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AGGIORNAMENTO AL 25.01.2015 |
ã |
Ai fini della
compatibilità paesaggistica (ex art. 167 dlgs
42/2004) nessun rilievo assume la definizione delle
opere abusivamente costruite in termini di volume
tecnico, qualificazione rilevante sotto il profilo
urbanistico ed edilizio, ma non sotto quello
paesaggistico.
Il Consiglio di Stato
sconfessa il TAR Campania-Salerno e, indirettamente,
la
circolare
26.06.2009 n. 33 del Segretario generale MIBACT, nel dettare talune linee
interpretative ed operative ai fini
dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi
dell'art. 167 d.lgs. 42/2004, laddove chiarisce che
“per volumi s’intende qualsiasi manufatto
costituito da parti chiuse emergente dal terreno o
dalla sagoma di un fabbricato preesistente
indipendentemente dalla destinazione d’uso del
manufatto”, per poi precisare: “ad
esclusione dei volumi tecnici”.
Ma ciò che stupisce è il fatto che sia stato proprio il
MIBACT, ricorrendo in appello, a sostenere la tesi
-successivamente fatta propria dal Consiglio di
Stato- con la quale, invero, disconosce quanto
precedentemente sostenuto con la suddetta circolare n. 33 del
26.06.009. |
EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 146,
comma 4, del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, “fuori dai
casi di cui all’ articolo 167, commi 4 e 5,
l’autorizzazione non può essere rilasciata in
sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi”.
A sua volta, l’art. 167 consente l’accertamento
postumo “a) per i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili
o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
realizzati; b) per l’impiego di materiali in
difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per
i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell’ articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380″.
Questi sono gli unici interventi dei quali è
possibile l’accertamento postumo di conformità
paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio
della sanatoria edilizia: quelli che non hanno
determinato creazione di superfici utili o di
volumi, e quelli configurabili in termini di
manutenzione ordinaria o straordinaria.
... per la riforma della sentenza breve del
TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 15.07.2013 n. 1540,
resa tra le parti, concernente accertamento postumo
di compatibilità paesaggistica per le opere
abusivamente realizzate nel comune di Pisciotta.
...
Il Ministero per i beni e le attività culturali
chiede la riforma della sentenza, in epigrafe
indicata, con la quale il Tribunale amministrativo
della Campania ha accolto il ricorso proposto dal
signor E.V. avverso il provvedimento in data
19.12.2012, recante parere negativo
sull’accertamento postumo di compatibilità
paesaggistica per le opere realizzate nel Comune di
Pisciotta in assenza di autorizzazione, e del
conseguente diniego comunale del 31.12.2012.
La sentenza impugnata ha rilevato che la valutazione
della Soprintendenza si è basata su valutazioni
urbanistico-edilizie, e ha trascurato il concreto
apprezzamento circa la compatibilità paesaggistica
dell’intervento, relativo alla realizzazione di
volumi tecnici (per i quali vale una particolare
interpretazione dell’art. 167 del d.lgs. 22.01.2004,
n. 42) in zona gravata da vincolo paesaggistico.
Il Ministero appellante evidenzia che le opere
abusivamente costruite risultano di significative
dimensioni, costituiscono un corpo edilizio autonomo
e comportano un incremento di superfici e di volumi:
ai fini della compatibilità paesaggistica, quindi,
nessun rilievo assume la definizione delle stesse in
termini di volume tecnico, qualificazione rilevante
sotto il profilo urbanistico ed edilizio, ma non
sotto quello paesaggistico.
L’appello è fondato.
Va ricordato che, ai sensi dell’art. 146, comma 4,
del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, “fuori dai casi di
cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione
non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale,
degli interventi”. A sua volta, l’art. 167
consente l’accertamento postumo
“a) per i lavori,
realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria
ai sensi dell' articolo 3 del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380” .
Questi, dunque, per quanto qui rileva, sono gli
unici interventi dei quali è possibile
l’accertamento postumo di conformità paesaggistica,
a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria
edilizia: quelli che non hanno determinato creazione
di superfici utili o di volumi, e quelli
configurabili in termini di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
Da ciò, per tornare alla fattispecie in esame,
deriva, innanzitutto, l’ininfluenza della
definizione, invece enfatizzata dal primo giudice,
degli interventi in discorso, realizzati senza
titolo, in termini di volumi tecnici, dato che quel
che rileva è la creazione di superfici e di volumi,
e il carattere non sussumibile degli interventi
stessi nella categoria della manutenzione edilizia.
E, poiché i manufatti in discorso hanno
incontestabilmente realizzato superfici utili e
volumi, e altrettanto incontestabilmente sfuggono
alla definizione di manutenzione edilizia, è
evidente che degli stessi non è possibile
l’accertamento postumo di compatibilità
paesaggistica, come esattamente sostiene
l’Amministrazione appellante.
In conclusione, l’appello è fondato e merita
accoglimento, con conseguente riforma della sentenza
impugnata e reiezione del ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Qui sotto la sentenza del TAR riformata dal CDS: |
EDILIZIA PRIVATA: Nell'ambito
di accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica, la Soprintendenza ha illegittimamente
sovrapposto il proprio sindacato a quello
favorevolmente esercitato dall’autorità comunale,
addentrandosi in valutazioni di tipo propriamente
urbanistico-edilizio e trascurando un apprezzamento
in concreto relativo all’effettiva compatibilità
dell’intervento con il vincolo paesaggistico.
