinvio, del tutto aperto e privo di specificazioni o di esclusioni, operato dal soprarichiamato art. 6, primo comma, della legge 05.03.1990, n. 46, nei limiti del tipo di costruzioni considerate.
L’impianto di riscaldamento deve infatti considerarsi una parte essenziale della costruzione e il geometra è, in mancanza di esplicite disposizioni contrarie, certamente abilitato a progettarne la realizzazione nell’ambito delle progettazione complessiva, al pari dei numerosi altri impianti che la costruzione comporta, dato che la sua competenza è anche tecnicamente delimitata dalle dimensioni della costruzione alla quale l’impianto di riscaldamento non può non commisurarsi.
10.7. – Non può considerarsi sufficiente a ricavare una indicazione contraria la previsione generale di cui all’art. 4 della più volte richiamata legge n. 46 del 1990, che ha imposto la redazione di un’autonoma relazione tecnica per l’installazione degli strumenti elettrici, degli impianti di terra, di quelli che utilizzano il gas, degli ascensori.
E’ al riguardo condivisibile la considerazione della parte appellante secondo la quale in altri casi vi sono norme che escludono espressamente la competenza del geometra, mentre ciò non avviene nel campo degli impianti termici, in quanto anche recentemente il d.P.R. n. 149 del 27.06.2013 in tema di affidamento della certificazione energetica degli edifici inserisce espressamente tra i tecnici abilitati i geometri.
10.8. - Si deve pertanto concludere nel senso che:
- per un principio di simmetria, il geometra, così come può svolgere attività di progettazione, di direzione e di vigilanza con riferimento a «modeste costruzioni civili», può anche presentare domande riguardanti la verifica di impianti di riscaldamento nelle medesime costruzioni;
- il provvedimento impugnato in primo grado risulta dunque viziato per violazione di legge e difetto di motivazione, poiché ha radicalmente ritenuto precluso che il geometra P. potesse presentare in sede amministrativa la domanda concernente la verifica dell’impianto di riscaldamento installato in un’abitazione, mentre avrebbe dovuto valutare se la progettazione dell’edificio oggetto della sua domanda rientrava o meno nelle sue competenze, e di conseguenza rientrava anche la medesima verifica.
10.9. – Le considerazioni che precedono risultano decisive per l’accoglimento dell’appello e, dunque, della domanda di annullamento formulata in primo grado. Risulta invece inammissibile la riproposizione della domanda di riconoscimento del diritto a svolgere le attività professionali in questione, per la quale il TAR ha affermato che non vi è giurisdizione del giudice amministrativo, senza che l’appello contenga una specifica contestazione al riguardo.
11. – In base alle considerazioni che precedono, l’appello deve essere in parte accolto e in parte dichiarato inammissibile e, di conseguenza, in riforma della sentenza del TAR, il ricorso di primo grado va in parte accolto, con conseguente annullamento del provvedimento comunale impugnato in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2015 n. 2107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIMeno carte per il giovane che partecipa all'appalto.
Un giovane professionista che partecipa a una gara di appalto di servizi tecnici non deve rendere le dichiarazioni previste dall'articolo 38 del codice dei contratti pubblici.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 23.04.2015 n. 2048 rispetto alla norma (articolo 253, comma 5, del Dpr 207 del 2010) che obbliga i raggruppamenti temporanei di progettisti a prevedere al loro interno, in qualità di progettista, almeno un professionista abilitato all'esercizio della professione da non più di cinque anni, al fine di promuovere la presenza di giovani nei gruppi concorrenti.
Il punto era decidere se fosse legittima (come affermato in primo grado dal Tar Veneto con la pronuncia n. 825 del 13.06.2014) l'esclusione di un raggruppamento che non aveva fatto rendere al giovane professionista le dichiarazioni ex articolo 38 del Codice che riguardano, ad esempio, i requisiti di moralità. Veniva eccepita l'illegittimità dell'esclusione in quanto la norma regolamentare non attribuirebbe al giovane professionista alcun ruolo ulteriore rispetto alla sottoscrizione dei progetti e, pertanto, non lo riterrebbe equiparato a nessuno dei soggetti tenuti alle dichiarazioni ex art. 38 (socio, componente di un raggruppamento e, men che meno, un concorrente).
I giudici, accolgono il ricorso e annullano la sentenza di primo grado partendo dalla considerazione che il coinvolgimento nel raggruppamento è funzionale all'inserimento nel mercato del lavoro dei giovani abilitati alla professione da meno di cinque anni: essa tende, cioè, a favorire l'applicazione nella pratica delle conoscenze maturate nel corso degli studi universitari, responsabilizzandolo con firma sugli elaborati progettuali (non prevista nel precedente regolamento del 1999).
L'obbligo dichiarativo ex. art. 38 dicono i giudici «risiede nella necessità di verificare la complessiva affidabilità dell'operatore economico con cui la stazione appaltante stipulerà il contratto oggetto della procedura ad evidenza pubblica», e questi non è certo il giovane professionista indicato dal raggruppamento che quindi non dovrà fornire le medesime garanzie anche morali (articolo ItaliaOggi del 06.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIE’ assunto consolidato che la sottoscrizione dell’offerta e della domanda di partecipazione è lo strumento mediante il quale l’autore fa proprie le dichiarazioni rese e dunque, da una parte, assume la paternità della dichiarazione, dall’altra, vincola l’autore alla manifestazione di volontà in esse contenuta.
Trattandosi di elemento essenziale, la sua mancanza ovvero l’impossibilità di attribuire la sottoscrizione ad un soggetto specifico (anche ad esempio perché illeggibile e priva della menzione della qualifica del sottoscrittore) inficia la validità della manifestazione di volontà contenuta nell’offerta/domanda di partecipazione, determinando la nullità e la conseguente irricevibilità delle stesse.
Quanto precede vale con riguardo sia all’offerta economica sia con riguardo all’offerta tecnica; ed anche in assenza di una esplicita comminatoria di esclusione nella lex specialis.
In caso di RTI costituendo, è indispensabile la sottoscrizione (apposta correttamente e nelle modalità sicuramente identificative sopra indicate) di tutti i futuri partecipanti al raggruppamento temporaneo, atteso che ancora non si è creato il RTI e dunque quell’organismo che, pur non avendo ex se soggettività, costituisce pur tuttavia centro di imputazione unitario, per effetto degli efficacia interna ed esterna esplicata dal negozio di mandato.

3. E’ assunto consolidato che la sottoscrizione dell’offerta e della domanda di partecipazione è lo strumento mediante il quale l’autore fa proprie le dichiarazioni rese e dunque, da una parte, assume la paternità della dichiarazione, dall’altra, vincola l’autore alla manifestazione di volontà in esse contenuta. Trattandosi di elemento essenziale, la sua mancanza ovvero l’impossibilità di attribuire la sottoscrizione ad un soggetto specifico (anche ad esempio perché illeggibile e priva della menzione della qualifica del sottoscrittore) inficia la validità della manifestazione di volontà contenuta nell’offerta/domanda di partecipazione, determinando la nullità e la conseguente irricevibilità delle stesse (v. CdS Sez. V n. 3669/2012 e n. 513/2011; AVCP pareri n. 225/2010 e 78/2009);
4. Quanto precede vale con riguardo sia all’offerta economica sia con riguardo all’offerta tecnica; ed anche in assenza di una esplicita comminatoria di esclusione nella lex specialis (v. TAR Lazio–Roma sez III n. 544/2008).
5. In caso di RTI costituendo, è indispensabile la sottoscrizione (apposta correttamente e nelle modalità sicuramente identificative sopra indicate) di tutti i futuri partecipanti al raggruppamento temporaneo (v. parere AVCP n. 93/2013), atteso che ancora non si è creato il RTI e dunque quell’organismo che, pur non avendo ex se soggettività, costituisce pur tuttavia centro di imputazione unitario, per effetto degli efficacia interna ed esterna esplicata dal negozio di mandato.
6. Il principio de quo è evidentemente di ordine generale, in quanto involgente la stessa genuinità e serietà dell’offerta quale atto di natura negoziale, come tale applicabile anche alle concessioni di servizio (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 22.04.2015 n. 398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa p.a. dribbla la mora. Spending review? Decade l'obbligo a pagare. Giudizi di ottemperanza, la sentenza del Tar Lazio sull'effetto dei tagli.
La spending review solleva la pubblica amministrazione dall'obbligo di pagare in caso di inadempimento. I tagli ai bilanci sono infatti un'ottima ragione per ritenere disapplicabile la penalità di mora, che consiste nel versare al privato che ha vinto in giudizio una certa somma al giorno fino a quando non si sarà adempiuto alla sentenza passata in giudicato.

È quanto emerge dalla sentenza 21.04.2015 n. 5804, pubblicata dalla Sez. III-quater del TAR Lazio-Roma, nella quale si stabilisce in sostanza che i tagli di bilancio agli enti pubblici devono essere ritenuti una ragione ostativa al pagamento, in base all'articolo 114 del Codice del processo amministrativo (Cpa, decreto legislativo 104/2010).
Spinta forzosa
Nessun dubbio che l'Asl debba pagare all'impresa privata quasi 50 mila euro più interessi: risulta passata in giudicato la sentenza che reca la condanna dell'amministrazione per il pagamento delle rate di acconto sui lavori di manutenzione straordinaria e messa a norma dell'ospedale locale.
Ora l'azienda sanitaria locale ha sessanta giorni di tempo dalla notifica della sentenza emessa nell'ambito del giudizio di ottemperanza per provvedere a onorare la sua obbligazione pecuniaria. E se l'Asl non provvederà in tempo sarà «commissariata» nel senso che per l'azienda provvederà il segretario generale del Ministero del lavoro o un funzionario da lui delegato.
L'amministrazione, tuttavia, si salva dall'astreinte che scatta in questi casi, vale a dire la condanna al versamento di una somma pari a un tot di euro al giorno fino a quando l'obbligazione non risulta adempiuta. E ciò per «la notoria situazione di congiuntura che ha imposto severi tagli alla spesa pubblica»: la spending review, spiegano infatti i giudici amministrativi, costituisce infatti uno dei motivi ostativi indicati in via residuale dall'articolo 114 Cpa insieme con l'iniquità per escludere la configurabilità della condanna, mutuata dall'ordinamento francese, alla spinta forzosa per indurre il debitore ad adempiere. Questo, per evitare che si arrivi alla «paventata insolvenza degli enti pubblici».
La penalità di mora dunque non è applicabile perché lo impediscono le oggettive condizioni economiche in cui versa la pubblica amministrazione debitrice, debitamente documentate.
L'Asl, insomma, paga ma evita un esborso maggiore rappresentato dalla somma da versare per ogni giorno di ritardo nell'adempimento (articolo ItaliaOggi del 05.05.2015).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIConvenzione obbligata solo se soddisfacente. Il consiglio di stato sui protocolli consip.
L'obbligo di aderire alle convenzioni Consip per le stazioni appaltanti vale fin tanto che i servizi da acquistare siano in concreto rispondenti alle esigenze della stazione appaltante, non potendo diversamente ipotizzarsi un obbligo giuridico di adesione ogni qualvolta sia carente l'esigenza o inadeguato il contenuto della convenzione.

Lo ha stabilito la III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 14.04.2015 n. 1908.
Nel caso concreto la mandataria di un rti ha impugnato davanti al tribunale amministrativo l'atto adottato da una azienda ospedaliera avente ad oggetto l'affidamento, tramite adesione a una convenzione Consip, del servizio di gestione e manutenzione degli impianti elettrici e di illuminazione del presidio.
Secondo la ricorrente l'amministrazione, pur obbligata a fare ricorso al mercato elettronico per il rinnovo del servizio in questione, avrebbe aderito a una convenzione non rispettosa delle sue esigenze; prova di quanto affermato era data dalla circostanza che, in seguito all'affidamento, la stessa azienda si è vista costretta a integrare il contratto, con sensibile aumento dell'importo, a copertura di taluni aspetti rimasti scoperti dalla convenzione.
Il Tar ha riconosciuto le buone ragioni del ricorrente, dichiarando l'illegittimità degli atti adottati dall'amministrazione: coerentemente con quanto sostenuto dall'appaltatore che si è visto sottrarre il contratto per effetto della convenzione, i giudici amministrativi hanno osservato come l'amministrazione non potesse aderire al contratto reso disponibile da Consip poiché non soddisfacente, ab origine e interamente, le sue esigenze, né poteva colmare le relative lacune mediante l'integrazione a trattativa privata del contratto.
Il verdetto del Tar è stato sottoposto all'attenzione del consiglio di stato. In particolare, l'azienda ha rimarcato l'obbligo, gravante sulla medesima, di acquistare beni e servizi tramite la società Consip spa, specie dopo l'entrata in vigore del dl 06.07.2012 n. 95, conv. legge n. 135/2012, il quale ha imposto l'obbligo di aderire alle convenzioni utilizzando gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip «per le categorie merceologiche presenti nella piattaforma Consip». In tal senso, l'amministrazione ha difeso la propria scelta siccome «obbligata» dalla normativa in materia.
I giudici di palazzo Spada, tuttavia, hanno smentito la ricostruzione dell'azienda ospedaliera snidando , ancora una volta, tutte le criticità sottese agli obblighi delle amministrazioni di rivolgersi, per l'approvvigionamento di beni e servizi, al mercato Consip.
Sul punto, i giudici romani hanno affermato come l'obbligo «di adesione» alle convenzioni a norma dell'art. 15, c. 13, del dl 06.07.2012 n. 95, convertito nella legge 07.08.2012 n. 135, risulta essere un obbligo «ipotizzabile, non certo astrattamente, ma solo per l'acquisto di servizi concretamente rispondenti alle esigenze della stazione appaltante non potendo diversamente ipotizzarsi un obbligo giuridico di adesione là dove sia carente la concreta esigenza o inadeguato il contenuto della convenzione»; di conseguenza, quando le modalità o, anche solo, le tempistiche del servizio offerto tramite Consip risultino sensibilmente differenti, detto obbligo viene meno.
Non solo.
Secondo il consiglio di stato, la scelta dell'amministrazione di aderire a una convenzione non soddisfacente per poi correggerne il tiro tramite atti aggiuntivi al contratto, rappresenta una evidente violazione dei principi, di fonte europea e nazionale, di trasparenza, libertà di concorrenza, adeguata pubblicità e giusto procedimento: e invero, «gli affidamenti di servizi ulteriori, non contemplati dalla convenzione, così come tutte le estensioni dell'oggetto e della durata delle forniture acquisite mediante il ricorso al sistema centralizzato, sono illegittimi perché comportano la violazione delle direttive comunitarie e delle norme nazionali che dispongono l'obbligo della gara pubblica a garanzia della concorrenza, della par condicio tra i partecipanti, della correttezza e della trasparenza della condotta della s.a.».
Sul crinale delle premesse che precedono, il consiglio di stato ha, dunque, confermato l'illegittimità dell'operato della stazione appaltante, per l'effetto confermando l'annullamento degli atti impugnati e già annullati dal tribunale di primo grado (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.05.2015).

APPALTIAppalti, risarcito il danno al Cv. Se l'impresa è ingiustamente esclusa.
All'impresa ingiustamente esclusa dalla gara non bisogna risarcire soltanto l'utile perduto. Quando l'azienda che doveva vincere non può ormai subentrare nell'esecuzione del contratto, la stazione appaltante deve rifondere anche il danno al curriculum, vale a dire una particolare perdita di chance patita dalla società che opera nel settore dei lavori pubblici in termini. E ciò perché l'occasione perduta non accresce l'avviamento (e dunque anche il prestigio) della società nei confronti della comunità delle amministrazioni committenti.

È quanto emerge dalla sentenza 10.04.2015 n. 1839, pubblicata dalla III Sez. del Consiglio di Stato.
Lesione alla reputazione
Accolto il ricorso dell'impresa: ormai non è più possibile fare in modo che l'azienda subentri nella realizzazione dell'opera perché dovrebbe sviluppare il progetto realizzato della concorrente che ha ottenuto l'aggiudicazione in modo illegittimo. E una parte dei lavori risulta già realizzata. Deve dunque essere ristorato il lucro cessante, normalmente pari all'utile che l'azienda avrebbe tratto dall'appalto se la procedura fosse stata regolare: il risarcimento integrale, tuttavia, va ridotto perché l'impresa non prova di essersi ritrovata bloccata con maestranze e mezzi per colpa della gara ingiustamente perduta; in favore dell'amministrazione, in effetti, opera la presunzione secondo cui l'azienda che opera nel settore dei lavori pubblici non rimane con i cantieri chiusi solo perché le è stato tolto un appalto, per quanto illegittimamente.
Il lucro cessante che deve essere ristorato, però, comprende anche la specificazione della perdita di chance costituita dalla lesione all'immagine di partner delle amministrazioni pubbliche: più sono gli appalti vinti, infatti, maggiore è l'avviamento dell'impresa e la reputazione che l'appaltatore assume presso gli enti, accreditandosi come interlocutore affidabile. Senza dimenticare l'indebito potenziamento di imprese concorrenti che operano sullo stesso target di mercato quando risultano dichiarate aggiudicatarie in modo illegittimo.
Insomma: non resta che pagare all'Asl che attribuì la vittoria della gara in violazione legge sugli appalti. Spese compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 06.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI  - VARIA rischio chiusura per tavolini abusivi.
Il sindaco può chiudere il ristorante del centro storico finché non libera la strada dai tavolini abusivi. Legittima l'ordinanza di Roma Capitale che oltre alla rimessione in pristino dei luoghi impone lo stop all'attività economica nelle zone più antiche tutelate dall'Unesco: la sanzione risulta adeguata. Il ristorante non solo sloggia dalla piazza occupata abusivamente ma non riapre fino a quando non libera la strada dalle sedie e dai tavolini che ha installato senza autorizzazione, con tanto di fioriere a protezione.
Oltre che la riduzione in pristino, infatti, il sindaco del Comune può imporre la sospensione dell'attività economica funzionale al ritorno alla normalità nell'area: a consentirglielo è il pacchetto sicurezza 2009, che permette di imporre al commerciante il pagamento delle spese o la prestazione di adeguate garanzie.

È quanto emerge dalla sentenza 27.03.2015 n. 1611, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di stato.
Niente da fare, dunque, per il gestore del locale nel centro storico dell'Urbe: è legittimo il provvedimento di Roma Capitale che ha imposto la chiusura del ristorante per cinque giorni «e, comunque, fino al completo ripristino dello stato dei luoghi»; questo, per l'occupazione contro legge di una piazza con poltroncine, ombrelloni e perfino piante a dimora, per un totale di 140 metri quadrati «usurpati» nella zona dichiarate patrimonio dell'umanità dall'Unesco.
«La particolare situazione in cui versavano ampie zone della parte storica», si legge in sentenza, «ha giustificato l'adozione di un provvedimento di valenza generale con il quale si è disposta l'applicazione delle sanzioni previste», chiusura compresa (articolo ItaliaOggi del 05.05.2015).

TRIBUTI: Le aree verdi non possono essere soggette a Imu e Ici.
Le aree verdi non rientrano tra quelle fabbricabili e di conseguenza non sono soggette ad imposta ai fini Imu e Ici.

La recente giurisprudenza della Corte di cassazione ha ribadito questa tesi, più volte sposata dagli stessi giudici.
Il problema che si è più volte riproposto sia da parte degli enti impositori che dalla parte dei contribuenti proprietari dei terreni riguarda il tema del concetto di area fabbricabile nei confronti delle aree con vincolo di destinazione urbanistica «a verde pubblico».
È stato già chiarito dal legislatore dall'introduzione avvenuta nel 2006 del nuovo testo dell'art. 36, comma 2, del dl 223/2006, nel quale si ribadiva che un'area deve ritenersi fabbricabile, se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento generale adottato dal comune (Prg o Pgt), indipendentemente dall'approvazione dell'ente regionale e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo.
Ai fini del concetto di tassabilità delle aree suddette, non è necessario che sia perfezionato l'iter di formazione del provvedimento mediante l'approvazione da parte della regione, dato che la semplice adozione da parte del comune fa sì che la determinazione in base al valore catastale non abbia luogo e si applichi invece la tassazione ai fini Ici e Imu sulla base del valore venale dell'area in comune commercio al 1° gennaio dell'anno di riferimento.
La giurisprudenza peraltro, oltre a questo concetto, ha precisato che la qualifica di area edificabile, non può ritenersi esclusa dalla sussistenza di vincoli o destinazioni urbanistiche che limitino o circoscrivano la edificabilità del terreno o dell'area, che cioè riguardino la possibilità di trasformare in chiave urbanistico-edilizia l'area stessa e che pertanto siano tali da comprometterne la vocazione edificatoria.
Questo il quadro generale; ma la questione controversa e che ci riguarda in questa sede, è se il vincolo di destinazione urbanistica a «verde pubblico» sottragga l'area al regine fiscale dei suoli edificabile ai fini dell'Ici.
Un'area compresa in una zona destinata dal Prg a verde pubblico attrezzato, riferisce la Cassazione (da ultimo vedi sentenza 25.03.2015 n. 5987), è sottoposta a un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione.
Ne deriva che un'area con tali caratteristiche, come precisato dai giudici della Corte, non può essere qualificata come fabbricabile, ai sensi del dlgs n. 504 del 1992, art. 1, comma 2, e, quindi, il possesso della stessa non può essere considerato presupposto dell'imposta comunale in discussione (vedi tra quelle citate: Cass, sez. 5, sentenza n. 9169 del 21/04/2011; Cass. sez. 5, sentenza n. 25672 del 24/10/2008).
Manca, pertanto, il presupposto di imposta, limitato dal dlgs 30.12.1992, n. 504, artt. 1 e 2 per le aree urbane, ai terreni fabbricabili, intendendosi per tali quelli destinati alla edificazione per espressa previsione degli strumenti urbanistici ovvero (quale criterio meramente suppletivo) in base alle effettive possibilità di edificazione.
Deve, quindi, negarsi la natura edificabile delle aree comprese in zona destinata dal Prg a «verde pubblico attrezzato» in quanto tale destinazione è preclusiva ai privati di forme di trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione e le trasformazioni, se previste, sono concepite al solo fine di assicurare la fruizione pubblica degli spazi.
Pertanto, «ove la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo semplicemente pubblicistico (verde pubblico; attrezzature pubbliche ecc.), la classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione».
Quindi il presupposto del possesso in capo al contribuente, delle aree con vincolo di destinazione «a verde pubblico» oppure a «verde pubblico attrezzato», non fa scaturire la tassazione ai fini Ici sulla base del valore venale dell'area in comune commercio, in quanto tale terreno non può qualificarsi, per le ragioni sinteticamente dianzi illustrate, come «area fabbricabile» (articolo ItaliaOggi del 07.05.2015).

VARITar veneto. Una nuova patente dopo 3 anni.
Il lasso di tempo richiesto dal codice stradale per ammettere nuovamente al volante il destinatario del provvedimento di revoca della patente decorre dal momento dell'accertamento dell'infrazione, e non già dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 09.03.2015 n. 288.
Un conducente professionale è stato trovato dalla polizia alla guida di un autoarticolato particolarmente alterato dall'alcol e per questo è stato condannato ai sensi dell'art. 186 cds con revoca della patente e inibizione al suo nuovo conseguimento prima di tre anni dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
Contro questa determinazione che di fatto allarga di molto il lasso temporale di interdizione alla guida l'interessato ha proposto con successo ricorso al Tar. La legge 120/2010 ha modificato, tra l'altro, l'art. 219 cds specificando che «quando la revoca della patente di guida è disposta a seguito delle violazioni di cui agli articoli 186, 186-bis e 187, non è possibile conseguire una nuova patente di guida prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato».
Per cercare di specificare esattamente la portata di questa definizione è intervenuto ripetutamente il Ministero dei trasporti che in accordo con il Viminale ha sostenuto il principio secondo cui nel nostro ordinamento il reato risulta essere accertato solo nel momento in cui la sentenza è passata in giudicato. Per questo motivo, in ultimo con il parere del 07.07.2014, secondo il ministero il termine per far decorrere i tre anni per conseguire una nuova patente è quello determinato della data del passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale di condanna.
Il Tar è di contrario avviso. Il termine di riferimento deve essere individuato nella data in cui il reato è stato accertato, specifica la sentenza, e non in quello del passaggio in giudicato della sentenza «nell'evidente difficoltà di assicurare un termine ragionevole e valido per ogni situazione, che, diversamente interpretando, risulterebbe di volta in volta soggetto ai tempi nei quali si addiviene alla sentenza definitiva di condanna» (articolo ItaliaOggi del 07.05.2015).

CONDOMINIOLe siepi non servono alla privacy.
Distanze. La Cassazione interviene sulla pretesa di un condomino di piantare alberi di alto fusto a meno di tre metri dal confine.
Il condòmino che pianta alberi ad alto fusto, a una distanza dal confine del condominio inferiore a quella prevista dalla legge, è obbligato a rimuovere o arretrare gli arbusti, così da non creare disagio al fondo adiacente. E ciò vale anche per le siepi, che tra le loro molteplici funzioni non hanno quella di garantire la privacy.
È quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 18.02.2015 n. 3232.
Tutto è partito dal ricorso di un condòmino, obbligato dal giudice di secondo grado a tagliare i pini silvestri di sua proprietà, piantati a meno di tre metri dal confine del vicino di casa e, per lo stesso motivo, ad arretrare le siepi. Il ricorrente si era difeso, sostenendo che gli alberi erano presenti da più di vent’anni e quindi era stato usucapito il diritto di mantenerli a una distanza inferiore a quella prevista dalla legge. I tre gradi di giudizio hanno dato però ragione all’amministratore di condominio: la distanza degli alberi di alto fusto (ossia con un tronco più alto di tre metri) dalla proprietà del vicino, come previsto dall’articolo 892 del Codice civile, non può essere inferiore ai tre metri.
Discorso analogo riguarda la siepe. Nella medesima sentenza, il ricorrente aveva sostenuto che questo tipo di barriera era necessaria a tutelare la propria riservatezza. Tuttavia, i giudici hanno chiarito che la struttura vegetale, pur avendo numerosi compiti utili, nulla ha a che fare con la privacy. Va quindi escluso «che la siepe abbia la funzione principale o essenziale di difendere la privacy delle persone che si trovano nel fondo ove è collocata la siepe stessa. Non vi è, in altri termini, una correlazione necessaria e preferenziale tra siepe e tutela delle riservatezza». Sottolinea ancora la Corte: «la normativa relativa alle distanze degli alberi dai confini intende evitare l’invasione del terreno altrui sia con radici che con rami ed è casuale, e non persegue direttamente la tutela dell’esigenza di riservatezza delle persone del fondo ove esiste la siepe».
Riguardo all’ordine di tagliare gli alberi “a siepe”, infine, il ricorrente aveva sostenuto che il giudice non avesse tenuto conto dell’andamento del terreno, a suo parere non lineare e quindi difficile da uniformare e quindi «ove il legislatore avesse voluto dare rilievo al dislivello dei terreni lo avrebbe fatto così come lo ha fatto con riferimento alle distanze tra costruzioni».
Poco importa se ciò comporta un peggioramento dell’aspetto estetico, che potrebbe essere mantenuto dal ricorrente «riducendo eventualmente l’altezza delle piante e seguendo l’andamento ascendente del terreno e non già lasciando crescere oltre i due metri e mezzo gli alberi che si trovano nella zona discendente»
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2015).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di reati paesaggistici, il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e giuridici legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale.
---------------
Tra gli interventi che il legislatore non consente di qualificare neppure ex post -cioè alla luce della concreta valutazione del loro effettivo impatto- compatibili all'ambiente è inclusa la creazione di "superfici utili".
Se è vero che il legislatore non fornisce, contestualmente, una definizione del concetto "superfici utili" in modo espresso, peraltro, alla luce della ratio normativa di preservazione dello status quo ambientale e mediante altresì una logica contestualizzazione -ogni concetto giuridico è pragmaticamente relativo al contesto in cui opera-, il suo significato è agevolmente identificabile in una immutazione stabile dell'assetto territoriale attuata a discapito della vincolata conformazione originaria, dalla quale nettamente prescinde, non integrandone alcuna specie di manutenzione (cfr. ancora Cass. sez. III, 13.01.2012 n. 889, per cui la nozione di superficie utile, va "individuata, in mancanza di specifica definizione, con riferimento alla finalità della disposizione che la contempla e, per quanto riguarda la disciplina paesaggistica,... considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio" tale da "determinare una compromissione ambientale").

Invero, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha da tempo chiarito che "in tema di reati paesaggistici, il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e giuridici  legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale" (Cass. sez. III, 27.05.2008 n. 27750; conforme Cass. sez. III, 29.11.2011-13.01.2012 n. 889). La prospettazione del ricorrente, invece, adduce un automatismo che non corrisponde al dettato normativo.
Premesso che l'articolo 1, commi 37, 38 e 39, L. 15.12.2004 n. 308 ha introdotto il c.d. condono ambientale che è (pur permanendo le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 167) causa di estinzione del reato di cui all'articolo 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004 n. 42, in tale articolo inserendo i commi 1-ter e 1-quater che lo disciplinano (Cass. sez. III, 07.12.2007-09.01.2008 n. 583; Cass. sez. III, 10.05.2006 n. 15946; Cass. sez. III, 26.10.2005-03.02.2006 n. 4429), il condono è configurato come diretto agli interventi minori, che sono appunto quelli identificati nel comma 1-ter dell'articolo 181, i quali possono essere oggetto, se l'interessato attiva la procedura di cui al comma 1-quater, di una valutazione ex post che ne accerti la limitata incidenza sull'assetto ambientale così come vincolato (da ultimo v. Cass. sez. III, 29.11.2011-13.01.2012 n. 889, che in motivazione qualifica gli interventi come minori "in quanto caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto sull'assetto del territorio vincolato rispetto agli altri considerati nella medesima disposizione di legge").
Detti interventi sono i "lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazioni di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli illegittimamente realizzati" (comma 1-ter, lettera a), quelli che abbiano comportato "l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica" (comma 1-ter, lettera b) e quelli che costituiscono "interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria" ex articolo 3 d.p.r. 06.06.2001 n. 380 (comma 1-ter, lettera c).
Poiché, come appena evidenziato, l'emissione del provvedimento di compatibilità ambientale da parte della P.A. non elide il potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza dei presupposti del condono ambientale in termini di fatto e di diritto, si deve dare atto che, nel caso di specie, effettuando i lavori difformi da quelli autorizzati dalla originaria deliberazione della Commissione comprensoriale per la tutela paesaggistico- ambientale n. 100 del 04.04.2007, il ricorrente ha realizzato tra l'altro due strade di arroccamento.
Ora, come si è appena visto, tra gli interventi che il legislatore non consente di qualificare neppure ex post -cioè alla luce della concreta valutazione del loro effettivo impatto- compatibili all'ambiente è inclusa la creazione di "superfici utili".
Se è vero che il legislatore non fornisce, contestualmente, una definizione del concetto "superfici utili" in modo espresso, peraltro, alla luce della ratio normativa di preservazione dello status quo ambientale e mediante altresì una logica contestualizzazione -ogni concetto giuridico è pragmaticamente relativo al contesto in cui opera-, il suo significato è agevolmente identificabile in una immutazione stabile dell'assetto territoriale attuata a discapito della vincolata conformazione originaria, dalla quale nettamente prescinde, non integrandone alcuna specie di manutenzione (cfr. ancora Cass. sez. III, 29.11.2011-13.01.2012 n. 889, per cui la nozione di superficie utile, va "individuata, in mancanza di specifica definizione, con riferimento alla finalità della disposizione che la contempla e, per quanto riguarda la disciplina paesaggistica,... considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio" tale da "determinare una compromissione ambientale").
In quest'ottica, allora, la realizzazione di "due strade di arroccamento ad elevata pendenza" in un'area dove non risulta neppure che correlativamente vi fossero due preesistenti tracce dove sono state inserite le strade (l'attività dell'imputato è consistita, infatti, nella trasformazione di terreno boschivo a fini agricoli) non può non qualificarsi come un incisivo mutamento stabile dell'assetto territoriale (nel senso che la realizzazione di una strada, anche dove già preesisteva un sentiero, integri "una immutazione stabile dello stato dei luoghi" e non sia riconducibile ad attività di manutenzione Cass. sez. III, 13.01.2005 n. 3725; nel senso che pure l'allargamento di una strada preesistente costituisca modificazione ambientale di carattere stabile Cass. sez. III, 03.06.2004 n. 33186).
Né occorre, peraltro, accertare che, la "superficie utile" realizzata, per essere qualificabile come tale, debba inferire un concreto pregiudizio all'assetto territoriale in cui viene inserita, poiché il concetto deve essere rapportato alla natura del reato di cui circoscrive la sanatoria postuma, e l'articolo 181, comma 1, d.lgs. 42/2004 è (come ha evidenziato pure la corte territoriale) un reato di pericolo (Cass. sez. III, 20.10.2009-22.01.2010 n. 2903; Cass. sez. VI, 03.04.2006 n. 19733).
In conclusione, l'attività criminosa svolta dall'imputato si colloca al di fuori dell'ambito del condono ambientale, per cui il motivo fondato sulla applicabilità di quest'ultimo risulta infondato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2013 n. 44189 - tratta da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie.
Correttamente, pertanto, la sentenza di primo grado ha ritenuto necessario il rilascio di un titolo edilizio e considerato irrilevante che le opere fossero realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, in presenza dell’evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio proprio di esse, perché preordinate a soddisfare esigenze non precarie della ditta sotto il profilo funzionale.
--------------
Costante giurisprudenza ravvisa nella pertinenza urbanistica caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice civile, sostanziandosi nella destinazione strumentale alle esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore economico rispetto alla cosa principale e dall'assenza del cosiddetto carico urbanistico.

Il numero e le dimensioni dei manufatti realizzati sono analiticamente descritti nell’ordinanza del Dirigente responsabile di settore del comune e riportati nella memoria di costituzione nell’appello: trattasi di un capannone con struttura in ferro e PVC, di quattro baracche realizzate con vari materiali (plastico, di recupero, ligneo) e di tre tettoie con struttura in ferro e copertura in onduline. Il tutto per oltre 530 mq. complessivi.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. Stato, VI, 27.01.2003, n. 419; V, 09.02.2001, n. 577), la nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie.
Correttamente, pertanto, la sentenza di primo grado ha ritenuto necessario il rilascio di un titolo edilizio e considerato irrilevante che le opere fossero realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, in presenza dell’evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio proprio di esse, perché preordinate a soddisfare esigenze non precarie della ditta sotto il profilo funzionale.
Gli appellanti non hanno poi contestato che le opere hanno le dimensioni descritte nell’ordinanza e che insistono in tutto od in parte su di un’area agricola contigua allo stabilimento, salvo un manufatto, sito nell’area di servizio dello stabilimento, di dimensioni superiori allo stesso.
Va perciò condivisa la conclusione della sentenza appellata, che esclude il rapporto pertinenziale delle opere e lo stabilimento, con richiamo alla costante giurisprudenza che ravvisa nella pertinenza urbanistica caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice civile (Cass. pen., sez. III, 21.03.1997, n. 4056), sostanziandosi nella destinazione strumentale alle esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore economico rispetto alla cosa principale e dall'assenza del cosiddetto carico urbanistico (Cassazione penale, sez. III, 19.08.1993; 06.02.1990; 06.12.1989).
Siffatte caratteristiche appaiono del tutto estranee alle opere degli appellanti, caratterizzate da un rilevante numero di manufatti, taluni dei quali di notevoli dimensioni, comportanti come tali un considerevole carico urbanistico. Non ha pregio il richiamo degli appellanti alla circolare 06.11.1977, n. 1918 del Ministero dei lavori pubblici che esclude dall’obbligo di concessione le opere a servizio di impianti industriali di carattere precario o facilmente amovibili, quali le baracche ad elementi componibili in legno od altri materiali, i basamenti di sostegno e le tettoie di protezione.
La stessa circolare esplicita che le opere in questione non devono compromettere aspetti ambientali o paesaggistici, comportare aumenti di densità urbanistica e né determinare pregiudizi di altro genere oltre che essere in regola con i regolamenti edilizi: circostante queste affatto dimostrate dagli interessati, sia nel precedente che nel presente grado di giudizio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2006 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 05.05.2015

ã

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone:
dossier AMIANTO
dossier PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale di iscrizione all'ordine professionale)

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 19 del 05.05.2015, "Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 16.07.2007, n. 16 (Testo unico delle leggi regionali in materia di istituzione di parchi) - Modifica dei confini del Parco regionale dell’Adda Nord" (L.R. 30.04.2015 n. 10).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 19 del 04.05.2015, "Circolazione nautica sui Navigli lombardi e sulle idrovie collegate (art. 51, l.r. 6/2012)" (regolamento regionale 29.04.2015 n. 3).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 24.04.2015, "Approvazione del piano territoriale di coordinamento del Parco naturale dei Colli di Bergamo" (deliberazione G.R. 17.04.2015 n. 3416).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

COMPETENZE PROGETTUALI: Competenze professionali dei Geometri - Progettazione e direzione lavori di costruzioni civili con impiego di cemento armato -Sentenza Consiglio di Stato 23.02.2015 n. 883 – Competenza esclusiva di Ingegneri e Architetti - Illegittimità dell'affidamento ad un Geometra e nullità della delibera della Giunta Comunale - Considerazioni (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 24.04.2015 n. 526 - link a www.cni-online.it).

URBANISTICA: OGGETTO: Piani urbanistici particolareggiati - Art. 33, comma 3, della legge n. 388 del 2000 – Applicabilità regime fiscale agevolato in assenza di convenzione di lottizzazione alla data di stipula dell’atto (Agenzia delle Entrate, risoluzione 23.04.2015 n. 41/E).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: C. Montanari, Le spese per l’iscrizione dei dipendenti all’albo professionale (Azienditalia -  il Personale n. 11/2008).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGOIn mancanza di una espressa previsione di legge e/o contrattuale, non possono essere accollati ad un comune oneri che derivano da un obbligo di natura strettamente di carattere personale quale quello del pagamento della tassa annuale di iscrizione all’albo degli avvocati da parte di un dipendente.
---------------
Il Sindaco del Comune di Treviso, con la nota sopra indicata, ha formulato a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003, richiesta di parere in merito al pagamento della tassa annuale di iscrizione all’albo professionale di un dipendente (in particolare all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati) e cioè se essa debba essere a carico del singolo dipendente ovvero la relativa spesa debba essere posta a carico del comune datore di lavoro.
La richiesta viene formulata ritenendo trattarsi di spesa che potrebbe gravare in via ordinaria e generalizzata sui comuni e sulla cui imputabilità sono emersi pareri discordanti.
...
Nel merito, la richiesta del Comune di Treviso propone negli stessi esatti termini una problematica già sottoposta ad altre Sezioni di controllo della Corte (vedasi per tutte il
parere 19.01.2007 n. 1 della Sezione Sardegna). Essa è intesa a conoscere il parere di questa Sezione su chi ricada l’onere del pagamento della tassa annuale di iscrizione all’albo professionale (elenco speciale annesso all’albo degli avvocati), ovvero se la relativa spesa debba essere a carico del singolo dipendente o a carico del comune, datore di lavoro.
Preliminarmente va evidenziato che,
sul piano normativo, per l’esercizio dell’attività di avvocato l’iscrizione all’albo, ai sensi dell’art. 1 del RDL 27.11.1933, n. 1578, costituisce requisito imprescindibile che si caratterizza per la sua natura strettamente personale. Esso è richiesto anche per coloro, come nel caso all’esame, che intraprendano e che svolgano tale attività alle dipendenze di un comune i quali vengono iscritti in un elenco speciale annesso all’albo stesso. Il vincolo di iscrizione, pertanto, deve sussistere non solo all’atto dell’assunzione del soggetto per lo svolgimento dell’incarico specifico ma deve permanere per tutta la durata dell’ incarico stesso alle dipendenze dell’amministrazione interessata.
Sembra quindi potersi ritenere che ricada sul soggetto che ricopre un ruolo per il quale è richiesto il requisito dell’iscrizione all’albo l’onere di assicurarne nel tempo la sussistenza anche attraverso il pagamento della quota annuale prevista. Ne consegue che l’amministrazione pubblica interessata risulta del tutto estranea al rapporto che si instaura e continua nel tempo tra un proprio dipendente e l’ordine professionale.
Per contro,
non esiste una norma che ponga a carico di soggetti diversi (nel caso specifico il comune) dal personale interessato l’obbligo di sostenere l’onere del pagamento della tassa annuale.
Peraltro, volendo ricercare comunque una soluzione in tale direzione,
non possono essere ignorati i principi che vietano di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti e che possano incidere sulla situazione finanziaria degli enti stessi. Tra questi, in particolare, quelli del contenimento della spesa complessiva del personale entro i vincoli della finanza pubblica (art. 1, comma 1, lettera b, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165) e quello che rimanda ai contratti collettivi o individuali l’attribuzione di trattamenti economici (art. 2, comma 3, del citato D.Lgs. 165/2001), oltre le disposizioni delle varie leggi finanziarie quale ad esempio quella recata dal comma 557 dell’articolato unico della legge 296/2006.
Per tali motivi
non può essere condivisa la opposta soluzione di attribuire all’ente datore di lavoro l’onere del pagamento della tassa annuale in argomento.
Conclusivamente, anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali finora emersi, si ritiene che,
in mancanza di una espressa previsione di legge e/o contrattuale, non possano essere accollati ad un comune oneri che derivano da un obbligo di natura strettamente di carattere personale quale quello del pagamento della tassa annuale di iscrizione all’albo degli avvocati da parte di un dipendente (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 24.10.2008 n. 128).

PUBBLICO IMPIEGOLa richiesta di parere [circa la possibilità per l’ente locale di sostenere legittimamente gli oneri per l’iscrizione all’albo professionale dei propri dipendenti per lo svolgimento di attività specialistiche, disciplinate da normative di settore in materia di sicurezza degli impianti (DM n. 37 del 22/01/2008) e di sicurezza antincendio (legge n. 818/1984)] va dichiarata inammissibile sotto il profilo oggettivo.
---------------

La richiesta di parere del comune di Vigonza (PD) riguarda la possibilità per l’ente locale di sostenere legittimamente gli oneri per l’iscrizione all’albo professionale dei propri dipendenti per lo svolgimento di attività specialistiche, disciplinate da normative di settore in materia di sicurezza degli impianti (DM n. 37 del 22/01/2008) e di sicurezza antincendio (legge n. 818/1984).
Tali attività (progettazione di impianti di cui al DM 37 del 22/01/2008 e relative dichiarazioni di conformità, certificazioni in materia di prevenzioni incendi, ecc.) sarebbero propedeutiche alla progettazione di opere previste dal piano triennale delle opere pubbliche, ma richiedono ex lege la firma di tecnici iscritti all’albo professionale.
...
In merito alla sussistenza del presupposto oggettivo, la questione sottoposta alla Corte dei conti deve riguardare la contabilità pubblica, in base all’art. 7, comma 8, della legge 131/2003.
Qualsiasi attività amministrativa può avere riflessi finanziari sulla gestione di bilancio dell’ente, e, quindi, ove non si adottasse una nozione tecnica del concetto di contabilità pubblica, s’incorrerebbe in una dilatazione  dell’ambito oggettivo della funzione consultiva rendendo la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti organo di consulenza generale dell’amministrazione pubblica.
Sul punto, vengono in ausilio gli indirizzi ed i criteri generali della Sezione delle Autonomie, approvati il 27.04.2004 e la delibera 5/AUT/2006 del 10.03.2006, che restringono l’ambito oggettivo alla normativa e ai relativi atti applicativi che disciplinano, in generale, l’attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore, compresi, in particolare, la disciplina dei bilanci e i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate, l’organizzazione finanziaria-contabile, la disciplina del patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la rendicontazione e i relativi controlli.
Nel caso di specie, il quesito verte sulla legittimità o meno di una spesa, che non è in alcun modo sussumibile all’interno di una delle sopra citate categorie.
Poiché la fattispecie in esame non è in alcun modo riconducibile al concetto di contabilità pubblica, la richiesta di parere va dichiarata inammissibile sotto il profilo oggettivo, peraltro coerentemente con l’indirizzo espresso su casi analoghi da parte di questa Sezione (cfr. deliberazioni n. 15/2008/Cons. e 6/2007/Cons.)
(Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Veneto, parere 06.08.2008 n. 61).

PUBBLICO IMPIEGOLa richiesta di parere sulla corretta individuazione del soggetto tenuto al versamento della tassa annuale di iscrizione all’albo degli avvocati nel caso di legali dipendenti dell’Ente Locale ed iscritti nell’albo speciale si palesa inammissibile.
---------------
Il Sindaco del Comune di Bari, con la nota indicata in epigrafe, richiede il parere della Sezione sulla corretta individuazione del soggetto tenuto al versamento della tassa annuale di iscrizione all’albo degli avvocati nel caso di legali dipendenti dell’Ente Locale ed iscritti nell’albo speciale.
Il Sindaco precisa che gli avvocati dipendenti dell’Ente, successivamente al diniego del visto contabile sulla determinazione del rimborso della tassa di iscrizione da loro anticipata, hanno presentato istanza di conciliazione ai sensi degli artt. 65 e 66 del D. Lgs. 30/03/2001 n. 165.
Il quesito riporta, inoltre, l’ampia ed articolata casistica giurisprudenziale formatasi sia dinanzi al Giudice ordinario che nell’esercizio dell’attività consultiva assegnata alla Corte dei conti richiamando anche la deliberazione n. 5/2007 di questa Sezione e rilevata la contraddittorietà delle pronunce evidenzia la necessità di far pervenire all’Amministrazione un parere in merito alla specifica questione relativa alla competenza degli oneri per l’iscrizione all’Elenco speciale annesso all’albo professionale degli avvocati.
...
Come noto, la Corte dei Conti, secondo il disposto dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003, può rendere pareri in materia di “contabilità pubblica”.
Il Collegio evidenzia che, pur essendosi la Sezione già espressa in sede di attività consultiva su un quesito, inerente i rimborsi di quote di iscrizione versate da un dipendente comunale iscritto all’albo professionale degli assistenti sociali, (deliberazione n. 5/PAR/2007) la fattispecie oggetto dell’attuale richiesta di parere presenta profili di inammissibilità atteso che, come specificato dal Sindaco, il difensore dei legali del Comune ha avviato la procedura atta ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dagli artt. 65 e 66 del D.Lgs. 30/03/2001 n. 165 e che costituisce, come noto, condizione di procedibilità della domanda dinanzi al Giudice del lavoro.
Per consolidato orientamento delle Sezioni Regionali di Controllo, fatto proprio anche da questa Sezione, l’attività consultiva non può riguardare questioni pendenti o questioni che possono sfociare in contenziosi dinanzi ad altri Organi Magistratuali (Sezione Puglia deliberazioni n. 2/PAR/2005, n. 3/PAR/2005, n. 1/PAR/2006, n. 7/PAR/2007, n. 13/PAR/2007, n. 15/PAR/2007, n. 5/PAR/2008, e Sezione Basilicata, deliberazione n. 12/2007).
PQM
La richiesta di parere si palesa, quindi, inammissibile
(Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Puglia, parere 28.05.2008 n. 12).

PUBBLICO IMPIEGOPoiché la fattispecie in esame non è in alcun modo riconducibile al concetto di contabilità pubblica, la richiesta di parere  (circa la possibilità per l’ente locale di sostenere legittimamente gli oneri per l’iscrizione all’albo professionale dei propri dipendenti incaricati di redigere progetti di opere pubbliche o atti di pianificazione urbanistica) va dichiarata inammissibile sotto il profilo oggettivo.
---------------

La richiesta di parere del comune di Camposampiero (PD) riguarda la possibilità per l’ente locale di sostenere legittimamente gli oneri per l’iscrizione all’albo professionale dei propri dipendenti incaricati di redigere progetti di opere pubbliche o atti di pianificazione urbanistica.
A sostegno della tesi affermativa, l’ente richiama l’art. 90, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, che per la firma dei progetti richiede anche per i progettisti interni all’ente il necessario possesso dell’abilitazione professionale.      
...
In merito alla sussistenza del presupposto oggettivo, la questione sottoposta alla Corte dei conti deve riguardare la contabilità pubblica, in base all’art. 7, comma 8, della legge 131/2003. Qualsiasi attività amministrativa può avere riflessi finanziari sulla gestione di bilancio dell’ente, e, quindi, ove non si adottasse una nozione tecnica del concetto di contabilità pubblica, si incorrerebbe in una dilatazione dell’ambito oggettivo della funzione consultiva rendendo la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti organo di consulenza generale dell’amministrazione pubblica.
Sul punto, vengono in ausilio gli indirizzi ed i criteri generali della Sezione delle Autonomie, approvati il 27.04.2004 e la delibera 5/AUT/2006 del 10.03.2006, che restringono l’ambito oggettivo alla normativa e ai relativi atti applicativi che disciplinano, in generale, l’attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore, compresi, in particolare, la disciplina dei bilanci e i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate, l’organizzazione finanziaria-contabile, la disciplina del patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la rendicontazione e i relativi controlli.
Nel caso di specie, il quesito verte sulla legittimità o meno di una spesa, che non è in alcun modo sussumibile all’interno di una delle sopra citate categorie.
Su analoga questione, peraltro, questa Sezione si era pronunciata con deliberazione n. 6/2007/Cons. Poiché la fattispecie in esame non è in alcun modo riconducibile al concetto di contabilità pubblica, la richiesta di parere  va dichiarata inammissibile sotto il profilo oggettivo
 (Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Veneto, parere 18.04.2008 n. 15).

PUBBLICO IMPIEGO: L’abilitazione all’esercizio della professione del tecnico-dipendente, subordinata all’iscrizione del professionista al relativo albo, si è rivolta a esclusivo vantaggio dell’ente, che appunto ha potuto utilizzare lo stesso per l’attività di progettazione e direzione dei lavori pubblici; a ciò si aggiunga che lo stesso architetto, sin dal 1997, era stato assunto a tempo indeterminato con la conseguente impossibilità di svolgere attività professionale a favore di terzi.
In quest’ottica, la Corte dei Conti-Calabria ritiene che la quota d’iscrizione all’albo professionale sia stata giustamente pagata dall’ente comunale e che, pertanto, nessun danno è ipotizzabile a carico dell’ente medesimo a causa della determinazione dirigenziale con la quale si procedeva al pagamento di lire 370.000 per la quota d’iscrizione all’albo degli architetti.

---------------

... Per esaustività nella trattazione, tuttavia, non si può tralasciare di ricordare una delle  are sentenze che affrontano il tema in argomento, anche se le sue conclusioni, pure del giudice contabile, sono di avviso diametralmente opposto a quanto innanzi affermato. 
La Corte dei Conti-Calabria, infatti, nella propria
sentenza 28.09.2007 n. 801, affrontando un’ipotesi di danno erariale in cui, tra le altre e marginalmente, veniva mossa a un dipendente comunale-convenuto una contestazione per l’autoliquidazione della quota d’iscrizione all’albo speciale degli architetti, si esprime nel senso che tale spesa dev’essere legittimamente posta a carico del bilancio dell’ente di appartenenza.
In particolare il magistrato, dopo aver ripercorso sinteticamente la disciplina introdotta in materia di appalti pubblici dalla legge n. 109/1994, con riferimento all’effettuazione delle attività di progettazione, direzione dei lavori e accessorie, evidenzia che il legislatore, all’art. 17, c. 1, nel formulare un elenco puntuale dei soggetti cui possono essere demandate le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva (nonché alla direzione) dei lavori pubblici, colloca al primo posto gli uffici tecnici della stazione appaltante, non escludendo con ciò la possibilità di affidare, in presenza di valide motivazioni, l’incarico a soggetti estranei all’amministrazione stessa.
Alla Sezione appare evidente che tale scelta normativa scaturisca dalla necessità di rendere l’azione amministrativa economica ed efficiente, tanto che il vantaggio economico che ne deriva è immediatamente percepibile ove si consideri che il legislatore, all’art. 18, prevede un compenso massimo pari all’1,5% (ora 2%) dell’importo dei lavori per tutti tecnici affidatari dell’appalto.
Considerato, poi, che al c. 2 dell’art. 17 il legislatore stabilisce che i progetti redatti dagli Uffici tecnici delle amministrazioni devono essere firmati da dipendenti delle amministrazioni abilitati all’esercizio della professione, il collegio ritiene che l’abilitazione all’esercizio della professione del tecnico-dipendente, subordinata all’iscrizione del professionista al relativo albo, si sia rivolta a esclusivo vantaggio dell’ente, che appunto ha potuto utilizzare lo stesso per l’attività di progettazione e direzione dei lavori pubblici; a ciò si aggiunga che lo stesso architetto, sin dal 1997, era stato assunto a tempo indeterminato con la conseguente impossibilità di svolgere attività professionale a favore di terzi.
In quest’ottica, la Corte dei Conti-Calabria ritiene che la quota d’iscrizione all’albo professionale sia stata giustamente pagata dall’ente comunale e che, pertanto, nessun danno è ipotizzabile a carico dell’ente medesimo a causa della determinazione dirigenziale con la quale si procedeva al pagamento di lire 370.000 per la quota d’iscrizione all’albo degli architetti.

Tale sentenza non è ovviamente passata inosservata, tanto che le sue conclusioni sono state nuovamente sottoposte alla Corte dei Conti-Marche, per un orientamento interpretativo (
parere 03.06.2008 n. 9): il giudice adito ha riaffermato le identiche conclusioni delle precedenti sezioni di controllo, precisando, in relazione al discordante pronunciamento giurisdizionale calabrese, che:
— la
sentenza 28.09.2007 n. 801 della Sezione Calabria è stata resa all’esito di un giudizio di responsabilità, e le decisioni ivi assunte sono vincolanti soltanto per le parti del giudizio;
le interpretazioni contenute in una sentenza costituiscono di regola un precedente non vincolante, mancando nel nostro ordinamento il principio dello stare decisis operante in altri sistemi giuridici;
la soluzione adottata nella sentenza non può avere valenza generale, in quanto accoglie espressamente, per farne causa esimente, il concetto di «vantaggio economico» (art. 1, c. 1-bis, legge n. 20/1994), che costituisce criterio derogatorio la cui applicazione in concreto è demandata esclusivamente al giudice contabile in sede di responsabilità
(commento tratto da Azienditalia - il Personale n. 11/2008).

PUBBLICO IMPIEGOEssendo l’iscrizione all’albo un requisito imprescindibile per alcune figure professionali, in mancanza del quale non è consentito l’esercizio dell’attività, essa costituisce uno dei presupposti richiesti per l’assunzione e deve perdurare per tutta la durata del lavoro alle dipendenze del comune.
Si ritiene, pertanto, che “debba essere cura del soggetto, assunto per ricoprire all’interno dell’ente un ruolo che richiede la citata iscrizione, farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito che ha costituito la condicio sine qua non della sua assunzione, tra i quali rientra quello della tassa annuale”
.
Va altresì richiamata l’esistenza, nell’ordinamento, di un principio generale che vieta di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti che possano contribuire ad aggravare la situazione finanziaria degli enti stessi. Fra tali oneri sembra poter rientrare anche la tassa di iscrizione ad un albo professionale.

---------------
... con la richiesta di parere di cui trattasi il Sindaco di Potenza ha chiesto “(…) se il pagamento della tassa annuale di iscrizione all’albo professionale degli avvocati dell’Ente debba essere comunque a carico del singolo dipendente ovvero la relativa spesa debba essere posta a carico del Comune datore di lavoro.
La richiesta è stata formulata in relazione ad un precedente parere (n. 1/2007) reso dalla Sezione regionale di controllo per la Sardegna, “(…) che stabilisce, tra l’altro, che il pagamento della tassa di iscrizione per l’esercizio della professione forense è a carico degli avvocati dipendenti pubblici e non dell’Ente datore di lavoro”, e a seguito del quale il direttore generale del Comune “(…) ritenendo di doversi attenere scrupolosamente al citato parere, ha emanato opportune disposizioni in merito”.
Successivamente l’avvocatura dell’ente ha chiesto che le predette disposizioni “(…) vengano rivisitate”, anche alla luce dei principi affermati in “una recentissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione -Sezione Lavoro– (n. 3928 del 20.02.2007), confermativa della sentenza della Corte di appello di Torino n. 338/2003 e della sentenza del Tribunale di Torino n. 4549/2001”; 
...
RITENUTO, alla luce delle considerazioni e dei principi sopra esposti, che, nel caso di specie, la richiesta sia:
- ammissibile sotto il profilo soggettivo;
- sotto il profilo oggettivo, invece, il quesito prospettato risulta inammissibile. In primo luogo, considerato che la direzione generale del comune ha già emanato “opportune disposizioni in merito”, il parere eventualmente reso dalla Corte non sarebbe altro che una verifica postuma di legittimità dell’atto emesso dall’ente; si verrebbe, così, a incidere sulla stessa struttura ontologica della funzione consultiva che, per sua natura, deve, invece, essere volta ad illuminare preventivamente la scelta discrezionale dell’organo di amministrazione attiva.
Inoltre, considerata la manifesta specificità del caso, una valutazione nel merito in questa sede determinerebbe una sicura ingerenza nella concreta attività gestionale dell’ente e potrebbe, peraltro, comportare un’interferenza con le funzioni requirente e giudicante in materia di responsabilità assegnate alla stessa Corte dei conti.
Si ritiene, tuttavia, opportuno riportare –a puro titolo di prospettazione- alcune valutazioni di merito sulla presente fattispecie espresse dal Coordinamento delle Sezioni regionali di controllo della Sezione delle Autonomie della Corte dei conti con la nota innanzi citata (n. 6935/C21 del 07.06.2007), in virtù del fatto che la questione in predicato <<(…) seppur relativa ad un caso specifico, può essere fatta rientrare in una fattispecie astratta e generale in materia di contabilità pubblica, trattandosi di una tipologia di spesa che potrebbe gravare in via ordinaria e generalizzata sui comuni>>.
Orbene, si legge nella nota suddetta, <<Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali emersi (Corte di Cassazione, sent. n. 3928 del 20/02/2007, Sez. reg. contr. Sardegna,
parere 19.01.2007 n. 1 e Sez. reg. contr. Piemonte, parere 29.03.2007 n. 2), questo Coordinamento è dell’avviso che, essendo l’iscrizione all’albo un requisito imprescindibile per alcune figure professionali, in mancanza del quale non è consentito l’esercizio dell’attività, essa costituisce uno dei presupposti richiesti per l’assunzione e deve perdurare per tutta la durata del lavoro alle dipendenze del comune. Si ritiene, pertanto, che “debba essere cura del soggetto, assunto per ricoprire all’interno dell’ente un ruolo che richiede la citata iscrizione, farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito che ha costituito la condicio sine qua non della sua assunzione, tra i quali rientra quello della tassa annuale” (in tal senso, Sez. Sardegna, parere cit.). Va altresì richiamata l’esistenza, nell’ordinamento, di un principio generale che vieta di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti che possano contribuire ad aggravare la situazione finanziaria degli enti stessi. Fra tali oneri sembra poter rientrare anche la tassa di iscrizione ad un albo professionale>>.
Il citato parere n. 2/2007 della Sezione regionale di controllo per il Piemonte, peraltro, ha ritenuto non applicabile alla fattispecie, nella situazione prospettata (analoga a quella di cui, in questa sede, ci si occupa), il principio affermato nella citata sentenza della Corte di Appello di Torino n. 338/2003, confermato dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Sezione Lavoro n. 3928 del 20.02.2007), (…) che, in merito ad una fattispecie riguardante un dipendente statale, stabilisce che le spese sostenute dal dipendente nell’esclusivo interesse del proprio datore di lavoro devono essere a carico di quest’ultimo (…)”.
Infatti, ad avviso della Sezione regionale di controllo per il Piemonte, “(…) il richiamato principio non può trovare piena applicazione al caso di specie, in quanto l’iscrizione ad un albo professionale, anche laddove necessaria per lo svolgimento dell’attività svolta dal dipendente per l’ente, non può ritenersi effettuata nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Essa attiene, infatti, a profili strettamente connessi con la professionalità del soggetto iscritto, arrecando benefici diretti nella sua sfera di interessi.
Come tale, l’iscrizione all’albo è richiesta, per alcune figure professionali, quale presupposto per l’assunzione. In tali ipotesi il dipendente deve ritenersi obbligato a mantenere, per tutta la durata del rapporto, anche attraverso il pagamento della tassa annuale, il requisito per il quale è stato assunto
”.
P.Q.M.
La Corte di Conti, Sezione regionale di controllo per la Basilicata, dichiara inammissibile la richiesta formulata dal Sindaco del comune di Potenza con nota n. 120/Gab del 28.05.2007
(Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Basilicata, deliberazione 15.06.2007 n. 12).

PUBBLICO IMPIEGONel caso di specie (richiesta di parere riguardante la rimborsabilità delle quote annuali di iscrizione all’albo professionale a favore di un dipendente, nella fattispecie abilitato e iscritto all’ordine degli architetti, che svolga attività di progettazione di opere pubbliche) si verte su una questione riguardante la legittimità o meno di una spesa con la possibilità che il parere reso interferisca con un eventuale giudizio di responsabilità per elidere o attenuare posizioni di responsabilità su fatti già compiuti.
Per i motivi enunciati si dichiara l’inammissibilità della richiesta di parere in epigrafe.

---------------

Il Sindaco del Comune di Creazzo (VI) ha avanzato richiesta di parere riguardante la rimborsabilità delle quote annuali di iscrizione all’albo professionale a favore di un dipendente, nella fattispecie abilitato e iscritto all’ordine degli architetti, che svolga attività di progettazione di opere pubbliche.
L’ente sostiene in particolare che la legge 109/1994 (ora art. 90, comma 4, del D.Lgs. 163/2006) prevede che tali dipendenti possano firmare i progetti di opere pubbliche anche se non sono iscritti agli albi professionali. L’iscrizione diventerebbe, quindi, condizione utile al dipendente professionista e non all’Ente, a differenza di altre categorie professionali (es. avvocati, medici, ecc.).
...
Occorre, a questo punto, valutare anche la sussistenza del presupposto oggettivo, ovvero l’aderenza della questione al concetto di contabilità pubblica in base alla norma istitutiva della funzione consultiva di cui alla legge 131/2003 (anche alla luce degli indirizzi e criteri generali della Sezione delle Autonomie, approvati il 27.04.2004 e della delibera 5/AUT/2006 del 10.03.2006, nonché dell’orientamento delle altre Sezioni).
E’ indubbio che qualsiasi attività amministrativa può avere riflessi finanziari e, quindi, ove non si adottasse una nozione tecnica del concetto di contabilità pubblica, si incorrerebbe in una dilatazione dell’ambito oggettivo della funzione consultiva rendendo la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti organo di consulenza generale dell’amministrazione pubblica.
Conformemente alle opzioni ermeneutiche generalmente adottate dalla Sezione delle Autonomie e dalle altre Sezioni regionali della Corte dei conti, va, pertanto, ristretto l’ambito oggettivo alla normativa e ai relativi atti applicativi che disciplinano, in generale, l’attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore, compresi, in particolare, la disciplina dei bilanci e i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate, l’organizzazione finanziaria-contabile, la disciplina del patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la rendicontazione e i relativi controlli.
Nel caso di specie non ricorre alcuna delle ipotesi da ultimo menzionate. Difatti si verte su una questione riguardante la legittimità o meno di una spesa con la possibilità che il parere reso interferisca con un eventuale giudizio di responsabilità per elidere o attenuare posizioni di responsabilità su fatti già compiuti.
Per i motivi enunciati si dichiara l’inammissibilità della richiesta di parere in epigrafe
(Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Veneto, parere 31.05.2007 n. 6).

PUBBLICO IMPIEGOL’iscrizione agli ordini professionali, quando prevista, costituisce un vincolo imposto dalla legge ed è inoltre, condizione per poter esigere il compenso rilevato che, ai sensi dell’art. 2231 del codice civile, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione.
L’iscrizione all’albo professionale configura, quindi, un atto amministrativo di accertamento dello status del professionista e determina conseguenti diritti e doveri.
Il vincolo dell’iscrizione all’albo professionale può essere richiesto dalla legge anche nel caso di dipendenti di enti pubblici ai quali sarà applicabile oltre alla disciplina prevista dal contratto collettivo del relativo comparto anche quella specifica prevista per la categoria professionale di appartenenza.
Ne consegue che l’Amministrazione Pubblica resta estranea al rapporto che si instaura tra un proprio dipendente ed il relativo ordine professionale.
Infatti, l’iscrizione al relativo albo professionale è requisito di natura strettamente personale richiesto sin dalla partecipazione alle prove concorsuali bandite dall’Ente e che conseguentemente costituisce un presupposto per l’assunzione e lo svolgimento del rapporto lavorativo del dipendente.
Qualora la normativa che impone l’iscrizione all’albo sopravvenga nel corso del rapporto lavorativo l’iscrizione all’albo professionale integra un requisito imprescindibile per la stessa prosecuzione del rapporto lavorativo alle dipendenze del Comune.
Pertanto, la Sezione ritiene che il versamento delle quote annuali effettuato dal dipendente comunale iscritto al proprio albo professionale costituisce un preciso adempimento eseguito nel proprio interesse alla prosecuzione di un valido rapporto lavorativo.
Deve, quindi, escludersi che l’Ente sia tenuto ad effettuare il rimborso delle quote di iscrizione all’albo versate dal proprio dipendente. Infatti, il rimborso della quota di iscrizione all’albo si tradurrebbe in un ingiustificato onere finanziario a carico dell’Ente.
Occorre, inoltre, evidenziare che l’eventuale versamento o rimborso delle quote di iscrizione all’albo da parte dell’Ente, non sorretto da specifico supporto normativo, si porrebbe in difformità con l’attuale orientamento legislativo diretto al contenimento della spesa del personale ribadito anche recentemente dal comma 557 dell’art. 1 della L. 27/12/2006 n. 296, legge finanziaria per il 2007.

---------------
Il Sindaco del Comune di Troia (FG), con la nota in epigrafe, richiede il parere della Sezione sulla possibilità per l’Amministrazione Comunale di provvedere al rimborso in favore di un assistente sociale, dipendente dell’ente sin dal 01/06/1985, della tassa annuale di iscrizione all’albo tenuto dall’Ordine degli Assistenti Sociali istituito presso il Consiglio Regionale della Puglia.
All’uopo, il Sindaco precisa, come emerge dalla documentazione successivamente trasmessa, che con la legge n. 84 del 23/03/1993 è stato disciplinato l’ordinamento della professione di assistente sociale ed è stato istituito il relativo albo professionale.
L’Ordine degli Assistenti Sociali, con nota del 30/07/2003, comunicava al Sindaco di aver inoltrato denuncia nei confronti della dipendente per esercizio abusivo della professione e diffidato l’Amministrazione Comunale, ritenuta corresponsabile del comportamento, a prendere opportuni provvedimenti.
L’assistente sociale provvedeva quindi all’iscrizione all’albo professionale degli assistenti sociali tenuto presso il Consiglio Regionale della Puglia ed il GIP del Tribunale di Lucera disponeva l’archiviazione, per assenza di dolo, rilevato che la Legge n. 84/1993 era entrata in vigore successivamente all’assunzione della dipendente.
Successivamente la dipendente richiedeva all’Ente il rimborso delle quote di iscrizione all’Ordine degli Assistenti Sociali per le annualità dal 2003 al 2007.
...
Come noto, la Corte dei Conti, secondo il disposto dell’art. 7 comma 8, della L. n. 131 del 05.06.2003, può rendere pareri in materia di “contabilità pubblica”.
La Sezione rileva che la richiesta di parere in oggetto si possa ritenere inquadrabile nell’alveo della contabilità pubblica e che il quesito abbia rilevanza generale atteso che il rimborso delle quote di iscrizione versate da dipendenti comunali agli albi professionali si concreta in un onere finanziario gravante sull’Ente.
Deve, inoltre, rilevarsi, che su analoga questione si già pronunciata la Sezione Regionale di Controllo per la Sardegna con il
parere 19.01.2007 n. 1 peraltro citato nella richiesta avanzata dal Sindaco del Comune di Troia.
Pertanto, alla luce dei principi su enunciati la richiesta di parere si palesa ammissibile.
La Sezione ritiene opportuno sottolineare che l’iscrizione agli ordini professionali, quando prevista, costituisce un vincolo imposto dalla legge ed è inoltre, condizione per poter esigere il compenso rilevato che, ai sensi dell’art. 2231 del codice civile, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione.
Tuttavia, come statuito dalla Corte di Cassazione (sent. n. 3646/1978, n. 2890/1990) nel caso di professionista inquadrato in un rapporto di lavoro subordinato le conseguenze derivanti dalla nullità del rapporto sono quelle previste dall’art. 2126 del codice civile secondo il quale la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione.
L’iscrizione all’albo professionale configura, quindi, un atto amministrativo di accertamento dello status del professionista e determina conseguenti diritti e doveri.
Il vincolo dell’iscrizione all’albo professionale può essere richiesto dalla legge anche nel caso di dipendenti di enti pubblici ai quali sarà applicabile oltre alla disciplina prevista dal contratto collettivo del relativo comparto anche quella specifica prevista per la categoria professionale di appartenenza che, nel caso in esame, è contenuta nella Legge 23.03.1993 n. 84 recante la disciplina dell’ordinamento della professione di assistente sociale.
Ne consegue, ad avviso della Sezione, che l’Amministrazione Pubblica resta estranea al rapporto che si instaura tra un proprio dipendente ed il relativo ordine professionale.
Infatti, l’iscrizione al relativo albo professionale è requisito di natura strettamente personale richiesto sin dalla partecipazione alle prove concorsuali bandite dall’Ente e che conseguentemente costituisce un presupposto per l’assunzione e lo svolgimento del rapporto lavorativo del dipendente.
Qualora la normativa che impone l’iscrizione all’albo sopravvenga nel corso del rapporto lavorativo, come avvenuto nel caso delineato nella richiesta di parere, l’iscrizione all’albo professionale integra un requisito imprescindibile per la stessa prosecuzione del rapporto lavorativo alle dipendenze del Comune.
Pertanto, la Sezione ritiene che il versamento delle quote annuali effettuato dal dipendente comunale iscritto al proprio albo professionale costituisce un preciso adempimento eseguito nel proprio interesse alla prosecuzione di un valido rapporto lavorativo.
Deve, quindi, escludersi che l’Ente sia tenuto ad effettuare il rimborso delle quote di iscrizione all’albo versate dal proprio dipendente. Infatti, il rimborso della quota di iscrizione all’albo si tradurrebbe in un ingiustificato onere finanziario a carico dell’Ente.
Occorre, inoltre, evidenziare che l’eventuale versamento o rimborso delle quote di iscrizione all’albo da parte dell’Ente, non sorretto da specifico supporto normativo, si porrebbe in difformità con l’attuale orientamento legislativo diretto al contenimento della spesa del personale ribadito anche recentemente dal comma 557 dell’art. 1 della L. 27/12/2006 n. 296, legge finanziaria per il 2007
(Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Puglia, parere 02.05.2007 n. 5).

PUBBLICO IMPIEGO: La questione acquista rilievo solo nella misura in cui l’iscrizione ad un albo costituisca requisito necessario per lo svolgimento dell’attività del dipendente.
Ove l’iscrizione ad un albo professionale, se mai consentita dalle diverse normative vigenti, fosse da imputarsi alla libera scelta del dipendente, dovrebbe ritenersi inequivocabilmente a suo carico il pagamento della relativa tassa di iscrizione. Rientrano in tale ipotesi anche i casi in cui l’accesso al rapporto di pubblico impiego abbia presupposto, quale titolo, il conseguimento dell’abilitazione all’esercizio di una professione, non risultando poi necessaria l’iscrizione al relativo albo per lo svolgimento dell’attività del dipendente
.

La questione si pone, dunque, per le fattispecie in cui i dipendenti risultino iscritti a un albo, in quanto requisito necessario per l’esercizio delle funzioni svolte presso l’Ente.
L’iscrizione ad un albo professionale, anche laddove necessaria per lo svolgimento dell’attività svolta dal dipendente per l’ente, non può ritenersi effettuata nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Essa attiene, infatti, a profili strettamente connessi con la professionalità del soggetto iscritto, arrecando benefici diretti nella sua sfera di interessi. Come tale, l’iscrizione all’albo è richiesta, per alcune figure professionali, quale presupposto per l’assunzione. In tali ipotesi il dipendente deve ritenersi obbligato a mantenere, per tutta la durata del rapporto, anche attraverso il pagamento della tassa annuale, il requisito per il quale è stato assunto.
Può pertanto ritenersi che il generale divieto di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti dalla contrattazione collettiva e individuale riguardi anche il pagamento della tassa di iscrizione a un albo professionale.

---------------
Il Comune di Rivoli, con nota a firma del Sindaco del 06.03.2007, ha chiesto di conoscere il parere di questa Sezione in ordine alla richiesta di pagamento della tassa di iscrizione all’ordine degli avvocati, formulata da un funzionario dell’ente.
Al riguardo, con nota prot. 9/par/07 dell’08.03.2007, questa Sezione, precisato che la funzione consultiva ex articolo 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, viene esercitata solo su quesiti di natura astratta e generale e non con riferimento a casi specifici, e che pertanto le richieste, per quanto relative a casi concreti, devono poter essere ricondotte a fattispecie generali, ha invitato il Comune richiedente a riformulare la sua richiesta, fornendo ulteriori necessari elementi informativi.
Con nota del 21.03.2007, sempre a firma del Sindaco, il Comune di Rivoli si è limitato a precisare che il funzionario interessato, inquadrato nella categoria D3, svolge mansioni di legale dell’Ente, e che il bando per l’assunzione prevedeva, quali requisiti, la laurea in giurisprudenza e l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato.
...
3) Merito:
Oggetto della richiesta di parere è dunque il pagamento della tassa di iscrizione ad un ordine professionale, da parte del Comune, per conto di un proprio funzionario.
In primo luogo va precisato che la questione acquista rilievo solo nella misura in cui l’iscrizione ad un albo costituisca requisito necessario per lo svolgimento dell’attività del dipendente. Ove l’iscrizione ad un albo professionale, se mai consentita dalle diverse normative vigenti, fosse da imputarsi alla libera scelta del dipendente, dovrebbe ritenersi inequivocabilmente a suo carico il pagamento della relativa tassa di iscrizione. Rientrano in tale ipotesi anche i casi in cui l’accesso al rapporto di pubblico impiego abbia presupposto, quale titolo, il conseguimento dell’abilitazione all’esercizio di una professione, non risultando poi necessaria l’iscrizione al relativo albo per lo svolgimento dell’attività del dipendente.
La questione si pone, dunque, per le fattispecie in cui i dipendenti risultino iscritti a un albo, in quanto requisito necessario per l’esercizio delle funzioni svolte presso l’Ente.
Il Comune richiedente richiama una pronuncia della Corte di appello di Torino che, in merito ad una fattispecie riguardante un dipendente statale, stabilisce che le spese sostenute dal dipendente nell’esclusivo interesse del proprio datore di lavoro devono essere a carico di quest’ultimo (sentenza n. 338 del 2003).
A parere di questa Sezione, il richiamato principio non può trovare piena applicazione al caso di specie, in quanto l’iscrizione ad un albo professionale, anche laddove necessaria per lo svolgimento dell’attività svolta dal dipendente per l’ente, non può ritenersi effettuata nell’esclusivo interesse del datore di lavoro. Essa attiene, infatti, a profili strettamente connessi con la professionalità del soggetto iscritto, arrecando benefici diretti nella sua sfera di interessi. Come tale, l’iscrizione all’albo è richiesta, per alcune figure professionali, quale presupposto per l’assunzione. In tali ipotesi il dipendente deve ritenersi obbligato a mantenere, per tutta la durata del rapporto, anche attraverso il pagamento della tassa annuale, il requisito per il quale è stato assunto.
Vengono pertanto in rilievo altri principi, quali quello del contenimento della spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica (art. 1, comma 1, lett. b) del D. Lgs.vo 30.03.2001, n. 165), ed il principio in base al quale l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e, alle condizioni previste, mediante contratti individuali (art. 2, comma 3 del D.Lgs.vo 30.03.2001, n. 165).
Può pertanto ritenersi che il generale divieto di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti dalla contrattazione collettiva e individuale riguardi anche il pagamento della tassa di iscrizione a un albo professionale
(Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Piemonte, parere 29.03.2007 n. 2).

PUBBLICO IMPIEGO: I contratti collettivi del comparto regioni e autonomie locali si limitano a prevedere l’indennità di posizione e di risultato per il personale che svolge attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlata all’iscrizione ad albi professionali, mentre nulla precisano in relazione all’argomento in discussione.
Nel merito, occorre considerare preliminarmente se l’iscrizione a un albo professionale costituisca requisito per lo svolgimento dell’attività per il dipendente.
Così non è più nella materia dei lavori pubblici, in quanto la disciplina di cui all’articolo 17 della legge 109 del 1994 è stata modificata dalla legge n. 415 del 1998 nel senso che non è richiesta l’iscrizione all’albo professionale per i dipendenti pubblici che firmino i progetti, ma è sufficiente il possesso dell’abilitazione professionale; in questo caso l’iscrizione costituisce una scelta del dipendente e pertanto il relativo pagamento è sicuramente a suo carico.

7. Una diversa ipotesi si ha qualora il dipendente possa essere autorizzato a svolgere il lavoro part-time. L’eventualità di usufruire dell’iscrizione all’albo per svolgere attività libero professionale, e quindi a favore di soggetti diversi dall’ente pubblico datore di lavoro, consente di affermare che il relativo costo non possa gravare su quest’ultimo.
8. Più complessa è la fattispecie di un dipendente obbligatoriamente iscritto a un albo esclusivo del pubblico impiego, quale ad esempio l’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati.
A tale ipotesi ha fornito una soluzione la Corte d’appello di Torino, nella sentenza n. 338/2003, peraltro relativa a un dipendente di un ente statale, nella quale si afferma, in mancanza di una norma che disciplini la materia, e facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, che le spese sostenute dal dipendente nell’esclusivo interesse del proprio datore di lavoro devono essere sopportate dal datore.
La ricostruzione sopra riportata non appare condivisibile, in quanto per alcune figure professionali l’iscrizione a un albo è un requisito imprescindibile, in mancanza del quale non è consentito l’esercizio dell’attività. Tale iscrizione costituisce uno dei presupposti richiesti per l’assunzione e deve perdurare per tutta la durata del lavoro alle dipendenze del comune.
Si ritiene, pertanto, che debba essere cura del soggetto, assunto per ricoprire al’interno dell’ente un ruolo che richiede la suddetta iscrizione, farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito che ha costituito condicio sine qua non della sua assunzione, tra i quali rientra sicuramente il pagamento della tassa annuale.
Ad ulteriore sostegno di quanto sopra affermato vi è la considerazione che
tra i principi generali a cui fare riferimento vi sono certamente quelli contenuti nel decreto legislativo n. 165 del 2001, che all’art. 1 dispone che “si deve contenere la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta , entro i vincoli di finanza pubblica”, e all’art. 2 che “l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e, alle condizioni previste, mediante contratti individuali”.
Si può pertanto ritenere esistente nell’ordinamento un principio generale che vieta di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti e che possono contribuire ad aggravare la situazione finanziaria degli stessi enti. Tra tali oneri deve essere compresa la tassa di iscrizione a un albo professionale.

---------------
Con la nota protocollo n. 10223 del 23.10.2006 il Segretario comunale del comune di Siliqua ha chiesto un parere in relazione ad una fattispecie attinente all’assunzione a carico del Comune della tassa annuale di iscrizione di un dipendente a tempo indeterminato all’albo professionale.
1. La richiesta di parere è stata inoltrata tramite il Consiglio delle autonomie locali, istituito con la legge regionale 17.01.2005 n. 1, che nella nota di trasmissione fa espresso riferimento all’articolo 7 della legge 05.06.2003, n. 131, disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18.10.2001 n. 3.
2. La richiesta di parere è sottoscritta dal Segretario comunale del comune di Siliqua, ed in tal senso dovrebbe essere dichiarata inammissibile sotto il profilo soggettivo alla luce del consolidato orientamento assunto dalla Corte dei conti, secondo il quale all’interno dell’ente locale i quesiti debbono promanare dal Sindaco o dal Presidente della Provincia nella loro qualità di rappresentanti legali dell’ente locale, ovvero dagli organi deliberativi dell’ente medesimo nel caso di pareri su atti di normazione.
L’inoltro della richiesta a questa Corte da parte del Presidente del Consiglio delle autonomie locali consente però di superare tale impostazione, in quanto si deve ritenere che la richiesta sia stata fatta propria da quest’ultimo organo istituzionale, al quale espressamente la legge su richiamata riconosce tale funzione. La richiesta è pertanto ammissibile sotto il profilo soggettivo.
3. Per quanto riguarda l’ammissibilità della richiesta in esame nel merito, l’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003, circoscrive i pareri che le Sezioni regionali della Corte possono esprimere alla materia di contabilità pubblica.
Possono pertanto rientrare nella funzione consultiva della Corte dei conti le sole richieste concernenti la materia della contabilità pubblica, intesa come sistema normativo che regola la gestione finanziaria ed economico-patrimoniale dello Stato e degli altri enti pubblici, che richiedano un esame da un punto di vista astratto e su temi di carattere generale.
Sono quindi inammissibili le richieste di parere che comportino valutazioni di casi o atti gestionali specifici, che determinerebbero un’ingerenza della Corte dei conti nella concreta attività gestionale dell’Ente, nonché tali da poter formare oggetto di eventuali iniziative giudiziarie da parte della Procura regionale della stessa Corte dei conti.
4. Nel caso di specie la richiesta, pur relativa ad un caso specifico, può essere fatta rientrare in una fattispecie astratta e generale, in quanto il caso prospettato riguarda l’obbligo per un ente locale di farsi carico del pagamento della tassa annuale di iscrizione di un dipendente ad un albo professionale.
Trattandosi inoltre di identificare una tipologia di spesa che potrebbe gravare in via ordinaria e generalizzata sui comuni si ritiene che la richiesta rientri nella materia della contabilità pubblica. La richiesta è pertanto ammissibile sotto il profilo oggettivo.
5. Si deve rilevare che i contratti collettivi del comparto regioni e autonomie locali si limitano a prevedere l’indennità di posizione e di risultato per il personale che svolge attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlata all’iscrizione ad albi professionali, mentre nulla precisano in relazione all’argomento in discussione.
6. Nel merito, occorre considerare preliminarmente se l’iscrizione a un albo professionale costituisca requisito per lo svolgimento dell’attività per il dipendente.
Così non è più nella materia dei lavori pubblici, in quanto la disciplina di cui all’articolo 17 della legge 109 del 1994 è stata modificata dalla legge n. 415 del 1998 nel senso che non è richiesta l’iscrizione all’albo professionale per i dipendenti pubblici che firmino i progetti, ma è sufficiente il possesso dell’abilitazione professionale; in questo caso l’iscrizione costituisce una scelta del dipendente e pertanto il relativo pagamento è sicuramente a suo carico.

7. Una diversa ipotesi si ha qualora il dipendente possa essere autorizzato a svolgere il lavoro part-time. L’eventualità di usufruire dell’iscrizione all’albo per svolgere attività libero professionale, e quindi a favore di soggetti diversi dall’ente pubblico datore di lavoro, consente di affermare che il relativo costo non possa gravare su quest’ultimo.
8. Più complessa è la fattispecie di un dipendente obbligatoriamente iscritto a un albo esclusivo del pubblico impiego, quale ad esempio l’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati.
A tale ipotesi ha fornito una soluzione la Corte d’appello di Torino, nella sentenza n. 338/2003, peraltro relativa a un dipendente di un ente statale, nella quale si afferma, in mancanza di una norma che disciplini la materia, e facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, che le spese sostenute dal dipendente nell’esclusivo interesse del proprio datore di lavoro devono essere sopportate dal datore.
9. La ricostruzione sopra riportata non appare condivisibile, in quanto per alcune figure professionali l’iscrizione a un albo è un requisito imprescindibile, in mancanza del quale non è consentito l’esercizio dell’attività. Tale iscrizione costituisce uno dei presupposti richiesti per l’assunzione e deve perdurare per tutta la durata del lavoro alle dipendenze del comune.
Si ritiene, pertanto, che debba essere cura del soggetto, assunto per ricoprire al’interno dell’ente un ruolo che richiede la suddetta iscrizione, farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito che ha costituito condicio sine qua non della sua assunzione, tra i quali rientra sicuramente il pagamento della tassa annuale.
10. In tal senso è l’articolo 47 della legge regionale sarda n. 31 del 13.11.1998, relativo all’esercizio delle attività professionali, che dispone al 3° comma che “per l’accesso ai posti in pianta organica il cui compito principale o esclusivo è l’esercizio di attività professionali sono necessari l’iscrizione all’albo e l’esercizio effettivo dell’attività professionale per almeno tre anni”; e che al comma successivo prevede che “la cancellazione dall’albo comporta la risoluzione del rapporto d’impiego”. Tali norme consentono agevolmente di ritenere che debba essere a cura del dipendente regionale anche il pagamento della tassa annuale di iscrizione, in quanto elemento necessario per il perdurare dell’iscrizione stessa.
11. Ad ulteriore sostegno di quanto sopra affermato vi è la considerazione che tra i principi generali a cui fare riferimento vi sono certamente quelli contenuti nel decreto legislativo n. 165 del 2001, che all’art. 1 dispone che “si deve contenere la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta , entro i vincoli di finanza pubblica”, e all’art. 2 che “l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e, alle condizioni previste, mediante contratti individuali”.
La necessità di una previsione espressa si ritrova anche nell’art. 12 della legge 241 del 1990, secondo il quale “la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ad alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi".
12. Si può pertanto ritenere esistente nell’ordinamento un principio generale che vieta di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti e che possono contribuire ad aggravare la situazione finanziaria degli stessi enti. Tra tali oneri deve essere compresa la tassa di iscrizione a un albo professionale
(Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Sardegna, parere 19.01.2007 n. 1).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Out i consiglieri multati. Incompatibili fino al pagamento della sanzione. L'ultima parola sulla causa ostativa spetta al consiglio comunale.
Può sussistere causa di incompatibilità ai sensi dell'art. 63, comma 1, n. 6, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 nei confronti di un consigliere comunale, al quale sono stati notificati atti ingiuntivi di pagamento per contravvenzioni al codice della strada, nonché per imposte e tasse comunali (Ici e Tarsu)?