---------------
L’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il
volume tecnico, rispetto alla nozione di volume
edilizio, possa ricevere, in considerazione della
peculiare destinazione funzionale, una valutazione
differenziata, caso per caso, suscettibile di
concludersi con l’autorizzazione paesaggistica
postuma, qualora in concreto il manufatto non
presenti elementi incompatibili o comunque di
estraneità con il paesaggio nel quale è destinato a
collocarsi; non è un caso che, proprio in tema di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi
del volume tecnico riceva dallo stesso ministero
resistente una considerazione differenziata rispetto
alla disciplina generale relativa ai volumi edilizi.
Al riguardo, la circolare del Segretario generale n.
33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee
interpretative ed operative ai fini
dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi
del menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce
che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto
costituito da parti chiuse emergente dal terreno o
dalla sagoma di un fabbricato preesistente
indipendentemente dalla destinazione d’uso del
manufatto”, per poi precisare: “ad esclusione dei
volumi tecnici”.
Benché la circolare sia espressione di un potere
ministeriale di mero indirizzo interno, privo di
efficacia precettiva autonoma e non vincolante per i
giudici, essa è tuttavia un chiaro indizio di come
la stessa amministrazione competente abbia sposato
una soluzione interpretativa della norma in esame
che ragionevolmente tiene conto delle peculiari
caratteristiche dei volumi tecnici.
... per l'annullamento:
1.- del provvedimento prot. n. 35692 del 19.12.02012
con cui la Soprintendenza ha adottato parere
negativo relativamente all'accertamento postumo di
compatibilità paesaggistica per le opere realizzate
nel Comune di Pisciotta in difetto di autorizzazione
paesaggistica;
2.- della determina n. 79 del 31.12.2012, con la
quale il comune di Pisciotta determina “di non
concedere, per la realizzazione delle opere previste
nel progetto anzidetto, il prescritto provvedimento
ai sensi e per gli effetti dell’art. 167, commi 4 e
5, d.lgs. 42/2004, in conformità al parere espresso
dalla Soprintendenza per i BAP di Salerno e Avellino”.
...
Considerato che:
- nel caso in esame, la Soprintendenza, in relazione
al tipo d’intervento effettuato, ha sovrapposto il
proprio sindacato a quello favorevolmente esercitato
dall’autorità comunale, addentrandosi in valutazioni
di tipo propriamente urbanistico-edilizio e
trascurando un apprezzamento in concreto relativo
all’effettiva compatibilità dell’intervento con il
vincolo paesaggistico (Tar Campania, Salerno, sez.
I, 01.10.2012, n. 1737).
- L’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che
il volume tecnico, rispetto alla nozione di volume
edilizio, possa ricevere, in considerazione della
peculiare destinazione funzionale, una valutazione
differenziata, caso per caso, suscettibile di
concludersi con l’autorizzazione paesaggistica
postuma, qualora in concreto il manufatto non
presenti elementi incompatibili o comunque di
estraneità con il paesaggio nel quale è destinato a
collocarsi; non è un caso che, proprio in tema di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi
del volume tecnico riceva dallo stesso ministero
resistente una considerazione differenziata rispetto
alla disciplina generale relativa ai volumi edilizi.
- Al riguardo, la circolare del Segretario generale
n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee
interpretative ed operative ai fini
dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi
del menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce
che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto
costituito da parti chiuse emergente dal terreno o
dalla sagoma di un fabbricato preesistente
indipendentemente dalla destinazione d’uso del
manufatto”, per poi precisare: “ad esclusione
dei volumi tecnici”.
Benché la circolare sia espressione di un potere
ministeriale di mero indirizzo interno, privo di
efficacia precettiva autonoma e non vincolante per i
giudici, essa è tuttavia un chiaro indizio di come
la stessa amministrazione competente abbia sposato
una soluzione interpretativa della norma in esame
che ragionevolmente tiene conto delle peculiari
caratteristiche dei volumi tecnici.
- Il manufatto contestato realizza in concreto un
volume tecnico, di carattere pertinenziale e
destinato esclusivamente ad impianti tecnologici
(legnaia, serbatoio idrico con connesso autoclave);
appare invero irrilevante la circostanza che i
locali tecnici ospitanti la non siano immediatamente
contigui alla casa di abitazione ma da essa
separati; questo dato è tuttavia scarsamente
significativo dal punto di vista paesaggistico e,
peraltro, non è decisivo per fare venire meno il
carattere di pertinenza dell’opera all’abitazione
principale.
Per quanto sopra, con rilievo di carattere
assorbente, il ricorso merita accoglimento. Ne
consegue l’annullamento degli atti della
Soprintendenza, sopra impugnati.
Appare comunque equo compensare le spese in
relazione alla natura della controversia ed
all’incerta esatta interpretazione dell’art. 167
d.lgs. 42/2004 in merito ai volumi tecnici (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 15.07.2013 n. 1540
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
QUINDI?? |
In verità, la questione (menzione) del "volume
tecnico" la ritroviamo esclusivamente nella
circolare MIBACT di cui sopra e non anche nella
norma di legge, laddove l'art. 167, comma 4, del
d.lgs. 42/2004 così recita: |
Art. 167. Ordine di rimessione in pristino o di
versamento di indennità pecuniaria
4. L'autorità amministrativa competente accerta la
compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di
cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria
ai sensi dell'articolo 3 del d.P.R. 6 giugno 2001,
n. 380. |
Orbene, forse è il caso di ricordarci cosa dispone
l'art. 12, comma 1, delle "DISPOSIZIONI SULLA
LEGGE IN GENERALE o disposizioni preliminari al
codice civile (preleggi)" e cioè: |
Art. 12 Interpretazione della legge
1. Nell'applicare la legge non si può ad essa
attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse, e dalla intenzione del
legislatore. |
Allora, vuoi vedere che il Consiglio di Stato
-finalmente- sentenzia siccome dispone semplicemente
la norma di legge senza appellarsi ad elucubrazioni
giuridiche tanto contorte quanto (a volte)
incomprensibili e/o incondivisibili??