Nella fattispecie in esame -in cui l'amministratore ha provveduto in parte al pagamento del quantum debeatur e per la restante parte ha ottenuto un piano di rateizzazione con sospensione di tutte le procedure esecutive- la valutazione, a sostegno di un orientamento di favore per il Consigliere comunale, della circostanza che l'interessato non ha ricevuto invano notificazione dell'avviso di cui all'articolo 46 del decreto del presidente della repubblica 29.09.1973, n. 602, può al più riguardare la parte di debito derivante dalle imposte e tasse comunali, atteso che solo per tale tipo di posizione debitoria l'incompatibilità disciplinata dal citato art. 63, comma 1, n. 6, presuppone che l'interessato abbia ricevuto invano l'avviso menzionato (a proposito del quale, occorre altresì tenere presente che, in base all'art. 38, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46, «i rinvii contenuti in norme vigenti alle disposizioni del decreto del presidente della repubblica 29.09.1973, n. 602, abrogate dal presente decreto, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del presente decreto»).
Per quanto concerne, invece, la parte di debito che trae origine da contravvenzioni al codice della strada, si confermano le considerazioni ripetutamente svolte con riferimento a casi analoghi. In tal senso, i concetti di «liquidità» ed «esigibilità» di cui si fa menzione nella norma esprimono l'uno la certezza del debito e del relativo ammontare e l'altro che il debito stesso non sia soggetto a termini o condizioni.
Pertanto, finché le contravvenzioni in questione non saranno state pagate, non potrà che ritenersi esistente la fattispecie di incompatibilità, in quanto la rateizzazione è soltanto una modalità di pagamento e finché non risulterà versata l'ultima rata prevista il debito non potrà in alcun modo considerarsi estinto. In ogni caso, la valutazione in ordine alla eventuale sussistenza della causa ostativa all'espletamento del mandato elettivo è rimessa al consiglio comunale.
Infatti, in conformità al generale principio per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la verifica delle cause ostative all'espletamento del mandato è compiuta con la procedura prevista dall'art. 69 del decreto legislativo n. 267 del 2000, che garantisce il contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa di incompatibilità contestata (cfr. Corte di cassazione, sezione I, sentenza 10.07.2004, n. 12809; Id., sentenza 12.11.1999, n. 12529) (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum per il Consiglio.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale in seconda convocazione, con particolare riferimento ad un ente al quale siano stati assegnati dieci consiglieri, escluso il sindaco, che non abbia ancora provveduto ad adottare un'apposita disciplina regolamentare in materia?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Tale disposizione va letta in combinato disposto con l'art. 273, comma 6, del citato Tuel il quale detta una disciplina transitoria che legittima l'applicazione, tra gli altri, dell'art. 127 del T.u. n. 148/1915 fino all'adeguamento statutario e regolamentare ai nuovi canoni previsti dal richiamato decreto legislativo n. 267/2000 nella materia considerata.
L'art. 127, comma 1, prevede che: «i consigli comunali non possono deliberare se non interviene la metà del numero dei consiglieri assegnati al comune; però alla seconda convocazione, che avrà luogo in altro giorno, le deliberazioni sono valide, purché intervengano almeno quattro membri». Ciò posto, appare evidente, nel caso di specie, l'opportunità che le disposizioni statutarie e regolamentari in materia vengano aggiornate alle richiamate norme di legge, al fine di evitare ogni ulteriore dubbio interpretativo (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Richiesta, da parte di un dipendente, di conoscere se tutto il personale dell'ente abbia usufruito delle ferie nel periodo estivo 2014 previo ottenimento di apposita autorizzazione scritta.
L'istanza di accesso, da parte di un dipendente comunale, finalizzata a conoscere se tutto il personale dell'ente abbia usufruito delle ferie previo ottenimento di apposita autorizzazione scritta, dichiarando, al riguardo, l'interesse ad attestare l'imparzialità, la correttezza e la trasparenza dell'operato dell'amministrazione, non può reputarsi espressa ex lege e, come tale, non può essere accolta per tre ordini di ragioni:
a) come formulata, essa appare carente di motivazione, non risultando comprovata l'esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale connesso ad una situazione giuridicamente rilevante; conseguentemente ed in secondo luogo;
b) essa si pone in contrasto con il diktat dell'articolo 24, comma 3, legge 241/1990, dando adito ad un controllo generalizzato sull'operato della pubblica amministrazione;
c) in fine, l'istanza di accesso pone un problema di tutela della riservatezza dei terzi controinteressati.

Il Comune segnala di aver ricevuto, da parte di un dipendente, la richiesta di conoscere se tutto il personale dell'ente abbia usufruito delle ferie nel periodo estivo 2014 previo ottenimento di apposita autorizzazione scritta, dichiarando, al riguardo, un interesse concreto e diretto al fine di 'attestare l'imparzialità, la correttezza e la trasparenza dell'operato dell'amministrazione'.
La pubblica amministrazione domanda, pertanto, se la summenzionata richiesta di accesso debba essere soddisfatta, posto che l'evasione della stessa potrebbe entrare in conflitto con esigenze di tutela delle riservatezza e che non appare scontata l'esistenza di un interesse diretto, concreto e attuale del richiedente, sembrando, piuttosto, emergere una generica volontà di conoscenza finalizzata alla verifica dell'imparzialità e correttezza dell'agere della pubblica amministrazione, in contrasto con quanto statuito dall'articolo 24, comma 3, della legge 07.08.1990, n. 241 - 'Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi'
[1].
Si svolgono al riguardo le seguenti riflessioni.
Sembra allo scrivente che l'istanza di accesso non possa reputarsi espressa ex lege e, come tale, non possa essere accolta
[2] per tre ordini di ragioni: a) come formulata, essa appare carente di motivazione, non risultando comprovata l'esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale connesso ad una situazione giuridicamente rilevante; conseguentemente ed in secondo luogo, b) essa si pone in contrasto con il diktat dell'articolo 24, comma 3, legge 241/1990, dando adito ad un controllo generalizzato sull'operato della pubblica amministrazione; c) in fine, l'istanza di accesso pone un problema di tutela della riservatezza dei terzi controinteressati.
a) b) Si evidenzia, anzi tutto, l'onere cui si deve far fronte nel momento in cui è formulata una richiesta di accesso agli atti della pubblica amministrazione affinché questa possa essere legittimamente accolta e soddisfatta: il soggetto instante deve rappresentare, in maniera motivata, la sussistenza di un interesse concreto, diretto e attuale in relazione all'accesso documentale
[3]. Tale obbligo discende, direttamente, dal dettato normativo, per il quale la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata [4] e che, inoltre, prevede: 'non sono ammissibili istanze di accesso preordinate a un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni' [5].
Ulteriore aspetto fondamentale da prendere in considerazione nel presente parere riguarda, quindi, l'assenza di motivazione nell'istanza finalizzata all'accesso.
Al riguardo, si rammenta che, ai sensi dell'articolo 22 della legge 241/1990, l'accesso è consentito a tutti i soggetti privati, portatori di un interesse diretto
[6], concreto [7], attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento rispetto al quale è chiesto l'accesso [8], onde poi procedere nella sede ritenuta più opportuna per la sua effettiva tutela.
All'atto della richiesta, al fine del riconoscimento dell'interesse giuridicamente rilevante, il soggetto deve, pertanto, dimostrare che esiste una correlazione tra la propria situazione giuridica soggettiva e l'utilità di conoscere il bene o la vicenda, oggetto dell'atto o del documento amministrativo di cui chiede visione o copia
[9]. La domanda di accesso deve, quindi, essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore [10].
Si osserva, inoltre, che, come rilevato dalla giustizia amministrativa, 'deve pur sempre sussistere un legame tra finalità dichiarata e documento richiesto, con la conseguenza che il titolare deve esternare non solo le ragioni per cui intende accedere ma, soprattutto, la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di accesso è preordinato'
[11].
L'amministrazione deve appurare che le motivazioni formulate dall'istante non siano manifestamente pretestuose, irrazionali o incongruenti con le finalità che mira a perseguire mediante l'esercizio del diritto di accesso secondo un giudizio di verosimiglianza. L'ente deve verificare, in altri termini, l'attitudine dell'acquisizione dei contenuti dell'atto o documento in astratto a realizzare un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, come richiesto dalla normativa vigente, mettendo in relazione logica e consequenziale la prospettazione di parte e il documento richiesto. La motivazione dell'istanza deve essere in sintonia con gli obiettivi che si mira a realizzare mediante l'accesso, secondo un giudizio a priori di plausibilità
[12].
Ed, invero, per la giurisprudenza, l'articolo 22, legge 241/1990, 'deve correlarsi ad un interesse qualificato, che giustifichi la cognizione di determinati documenti, onde l'accesso agli atti della p.a. è consentito soltanto a coloro cui gli atti stessi, direttamente o indirettamente, si rivolgano e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva la quale, anche se non assurta alla consistenza dell'interesse legittimo o del diritto soggettivo, deve comunque essere giuridicamente tutelata, non essendo consentito identificarla con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa (v. art. 97, Cost.)'
[13].
All'instante, è quindi, richiesta una 'doverosa specificazione'
[14] dell'interesse correlato all'accesso.
Ed, inoltre, 'la domanda di accesso non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto, che deve specificare il puntuale riferimento che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela'
[15].
Del resto, il diritto di accesso esercitato attraverso un'istanza priva di motivazione e in cui è, quindi, assente un collegamento diretto con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti, si configura come un'azione popolare, al fine di praticare una sorta di sorveglianza generale nei confronti della conduzione del potere pubblico e al fine di verificare il buon andamento dell'ente
[16]. La domanda di accesso non può, pertanto, essere un mezzo per compiere un'indagine o un controllo ispettivo, attività cui sono ordinariamente preposti organi pubblici [17].
Deve, invero, escludersi che la disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi, in quanto volta a tutelare l'interesse alla conoscenza di determinati atti, possa consentire un controllo generico sull'attività dell'ente
[18], finalizzato a una verifica, in via generale, della trasparenza e legittimità dell'azione amministrativa, dal momento che, correlativamente all'esercizio del diritto alla conoscenza degli atti, sussiste la legittima pretesa dell'ente a non subire intralci alla propria attività istituzionale, possibili in ragione della presentazione di istanze tali da produrre un appesantimento dell'operato pubblico, in contrasto con i canoni fondamentali dell'efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa [19], declinazione di quel principio di buon andamento degli uffici pubblici sancito nell'articolo 97 della Costituzione.
La giustizia amministrativa ha rimarcato che l'istante deve possedere una posizione differenziata rispetto all'interesse generico di ogni cittadino a conoscere l'attività dei pubblici poteri, altrimenti l'istanza si risolve in una indagine e verifica della mera legittimità dell'attività della pubblica amministrazione, lungi dall'essere funzionale alla salvaguardia di un interesse giuridico protetto
[20].
Se, quindi, un'istanza priva di motivazione appare preordinata ad una verifica generalizzata nei confronti dell'esercizio del potere pubblico, così, in relazione alla fattispecie prospettata nel quesito oggi in esame, anche la domanda di accesso del dipendente dell'ente, in quanto riferentesi a tutti gli atti di autorizzazione delle ferie adottati dalla pubblica amministrazione nell'estate 2014, sembra tradursi in un'azione di tipo ispettivo e di controllo diffuso, da parte del soggetto instante, verso l'opera dell'ente.
Si evidenzia, infine sul punto, che, secondo la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, non deve essere concesso l'accesso ai decreti di autorizzazione del periodo di ferie, perché 'non essendo chiaro quale sia il collegamento tra tali documenti e l'interesse vantato dall'istante, tale richiesta si traduce in un controllo generalizzato sull'operato dell'amministrazione espressamente vietato ai sensi dell'articolo 24, comma terzo, della legge 241/1990, nel testo novellato dall'articolo 16 della legge 15/2005'
[21].
c) Come già anticipato, l'istanza di accesso, oggetto del quesito in analisi, pone anche delle problematiche in ordine alla tutela della riservatezza dei soggetti terzi controinteressati (possono esservi, invero, soggetti controinteressati all'accesso: nel caso in esame, i dipendenti dell'ente che hanno goduto delle ferie nel periodo estivo dell'anno 2014)
[22]. Tale situazione si verifica nei casi in cui l'ostensione o la riproduzione dell'atto o documento siano potenzialmente lesive del diritto alla riservatezza altrui. Al riguardo, si rammenta che il diritto di accesso ai documenti amministrativi è posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità degli enti pubblici [23] e che, per regola generale, l'amministrazione detentrice di documenti, direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto, non può limitare il diritto di accesso, se non per motivate esigenze di riservatezza [24] o segretezza.
Il limite della riservatezza attribuisce rilievo all'interesse privatistico a che sia mantenuto il riserbo in ordine a vicende che coinvolgono la sfera personale, determinandosi una tensione tra esigenze contrapposte, risolta attraverso un bilanciamento di interessi. All'infuori dei casi di esclusione, specificamente tipizzati in sede legislativa o regolamentare, il diritto di accesso può, dunque, essere sacrificato in relazione alla possibile lesione, non consentita dall'ordinamento ovvero non giustificata o controbilanciata da interessi di pari rango, del diritto alla riservatezza che attiene alla sfera personale di soggetti terzi, più o meno intensamente e più o meno direttamente garantita dalla legge.
Anche in relazione al limite della riservatezza, è, dunque, evidente l'importanza della motivazione dell'istanza di accesso, assunta a parametro di valutazione da parte dell'amministrazione. Si tratta, precisamente, della necessità che il richiedente l'ostensione degli atti specifichi con esattezza quale obiettivo si propone di realizzare mediante l'apprendimento dei dati contenuti nella documentazione indicata nella sua istanza. Ciò, fra l'altro, consente (sia all'amministrazione sia, eventualmente, al giudice) di valutare con precisione se l'interesse alla conoscenza dell'atto o documento sia dotato di un fondamento giuridico sufficientemente forte da consentirgli, in caso di conflitto, di prevalere sul diritto alla riservatezza altrui
[25].
Si evidenzia, inoltre, che, nel caso in esame, il dipendente che ha formulato l'istanza di accesso invoca la necessità di attestare l'imparzialità e la correttezza dell'operato dell'amministrazione. Al riguardo, si sottolinea che, per la giurisprudenza amministrativa, è legittimo il provvedimento con il quale, ritenendo inesistente un interesse differenziato, concreto ed attuale rispetto alla situazione giuridica da tutelare, il Comune ha rigettato una istanza ostensiva, ove detta istanza sia stata avanzata al fine di verificare eventuali disparità di trattamento poste in essere dalla pubblica amministrazione rispetto ad altre similari richieste
[26].
In tal caso, infatti, l'istanza di accesso deve ritenersi inammissibile, in quanto proposta allo scopo di effettuare un controllo generalizzato sull'azione amministrativa. In definitiva, sembra che l'istanza di accesso agli atti, piuttosto che poggiare su un interesse concreto ed attuale all'ostensione, risulti piuttosto finalizzata all'esercizio di un controllo di carattere generalizzato sull'operato dell'amministrazione.
---------------
[1] Il comma citato statuisce: 'non sono ammissibili istanze di accesso preordinate a un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni'.
[2] La pubblica amministrazione, ricevuta una richiesta di accesso, può: - declinarla per inammissibilità nell'ipotesi che essa sia avanzata in assenza dei presupposti richiesti dalla normativa perché si possa procedere all'esame della pretesa nel merito (ad esempio, perché totalmente priva di motivazione); - respingerla, se la stessa afferisce ad atti inaccessibili, stante la prevalenza dell'interesse alla riservatezza di terzi su quello della pubblicità; - limitarla; - differirla; - accoglierla ove non vi siano ragioni soggettive od oggettive, la cui sussistenza sia indispensabile a seconda dei casi, per respingerla, limitarla o differirla, rendendo operante, in tal modo, i principi di pubblicità e trasparenza dell'attività amministrativa sanciti, come regola generale, dall'articolo 1, comma 1, delle legge 241/1990. Si legga, al riguardo, S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto di accesso agli atti e documenti amministrativi', Giurisdizione Amministrativa, n. 10, ottobre 2012, 395-396.
[3] Le motivazioni allegate all'istanza sono strumentali alla verifica dell'ammissibilità della richiesta da parte dell'amministrazione destinataria. Vi sono alcuni presupposti che devono sussistere preventivamente affinché possa essere presa in considerazione l'istanza di accesso. Tra questi, oltre all'esistenza materiale del documento, la motivazione della richiesta e la sussistenza di uno scopo non riconducibile a fini di controllo generalizzato dell'operato della pubblica amministrazione. Si legga S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto di accesso ... ', cit., 394.
[4] Articolo 25, comma 2, della legge 241/1990. La regola della motivazione dell'istanza di accesso ha portata ampia e carattere generale.
[5] Si legga l'articolo 24, comma 3, della legge 241/1990.
[6] Sulla nozione di interesse diretto e sulla giurisprudenza e dottrina sviluppatesi al riguardo, si rinvia alla lettura del parere datato 20.02.2015, protocollo n. 4134 (in particolare, nota n. 11), pubblicato, dallo scrivente, nella banca dati reperibile all'indirizzo internet http://autonomielocali.regione.fvg.it
[7] Interesse concreto indica un interesse non ipotetico, finalizzato, non immaginario, non esistente solo nella mente dell'accedente. Proprio per assicurare la finalizzazione della domanda di accesso alla sussistenza di un interesse concreto, che non può ravvisarsi nel generico, comune interesse alla trasparenza dell'azione amministrativa, l'istanza deve essere motivata con riferimento a detto interesse (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 11.01.1994, n. 8). Altrimenti, si configurerebbe la fattispecie del controllo generalizzato dell'attività amministrativa cui fa esplicito riferimento l'articolo 24, legge 241/1990 (si veda Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 22.11.2012, n. 5936). Ai sensi della disposizione da ultimo citata e al fine di tutelare la pubblica amministrazione da richieste inutili, la concretezza deve, quindi, tendere, principalmente, ad escludere accessi 'esplorativi'.
[8] Si veda l'articolo 22, comma 1, lettera b), della legge 241/1990.
[9] Si legga il parere formulato dallo scrivente, datato 26.03.2014, consultabile nella banca dati di cui all'indirizzo internet http://autonomielocali.regione.fvg.it
[10] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 30.09.1998, n. 1346. Si legga anche Tar Toscana, Firenze, sez. II, sentenza del 03.07.2009, n. 1184: 'Il diritto di accesso previsto dall'art. 22, l. n. 241 del 1990, non ha introdotto nell'ordinamento una sorta di azione popolare ispettiva nei confronti della P.A., ma ha voluto porre a disposizione di ogni cittadino uno strumento per superare la barriera della riservatezza degli atti di ufficio al fine di tutelare comunque i propri interessi; tuttavia l'espressione normativa "tutela degli interessi", non deve essere intesa solo come finalizzazione dell'accesso ad un ricorso giurisdizionale, ma secondo un nesso inscindibile tra i documenti richiesti e la verifica della eventuale lesione di un proprio interesse qualificato: ne consegue che se, da un lato, è escluso l'accesso a meri fini ispettivi, dall'altro esso è ammesso anche quando il richiedente non assume di volere verificare un preciso e determinato vizio degli atti al fine della impugnativa, ma solo prospetti il proprio interesse, purché concreto e qualificato, alla regolarità della procedura in questione'.
[11] In tal senso, si legga Tar Ancona, sentenza del 30.03.2005, n. 274.
[12] La sufficienza della motivazione formulata nell'istanza stessa deve essere valutata caso per caso, potendosi ritenere le motivazioni in re ipsa nelle ipotesi in cui appaiano ictu oculi desumibili dall'atto o documento richiesto in visione. La richiesta di accesso deve essere tarata sulle singole situazioni con la conseguenza che le ragioni a fondamento della domanda, anche se non enunciate espressamente dall'interessato nella motivazione, possono emergere dai rapporti intercorsi o intercorrenti tra costui e l'amministrazione.
Ciò si verifica ad esempio allorché l'instante sia il destinatario di un provvedimento sfavorevole e sia intenzionato ad accedere agli atti del relativo procedimento. In tali evenienze è evidente l'intento del richiedente l'accesso di acquisire elementi utili per tutelare la sua posizione, eventualmente anche in sede giurisdizionale. Si veda, ad esempio, TAR Calabria, Catanzaro, sez II, sentenza del 23.07.2009, n. 814. Si legga ancora S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto di accesso ... ', cit., 394.
[13] Tar Emilia Romagna, Parma, sez. I, sentenza del 09.02.2010, n. 52. Si veda anche Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 03.08.2010, n. 5173, ove si legge: 'La legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica'.
Si legga pure Tar Lazio, Roma, sez. I, sentenza del 05.05.2010, n. 9766: 'Ai sensi dell'art. 22, l. n. 241 del 1990, il diritto di accesso è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse, ricollegando siffatto interesse all'esigenza di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti. Per aversi un interesse qualificato ed una legittimazione ad accedere alla documentazione amministrativa è necessario trovarsi in una posizione differenziata ed avere una titolarità di posizione giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo - ossia posizioni giuridiche soggettive piene e fondate - ma di una posizione giuridica soggettiva allo stato anche meramente potenziale. Tale limite è dato dalla necessità di evitare che l'accesso si trasformi in azione popolare, poiché il diritto di accesso ai documenti dell'Amministrazione non può essere trasformato in uno strumento di controllo popolare di tipo ispettivo o esplorativo, utilizzabile al solo scopo di sottoporre a verifica generalizzata l'operato dell'Amministrazione'.
[14] Così, Tar Puglia, Lecce, Sez. II, sentenza dell'11.04.2011, n. 647.
[15] Si confronti, sul punto, Tar Molise, sez. I, sentenza del 09.12.2010, n. 1528.
[16] Il menzionato principio, di origine giurisprudenziale, è stato recepito, nell'articolo 24, comma 3, della legge 241 dal legislatore del 2005 - che, con la legge 11.02.2005, n. 15, ha, parzialmente, riformato la disciplina del diritto di accesso.
[17] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 29.04.2002, n. 2283; Tar Lazio, sez. II, sentenza del 22.07.1998, n. 1201 (resa sulla domanda di accesso del Codacons, mirante a prendere conoscenza di tutto il materiale -reclami, denunce, provvedimenti disciplinari, spese per risarcimento- inerente a casi di smarrimento o furto verificatisi in occasione di spedizioni postali nell'arco di più anni).
[18] Si legga anche il parere della Commissione per l'accesso, datato 25.01.2005: 'Sono inammissibili le istanze di accesso motivate in termini generici, senza dare adeguata evidenza alla natura dell'interesse che radica il diritto di accesso'. La preoccupazione per istanze generiche è evidente ed emerge anche dal tenore della circolare datata 08.03.2006 emanata dal Ministero della Giustizia: 'le richieste non possono essere generiche ma devono consentire l'individuazione del documento cui si vuole accedere'. In dottrina, si legga M. Scanniello, 'Il diritto di accesso alla documentazione amministrativa. Commentario sistematico'.
[19] Si veda Tar Lazio, Roma, sez. I, sentenza del 13.12.2011, n. 9709, tratta da F. Palazzi (a cura di), 'L'interesse ad accedere ai documenti della p.a. nella recente giurisprudenza amministrativa', Comuni d'Italia, 3/2013. Tra i precedenti conformi, si vedano, ex plurimis: Consiglio di Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8287; 15.09.2010, n. 6899; 05.10.2001, n. 5291; sez. VI, 12.01.2011, n. 116; 28.09.2010, n. 7183; 11.05.2007 n. 2314; TAR Lazio, Roma, sez. II, 14.03.2011, n. 2260.
[20] Si veda Tar Emilia-Romagna, Parma, sez. I, sentenza 04.10.2011, n. 328, tratta da F. Palazzi (a cura di), 'L'interesse ad accedere ai documenti della p.a. ... ', cit. . Si segnala che, per la dottrina, si è di fronte ad una pretesa di controllo generalizzato anche quando la richiesta di accesso è sorretta sì da un interesse individuale puntuale ma, non di meno, per la mole dei documenti richiesti -nella specie tutte le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dal Comune- l'accesso si traduce, di fatto, in un controllo diffuso e di tipo ispettivo sull'operato dell'amministrazione. P.M. Zerman, 'Il Consiglio di Stato detta le regole per coniugare accesso e privacy', Diritto e pratica amministrativa, aprile 2011 - n. 4, 31.
[21] Si tratta della decisione adottata nella seduta del 16.03.2010, avente ad oggetto un'istanza di accesso formulata da un genitore rispetto ai decreti di autorizzazione delle ferie spettanti agli insegnanti dell'istituto scolastico statale frequentato dalla figlia.
[22] La nozione di controinteressato, che si ricava dalla legge generale sul procedimento amministrativo, concerne tutti 'i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza' (articolo 22, comma 1, lettera c, legge 241/1990).
[23] Ai sensi dell'articolo 22, comma 2, legge 241/1990 'L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza'.
[24] Si legga Tar Lazio, Roma, sez. III, sentenza del 05.11.2009, n. 10838. Il limite principale al diritto di accesso è, quindi, costituito dalla riservatezza, oltre che dalla segretezza, nei casi previsti dalla legge, al fine di tutelare interessi pubblici generali. Ai sensi dell'articolo 24, comma 7, legge 241/1990, il limite della riservatezza può essere superato, a favore dell'accessibilità degli atti, soltanto per esigenze di cura e tutela dei propri diritti da parte dell'istante. Il diritto di accesso può trovare un limite solo in specifiche e tassative esigenze di riservatezza di terzi.
[25] Si legga S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto di accesso ... ', cit., 391-406.
Sul rapporto tra accesso e riservatezza, si rimanda alla lettura del parere n. 1265/2015, pubblicato, dallo scrivente, nella già citata banca dati, ove è specificato che, quando, come nel caso oggi in esame, sono coinvolti dati personali di soggetti terzi, i documenti richiesti devono essere necessari alla tutela del proprio interesse.
[26] Si legga Tar Campania, Salerno, sentenza del 03.03.2015, inerente un'ipotesi di diniego di accesso ad un permesso di costruire rilasciato a terzi, ove l'istanza ostensiva sia finalizzata a verificare eventuali vizi di disparità di trattamento con altre similari richieste di rilascio di atto di assenso edificatorio.
In materia di accesso, giustificato da esigenze connesse a disparità di trattamento, deve stimarsi condivisibile l'approdo giurisprudenziale secondo il quale, allorquando la richiesta di accesso sia motivata dall'interesse a dedurre il vizio di disparità di trattamento, non ricorre il presupposto della necessità per la difesa in giudizio di cui all'articolo 24, settimo comma, della legge 241/1990, il quale postula che vi sia già una lesione concreta ed attuale degli interessi giuridici e non consente al richiedente di avviare un'indagine esplorativa alla ricerca di tale specifico vizio, senza averne alcuna prova. In un'evenienza del genere, in cui il richiedente vuole conoscere un numero indeterminato di pratiche amministrative riguardanti terzi, al fine di compiere un'investigazione per la ricerca di un vizio dell'agire amministrativo, nella mediazione tra diritto di difesa e diritto alla privacy, si deve ritenere che manca la rigorosa necessità dei documenti per la difesa in giudizio.
Nella specie, l'ente ha denegato l'accesso ravvisando l'inesistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale alla situazione giuridica da tutelare, che il giudice amministrativo ha reputato fondata, ravvisandosi piuttosto l'ipotesi del controllo generalizzato sull'azione amministrativa. Deve osservarsi che la mancata visione dei documenti non priva il ricorrente del diritto di difesa, potendo il ricorso essere proposto sulla base di altre censure e potendo, altresì, essere dedotto il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento in base ai dati già a disposizione, salvo chiedere al giudice un ordine di esibizione di atti, a seguito dei quali articolare motivi aggiunti.
L'interesse che il ricorrente assumeva di voler tutelare riguardava la verifica di un'ipotetica disparità di trattamento (in materia di rilascio di permessi di costruire), per cui l'accesso agli atti non poteva arrecare alcun presidio all'esigenza di tutelare in giudizio i propri interessi, dato che l'eventuale illegittimità permessa a terzi non giustifica alcun ulteriore provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione
(29.04.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di alcuni consiglieri comunali facenti parte, a vario titolo, di un'associazione di volontariato.
1) Per i consiglieri comunali che rivestono, altresì, la carica, rispettivamente, di Presidente, Segretario, Tesoriere e membro del Consiglio direttivo di un'associazione di volontariato, che riceve contributi in denaro da parte dell'amministrazione comunale, potrebbe sussistere la causa di incompatibilità prevista dall'art. 63, c. 1, n. 1), del D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Sotto il profilo soggettivo, atteso il diverso ruolo svolto dai singoli consiglieri all'interno dell'associazione si deve valutare, per ciascuno di essi, se rientrino o meno nella nozione di amministratore o in quella di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
2) L'organo competente a pronunciarsi sull'esistenza o meno delle cause di incompatibilità è il consiglio comunale in applicazione della procedura contenuta nell'articolo 69 del D.Lgs. 267/2000.

Il Consigliere comunale chiede di conoscere un parere in merito alla possibile insorgenza di cause di incompatibilità per alcuni amministratori comunali che vorrebbero costituire una associazione di volontariato che potrebbe ricevere contributi da parte del Comune. In particolare, essi rivestirebbero, rispettivamente, il ruolo di Presidente, Segretario, Tesoriere e membro del Consiglio direttivo della costituenda associazione. Nel quesito si chiede, altresì, quale sia l'organo competente a pronunciarsi sull'esistenza o meno delle cause di incompatibilità e se vi sia un obbligo o una mera facoltà da parte dello stesso di rilevare un tanto.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti considerazioni.
Con riferimento alla fattispecie in esame potrebbe venire in rilievo la causa di incompatibilità prevista dall'articolo 63, comma 1, n. 1), seconda parte, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ai sensi del quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Requisito oggettivo per l'insorgenza dell'indicata causa di incompatibilità è che l'associazione riceva dal comune una sovvenzione, consistente in un'erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all'ente sovvenzionato di raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito. Tale sovvenzione deve possedere tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte facoltativo. Per ulteriori considerazioni chiarificatrici di tale elemento si rinvia al parere rilasciato da questo Ufficio in data 31.12.2014 (Prot. n. 33168), citato dal consigliere che ha posto il quesito;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle entrate annuali dell'ente sovvenzionato.
Quanto al requisito soggettivo richiesto dall'articolo 63, comma 1, num. 1), TUEL, esso consiste nel fatto che l'amministratore comunale ricopra, all'interno dell'associazione, il ruolo di amministratore o di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
Atteso che i consiglieri comunali rivestirebbero, all'interno dell'associazione, rispettivamente, il ruolo di Presidente, Segretario, Tesoriere e membro del Consiglio direttivo dell'associazione si forniscono alcune considerazioni specifiche per le singoli fattispecie contemplate.
In particolare, quanto al Presidente non sembra dubbia la sua ascrivibilità tra gli amministratori dell'associazione.
Con riferimento alla figura del segretario e del tesoriere, bisognerà in primo luogo verificare, alla luce delle previsioni statutarie, se gli stessi siano, giuridicamente, dipendenti o meno dell'associazione.
[1] In caso di risposta positiva si tratta, in subordine, di valutare se, per lo svolgimento delle loro mansioni, vi sia esplicazione di poteri di rappresentanza o di coordinamento in seno all'associazione. Fermo rimanendo che una tale valutazione potrà compiersi solo alla luce di quanto previsto negli accordi statutari, pare che tanto le funzioni del segretario [2] quanto quelle del tesoriere [3] non dovrebbero di norma comportare l'esplicazione di poteri di rappresentanza né di coordinamento. [4]
Per quanto concerne i consiglieri comunali membri del 'Consiglio direttivo', si tratterà di verificare se sia possibile ricomprendere gli stessi nella nozione legislativa di 'amministratore' contemplata dall'articolo 63 del TUEL, in ordine alla quale è prevista la causa di incompatibilità in argomento. Si ritiene che tale valutazione debba essere effettuata considerando la situazione concreta, in relazione a quanto previsto nelle clausole statutarie dell'associazione: si rileva comunque al riguardo che, di norma, i membri dell'esecutivo svolgono funzioni sussumibili tra quelle proprie dell'organo di amministrazione, con conseguente configurarsi dell'incompatibilità in esame, nella sussistenza degli altri requisiti richiesti dalla legge.
Passando a trattare della questione relativa all'individuazione dell'organo competente a pronunciarsi sull'esistenza o meno delle cause di incompatibilità si rileva che esso si identifica nel consiglio comunale. Si ricorda, in via generale, che è principio di carattere generale del nostro ordinamento giuridico che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Mentre in sede di esame di condizione degli eletti (articolo 41 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267) è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio delle funzioni, qualora la causa di incompatibilità insorga successivamente all'elezione deve essere attivato il procedimento di contestazione secondo la procedura contenuta nell'articolo 69 del D.Lgs. 267/2000.
[5]
In particolare, il consiglio comunale, nel momento in cui viene a conoscenza del verificarsi di una situazione prevista dalla legge come causa di incompatibilità, è tenuto a contestarla, ai sensi dell'art. 69, comma 1, all'amministratore interessato, al quale tuttavia è riconosciuto il diritto di formulare osservazioni per dimostrarne l'insussistenza o, in ogni caso, un termine adeguato per procedere alla rimozione della stessa (comma 2). Il consiglio comunale, qualora reputi che le osservazioni presentate dall'amministratore non siano sufficienti ad escludere l'incompatibilità, ne delibera definitivamente la sussistenza ed invita il consigliere ad eliminarla (comma 4): nel caso in cui lo stesso non vi provveda, il consiglio deve dichiararne la decadenza (comma 5).
Si evidenzia al riguardo che, in sede di accertamento della situazione di supposta incompatibilità, il consiglio comunale può valutare, in base agli elementi acquisiti ed anche con riferimento alle argomentazioni svolte dall'interessato, che nella concreta fattispecie non sussistono le condizioni che sarebbero astrattamente indice dell'esistenza di un'incompatibilità: in tal caso, l'organo consiliare delibera definitivamente (comma 4), con adeguata motivazione, l'insussistenza della causa di incompatibilità inizialmente contestata.
Una tale motivazione sarà astrattamente difficilmente adottabile solo nei casi di obiettiva ed univoca sussistenza dei requisiti richiesti.
[6]
Si osserva, infine, come 'la disciplina delle incompatibilità si pone quale inderogabile limite di ordine pubblico a rispetto della volontà elettorale, rispondendo alla fondamentale esigenza dell'Ordinamento democratico a che siano evitate situazioni, anche potenziali, di conflitto di interesse, ovvero indebite sovrapposizioni fra ruoli istituzionali distinti, discendendone quale conseguenza, in caso di mancata tempestiva rimozione della causa, la -definitiva- decadenza dal pubblico ufficio'.
[7]
Anche in considerazione della indicata ratio sottesa all'istituto delle incompatibilità la deliberazione di cui all'articolo 69 TUEL, oltre ad essere adottata d'ufficio, può essere promossa, altresì, su istanza di qualsiasi elettore (articolo 69, comma 7, D.Lgs. 267/2000). Inoltre, la decadenza dalla carica di consigliere comunale per incompatibilità può essere promossa attraverso l'azione popolare di cui all'articolo 70, comma 1, TUEL, il quale recita: 'La decadenza dalla carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale può essere promossa in prima istanza da qualsiasi cittadino elettore del comune, o da chiunque altro vi abbia interesse davanti al tribunale civile'.
---------------
[1] Al riguardo, si precisa che le associazioni di volontariato possono assumere lavoratori dipendenti (articolo 3, comma 4, della legge 11.08.1991, n. 266), ma non potrebbero essere tali i volontari aderenti all'associazione (articolo 2, comma 3, legge 266/1991).
[2] Tendenzialmente rientrano tra i compiti del segretario dell'associazione l'estensione, la sottoscrizione e l'eventuale custodia dei verbali dell'Assemblea dei soci; la tenuta aggiornata del libro soci e di altri eventuali registri dell'associazione.
[3] Tendenzialmente è compito del tesoriere tenere, controllare e aggiornare i libri contabili, conservando la documentazione che ad essi sottende, curare la gestione della cassa dell'associazione, predisporre i bilanci.
[4] Per completezza espositiva, si segnala che, per il verificarsi della causa di incompatibilità in riferimento è richiesto che il dipendente abbia poteri di rappresentanza o, in alternativa, di coordinamento. Ratio della norma è evitare che l'amministratore rivesta, al contempo, il ruolo di controllore e di controllato del proprio operato. Significativa, al riguardo, è la sentenza della Cassazione civile, sez. I, del 20.11.2004, n. 21942.
Potrebbe, altresì, verificarsi il caso che siano nominati segretario e/o tesoriere alcuni componenti del consiglio direttivo dell'associazione. In tal caso, atteso che gli stessi rivestirebbero, nel contempo, il ruolo di membro del direttivo, valgono le considerazioni che saranno espresse nel prosieguo in relazione a tale figura.
[5] Recita l'articolo 69 TUEL: '1. Quando successivamente alla elezione si verifichi qualcuna delle condizioni previste dal presente capo come causa di ineleggibilità ovvero esista al momento della elezione o si verifichi successivamente qualcuna delle condizioni di incompatibilità previste dal presente capo il consiglio di cui l'interessato fa parte gliela contesta. 2. L'amministratore locale ha dieci giorni di tempo per formulare osservazioni o per eliminare le cause di ineleggibilità sopravvenute o di incompatibilità. 3. Nel caso in cui venga proposta azione di accertamento in sede giurisdizionale ai sensi del successivo articolo 70, il termine di dieci giorni previsto dal comma 2 decorre dalla data di notificazione del ricorso. 4. Entro i 10 giorni successivi alla scadenza del termine di cui al comma 2 il consiglio delibera definitivamente e, ove ritenga sussistente la causa di ineleggibilità o di incompatibilità, invita l'amministratore a rimuoverla o ad esprimere, se del caso, la opzione per la carica che intende conservare. 5. Qualora l'amministratore non vi provveda entro i successivi 10 giorni il consiglio lo dichiara decaduto. Contro la deliberazione adottata è ammesso ricorso giurisdizionale al tribunale competente per territorio. 6. La deliberazione deve essere, nel giorno successivo, depositata nella segreteria del consiglio e notificata, entro i cinque giorni successivi, a colui che è stato dichiarato decaduto. 7. Le deliberazioni di cui al presente articolo sono adottate di ufficio o su istanza di qualsiasi elettore'.
[6] Interessante, al riguardo, è il parere dell'ANCI, del 1 aprile 2010, ove si afferma che: «appare evidente che il consiglio comunale assumerà la propria decisione in base alle conclusioni conseguenti agli accertamenti effettuati: nel caso di accertamento della sussistenza della causa di incompatibilità, dovrebbe essere tenuto a dichiararla e provvedere ad invitare il sindaco a 'rimuovere la causa od optare per la carica che intende conservare'. [...] ove, invece, il consiglio comunale avesse ritenuto non esistente (non possiamo individuare astrattamente con quali motivazioni) la causa di incompatibilità, avrebbe dovuto deciderlo nella precedente fase deliberativa, rigettando la proposta».
[7] TAR Lazio Roma, sezione II, sentenza del 23.02.2015, n. 1443
(28.04.2015 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Scomputo del costo di costruzione.
DOMANDA:
Questa Amministrazione Comunale deve procedere all’adozione di un Programma Integrato di Intervento conforme alle disposizione del Piano di Governo del Territorio.
Il P.I.I. in questione prevede, quale standard qualitativo, la realizzazione di alcuni posti auto interrati pubblici, con relative strutture e rampa di accesso, il cui valore complessivo desunto dal computo metrico estimativo allegato è stimato in € 387.864,65.
Contestualmente l’operatore ha proposto di scomputare da tale importo gli oneri di urbanizzazione primaria e gli oneri di urbanizzazione secondaria, il cui importo è di circa 36.396,00 € in virtù della realizzazione diretta dell’opera pubblica suddetta. A ciò si aggiunge un’ulteriore richiesta da parte dell’operatore volta allo scomputo del Costo di Costruzione per un importo indicativo di 70.000 €.
Ciò posto si chiede un parere sulla legittimità della richiesta di scomputo del costo di costruzione, in virtù delle opere eseguite dal proponente il P.I.I. e dello standard qualitativo proposto.
RISPOSTA:
La lett. g) del comma 1 dell’art. 32 del codice dei contratti pubblici prevede che “i lavori pubblici da realizzarsi da parte dei soggetti privati, titolari di permesso di costruire, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dell'articolo 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150. L'amministrazione che rilascia il permesso di costruire può prevedere che, in relazione alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, l'avente diritto a richiedere il permesso di costruire presenti all'amministrazione stessa, in sede di richiesta del permesso di costruire, un progetto preliminare delle opere da eseguire, con l'indicazione del tempo massimo in cui devono essere completate, allegando lo schema del relativo contratto di appalto. L'amministrazione, sulla base del progetto preliminare, indice una gara con le modalità previste dall'articolo 55. Oggetto del contratto, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, sono la progettazione esecutiva e le esecuzioni di lavori. L'offerta relativa al prezzo indica distintamente il corrispettivo richiesto per la progettazione definitiva ed esecutiva, per l'esecuzione dei lavori e per gli oneri di sicurezza”.
A sua volta il comma 2 del cit. art. 16 dispone che “la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
Infine il comma 5 dell’art. 28 della n. 1150/1942 stabilisce che “L'autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda:
1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata l'esecuzione delle opere di cui al precedente paragrafo;
4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione
”.
Le normative vigenti prevedono e consentono dunque lo scomputo solo in relazione alla parte di contributo relativa alle opere di urbanizzazione e non anche alla parte afferente al cd. costo di costruzione.
Trattandosi peraltro di due componenti diverse del contributo (come affermato anche dall’ANAC con il parere AG 32/2011 il contributo consiste di due parti: “una parte, di natura contributiva, afferente alle spese per l’urbanizzazione del territorio, che costituisce una modalità di concorso del privato costruttore agli oneri sociali derivanti dall’incremento del carico urbanistico; una parte, di natura impositiva, che deriva dall’aumento della capacità contributiva del titolare dell’opera, in ragione dell’aumento del proprio patrimonio immobiliare”.
Anche la giurisprudenza ha più volte chiarito del resto che “il contributo sul costo di costruzione consiste in una prestazione patrimoniale ascrivibile alla categoria dei tributi locali, in quanto il prelievo non si basa, come nel caso degli oneri di urbanizzazione, sui costi collettivi derivanti dall’insediamento di un nuovo edificio ma sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato dall’intervento edilizio” (TAR Lombardia, Brescia, II, 25.03.2011, n. 469).
Diversamente gli oneri di urbanizzazione sono considerati “corrispettivi di diritto pubblico” (Tar Reggio Calabria, I, 06.04.2011, n. 260) e sono dovuti in ragione dell’obbligo del privato di partecipare ai costi delle opere di trasformazione del territorio (Cons. Stato, V, 23.01.2006, n. 159), si è dell’avviso che lo scomputo sia ammissibile solo in relazione al valore relativo alla parte concernente gli oneri di urbanizzazione (esclusivo riferimento a tali oneri è contenuto inoltre anche all’art. 45 della LR Lombardia n. 12/2005) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI: Il fascicolo di gara virtuale.
DOMANDA:
Si chiede se alla luce delle recenti disposizioni dettate dalla AVCPAS, si ha l'obbligo di chiedere agli operatori economici il PASSOE tra i documenti amministrativi da esibire trattandosi di gara con importo al di sotto dei 40.000 euro.
Ove e qualora previsto tale requisito, la stazione appaltante lo deve indicare nel bando o nella lettera di invito in caso di procedura ristretta?
RISPOSTA:
L'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, con deliberazione n. 111 del 20.12.2012, ha stabilito che a partire dal 01.01.2014 (scadenza poi prorogata al 01.07.2014) è obbligatorio -per le imprese che intendono partecipare alle gare di appalto di importo pari o superiore ad € 40.000,00- inserire nella busta contenente la documentazione di offerta il cosiddetto PASSOE, ovvero il documento (contenente un codice numerico e a barre) che attesta che l’Operatore Economico ha creato uno specifico fascicolo di gara virtuale, contenente tutti i documenti comprovanti i requisiti dichiarati, che potrà essere oggetto di verifica da parte della stazione appaltante, e in cui l’operatore economico potrà eventualmente “caricare” gli ulteriori documenti mancanti o utili (per esempio, i certificati di buona esecuzione di soggetti privati).
In una procedura di importo inferiore ai 40.000 euro il Passoe non è pertanto richiesto (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGO: In caso di assunzione a tempo indeterminato full-time di Architetti può permanere l’iscrizione al relativo Albo che non prevede una sezione speciale per i dipendenti pubblici? L’eventuale onere è a carico dell’Ente?
Nel caso, invece, di assunzione con contratto a tempo determinato full-time di Architetti, questi devono provvedere alla segnalazione all’Ordine dell’assunzione presso la Pubblica Amm.ne? Tale assunzione determina la sospensione dell’iscrizione all’Albo e del pagamento del relativo onere?
In caso non avvenga tale segnalazione, il dipendente può rimanerVi iscritto ed a quale condizioni?

In ordine all’assunzione a tempo determinato full-time di Ingegneri, Geologi, Geometri la normativa prevede che a richiesta possono essere iscritti nell’elenco speciale dei relativi albi.
Tale richiesta deve essere effettuata dall’Amministrazione o dal dipendente ed il relativo onere è posto a carico dell’Amministrazione?
Nel caso non venga richiesta tale iscrizione nell’elenco speciale il dipendente può rimanere iscritto all’albo ed a quali condizioni?