Ed il Giudice di 1° grado si dovrà conformare, volenti
o nolenti, anche se non sappiamo se lo farà in tempi
brevi -o meno- vista anche la recente sentenza
(contraria) che riportiamo a seguire ...
25.01.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA PRIVATA:
Il concetto di
utilità del volume può divergere nelle valutazioni
urbanistiche e in quelle paesistiche.
Ai fini
urbanistici è utile il volume (o la superficie) che consuma
gli indici edificatori. Si tratta quindi di un concetto
esclusivamente giuridico, che può talvolta contrastare con
la realtà di fatto (ad esempio, un osservatore può percepire
un volume fuori terra che per la disciplina urbanistica non
esiste, perché accessorio o tecnico, e al contrario non
percepisce i volumi interrati, ma questi ultimi, in certi
casi, devono essere computati negli indici edificatori).
Ai
fini paesistici è invece rilevante la percepibilità
dell’opera come volume collocato in uno scenario. In questo
senso si esprimono sia le direttive del Ministero per i Beni
e le Attività Culturali (v. parere dell’Ufficio Legislativo prot.
n. 16721 del 13.09.2010) sia la giurisprudenza.
L’utilità del
volume sotto il profilo paesistico non è quindi definibile
solo in via astratta mediante categorie giuridiche, ma
richiede anche l’accertamento in concreto di alcuni elementi
materiali.
Un contributo interpretativo è fornito dalla circolare
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33 del
26.06.2009, che qualifica come volume utile un manufatto
costituito da parti chiuse, emergente dal terreno o dalla
sagoma di un edificio preesistente, e in grado di ospitare
qualsiasi destinazione d’uso ad eccezione dei locali
tecnici.
La suddetta circolare definisce anche la superficie
utile, escludendo da questa categoria le strutture aperte su
tre lati (come logge, balconi e portici) quando la
superficie non superi il 25% dell’area di sedime del
fabbricato a cui le stesse sono collegate. Le due nozioni
interagiscono, in quanto la superficie utile costituisce un
parametro per stabilire se il manufatto, pur non costituendo
volume utile, sia comunque fuori scala rispetto al contesto.
Applicando questi criteri, la tettoia in esame non può
essere considerata come volume utile ai fini paesistici per
le seguenti ragioni:
(a) pur avendo le caratteristiche di
una nuova costruzione, si presenta aperta, in quanto il lato
interamente chiuso coincide con il muro di cinta e quello
parzialmente chiuso con un edificio preesistente;
(b) la
prossimità del muro di cinta comporta che l’unica visuale
rilevante sia quella interna al giardino;
(c) da questa
visuale non è percepibile alcuna chiusura dello spazio a
causa della tettoia;
(d) l’ingombro della tettoia non è
fuori scala, in quanto la sua superficie è pari a circa il
16% del sedime degli edifici di cui è pertinenza.
Relativamente alla tettoia
24. La Soprintendenza nella nota del 18.02.2013 ha
ribadito il parere negativo sulla tettoia qualificandola
come volume utile ai fini paesistici, anche se non rilevante
per la disciplina urbanistica. Questa tesi muove da un
presupposto corretto (la distinzione tra le valutazioni
urbanistiche e quelle paesistiche), ma non appare
condivisibile nelle conclusioni.
25. Per la regolarizzazione di un abuso sotto il profilo
urbanistico occorre stabilire se l’opera ricada nelle
fattispecie previste dagli art. 36 e 37 del DPR 06.06.2001 n. 380: in caso affermativo si produce un effetto
sanante retroattivo. Sotto il profilo paesistico, invece,
non basta che l’opera sia urbanisticamente sanabile, ma è
necessario che la stessa non costituisca volume o superficie
utile ai sensi dell’art. 167, comma 1-a, del Dlgs. 42/2004.
26. Il concetto di utilità del volume può divergere nelle
valutazioni urbanistiche e in quelle paesistiche. Ai fini
urbanistici è utile il volume (o la superficie) che consuma
gli indici edificatori. Si tratta quindi di un concetto
esclusivamente giuridico, che può talvolta contrastare con
la realtà di fatto (ad esempio, un osservatore può percepire
un volume fuori terra che per la disciplina urbanistica non
esiste, perché accessorio o tecnico, e al contrario non
percepisce i volumi interrati, ma questi ultimi, in certi
casi, devono essere computati negli indici edificatori).
Ai
fini paesistici è invece rilevante la percepibilità
dell’opera come volume collocato in uno scenario. In questo
senso si esprimono sia le direttive del Ministero per i Beni
e le Attività Culturali (v. parere dell’Ufficio Legislativo prot. n. 16721 del 13.09.2010) sia la
giurisprudenza (v. TAR Brescia Sez. I 15.10.2014 n.
1057; TAR Napoli Sez. VII 10.02.2014 n. 930; TAR
Torino Sez. II 17.12.2011 n. 1310). L’utilità del
volume sotto il profilo paesistico non è quindi definibile
solo in via astratta mediante categorie giuridiche, ma
richiede anche l’accertamento in concreto di alcuni elementi
materiali.
27. Un contributo interpretativo è fornito dalla circolare
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33 del
26.06.2009, che qualifica come volume utile un manufatto
costituito da parti chiuse, emergente dal terreno o dalla
sagoma di un edificio preesistente, e in grado di ospitare
qualsiasi destinazione d’uso ad eccezione dei locali
tecnici.