Risposta
E’ incompatibile con la qualità di dipendente comunale con rapporto orario superiore al 50% dell’orario di lavoro a tempo pieno, l’iscrizione ad albi professionali, qualora le specifiche disposizioni di legge richiedano quale presupposto all’iscrizione, l’esercizio di attività libero professionale.
Può accadere che (caso del quesito) la relativa legge professionale consenta comunque al pubblico dipendente l’iscrizione in speciali elenchi (es. Avvocati impiegati presso i Servizi legali), in albi professionali (es. Ingegneri Architetti Geometri ecc.) o qualora l’iscrizione rientri in un interesse specifico dell’Amministrazione, ma resta fermo il divieto di esercitare attività libero professionale (fatti salvi i casi di specifica autorizzazione dell’ente di appartenenza).
La stragrande maggioranza dei Consigli degli Ordini territorialmente competenti ha già da tempo approvato apposite norme del tipo: “I Colleghi che svolgono funzione di Tecnico Comunale con contratti di tipo professionale sono tenuti: a) a segnalare all'Ordine di appartenenza, entro 30 giorni, l'avvenuto conferimento dell'incarico, e contestualmente l'eventuale quantità di incarichi in corso presso il Comune stesso, con elenco dettagliato; b) a non assumere per tutta la durata del contratto alcun tipo di incarico professionale da privati nell'ambito del territorio Comunale; c) a rispettare le compatibilità che contraddistinguono il medesimo ruolo come pubblico dipendente” (Ordine degli Architetti di Milano).
In ordine alla seconda domanda:
per il dipendente con contratto di lavoro part-time, trattandosi di eventualità di usufruire dell’iscrizione all’albo per svolgere attività libero professionale, e quindi a favore di soggetti diversi dall’ente pubblico datore di lavoro, è consentito affermare che il relativo costo non possa gravare su questo ultimo.
Per il dipendente con contratto a tempo pieno, la risposta in termini pressoché analoghi alla precedente, richiede una maggiore articolazione.
In primis, se lo svolgimento delle mansioni a favore dell'Ente pubblico non richiede l’obbligo di iscrizione all'Albo, il dipendente che decida di farlo in base ad autonome valutazioni, è tenuto ad assumere interamente l'onere del versamento della quota di iscrizione, senza che l’ente di appartenenza, datore di lavoro, possa considerarsi in dovere di sostituirsi al primo.
E’ da considerare una eccezione il caso del dipendente avvocato iscritto nell’albo speciale annesso all’albo degli avvocati, relativamente al quale la giurisprudenza ha affermato che: “in mancanza di una norma che disciplini la materia, e facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, che le spese sostenute dal dipendente nell’esclusivo interesse del proprio datore di lavoro devono essere sopportate dal datore” (Vedi Corte d’appello di Torino, Sentenza n. 338/2003)
Il nostro ordinamento (compresi i CCNL di categoria), infatti, appare pervaso da un principio generale che vieta di porre a carico degli enti pubblici oneri non previsti e che possono contribuire ad aggravare la situazione finanziaria degli stessi enti. Tra tali oneri deve essere compresa la tassa di iscrizione a un albo professionale.
Anche la Corte dei Conti (alcuni recentissimi pareri extragiudiziari) è partita dal principio che debba essere cura del soggetto, assunto per ricoprire all’interno dell’ente un ruolo che richiede la suddetta iscrizione, farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito che ha costituito condicio sine qua non della sua assunzione, tra i quali rientra sicuramente il pagamento della tassa annuale.
In vero c’è da dire che a sostegno di tali tesi, concorrono anche i principi generali contenuti nel D.Lgs. n. 165/2001 (vedasi l’art. 1, la dove sancisce che: “si deve contenere la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica”, ed anche l’art. 2 che: “l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e, alle condizioni previste, mediante contratti individuali”).
Qualcuno ha ritenuto addirittura di invocare l’art. 12 della legge 241 del 1990, secondo il quale: “la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ad alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”.
Un esame completo dello scenario presente, ci porta anche a registrare che molti enti, in sede di regolamentazione comunale (o provinciale) sulla “Ripartizione del fondo destinato agli incentivi di cui all’art. 18 della Legge Merloni e s.m.i.", hanno creduto di poter inserire in tale fonte normativa locale, delle norme del tipo: ”In caso di avvenuto espletamento di prestazioni contemplate nel presente regolamento che richiedano l’iscrizione ad un dato Albo Professionale, il relativo onere di iscrizione compete all’Amministrazione Comunale, che provvederà a rimborsarlo ai dipendenti che hanno sostenuto la spesa, previa presentazione della ricevuta di versamento”.
Va segnalato, infine, che i tecnici dipendenti pubblici non potranno, però, svolgere prestazioni professionali all'esterno della propria amministrazione, pur se autorizzati (art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001), se non iscritti agli albi professionali.
L’iscrizione all’Albo è infatti obbligatoria per l’esercizio della libera professione (Legge n. 897 del 25/04/1938) e, per l’apertura della Partita Iva viene rilasciato il numero di iscrizione che compare sul timbro necessario alla firma dei progetti.
In tale quadro l’iscrizione costituisce una scelta del dipendente, facendone discendere conseguentemente che il relativo pagamento è sicuramente a suo carico (29.01.2007 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: In arrivo il nuovo certificato energetico. La documentazione. Alle ultime battute la revisione dell’attestato di prestazione: nei calcoli anche il «peso» della climatizzazione estiva.
Il certificato di prestazione energetica, necessario per chi deve presentare all’Enea la documentazione per chiedere le detrazioni fiscali del 65%, sta per cambiare. Per effetto di due provvedimenti, che sono prossimi ad entrare in vigore: il nuovo decreto che detta i requisiti minimi degli edifici (fissa cioè le metodologie di calcolo della prestazione energetica) e le linee guida per la redazione dell’Ape (attestato di prestazione energetica) , che ad oggi viene ancora compilato come fosse un vecchio attestato di certificazione energetica, pur avendo cambiato nome da mesi. Il provvedimento, dopo le ultime limature, attende la firma del Ministro.
Per i requisiti minimi, la novità più rilevante è la modalità di verifica delle prescrizioni di legge, che utilizza l’edificio di riferimento. Ogni fabbricato verrà confrontato, per stabilirne i requisiti, con un immobile con più impianti identico in termini di geometria (sagoma, volumi, superficie calpestabile, superfici degli elementi costruttivi e dei componenti) orientamento, ubicazione, destinazione d’uso e situazione al contorno e avente caratteristiche termiche e parametri energetici predeterminati. Nell’atto, sono inoltre contenuti elementi che riguardano gli impianti tecnologici di riscaldamento e condizionamento al servizio di questi edifici, visto che il provvedimento sostituirà completamente il Dpr 59/2009.
Sul fronte dell’Ape -il cui decreto è ancora all’esame della conferenza Stato Regioni- sarà invece abbandonata la strada del “federalismo energetico” per arrivare a compilare di un modello di targa unica a livello nazionale. Le Regioni avranno due anni per adeguarsi, ma già si stanno attrezzando: il sistema delle classi -dopo anni di differenze regionali- tornerà unico.
Nelle future targhe, la prestazione energetica sarà espressa in termini di energia primaria non rinnovabile e la classe energetica sarà determinata non più secondo il parametro dell’Epi limite, bensì in funzione del rapporto fra la prestazione energetica dell’edificio e quella dell’edificio di riferimento prevista per gli anni 2019-2021. Le classi saranno dieci: dalla migliore (A4) alla peggiore (G).
L’Ape esaminerà la prestazione energetica dell’edificio per la climatizzazione estiva, oltre che per quella invernale. Per gli immobili terziari sarà preso in considerazione anche il fabbisogno di energia per l’illuminazione e quello per il funzionamento di scale mobili ed ascensori (non appena sarà approvata la parte sesta delle norme Uni 11300). L’attestato, oltre alla prestazione energetica globale, riporterà informazioni specifiche sulle prestazioni energetiche parziali, comprese quelle dell’involucro edilizio. Per facilitare la lettura agli utenti saranno utilizzati gli emoticon.
Infine, sarà indicata nell’attestato anche la classe energetica più elevata raggiungibile se si realizzano una serie di misure correttive e migliorative indicate nell’Ape stesso e sarà istituita una banca dati nazionale degli attestati, per la raccolta aggregata di dati relativi agli Ape rilasciati, agli impianti termici e ai relativi controlli e ispezioni effettuati
 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAAziende in crisi, Durc concesso. Rilasciato anche in fase di concordato con continuità.
Anche l'impresa in crisi ha diritto al rilascio del Durc. Se è in fase di concordato preventivo con continuità dell'attività lavorativa, infatti, può ottenere il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (Durc) a patto che il piano concordatario preveda, entro 12 mesi, l'integrale assolvimento dei debiti previdenziali e assistenziali. Il rilascio può avvenire sin dal momento della pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese, senza dover attendere il (lungo termine di) perfezionamento della procedura di omologa.
La novità, prevista dal ministero del lavoro nella nota prot. 6666 del 21.04.2015, è illustrata dall'Inps nel messaggio n. 2835/2015.
La regolarità contributiva. Per regolarità contributiva s'intende la correttezza di un'impresa in tutti i pagamenti e gli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps, Inail per tutte le imprese; Inps, Inail e casse edili per le imprese operanti nel settore edile e lapideo) in relazione agli obblighi previsti dalla normativa riferiti all'intera situazione aziendale.
Il Durc è il certificato attestante tale regolarità: è «unico» perché rispetto al passato, quando era necessario fare tre richieste e ottenere altrettante certificazioni di regolarità (una per ciascuno degli enti: Inps, Inail e casse edili), con il Durc le imprese (e i consulenti) fanno un'unica richiesta e ottengono un unico certificato, peraltro in versione telematica e in un numero più limitato di ipotesi.
Il Durc deve essere richiesto per:
- tutti i contratti pubblici (per ogni fase: verifica dichiarazione sostitutiva, aggiudicazione del contratto, stipula contratto, pagamento degli stati d'avanzamento lavori o prestazioni relative a servizi o forniture, certificato collaudo o regolare esecuzione o verifica conformità, attestazione di regolare esecuzione e pagamento del saldo finale e rilascio delle concessioni per la realizzazione di opere pubbliche e gli affidamenti con procedura negoziata);
- la gestione di servizi e attività pubbliche in convenzione o concessione; i lavori privati soggetti al rilascio della concessione edilizia o alla denuncia inizio attività (Dia);
- la fruizione di benefici normativi e contributivi concessi da enti o pubbliche amministrazioni diversi da Inps e Inail; il rilascio dell'attestazione Società organismi di attestazione (Soa);
- l'iscrizione all'Albo dei fornitori; finanziamenti e sovvenzioni per realizzare investimenti previsti dalla normativa comunitaria o da normative specifiche;
- la valutazione dei lavori pubblici per i quali il committente non è tenuto all'applicazione del Codice e del Regolamento (lavori pubblici seguiti in proprio e non su committenza e opere pubbliche di edilizia abitativa);
- l'attestazione di qualificazione dei contraenti generali.
La validità. Il Durc va richiesto e recapitato esclusivamente tramite Pec (posta elettronica certificato) agli indirizzi indicati dagli utenti nel modulo telematico di richiesta (su internet all'indirizzo http://www.sportellounicoprevdenziale.it/).
La validità è fissata a 120 giorni per tutti i tipi di certificati (contratti, appalti, benefici, ecc.), con un'unica eccezione: i lavori edili tra soggetti privati. In tal caso, infatti, la validità di 120 giorni è rimasta per i certificati emessi entro il 31.12.2014; per quelli emessi dal 01.01.2015 è scesa invece a 90 giorni (si veda tabella).
Se l'azienda è in crisi. Il consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere del ministero del lavoro in materia di requisiti necessari ai fini del rilascio del Durc nel caso di imprese in concordato preventivo con continuità dell'attività lavorativa (in base all'articolo 186-bis della Legge fallimentare (rd n. 267/1942).
In particolare, i consulenti hanno chiesto di sapere se sia possibile ottenere l'attestazione della regolarità contributiva nell'ipotesi in cui l'impresa sia sottoposta a una procedura di concordato preventivo, nella modalità di continuazione dell'attività aziendale, in virtù di un piano, omologato dal competente Tribunale, che prevede l'integrale soddisfazione delle situazioni debitorie previdenziali e assistenziali, sorte precedentemente al deposito della domanda di ammissione alla procedura medesima.
Il Durc «condizionato». Nel rispondere a un quesito inerente alla possibilità di ottenere il Durc da parte di un'impresa in crisi, il ministero del lavoro ha risposto affermativamente, muovendo dalle disposizioni che disciplinano l'istituto del «concordato preventivo con continuazione dell'attività aziendale» (di cui agli artt. 161 e seguenti della Legge fallimentare, alla luce delle modifiche apportate dal dl n. 83/2012 convertito dalla legge n. 134/2012).
Innanzitutto, ha spiegato il ministero, emerge che la procedura concorsuale (concordato preventivo con la continuazione dell'attività), da un lato, risulta finalizzata al risanamento di imprese che versano in uno stato di crisi «non strutturale»; dall'altro, presupponendo la prosecuzione dell'attività aziendale, essa si incentra necessariamente su di un piano, che viene validato da un professionista e omologato dal competente Tribunale, mediante il quale l'azienda «si accorda» con i creditori riguardo alle tempistiche e alle modalità di pagamento dei debiti, sorti precedentemente alla presentazione della domanda di concordato.
Nello specifico, l'art. 186-bis della Legge fallimentare dispone che il piano concordatario può prevedere una moratoria fino a un anno dall'omologazione del Tribunale per il pagamento dei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca, tra i quali sono ricompresi dunque i contributi previdenziali e assistenziali.
Si prevede inoltre che:
• i contratti in corso di esecuzione alla data del deposito del ricorso, tra i quali anche quelli stipulati con le pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell'apertura della procedura;
• l'ammissione al concordato preventivo non impedisce la continuazione dei contratti pubblici sottoscritti, nella misura in cui il professionista designato ne abbia attestato la conformità al piano, unitamente alla ragionevole capacità di adempimento dell'azienda debitrice.
L'ammissione alla procedura comporta per la compagine aziendale interessata, pertanto, la sospensione ex lege delle situazioni debitorie sorte antecedentemente al deposito della relativa domanda e la conseguente preclusione delle azioni esecutive dei creditori.
È proprio alla luce di tale disciplina, ha argomentato il ministero del lavoro, che la fattispecie del «concordato preventivo con continuazione dell'attività aziendale» sembrerebbe rientrare nel campo di applicazione della disciplina del Durc (nello specifico nell'art. 5 del dm 24.10.2007, recante l'elencazione dei requisiti utili per il rilascio di un Durc ovvero delle condizioni in presenza delle quali l'Istituto previdenziale attesta la correntezza nei pagamenti e negli adempimenti contributivi). In particolare, sembrerebbe rientrare nella norma (comma 2, lett. b del citato art. 5) secondo il quale «la regolarità contributiva sussiste inoltre in caso di sospensione di pagamento a seguito di disposizioni legislative».
---------------
Soddisfazione dei crediti indispensabile.
Insomma, il ministero ha acconsentito alla possibilità del rilascio della regolarità contributiva per l'impresa ammessa al concordato preventivo con continuazione dell'attività (ex art. 186-bis della Legge fallimentare) qualora il piano, omologato dal Tribunale, contempli l'integrale assolvimento dei debiti previdenziali e assistenziali contratti prima dell'attivazione della procedura concorsuale e sia espressamente prevista la c.d. moratoria (ex art. 186-bis, comma 2, lett. c, della Legge fallimentare) per un periodo non superiore a un anno dall'omologazione.
L'attuazione di tali indicazioni, tuttavia, non ha consentito di risolvere le situazioni di criticità per le imprese che, una volta presentata domanda di concordato preventivo con continuità aziendale, nelle more del perfezionamento della procedura di omologa, trovandosi nella impossibilità di adempiere agli obblighi contributivi sorti anteriormente al deposito della domanda di concordato (impossibilità dovuta al divieto previsto dall'art. 168 della Legge fallimentare), non possono ottenere il rilascio del Durc. Peraltro, nei confronti dell'impresa che abbia avviato un piano di risanamento finalizzato alla prosecuzione della propria attività, potrebbero prodursi ulteriori effetti pregiudizievoli a causa dei ritardi che la procedura di omologa sovente subisce nel corso del suo perfezionamento.
In ragione di tanto, il ministero ha ritenuto affrontare nuovamente la tematica, specificando, con nota prot. n. 666/2015 del 21 aprile, che la pubblicazione della domanda di concordato nel Registro delle Imprese già integri la fattispecie di cui all'art. 5, comma 2, lett. b, del dm 24.10.2007 in virtù del quale la regolarità contributiva può essere attestata in caso di sospensioni dei pagamenti a seguito di disposizioni legislative.
Ricorrendo quest'ipotesi, di conseguenza, è possibile rilasciare il Durc sempre che, trattandosi di concordato con continuità dell'attività aziendale (ex art. 186-bis), il piano contempli l'integrale soddisfazione dei crediti degli Istituti previdenziali e delle Casse edili, nonché dei relativi accessori di legge (articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015).

EDILIZIA PRIVATAFotovoltaico, procedure snelle. Modello unico per installare piccoli impianti sui tetti. Disco verde dell'Autorità per l'energia allo schema di decreto del Ministero dello sviluppo.
Basterà un modello unico semplificato per installare gli impianti fotovoltaici sui tetti sotto ai 20 kW. Il modello unico sarà costituito da due parti: la prima finalizzata alla comunicazione preliminare alla realizzazione dell'impianto fotovoltaico. La seconda servirà per la comunicazione di fine lavori. Per la realizzazione, la connessione e l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti basterà un modello unico.
Con il parere 16.04.2015 n. 172/2015, l'autorità per l'energia ha espresso parere favorevole sul decreto del ministero dello sviluppo economico contenente la semplificazione delle procedure.
Lo schema di decreto Mise sul modello unico per la realizzazione, connessione e l'esercizio di piccoli impianti Fv integrati su tetto degli edifici attua quanto disposto dal dlgs 28/2011, così come modificato dal decreto competitività (decreto-legge 24.06.2014, n. 91 convertito nella legge 11.08.2014 n. 116 ).
Ricordiamo che l'articolo 7-bis, comma 1, del dlgs 28/2011, ha previsto dal primo ottobre 2014 che l'installazione e l'esercizio delle unità di microcogenerazione può essere effettuata utilizzando il modello unico messo a disposizione dal ministero dello sviluppo economico.
Lo sviluppo economico per il momento ha elaborato il modello unico da utilizzare per i piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti degli edifici, rimandando gli altri casi a provvedimenti successivi.
Modello unico. Due le parti del modello unico proposto dal Mise: la prima finalizzata alla comunicazione preliminare alla realizzazione dell'impianto fotovoltaico, alla richiesta di connessione, alla comunicazione del codice Iban per l'addebito dei costi di connessione e l'accredito dei proventi che deriveranno dallo scambio sul posto, alle dichiarazioni di possedere tutti i requisiti necessari per accedere alle procedure semplificate e al conferimento (al gestore di rete) del mandato con rappresentanza per il caricamento dei dati sul sistema Gaudì.
La seconda finalizzata alla comunicazione di fine lavori di realizzazione dell'impianto di produzione, alla dichiarazione di corretta esecuzione dei lavori (nel rispetto delle diverse normative vigenti, come richiamate) e alla dichiarazione di avvenuta presa visione del format del regolamento d'esercizio e del contratto di scambio sul posto.
Impianti interessati. Si potrà usare il nuovo modello unico per gli impianti aventi le seguenti caratteristiche: realizzazione presso clienti finali già dotati di punti di prelievo attivi in bassa tensione; potenza non superiore a quella già disponibile in prelievo; potenza nominale non superiore a 20 kW; contestuale richiesta di accesso al regime dello scambio sul posto; realizzazione sui tetti degli edifici; assenza di ulteriori impianti di produzione sullo stesso punto di connessione.
Lo schema di decreto. Lo schema di decreto trasmesso dal ministero prevede anche che:
- nel caso in cui siano necessari, ai fini della connessione, esclusivamente lavori semplici limitati all'installazione del gruppo di misura, l'iter di connessione può essere avviato automaticamente, senza l'emissione del preventivo per la connessione da parte del medesimo gestore di rete. In tali casi, trova applicazione un solo corrispettivo standard inclusivo dei costi di connessione a carico del soggetto richiedente, come determinato dall'Autorità ed eventualmente suddiviso in due rate qualora superi 100 euro;
- nei casi che non rientrano nel precedente punto, devono trovare applicazione le tempistiche e le modalità già definite dall'Autorità in materia di connessioni;
- i gestori di rete devono aggiornare i propri portali informatici al fine di consentire l'attuazione delle modalità di trasmissione e lavorazione delle richieste inviate con il modello unico, entro 180 giorni dall'entrata in vigore del decreto stesso;
- l'Autorità vigila sull'attuazione del decreto stesso da parte dei gestori di rete e deve aggiornare i provvedimenti di propria competenza in materia di accesso al sistema elettrico entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del medesimo;
- i gestori di rete, previa approvazione da parte dell'Autorità, devono fornire al soggetto richiedente, anche tramite il proprio sito internet, un vademecum informativo che elenchi gli adempimenti cui è tenuto il soggetto richiedente durante la fase di esercizio dell'impianto e che indichi soggetti e riferimenti cui dovrà rivolgersi .
---------------
Il Consiglio di stato: doppia funzione per i moduli.
Doppia funzione per i moduli fotovoltaici: di copertura del fabbricato agricolo e di produzione di energia elettrica, secondo una logica di integrazione architettonica totale.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 05.03.2015 n. 1108.
L'articolo 14, 2° comma, del dm 05.05.2011 prevede che «gli impianti i cui moduli costituiscono elementi costruttivi di pergole, serre, barriere acustiche, tettoie e pensiline hanno diritto a una tariffa pari alla media aritmetica tra la tariffa spettante per impianti fotovoltaici realizzati su edifici e la tariffa spettante per altri impianti fotovoltaici».
Quindi per ottenere la tariffa maggiorata rispetto ad «altri impianti fotovoltaici» è necessario che, per le serre le pergole, le tettoie, i pannelli fotovoltaici «costituiscano» elemento costruttivo.
L'articolo 20, 5° comma, del dm 06.08.2010 prevede, al fine della qualificazione dell'impianto, specifiche modalità di copertura che debbono essere integralmente rispettate per poter beneficiare della maggiorazione di incentivo proposta e prevede che sia serra fotovoltaica quella nella quale «i moduli fotovoltaici costituiscono gli elementi costruttivi della copertura o delle pareti di manufatti adibiti, per tutta la durata dell'erogazione della tariffa incentivante, a serre dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura. La struttura della serra, in metallo, legno o muratura, deve essere fissa, ancorata al terreno e con chiusura eventualmente stagionalmente rimovibile».
I giudici del consiglio di stato evidenziano che la ratio della premialità maggiore è dovuta al fatto che le coperture delle serre siano affidate a moduli fotovoltaici che svolgano una doppia funzione e cioè di copertura del fabbricato agricolo e di produzione di energia elettrica, secondo una logica di integrazione architettonica totale in cui i pannelli fotovoltaici rappresentino parte imprescindibile della costruzione e, aggiunge, «si tratta di scelta di politica industriale insindacabile».
Nel caso in esame, la copertura del manufatto è costituita da una lamiera grecata, su cui poggiano i moduli fotovoltaici, i quali quindi non coprono il manufatto, ma sono collocati al di sopra della effettiva copertura, costituita invece da una lamiera grecata, che peraltro non avvolgono per la intera superficie.
Da un lato è evidente, osserva Palazzo Spada, che le serre fotovoltaiche devono essere dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura per tutta la durata dell'erogazione della tariffa incentivante (come prevede l'art. 20, comma 5, del dm 06.08.2010); dall'altro lato, tuttavia, tale destinazione scontata non è sufficiente a giustificare la maggiorazione della tariffa, che la normativa, evidentemente, intende attribuire solo quando i moduli fotovoltaici a copertura della serra, oltre che consentire l'attività agricola o di coltivazione, costituiscano elemento costruttivo della copertura o delle pareti del manufatto, cosa che non si verifica se la copertura è data dalle lamiere.
In conclusione, per i giudici del consiglio di stato, appare non contestabile giudizialmente la scelta del «legislatore secondario» di prevedere una maggiorazione di tariffa per quelle installazioni di pannelli che svolgano una doppia funzione: di produzione di energia elettrica e di copertura di dette strutture edilizie «semplici»; funzione di copertura che, nel caso oggetto della sentenza, i pannelli non svolgono perché la vera copertura è assicurata dalla lamiera grecata.
Contenuti modello unico per installazione impianti fotovoltaici. Il modello dovrà contenere esclusivamente: dati anagrafici del proprietario (o di chi ne abbia titolo a presentare la comunicazione, l'indirizzo dell'immobile e descrizione sommaria dell'intervento, la dichiarazione del proprietario di essere in possesso della documentazione di conformità dell'intervento alla regola d'arte e alle normative di settore (rilasciata dal progettista) (articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus lavori, la mappa degli incroci. Dalle finestre alle caldaie, dal tetto alle pareti gli interventi ammessi ai due diversi sconti.
Ristrutturazioni. Da gennaio 2016 (salvo proroghe) stop alla scelta: per ogni opera la detrazione scende al 36 per cento.
Per sfruttare l’opportunità, garantendosi il massimo del vantaggio possibile, c’è tempo poco più di sei mesi. Fino al 31.12.2015, l’aliquota ammessa per “scaricare” in dieci anni il costo degli interventi di ristrutturazione edilizia e di risparmio energetico è fissata, rispettivamente, al 50% e al 65% della spesa. Poi -salvo nuove dilazioni, concesse da Governo e Parlamento- si tornerà a un bonus unico al 36 per cento.
Utilizzare gli sconti fiscali conviene: moltissimi gli italiani che ne hanno già approfittato. Tuttavia, non è sempre facile orientarsi e capire quali siano gli interventi che possono godere del sostegno economico e quale la detrazione corretta da richiedere. Anche perché uno stesso intervento può in teoria beneficiare di diversi incentivi, ma in realtà il cumulo tra due benefici non e mai ammesso.
Le ristrutturazioni edilizie
È possibile portare in detrazione il 50% della spesa sostenuta (massimo 96mila euro),nel caso di lavori che comportino un’innovazione e rientrino nella categoria edilizia della manutenzione straordinaria. Di conseguenza, l’importo massimo detraibile è di 48mila euro, pari a 4.800 euro l’anno. Solo per fare qualche esempio di lavori ammessi, parliamo del rifacimento di una facciata, dell’installazione o la sostituzione dell’ascensore, della riparazione o la nuova costruzione di un box auto pertinenziale, della tinteggiatura esterna di un palazzo, con modifica di intonaco o colore, ma anche della sostituzione di infissi con modelli diversi.
Ci sono, tuttavia, una serie di interventi che –pur richiedendo un impegno anche economico rilevante– sono esclusi se eseguiti in una singola unità residenziale. È il caso del rifacimento di un bagno o di una cucina: la semplice ripavimentazione, la sostituzione dei sanitari sono classificati come interventi di manutenzione ordinaria e non bastano a garantire la detrazione. Che invece scatta se all’interno dell'unità viene creato o spostato un tramezzo o si sostituisce l’intero impianto idraulico.
Ma il principio generale è che i lavori di categoria “superiore” assorbono quelli di categoria inferiore: quindi se si sostituiscono pavimenti e sanitari del bagno (ordinaria) e, insieme, si sposta una parete e la porta cambiano il perimetro della stanza, tutto diventa manutenzione straordinaria e quindi si può detrarre l’intera spesa.
Il bonus al 65 per cento
La detrazione del 65% per il risparmio energetico si può utilizzare (con soglie diverse a seconda della tipologia di opere) per ciò che comporta un miglioramento delle prestazioni energetiche dell’immobile. Si va dalla sostituzione dei vecchi infissi all’installazione di pannelli solari termici, dal cambio di caldaia fino alla predisposizione di un cappotto termico e, da quest’anno, anche all’acquisto e alla posa di un sistema di schermatura solare, come una tapparella o una tenda da sole (si veda Il Sole 24 Ore dello scorso 20 aprile).
Non tutto, però, beneficia dello sconto massimo. Ad esempio, la sostituzione della caldaia con un impianto a condensazione non è ammessa, se non è prevista la contestuale installazione delle valvole termostatiche negli appartamenti. Chi cambia solo l’impianto deve allora optare per la detrazione Irpef del 50 per cento. Così anche non sono ammessi al 65% gli impianti a tecnologia mista o quelli che non rispondono a determinati requisiti prefissati dalla norma.
La procedura per ottenere il riconoscimento dell’ecobonus (detrazione Irpef per persone fisiche e Ires per persone giuridiche), inoltre, prevede un passaggio in più rispetto al 50%: entro 90 giorni dalla fine dei lavori occorre trasmettere all’Enea, in via telematica, copia dell’attestato di certificazione o qualificazione energetica e la scheda informativa degli interventi realizzati (si veda l’articolo in basso).
Per questo, spesso c’è chi –a parità di lavoro,e anche se potrebbe ottenere il 65%- sceglie la via del 50 per cento. Ad esempio, per la sostituzione degli infissi: se non si raggiungono le perfomance di isolamento maggiori o se si preferisce evitare la procedura per il 65% -peraltro eseguibile anche con un semplice fai-da-te online sul sito dell’Enea- si può ottenere lo sconto minore.
Il conto termico
Infine, i privati che devono sostituire un vecchio impianto con uno nuovo alimentato a fonte rinnovabile possono ricorrere al conto termico. Il meccanismo funziona con l’erogazione di un contributo diretto da parte del Gse, calcolato sulla spesa sostenuta: in genere per questi interventi è possibile recuperare circa il 40% dei costi, con rate costanti spalmate da due a cinque anni.
Tuttavia, forse perché poco conosciuta rispetto al meccanismo ormai collaudato della detrazione, questa possibilità è stata fino ad oggi poco utilizzata, tanto che ne è prevista una revisione
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIDelega Pa, ok ma ritocchi in vista. Alla Camera novità sui prefetti - Confindustria: passo importante, attuazione entro il 2015.
Al Senato. L’opposizione non vota, numero legale sul filo - Stretta su dirigenti Asl, tagli a partecipate e camere di commercio
Meno burocrazia, con dirigenti licenziabili e vincolati a incarichi quadriennali prorogabili di due anni per una sola volta. Più efficienza nel pubblico impiego con azioni disciplinari non più “congelabili” senza l’esclusione del licenziamento e con una stretta sulle assenze per malattia con l’attribuzione di poteri controllo all’Inps. Possibilità di “staffetta generazionale” ma solo in versione ultra-soft. Carta della cittadinanza digitale con la nascita di un nuovo dirigente hi-tech. Riorganizzazione della macchina statale con il taglio di Prefetture e la fusione del Corpo forestale dello Stato in una sola altra forza di Polizia. Potatura delle partecipate e della Camere di commercio. Più poteri al premier sulle Agenzie fiscale e sulle nomine dei manager. Nuove regole sui servizi pubblici locali e delega per riforma gli enti di ricerca.

Sono queste le tessere chiave del mosaico della delega Pa (ddl Atto Senato n. 1577) così come ridisegnato, al termine di un ampio restyling, dal Senato. Che ieri, dopo quasi otto mesi di lenta navigazione, ha dato il suo disco verde al testo. Non senza un ulteriore attimo di suspance: il raggiungimento per un solo voto del numero legale in Aula dopo che l’opposizione aveva deciso di disertare la votazione tentando uno sgambetto alla maggioranza.
I sì sono stati 144 con un astenuto. Il Ddl, che prevede anche una fase transitoria triennale prima della soppressione della figura dei segretari comunali, un documento unico per la proprietà e la circolazione dei veicoli e la ghigliottina sui decreti attuativi (non legislativi) considerati superflui, passa ora alla Camera dove sarà nuovamente modificato. Con conseguente ulteriore passaggio al Senato per il sì definitivo e per dare ufficialmente il via alla fase attuativa con il varo dei decreti legislativi.
La conferma arriva dal ministro della Pa, Marianna Madia: «Vado alla Camera con l’intento di migliorare ancora» una riforma «importante che riguarda 60 milioni di cittadini». Il ministro assicura: «Vogliamo valorizzare e non svilire la figura del Prefetto, visto anche il loro ruolo nella gestione dell’Immigrazione». E annuncia ritocchi alla Camera confermati dal ministro Angelino Alfano. Il relatore al Senato, Giorgio Pagliari (Pd) si dichiara soddisfatto per il lavoro fatto che rafforza la riforma anche in chiave trasparenza.
Per Confindustria «l’approvazione in prima lettura al Senato del Ddl di riforma della pubblica amministrazione rappresenta un passo importante per realizzare in Italia un sistema amministrativo efficiente e moderno». Confindustria sottolinea che il provvedimento «delinea infatti un programma organico di interventi», affrontando alcuni «temi cruciali»: dalla conferenza dei servizi alla dirigenza pubblica e alle partecipate.
«Si tratta di aspetti strettamente connessi all’esercizio dell’attività d’impresa, fattori di contesto indispensabili per il rilancio della crescita e l’attrazione di investimenti esteri -sostiene Confindustria che auspica che- la Camera approvi il Ddl in tempi rapidi e che il Governo porti a termine con altrettanta celerità il percorso dei decreti attuativi dando seguito al proposito dichiarato anche nel recente Def di chiudere il percorso della riforma entro la fine del 2015».
Positivo il giudizio del presidente della Autorità nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone: «La riforma della Pa è certamente fondamentale». Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin definisce «una vera e propria rivoluzione per la sanità italiana» le norme che vincolano al superamento di un concorso nazionale la nomina dei direttori generali delle Asl e prevedono la loro decadenza in caso di malagestione. Ma Cgil, Cisl e Uil annunciano battaglia: «ridicolo chiamarla riforma, staffetta truffa e dirigenti ricattabili».
Quanto ai nuovi ritocchi alla Camera, la partita potrebbe riaprirsi anche su Camere di commercio, segretari comunali, Corpo forestale, partecipate e dirigenza
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.05.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIPrimo sì per la riforma Madia. Incarichi a termine per i dirigenti. Aboliti i segretari. DDL P.A./ Ok del senato. Il provvedimento passa subito alla camera. Si riparte il 12/5.
Primo sì per il disegno di legge delega di riforma della p.a.
(ddl Atto Senato n. 1577). Con 144 sì e un astenuto, il senato, dopo otto mesi di stop and go, ha approvato in prima lettura il ddl Madia, in un'aula praticamente monocolore visto che le opposizioni (M5S, Lega, Sel, Forza Italia e Gal) non hanno partecipato al voto nell'obiettivo (quasi riuscito) di far saltare il numero legale.
Il provvedimento, collegato alla manovra finanziaria, prevede misure che spaziano dalla riforma della dirigenza pubblica (per cui viene introdotto il ruolo unico, la durata a termine degli incarichi e la licenziabilità) alle sanzioni per gli statali, dai poteri del premier al riordino delle partecipate, passando per il taglio delle prefetture e la razionalizzazione delle camere di commercio (si veda il riepilogo delle novità nella tabella in pagina). Tra le disposizioni più discusse, una, inserita in commissione al senato, che consente all'esecutivo di modificare o abrogare norme di «provvedimenti non legislativi di attuazione», quali dpcm e decreti ministeriali. Per le opposizioni si tratta di una «delega in bianco» e per questo la norma è stata duramente contestata al momento del voto.
Ora la palla passa alla camera che non si limiterà ad asseverare l'operato di palazzo Madama, ma, probabilmente, interverrà in modo incisivo sul testo. A lasciarlo intendere è stato proprio il ministro Marianna Madia. «Credo che un provvedimento così articolato e importante non possa non avere una discussione approfondita nei due rami del parlamento. Vado alla camera con l'intento di migliorarla ancora». A Montecitorio i lavori sul ddl si avvieranno in tempi brevi. Il ministro lo ha chiesto, intervenendo al Salone della giustizia, al presidente della commissione affari costituzionali della camera, Francesco Paolo Sisto, che ha promesso una calendarizzazione per la settimana del 12 maggio.
Uno dei tempi caldi alla camera sarà la razionalizzazione delle prefetture. «Saremo più espliciti e si capirà alla camera che questa figura il governo vuole valorizzarla» (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti a casa senza causa. Per la risoluzione del rapporto non serve motivazione. DDL P.A./ La riforma disconnette il licenziamento da uno specifico evento che lo giustifichi.
Per la dirigenza pubblica si introduce il licenziamento senza motivazione. L'effetto della legge delega approvata dal senato è disconnettere completamente la risoluzione del rapporto di lavoro da una specifica causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo che sia.

Il ddl Atto Senato n. 1577 del ministro Marianna Madia interviene, dunque, in maniera estremamente forte nella disciplina del rapporto di lavoro, eliminando la principale delle garanzie del lavoratore subordinato: la connessione del licenziamento a uno specifico evento, che lo giustifichi.
È ovviamente giusto e corretto che il dirigente pubblico incapace di ottenere i risultati previsti, oppure non in grado di dirigere con efficienza la struttura di propria competenza o non rispettoso della leale collaborazione con l'organo di governo possa essere licenziato, come del resto già oggi prevede l'articolo 21 del dlgs 165/2001.
Ma tale norma richiede pur sempre che la risoluzione del rapporto di lavoro si basi su una giustificazione, desunta prevalentemente dalla valutazione del dirigente.
Con l'entrata in vigore della legge delega e dei decreti attuativi, tutto questo non sarà più necessario. Infatti, per qualsiasi organo di governo non intenzionato a proseguire il rapporto di lavoro coi dirigenti sarà semplicissimo disfarsene. Basterà aspettare che scada la durata dell'incarico dirigenziale, non superiore a quattro anni, senza rinnovarlo (un rinnovo automatico senza procedura di selezione pubblica sarà possibile per soli ulteriori due anni).
A quel punto, il dirigente si ritroverà «restituito al ruolo unico», privo di incarico e con lo stipendio decurtato sostanzialmente della metà, con l'onere di cercare un nuovo incarico entro un periodo, che sarà fissato dai decreti delegati, pena appunto il licenziamento.
Il licenziamento, come si vede, non sarà legato da un evento soggettivo o oggettivo, ma da una semplicissima scelta dell'organo di governo, che non dovrà nemmeno motivare nulla, né fare riferimento agli esiti della valutazione. Essi, per altro, saranno sostanzialmente ininfluenti ai fini dell'incarico, anche se l'articolo 9 del ddl delega stabilisce che se ne debba tenere conto.
Poniamo che un dirigente abbia condotto la propria attività nei quattro anni di incarico in modo da ottenere valutazioni positive, ma che, tuttavia, non sia apertamente schierato con la parte politica dell'organo di governo. Scaduto l'incarico, l'organo di governo attiva la procedura selettiva prevista dal ddl e immaginiamo che riceva dalla Commissione nazionale per la gestione del ruolo unico competente la rosa di nomi da selezionare, nella quale sia compreso il curriculum del dirigente scaduto ed il curriculum di un altro dirigente, di provata e nota consonanza politica. Poiché le commissioni non comporranno graduatorie sulla base dei punteggi delle valutazioni, ma selezioneranno solo rose, nulla vieterà che la scelta totalmente discrezionale cada sul dirigente «amico», a scapito di quell'altro. Si completa così il quadro.
Del resto, il ddl delega non prevede nemmeno un diritto dei dirigenti di ruolo ad ottenere un incarico dirigenziale; al contrario, il testo parla espressamente di mera «possibilità» di essere incaricati.
Quindi, l'aver vinto il concorso per accedere ai ruoli unici della dirigenza non assicura alcuna continuità allo svolgimento dell'attività lavorativa: addirittura potrebbe darsi il paradosso di un vincitore di concorso pubblico per dirigente che acceda al ruolo unico senza mai ricevere alcun incarico, per essere licenziato subito dopo.
Il tutto è reso ancora più instabile dal permanere della possibilità per le amministrazione di reperire i dirigenti dall'esterno dei ruoli dirigenziali: è evidente che ogni posto coperto con soggetti esterni assunti con contratti a tempo determinato diminuisce le probabilità che un dirigente di ruolo possa ricevere un incarico, simmetricamente elevando le probabilità di licenziamento.
Quanto tutto questo sistema sia coerente con i principi di continuità amministrativa e divieto di precarizzazione della dirigenza evidenziati dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza 103/2007 sarà da verificare.
---------------
L'Opinione/1
Niente più incarichi a contratto.

La riforma della dirigenza pubblica rende inapplicabile il sistema degli incarichi a contratto a tempo determinato senza concorsi.
Nonostante il ddl delega ammetta espressamente che i dirigenti a contratto possano essere assunti, introducendo una parvenza di procedura selettiva, il nuovo sistema degli incarichi non si concilia con le previsioni contenute nell'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, norma posta a regolare gli incarichi dirigenziali a tempo determinato.
Infatti, il ddl delega nell'introdurre i tre ruoli unici (per la dirigenza statale, regionale e locale) di fatto elimina un diretto rapporto di lavoro tra dirigente ed ente presso il quale svolgerà l'incarico, un po' come avviene con i segretari comunali, che pur dipendenti dal ministero dell'interno, svolgono il rapporto di servizio con l'ente nel quale si insediano nella segreteria.
I ruoli unici, insomma, saranno simili a mega agenzie di somministrazione: le procedure selettive pubbliche, guidate delle commissioni nazionali, consentiranno l'invio dei dirigenti «in missione» presso gli enti che li incaricano. Dunque, si assiste a una scissione tra rapporto di lavoro del dirigente e ruoli della singola amministrazione incaricante, che non conduce più un rapporto di lavoro diretto col dirigente stesso.
È proprio questa scissione tra rapporto di lavoro e rapporto di servizio che rende inapplicabile, allora, l'articolo 19, comma 6, ai sensi del quale gli incarichi a tempo determinato ai dirigenti possono essere «conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'amministrazione».
Presupposto fondamentale per gli incarichi a contratto, dunque, è l'assenza nei ruoli dell'amministrazione conferente delle professionalità necessarie. Ma, col ddl delega nessuna amministrazione disporrà più di un proprio ruolo, visto che ci saranno solo i ruoli unici nazionali, per altro composti da migliaia e migliaia di dirigenti. Non sarà, dunque, più possibile giustificare la necessità di attivare un incarico a contratto con l'assenza di professionalità nell'ente. Occorrerebbe dimostrare l'assenza della professionalità addirittura all'interno delle decine di migliaia di dirigenti inseriti nei ruoli unici. Impresa, oggettivamente impossibile, anche perché la probabilità che nei ruoli non sia reperibile nemmeno un dirigente iscritto che disponga della professionalità ritenuta opportuna è sostanzialmente inesistente.
A meno che, dunque, non si modifichi radicalmente l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, giustificare gli incarichi a contratto in modo da attivarli legittimamente, per effetto della riforma della dirigenza risulterà molto difficile.
---------------
L'Opinione/2
Un cambio di passo per la p.a.