La suddetta circolare definisce anche la superficie
utile, escludendo da questa categoria le strutture aperte su
tre lati (come logge, balconi e portici) quando la
superficie non superi il 25% dell’area di sedime del
fabbricato a cui le stesse sono collegate. Le due nozioni
interagiscono, in quanto la superficie utile costituisce un
parametro per stabilire se il manufatto, pur non costituendo
volume utile, sia comunque fuori scala rispetto al contesto.
28. Applicando questi criteri, la tettoia in esame non può
essere considerata come volume utile ai fini paesistici per
le seguenti ragioni:
(a) pur avendo le caratteristiche di
una nuova costruzione, si presenta aperta, in quanto il lato
interamente chiuso coincide con il muro di cinta e quello
parzialmente chiuso con un edificio preesistente;
(b) la
prossimità del muro di cinta comporta che l’unica visuale
rilevante sia quella interna al giardino;
(c) da questa
visuale non è percepibile alcuna chiusura dello spazio a
causa della tettoia;
(d) l’ingombro della tettoia non è
fuori scala, in quanto la sua superficie è pari a circa il
16% del sedime degli edifici di cui è pertinenza (v.
relazione del geom. Fr.Gh. del 10.12.2012).
Conclusioni
29. I ricorsi riuniti devono quindi essere accolti, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati.
30. L’effetto conformativo di tale pronuncia comporta la
riattivazione del procedimento di rilascio della sanatoria,
con le seguenti precisazioni:
(a) sotto il profilo
urbanistico, il Comune dovrà stabilire l’importo della
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 36, comma 2, del DPR
380/2001 per l’insieme delle opere realizzate abusivamente;
(b) sotto il profilo paesistico, il Comune, sentita la
Soprintendenza, dovrà stabilire l’importo dovuto a titolo di
risarcimento ambientale ex art. 167, comma 5, del Dlgs.
42/2004 per l’insieme delle opere realizzate abusivamente;
(c) la Soprintendenza conserva il potere di indicare gli
interventi di mitigazione necessari per ridurre l’impatto
paesistico delle suddette opere (di tali interventi si dovrà
tenere conto nella graduazione del risarcimento ambientale).
Per la conclusione del procedimento è fissato il termine di
60 giorni dal deposito della presente sentenza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.01.2015 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
APPALTI:
Sulla vexata
quaestio circa l'indicazione, a pena di esclusione,
degli oneri relativi alla sicurezza in maniera analitica sin
dal momento della presentazione delle offerte.
Deve rimettersi all’Adunanza Plenaria la soluzione della
questione preliminare relativa all’estensione dell’articolo
87, comma 4, del codice dei contratti pubblici anche ai
contratti relativi a lavori pubblici.
Si chiede all’Adunanza Plenaria di
verificare
1) se, in ogni caso, la sanzione dell’esclusione debba
essere comminata anche laddove l’obbligo di specificazione
degli oneri non sia stato prescritto dalla normativa di
gara; e
2) se, ai fini della soluzione, possa avere rilievo la
peculiarità della fattispecie, data dalla circostanza che
viene in rilievo un appalto integrato, caratterizzato
dall’affidamento congiunto della progettazione esecutiva e
dell’esecuzione dei lavori sulla scorta di un progetto
definitivo predisposto dalla stazione appaltante.
4. Ritiene la Sezione che il presente giudizio imponga
l’esame di questioni di diritto che meritano, ai sensi
dell’art. 99 del codice del processo amministrativo, di
essere deferite all’esame dell’Adunanza Plenaria in ragione
dei contrasti interpretativi emersi e dell’importanza dei
principi di diritto in rilievo.
4.1. La fondamentale vexata quaestio attiene alla
corretta interpretazione del disposto dell’art. 87, comma 4,
del codice dei contratti pubblici, che il Primo Giudice
individua come norma da cui discende l’obbligo, per le
imprese partecipanti, di indicare, a pena di esclusione, gli
oneri relativi alla sicurezza in maniera analitica sin dal
momento della presentazione delle offerte.
4.2. E’ in via preliminare necessario specificare che
esistono due tipologie di costi relativi alla sicurezza,
vale a dire quelli da interferenze e quelli interni o
aziendali. La precisazione è fondamentale nella presente
fattispecie, dato che l’estromissione dalla gara
dell’appellante Cogienne è stata disposta proprio per la
mancata indicazione dei costi della seconda categoria.
Volendo tracciare le caratteristiche fondamentali di
ciascuna specie di costi, si osserva quanto ai primi,
contemplati dagli artt. 26, commi 3-3ter-5, del D.Lgs. n.
81/2008, 86, comma 3-ter, 87, commi 4 e 131 del Codice dei
Contratti, che essi:
- servono a eliminare i rischi da interferenza, intesa come
contatto rischioso tra il personale del committente e quello
dell’appaltatore, oppure tra il personale di imprese diverse
che operano nella stessa sede aziendale con contratti
differenti;
- sono quantificati a monte dalla stazione appaltante, nel
D.U.V.R.I (documento unico per la valutazione dei rischi da
interferenze, art. 26 D.Lgs. n. 81/2008); per gli appalti di
lavori nel PSC (piano di sicurezza e coordinamento, art. 100
D.Lgs. n. 81/2008);
- non sono soggetti a ribasso, perché ontologicamente
diversi dalle prestazioni stricto sensu oggetto di
affidamento
In relazione agli oneri di sicurezza interni o aziendali,
invece, si precisa che essi sono quelli propri di ciascuna
impresa connessi alla realizzazione dello specifico appalto,
sostanzialmente contemplati dal DVR, documento di
valutazione dei rischi. Ad essi fanno riferimento l’art. 26,
comma 3, quinto periodo, del D.Lgs. n. 81/2008 e gli artt.