Dopo sette mesi di lavoro e il via libera del senato, ci avviciniamo al round finale dell'approvazione definitiva della riforma della pubblica amministrazione che inciderà profondamente sull'assetto della p.a. e rivoluzionerà la dirigenza pubblica introducendo delle modifiche sostanziali. Oggi un dirigente di prima fascia rimane tale, qualunque sia l'incarico che ricopra.
La legge Madia introduce il ruolo unico dei dirigenti, che non saranno più legati alle singole amministrazioni, e l'abolizione delle due fasce in cui attualmente sono divisi i dirigenti: incarico e retribuzione relativa saranno quindi assegnati di volta in volta al dirigente più adatto, dopo un interpello pubblico e un esame delle competenze, e questo incarico non potrà durare più di quattro anni con un solo rinnovo possibile di altri due anni.
Poi si rimetterà tutto in gioco e per restare dov'è il dirigente dovrà partecipare a un nuovo processo di selezione. Questo comporta una separazione dello status dall'incarico, che si assegnerà dopo un esame del curricolo, delle competenze, della carriera e dei risultati ottenuti. Perché le scelte non siano arbitrarie la legge prevede l'istituzione di una banca dati nella quale inserire il curriculum e un profilo professionale per ciascun dirigente, comprensivo delle valutazioni ottenute nei diversi incarichi ricoperti.
Un dirigente che dopo un certo lasso di tempo non viene scelto per nessun incarico entra in «disponibilità» e viene stimolato a passare al settore privato, favorendone la mobilità, altrimenti, dopo un congruo periodo decade dal ruolo unico. Si crea così un vero e proprio «mercato» della dirigenza pubblica dove poter selezionare, idealmente, i migliori e i più adatti per ciascun incarico, su una base oggettiva e trasparente. Viene inoltre favorita la mobilità tra amministrazioni, attualmente nulla, e la mobilità verso il privato sia in andata sia in ritorno.
Moltissimi sono gli oppositori di questa nuova riforma, soprattutto, come è ovvio, nell'amministrazione stessa. Ma oggi non si può più non tener conto di come lo stato attuale delle amministrazioni sia del tutto insoddisfacente sia dal punto dell'efficienza sia da quello dell'efficacia. E che quindi abbiamo bisogno quindi non solo di un aggiustamento, ma di un cambio deciso di passo. E poiché è impossibile che una qualsiasi organizzazione complessa possa riformare se stessa, è necessario spostarci fuori e assegnare la responsabilità del cambiamento e della sua guida a soggetti terzi e neutrali che si muovano con logiche oggettive di efficienza e di managerialità.
Non c'è nulla da inventare: basta guardare alle esperienze di molti dei paesi di common law che hanno istituito commissioni indipendenti che si occupano proprio dell'organizzazione del settore pubblico, degli incarichi ai dirigenti e della loro valutazione, dell'efficacia della loro azione in termini di impatto sulla vita del paese. Sarà questa la volta buona, a quasi vent'anni dalle riforme Bassanini?
Al Forum Pa 2015, dal 26 al 28 maggio, discuteremo anche di questo, con la speranza che il processo di modernizzazione e di innovazione non sia di nuovo bloccato (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIStatali, staffetta a costo zero. Part-time per assunzioni. Contributi a carico dei lavoratori. DDL P.A./ Oggi il voto finale. Tornano gli avanzamenti di carriera automatici per i dirigenti.
Una staffetta generazionale nella p.a. a costo zero per le casse dello stato. Gli enti pubblici potranno promuovere il ricambio di personale proponendo al dipendente prossimo alla pensione (a cui spetterà sempre l'ultima parola) di lavorare part-time con stipendio ridotto in modo da favorire nuove assunzioni. Ma saranno i pensionandi che hanno optato, volontariamente, per il part-time e il taglio di stipendio, a dover continuare a versare per l'intero i contributi previdenziali se vorranno evitare ripercussioni negative sulla pensione. Lo stato, infatti, non ci metterà un euro. I soldi pubblici risparmiati sulle retribuzioni andranno a finanziare nuove immissioni in ruolo, sempre però «nel rispetto della normativa vigente in materia di vincoli assunzionali» e senza «nuovi o maggiori oneri a carico degli enti previdenziali e delle amministrazioni pubbliche».

Con tutta questa impalcatura di paletti, incognite e condizioni, l'emendamento dei senatori del Gruppo per le autonomie (primo firmatario Hans Berger), già presentato senza fortuna in commissione (si veda ItaliaOggi del 14 e 19 marzo) è stato recepito nel ddl Madia
(ddl Atto Senato n. 1577) di riforma della p.a.
L'emendamento è passato in un testo molto edulcorato rispetto alla precedente versione (è scomparsa, per esempio, qualunque menzione al contratto di apprendistato, ma soprattutto il riferimento al versamento dei contributi previdenziali da parte delle amministrazioni statali) e con una esplicita clausola di neutralità finanziaria che gli è valso l'ok della commissione bilancio, ma anche forti critiche bipartisan e non solo da parte delle opposizioni. Emblematica la posizione di Maria Grazia Gatti (Pd), che ha osservato che «per realizzare un effettivo ricambio generazionale è necessario che lo stato ci metta qualcosa in termini di contribuzione previdenziale, altrimenti si tratta di un semplice part-time, per di più poco vantaggioso per il lavoratore».
Disco verde anche all'emendamento di Vincenzo Cuomo (Pd) che prevede una corsia preferenziale per assumere i 3 mila vincitori di concorso tuttora in attesa di essere assunti dalla p.a. (si veda ItaliaOggi del 28/4). La proposta di modifica, giunta ormai alla quarta riformulazione in modo da renderla più digeribile da parte della commissione bilancio, stabilisce «l'introduzione di norme transitorie finalizzate esclusivamente all'assunzione di vincitori di procedure selettive pubbliche» qualora vi siano graduatorie approvate e pubblicate alla data di entrata in vigore della legge delega. Nessuna speranza, dunque, per gli idonei che vedono sfumare anche un tentativo di proroga per cinque anni delle graduatorie richiesto, inutilmente, dalla senatrice del Movimento 5 Stelle, Serenella Fucksia.
Ieri l'aula di palazzo Madama si è fermata a un metro dal traguardo dell'approvazione del disegno di legge delega. Al momento di votare l'ultimo articolo (il 16) è venuto a mancare il numero legale e il presidente Piero Grasso ha deciso di rinviare a oggi il voto finale sul provvedimento che ha avuto al senato una gestazione di otto mesi, caratterizzata da repentine accelerazioni e bruschi dietrofront dell'ultim'ora.
Come quello sulla durata degli incarichi dirigenziali che passa da tre a quattro anni, con la possibilità di un solo rinnovo senza concorso per ulteriori due anni, mentre la versione originaria del ddl prevedeva la possibilità di una sola proroga per tre anni. A volere la modifica, un emendamento della senatrice Pd Linda Lanzillotta, riformulato dal relatore, che di fatto cambia il regime del «3+3» in «4+2», lasciando quindi immutato la durata massima (sei anni) degli incarichi senza concorso.
Viene meno, per effetto di un emendamento del relatore Giorgio Pagliari (Pd) anche un altro dei punti forti della riforma della dirigenza, quello dello stop agli avanzamenti di carriera automatici. Il riferimento al «superamento degli automatismi nel percorso di carriera» è stato infatti espunto dal ddl.
Cambiano casa i dirigenti delle camere di commercio. Per effetto di un emendamento del relatore, i manager degli enti camerali transitano dal ruolo unico dei dirigenti statali a quello dei dirigenti regionali.
Segretari comunali. Bocciata la richiesta di Sel e M5s di stralciare dal ddl la soppressione della figura del segretario comunale, «un irrinunciabile presidio di legalità» come definito dai senatori Loredana De Petris e Vito Crimi.
Alle opposizioni ha replicato il ministro della funzione pubblica Marianna Madia che ha difeso la scelta del governo in quanto, ha sottolineato, «si elimina la figura del segretario, non la funzione».
«Ora», ha rimarcato il ministro, «i segretari sono nominati dai sindaci, con la nostra riforma saranno scelti all'interno del ruolo unico». In realtà però, nei comuni capoluogo di provincia e nei centri sopra i 100 mila abitanti, le funzioni apicali potranno essere attribuite anche a un soggetto estraneo al ruolo unico, purché in possesso di «adeguati requisiti culturali e professionali».
Una misura duramente contestata dalle opposizioni in quanto consentirebbe ai sindaci dei grandi comuni di attribuire le funzioni, ora svolte dai segretari, a soggetti compiacenti e vicini al potere politico.
Enti di ricerca. Approvato anche l'emendamento di Fabrizio Bocchino (Italia Lavori in corso) che affida un'ulteriore delega al governo per garantire maggiore autonomia, soprattutto di spesa, agli enti pubblici di ricerca, grazie a uno status speciale che tali enti avranno, pur restando nel perimetro della pubblica amministrazione.
Le altre misure approvate. Tra le altre misure approvate nella giornata di ieri, si segnala il taglio delle prefetture e l'istituzione degli uffici territoriali del governo che dovranno rappresentare il punto di contatto tra cittadini e amministrazione periferica.
Una razionalizzazione che dovrà essere fatta anche tenendo conto delle zone che confinano con aree interessate da flussi migratori, oltre che dei criteri già stabiliti dalla delega (estensione territoriale, popolazione residente, presenza di una città metropolitana ecc.).
Via libera anche alle norme per «rendere effettive» le disposizioni che danno maggiori poteri al presidente del consiglio. A palazzo Chigi andranno le «competenze in materia di vigilanza sulle agenzie governative nazionali, al fine di assicurare l'effettivo esercizio delle attribuzioni della presidenza del consiglio» (articolo ItaliaOggi del 30.04.2015).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., vincitori garantiti. Verso una corsia preferenziale per le assunzioni. Emendamento al ddl Madia. Entro il 30/4 i dati sulle graduatorie.
Una corsia preferenziale per assumere i vincitori di concorso in attesa di essere assunti dalla p.a. La buona notizia per l'esercito dei circa 3 mila aspiranti dipendenti pubblici potrebbe arrivare dalla ddl delega di riforma della p.a. da oggi al voto dell'aula del senato (l'ok dovrebbe arrivare mercoledì).
A prevedere l'ipotesi di introdurre misure ad hoc per accelerare l'assunzione dei vincitori in attesa è un emendamento presentato dal senatore Pd Vincenzo Cuomo.
La proposta di modifica, giunta ormai alla quarta riformulazione in modo da renderla più digeribile da parte della commissione bilancio, stabilisce «l'introduzione di norme transitorie finalizzate esclusivamente all'assunzione di vincitori di procedure selettive pubbliche» qualora vi siano graduatorie approvate e pubblicate alla data di entrata in vigore della legge delega.
«Abbiamo necessità e urgenza di garantire rapidamente l'assunzione di migliaia di vincitori di concorso che, dopo anni, attendono con speranza un diritto finora negato», ha spiegato il senatore Cuomo. Anche se, a dir la verità, una corsia preferenziale per i vincitori è già prevista dalla legge di stabilità 2015 (legge 190/2014) che consente a regioni ed enti locali di continuare a scorrere le graduatorie nonostante il blocco imposto per assorbire gli esuberi delle province.
L'emendamento Cuomo però metterebbe gli enti pubblici nelle condizioni di predisporre norme ad hoc per le assunzioni, cristallizzando le graduatorie in modo che tutte quelle approvate alla data di entrata in vigore della riforma di Marianna Madia (e tuttora vigenti alla data di approvazione del dlgs attuativo sul riordino del lavoro pubblico che dovrà vedere la luce entro un anno dal varo della delega) possano giustificare una ragionevole aspettativa di assunzione.
Sulla validità delle graduatorie, com'è noto, grava da sempre grande incertezza, visto che di anno in anno c'è bisogno della solita proroga per tenerle in vita. Quest'anno, il decreto Milleproroghe, storicamente deputato a ospitare questi e altri rinvii, è rimasto in silenzio sul punto per la semplice ragione che nel 2013 (con il decreto legge 101), l'ex ministro della funzione pubblica Gianpiero D'Alia aveva disposto uno slittamento triennale, allungando al 31.12.2016 la validità delle graduatorie.
Ora si chiede qualcosa di più, sottolinea Cuomo, «sempre però nel rispetto dei limiti di finanza pubblica vigenti». La proposta, come detto, parla di «norme transitorie finalizzate esclusivamente all'assunzione dei vincitori di concorsi pubblici». Diversi potrebbero essere gli scenari aperti da quest'emendamento, dall'allargamento delle maglie del turnover alla spinta ai prepensionamenti.
Intanto si attendono i dati definitivi sui vincitori di concorso in attesa di assunzione: le amministrazioni hanno ancora tre giorni di tempo (fino al 30 aprile) per comunicare le informazioni sulle graduatorie alla Funzione pubblica utilizzando la piattaforma raggiungibile sul sito www.monitoraggiograduatorie.gov.it. Sulla base dei dati inviati dagli enti pubblici, palazzo Vidoni realizzerà un report che dovrà essere pubblicato entro il 31 maggio.
Solo allora si saprà se i vincitori di concorso in attesa di collocamento sono ancora 3 mila o se, come probabile, il loro numero è cresciuto, assieme a quello degli idonei (80 mila secondo i dati ufficiali, ma come ammesso dalla stessa Funzione pubblica, destinati a essere quasi il doppio, si veda ItaliaOggi del 03/01/2015) (articolo ItaliaOggi del 28.04.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, la via d'uscita è online. Interessate aziende e mezzi di trasporto non obbligati. Dal MinAmbiente le istruzioni per la cancellazione dal tracciamento telematico di rifiuti.
Diramate dal MinAmbiente lo scorso 23.04.2015, tramite il relativo portale istituzionale Sistri.it, le istruzioni per la cancellazione dal nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti di aziende e mezzi di trasporto non obbligati a mantenere l'adesione.
La procedura è sostanzialmente articolata in due fasi: una telematica, di interazione con il server gestito dallo Stato, e una fisica, finalizzata alla restituzione dei dispositivi in dotazione. L'ordine delle fasi varia in funzione della tipologia dei dispositivi in possesso dell'azienda, laddove l'esistenza di mezzi di trasporto rifiuti dotati di «black box» impone un iter più complesso.
Cancellazione aziende senza mezzi di trasporto. La richiesta di cancellazione dell'intera azienda o di una o più unità locali della stessa deve essere attivata attraverso l'area riservata agli utenti registrati del portale Sistri (c.d. «area autenticata») e utilizzando l'applicativo «Gestione azienda». Per l'azionabilità della procedura è necessario l'utilizzo del dispositivo Usb del delegato aziendale e la preliminare verifica dell'assenza di movimentazioni in corso e/o giacenze di rifiuti.
In caso di indisponibilità del suddetto dispositivo Usb (per danneggiamento, furto o smarrimento) è necessario rivolgersi al Contact center Sistri per attivare una diversa procedura di risoluzione. Dell'evasione della richiesta di cancellazione si avrà avviso tramite l'indirizzo e-mail indicato dall'utente. Entro dieci giorni dalla ricevuta di tale conferma sarà onere dell'utente consegnare i dispositivi Usb al Sistri tramite spedizione a mezzo raccomandata postale a/r utilizzando indirizzo e modulo di restituzione messi a disposizione dal citato portale.
Aziende con veicoli dotati di black box. In tal caso la descritta procedura dovrà essere preceduta da quella di cancellazione dei veicoli dotati di dispositivi di tracciamento satellitare. A tal fine occorrerà rivolgersi alle competenti Sezioni locali dell'Albo gestori ambientali.
Queste provvederanno, infatti, a ritirare i dispositivi Usb dei veicoli e a rilasciare i voucher da presentare presso le officine autorizzate per effettuare disinstallazione e recupero delle black box presenti sui mezzi. Una volta effettuata la disinstallazione sarà possibile procedere alla cancellazione dell'azienda con le modalità più sopra descritte.
Soggetti non obbligati al Sistri. La cancellazione dal Sistri costituisce facoltà dei soggetti non obbligati per legge a utilizzare il nuovo sistema di tracciamento satellitare.
Alla luce dell'attuale assetto normativo possono dunque farne richiesta i seguenti soggetti: enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che soddisfano le condizioni di esenzione dal Sistri ex dm Ambiente 24.04.2014 e produttori iniziali di rifiuti diversi dagli speciali pericolosi; enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale, di trattamento, recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti diversi dagli speciali pericolosi; operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti diversi dagli speciali pericolosi; comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani localizzate in regioni diverse dalla Campania.
In base a quanto riportato dallo stesso portale Sistri lo scorso 09.03.2015, l'adesione al Sistri sarebbe altresì facoltativa per i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che provvedono al trasporto in proprio degli stessi residui non obbligati a essere iscritti nella categoria 5 dell'Albo gestori ambientali.
Le sanzioni Sistri. Nei casi in cui l'iscrizione al Sistri è invece obbligatoria, è bene ricordare che dallo scorso 01.04.2015 la sua omissione è sanzionata con importi fino a 93 mila euro. Parimenti sanzionato è dalla stessa data l'omesso pagamento entro i termini del relativo contributo annuale Sistri da parte sia dei soggetti iscritti in quanto obbligati sia da parte di quelli che ne mantengano l'iscrizione su base volontaria.
E le nuove istruzioni per la cancellazione precedono solo di qualche giorno la rituale scadenza del prossimo 30 aprile, termine entro il quale i citati soggetti aderenti al Sistri devono effettuare il pagamento del contributo 2015 previsto dal dm 52/2011 (cd. «Testo unico Sistri» adottato in attuazione del dlgs 152/2006, noma madre in materia) (articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015).

ENTI LOCALICodice della strada. No all'autovelox sul camioncino privato.
Il comune non può noleggiare un'autovettura con dentro un autovelox e un vigile per fare multe a raffica.

Lo ha evidenziato il ministero dei trasporti con il parere 12.03.2015 n. 1040 di prot..
L'impiego dei privati nelle attività di polizia stradale è stato fortemente limitato sia dalla circolare Maroni che dalla successiva legge 120/2010. L'attività di polizia stradale non può essere delegata a terzi ma i comandi possono eventualmente utilizzare strumenti a noleggio o in leasing. Mentre le attrezzature devono essere nell'esclusiva disponibilità degli organi di vigilanza ai privati potranno essere affidati incarichi ausiliari che però non potranno mai essere retribuiti a percentuale.
Nel caso sottoposto all'esame del ministero una ditta ha richiesto chiarimenti sulla legittimità dell'impiego di un veicolo privato con tanto di lampeggiante sul tetto per effettuare controlli elettronici della velocità. Questa modalità non è conforme alle disposizioni normative perché solo i veicoli nella disponibilità dell'amministrazione pubblica possono essere utilizzati per effettuare servizi in borghese di controllo della velocità, muniti di lampeggiante blu.
In buona sostanza non è più possibile noleggiare veicolo e autovelox e mettere un agente di polizia municipale a bordo del veicolo con tanto di lampeggiante per attivare controlli autovelox. Serve almeno un veicolo del comune ovvero di un'altra pubblica amministrazione, conclude il parere centrale (articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince. Mobilità, al via il portale.
Al via il portale della mobilità nella p.a., indispensabile per garantire la ricollocazione del personale in esubero.

È disponibile all'indirizzo http://www.mobilita.gov.it la funzionalità che consente a ciascun ente di area vasta l'inserimento dei dati relativi al personale destinatario della ricollocazione mediante procedure gestite dal portale della mobilità, ai sensi dei commi 423 e seguenti della legge 23.12.2014, n. 190. L'inserimento è finalizzato a favorire l'incontro della domanda e dell'offerta di mobilità.
Le amministrazioni, per poter accedere al sistema, dovranno registrarsi sull'applicativo al fine di ottenere le apposite credenziali di accesso che saranno inviate via mail all'indirizzo del referente individuato dell'amministrazione.
Per informazioni e assistenza si potrà contattare il desk tecnico attraverso il numero telefonico 06/82888.782 dalle ore 9:30 alle ore 13:30, oppure scrivere ai seguenti indirizzi di posta elettronica helpdesk@mobilitapa.it e info@pec.mobilita.gov.it 
Eventuali quesiti di carattere normativo potranno essere indirizzati al seguente indirizzo di posta elettronica segreteriauorcc@funzionepubblica.it
E sempre in materia di province, si segnala la convocazione da parte dell'Upi di una assemblea straordinaria che si terrà il 15 maggio a Roma. Obiettivo dell'incontro rilanciare l'azione politica dell'associazione, attraverso il massimo coinvolgimento dei sindaci e degli amministratori comunali protagonisti dei nuovi enti di area vasta in linea con la riforma Delrio, e, soprattutto, accendere i riflettori sulla gravissima situazione dei servizi ai cittadini, a rischio a causa del prelievo di 1 miliardo che, secondo l'Upi, manderà in dissesto gran parte delle province.
«La situazione delle nostre amministrazioni è drammatica. Non siamo più in grado di garantire la sicurezza nelle nostre strade, che siamo costretti a chiudere con grave danno sia per i cittadini che per le imprese», hanno dichiarato il presidente dell'Upi Alessandro Pastacci e i presidenti delle Upi regionali (articolo ItaliaOggi del 25.04.2015).

URBANISTICA: Piani urbanistici Registro all'1%. Risoluzione su acquisti immobiliari.
Il fisco ci ripensa sui piani urbanistici particolareggiati a iniziativa privata. L'agevolazione fiscale dell'imposta di registro all'1% è applicabile agli acquisti di immobili siti in tali aree indipendentemente dal fatto che al momento del rogito sia stata stipulata o meno la convenzione di lottizzazione tra il comune e il costruttore.

È quanto chiarisce l'Agenzia delle entrate con la risoluzione 23.04.2015 n. 41/E, che a seguito dell'indirizzo interpretativo adottato dalla Cassazione abbandona le indicazioni fornite nella circolare n. 9/2002.
La questione riguarda l'agevolazione prevista dall'articolo 33 della legge n. 388/2000. Vale a dire la possibilità di pagare l'imposta di registro dell'1% e le ipocatastali in misura fissa per i trasferimenti di immobili localizzati in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati, purché l'edificazione avvenga entro cinque anni dal trasferimento. Il dl n. 223/2006 ha limitato l'applicazione del beneficio ai programmi prevalentemente destinati a edilizia residenziale convenzionata pubblica, mentre la legge n. 296/2006 ha aperto anche ai privati.
Nel corso degli anni l'amministrazione finanziaria ha provveduto a recuperare le maggiori imposte di registro per gli atti di cessione di immobili siti in aree soggette a piani di lottizzazione a iniziativa privata. Gli accertamenti derivavano dal fatto che momento del rogito non risultava perfezionata la convenzione di lottizzazione. Sul punto si è innescato un ampio contenzioso, finito a più riprese al vaglio della Cassazione. I giudici di legittimità hanno in primis dato ragione alle Entrate (soprattutto tra il 2009 e il 2011), ma successivamente l'orientamento è mutato. Le numerose sentenze richiamate dalla risoluzione di ieri evidenziano che l'estensione del beneficio fiscale anche in assenza della convenzione di lottizzazione all'atto di stipula «si è andato consolidando nel tempo».
Da qui la scelta dell'Agenzia di «considerare superate le indicazioni contenute nella circolare n. 9/E del 2002 e confermate con circolare n. 11/E del 2002». Le direzioni territoriali vengono quindi invitate a riesaminare le cause pendenti e ad abbandonarle «ove l'attività accertativa sia stata effettuata secondo criteri non conformi a quelli espressi dai giudici di legittimità, sempre che non siano sostenibili altre questioni».
Si ricorda in ogni caso che l'agevolazione non è più vigente dal 01.01.2014, per effetto del dlgs n. 23/2011 (articolo ItaliaOggi del 24.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

ESPROPRIAZIONEIn salvo gli espropri pubblici. La p.a. può utilizzare abusivamente un bene privato. Supera il vaglio della Corte costituzionale la norma che sana interventi illegittimi.
Salva la p.a. che utilizza abusivamente un bene privato. La procedura, disciplinata dall'articolo 42-bis del Testo unico espropri (dpr 327/2001), che sana le espropriazioni illegittime, supera, infatti, il vaglio della Corte Costituzionale (sentenza 30.04.2015 n. 71).
La Consulta delinea, però, i paletti di un istituto, che consente all'ente di trattenere nelle mani pubbliche un immobile, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.
La norma in questione permette, dunque, all'amministrazione, che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico modificato illegittimamente, di disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio.
Al proprietario spetta un indennizzo pari al valore venale attuale del bene e, in più, anche un indennizzo a titolo di danno non patrimoniale, pari al 10% del valore venale stesso.
L'acquisizione può avvenire anche quando siano stati annullati gli atti dell'esproprio e anche nel corso del giudizio promosso dall'interessato per l'annullamento degli atti dell'esproprio.
Siamo, quindi, di fronte a un'attività illegittima della pubblica amministrazione, alla quale viene comunque data la chance di acquisire fabbricati e terreni.
Il problema che si è posto è se la costituzione consente questa disciplina speciale a favore dell'ente pubblico o se, invece, vi sia violazione dei principi di uguaglianza e del diritto di proprietà.
La consulta ha respinto i dubbi di incostituzionalità, alla luce di alcune caratteristiche innovative dell'istituto.
Le differenze rispetto al precedente disciplina, in sintesi, consistono nel carattere non retroattivo dell'acquisto, nella necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione e, infine, nel rigoroso obbligo motivazionale che circonda l'adozione del provvedimento.
Nel dettaglio, innanzitutto la p.a. acquisita la proprietà del bene solo al momento dell'emanazione dell'atto di acquisizione e non fin dall'inizio del procedimento di esproprio: questo impedisce l'acquisto della proprietà del bene se c'è una sentenza definitiva che dispone la restituzione del bene al privato.
Poi la p.a. deve motivare pesantemente l'atto di acquisizione, spiegando le ragioni di eccezionale interesse pubblico che la spingono ad adottare una procedura così incisiva. In particolare l'ente pubblico deve spiegare che non ci sono possibili alternative all'ablazione del bene e che si trova nell'impossibilità di restituirlo.
L'adozione dell'atto è consentita escluse altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita e solo quando non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà.
Un rilievo determinante è dato, dalla sentenza in esame, al fatto che l'indennizzo è congruo: si deve conteggiare non solo il valore venale del bene, ma anche il danno non patrimoniale, forfettariamente liquidato nella misura del 10% del valore venale del bene. Il surplus del 10% è un beneficio che spetta di diritto, senza bisogno di dimostrare il pregiudizio subito. Inoltre il passaggio del diritto di proprietà è soggetto alla condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, da effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione.
Viene smentito chi sostiene che l'indennizzo non è remunerativo o addirittura inferiore a quello conseguibile con una ordinaria procedura di esproprio.
Così come la Consulta smentisce chi critica l'istituto sottolineando che espone il proprietario del bene potenzialmente senza limiti di tempo alle scelte dell'amministrazione: il privato può reagire all'inerzia della pubblica amministrazione, per esempio, con una messa in mora della p.a., per poi impugnare l'eventuale silenzio-rifiuto.
Infine non si prevede più la cosiddetta acquisizione in via giudiziaria, che si verificava quando l'acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto dell'intermediazione di una pronuncia del giudice amministrativo (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015).

APPALTI: E' irrilevante ai fini del risarcimento del danno in materia di appalti pubblici il carattere colpevole della condotta della Pubblica Amministrazione.
Ai fini del risarcimento del danno in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, dopo la nota sentenza 30.09.2010, C 314/09 della Corte di Giusta dell'UE, non assume più rilievo il carattere colpevole della condotta della Pubblica Amministrazione; è, invero, costante l'orientamento espresso dal giudice amministrativo, il quale ha precisato che "la vigente normativa europea relativa alle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi non consente che la pretesa ad ottenere il risarcimento del danno da un'amministrazione pubblica che abbia violato le norme sulla disciplina degli appalti sia subordinato al carattere colpevole di tale violazione. Il rimedio risarcitorio previsto dall'art. 2, n. 1, lett. c), dell'originaria direttiva 89/665/CEE può costituire, se del caso, un'alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività della tutela soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata, così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso previsti dal citato art. 2, n. 1, alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall'Amministrazione aggiudicatrice. Poco importa, per il giudice comunitario, che un ordinamento nazionale non faccia gravare sul ricorrente l'onere della prova dell'esistenza di una colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice, ma la presuma a carico della stessa; infatti, dal momento in cui si consente a quest'ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, si genera ugualmente il rischio che il ricorrente leso da un atto illegittimo di un'Amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato della spettanza del risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l'Amministrazione riesca a superare la suddetta eventuale presunzione di colpa" (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 28.04.2015 n. 451 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa finalità dell’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001, in tema di annullamento del permesso di costruire, è quella di dettare una disciplina che tenga in adeguata considerazione, in ragione degli interessi implicati, la circostanza che l’intervento edilizio è stato realizzato in presenza di un titolo abilitativo che, solo successivamente, è stato dichiarato illegittimo.
L’amministrazione deve, pertanto, valutare, con specifica motivazione, in ragione soprattutto di eventuali sopravvenienze di fatto o di diritto e della effettiva situazione contenutistica del vincolo, se sia possibile convalidare l’atto annullato.
In altri termini, l’annullamento del permesso di costruire non comporta affatto per il Comune l’obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato.

L’art. 38 del d.p.r. n. 380 del 2001 dispone che, «in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale».
La finalità della norma è quella di dettare una disciplina che tenga in adeguata considerazione, in ragione degli interessi implicati, la circostanza che l’intervento edilizio è stato realizzato in presenza di un titolo abilitativo che, solo successivamente, è stato dichiarato illegittimo.
L’amministrazione deve, pertanto, valutare, con specifica motivazione, in ragione soprattutto di eventuali sopravvenienze di fatto o di diritto e della effettiva situazione contenutistica del vincolo, se sia possibile convalidare l’atto annullato. In altri termini, l’annullamento del permesso di costruire «non comporta affatto per il Comune l'obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato» (Cons. Stato, Sez. IV, 17.09.2012, n. 4923).
Nel caso in esame, il Comune ha annullato il permesso di costruire e contestualmente ha ordinato la demolizione delle opere realizzate.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6372 del 2012, ha ritenuto legittimo l’atto di autotutela ma non si è espresso, come erroneamente ritenuto, invece, dal primo giudice, in ordine alla legittimità dell’originario ordine di demolizione.
Deve, pertanto, ritenersi che l’annullamennto in autotutela del permesso di costruire abbia determinato il “superamento” dell’originario ordine di demolizione che non conteneva le valutazioni motivazionali sopra indicate.
Ne consegue che il Comune non poteva accertare l’inottemperanza al suddetto ordine, ma avrebbe dovuto adottare un nuovo atto contenente una esplicita motivazione relativa alla emendabilità o meno del vizio riscontrato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.04.2015 n. 2137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il Piano di lottizzazione ha durata decennale per cui decorso il relativo termine esso perde di efficacia. Il suddetto termine è stato ricavato, in assenza di espressa regolamentazione da parte dell’art. 28 della legge n. 1150 del 1942 dalla norma analoga dettata dall’art. 17 della legge urbanistica per i piani particolareggiati, stante la identità di ratio esistente fra i due piani attuativi.
L’ultrattività delle prescrizioni del piano di lottizzazione non può concretamente configurarsi giacché essa confliggerebbe con la finalità sottesa alla fissazione di un termine di efficacia, coincidente esattamente con l’esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, il che risulterebbe compromesso se le lottizzazioni convenzionate avessero l’effetto di condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura.
Ne deriva che la scadenza del termine fa venir meno sul piano oppositivo i presupposti per lo ius aedificandi e, sul piano urbanistico, l’affidamento all’intangibilità delle destinazioni urbanistiche definite dal Piano.
---------------
E' irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione la circostanza della imputabilità della mancata attuazione, se dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante.
Il fatto certo che rileva insomma è che il Piano attuativo (come accaduto nella fattispecie) è rimasto comunque ineseguito per il periodo di efficacia dello stesso e l’inutile spirare di tale termine costituisce causa sufficiente e giustificativa dell’adozione della dichiarazione di decadenza.
---------------
Se l’omesso completamento delle opere di urbanizzazione entro il termine di legge osta al perfezionamento di una pretesa sostanziale al rilascio dei titoli edilizi, nondimeno la scadenza del termine di esecuzione di un piano attuativo determina l’inefficacia dello stesso, ma fa salva la destinazione urbanistica data all’area dal piano regolatore, di guisa che l’Amministrazione nella adozione delle nuove decisioni sull’assetto urbanistico della porzione del territorio interessata non può prescindere totalmente dalla posizione degli originari sottoscrittori della convenzione.

Col primo motivo d’impugnazione parte appellante deduce la illegittimità della delibera dichiarativa della decadenza del Piano sul rilievo che le prescrizioni urbanistiche da esso recate sono destinate a rimanere pienamente operanti anche oltre la scadenza del termine decennale, fino a che l’Amministrazione non provvede a dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate.
In tal modo, il Comune ha trascurato l’interesse pubblico urbanistico all’attuazione del Piano e in ciò si concretizzerebbe il denunciato sviamento.
I dedotti profili di doglianza sono privi di giuridico fondamento.
Appare utile qui richiamare il pacifico orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato (cfr. Sez. VI 20/1/2003 n. 200) per il quale il Piano di lottizzazione ha durata decennale per cui decorso il relativo termine esso perde di efficacia.
Il suddetto termine è stato ricavato, in assenza di espressa regolamentazione da parte dell’art. 28 della legge n. 1150 del 1942 dalla norma analoga dettata dall’art. 17 della legge urbanistica per i piani particolareggiati, stante la identità di ratio esistente fra i due piani attuativi (Cons. Stato Sez. IV 19/03/1991 n. 300; idem 30/06/2004 n. 4803 e 25/07/2001 n. 4073).
Ora l’ultrattività delle prescrizioni del piano di lottizzazione non può concretamente configurarsi giacché essa confliggerebbe con la finalità sottesa alla fissazione di un termine di efficacia, coincidente esattamente con l’esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, il che risulterebbe compromesso se le lottizzazioni convenzionate avessero l’effetto di condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura.
Ne deriva che la scadenza del termine fa venir meno sul piano oppositivo i presupposti per lo ius aedificandi e, sul piano urbanistico, l’affidamento all’intangibilità delle destinazioni urbanistiche definite dal Piano (Cons. Stato Sez. IV 13/04/2005 n. 1743).
---------------
Col quarto motivo parte appellante assume che la mancata attuazione del Piano è imputabile unicamente all’amministrazione in ragione dei comportamenti omissivi da questa tenuti, il tutto in violazione degli obblighi di correttezza e di collaborazione nella esecuzione della convenzione.
Il motivo non ha pregio.
Al riguardo è necessario occuparsi, di un evento, già accennato in fatto, dal contenuto decisivo in ordine alle sorti della convenzione di lottizzazione.
Invero, l’atteggiamento del Comune di prudenza prima e di diniego poi a rilasciare i chiesti titoli ad aedificandum per i lotti di fabbricati è stato determinato dalla intervenuta insorgenza di una controversia davanti al giudice civile che ha visto protagonisti le parti lottizzanti (i C. e l’Impresa M.) e il sig. M. in ordine all’accertamento dei confini di proprietà, nella misura in cui l’azione possessoria oggetto del giudizio ha interessato direttamente una porzione del territorio della convenzione destinato a fungere da strada di accesso a servizio dell’intero piano di lottizzazione.
In vista perciò di una probabile compromissione dello stato dei luoghi interessato dal progettato e convenzionato intervento il Comune, con la volontà espressa direttamente dal Consiglio comunale, ha ritenuto, in relazione alle conseguenze connesse all’esito della controversia de qua sull’intero assetto del Piano, di soprassedere in ordine all’attuazione dello strumento urbanistico attuativo in questione e il comportamento tenuto dall’Amministrazione avuto riguardo alle ragioni ad esso sottese non pare possa qualificarsi come ingiustificato.
In ogni caso, quanto al prosieguo dell’iter procedurale neppure sono evincibili elementi di giudizio dai quali, sulla scorta dei fatti che hanno contrassegnato l’annosa vicenda è possibile dedurre con ragionevole certezza la sussistenza in capo al Comune di una condotta omissiva e/o dilatoria.
Né di converso, nessuno dei privati lottizzanti ha avuto cura di avanzare una proposta di variante al Piano di lottizzazione idonea a superare l’impasse imposto dal contenzioso civilistico nelle more insorto.
Vale comunque qui richiamare, quale elemento dirimente della questione il principio più volte affermato da questo Consesso secondo il quale è irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione la circostanza della imputabilità della mancata attuazione, se dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante (cfr. Cons. Stato Sez. IV 10/08/2011).
Il fatto certo che rileva insomma è che il Piano attuativo (come accaduto nella fattispecie) è rimasto comunque ineseguito per il periodo di efficacia dello stesso e l’inutile spirare di tale termine costituisce causa sufficiente e giustificativa dell’adozione della dichiarazione di decadenza.
---------------
Col quinto motivo di appello i sigg.ri C. fanno valere la fondatezza della già proposta richiesta risarcitoria di primo grado e ciò non solo e non tanto in relazione alla illegittimità del provvedimento impugnato, ma con riferimento alla condotta inadempiente e al comportamento complessivo tenuto dall’Amministrazione che avrebbe reso impossibile l’esecuzione del piano, con conseguente obbligo del risarcimento del danno subito dagli interessati.
La pretesa risarcitoria è da ritenersi inammissibile e comunque infondata.
Con riferimento agli interessi legittimi oppositivi propri dell’impugnazione l’assenza di vizi di legittimità a carico del provvedimento gravato impedisce di per sé la configurazione di un’azione amministrativa contra legem causativa di danno ingiusto suscettibile di ristoro patrimoniale, secondo lo schema di responsabilità aquiliana ex art. 2043 codice civile (Cass. I Sez. civ. 10/01/2003 n. 157).
Quanto poi agli aspetti di tipo pretensivo collegati al dedotto non corretto comportamento dell’Amministrazione che, ad avviso della parte appellante, avrebbe in sostanza impedito lo sfruttamento dell’attitudine edificatoria dei suoli oggetto di lottizzazione neppure è possibile ravvisare nell’agire del Comune di Pula una condotta contraria ai doveri di correttezza non essendo provata l’inadempienza dell’Amministrazione alle pattuizioni poste in convenzione.
D’altra parte va osservato, in relazione al bene della vita sostanzialmente rivendicato dagli appellanti, che se l’omesso completamento delle opere di urbanizzazione entro il termine di legge osta al perfezionamento di una pretesa sostanziale al rilascio dei titoli edilizi, nondimeno la scadenza del termine di esecuzione di un piano attuativo determina l’inefficacia dello stesso, ma fa salva la destinazione urbanistica data all’area dal piano regolatore, di guisa che l’Amministrazione nella adozione delle nuove decisioni sull’assetto urbanistico della porzione del territorio interessata non può prescindere totalmente dalla posizione degli originari sottoscrittori della convenzione (Cons. Stato Sez. IV 03/11/1998 n. 1412), il che non giustifica un diritto al risarcimento
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2015 n. 2108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, l’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire, necessario a evitarne la decadenza, è questione di fatto, da valutarsi caso per caso con riguardo al complesso delle circostanze concrete.
L’avvio delle opere, in ogni caso, deve essere reale ed effettivo, manifestazione di un serio e comprovato intento di esercitare il diritto di edificare, e non solo apparente o fittizio, magari volto al solo scopo di evitare la temuta perdita di efficacia del titolo.
L’effettivo inizio dei lavori nell’anno corrisponde a un interesse pubblico, relativo all’esercizio dei poteri programmatori spettanti all’Amministrazione comunale. Per tale ragione, la giurisprudenza è orientata a valutare i dati di fatto con rigore e a ritenere irrilevanti, ad esempio, la ripulitura del sito, l’approntamento del cantiere e dei materiali occorrenti per l’esecuzione dei lavori nell’immobile, lo sbancamento del terreno.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale del tutto prevalente, la decadenza del titolo edilizio per omessa osservanza del termine di avvio dei lavori ha natura vincolata e opera di diritto: il provvedimento relativo, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato.

... per la riforma della sentenza breve del TAR Toscana-Firenze: Sezione III n. 1515/2014, resa tra le parti, concernente decadenza del permesso di costruire;
...
I lavori avviati dall’appellante (in data 07.01.2011 o, secondo successiva versione, il 13.12.2010) consistono -come recita il ricorso introduttivo- nel picchettamento per determinare l’esatta posizione del nuovo capannone.
Per costante giurisprudenza, l’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire, necessario a evitarne la decadenza, è questione di fatto, da valutarsi caso per caso con riguardo al complesso delle circostanze concrete. L’avvio delle opere, in ogni caso, deve essere reale ed effettivo, manifestazione di un serio e comprovato intento di esercitare il diritto di edificare, e non solo apparente o fittizio, magari volto al solo scopo di evitare la temuta perdita di efficacia del titolo (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 02.11.2004, n. 7748; Id., sez. IV, 15.04.2013, n. 2027, ove riferimenti ulteriori).
L’effettivo inizio dei lavori nell’anno corrisponde a un interesse pubblico, relativo all’esercizio dei poteri programmatori spettanti all’Amministrazione comunale. Per tale ragione, la giurisprudenza è orientata a valutare i dati di fatto con rigore e a ritenere irrilevanti, ad esempio, la ripulitura del sito, l’approntamento del cantiere e dei materiali occorrenti per l’esecuzione dei lavori nell’immobile, lo sbancamento del terreno (si veda più ampiamente Cons. Stato, sez. IV, n. 2027 del 2013, cit.; Id., sez. IV, 20.12.2013, n. 6151).
Come ha correttamente affermato il Tribunale regionale, le opere dichiarate dalla parte -anche data per ammessa la loro avvenuta esecuzione entro la più risalente delle date sopra indicate, il che appare comunque scarsamente verosimile- appaiono del tutto marginali e preparatorie e comunque non idonee allo scopo.
L’appellante dichiara che il fermo dei lavori è stato pressoché immediato; solo in data 02.10.2012 ha comunicato al Comune la ripresa dell’intervento con una diversa impresa.
Le circostanze addotte per giustificare il ritardo (il rinvenimento di uno sperone roccioso, che avrebbe reso necessaria la sostituzione dell’impresa esecutrice; l’alluvione che ha colpito la Maremma) possono avere impedito il reale avvio delle opere nel termine prescritto e avrebbero potuto forse anche giustificare la proroga del termine per l’inizio dei lavori (come prevede l’art. 15, comma 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 380 del 2001).
La proroga non risulta tuttavia accordata e nemmeno richiesta, cosicché tali circostanze non possono produrre alcuna giustificazione circa il mancato rispetto del termine di legge;
Secondo l’orientamento giurisprudenziale del tutto prevalente, la decadenza del titolo edilizio per omessa osservanza del termine di avvio dei lavori ha natura vincolata e opera di diritto: il provvedimento relativo, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2011, n. 5028; Id., sez. IV, 23.02.2012, n. 974; Id., sez. IV, 18.05.2012, n. 2915; Id., sez. IV, n. 6151 del 2013, cit.);
In disparte ogni altro rilievo, la tardività dell’inizio dell’intervento rende l’appello infondato e destinato al rigetto.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2015 n. 2093 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto, privo di contenuto discrezionale, avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.
-------------------
L'art. 31, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 380/2001 prevede che "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell' abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune".
Dall'esame della disposizione richiamata emerge che il proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso. Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire.
Si evidenzia, in particolare, che la Corte Costituzionale nel precisare che l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, ha chiarito che tale sanzione si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Cassazione ha, inoltre, ulteriormente evidenziato che al fine di configurare la responsabilità del proprietario di un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa.
---------------
Il provvedimento di acquisizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del privato ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata mancata ottemperanza al precedente ordine di demolizione.

... per l'annullamento dell’ordinanza prot. n. 11827 del 20.03.2014, con la quale l’amministrazione comunale di Casalnuovo di Napoli ha dichiarato l’acquisizione gratuita al proprio patrimonio delle opere abusive sanzionate con il provvedimento demolitorio n. 17 del 29.05.2013.
...
4. Non meritano accoglimento neanche le deduzioni dirette a contestare la carenza di motivazione.
4.1. In conformità alla consolidata giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche), il Collegio evidenzia che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto, privo di contenuto discrezionale, avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.
5. L’approfondimento in ordine all’oggetto del provvedimento acquisitivo, in rapporto anche alla presupposta ordinanza di demolizione, consente di rilevare, tra l’altro, l’infondatezza delle deduzioni incentrate sulla quantificazione operata dall’amministrazione.
5.1. L’ordinanza di demolizione n. 17 del 29.05.2013, in particolare, ha avuto ad oggetto la realizzazione di sei manufatti e di una baracca, oltre alla pavimentazione con asfalto dell’area del fondo; il provvedimento ha, nello specifico, rilevato e sanzionato la modifica della destinazione del contesto interessato, inserito nella Z.T.O. “E- agricola” e inequivocamente l’avvertimento delle conseguenze correlate all’inottemperanza ha considerato “l’intera superficie della particella n. 952 del foglio 11, pari a mq. 2436”.
5.2. La suddetta ordinanza (come emerge dalle produzioni documentali di parte resistente del 23.06.2014) è stata notificata a tutti gli interessati, odierni ricorrenti, e, inoltre, l’oggetto del provvedimento acquisitivo risulta pienamente coerente e coincidente con le contestazioni alla base dell’irrogazione della sanzione demolitoria, risultando, pertanto, infondate le contestazioni che mirano a censurare la quantificazione operata dall’amministrazione comunale.
5.3. Le considerazioni che precedono, inoltre, consentono di evidenziare l’inconferenza del riferimento alla sentenza di questa Sezione n. 230 del 15.01.2015 (depositata nel corso dell’udienza pubblica dalla difesa dei ricorrenti), venendo in rilievo circostanze fattuali radicalmente diverse, correlate al superamento del limite all’acquisizione fissato dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 non applicabile al caso che ne occupa, stante l’estensione, la consistenza e la natura dell’abuso sanzionato con l’ordinanza rimasta inottemperata.
6. In esito ad un approfondito esame della documentazione in atti, inoltre, il Collegio valuta infondato anche il motivo di ricorso con il quale, attraverso il richiamo ai principi espressi dalla Corte Costituzionale in materia, è stata contestata la legittimità del provvedimento impugnato in considerazione dell’asserita estraneità di N.S. e M.S. alla commissione dell’abuso, avendo questi ultimi acquisito la comproprietà del bene solo nel marzo 2013.
6.1. L'art. 31, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 380/2001 prevede che "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell' abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune".
6.2. Dall'esame della disposizione richiamata emerge che il proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso. Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire (cfr. tra le tante Consiglio di Stato, IV, 03.05.2011, n. 2639; TAR Lazio, Roma, II, 14.02.2011, n. 1395; TAR Umbria, 25.11.2008, n. 787).
6.3. Si evidenzia, in particolare, che la Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 345 del 15.07.1991) nel precisare che l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, ha chiarito che tale sanzione si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
6.4. La Cassazione ha, inoltre, ulteriormente evidenziato che al fine di configurare la responsabilità del proprietario di un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa (cfr. Cassazione penale, sez. III, 12.04.2005, n. 26121).
6.5. In applicazione dei principi sopra richiamati, nel caso che ne occupa, oltre allo stretto rapporto di parentela che sussiste tra gli interessati (G.S., infatti, ha trasferito i beni de quibus alla moglie F.R. ed ai figli N. e M. con un atto che, sebbene asseritamente correlato all’adempimento degli obblighi assunti in sede di procedimento di separazione, risulta sottoscritto solo pochi giorni prima ((27.03.2013) dell’avvio degli accertamenti indicati nella narrativa in fatto), emerge che il provvedimento demolitorio è stato notificato a tutti i proprietari che non risultano aver posto in essere alcuna attività diretta a rimuovere gli abusi, in adempimento dell’ingiunzione disposta. Tali circostanze, in assenza di ulteriori, oggettivi elementi che non sono stati né indicati né allegati dalla difesa dei ricorrenti, escludono la fondatezza della censura, posto che una diversa interpretazione finirebbe all’evidenza con l’avallare il ricorso ad eventuali pratiche elusive in contrasto con le finalità sottese alla repressione degli abusi edilizi.
7. La difesa dei ricorrenti ha censurato il provvedimento gravato anche a motivo dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
7.1. La censura va disattesa in quanto infondata.
7.2. Come affermato pacificamente dalla giurisprudenza, il provvedimento di acquisizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del privato ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata mancata ottemperanza al precedente ordine di demolizione (cfr., Cons. St., sez. IV, 26.02.2013, n. 1179) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.04.2015 n. 2376 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: PGT: il termine di 90 gg. inerisce la controdeduzione delle osservazioni e non l'approvazione, sicché solo nel primo caso l'eventuale inosservanza del termine comporta l'inefficacia dell'intero procedimento.
L’articolo 13 della legge regionale n. 12 del 2005 dispone, al comma 7, che “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”.
Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge, debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata. Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero procedimento sino ad allora svolto.
In particolare, si è affermato che una soluzione che sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...) ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7 della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa.”.
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale –come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”. Ciò –secondo l’orientamento richiamato– “consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente, “l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati”.
Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore letterale della previsione normativa, è altresì in linea con il principio generale per il quale i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure complesse, con la partecipazione di una pluralità di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli interessi, pubblici o privati, coinvolti.

1.4 Nel merito, il motivo è tuttavia infondato.
1.4.1 Rileva il Collegio che l’articolo 13 della legge regionale n. 12 del 2005 dispone, al comma 7, che “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”.
Il successivo comma 7-bis –introdotto dall'articolo 1, comma 1, lett. a) della legge regionale 03.10.2007, n. 24 e poi modificato nell’attuale tenore dall’articolo 3, comma 9, lett. a) della legge regionale 22.02.2010, n. 11– stabilisce, inoltre, che “Il termine di cui al comma 7 è di centocinquanta giorni qualora, nella fase del procedimento di approvazione del PGT successiva all’adozione dello stesso, venga pubblicato il decreto di indizione dei comizi elettorali per il rinnovo dell’amministrazione comunale.”.
Le suddette disposizioni stabiliscono, quindi, un termine entro il quale deve pervenirsi alla conclusione del procedimento di formazione del PGT, con evidente ratio acceleratoria dell’iter dello strumento urbanistico.
Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge, debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata. Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero procedimento sino ad allora svolto (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508).
In particolare, si è affermato che una soluzione che sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...) ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7 della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa.” (così la richiamata pronuncia della Sezione n. 7508 del 2010).
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale –come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”. Ciò –secondo l’orientamento richiamato– “consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente, “l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati” (così ancora la sentenza n. 7508 del 2010).
1.4.2 Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore letterale della previsione normativa, è altresì in linea con il principio generale per il quale i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure complesse, con la partecipazione di una pluralità di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli interessi, pubblici o privati, coinvolti (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 14.11.2012, n. 2750).
Sotto altro profilo, non può neppure accedersi alla tesi della ricorrente, secondo la quale la natura ordinatoria del termine sarebbe esclusa dalla circostanza che il comma 7-bis del medesimo articolo 13 abbia previsto una fattispecie nella quale il termine è elevato a centocinquanta giorni. Ad avviso della ricorrente, non sarebbe logico prevedere una maggiore durata di un termine che non sia perentorio.
La tesi, come detto, non convince, in quanto la fissazione del termine, benché ordinatorio, svolge pur sempre una funzione di accelerazione dei procedimenti e individua quali siano le modalità per il corretto operare dell’Amministrazione. Conseguentemente, non può ritenersi priva di rilevanza l’elevazione del termine nella fattispecie di cui al comma 7-bis, posto che –al contrario– sarebbe irragionevole fissare un termine, benché non perentorio, che non possa essere ragionevolmente osservato.
1.4.3 Deve, quindi, concludersi nel senso che della disposizione di legge regionale debba farsi necessariamente un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (articoli 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (articolo 12 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella, sopra illustrata, che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
1.5 Deve, poi, evidenziarsi che la giurisprudenza della Sezione ha altresì preso in considerazione, ai fini della valutazione del rispetto del termine, la circostanza che alla data della sua scadenza fosse in corso la fase decisoria finale del PGT, ritenendo in tal caso legittimo e rispettoso della previsione normativa l’operato del Comune (v. le richiamate sentenze n. 2765 del 2014 e n. 7614 del 2010).
Ciò è quanto avvenuto anche nel caso di specie, poiché l’avvio della fase di approvazione (20.02.2012) ricade entro i novanta giorni dalla data in cui la delibera di revoca della precedente approvazione è divenuta esecutiva (07.12.2011), né risulta che la rinnovata fase procedimentale di approvazione sia stata successivamente interrotta.
Aderendo all’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, deve quindi concludersi nel senso che il termine sia stato, nella specie, osservato, senza che a tal fine occorra interrogarsi in merito all’applicabilità del più lungo termine previsto dal comma 7-bis dell’articolo 13 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2015 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo quanto affermato costantemente dalla giurisprudenza, gli apprezzamenti compiuti dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica sono da ritenere sindacabili solo laddove risultino inficiati da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
Inoltre, l’Amministrazione non è tenuta a confutare analiticamente le singole osservazioni, poiché queste ultime costituiscono meri apporti collaborativi, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che le osservazioni siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Costituisce, poi, una massima giurisprudenziale consolidata l’affermazione per cui “Fatte salve le scelte incidenti su zone territorialmente circoscritte, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione è di portata generale e risulta soddisfatto tramite l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte urbanistiche, senza necessità di una motivazione puntuale.
Con l’ulteriore corollario per cui “L'amministrazione comunale non è tenuta ad una particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da destinazioni precedentemente impresse al territorio dal precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l'esercizio della potestà pianificatoria".
---------------
La giurisprudenza ravvisa un affidamento qualificato del privato rispetto alla precedente disciplina urbanistica, tale da determinare un più stringente onere motivatorio delle scelte di piano.
Tali evenienze –comportanti un onere di motivazione più incisivo– sono state ravvisate infatti:
- nel superamento degli standards minimi di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444;
- nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione edilizia, ecc.;
- nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

3.1 Il motivo è infondato.
Rileva anzitutto il Collegio che, secondo quanto affermato costantemente dalla giurisprudenza, gli apprezzamenti compiuti dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica sono da ritenere sindacabili solo laddove risultino inficiati da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare (così, ex multis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.05.2014, n. 1281).
Inoltre, l’Amministrazione non è tenuta a confutare analiticamente le singole osservazioni, poiché queste ultime costituiscono meri apporti collaborativi, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che le osservazioni siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3358; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.07.2014, n. 1972).
Costituisce, poi, una massima giurisprudenziale consolidata l’affermazione per cui “Fatte salve le scelte incidenti su zone territorialmente circoscritte, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione è di portata generale e risulta soddisfatto tramite l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte urbanistiche, senza necessità di una motivazione puntuale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20.02.2014 n. 793; id. 10.05.2012 n. 2710; id. 08.06.2011 n. 3497 e id. 03.11.2008 n. 5478).” (così Cons. Stato, Sez. IV, 01.07.2014 n. 3294. V. anche Ad. Plen., n. 24 del 1999). Con l’ulteriore corollario per cui “L'amministrazione comunale non è tenuta ad una particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da destinazioni precedentemente impresse al territorio dal precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l'esercizio della potestà pianificatoria (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 12/05/2011 n. 2863)” (così ancora Cons. Stato, n. 3294 del 2014, cit.).
Nel caso oggetto del presente giudizio, non è ravvisabile nessuna delle situazioni in presenza delle quali la giurisprudenza ravvisa un affidamento qualificato del privato rispetto alla precedente disciplina urbanistica, tale da determinare un più stringente onere motivatorio delle scelte di piano. Tali evenienze –comportanti un onere di motivazione più incisivo– sono state ravvisate infatti: nel superamento degli standards minimi di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444; nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione edilizia, ecc.; nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1972 del 2014, cit.).
Nessun affidamento qualificato poteva invece vantare la ricorrente, in ragione della mera circostanza che la precedente disciplina di piano prevedesse un determinato indice di edificabilità, ad essa più favorevole rispetto a quello attualmente stabilito
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2015 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150 stabilisce che il Piano regolatore generale determina l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo “le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale”.
L’art. 41-quinquies, comma 8, della l. n. 1150/1942 stabilisce che “in tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati […] rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici, o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” avuto riguardo a “zone territoriali omogenee” (comma 9).
In sostanza la divisione del territorio in zone omogenee serve alla razionale dislocazione dei servizi pubblici e di interesse comune come si deduce dall’art. 41-quinquies l. 1150/1942, attuato dagli articoli 2-7 del d.m. 1444/1968, che dispone il reperimento degli spazi a standard, diversi per ciascuna zona e a ciascuna zona funzionali, diversamente tipizzando, fra le aree ivi comprese, quelle che sono destinate a taluni usi di interesse comune.
Il fatto che le aree a standard di zona o di quartiere siano reperite di norma all’interno della zona già delimitata assumendo come criterio aggregante l’omogeneità delle aree perimetrate, è dimostrato a contrario dalla lettera dell’art. 4, n. 2, D.M. 1444/1968 laddove prevede: “quando sia dimostrata l'impossibilità -detratti i fabbisogni comunque già soddisfatti- di raggiungere la predetta quantità minima di spazi su aree idonee, gli spazi stessi vanno reperiti entro i limiti delle disponibilità esistenti nelle adiacenze immediate”.
Ne consegue che una determinata area ricadente nella zona considerata può essere esclusa da taluno degli impieghi ammessi al suo interno in via generale e astratta, solo per ragioni indicative di un interesse prevalente che esige tale limitazione, perché non altrimenti realizzabile.
E’ quindi evidente che la coesistenza nella medesima zona omogenea di aree con diversa destinazione d’uso è possibile perché alcune sono prenotate a standard di zona previsti dall’art. 4 del d.m. 1444/1968.
Dette aree risultano quindi incise da un vincolo (conformativo o espropriativo) che le differenzia dalle altre aree, parimenti comprese nella zona considerata -cui è attribuita in dote la piena disponibilità degli usi ammessi dalle NTA, con possibilità di mutamento di destinazione, senza che ciò implichi variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. a), d.P.R. 380/2001- proprio perché la tenuta funzionale del programma di zona è garantita dalla quantità minima delle aree a standard, cui tale possibilità è invece interdetta.
In alternativa, se si intende distinguere fra loro aree con analoghe caratteristiche morfologiche, ambientali e di contesto senza stabilire uno specifico nesso di servizio (standard di zona) delle une alle altre, occorre sussumerle in diverse sottozone territoriali, omogenee dal punto di vista funzionale.
Si intende affermare -consapevole il Collegio che il modello della zonizzazione del territorio ha assunto forme flessibili nella prassi applicativa, sino a pervenire, nell’ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o alla previsione di sottozone distinte da ulteriori peculiarità strutturali o funzionali- che il processo di conformazione del territorio non esclude che a livello di pianificazione generale possano essere previsti differenti regimi urbanistici all’interno della stessa zona omogenea.
Il principio di tipicità degli strumenti urbanistici, che riflette il limite di legalità dell’azione amministrativa, non esclude infatti che il pianificatore comunale, stante la progressiva espansione degli interessi affidati al governo di prossimità, introduca un sistema di “lettura” del territorio diverso o ulteriore rispetto al modello per zone, purché al pari di questo sia iscritto nel medesimo referente normativo, nazionale e regionale, e ad esso si conformi.
Se così non fosse infatti l’azione amministrativa sarebbe non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo modello di conformazione del territorio risulterebbe sostanzialmente abrogativo del sistema delineato dalla l. 1150/1942, il cui nucleo essenziale inderogabile, tanto da costituire principio fondamentale per la legislazione regionale concorrente, esige che siano identificate previamente le categorie generali e astratte ove iscrivere le porzioni di territorio, sulla base di descrittori anch’essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi che l’azione pianificatrice si prefigge.
E allora sarà del tutto irrilevante che la conformazione del territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei servizi di interesse generale, sia concepita per zone, contesti, ambiti, comparti, zone miste o microzone, purché –qualunque essa sia- corrisponda a categorie prefissate ex ante, tali cioè da costituire il parametro di legittimità della successiva azione amministrativa.
---------------
Gli orientamenti variamente espressi dalla giurisprudenza sulla tipicità degli strumenti urbanistici convergono sulla necessità che la pianificazione incidente sulla proprietà privata corrisponda comunque a classificazioni generali e astratte tali cioè da consentire il controllo di legalità.
Nulla esclude che un singolo edificio o lotto fondiario esistente all’interno di un’area omogenea abbia una conformazione differenziata, purché essa sia il risultato della sussunzione delle caratteristiche concrete dell’edificio o lotto nella corrispondente categoria astratta, risultando invece violato il principio di legalità dell’azione amministrativa ove accadesse il contrario, se cioè una proprietà in quanto tale per le sue caratteristiche intrinseche ricevesse ex post una disciplina puntuale e concreta.
Non di meno il p.r.g. può recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali "zone", se la scelta, benché puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell'immobile "ex se" considerato, ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il singolo immobile assume nel contesto dell'assetto territoriale.
E allora sarà evidente che l’area in questione esprime ex se una categoria uniforme e unificante replicabile ogni volta che il territorio presenti la stessa evidenza, essendo del tutto accidentale ed irrilevante che nel momento concreto considerato, tale classificazione attinga un singolo immobile, altrimenti sarebbe violato il fondamento dell’attività di pianificazione che è dare una connotazione omogenea alle aree consimili per caratteristiche predefinite.

In sostanza, il punto decisivo della controversia è stabilire se il PUG poteva legittimamente limitare la destinazione dell’immobile dei ricorrenti, compreso nel contesto consolidato ad alta densità, solo ad usi destinati alla collettività (servizi pubblici e privati ad uso pubblico) in ragione della concreta destinazione a sala cinematografica ad esso impressa da lungo tempo.
Preliminarmente è necessario richiamare alcuni principi in materia di pianificazione generale.
L’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150 stabilisce che il Piano regolatore generale (PUG secondo la legislazione regionale pugliese) determina l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo “le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale”.
L’art. 41-quinquies, comma 8, della l. n. 1150/1942 stabilisce che “in tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati […] rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici, o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” avuto riguardo a “zone territoriali omogenee” (comma 9).
In sostanza la divisione del territorio in zone omogenee serve alla razionale dislocazione dei servizi pubblici e di interesse comune (Consiglio di Stato n. 71/1989) come si deduce dall’art. 41-quinquies l. 1150/1942, attuato dagli articoli 2-7 del d.m. 1444/1968, che dispone il reperimento degli spazi a standard, diversi per ciascuna zona e a ciascuna zona funzionali, diversamente tipizzando, fra le aree ivi comprese, quelle che sono destinate a taluni usi di interesse comune.
Il fatto che le aree a standard di zona o di quartiere siano reperite di norma all’interno della zona già delimitata assumendo come criterio aggregante l’omogeneità delle aree perimetrate, è dimostrato a contrario dalla lettera dell’art. 4, n. 2, D.M. 1444/1968 laddove prevede: “quando sia dimostrata l'impossibilità -detratti i fabbisogni comunque già soddisfatti- di raggiungere la predetta quantità minima di spazi su aree idonee, gli spazi stessi vanno reperiti entro i limiti delle disponibilità esistenti nelle adiacenze immediate”.
Ne consegue che una determinata area ricadente nella zona considerata può essere esclusa da taluno degli impieghi ammessi al suo interno in via generale e astratta, solo per ragioni indicative di un interesse prevalente che esige tale limitazione, perché non altrimenti realizzabile.
E’ quindi evidente che la coesistenza nella medesima zona omogenea di aree con diversa destinazione d’uso è possibile perché alcune sono prenotate a standard di zona previsti dall’art. 4 del d.m. 1444/1968.
Dette aree risultano quindi incise da un vincolo (conformativo o espropriativo) che le differenzia dalle altre aree, parimenti comprese nella zona considerata -cui è attribuita in dote la piena disponibilità degli usi ammessi dalle NTA, con possibilità di mutamento di destinazione, senza che ciò implichi variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. a), d.P.R. 380/2001- proprio perché la tenuta funzionale del programma di zona è garantita dalla quantità minima delle aree a standard, cui tale possibilità è invece interdetta.
In alternativa, se si intende distinguere fra loro aree con analoghe caratteristiche morfologiche, ambientali e di contesto senza stabilire uno specifico nesso di servizio (standard di zona) delle une alle altre, occorre sussumerle in diverse sottozone territoriali, omogenee dal punto di vista funzionale.
Si intende affermare -consapevole il Collegio che il modello della zonizzazione del territorio ha assunto forme flessibili nella prassi applicativa, sino a pervenire, nell’ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o alla previsione di sottozone distinte da ulteriori peculiarità strutturali o funzionali- che il processo di conformazione del territorio non esclude che a livello di pianificazione generale possano essere previsti differenti regimi urbanistici all’interno della stessa zona omogenea.
Il principio di tipicità degli strumenti urbanistici, che riflette il limite di legalità dell’azione amministrativa, non esclude infatti che il pianificatore comunale, stante la progressiva espansione degli interessi affidati al governo di prossimità, introduca un sistema di “lettura” del territorio diverso o ulteriore rispetto al modello per zone, purché al pari di questo sia iscritto nel medesimo referente normativo, nazionale e regionale, e ad esso si conformi.
Se così non fosse infatti l’azione amministrativa sarebbe non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo modello di conformazione del territorio risulterebbe sostanzialmente abrogativo del sistema delineato dalla l. 1150/1942, il cui nucleo essenziale inderogabile, tanto da costituire principio fondamentale per la legislazione regionale concorrente, esige che siano identificate previamente le categorie generali e astratte ove iscrivere le porzioni di territorio, sulla base di descrittori anch’essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi che l’azione pianificatrice si prefigge.
E allora sarà del tutto irrilevante che la conformazione del territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei servizi di interesse generale, sia concepita per zone, contesti, ambiti, comparti, zone miste o microzone, purché –qualunque essa sia- corrisponda a categorie prefissate ex ante, tali cioè da costituire il parametro di legittimità della successiva azione amministrativa.
Gli orientamenti variamente espressi dalla giurisprudenza sulla tipicità degli strumenti urbanistici convergono sulla necessità che la pianificazione incidente sulla proprietà privata corrisponda comunque a classificazioni generali e astratte tali cioè da consentire il controllo di legalità (TAR Trentino-Alto Adige Trento 07/01/2010, n. 1, Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010 n. 4545).
Nulla esclude che un singolo edificio o lotto fondiario esistente all’interno di un’area omogenea abbia una conformazione differenziata, purché essa sia il risultato della sussunzione delle caratteristiche concrete dell’edificio o lotto nella corrispondente categoria astratta, risultando invece violato il principio di legalità dell’azione amministrativa ove accadesse il contrario, se cioè una proprietà in quanto tale per le sue caratteristiche intrinseche ricevesse ex post una disciplina puntuale e concreta.
Non di meno il p.r.g. può recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali "zone", se la scelta, benché puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell'immobile "ex se" considerato, ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il singolo immobile assume nel contesto dell'assetto territoriale (Consiglio di Stato, sez. V, 24/04/2013, n. 2265).
E allora sarà evidente che l’area in questione esprime ex se una categoria uniforme e unificante replicabile ogni volta che il territorio presenti la stessa evidenza, essendo del tutto accidentale ed irrilevante che nel momento concreto considerato, tale classificazione attinga un singolo immobile (Consiglio di Stato, sez IV 14.10.2014 n. 6290), altrimenti sarebbe violato il fondamento dell’attività di pianificazione che è dare una connotazione omogenea alle aree consimili per caratteristiche predefinite (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 23.04.2015 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
Con la conseguenza che non è nemmeno necessario un atto espresso che dichiari la decadenza del titolo edificatorio, perché, diversamente opinando, «si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche».
Se, dunque, l’istituto in esame opera di diritto in presenza dei presupposti fissati dalla norma e l’atto comunale ha natura meramente ricognitiva di un effetto già verificatosi, l’onere motivazionale che incombe sull’Autorità procedente è limitato alla rappresentazione della conformità della fattispecie concreta a quella astratta delineata dalla disposizione: nel caso di specie il mancato avvio dei lavori.
Ora, con riferimento al presente giudizio, la circostanza sulla scorta della quale è stata pronunciata la decadenza non è contestata dall’interessata, che anzi chiedendo una proroga del termine annuale ha ammesso il mancato avvio dei lavori di costruzione. D’altro canto, è indubbio che non possa essere sufficiente una dichiarazione meramente formale di avvio dei lavori non seguita da un’attività sostanziale per impedire il verificarsi dell’effetto decadenziale.
Di contro, il titolare del permesso di costruire può evitare la decadenza anche chiedendo, in presenza di ragioni oggettivamente ostative all’edificazione, una proroga del termine in discussione, prima della scadenza del termine stesso.
Anche laddove si sia in presenza del cd. factum principis o di cause di forza maggiore, l’interessato è pur sempre onerato della richiesta di proroga, che deve essere accordata con atto espresso dell’Amministrazione, non operando automaticamente l’effetto sospensivo. Invero, l’atto di proroga, a differenza dell’accertamento dell’intervenuta decadenza, è atto di esercizio di discrezionalità amministrativa, perché presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio della edificazione.

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia dell’atto di data 08.02.2010 PG/U 0017710 del Dirigente del Servizio Edilizia Privata del Comune di Udine di accertamento della decadenza del permesso a costruire Cod. PDC/129.1.2008;
...
7.1. Il ricorso è infondato, tenuto conto della natura dell’atto di decadenza del permesso di costruire per mancato avvio dei lavori nel termine annuale di cui al già citato articolo 15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, e dello svolgimento degli eventi nel caso di specie.
7.2.1. Invero, come chiarito dal prevalente orientamento giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene senz’altro di aderire in considerazione della testuale formulazione della previsione normativa, «la pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc» (così, C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 1013/2014; nello stesso senso, ex plurimis, TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, sentenza n. 1081/2014; TAR Piemonte, Sez. I, sentenza n. 2/2014).
Con la conseguenza che non è nemmeno necessario un atto espresso che dichiari la decadenza del titolo edificatorio, perché, diversamente opinando, «si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche» (così, TAR Abruzzo–Pescara, sentenza n. 61/2013).
7.2.2. Se, dunque, l’istituto in esame opera di diritto in presenza dei presupposti fissati dalla norma e l’atto comunale ha natura meramente ricognitiva di un effetto già verificatosi, l’onere motivazionale che incombe sull’Autorità procedente è limitato alla rappresentazione della conformità della fattispecie concreta a quella astratta delineata dalla disposizione (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 2027/2013): nel caso di specie il mancato avvio dei lavori.
7.2.3. Ora, con riferimento al presente giudizio, la circostanza sulla scorta della quale è stata pronunciata la decadenza non è contestata dall’interessata, che anzi chiedendo una proroga del termine annuale ha ammesso il mancato avvio dei lavori di costruzione. D’altro canto, è indubbio che non possa essere sufficiente una dichiarazione meramente formale di avvio dei lavori non seguita da un’attività sostanziale per impedire il verificarsi dell’effetto decadenziale (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 974/2012).
7.3.1. Di contro, il titolare del permesso di costruire può evitare la decadenza anche chiedendo, in presenza di ragioni oggettivamente ostative all’edificazione, una proroga del termine in discussione, prima della scadenza del termine stesso.
7.3.2. Anche laddove si sia in presenza del cd. factum principis o di cause di forza maggiore, l’interessato è pur sempre onerato della richiesta di proroga, che deve essere accordata con atto espresso dell’Amministrazione, non operando automaticamente l’effetto sospensivo (cfr., C.d.S., Sez. III, sentenza n. 1870/2013). Invero, l’atto di proroga, a differenza dell’accertamento dell’intervenuta decadenza, è atto di esercizio di discrezionalità amministrativa, perché presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio della edificazione.
7.3.3. Nel caso in esame, invece, risulta per tabulas, che la pronuncia del Giudice amministrativo che annullava la limitazione di altezza dell’erigendo fabbricato è intervenuta oltre due mesi prima la scadenza del termine annuale in discussione, che la suddetta sentenza era immediatamente autoapplicativa e dunque l’edificazione non necessitava di alcuna ulteriore attività da parte dell’Amministrazione, che la società Edil Friuli S.p.A., anziché chiedere una proroga dell’inizio dei lavori (istanza che in astratto poteva pure essere fondata), ha falsamente attesto l’avvio dei lavori, che la richiesta di proroga è giunta a termine oramai scaduto.
8.1. In presenza dei suindicati presupposti giuridico-fattuali il Comune altro non poteva fare che emettere l’atto –vincolato- ricognitivo dell’intervenuta decadenza ope legis del permesso di costruire per cui è causa (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 22.04.2015 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La spending review giustifica l’annullamento dell’appalto. Consiglio di Stato. Stop in autotutela.
A fronte di un giustificato e rilevante interesse pubblico, quale la riduzione della spesa pubblica (spending review) in conseguenza della crisi economica, l’affidamento del privato regredisce e, conseguentemente, è minore la cogenza dell’obbligo motivazionale in capo al provvedimento di revoca in autotutela da parte della stazione appaltante.
La fattispecie, analizzata nella sentenza 21.04.2015 n. 2019 della V Sez. del Consiglio di Stato, trae origine dall’aggiudicazione di una gara d’appalto sulla progettazione e l’esecuzione di un nuovo immobile regionale da destinare ad uffici e sedi di organismi pubblici.
A breve distanza dall’aggiudicazione, l’amministrazione aveva emanato in autotutela un provvedimento di revoca della gara e di tutti i provvedimenti successivamente intervenuti, sulla base della necessità di riduzione dei “costi della politica”.
Il provvedimento veniva impugnato e annullato dal Tar in quanto ritenuto carente sotto il profilo motivazionale, per non avere l’amministrazione interessata argomentato adeguatamente il raffronto tra le spese derivanti dall’esecuzione dell’appalto e i risparmi derivanti invece dall’abbattimento dei costi di locazione delle sedi di alcuni uffici attualmente sostenuti dalla Regione.
Di diverso avviso il Consiglio di Stato, il quale ha invece accolto l’appello. In primo luogo, il collegio ha precisato che l’obbligo di esaminare le memorie e i documenti difensivi presentati in riscontro alla comunicazione di avvio del procedimento amministrativo non impone all’amministrazione una formale e analitica confutazione di ogni argomento esposto, essendo sufficiente una motivazione che renda percepibili le ragioni del mancato adeguamento alle deduzioni partecipative (Consiglio di Stato, Sezione VI, 29.05.2012, n. 3210).
Il Consiglio di Stato ha poi rimarcato il fatto che in primo grado il Tar aveva invece erroneamente sostenuto che non risultava adeguatamente dimostrato come l’esecuzione della nuova opera avrebbe effettivamente abbattuto il costo delle locazioni. Con ciò di fatto svolgendo, impropriamente, censure di merito sull’operato della Pa, in violazione del principio per il quale il sindacato giurisdizionale sui provvedimenti discrezionali è limitato solo all’illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta e arbitrarietà evidente.
Quanto invece all’affidamento della società quale conseguenza diretta e immediata dell’aggiudicazione definitiva e dell’attività difensiva svolta nel corso dei precedenti giudizi relativi all’aggiudicazione della procedura aperta –principio condiviso dal Tar- il Consiglio di Stato ha sottolineato come la presenza di un’indebita alterazione, nel corso della gara, della par condicio a vantaggio della società aggiudicataria, faccia venir meno in favore della società il legittimo e pieno affidamento all’aggiudicazione. Affidamento che comunque deve essere controbilanciato con l’interesse generale che costituisce il fondamento del potere di autotutela.
Tanto più nel caso in cui l’affidamento deve considerarsi recessivo rispetto a un provvedimento in autotutela fondato (e giustificato) sul rilevante interesse pubblico di voler evitare la lievitazione dei costi dei lavori pubblici, e di voler quindi conseguire una riduzione della spesa pubblica, conseguente alla crisi economica, rispetto al quale l’interesse privato regredisce, con conseguente minor cogenza dell’obbligo motivazionale al riguardo (si veda anche Consiglio di Stato, Sezione V, 29.12.2014 n. 6406)
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati-p.a., al rapporto basta la procura generale.
Per la costituzione del rapporto contrattuale tra il legale e la pubblica amministrazione è sufficiente la procura generale ad lites rilasciata all'avvocato dall'amministrazione medesima; logicamente in aggiunta con la redazione e la sottoscrizione degli atti difensivi.

A sottolinearlo sono stati i giudici della Sez. VI civile con l'ordinanza 16.04.2015 n. 7790.
Nell'ordinanza in commento viene anche evidenziato come il requisito della forma scritta richiesto ad substantiam per la stipula di contratti di cui sia parte una pubblica amministrazione, nel contratto tra legale ed amministrazione è soddisfatto per mezzo del rilascio all'avvocato della procura ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., tenendo altresì presente il principio secondo cui l'esercizio della rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona, tramite l'incontro di volontà fra le parti, l'accordo contrattuale in forma scritta, rendendo così possibile l'identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell'Autorità tutoria.
Secondo i giudici di piazza Cavour è essenziale il richiamo al principio di diritto circa il legame tra procura, rilasciata al difensore ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., e redazione e sottoscrizione dell'atto difensivo da parte dello stesso, ai fini del perfezionamento di un accordo contrattuale nella forma prescritta a pena di nullità.
Pertanto in tema di contratti della pubblica amministrazione, che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura generale alle liti ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., qualora sia puntualmente fissato l'ambito delle controversie per le quali opera la procura stessa (nella specie: «tutte le cause attive e passive promosse e da promuoversi, ... innanzi a qualsiasi Autorità Giudiziaria, esclusa la Suprema corte di cassazione, aventi ad oggetto il solo recupero dei crediti della stessa Camera di commercio mandante»..., con espressa autorizzazione, a tal fine, di «intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e dare loro impulso») (articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

CONDOMINIODanni, responsabilità condivisa. Locatore e conduttore rispondono dell'incidente a terzi. Lo ha chiarito la Cassazione in merito a un caso di impianto elettrico non a norma.
In caso di danni a terzi derivanti dalla cattiva manutenzione dello scaldabagno e dalla contemporanea assenza di dispositivi di sicurezza dell'impianto elettrico sono responsabili tanto il proprietario quanto il conduttore dell'appartamento concesso in locazione.

Lo ha chiarito la III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 16.04.2015 n. 7699.
Il caso concreto. Nella specie, la moglie di un operaio deceduto perché folgorato da una scarica elettrica durante l'effettuazione di lavori idraulici in un'unità immobiliare concessa in locazione aveva agito in giudizio contro il proprietario e il conduttore di quest'ultima per accertare la responsabilità in ordine ai danni da liquidarsi in favore suo e del figlio minorenne. La donna riteneva, infatti, che la morte del marito fosse stata causata dalla mancanza delle condizioni di sicurezza dell'impianto elettrico dell'appartamento.
Il tribunale, in accoglimento della domanda di risarcimento del danno, aveva ritenuto la responsabilità solidale sia del proprietario-locatore sia del conduttore. Nella specie era risultato che il decesso era avvenuto a causa di una scarica elettrica provocata da un difetto della resistenza dello scaldabagno sul quale l'operaio stava intervenendo, scarica non neutralizzata (come sarebbe dovuto avvenire) da dispositivi di sicurezza (messa a terra o salvavita), dei quali l'impianto elettrico dell'appartamento era sprovvisto.
La sentenza era stata confermata anche in appello e, per questo motivo, le parti condannate avevano presentato ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. La Cassazione, confermando la sentenza impugnata, ha evidenziato come i giudici di merito avessero correttamente accertato che il fatto dannoso si era prodotto sia a causa del difettoso funzionamento dello scaldabagno sia per il concomitante mancato innesco dei dispositivi di sicurezza dell'impianto elettrico (del tutto mancanti) e che per tale motivo avevano ritenuto la responsabilità concorrente del proprietario e del conduttore dell'appartamento, condannandoli in solido al risarcimento del pregiudizio subito dagli eredi dell'operaio deceduto.
Il conduttore, infatti, era stato ritenuto responsabile, in qualità di custode del bene, per non avere mantenuto in perfette condizioni di sicurezza lo scaldabagno dal quale si era originata la scarica elettrica. La responsabilità del proprietario, invece, discendeva dal suo obbligo di custodia dell'impianto elettrico (conglobato nella struttura muraria), privo di dispositivi di sicurezza.
--------------
Va dimostrato il caso fortuito.
Il conduttore ha la custodia dell'appartamento concesso in locazione e, per questo, risponde dei danni procurati a terzi, compreso il locatore, qualora venga a subire danni nella propria persona o in altri beni diversi dall'immobile locato. Il conduttore si libera da tale responsabilità soltanto dimostrando che il fatto è dovuto a forza maggiore o a un comportamento dello stesso danneggiato.
Se un'unità immobiliare è concessa in locazione, il proprietario, conservando la disponibilità giuridica, e, quindi, la custodia delle strutture murarie e degli impianti in essa conglobati, è responsabile in via esclusiva dei danni arrecati a terzi da dette strutture e impianti (salvo eventuale rivalsa contro il conduttore che abbia omesso di avvertirlo del pericolo).
Tali sono le murature, i cornicioni, i tetti e tutti quegli impianti idrici, sanitari per raggiungere i quali occorre intervenire sulle opere murarie che non possono essere manomesse dal conduttore, tenuto a restituire a fine locazione lo stabile così come lo ha ricevuto. Se è pur vero che il proprietario di un immobile locato non è esentato da responsabilità per danno cagionato a terzi derivato dal proprio immobile, ciò non significa che la stessa sia estesa a qualsiasi danno.
Infatti, riguardo alle parti e agli accessori del bene locato, rispetto alle quali la diretta disponibilità viene acquistata dal conduttore, rimane in capo a quest'ultimo la facoltà e l'obbligo di intervenire, onde evitare il pregiudizio a terzi. In caso di danni, qualora venga accertato che provengano da omessa manutenzione ordinaria o dal mancato tempestivo intervento del conduttore, le responsabilità risarcitorie gravano unicamente su quest'ultimo (articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 10, comma primo, lett. c), del T.U. edilizia costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino (…) modifiche delle superfici…”.
Come si vede la norma prescrive che sono subordinati a permesso di costruire, fra l’altro, gli interventi che, oltre a determinare la trasformazione dell’organismo edilizio originario, comportino modifiche alla superficie esistente.
La diposizione parla di superficie in generale senza alcuna specificazione. Si deve pertanto ritenere che, ai fini che qui interessano, sia rilevante qualsiasi incremento della superficie reale, senza che abbia invece alcun rilievo il fatto che questa superficie sia o meno conteggiabile ai fini del calcolo dei parametri edilizi (ed in particolare della volumetria).
In proposito va osservato che i comuni, nei propri strumenti urbanistici, devono individuare i parametri edilizi da rispettare in caso di nuove edificazioni o di ampliamento di quelle esistenti, stabilendo, fra l’altro, la consistenza volumetrica o la superficie lorda di pavimento massima assentibile nelle singole zone in cui si scompone il territorio comunale (cfr. ad. es. art. 10, comma 3, lett. b) della legge regionale n. 12 del 2005).
Ebbene, a questo fine, i comuni stabiliscono spesso, nei propri atti di pianificazione, che parte delle nuove superfici create non vadano computate ai fini del calcolo della volumetria o della superficie lorda di pavimento, in quanto trattasi di superfici destinate ad ospitare attrezzature tecniche o comunque non destinate alla permanenza di persone e, per questa ragione, aventi scarso rilievo sotto il profilo del carico urbanistico introdotto. Si pensi, ad esempio, alle cantine, ai depositi ed ai sottotetti non abitabili.
Queste superfici, tuttavia, sebbene neutre ai fini della verifica del rispetto dei parametri stabiliti dallo strumento urbanistico, sono comunque rilevanti ai fini edilizi ed urbanistici, giacché la loro creazione determina comunque una trasformazione del territorio. La loro realizzazione è dunque sempre subordinata al rilascio del permesso di costruire.
Il fatto che la nuova superficie creata da un intervento edilizio non sia computabile ai fini del calcolo della superficie lorda di pavimento non esclude quindi che tale intervento sia subordinato al rilascio del permesso di costruire.
In questo senso è pacificamente orientata la giurisprudenza la quale ritiene che siano subordinati a permesso di costruire interventi che non determinano la creazione di ambienti destinati alla permanenza di persone (e, dunque, in base alla normativa comunale spesso non rilevanti ai fini del calcolo della superficie lorda di pavimento). Si pensi ad esempio ai muri di cinta, ai box, alle insegne, ai muri di contenimento ecc….
Solo in casi eccezionali, quando cioè per la minima consistenza dell’intervento l’opera possa essere considerata pertinenziale ai sensi dell’art. 3, comma primo, lett. e.6), del T.U. edilizia, la creazione di nuova superficie non è subordinata a permesso di costruire.

1. La società ricorrente è proprietaria di un edificio situato nel Comune di Cinisello Balsamo, via ..., n. 59. L’edificio è destinato in parte ad uffici ed in parte a deposito.
2. Con il ricorso in esame, viene impugnata l’ordinanza n. 376 del 20.11.2003, con la quale il Dirigente del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cinisello Balsamo ha constatato la realizzazione di opere all’interno del predetto immobile in assenza di titolo edilizio e ne ha, conseguentemente, ingiunto la demolizione. Le opere, a dire del Comune, consistono in due soppalchi, due ascensori ed in una scala d’accesso.
3. Oltre alla domanda di annullamento, viene proposta domanda risarcitoria.
4. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Comune di Cinisello Balsamo.
5. La Sezione, con ordinanza n. 785 del 24.03.2004, ha respinto l’istanza cautelare.
6. Successivamente, il Comune di Cinisello Balsamo ha adottato il provvedimento n. 133 del 12.05.2004, con cui ha disposto la demolizione d’ufficio delle opere ritenute abusive.
7. Questo provvedimento è stato impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti.
8. La Sezione, con ordinanza n. 1851 del 07.07.2004, ha respinto anche l’istanza cautelare proposta con suddetti i motivi aggiunti.
9. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le parti hanno depositato memorie insistendo nelle loro conclusioni.
10. Tenutasi la pubblica udienza in data 04.03.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
11. Il ricorso introduttivo, rivolto contro l’ordine di demolizione del 20.11.2003, contiene due motivi.
12. Con il primo motivo, si rileva che l’ordinanza impugnata sarebbe viziata in quanto postula erroneamente la creazione di soppalchi costituenti superficie lorda di pavimento. Al contrario, a dire della ricorrente, le opere realizzate sarebbero delle mere scaffalature destinate a deposito, non costituenti s.l.p. Si rileva inoltre che le opere sarebbero conformi agli strumenti urbanistici vigente ed adottato e che, contrariamente a quanto affermato nel provvedimento, sia gli ascensori che la scala sarebbero contemplati nella denuncia di inizio attività del 18.12.2002 e successive varianti; non sarebbe dunque corretto quanto sostiene l’Amministrazione, secondo le quale le predette opere sarebbero state realizzate in assenza di titolo.
13. Con il secondo motivo, la ricorrente sostiene che, anche ammettendo che le opere suindicate siano state realizzate senza titolo, trattandosi di intervento ascrivibile alla categoria della manutenzione straordinaria, l’Amministrazione, invece di ingiungere la riduzione in pristino, avrebbe dovuto applicare la sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 37 del T.U. edilizia.
14. I due motivi possono essere trattati congiuntamente.
15. In base all’art. 10, comma primo, lett. c), del T.U. edilizia costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino (…) modifiche delle superfici…”.
16. Come si vede la norma prescrive che sono subordinati a permesso di costruire, fra l’altro, gli interventi che, oltre a determinare la trasformazione dell’organismo edilizio originario, comportino modifiche alla superficie esistente.
17. La diposizione parla di superficie in generale senza alcuna specificazione. Si deve pertanto ritenere che, ai fini che qui interessano, sia rilevante qualsiasi incremento della superficie reale, senza che abbia invece alcun rilievo il fatto che questa superficie sia o meno conteggiabile ai fini del calcolo dei parametri edilizi (ed in particolare della volumetria).
18. In proposito va osservato che i comuni, nei propri strumenti urbanistici, devono individuare i parametri edilizi da rispettare in caso di nuove edificazioni o di ampliamento di quelle esistenti, stabilendo, fra l’altro, la consistenza volumetrica o la superficie lorda di pavimento massima assentibile nelle singole zone in cui si scompone il territorio comunale (cfr. ad. es. art. 10, comma 3, lett. b) della legge regionale n. 12 del 2005).
Ebbene, a questo fine, i comuni stabiliscono spesso, nei propri atti di pianificazione, che parte delle nuove superfici create non vadano computate ai fini del calcolo della volumetria o della superficie lorda di pavimento, in quanto trattasi di superfici destinate ad ospitare attrezzature tecniche o comunque non destinate alla permanenza di persone e, per questa ragione, aventi scarso rilievo sotto il profilo del carico urbanistico introdotto. Si pensi, ad esempio, alle cantine, ai depositi ed ai sottotetti non abitabili.
19. Queste superfici, tuttavia, sebbene neutre ai fini della verifica del rispetto dei parametri stabiliti dallo strumento urbanistico, sono comunque rilevanti ai fini edilizi ed urbanistici, giacché la loro creazione determina comunque una trasformazione del territorio. La loro realizzazione è dunque sempre subordinata al rilascio del permesso di costruire.
20. Il fatto che la nuova superficie creata da un intervento edilizio non sia computabile ai fini del calcolo della superficie lorda di pavimento non esclude quindi che tale intervento sia subordinato al rilascio del permesso di costruire.
21. In questo senso è pacificamente orientata la giurisprudenza la quale ritiene che siano subordinati a permesso di costruire interventi che non determinano la creazione di ambienti destinati alla permanenza di persone (e, dunque, in base alla normativa comunale spesso non rilevanti ai fini del calcolo della superficie lorda di pavimento). Si pensi ad esempio ai muri di cinta, ai box, alle insegne, ai muri di contenimento ecc… (cfr. Cassazione penale, sez. III, 23.09.2005; TAR Piemonte, sez. I, 18.12.2013, n. 1368; TAR Liguria, sez. I, 31.12.2009, n. 4131).
22. Solo in casi eccezionali, quando cioè per la minima consistenza dell’intervento l’opera possa essere considerata pertinenziale ai sensi dell’art. 3, comma primo, lett. e.6), del T.U. edilizia, la creazione di nuova superficie non è subordinata a permesso di costruire (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.04.2015 n. 942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti verdi, decide la regione. Regole territoriali per la combustione di scarti vegetali. La Corte costituzionale ha fissato i paletti con una sentenza datata 16 aprile.
Regioni legittimate a dettare norme sulla combustione dei residui vegetali oltre gli stretti paletti posti dal Codice ambientale.