86, comma 3-bis, e 87, comma 4, secondo periodo, del Codice
dei Contratti Pubblici.
Questi ultimi oneri sono soggetti a un duplice obbligo in
capo all’amministrazione e all’ impresa concorrente.
Per ciò che concerne la stazione appaltante, gli artt. 86,
comma 3-bis, e 87, comma 4, del codice dei contratti
pubblici si riferiscono necessariamente agli oneri di
sicurezza aziendali, visto che prendono in considerazione
eventuali anomalie delle offerte e giudizi di congruità
incompatibili con i costi di sicurezza da interferenze,
fissi e non soggetti a ribasso. Ne deriva che per tali oneri
la valutazione che si impone all’amministrazione non è la
relativa predeterminazione rigida ma il dovere di stimarne
l’incidenza, secondo criteri di ragionevolezza e di
attendibilità generale, nella determinazione di quantità e
valori su cui calcolare l’importo complessivo dell’appalto.
Quanto alle imprese che partecipano alle gare, invece, esse
devono specificamente indicare gli oneri di sicurezza
aziendali, dato che trattasi di valutazioni soggettive
rimesse alla loro esclusiva sfera valutativa. Tale tipologia
di oneri, infatti, varia da un’impresa all’altra ed è
influenzata dalla singola organizzazione produttiva e dal
tipo di offerta formulata da ciascuna impresa.
4.3. Tanto premesso, occorre verificare se l’articolo 87,
comma 4, riferito agli oneri di sicurezza aziendali, sia
prescrizione di respiro universale ovvero norma relativa ai
soli appalti di servizi e di forniture, cui si riferisce
espressamente l’inciso finale con il rinvio “all’entità e
alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”. Le
criticità che hanno caratterizzato il percorso
giurisprudenziale si annidano nella contraddittorietà che,
in apparenza, connota la terminologia utilizzata dal
Legislatore nel quarto comma dell’art. 87 del Codice degli
Appalti. La norma, infatti, recita: “Non sono ammesse
giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in
conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e
coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14
agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme
all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 3
luglio 2003, n. 222. Nella valutazione dell'anomalia la
stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla
sicurezza, che devono essere specificamente indicati
nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle
caratteristiche dei servizi o delle forniture”.
Orbene, dalla lettura della disposizione si ricava che
mentre il primo periodo ribadisce per tutti gli appalti che
gli oneri della sicurezza non sono soggetti a ribasso d’asta
e devono essere conformi al piano di sicurezza e
coordinamento, il secondo periodo precisa, facendo
riferimento esplicito questa volta solo ai settori dei
servizi e delle forniture, che l’indicazione relativa ai
costi della sicurezza deve essere sorretta da caratteri di
specificità e di congruità ai fini della valutazione
dell’anomalia dell’offerta.
4.4. A fronte dell’ambiguità della sopra riportata
disposizione sono maturate due differenti opzioni
interpretative.
4.4.1.Secondo una prima lettura, di matrice estensiva, la
ratio della norma, che impone ai concorrenti di indicare
già nell’offerta l’incidenza degli oneri di sicurezza
aziendali, risponde a finalità di di tutela della sicurezza
dei i lavoratori e, quindi, a valori sociali e di rilievo
costituzionale che assumono rilievo anche nel settore dei
lavori pubblici. Anzi, proprio in quest’ultimo settore il
ripetersi di infortuni gravi, dovuto all’utilizzo di
personale non sempre qualificato, porta a ritenere che
l’obbligo di indicare sin dall’offerta detti oneri debba
valere ed essere apprezzato con particolare rigore. Inoltre,
depone in tal senso anche la collocazione sistematica della
norma citata, che è appunto inserita nella parte del Codice
dedicata ai “Contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture” (Cons. Stato, sez. III, 05.10.2011,
n. 5421; sez. V, 19.07.2013, n. 3929).
Si è poi osservato (Cons. Stato, sez. III, 03.07.2013, n.
3565) che “tale indicazione costituisce sia nel comparto
dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture un
adempimento imposto dagli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma
4, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 all'evidente scopo di consentire
alla stazione appaltante di adempiere al suo onere di
verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei
fondamentali interessi dei lavoratori in relazione
all'entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o
fornitura da affidare; stante la natura di obbligo legale
rivestita dall'indicazione, è irrilevante la circostanza che
la lex specialis di gara non abbia richiesto la medesima
indicazione, rendendosi altrimenti scusabile una ignorantia
legis; poiché la medesima indicazione riguarda l'offerta,
non può ritenersene consentita l'integrazione mediante
esercizio del potere/dovere di soccorso da parte della
stazione appaltante, ex art. 46 comma 1-bis, cit. d.lgs. n.
163 del 2006, pena la violazione della par condicio tra i
concorrenti”.
4.4.2. Tuttavia, recentemente, la giurisprudenza
amministrativa (in particolare Cons. Stato, sez. V,
07.05.2014, n. 2343; 09.10.2013, n. 4964) ha fornito una
lettura diversa della norma, ritenendo che l’obbligo di
indicare nell’offerta gli oneri di sicurezza aziendali
riguardi solo gli appalti di servizi o di forniture in
ragione della “speciale disciplina normativa riservata
agli appalti di lavori, che appunto si connota per l’analisi
preventiva dei costi della sicurezza aziendale, che sua vota
si spiega alla luce della maggiore rischiosità insita nella
predisposizione di cantieri”. Seguendo questa linea
interpretativa, si giunge ad affermare che “l’obbligo di
dichiarare, a pena di esclusione, i costi per la sicurezza
interna previsto dall’art. 87, comma 4, d.lgs. n. 163/2006
si applica alle sole procedure di affidamento di forniture e
di servizi. Per i lavori, al contrario, la quantificazione è
rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100
d.lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai
sensi dell’art. 131 cod. contratti pubblici”.