È quanto emerge dalla sentenza 16.04.2015 n. 60 con cui la Corte costituzionale ha riconosciuto la disciplina sull'abbruciamento dei materiali verdi come rientrante in quella afferente l'agricoltura, di competenza residuale degli enti territoriali in base all'art. 117, comma 4 della Costituzione e non in quella della tutela ambientale, riservata invece dal primo comma dello stesso articolo alla legislazione esclusiva dello stato.
Il caso. La pronuncia del giudice delle leggi arriva in risposta alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal governo in relazione a una legge regionale che consente l'eliminazione mediante abbruciamento di residui vegetali provenienti da lavori di forestazione per soddisfare esigenze di carattere fitosanitario (volte cioè ad eliminare la diffusione di organismi nocivi per le piante e uomo) e di prevenzione incendi, non espressamente previste dal dlgs 152/2006 (cosiddetto Codice ambientale).
La pronuncia della Corte. Per l'Avvocatura dello stato i residui in parola andavano ricondotti sotto la disciplina della parte IV del dlgs 152/2006, che ne prevede la gestione fuori dal regime dei rifiuti solo per determinate e diverse finalità di riutilizzo.
La Consulta ha invece rigettato le censure, fondando la legittimità delle norme locali in tema di combustione dei residui verdi su due principi rimasti a suo avviso immutati (nonostante le ultime modifiche introdotte nel 2014 dal legislatore nazionale): il rientrare le disposizioni territoriali nella materia dell'agricoltura, di competenza regionale; l'essere la pratica dell'abbruciamento in loco ordinariamente conducibile sia in agricoltura che in selvicoltura (Corte di cassazione n. 76/2015).
La disciplina del Codice ambientale. Alla base della pronuncia della Corte costituzionale (che segue a stretto giro due analoghe sentenze 2015 dello stesso giudice: la n. 16 e la n. 38) vi è proprio l'ultimo restyling delle regole sulla gestione dei residui vegetali previste dal dlgs 152/2006, rivisitazione inaugurata nel 2013 con l'introduzione nel Codice ambientale del nuovo reato di «combustione illecita di rifiuti» (articolo 256-bis) e poi ritoccata nell'agosto scorso tramite la legge 116/2014.
In base all'attuale assetto, a parte l'autocompostaggio «in situ» permesso dall'art. 183, comma 1, lettera e) a utenze private e assimilate, la gestione fuori dalla disciplina dei rifiuti dei residui verdi è infatti ammessa solo nei casi particolari ed espressamente previsti dagli articoli: 182, comma 6-bis (sull'abbruciamento dei materiali vegetali); 184-bis (sul regime generale dei sottoprodotti); 185, comma 1, lettera f (sulle esclusioni dal campo di applicazione del regime dei rifiuti); 256-bis, comma 6 (sulle ipotesi di combustione lecita di residui). Secondo l'art. 185 del Codice ambientale non rientrano nella disciplina dei rifiuti: «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
In base agli articoli 182 e 256-bis dlgs 152/2006 è consentita la combustione dei residui verdi nel rispetto di tutte le seguenti condizioni: i materiali devono essere raggruppati e bruciati nel luogo di produzione, in piccoli cumuli ed in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro; la pratica è finalizzata al reimpiego come sostanza ammendante o concimante.
Lo stesso art. 182, comma 6-bis, Codice ambientale attribuisce già delle potestà agli enti territoriali, laddove prevede che: «Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili».
Ma alla luce delle ultime pronunce della Corte costituzionale tali statuizioni non appaiono evidentemente più sufficienti ad illustrare gli effettivi poteri di intervento delle regioni in una materia che travalica i confini di quella strettamente ambientale (articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015).

EDILIZIA PRIVATALe immagini tratte da Google rappresentano uno strumento idoneo di prova e costituiscono anzi un fatto notorio ex art. 115, comma 2, c.p.c..
Peraltro, non appare contestata in primo grado, se non in termini apodittici, l’affermazione che si legge ad esempio nel ricorso n. 824/2005 (essere cioè almeno alcuni dei ricorrenti residenti a via Ausa) o nel ricorso n. 78/2009 (essere cioè i ricorrenti tutti residenti nella frazione di Cerasuolo Ausa).
Sia detto per completezza, che (come si vede dalle immagini tratte da Google, che rappresentano uno strumento idoneo di prova -cfr. Cons. Stato, sez. VI, 04.03.2015, n. 1063- e costituiscono anzi un fatto notorio ex art. 115, comma 2, c.p.c. - cfr. Trib. Genova, 12.04.2013) via Ausa attraversa proprio la località destinataria dell’intervento discusso) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.04.2015 n. 1890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La semplice prossimità non è di per sé elemento sufficiente a fondare l’interesse a impugnare strumenti urbanistici generali, quali quelli controversi.
In questo senso, infatti, è anche la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo la quale alla vicinitas del ricorrente deve aggiungersi un elemento ulteriore. Questo, in estrema sintesi, è costituito da ciò, che lo strumento urbanistico deve -in tesi- produrre un peggioramento della situazione (patrimoniale o personale) del ricorrente.
Valgano a tal fine alcuni esempi. I proprietari confinanti possono impugnare:
- il piano di recupero di un immobile, avente natura di piano urbanistico attuativo, in quanto vengano in rilievo interessi di carattere edilizio e strettamente inerenti alla disciplina del territorio;
- il progetto preliminare e il progetto esecutivo finalizzati alla realizzazione di un porto turistico che, se illegittimamente assentiti, sarebbero idonei ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici della zona;
- il progetto, comprensivo dell’approvazione di una variante per insediamenti produttivi, per la realizzazione -in un'area classificata come agricola dal previgente strumento di piano e destinata prevalentemente alla coltura del mais– di un centro di distribuzione e logistica merci, quando possa seguirne un pregiudizio consistente nella possibile diminuzione di valore del proprio immobile o nella peggiore qualità ambientale;
- il piano attuativo di insediamento edilizio interessante un'area con la destinazione urbanistica di "aree per servizi-parchi a verde attrezzato", con la realizzazione delle opere di urbanizzazione strumentali all'insediamento residenziale, quando la nuova destinazione urbanistica, al di là della possibile incidenza sul valore dei beni, possa apportare un pregiudizio in termini di sottrazione di visuale, luce e aria;
- gli atti di adozione e di approvazione definitiva del regolamento urbanistico comunale, nella parte in cui questo prevede l’edificabilità di un’area contigua, già collocata in “zona ippica” dal P.R.G. previgente, con possibili conseguenze pericolose per l’integrità dei propri beni e alterazione del complessivo quadro ambientale in cui i ricorrenti avevano sino ad allora vissuto.

La sussistenza della vicinitas non può essere dunque seriamente revocata in dubbio.
Si tratterebbe però, secondo gli appellanti, di un requisito da solo insufficiente per il riconoscimento della legittimazione e dell’interesse a ricorrere.
Vero è che la semplice prossimità non è di per sé elemento sufficiente a fondare l’interesse a impugnare strumenti urbanistici generali, quali quelli controversi.
In questo senso, infatti, è anche la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo la quale alla vicinitas del ricorrente deve aggiungersi un elemento ulteriore. Questo, in estrema sintesi, è costituito da ciò, che lo strumento urbanistico deve -in tesi- produrre un peggioramento della situazione (patrimoniale o personale) del ricorrente.
Valgano a tal fine alcuni esempi. I proprietari confinanti possono impugnare:
- il piano di recupero di un immobile, avente natura di piano urbanistico attuativo, in quanto vengano in rilievo interessi di carattere edilizio e strettamente inerenti alla disciplina del territorio (sez. IV, 29.07.2009, n. 4756);
- il progetto preliminare e il progetto esecutivo finalizzati alla realizzazione di un porto turistico che, se illegittimamente assentiti, sarebbero idonei ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici della zona (sez. IV, 26.06.2012, n. 3750);
- il progetto, comprensivo dell’approvazione di una variante per insediamenti produttivi, per la realizzazione -in un'area classificata come agricola dal previgente strumento di piano e destinata prevalentemente alla coltura del mais– di un centro di distribuzione e logistica merci, quando possa seguirne un pregiudizio consistente nella possibile diminuzione di valore del proprio immobile o nella peggiore qualità ambientale (sez. IV, 17.09.3.2012, n. 4926);
- il piano attuativo di insediamento edilizio interessante un'area con la destinazione urbanistica di "aree per servizi-parchi a verde attrezzato", con la realizzazione delle opere di urbanizzazione strumentali all'insediamento residenziale, quando la nuova destinazione urbanistica, al di là della possibile incidenza sul valore dei beni, possa apportare un pregiudizio in termini di sottrazione di visuale, luce e aria (sez. IV, 13.11.2012, n. 5715);
- gli atti di adozione e di approvazione definitiva del regolamento urbanistico comunale, nella parte in cui questo prevede l’edificabilità di un’area contigua, già collocata in “zona ippica” dal P.R.G. previgente, con possibili conseguenze pericolose per l’integrità dei propri beni e alterazione del complessivo quadro ambientale in cui i ricorrenti avevano sino ad allora vissuto (sez. IV, 12.06.2013, n. 3257) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.04.2015 n. 1890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl Tar Lombardia individua l'esatto perimetro della legge 241/1990.
Accesso, solo fatti nuovi. Questa la condizione per reiterare l'istanza. Si può reiterare l'istanza di accesso a documenti solo in presenza di fatti nuovi non rappresentati nell'originaria istanza.

Lo ha affermato il TAR Lombardia–Milano, Sez. III, con la sentenza 13.04.2015 n. 918.
I giudici lombardi esordiscono richiamando quella giurisprudenza (cfr. Tar Firenze sez. III 28.10.2013 n. 1475; Tar Lazio-Roma sez. III 23.10.2013 n. 9127; Cons. stato sez. VI 04.10.2013 n. 4912; Cons. stato sez. IV 26.09.2013 n. 4789; Ad. Plen. nn. 6 e 7 del 2006) che ha sostenuto la natura decadenziale del termine di trenta giorni per proporre impugnazione avverso il diniego di accesso e il silenzio sulle istanze di accesso, previsto oggi dall'art. 116 c.p.a. e, prima dell'entrata in vigore del codice, dall'art. 25, legge 241/1990, come modificato dalla legge 15/2005.
«L'azione ad exhibendum», prosegue il Tar, «si connota infatti quale giudizio a struttura impugnatoria che consente alla tutela giurisdizionale dell'accesso di assicurare la protezione dell'interesse giuridicamente rilevante e, al contempo, quell'esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di certezza delle posizioni dei controinteressati che sono pertinenti ai rapporti amministrativi scaturenti dai principi di pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa; d'altro canto la natura decadenziale del termine è coerente con il carattere accelerato del giudizio, che mal si concilierebbe con la proponibilità dell'azione nell'ordinario termine di prescrizione».
«Dalla natura decadenziale del termine», si legge nella sentenza, «consegue che la mancata impugnazione del diniego nel predetto termine non consente la reiterabilità dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo debba riconoscersi carattere meramente confermativo del primo; in altre parole, il privato potrà reiterare l'istanza di accesso e pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza».
«Ma qualora non ricorrano tali elementi di novità», conclude il Tar, «il privato si limiti a reiterare l'originaria istanza precedentemente respinta o, al più, a illustrare ulteriormente le sue ragioni, l'amministrazione ben potrà limitarsi a ribadire la propria precedente determinazione negativa, non potendosi immaginare, anche per ragioni di buon funzionamento dell'azione amministrativa in una cornice di reciproca correttezza dei rapporti tra privato e amministrazione, che l'amministrazione sia tenuta indefinitamente a prendere in esame la medesima istanza che il privato intenda ripetutamente sottoporle senza addurre alcun elemento di novità» (articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015).

APPALTIAppalti e gare online, la Pa deve risolvere le difficoltà tecniche. Tar Milano. Non si tagliano i tempi.
Quando le gare di appalto si svolgono con sistemi informatici, l’amministrazione deve rimediare alle difficoltà tecniche di accesso.

Lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, nella sentenza 09.04.2015 n. 910, relativa a una gara per gestione di un centro diurno.
In tutte le procedure di gara gestite con sistemi telematici, si applica l’articolo 296 del regolamento appalti pubblici (207 del 2010) che obbliga le amministrazioni a prevedere la possibilità di sospendere la procedura per le anomalie del sistema telematico, indicando i mezzi di comunicazione alternativi alla posta elettronica per i casi di indisponibilità oggettive momentanea. Interferenze o malfunzionamenti possono, infatti, condizionare l’esito della procedura. Nel caso esaminato era impossibile compilare l’offerta economica con l’intermediazione telematica della Regione Lombardia.
Il sistema non consentiva di inserire un’offerta in rialzo superiore al 100%, mentre il bando non fissava alcun limite all’aumento. La piattaforma elettronica SinTel, non consentendo un rialzo superiore al 100%, introduceva di fatto un limite, che ha causato l’annullamento per violazione della par condicio tra i concorrenti. Si è anche posto il problema del rapporto tra l’inconveniente lamentato e il tempo tecnico per risolverlo: se il problema fosse emerso il giorno prima della scadenza del termine per l’offerta, sarebbe stato possibile rettificare la piattaforma telematica.
Ciò tuttavia, avrebbe illegittimamente ridotto il tempo a disposizione dell’impresa per formulare l’offerta. In base al principio espresso dai giudici amministrativi quando vi sono termini perentori e scadenze, deve essere garantito il diritto a presentare l’offerta anche in prossimità della scadenza del tempo limite, cioè l’ultimo giorno utile: gli inconvenienti non possono ridurre i tempi per presentare l’offerta.
Altre volte, la medesima piattaforma SinTel è stata promossa ritenendo garantita la segretezza e inalterabilità della documentazione inviata dai concorrenti (Tar Brescia 11/2015; Consiglio di Stato 6416/2014). Le caratteristiche di un sistema possono essere messe in discussione solo se c’è una chiara esplicitazione delle anomalie che hanno contrassegnato la specifica gara che ha avuto luogo con la piattaforma, con prove o quanto meno indizi, sulla non corretta conservazione della documentazione trasmessa e custodita.
Una strada in salita, per il concorrente, la cui offerta, ad esempio deve essere completata (Consiglio di Stato 6146/2014) a suo rischio e pericolo
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La pollina può essere usata come biomassa.
La pollina può essere utilizzata come biomassa combustibile per alimentare un impianto a fonte rinnovabili anche se proveniente da diversi allevamenti avicoli. La disciplina della pollina ricade infatti nella generale regolamentazione dei sottoprodotti contenuta nell'articolo 184-bis del dlgs 152/2006, in base al quale è prevalente la qualifica di sottoprodotto rispetto a quella di rifiuto quando vi sia la certezza che la sostanza sarà utilizzata nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi. In concreto, il misto di escrementi del pollame, piume, mangimi e lettiere, se utilizzato come biomassa combustibile per alimentare impianti Fer è considerato sottoprodotto e non più rifiuto. La pollina commercializzata per il rifornimento dei gassificatori è un combustibile alla pari delle altre biomasse combustibili, e soggetto alla medesima disciplina.

È quanto si legge nella sentenza 08.04.2015 n. 498 del TAR Lombardia-Brescia, Sez. I.
L'utilizzo della «pollina» come biomassa per alimentare impianti di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile riveste un moderato interesse in termini di rendimento; inoltre, tale utilizzo può consentire l'accesso ai meccanismi incentivanti per le rinnovabili elettriche previsti dal dm 06.07.2012.
Gli impianti di combustione che utilizzano pollina per produrre energia sono soggetti solo a autorizzazione unica, ex art. 12 del dlgs 387/2003 e sono quindi esclusi dal campo di applicazione della disciplina sui rifiuti. Dalla qualificazione della pollina come sottoprodotto combustibile deriva l'impossibilità di applicare all'impianto di gassificazione la disciplina urbanistica e igienico-sanitaria degli impianti di trattamento rifiuti (articolo ItaliaOggi del 29.04.2015).

ATTI AMMINISTRATIVISì all’accesso al contratto fra privato e pubblico. Tar Brescia. Privacy.
«Documento amministrativo» è anche il contratto commerciale di privati con la Pa e, come tale, accessibile pure nei dettagli, esclusi i dati dell’impresa estranei all’accordo e quelli sensibili di persone.

L’ha stabilito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, nella sentenza 08.04.2015 n. 497 accogliendo in parte il ricorso di un’azienda contro il diritto d’accesso a un accordo per la concessione di un marchio siglato con un ente pubblico nazionale non economico.
L’aveva riconosciuto a un associato dell’ente la Commissione per l’accesso della Presidenza del consiglio, con poteri di tutela amministrativa delle norme in materia (legge 241/1990).
Per l’azienda, l’atto non era un «documento amministrativo» (lettera d, comma 1, articolo 22, legge 241/1990), ma riguardava interessi industriali e commerciali riservati (lettera d, comma 6, articolo 24) e, testualmente, obbligava le parti a «non diffondere o comunicare a terzi...informazioni soggettivamente o oggettivamente confidenziali o segrete».
Per i giudici, invece, «la nozione di documento amministrativo comprende anche gli atti negoziali, e le stesse dichiarazioni unilaterali dei privati, quando ne sia stata fatta acquisizione in un procedimento amministrativo per una finalità di rilievo pubblicistico» e, nei patti commerciali, «il diritto alla riservatezza non può derivare da una clausola di riservatezza inserita nel contratto, in quanto le parti che sottoscrivono l’accordo non possono disporre dei diritti di terzi».
Per il Tar, oltre ai dati sensibili di persone, restano riservati quelli dei privati «sulla propria organizzazione interna, sulle relazioni con parti terze, sulle proprie strategie commerciali, purché tali informazioni non siano state utilizzate nell’accordo per pesare la controprestazione del soggetto pubblico»
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il legale deve anche dissuadere il cliente.
Nell'esercitare il proprio mandato, il legale deve rispettare il dovere di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente
: lo ha ribadito la Corte di Cassazione nella sentenza 02.04.2015 n. 6782.
Nelle prestazioni rese nell'esercizio di attività professionali, spiegano i giudici della II sezione civile, al professionista è richiesta ex art. 1176 c.c. la diligenza corrispondente alla natura dell'attività esercitata, vale a dire «una diligenza qualificata dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di prestazione dovuta».
Si tratta chiaramente di una valutazione che varia a seconda del tipo di prestazione: nel caso degli avvocati, in particolare, «la responsabilità professionale deriva dall'obbligo di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione e informazione del cliente, ai quali sono tenuti nel rappresentare tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di chiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole».
Il problema, spiegano ancora, non attiene soltanto alla mera difesa tecnica in giudizio e quindi alle ipotesi di inadeguata o insufficiente attività come difensore (si pensi, per esempio, ai casi di omissione delle impugnazioni), oppure alla violazione delle regole ricavabili dal codice deontologico, come quelle del mancato assolvimento dell'obbligo di dare al cliente le informazioni chieste, o del segreto professionale: il professionista ha infatti «l'onere di provare di essersi attivato nell'informare le resistenti della sua determinazione di non proseguire il giudizio per essere stata soddisfatta la pretesa dall'assicurazione». In dettaglio il caso di specie verteva sulla richiesta di risarcimento danni mossa dagli eredi di un uomo morto a seguito di un incidente stradale.
Così argomentando, hanno quindi, rigettato il ricorso e condannato il ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015).

TRIBUTI: Un'area edificabile non può valere meno del mutuo.
Il valore di un'area edificabile non può essere inferiore al valore che la banca ha stimato per concedere il mutuo sullo stesso immobile. I comuni, dunque, possono determinare per Ici, Imu e Tasi i valori delle aree edificabili prendendo a base anche le somme che la banca ha erogato per il mutuo, in quanto l'importo che forma oggetto del mutuo deve essere garantito da un bene immobile avente un valore almeno equivalente.

Lo ha stabilito la commissione tributaria regionale di Genova, VI Sez., con la sentenza 01.04.2015 n. 387.
Nel caso in esame, i giudici d'appello hanno ritenuto che il valore stimato dal comune fosse giustificato dal mutuo concesso dalla banca, tenuto conto che la garanzia era rappresentata proprio dall'area edificabile sottoposta ad accertamento Ici. Il mutuo contratto dalla società ricorrente, infatti, era garantito da ipoteca sullo stesso immobile per un valore capitale superiore a quello accertato. Quindi, secondo la commissione regionale, la pretesa tributaria è fondata, in quanto «il valore mutuato deve essere stato garantito da un bene avente valore equivalente, che nel caso di specie è l'area fabbricabile oggetto di accertamento». I criteri per la determinazione della base imponibile delle aree edificabili sono quelli fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992 e valgono, otre che per l'Ici, anche per l'Imu e la Tasi.
Per accertare il valore venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato, occorre fare riferimento a zona territoriale di ubicazione dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche. Come affermato dai giudici con la pronuncia de qua, anche il valore stimato dalla banca per concedere il mutuo può essere utilizzato come criterio per individuare quale possa essere il valore di mercato di un bene immobile.
I valori di mercato delle aree possono essere deliberati anche dalla giunta, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico. La delibera emanata dalla giunta comunale che fissa i valori delle aree edificabili, e gli atti interni che la precedono, non devono essere allegati agli avvisi di accertamento. Del resto, la conoscibilità delle deliberazioni comunali si presume poiché sono soggette a pubblicità legale. Peraltro, la Cassazione ha riconosciuto un valore limitato alla delibera che fissa i valori delle aree edificabili. Si tratta di un atto amministrativo generale assimilabile al redditometro, fondato su presunzioni.
Naturalmente, spetta al contribuente dimostrare con elementi di prova idonei che la valutazione fatta dall'ente impositore non sia corretta (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2015).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIIn materia di accesso agli di una gara d'appalto:
- la possibile disponibilità degli atti richiesti da parte del richiedente -che, peraltro, potrebbe anche averli nel frattempo smarriti- non impedisce l’accesso, posto che nessuna norma dispone in tal senso;
- quanto alla concreta esistenza degli atti, l’istanza di accesso indica dettagliatamente i contratti di appalto interessati nonché gli atti amministrativi e i documenti d’appalto richiesti;
- in merito all’interesse, l’impresa contesta -con rilievi plausibili- che i rapporti contrattuali con il Comune si siano completamente definiti;
- il lavoro necessario per dare seguito alla richiesta non è una ragione sufficiente per impedire l’accesso, posto che l’Amministrazione non può opporre al controinteressato circostanze inerenti alla propria organizzazione interna, potendo semmai dilazionare l’accesso, anche se, comunque, sempre nel rispetto di termini ragionevoli.
---------------
Se l’accesso è almeno potenzialmente correlato alla posizione che l’impresa richiedente intende far valere in giudizio, l’art. 24, comma 7, primo periodo, della legge n. 241 del 1990 (“Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”) ne assicura l’integrale soddisfazione.
Il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive dell’interessato.
Nella specie, il Comune è al momento controparte dell’impresa in una lite, nell’economia della quale possono assumere rilievo gli atti richiesti. Dunque l’esigenza, di rilievo costituzionale, di assicurare la parità delle armi nel processo vale a rendere ancora più solida la pretesa della parte appellata.

Con il provvedimento del 25.02.2014, annullato dal TAR, il Comune di Busto Arsizio ha negato all’impresa ora appellata l’accesso ai documenti richiesti in base agli argomenti che seguono:
- gli atti, assunti in contraddittorio o comunque sottoscritti dall’impresa, sarebbero già nella disponibilità di quest’ultima;
- l’impresa non avrebbe fornito alcuna prova della loro concreta esistenza;
- essendo gli atti relativi a rapporti ormai definiti (crediti prescritti o inesigibili, perché derivanti da contratti frutto di corruzione e dunque nulli), l’impresa non avrebbe dato prova dell’interesse;
- la ricerca di atti e documenti di rilevante quantità sarebbe idonea a paralizzare per settimane l’attività degli uffici comunali e -anche alla luce di un necessario bilanciamento di interessi- non avrebbe giustificazione alcuna;
- in definitiva, la richiesta apparirebbe finalizzata a effettuare un controllo indiretto sul materiale probatorio che l’Amministrazione avrebbe utilizzato o intenderebbe utilizzare in giudizio in causa di rifacimento di danni, proposta contro l’impresa in relazione ai fatti penali ricordati.
Nessuno di tali argomenti è tale da escludere il diritto di accesso, così che la sentenza impugnata merita conferma.
Infatti:
- la possibile disponibilità degli atti richiesti da parte del richiedente -che, peraltro, potrebbe anche averli nel frattempo smarriti- non impedisce l’accesso, posto che nessuna norma dispone in tal senso;
- quanto alla concreta esistenza degli atti, l’istanza di accesso del 27.01.2014 indica dettagliatamente i contratti di appalto interessati nonché gli atti amministrativi e i documenti d’appalto richiesti;
- in merito all’interesse, l’impresa contesta -con rilievi plausibili- che i rapporti contrattuali con il Comune si siano completamente definiti;
- il lavoro necessario per dare seguito alla richiesta non è una ragione sufficiente per impedire l’accesso, posto che l’Amministrazione non può opporre al controinteressato circostanze inerenti alla propria organizzazione interna (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4286), potendo semmai dilazionare l’accesso, anche se, comunque, sempre nel rispetto di termini ragionevoli.
Resta la replica, ripetuta anche nell’appello, che finalità dell’accesso sarebbe stata essenzialmente l’esigenza di acquisire elementi utilizzabili contro l’Amministrazione nella causa di risarcimento del danno.
In questi termini, l’affermazione è quasi confessoria. Se l’accesso è almeno potenzialmente correlato alla posizione che l’impresa richiedente intende far valere in giudizio, l’art. 24, comma 7, primo periodo, della legge n. 241 del 1990 (“Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”) ne assicura l’integrale soddisfazione. Il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive dell’interessato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 55; Id., sez. IV, 29.01.2014, n. 461).
Nella specie, il Comune è al momento controparte dell’impresa in una lite, nell’economia della quale possono assumere rilievo gli atti richiesti. Dunque l’esigenza, di rilievo costituzionale, di assicurare la parità delle armi nel processo vale a rendere ancora più solida la pretesa della parte appellata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1211).
Dalle considerazioni che precedono, discende che -come anticipato- l’appello non ha pregio e va perciò respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.03.2015 n. 1545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Abbandono di materiale di cava sul terreno – Art. 256, c. 2 d.lgs. n. 152/2006.
L’abbandono di materiale di cava sul terreno costituisce condotta di raccolta e concreta la materiale sussistenza della contravvenzione, come condotta descritta dal comma 2 dell’art. 256 del D.L.vo 152/2006, anche a titolo colposo (nella specie, in relazione a rifiuti non pericolosi non ordinatamente conservati, ma abbandonati nell’area attigua a quella di produzione e successivamente colati a causa delle piogge nel terreno sottostante coltivato a castagno) (TRIBUNALE di Genova, sentenza 18.03.2015 n. 1392 - tratto da www.ambientediritto.it).

TRIBUTIIci, conta il valore denunciato. Variazioni da dichiarare per non pagare più del dovuto. Una sentenza della Cassazione sulle aree edificabili, applicabile anche a Imu e Tasi.
I contribuenti sono onerati di presentare le dichiarazioni di variazione se il valore di mercato delle aree edificabili si è ridotto nel corso degli anni rispetto a quanto denunciato al comune, altrimenti continuano a pagare le imposte locali su un valore più elevato dell'immobile che non corrisponde più a quello reale.

La Corte di Cassazione (Sez. V civile, sentenza 11.03.2015 n. 4842) ha chiarito, infatti, che se il contribuente ha dichiarato al comune un'area edificabile è tenuto a pagare l'Ici in base al valore denunciato, anche se l'immobile ha subito una riduzione di valore negli anni successivi in seguito a variazioni urbanistiche. La stessa regola si applica all'Imu e alla Tasi.
Secondo la Cassazione, il valore venale imponibile Ici era stato spontaneamente dichiarato dal contribuente e mai era stata comunicata all'amministrazione comunale la diminuzione di valore dell'area, nonostante fossero intervenute variazioni urbanistiche. Precisano i giudici di legittimità che il valore «non era stato mai disconosciuto», in quanto la titolare «non ha mai presentato alcuna dichiarazione rettificativa e/o integrativa del valore dell'area». La dichiarazione presentata dal contribuente, infatti, esplica effetti giuridici anche per gli anni d'imposta successivi, a meno che non vengano denunciate eventuali variazioni.
I valori delle aree. Il valore di un'area edificabile ai fini Imu e Tasi deve essere determinato come per l'Ici. I criteri sono quelli fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992. Quindi, occorre stabilire il valore venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato. La norma prevede che occorra fare riferimento a zona territoriale di ubicazione dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche. I valori possono essere deliberati anche dalla giunta, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico.
La delibera emanata dalla giunta comunale che fissa i valori delle aree edificabili, e gli atti interni che la precedono, non devono essere allegati all'avviso di accertamento Ici o Imu. Inoltre, i valori deliberati dalla giunta sono meramente indicativi ed equiparabili al redditometro. Dunque, il giudice ha il potere di ritenere illegittime le presunzioni su cui si fondano qualora il contribuente sia in grado di provare il contrario. In questo senso si è espressa la Commissione tributaria regionale di Potenza, prima sezione, con la sentenza 267 del 29.12.2011.
Secondo il giudice d'appello, sono conoscibili tutti gli atti posti a base di un iter amministrativo non essendo coperti da segreto. Peraltro, si legge nella pronuncia, il processo formativo di un atto potrebbe essere particolarmente complesso e richiedere un'innumerevole serie di passaggi e d'interventi di uffici diversi che sarebbe impensabile dover allegare tutti gli atti che precedono quello finale. La mancata allegazione all'accertamento fiscale di questi atti interni non genera alcuna nullità, poiché il cittadino ha il diritto di richiederli in presenza di un suo interesse. Peraltro, la conoscibilità delle deliberazioni comunali si presume poiché sono soggette a pubblicità legale. Quindi, non devono essere allegate agli avvisi di accertamento anche se richiamate nella motivazione. La loro conoscibilità è presunta erga omnes, nonostante l'articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/200) preveda l'obbligo di allegazione all'avviso di accertamento degli atti ai quali si fa riferimento nella motivazione.
Anche la Cassazione ha riconosciuto un valore limitato alla delibera che fissa i valori delle aree edificabili e ha più volte affermato che non va allegata all'avviso di accertamento. È stato ribadito che l'atto amministrativo generale è assimilabile al redditometro e che, dunque, può non trovare applicazione di fronte a concreti elementi dimostrativi. Naturalmente, spetta al contribuente dimostrare con elementi di prova idonei che la valutazione fatta dall'ente impositore non sia corretta.
 La presenza di vincoli nei piani regolatori comunali non fa venir meno il regime fiscale dei suoli edificabili, ma ha un'incidenza sul loro valore venale e sulla base imponibile dei tributi locali. Pertanto la Tasi è dovuta, anche se in misura ridotta, poiché i limiti imposti dai piani urbanistici alle aree edificabili comportano una diminuzione del loro valore di mercato.
L'incidenza dei vincoli sul valore di mercato. L'edificabilità di un'area non può essere esclusa dalla presenza di vincoli o di particolari destinazioni urbanistiche. In questi casi l'area è comunque soggetta al pagamento delle imposte locali, anche se la presenza di vincoli ne riduce il valore di mercato. In questi termini si è espressa la Corte di cassazione (sentenza 5161/2014). Il principio è applicabile anche al nuovo tributo sui servizi indivisibili, la cui base imponibile è analoga a quella dell'imposta municipale.
Si tratta di una questione controversa e dibattuta da tempo quella che riguarda l'assoggettabilità a imposizione delle aree vincolate. Anche la posizione della Cassazione non è stata univoca. Con la pronuncia sopra citata, però, ha chiarito che l'edificabilità non può essere esclusa dalla ricorrenza di vincoli o destinazioni urbanistiche che condizionino, in concreto, l'edificabilità del suolo.
La presenza di vincoli, però, ha un'incidenza sul valore venale in comune commercio dell'area e sulla base imponibile. Questo comporta che i tributi comunali devono essere versati in misura ridotta (articolo ItaliaOggi Sette del 04.05.2015).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza prevalente ritiene che i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell’attività svolta.
---------------
Nell’ambito dell’edilizia, per potersi parlare di pertinenza in senso proprio è indispensabile che il manufatto destinato ad un uso pertinenziale durevole sia di dimensioni ridotte e modeste, con la conseguenza che soggiace a permesso di costruire la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o di ornamento nei riguardi di essa.

2. - I primi due motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, in quanto tra loro complementari, si incentrano sull’inesistenza di un’opera edilizia, la cui realizzazione avrebbe richiesto un titolo abilitativo, allegandosi che peraltro, ai sensi dell’art. 3, lett. e), n. 6, della l.r. n. 1 del 2004, le opere pertinenziali richiedono il permesso di costruire ove comportanti una nuova volumetria urbanistica od una superficie utile coperta, circostanza non ricorrente nel caso di specie, ove manca qualsivoglia copertura, tale non potendosi ritenere il telo di copertura.
I motivi non appaiono meritevoli di positiva valutazione, e devono pertanto essere disattesi.
A prescindere dall’esatta collocazione temporale del manufatto, e dunque anche ad ammettere che risalga al 2000, od anche, per ipotesi estrema, al 1985, sul piano obiettivo si verte al cospetto di un gazebo che richiedeva il permesso di costruire avendo una dimensione di ml. 7,25x3,80, con altezza variabile da ml. 2,25 a ml. 2,80, e posto sul confine di proprietà, a distanza non regolamentare dalla viabilità pubblica (circa quattro metri), destinato a posto auto coperto.
La giurisprudenza prevalente ritiene che i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell’attività svolta (in termini Cons. Stato, Sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
In tale prospettiva, anche sul piano normativo l’art. 3, lett. e), n. 6, della l.r. n. 1 del 2004 qualifica come “interventi di nuova costruzione” le opere pertinenziali agli edifici che comportino nuova volumetria urbanistica o superficie utile coperta; l’art. 21 del regolamento regionale 03.11.2008, n. 9 specifica che necessitano di permesso di costruire le opere pertinenziali, quali pergole e gazebo che abbiano una superficie utile coperta non superiore a mq. 20,00 e di altezza non superiore a ml. 2,40, desumendosi dunque in materia edilizia un’accezione diversa da quella civilistica di pertinenza.
In particolare, nell’ambito dell’edilizia, per potersi parlare di pertinenza in senso proprio è indispensabile che il manufatto destinato ad un uso pertinenziale durevole sia di dimensioni ridotte e modeste, con la conseguenza che soggiace a permesso di costruire la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o di ornamento nei riguardi di essa (Cons. Stato, Sez. V, 28.04.2014, n. 2196) (TAR Umbria, sentenza 16.02.2015 n. 81 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il tempo di realizzazione del manufatto, una volta ritenuto abusivo, non assume significativo valore, atteso che l’ordine di demolizione dell’abuso edilizio è atto vincolato alla contestata abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione tra interesse pubblico e privato, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Resta inoltre inteso che l’onere della prova in ordine all’epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma di legge. Nel caso di specie, anche avendo riguardo alla disciplina applicabile, il ricorrente ha versato in atti solamente una fattura del 6 ottobre 2000 concernente l’acquisto di un gazebo in ferro.

Il tempo di realizzazione del manufatto, una volta ritenuto abusivo, non assume significativo valore, atteso che l’ordine di demolizione dell’abuso edilizio è atto vincolato alla contestata abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione tra interesse pubblico e privato, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cons. Stato, Sez. VI, 14.11.2014, n. 5610). Mentre è indubbio che la D.I.A. in data 04.06.1999, a parte che non costituisce titolo idoneo, ha riguardato la realizzazione di un passo carrabile con relativo cancello, come si evince inequivocabilmente dalla relazione tecnica allegata.
Resta inoltre inteso che l’onere della prova in ordine all’epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava sull’interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma di legge. Nel caso di specie, anche avendo riguardo alla disciplina applicabile, il ricorrente ha versato in atti solamente una fattura del 6 ottobre 2000 concernente l’acquisto di un gazebo in ferro.
Né può sostenersi che in tale epoca il regolamento edilizio comunale prevedesse la sola autorizzazione (gratuita), atteso che si desume dall’art. 3 che tale titolo fosse sufficiente per “le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti”, mentre, nel caso di specie, come si è cercato prima di porre in evidenza, si è al di fuori della nozione edilizia di opera pertinenziale (TAR Umbria, sentenza 16.02.2015 n. 81 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

TRIBUTI: Imposta soft sul marchio sui silos.
Per l'apposizione di marchi a valore pubblicitario sui silos da cantiere da parte dell'impresa costruttrice, l'imposta sulla pubblicità può essere richiesta solamente dal comune in cui ha sede la società; di contro, è illegittima la pretesa avanzata dai comuni in cui sono ubicati gli stessi silos, trattandosi a tutti gli effetti di strutture assimilabili a macchine da cantiere e, come tali, tassabili solamente dal comune ove abbia sede l'impresa.

Sono le conclusioni che si traggono dalla sentenza 05.02.2015 n. 45/03/15 della Ctp di Lecco.
Il giudice lecchese si è pronunciato su una questione al momento molto dibattuta, essendo già intervenute delle sentenze, su cause instaurate dalla stessa ricorrente (una storica azienda del mondo dell'edilizia), anche di senso contrario alla decisione in commento.
A parere della società, il marchio apposto sui silos, ovvero su quelle costruzioni a torre, per lo più cilindrica, utilizzate per immagazzinare prodotti e materiali, rientrerebbe a pieno regime nella previsione contenuta nel decreto 26.07.2012, «Modalità di applicazione dell'imposta comunale sulla pubblicità al marchio di fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da cantiere».
Ciò perché il silo sarebbe del tutto assimilabile a una macchina da cantiere e, dunque, l'imposta sulla pubblicità potrebbe essere legittimamente richiesta solamente dal comune in cui ha sede la società, piuttosto che da quelli di ubicazione dei silos, come disposto dall'articolo 2, comma 2, del citato decreto. Di contro, i comuni di ubicazione dei silos, avevano emesso degli avvisi di accertamento per riscuotere l'imposta sulla pubblicità, ritenendo la fattispecie non applicabile a quel tipo di struttura.
La vertenza in commento, svoltasi presso la Ctp di Lecco, si è conclusa con l'accoglimento del ricorso proposto dalla società e con il consequenziale annullamento della pretesa tributaria. Da precisare, che la società ricorrente ha stipulato una convenzione con il comune in cui si trova la propria sede, volta proprio a regolare l'applicazione dell'imposta di pubblicità sulle affissioni in questione.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Una nota azienda operante nel mondo dell'edilizia proponeva ricorso contro degli avvisi di accertamento, emessi per riscuotere l'imposta sulla pubblicità, da parte di taluni comuni della provincia di Lecco (per mezzo della società concessionaria del servizio). L'applicazione dell'imposta riguardava, nello specifico, il marchio apposto dall'azienda costruttrice sui silos, posati in vari cantieri ricadenti nel territorio di tali comuni.
Nel ricorso proposto dalla società, i difensori invocavano l'applicazione dell'articolo 2, comma 2, del decreto 26.07.2012 del ministero dell'economia e delle finanze, secondo cui: «Per l'apposizione del marchio la cui superficie complessiva supera il limite dimensionale di cui al comma 1 l'imposta è dovuta (...) al comune ove ha sede l'impresa produttrice dei beni o qualsiasi altra sua dipendenza, nella misura e con le modalità previste dall'art. 12, comma 1, del decreto legislativo n. 507 del 1993». Infatti, anche il silo, secondo quanto desumibile dalla direttiva comunitaria 42/2006, doveva ritenersi una macchina da cantiere e, come tale, ricompresa nella disposizione di cui al citato articolo 2. A tal scopo, la società aveva provveduto a stipulare una convenzione con il comune in cui aveva sede, proprio relativa alla tassazione dei marchi in questione, unico soggetto legittimato a richiedere l'imposta
Invece, secondo le amministrazioni dei comuni in cui erano posati i silos, le fattispecie invocate dalla ricorrente non sarebbero applicabili ai silos, per cui, sui marchi apposti sugli stessi, l'imposta andava assolta in base al luogo di ubicazione del cantiere.
La Ctp di Lecco ha sposato la tesi dei contribuenti e annullato gli atti impositivi, affermando che «l'unico comune competente all'emissione di avvisi di accertamento in merito alle imposte sulla pubblicità è il comune in cui ha sede la società ricorrente, con il quale ha stipulato una convenzione per il pagamento delle imposte di cui all'oggetto».
In un'altra vertenza analoga, trattata dalla Ctp di Udine (sentenza 07.01.2015 n. 2/1/15), la decisione era stata di senso contrario, con rigetto dei ricorsi e conferma della bontà degli accertamenti. Secondo il diverso parere del giudice friulano, infatti, «poiché i silos della società ricorrente appaiono come grandi ma semplici recipienti, ci si chiede quale sia il sistema di azionamento diverso dalla forza umano o animale diretta, che costituirebbe la discriminante tra la «macchina» e la «non macchina»».
In altre parole, non essendo i silos equiparabili a una macchina da cantiere, non potrebbe nemmeno essere applicata la disposizione di cui al citato Decreto 26.07.2012 (articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015).

TRIBUTIFabbricati rurali senza esenzione.
L'esenzione dall'Ici per gli immobili rurali spetta solo in caso di censimento catastale ricompreso nella categoria catastale A/6, per le abitazioni, e in quella D/10, per gli altri fabbricati; l'eventuale utilizzo agricolo «di fatto» di immobili iscritti in altre categorie catastali, pure che sia provato da parte di un imprenditore agricolo professionale, non è condizione sufficiente per riconoscere l'esenzione dall'imposta.