Secondo questo approccio ermeneutico non può trascurarsi che
è comunque obbligatoria la valutazione, ai fini della
congruità dell’offerta, del costo del lavoro e della
sicurezza in forza del comma 3 bis dell’art. 86 del Codice
secondo cui: “…nella valutazione dell’anomalia delle
offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori
pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori
sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato
e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo
relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente
indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle
caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.
In questa disposizione il Legislatore ha espressamente
indicato tutte le possibili tipologie di appalti pubblici,
compresi i lavori, per cui si deve opinare, a contrario,
che, non avendo utilizzato la medesima locuzione estensiva
nel comma 4 dell’art. 87, tale ultima norma va riferita ai
soli contratti pubblici presi espressamente in
considerazione, ossia quelli aventi ad oggetto servizi e
forniture.
4.5. Alla luce di tali contrasti deve
quindi rimettersi all’Adunanza Plenaria la soluzione della
questione preliminare relativa all’estensione dell’articolo
87, comma 4, del codice dei contratti pubblici anche ai
contratti relativi a lavori pubblici.
Si chiede all’Adunanza Plenaria di
verificare se, in ogni caso, la sanzione dell’esclusione
debba essere comminata anche laddove l’obbligo di
specificazione degli oneri non sia stato prescritto dalla
normativa di gara; e se, ai fini della soluzione, possa
avere rilievo la peculiarità della fattispecie, data dalla
circostanza che viene in rilievo un appalto integrato,
caratterizzato dall’affidamento congiunto della
progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori sulla
scorta di un progetto definitivo predisposto dalla stazione
appaltante
(Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 16.01.2015 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che la possibilità
prevista dal legislatore che il concessionario si obblighi a
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione deve
essere concordata tra il costruttore e il Comune mediante
una convenzione urbanistica che disciplini l’esecuzione di
tali opere e le relative garanzie.
L’ambito precipuo della convenzione è quindi costituito
dalla disciplina della realizzazione degli oneri a scomputo
e del loro valore economico, mentre per la determinazione
degli oneri la convenzione ha carattere accertativo degli
obblighi legali, mentre è il rilascio del titolo edilizio,
che può verificarsi anche a notevole distanza di tempo, ad
avere carattere costitutivo dell’obbligazione.
Ne consegue che non può ritenersi che la convenzione
comporti un divieto di nuova quantificazione degli oneri
edilizi in sede di rilascio del permesso a costruire.
---------------
Per quanto attiene poi all’affermata
fungibilità delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, occorre rammentare la diversità
ontologica e funzionale tra le due categorie: “Le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria appartengono,
in effetti, a tipologie di interventi che hanno funzione
differente: le prime sono costituite da quelle opere
indispensabili ad assicurare l’edificabilità di un’area
sotto il profilo dell’igiene, della viabilità e della
sicurezza; le seconde sono costituite da quelle
infrastrutture necessarie alla vita civile e
comunitaria(…)”.. E ancora: “(…) mentre le prime
hanno una funzione sostanzialmente servente rispetto ai
singoli organismi edilizi, in quanto ne garantiscono le
condizioni minime di fruibilità ed assicurano i servizi
indispensabili alla civile convivenza (strade, parcheggi,
fognature, etc.), le seconde mirano ad assicurare
migliore vivibilità ad un ambito territoriale più vasto di
quello oggetto dell’intervento da realizzare e sono a
servizio dell’intera comunità (scuole, mercati di quartiere,
delegazioni comunali, chiese, etc.)".
Diversamente, ovvero allorché si consentisse un trattamento
in termini di reciproca fungibilità delle due categorie di
opere, si consentirebbe di soddisfare in maniera difforme
dalle prescrizioni normative il preminente interesse
pubblico a che l’amministrazione comunale usufruisca delle
opere di urbanizzazione in ragione della loro diversa
funzione.
Ne consegue che la compensazione tra gli oneri economici
dovuti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria deve tendenzialmente escludersi, in
quanto è insito nell’interesse pubblico che una determinata
area sia provvista di tutti i servizi pubblici
indispensabili e non solo di quelli che interessano al
privato, in quanto più direttamente connessi al valore
economico delle opere realizzate.
L'articolo 16, comma 1, del Testo unico sull'edilizia DPR n.
380/2001 prevede che il rilascio del permesso di costruire
comporta per il privato "la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione".
La norma stabilisce poi che “a scomputo totale o parziale
della quota dovuta, il concessionario può obbligarsi a
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le
modalità e le garanzie stabilite dal Comune”. La
giurisprudenza ha chiarito che la possibilità prevista dal
legislatore che il concessionario si obblighi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione deve essere
concordata tra il costruttore e il Comune mediante una
convenzione urbanistica che disciplini l’esecuzione di tali
opere e le relative garanzie (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.03.2011 n. 1332).
L’ambito precipuo della convenzione è quindi costituito
dalla disciplina della realizzazione degli oneri a scomputo
e del loro valore economico, mentre per la determinazione
degli oneri la convenzione ha carattere accertativo degli
obblighi legali, mentre è il rilascio del titolo edilizio,
che può verificarsi anche a notevole distanza di tempo, ad
avere carattere costitutivo dell’obbligazione.
Ne consegue che non può ritenersi che la convenzione
comporti un divieto di nuova quantificazione degli oneri
edilizi in sede di rilascio del permesso a costruire.
Per quanto attiene poi all’affermata fungibilità delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria,
occorre rammentare la diversità ontologica e funzionale tra
le due categorie: “Le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria appartengono, in effetti, a tipologie di
interventi che hanno funzione differente: le prime sono
costituite da quelle opere indispensabili ad assicurare
l’edificabilità di un’area sotto il profilo dell’igiene,
della viabilità e della sicurezza; le seconde sono
costituite da quelle infrastrutture necessarie alla vita
civile e comunitaria(…)”.. E ancora: “(…) mentre le
prime hanno una funzione sostanzialmente servente rispetto
ai singoli organismi edilizi, in quanto ne garantiscono le
condizioni minime di fruibilità ed assicurano i servizi
indispensabili alla civile convivenza (strade, parcheggi,
fognature, etc.), le seconde mirano ad assicurare migliore
vivibilità ad un ambito territoriale più vasto di quello
oggetto dell’intervento da realizzare e sono a servizio
dell’intera comunità (scuole, mercati di quartiere,
delegazioni comunali, chiese, etc.)" (cfr. deliberazione
03.05.2012 n. 46 AVCP).
Diversamente, ovvero allorché si consentisse un trattamento
in termini di reciproca fungibilità delle due categorie di
opere, si consentirebbe di soddisfare in maniera difforme
dalle prescrizioni normative il preminente interesse
pubblico a che l’amministrazione comunale usufruisca delle
opere di urbanizzazione in ragione della loro diversa
funzione.
Ne consegue che la compensazione tra gli oneri economici
dovuti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria deve tendenzialmente escludersi, in
quanto è insito nell’interesse pubblico che una determinata
area sia provvista di tutti i servizi pubblici
indispensabili e non solo di quelli che interessano al
privato, in quanto più direttamente connessi al valore
economico delle opere realizzate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2014 n. 3003 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
APPALTI:
Convenzioni per la gestione in forma associata di
funzioni e attività relative all’acquisizione di lavori,
beni e servizi.
L'ufficio lavori pubblici urbanistica edilizia dell'ANCI ha
predisposto una "guida" ed uno
"schema di convenzione" (gennaio
2015 - tratto da www.segretaricomunalivighenzi.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, gennaio 2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO
(Agenzia delle Entrate, gennaio 2015). |
VARI:
BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle
Entrate, gennaio 2015). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
TRIBUTI: G.U.
24.01.2015 n. 19 "Misure urgenti in materia di esenzione
IMU"
(D.L.
24.01.2015 n. 4). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U.
22.01.2015 n. 17 "Individuazione delle modalità di
funzionamento della cabina di regia istituita per il
coordinamento degli interventi per l’efficienza energetica
degli edifici pubblici" (D.M.
09.01.2015). |
APPALTI: G.U.
20.01.2015 n. 15 "Istituzione del tavolo tecnico dei
soggetti aggregatori, ai sensi dell’articolo 9, comma 2,
terzo periodo, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n.
89, unitamente ai relativi elenchi recanti gli oneri
informativi" (D.P.C.M.
14.11.2014). |
APPALTI: G.U.
20.01.2015 n. 15 "Requisiti
per l’iscrizione nell’elenco dei soggetti aggregatori, ai
sensi dell’articolo 9, comma 2, secondo periodo, del
decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con
modficazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, insieme con il
relativo elenco recante gli oneri informativi" (D.P.C.M.
11.11.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 19.01.2015, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei Tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.12.2014, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 6 agosto 2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 09.01.2015 n. 3). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: G.U.
13.01.2015 n. 9 "Composizione, attribuzioni e
funzionamento delle commissioni censuarie, a norma
dell’articolo 2, comma 3, lettera a) , della legge
11.03.2014, n. 23" (D.Lgs.
17.12.2014 n. 198). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 14.01.2015, "Primo
aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 09.01.2015 n. 18). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
VARI:
R. D'Isa,
Acquisto dell’eredità -
Accettazione espressa o tacita ed accettazione con beneficio
dell’inventario (22.01.2015 - tratto da
http://renatodisa.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: P.
Palazzi,
Allegati PEC non leggibili e sentenza TAR Friuli 610 del
03/12/2014
(18.01.2015 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
P. Palazzi,
Terre e rocce da scavo, la situazione ingarbugliata ad oggi
(15.01.2015 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Palazzi,
FERCEL: la Regione fa un passo avanti e un capitombolo
all'indietro (11.01.2015
- link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale –
scadenza del 30.04.2015. Servizio di ANCE Bergamo per la
compilazione e presentazione del MUD (Ance di
Bergamo,
circolare 23.01.2015 n. 31). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Trattenute mensili sugli stipendi dei dipendenti
pubblici mediante I'istituto della delegazione convenzionale
di pagamento - Nuove istruzioni operative
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria
Generale dello Stato,
circolare 15.01.2015 n. 2). |
EDILIZIA PRIVATA:
MODULI EDILIZIA: Ministro, Conferenza Regioni e Province
autonome e Anci scrivono a sindaci e presidenti.
La Conferenza Unificata ha sancito il 18.12.2014 l'Accordo
tra Governo, Regioni, Comuni, Città metropolitane e
Province, concernente l'adozione di moduli unificati e
semplificati per la comunicazione di inizio lavori (CIL) e
per la comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) per
gli interventi di edilizia libera.
E' il primo passo nell'attuazione dell'Agenda per la
semplificazione 2015-2017 condivisa tra Governo, Regioni ed
autonomie locali, approvata nella Conferenza Unificata del
13 novembre e dal Consiglio dei Ministri del 1° dicembre.