Sono le conclusioni cui giunge la Commissione tributaria provinciale di Brescia nella sentenza 02.02.2015 n. 48/1/15.
Nel caso di specie i fabbricati, pacificamente utilizzati dal contribuente (imprenditore agricolo professionale) per l'esercizio dell'attività agricola, risultavano accatastati rispettivamente in categoria catastale C/2 e D/7 e, conseguentemente, la Commissione provinciale ha ritenuto legittima la pretesa del comune di Gottolengo (Brescia) per tali immobili, poiché appartenenti alle citate categorie catastali.
Solo in seguito all'interpretazione fissata dalla cassazione a sezioni unite nella sentenza n. 18565/2009 si è affermato il principio secondo cui l'esenzione legata alla ruralità degli immobili è strettamente connessa alla categoria catastale attribuita al fabbricato, indipendentemente dall'uso o dalla destinazione, con la conseguenza che gli immobili sono esenti dall'Imposta solo quando siano iscritti nelle categorie catastali A/6 per le abitazioni e in quella D/10 per gli altri fabbricati.
Da considerare che talvolta, sul punto specifico, la giurisprudenza tributaria (Ctr Lazio Sentenza 125/9/13) ha ritenuto non rilevante la categoria catastale, bensì l'uso strumentale del fabbricato all'attività agricola esercitata dal contribuente.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Nel caso trattato dai giudici provinciali di Brescia nella sentenza 02.02.2015 n. 48/1/15 viene, di fatto, affrontato il tema dell'esenzione degli immobili rurali ai fini dell'Ici, stabilendo che sullo specifico tema, la classificazione catastale (A/6 e D/10) appare come requisito essenziale al fine del riconoscimento del beneficio.
Il contribuente opponeva l'accertamento Ici del comune di Gottolengo (Brescia) con cui veniva richiesto il pagamento dell'imposta per l'anno 2007, relativamente a due immobili iscritti nelle categorie catastali C/2 e D/7; lo stesso contribuente, imprenditore agricolo professionale, asseriva che i fabbricati avessero i requisiti di ruralità previsti dalla norma come abitativi e strumentali all'attività agricola. Il decreto legislativo n. 504/1992, istitutivo dell'imposta comunale sugli immobili, non ha previsto, per i fabbricati rurali, alcuna esenzione o riduzione di imposta.
L'art. 9, commi 3 e 3-bis, della legge n. 133/1994 ha introdotto nell'ordinamento una specifica disciplina per il riconoscimento della ruralità degli immobili agli effetti fiscali, fissando alcune condizioni oggettive e soggettive che devono essere soddisfatte sia per i fabbricati destinati a edilizia abitativa sia per le costruzioni strumentali alle attività agricole.
In anni più recenti il legislatore è intervenuto per affrontare la questione in ordine alla esenzione o meno dei fabbricati rurali ai fini Ici. Infatti con l'art. 23, c. 1-bis, del dl 207/2008 si è stabilito in via interpretativa che, con riferimento alla definizione di fabbricato contenuta nella legge dell'Ici, «non si considerano fabbricati le unità immobiliari, anche iscritte o iscrivibili nel catasto fabbricati, per le quali ricorrono i requisiti di ruralità di cui all'art. 9 della L. 133/1994».
Solo in seguito all'interpretazione fissata dalla cassazione a sezioni unite nella sentenza n. 18565/2009 si è consolidato il principio secondo cui l'esenzione legata alla ruralità degli immobili è rigorosamente subordinata alla categoria catastale del fabbricato, anche a prescindere dall'uso o dalla destinazione, con la conseguenza che gli immobili sono esenti dall'imposta solo quando appartengono alle categorie catastali A/6, per le abitazioni, e D/10, per gli altri fabbricati.
Oltretutto, «l'attribuzione all'immobile di una diversa categoria catastale deve essere impugnata... dal contribuente che pretenda la non soggezione all'imposta per la ritenuta ruralità del fabbricato, restando altrimenti quest'ultimo assoggettato a Ici; allo stesso modo il comune dovrà impugnare l'attribuzione della categoria catastale A6 o D10 al fine di potere legittimamente pretendere l'assoggettamento del fabbricato all'imposta».
Nella sentenza di cui al commento, dunque, i giudici lombardi hanno ritenuto di doversi attenere a quanto stabilito dalle sezioni unite della Cassazione, per cui, ai fini dell'esenzione dall'Ici, deve ritenersi assorbente l'aspetto della classificazione catastale (articolo ItaliaOggi Sette del 27.04.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: BONIFICHE.
Rifiuti - Reato di omessa bonifica siti inquinati - Requisiti per la sua configurazione - Art. 257, D.Lgs. n. 152/2006.
Ai fini della configurabilità del reato di omessa bonifica dei siti inquinati di cui all’art. 257, comma 1, D.Lgs. n. 152/ 2006, è necessario il superamento della concentrazione soglia di rischio (e cioè dei livelli di contaminazione delle matrici ambientali che costituiscono valori al di sopra dei quali e` necessaria la caratterizzazione del sito e l’analisi di rischio sito specifica), nonché l’adozione del progetto di bonifica previsto dall’art. 242.
Il Tribunale di Grosseto condannava tale S.P. per il reato di cui all’art. 257, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per avere cagionato, con attività di rottamazione di veicoli, l’inquinamento del suolo con superamento dei valori di concentrazione e non ottemperando alla bonifica in conformità al progetto approvato.
L’imputata, nel ricorso per Cassazione, si doleva, tra l’altro, del fatto che il Tribunale avesse applicato i valori di concentrazione limite di cui al D.M. n. 471/1999 e non quelli, diversi, denominati CSR (concentrazioni soglia di rischio), del D.Lgs. n. 152/2006, superiori rispetto ai livelli di attenzione individuati dalle CSC (concentrazioni soglia di contaminazione). Di conseguenza, il Tribunale non aveva accertato il superamento delle CSR attraverso l’analisi di rischio sanitario e ambientale.
La Cassazione, (dopo aver dichiarato inammissibile il secondo motivo di ricorso, logicamente pregiudiziale rispetto al primo nella parte in cui si deduceva la mancanza di motivazione in ordine alla riconducibilità della condotta di inquinamento all’imputata giacché la sentenza impugnata aveva escluso la possibile riconducibilità dell’inquinamento a precedenti attività di altra ditta già operante nel medesimo sito), ha opinato che fosse fondata la doglianza in ordine alla inosservanza di legge.
La sentenza ha premesso che, ai fini della configurabilità del reato di omessa bonifica dei siti inquinati, è necessario il superamento della concentrazione soglia di rischio (ovvero, in altri termini, dei livelli di contaminazione delle matrici ambientali che costituiscono valori al di sopra dei quali è necessaria la caratterizzazione del sito e l’analisi di rischio sito specifica) nonché l’adozione del progetto di bonifica previsto dall’art. 242, D.Lgs. n. 152/2006 e ha perciò ritenuta giustificata la doglianza sollevata dalla ricorrente in merito al fatto che il Tribunale non avesse accertato, ai fini della consumazione del reato previsto dall’art. 257, il superamento delle concentrazioni soglie di rischio, che costituiscono parametro di natura diversa dal c.d. limite di accettabilità di cui al D.M. 25.10.1999, n. 471, né avesse considerato che l’obbligo di bonifica va correlato ad un inquinamento provocato dal superamento delle suddette concentrazioni, essendosi invece limitato a ritenere sufficiente, sotto il profilo probatorio, l’indagine espletata dal competente settore ambiente del Comune e la segnalazione operata dal funzionario.
Per la Corte Suprema è mancata, dunque, la verifica dell’evento di inquinamento richiesto come elemento essenziale della figura criminosa in oggetto, posto che per superamento delle concentrazioni soglia di rischio, cui l’art. 257, D.Lgs. n. 152/2006 subordina la punibilità delle condotte in esso previste, si intende il travalicamento di livelli di pericolo ben superiori ai previgenti parametri di concentrazione soglia di contaminazione.
Inoltre, ha osservato che, mentre alla stregua del procedimento richiamato dall’art. 51-bis, D.Lgs. n. 22/1997, il reato era configurabile in ragione della violazione di uno qualsiasi dei numerosi obblighi gravanti sul privato ex art. 17, con l’introduzione dell’art. 257, D.Lgs. n. 152/2006 la consumazione del reato non può prescindere dall’adozione del progetto di bonifica ex art. 242 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.06.2014 n. 25718 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 10/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: SCARICHI INDUSTRIALI
Acque - Scarico di lavanderia - Acque reflue industriali - Assenza di autorizzazione - Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
L’attivazione di uno scarico, proveniente da lavanderia, di acque reflue qualificabili come industriali in mancanza dei presupposti per l’assimilabilità a quelle domestiche, effettuato in assenza della preventiva autorizzazione, configura la contravvenzione di cui all’art. 137 D.Lgs. n. 152/2006.
Per aver aperto uno scarico di acque reflue industriali senza la prescritta autorizzazione, la titolare di una lavanderia industriale veniva condannata per il reato di cui all’art. 137 D.Lgs. n. 152/2006.
La Cassazione ha respinto il ricorso dell’imputata in cui asseriva che l’autorizzazione all’apertura dello scarico era stata richiesta in data antecedente a quella della verifica. La Corte ha colto l’occasione per ricordare che la natura industriale dei reflui scaricati non era posta in discussione.
Del resto, come ha ricordato la sentenza, è costante l’affermazione della natura industriale dei reflui prodotti da insediamenti svolgenti attività di lavanderia industriale escludendo l’assimilabilità di tale tipologia di reflui a quelli domestici.
La sentenza ha proseguito notando che, con riferimento all’attività di lavanderia, un’eventuale assimilabilità potrebbe verificarsi ricorrendo i presupposti di cui all’art. 101, comma 7, lett. e), D.Lgs. n. 152/2006, quindi in caso di scarichi aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale.
Un’ulteriore possibilità è offerta dal D.P.R. n. 227/2011 applicabile alle piccole e medie imprese in assenza di specifica disciplina regionale. Tale decreto stabilisce, infatti, fermo restando quanto previsto dall’art. 101 e dall’Allegato V alla Parte III, D.Lgs. n. 152/2006, l’assimilazione alle acque reflue domestiche:
– delle acque che prima di ogni trattamento depurativo presentano le caratteristiche qualitative e quantitative di cui alla Tabella 1 dell’Allegato A al decreto medesimo;
– delle acque reflue provenienti da insediamenti in cui si svolgono attività di produzione di beni e prestazione di servizi i cui scarichi terminali provengono esclusivamente da servizi igienici, cucine e mense;
 – delle acque reflue provenienti dalle categorie di attività elencate nella Tabella 2 dell’Allegato A, con le limitazioni indicate nella stessa Tabella.
La disposizione richiamata potrebbe operare, con riferimento alle attività di lavanderia, soltanto nel caso di mancanza di specifica disciplina regionale e presentando le caratteristiche qualitative e quantitative di cui di cui alla Tabella 1 dell’Allegato A ovvero, essendo contemplata tale attività anche nella Tabella 2 dell’Allegato A al decreto al punto 10, solo nel caso di lavanderie e stirerie con impiego di lavatrici ad acqua analoghe a quelle di uso domestico e che effettivamente trattino non più di 100 kg di biancheria al giorno.
Nella fattispecie, nessuna di tali circostanze era stata riscontrata dal giudice di merito né, tanto meno, si era pronunciata la difesa nell’atto di impugnazione.
Dopo questa completa analisi del quadro normativo, la Corte ha risolto il caso in esame in poche battute in quanto l’autorizzazione allo scarico era stata rilasciata successivamente alla data dell’accertamento e quindi il reato era pienamente sussistente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2014 n. 24330 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 11/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ABBANDONO DI RIFIUTI E RESPONSABILITA' DEL PROPRIETARIO DEL TERRENO.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti - Proprietario del fondo - Responsabilità a titolo di concorso nel reato - Condizioni - Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il proprietario del terreno risponde del reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti previsto dall’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, solo se sia provato il suo concorso con il terzo che abbia realizzato l’attività illecita, perché in capo a quel soggetto non può ravvisarsi alcun obbligo giuridico di controllo in relazione ai rifiuti gestiti e smaltiti da altri.
Ad integrare il concorso nel reato non è neppure sufficiente che il proprietario sia consapevole dell’abbandono di rifiuti realizzato da altri soggetti sul proprio fondo.

In appello veniva confermata la sentenza che aveva riconosciuto B.G. colpevole del reato di cui agli art. 256, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 152/2006, perché, nella sua qualità di rappresentante della B.S. SRL, in carenza di autorizzazione, deteneva, su area di proprietà della ditta, un deposito incontrollato di rifiuti, in parte derivati dall’attività produttiva della B.S. SRL, e in parte risalenti epocalmente all’attività della B.F. & figli SNC, accumulati nel corso di un arco temporale di circa cinque anni, sia pericolosi (batterie al piombo, traversine ferroviarie, oli esausti, imballaggi contaminati da sostanze pericolose, apparecchiature fuori uso contenenti CFC) che non pericolosi (rifiuti misti da demolizione, rifiuti legnosi, rifiuti ferrosi, scarti vegetali, rifiuti da imballaggio).
Le due sentenze osservano che era stata accertata la detenzione alla rinfusa di rifiuti promiscui, per una consistente durata temporale dei reiterati depositi con cumuli di ampie dimensioni e preesistenti da lungo tempo; che l’area dell’accumulo era stata di fatto adibita a deposito mediante una condotta consistente nell’abbandono reiterato per un tempo decisamente apprezzabile; che di tale deposito doveva essere ritenuto responsabile l’imputato, pur essendo certo che i rifiuti occupavano solo in parte terreni di proprietà della sua ditta mentre in gran parte si trovavano su aree contigue; che questa circostanza era irrilevante perché il giudice di primo grado aveva ritenuto che non era stata fornita la prova oggettiva, concreta ed univoca della predetta allocazione, ma solo della sua possibilità e perché comunque si trattava di un’estensione assai vasta ma totalmente priva di recinzioni o barriere interne idonee a delimitare le varie zone di pertinenza di terzi; che del resto è sufficiente la sola disponibilità dell’area; che doveva ritenersi che l’imputato avesse astutamente dislocato, in aree diverse da quelle di proprietà, i rifiuti relativi all’attività da lui svolta, proprio per stornare da sé eventuali responsabilità; che l’olio per motore e le batterie rinvenuti non erano adatti all’impiego; che anche il frigorifero risultava dismesso e la sua dismissione era risalente nel tempo.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo:
– in primo luogo, che era stato rinviato a giudizio per la sola violazione dell’art. 256, comma 2, ossia per un reato proprio, che punisce l’imprenditore che non smaltisce i rifiuti provenienti dalla sua attività. Nella specie l’imputato aveva dimostrato che solo parte dei terreni oggetto di sequestro erano di pertinenza della sua ditta. Inoltre, data la genericità di tipologia dei rifiuti contestati, la loro provenienza dalla attività imprenditoriale dell’imputato non era evidente e avrebbe dovuto essere dimostrata dall’accusa. Lo stesso capo di imputazione dava atto che parte dei rifiuti erano risalenti alla B.F. e Figli SNC, con cui l’imputato non aveva nulla a che fare. La sentenza impugnata confondeva il concetto di pertinenzialità dei terreni con l’adiacenza e la mancanza di confini ed aveva perciò omesso di accertare se i rifiuti ivi giacenti provenissero effettivamente dalla ditta dell’imputato;
– in secondo luogo, che parte dei pretesi rifiuti si trovava in terreni non di pertinenza dell’impresa; che l’imputato smaltiva regolarmente gli oli esausti a mezzo di impresa terza; che parte del materiale a cui era stata attribuita la qualifica di rifiuto era materiale di uso corrente ed efficiente; che i residui di polvere erano dovuti al fatto che trattavasi di azienda florovivaistica dedita alla lavorazione della terra; che non era stato fatto alcun accertamento sullo stato di efficienza delle batterie o sulla esaustività degli oli rinvenuti; era stato violato il dato di comune esperienza secondo cui in aperta campagna le singole proprietà non sono mai recintate, il che non comporta automaticamente una disponibilità da parte dei singoli confinanti dei terreni adiacenti, disponibilità che va provata caso per caso.
Il ricorso è stato accolto.
Innanzitutto, è stato ricordato in sentenza che il reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti ha natura di reato proprio, richiedendo, quale elemento costitutivo, la qualità di titolare di impresa o di responsabile di ente in capo all’autore della violazione. Trattandosi di reato commissivo, il titolare dell’impresa è responsabile esclusivamente per i rifiuti abbandonati da lui o dai suoi dipendenti, e non anche per i rifiuti abbandonati da terzi. L’unica (apparente) eccezione può rinvenirsi nell’ipotesi in cui sia provato un concorso con il terzo che abbia abbandonato i rifiuti.
La Corte ha quindi rilevato che nel caso in esame i giudici del merito si erano soffermati a discutere su questioni in gran parte irrilevanti, ossia se i terreni ove erano allocati i rifiuti fossero o meno di proprietà del ricorrente o si trovassero o meno nella sua disponibilità, mettendo invece in secondo piano la questione decisiva, consistente nello stabilire si i rifiuti -sia se allocati su terreni di proprietà della ditta sia su terreni esterni e diversi- fossero stati abbandonati dall’imputato o da suoi dipendenti o da soggetti in concorso con il prevenuto ovvero fossero stati abbandonati da soggetti diversi senza il concorso del proprietario e questi si fosse solo limitato a non toglierli e a non far bonificare l’area di sua pertinenza.
I giudici romani hanno ribadito che, nel nostro sistema penale, una condotta omissiva può dar luogo a responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi dell’art. 40, comma 2, cod. pen., e cioè quando il soggetto abbia l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Il fondamento di tale obbligo deve essere chiaramente e specificamente individuato dal giudice in una precisa norma di legge, in quanto la responsabilità omissiva non potrebbe fondarsi su un dovere indeterminato o generico, anche se di rango costituzionale come quelli solidaristici o sociali di cui all’artt. 2, 41, comma 2, 42, comma 2 Cost., perché ciò trova un limite in altri principi costituzionali e segnatamente nel principio di legalità della pena consacrato nell’art. 25, comma 2, il quale si articola nella riserva di legge statale e nella tassatività e determinatezza delle fattispecie.
Rievocati i principi che regolano le responsabilita` dei vari soggetti in relazione all’abbandono e deposito incontrollato di rifiuti su un fondo altrui, la Cassazione ha osservato che, nel caso in esame, la sentenza impugnata aveva invece ritenuto che il ricorrente, in quanto legale rappresentante della società subentrata nella proprietà del terreno, avesse un obbligo giuridico di eliminare i rifiuti ivi depositati prima dell’acquisto o comunque depositati senza il suo concorso. Tuttavia, come ha rilevato la Corte Suprema, sull’esistenza di tale obbligo mancava qualsiasi motivazione: un obbligo giuridico di eliminare i rifiuti in capo al proprietario del terreno che non abbia concorso con gli autori materiali dell’abbandono, infatti, poteva sorgere solo a seguito di una ordinanza comunale che ordinasse la rimozione dei rifiuti stessi e lo sgombero dell’area nei limiti e con le modalità previste dalla legge.
Di contro, la sentenza impugnata aveva ritenuto l’imputato responsabile anche per l’abbandono e il deposito di rifiuti che sicuramente non erano stati da lui abbandonati, trattandosi di rifiuti che, secondo lo stesso capo di imputazione, erano risalenti epocalmente all’attività della B.F. & figli SNC, senza la benché minima motivazione sia su una eventuale responsabilità dell’imputato per l’attività posta in essere da tale società sia di un eventuale concorso dell’attuale ricorrente col responsabile di questa società nell’abbandono di tali rifiuti.
Passando ad esaminare la motivazione della sentenza impugnata sotto altro profilo, la Corte ha osservato che la stessa era mancante e comunque manifestamente illogica in ordine alla circostanza che i rifiuti rinvenuti allocati su terreni non di proprietà e non riconducibili alla società dell’imputato fossero stati abbandonati da lui o dai suoi dipendenti o da terzi con il concorso dell’imputato. La sentenza impugnata infatti aveva affermato la responsabilità dell’imputato avendo ritenuto che la sua società avesse comunque la disponibilità di fatto di tali aree. Sennonché, ciò che rilevava non era tanto la disponibilità dell’area, ma una concreta attività di abbandono dei rifiuti (o di concorso nella stessa) e su questo punto mancava totalmente la motivazione.
Inoltre la motivazione era manifestamente illogica anche relativamente alla disponibilità dei terreni che era stata desunta dal fatto che i terreni non erano recintati, circostanza questa però che non solo non sembrava idonea di per sé a dimostrare la disponibilità, ma che, semmai, poteva essere indicativa del fatto che anche soggetti terzi avrebbero potuto facilmente abbandonare i rifiuti. Totalmente apodittica ed assertiva era l’affermazione (senza una valutazione della tipologia dei singoli rifiuti) che l’imputato avrebbe astutamente collocato rifiuti provenienti dalla sua impresa su aree diverse per sviare eventuali responsabilità.
Secondo la Cassazione, era esatta l’ulteriore doglianza del ricorrente che lamentava che la sentenza impugnata si era erroneamente rifiutata, ritenendola superflua, di effettuare una disamina analitica dei singoli rifiuti contestati in relazione ai luoghi di loro collocazione, pur essendo stata contestata la presenza di singoli rifiuti puntualmente elencati nel verbale di perquisizione e sequestro. In mancanza di eventuali altri elementi di prova, una tale analisi avrebbe potuto fare accertare la provenienza dei rifiuti dall’attività dell’impresa dell’imputato e di conseguenza il loro abbandono da parte dello stesso.
Una tale verifica era necessaria anche perché nella sentenza impugnata si dava atto non solo che parte dei rifiuti erano derivati sicuramente dalla attività produttiva di altro soggetto, precisamente la B.F. & figli SNC, ma anche che vi erano cumuli preesistenti da lungo tempo, che le aree erano da anni adibite a deposito incontrollato, che vi era stata una notevole crescita di vegetazione su alcuni cumuli di rifiuti; che vi era uno stato di usura prolungata di bidoni e fusti; che la dismissione del frigorifero appariva risalente nel tempo.
La sentenza impugnata é stata perciò annullata con rinvio per nuovo esame in ordine ai rifiuti riconducibili alla B.F. & figli SNC ed ai rifiuti collocati su terreni non nella disponibilità della B.S. SRL dovendosi accertare se vi fosse la prova che erano stati abbandonati dall’imputato o da altri con il suo concorso e non già da terzi senza il concorso dell’imputato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2014 n. 23911 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 11/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: VIOLAZIONE DI SIGILLI.
Rifiuti - Gestione illecita di rifiuti - Sequestro di un’area - Accesso non autorizzato - Violazione di sigilli - Reato - Sussistenza - Art. 349, cod. pen..
Configura il reato di violazione dei sigilli ai sensi dell’art. 349 cod. pen. l’accesso ad un’area, sottoposta a sequestro penale perché vi era stata scaricata terra da scavo costituente rifiuto, effettuato al fine di prelevare campioni di terreno da sottoporre ad analisi.
Nella specie è stato proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello che aveva confermato la condanna di P. (anche) per il delitto di cui all’art. 349 cpv. cod. pen. perché era entrato, in violazione dei sigilli, nell’area sottoposta a sequestro preventivo per prelevare campioni di terreno da sottoporre ad analisi.
A sostegno del ricorso l’imputato deduceva che non era stato considerato il vero oggetto della tutela penale approntata dall’art. 349 cod. pen. e che non era stata considerata scriminata o meramente colposa la condotta posta in essere. La Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile perché, come già aveva osservato la Corte di merito, la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 349 cod. pen. sanziona tanto le attività dirette ad alterare le modalità con le quali lo Stato manifesta la propria volontà di provvedere alla speciale custodia di determinati beni, quanto la manipolazione delle cose sottoposta a custodia.
Infatti, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, l’oggetto giuridico del reato è la tutela della intangibilità della cosa che la Pubblica Amministrazione vuole garantire contro ogni atto di disposizione o di manomissione, indipendentemente dai fini o dai motivi particolari che ispirano il provvedimento autoritativo, con la conseguenza che integra il reato anche il semplice uso della cosa stessa.
Da ciò consegue che la condotta del ricorrente era perfettamente sussumibile nel fatto tipico di cui all’art. 349 cod. pen. e, tenuto conto della natura dell’interesse tutelato, era concretamente offensiva.
La sentenza ha inoltre escluso che la condotta fosse scriminata dall’esercizio di un diritto (il prelievo di campioni per l’esercizio di attività difensive).
Il concetto di diritto implica che il diritto stesso, sebbene inteso in senso lato, ossia come mera situazione giuridica attiva, sia suscettibile di esercizio. La qual cosa è esclusa allorquando per l’esercizio del diritto occorra, come nella specie, richiedere un provvedimento autorizzativo, essendo l’autorizzazione amministrativa principalmente diretta a rimuovere un limite legale all’esercizio di un diritto che, sebbene riconosciuto dall’ordinamento in capo al soggetto, non sia da questi esercitabile senza la previa rimozione del limite che all’esercizio del diritto legalmente si frappone.
Quanto all’allegazione difensiva circa l’erronea supposizione della sussistenza di una causa di giustificazione ex art. 59 cod. pen., essa non poteva essere, come nella specie, genericamente affermata, ma doveva basarsi su dati di fatto concreti, tali da giustificare l’erroneo convincimento in capo all’imputato di trovarsi in un tale stato.
Peraltro, dato che per il perfezionamento del reato è richiesto il solo dolo generico, da individuarsi nella volontà di violare i sigilli, nella consapevolezza della funzione giuridica degli stessi di assicurare la conservazione o l’identità della cosa, la Corte ha ribadito che l’elemento psicologico del reato è configurabile anche nella forma del dolo eventuale, non rilevando l’eventuale buona fede dell’agente cui incombe l’obbligo, nei casi dubbi, di interpellare il proprio difensore ovvero la stessa autorità procedente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.06.2014 n. 23484 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 10/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: EMISSIONI MOLESTE.
Emissioni in atmosfera - Molestie - Azienda autorizzata - Idoneità ad arrecare fastidio - Insufficienza - Rilevanza superamento limiti tabellari - Giudizio sull’adeguatezza degli impianti - Art. 674 cod. pen..
Ai fini dell’affermazione di responsabilità per il reato previsto dall’art. 674 cod. pen., nell’ipotesi di attività industriali che trovano la loro regolamentazione in una specifica normativa di settore, non è sufficiente la generica idoneità delle emissioni a recare disturbo o fastidio: occorre, invece, accertare specificamente, nel caso di azienda munita di autorizzazione alle emissioni in atmosfera, la violazione da parte sua delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione stessa e/o il superamento degli standards fissati dalla legge e il nesso consequenziale delle emissioni moleste con detta inosservanza; occorre, inoltre, indicare quali ulteriori accorgimenti tecnici siano, in concreto, adottabili dall’azienda per prevenire le esalazioni moleste.
Discorso diverso va fatto nel caso di emissioni moleste prodotte da attività non rientranti tra quelle regolamentate dall’autorizzazione o nel caso in cui non esista una predeterminazione normativa di limiti tabellari: in tali ipotesi, il giudice deve comunque valutare la tollerabilità consentita, ma pur sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche normative di settore.

A seguito di vari sopralluoghi del Corpo Forestale dello Stato, che avevano accertato l’emissione da una distilleria di odori molesti e di polveri fastidiose (risultate stagnanti sui muri delle vicine abitazioni in un raggio di circa 500 metri, ma anche sugli alberi ed altri oggetti rientranti in tale perimetro), al legale rappresentante dell’azienda veniva contestato il reato di cui all’art. 674 cod. pen..
Il Tribunale, nel pervenire alla condanna, da un lato riteneva irrilevante l’esistenza di autorizzazione alle emissioni in atmosfera da parte dell’azienda e il mancato superamento dei limiti stabiliti in tali autorizzazioni. Dall’altro lato affermava che, in ogni caso, era stato superato il limite della normale tollerabilità previsto dall’art. 844 cod. civ., la cui tutela costituisce la ratio incriminatrice della norma penale.
Veniva successivamente presentato un articolato ricorso per cassazione accolto dalla sentenza in epigrafe che ha colto l’occasione per approfondire alcune questioni dibattute in materia.
L’imputato, infatti, asseriva che il Tribunale erroneamente aveva affermato l’irrilevanza delle autorizzazioni di cui era in possesso l’azienda per le emissioni in atmosfera e del mancato superamento dei valori limite da esse previsti. Contestava, inoltre, l’affermazione secondo cui la ricaduta al suolo delle polveri integrava la condotta ipotizzata nella prima parte dell’art. 674 cod. pen., senza dover prendere in considerazione gli ulteriori requisiti previsti dalla seconda parte dello stesso articolo, in quanto espressione di un orientamento giurisprudenziale ormai superato.
Orbene, il supremo Collegio ha aderito all’indirizzo secondo il quale la norma incriminatrice non prevede -come invece ritenuto dal Tribunale- due distinte ipotesi di reato, ma un unico reato, in quanto la condotta consistente nel provocare emissione di gas, vapori o fumo, rappresenta una species del più ampio genus costituito dal gettare o versare cose atte ad offendere imbrattare o molestare le persone.
Ha poi concordato con il ricorrente in ordine all’erronea applicazione dell’art. 674 cod. pen.; infatti: l’attività industriale era autorizzata; le prescrizioni in tema di emissione di fumi (e dunque di polveri) erano state osservate in quanto i valori non superavano il limite imposto ed anzi erano nettamente inferiori; tali dati dimostravano la manifesta illogicità della motivazione del Tribunale, secondo la quale gli accorgimenti tecnici in dotazione all’azienda non erano sufficienti, in quanto non era stato indicato in sentenza quali dovessero essere gli ulteriori e specifici accorgimenti tecnici da adottarsi per evitare l’emissione delle polveri e il loro deposito.
La Corte si è poi soffermata sulla questione del superamento del limite della normale tollerabilità (art. 844 cod. civ.). Invero, il ricorrente aveva sostenuto che, poiché la realizzazione dell’impianto industriale risaliva agli anni ’50-’60 ed era munita di tutte le autorizzazioni prescritte oltre che rispettosa dei limiti previsti dall’art. 216, R.D. n. 1265/1934, non era configurabile una responsabilità in capo al titolare dell’azienda se altri soggetti avevano edificato a distanza non consentita rispetto allo stabilimento industriale con il rischio, quindi, di essere destinatari delle emissioni prodotte dall’attività industriale.
Secondo i giudici di legittimità, questa tesi non poteva tuttavia assurgere a regola assoluta in quanto il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell’attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato. Rientra, pertanto, nella facoltà del giudice disattendere la regola della priorità di uso, a condizione che, sulla base degli accertamenti di fatto compiuti, venga fornita idonea motivazione in ordine al superamento della soglia di tollerabilità.
Perciò, il Tribunale, che aveva ritenuto l’inadeguatezza delle misure adottate dall’impresa, avrebbe invece dovuto indicare gli ulteriori accorgimenti tecnici da adottare in quanto solo in questo caso si sarebbe potuta configurare l’illegittimità della produzione e dunque l’inapplicabilità del principio del pre-uso. A maggior ragione, ha osservato la Corte, questi principi avrebbero dovuto essere osservati con riferimento all’emissione di odori sgradevoli, tanto più che, sulla base dei riferimenti testimoniali, vi era contrasto tra la natura degli odori nauseabondi descritti dagli abitanti della zona (puzza di uova marce) e quelli descritti dai verbalizzanti (che parlavano di odori derivanti dai mucchi di vinaccia depositati nel piazzale dell’azienda).
Infatti, ai fini dell’affermazione di responsabilità in ordine al reato previsto dall’art. 674 cod. pen., nell’ipotesi di attività industriali che trovano la loro regolamentazione in una specifica normativa di settore, non è sufficiente ad integrare la fattispecie l’idoneità delle emissioni a recare disturbo o fastidio, occorrendo invece la puntuale e specifica dimostrazione che tali emissioni superino gli standards fissati dalla legge.
Secondo il più recente orientamento della Cassazione (condiviso integralmente nella specie), quando esistono precisi limiti tabellari fissati dalla legge, non possono ritenersi non consentite le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal legislatore.
Discorso diverso va fatto in quei casi nei quali non esiste una predeterminazione normativa, gravando sul giudice penale l’obbligo di valutare la tollerabilità consentita, ma pur sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche normative di settore.
La Corte ha dunque concluso che, quando le molestie siano riferibili ad esalazioni prodotte dall’attività dell’azienda, munita di autorizzazione alle emissioni in atmosfera, l’affermazione di colpevolezza dell’imputato in tanto può essere ritenuta in quanto sia accertata, in primo luogo, la mancata adozione da parte dell’azienda delle prescrizioni contenute nella predetta autorizzazione e il nesso consequenziale delle emissioni moleste con detta inosservanza; in secondo luogo, che l’attività posta in essere non rientri tra quelle regolamentate dall’autorizzazione o, infine, che siano superati i valori limite previsti dalla autorizzazione per le emissioni.
Per completezza, la Corte ha altresì osservato che il criterio della stretta tollerabilità (enunciato in varie pronunce della Suprema Corte) deve essere inteso in termini più rigorosi rispetto al concetto civilistico di normale tollerabilità dettato dall’art. 844 cod. civ., attesa l’inidoneità di questo criterio ad approntare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana, allorché non vengano rispettati, nell’esercizio di un’attività industriale o più genericamente produttiva, i limiti e le prescrizioni previste dai provvedimenti autorizzatori che la disciplinano.
E' stata perciò annullata la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale perché verifichi, in modo puntuale ed alla luce dei principi di diritto enunciati, quali accorgimenti non siano stati adottati dall’azienda e quali in concreto fossero quelli da adottare, tanto con riferimento alla emissione di poveri quanto con riferimento alla emissione di odori sgradevoli la cui natura doveva comunque essere accertata con specifica motivazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2014 n. 18896 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 10/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ORDINE DI RIMOZIONE DEI RIFIUTI.
Rifiuti - Mancata ottemperanza all’ordine di rimozione dei rifiuti - Reato istantaneo - Art. 255, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di omessa ottemperanza all’ordine di rimozione dei rifiuti rivolto dall’autorità amministrativa si perfeziona alla scadenza del termine indicato dall’autorità, sicché l’eventuale adempimento successivo non ha alcuna rilevanza al fine di escludere la sussistenza del reato, che ha natura istantanea.
Nella specie il Tribunale condannava il proprietario di un terreno per aver creato 20 cumuli di rifiuti di circa 400 mc. e per non avere, poi, ottemperato alla ordinanza sindacale che gli intimava di provvedere al ripristino dello stato dei luoghi.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’imputato che aveva evidenziato che la contestazione del PM indicava come data di commissione quella del 07.11.2007, vale a dire, la data in cui la polizia municipale aveva accertato la mancata rimessione in pristino, ma il termine da indicare avrebbe dovuto essere quello del sessantesimo giorno successivo alla notifica dell’ordinanza; quindi, trattandosi di una data antecedente di molto quella del 07.11.2007, la Corte avrebbe dovuto prendere atto dell’estinzione di tale reato.
La sentenza ha ricordato la problematica della qualificazione da darsi al reato di omessa ottemperanza ad un ordine di rimozione dei rifiuti rivolto dall’autorità amministrativa.
Nella specie, il giudice, ritenuta la natura permanente dell’illecito, aveva considerato, come dies a quo, la data di accertamento, da parte della p.g. dell’inottemperanza contestata -vale a dire, quella del 07.11.2007- allineandosi così a Cass. 18.05.2006, Marini (1) che aveva posto il principio secondo cui il reato de quo ha natura permanente «sicché la scadenza del termine per l’adempimento non indica il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l’inizio della fase di consumazione che si protrae sino al momento dell’ottemperanza all’ordine ricevuto».
Il ricorrente invece sosteneva che l’ordinanza sindacale del 04.06.2007, n. 82 (con la quale si ingiungeva al D’Ambrosio di rimuovere i rifiuti) indicava in termini perentori (entro e non oltre) di adempiere entro sessanta giorni e che, di conseguenza è dalla scadenza di tale data che sarebbero dovuti decorrere i 5 anni massimi per la estinzione del reato.
Secondo la Cassazione, tale argomento non era del tutto privo di pregio, considerata l’esistenza di Cass. 28.02.2007, Viti (2) che aveva, per l’appunto, operato dei distinguo in relazione al tipo di termine imposto per l’adempimento affermando che, ove si tratti di termine perentorio, il reato si perfeziona alla sua scadenza «sicché l’eventuale adempimento successivo non ha alcuna rilevanza al fine di escludere la sussistenza del reato, che ha natura istantanea e la cui prescrizione comincia a decorrere dal termine fissato»; in caso contrario, e cioè ove il termine non sia perentorio, l’agente può validamente far cessare la situazione antigiuridica sanzionata dalla norma incriminatrice, anche dopo la scadenza del termine, dando esecuzione, con un comportamento attivo, all’ordine ricevuto sicché il reato ha natura permanente e cessa allorché, appunto, l’agente dà esecuzione all’ordine.
Nella fattispecie in esame, secondo la sentenza che si riporta, pur essendovi incertezza circa l’esatta natura del termine imposto al ricorrente dall’autorità amministrativa, era evidente la non manifesta infondatezza della censura sollevata, come pure era chiaro che, per il principio dell’in dubio pro reo, la situazione di incertezza non potesse essere risolta in danno dell’imputato.
Di conseguenza, tenendo conto del fatto che, medio tempore, anche a volerlo far decorrere dalla data dell’accertamento (07.11.2007), il termine di prescrizione del reato era ormai maturato, la sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio.
---------------
(1) Ced Cass., rv. 234484
(2) Ced Cass., rv. 236718
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.04.2014 n. 17868 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RESPONSABILITA' DEL PROPRIETARIO DEL FONDO.
Rifiuti - Proprietario di un’area - Locazione a terzi - Concorso nel reato del terzo - Esclusione - Art. 256 D.Lgs. n. 152/2006.
Il fatto di locare un'area ad un terzo per l'esercizio di una attività imprenditoriale non comporta, in capo al locatore, l'onere di assicurarsi che gli adempimenti relativi allo smaltimento dei rifiuti derivanti da una tale attività vengano effettuati in conformità alle norme di legge, non potendo il mero fatto del contratto di locazione creare sul locatore un obbligo di garanzia in tal senso.
R.N. e S. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale con cui erano state condannate per avere, in qualità di comproprietarie di un’area, da un lato, concorso con il legale rappresentante della società D.S.G. e f., in un’attività di recupero e smaltimento di rifiuti provenienti da inerti e residui di demolizioni, così trasformandoli in materiali utili per l'edilizia, senza essere in possesso della prescritta autorizzazione, e, dall'altro, concorso con D.S.G., esercente attività di frantoio, nella predetta attività senza essere munite della prescritta autorizzazione regionale.
Nell’atto di impugnazione lamentavano che il Tribunale avesse considerato l'intera vicenda processuale in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio in quanto non era stata effettuata nessuna indagine per accertare l'effettiva partecipazione delle imputate ai reati contestati.
In particolare, evidenziavano che l'attività di frantumazione era svolta solo dal D.S.; che il terreno era stato locato per uso deposito; che successivamente avevano proceduto alla risoluzione contrattuale per grave inadempimento; che vivevano in altra città e non erano presenti al momento dell'ispezione.
In base a tali circostanze, concludevano asserendo la mancanza, contrariamente all'assunto della sentenza impugnata, di una condotta concorsuale efficiente sotto il profilo causale non essendo sufficiente un comportamento meramente omissivo ad integrare la fattispecie di concorso nel fatto illecito commesso da altre persone.
La Cassazione ha accolto il ricorso perché il Tribunale non aveva espressamente argomentato in ordine agli elementi dimostrativi della responsabilità a titolo di concorso delle imputate, fondata non già su risultanze positive di essa, bensì sulla mancanza di risultanze dimostrative della sua assenza; implicitamente, la loro responsabilità era stata fondata sostanzialmente, e quindi assiomaticamente, sulla sola base della proprietà formale del fondo, per di più risultante locato ad altro soggetto per l'esercizio della sua attività con un contratto che era stato poi risolto per grave inadempimento del conduttore.
In ogni caso, non era spiegato perché il fatto di locare un'area ad un terzo per l'esercizio di una attività imprenditoriale debba comportare, in capo al locatore, l'onere di assicurarsi che gli adempimenti relativi allo smaltimento dei rifiuti derivanti da una tale attività siano effettuati in conformità alle norme di legge, non potendo il mero fatto del contratto di locazione trasferire sul locatore un obbligo di garanzia in tal senso.
La sentenza è stata perciò annullata con rinvio al Tribunale per nuovo esame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.04.2014 n. 16666 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 12/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: DEPOSITO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Deposito temporaneo o stoccaggio autorizzato - Mancanza delle condizioni di liceità - Reato - Artt. 183 e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
La realizzazione di un’attività di deposito di rifiuti che esuli dalle fattispecie del deposito temporaneo o dello stoccaggio debitamente autorizzato integra il reato di deposito incontrollato di rifiuti (fattispecie relativa ad un deposito non autorizzato avente ad oggetto materiali provenienti da lavori in corso presso una stazione ferroviaria).
Nella specie l’Amministratore Unico della C.S. srl nonché titolare della ditta individuale Z.D., impresa esecutrice dei lavori per la realizzazione di parcheggi presso la stazione ferroviaria di Campobasso, veniva condannato per aver attuato un deposito incontrollato di traversine ferroviarie dismesse in cemento armato precompresso e breccione calcareo e terra misto a conglomerato bituminoso, provenienti dai lavori in corso presso la stazione ferroviaria.
Il procedimento traeva origine da un controllo effettuato dai CC del Nucleo Operativo Ecologico di Campobasso presso la cava ubicata in C. S. di proprietà della C.S. srl, nel corso del quale furono rinvenute, occultate da un cumulo di pietrisco, trecento traversine ferroviarie dismesse in cemento armato precompresso, provenienti dalla demolizione di binari dello scalo merci stazione di Campobasso, conseguente ai lavori per la realizzazione di parcheggi comunali appaltati all’impresa di Z.D..
Il giudice di merito, sulla base delle ammissioni dell’imputato circa la provenienza delle traversine in calcestruzzo e dell’altro materiale rinvenuto dal cantiere delle Ferrovie ove stava svolgendo i lavori edili, ha ritenuto accertato il reato di deposito incontrollato di rifiuti di cui all’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 sul presupposto che costituisce deposito incontrollato di rifiuti l’attività di stoccaggio, smaltimento di materiali eterogenei ammassati alla rinfusa, senza alcuna autorizzazione su aree nella disponibilità dell’imputato.
Nel proposto ricorso per Cassazione, il ricorrente eccepiva che il giudice aveva omesso di considerare che lo Zurlo, pur riconoscendo, nell’ambito delle procedure adottate per la gestione dei rifiuti prodotti dalle opere realizzate, di avere tagliato i binari dismessi e smontato le traversine sia in legno che in calcestruzzo, portando queste ultime presso la cava di proprietà della C.S. srl, (i binari e le traversine in legno erano state accatastate in un’area appartenente alla Ferrovie, incaricatasi dello smaltimento), aveva tuttavia precisato che si trattava di un deposito temporaneo in attesa di inviarle per lo smaltimento presso l’impianto autorizzato.
Secondo la prospettazione difensiva, il ricorrente aveva realizzato un deposito preliminare in quanto le traversine rinvenute nella cava erano state in seguito inviate presso l’impianto autorizzato per lo smaltimento. Tale fattispecie era sanzionabile solo in assenza di autorizzazione, che, nel caso in esame, era stata rilasciata. Per la difesa, il giudice di merito aveva ignorato tale autorizzazione, pur mancando qualsiasi tipo di prova, sia documentale che orale, della sua assenza.
La Cassazione ha condiviso le corrette argomentazioni della Corte di merito sull’infondatezza dell’assunto difensivo secondo cui il materiale derivante dalla demolizione dei binari era stato accatastato provvisoriamente in attesa di essere rimosso, con conseguente riconducibilità della condotta dell’imputato all’ipotesi di stoccaggio o deposito preliminare di rifiuti. Tale assunto, oltre che essere smentito dalle modalità e dalla durata del deposito, non era comunque decisivo ai fini dell’esclusione dell’illiceità della condotta. Infatti, la nuova normativa ha in sostanza equiparato le ipotesi di stoccaggio provvisorio e di deposito incontrollato di rifiuti configurandole entrambe come ipotesi di reato rientranti nell’attività di smaltimento illecito di rifiuti.
A questo proposito, la sentenza ha ricordato l’elaborazione giurisprudenziale in materia di deposito temporaneo, deposito preliminare o stoccaggio e deposito incontrollato o abbandono di rifiuti.
Il deposito temporaneo ricorre in presenza di un raggruppamento di rifiuti effettuato nel luogo della loro produzione, prima della raccolta, intendendo per essa le operazioni di prelievo, di cernita e di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto; tale deposito è lecito se vengano rispettate le condizioni previste dalla legge; nel caso tali condizioni non vengano rispettate, il deposito temporaneo va qualificato come deposito preliminare, o stoccaggio, attività per la quale sono necessarie l’autorizzazione o la comunicazione in procedura semplificata, previste dal citato decreto legislativo, in difetto delle quali il deposito integra un reato.
Ricorre il reato di deposito incontrollato di rifiuti nel caso di attività di stoccaggio e smaltimento di materiali eterogenei ammassati alla rinfusa, senza alcuna autorizzazione, su un’area rientrante nella disponibilità dell’imputato.
Ciò posto, secondo la Cote di Cassazione era evidente che il ricorrente non potesse invocare l’ipotesi dello stoccaggio non avendo fornito, come emergeva dalla sentenza impugnata, alcuna dimostrazione del rilascio delle prescritte autorizzazioni. A tale riguardo, la sentenza di secondo grado aveva correttamente affermato che è onere della parte produrre la documentazione comprovante il conseguimento delle autorizzazioni, la cui sussistenza non si può certo desumere, come pretendeva il ricorrente, dal fatto che non era stata acquisita in giudizio la prova dell’assenza di tali autorizzazioni.
Infatti, non è certo sufficiente la prova negativa della loro assenza dovendosi fornire, a cura della parte su cui grava il relativo onere probatorio, la prova positiva delle condizioni legittimanti l’effettuazione dell’attività di stoccaggio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.04.2014 n. 15659 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 10/2014).

inizio home-page