I moduli, adeguati alle ultime novità introdotte dallo "Sblocca
Italia", sono stati predisposti (anche con il
coinvolgimento delle associazioni imprenditoriali e degli
ordini professionali) in modo da assicurare il massimo di
semplicità degli adempimenti per cittadini e imprese.
Come è noto, ai sensi dall'articolo 24, comma 4,
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114, i moduli
unificati e standardizzati adottati previa intesa in
Conferenza costituiscono livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Sulla base di quanto previsto dalla legge e dall'Accordo,
quindi, le Regioni adeguano entro 60 giorni (e cioè
entro il 16.02.2015)
la modulistica alle specifiche normative regionali e di
settore (utilizzando le informazioni individuate come
variabili). Entro lo stesso termine, i Comuni adeguano la
modulistica in uso.
L'accordo e i moduli sono disponibili sulla relativa
pagina del sito del Dipartimento della Funzione pubblica.
L'adeguamento della modulistica da parte delle Regioni e dei
Comuni, destinato ad avere un largo impatto su cittadini e
imprese, sarà monitorato e pubblicizzato sulle pagine web
dei siti: www.funzionepubblica.gov.it - www.regioni.it e
www.anci.it.
Per questa ragione vi preghiamo di inviare la notizia
dell'adozione dei nuovi moduli e il relativo link alla
casella di posta elettronica: agendasemplificazione@governo.it.
Certi della vostra collaborazione nell'assicurare la più
tempestiva adozione e diffusione dei moduli al fine di
rispondere alle attese dell'opinione pubblica, dei cittadini
e delle imprese, vi inviamo cordiali saluti.
Marianna Madia, Ministro per la Semplificazione e Pubblica
Amministrazione
Sergio Chiamparino, Presidente della Conferenza delle
Regioni e delle Province Autonome
Piero Fassino, Presidente dell'ANCI
(nota
12.01.2015 n. 615 di prot. -
link a www.funzionepubblica.gov.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni
fondamentali, mediante unioni o convenzioni, da parte dei
comuni (Ministero dell'Interno,
nota 12.01.2015 n. 323 di prot.). |
TRIBUTI: Oggetto:
Entrata in vigore dell'imposta municipale secondaria (IMUS) di
cui all'art. 11 del D.Lgs. 14.03.2011, n. 23. Vigenza della
tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (TOSAP),
del relativo canone, dell'imposta comunale sulla pubblicità
e del diritto sulle pubbliche affissioni (ICPDPA) e del
canone per l'autorizzazione all'installazione dei mezzi
pubblicitari (CIMP). Quesito
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
nota 12.01.2015 n. 281 di prot.). |
APPALTI:
SPLIT PAYMENT: IN VIGORE DAL 01.01.2015 - Legge di
Stabilità 2015 (Fondazione Nazionale dei Commercialisti,
nota operativa gennaio 2015). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI:
Corte conti. Per l'Adsl a scuola paga l'ente.
Le spese relative all'installazione e all'utilizzo della
rete internet mediante la tecnologia Adsl degli istituti
scolastici sono a carico dei comuni. Infatti, come prescrive
l'articolo 190 del dlgs n. 297/1994, alle amministrazioni
comunali spetta l'onere di fornire alle scuole le utenze e,
tra queste, ben può figurare l'onere relativo alla
connessione internet, quale fondamentale ausilio al corretto
svolgimento dell'attività didattica.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la regione Toscana, nel
testo del
parere 07.01.2015 n. 2, con il quale si è fatta
chiarezza sul regime delle spese necessarie al corretto
funzionamento di un istituto scolastico.
Interpellata sul punto dal comune di Camaiore (Lu), la
magistratura contabile toscana ha inteso rispondere
utilizzando la normativa di settore, ovvero il Testo Unico
delle disposizioni legislative in materia di istruzione,
relative alle scuole di ogni ordine e grado (il dlgs n.
297/1994). Infatti, l'articolo 190 in tema di gestione e
manutenzione degli edifici scolastici, dispone che i comuni
sono tenuti a fornire, oltre ai locali idonei, anche altri
beni e servizi, quali l'arredamento, l'acqua,
l'illuminazione e il telefono.
In dettaglio, questa norma
sancisce l'obbligo per l'amministrazione comunale di
provvedere alle spese telefoniche, ovvero alla fornitura del
servizio telefonico, nel quale, oggi, va compreso anche
l'accesso alla rete internet mediante la tecnologia Adsl.
Una precisazione che il legislatore, poi, rafforza nel testo
dell'articolo 3 della successiva legge n. 23/1996 dove
introduce una più dettagliata categoria di voci di spesa che
corrispondono ai costi ordinari di funzionamento di una
scuola. Tra questi, gli oneri concernenti il servizio
telefonico come sopra evidenziato, necessario per il
corretto svolgimento dell'attività di supporto alla
didattica.
Pertanto, le spese per l'installazione e
l'esercizio negli uffici degli istituti scolastici della
linea Adsl, devono considerarsi a carico degli enti locali,
anche se spetta ai dirigenti scolastici la vigilanza sul
«corretto uso» dell'accesso alla rete
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2015). |
PATRIMONIO:
Comuni, affitti meno pesanti. Retroattivo il
taglio del 15% dei canoni di locazione.
La Corte dei conti dell'Emilia-Romagna ha
risposto a un quesito di un ente locale.
La riduzione ex lege nella misura del 15% dei canoni di
locazione corrisposti dagli enti locali per gli immobili ad
uso istituzionale si applica anche ai vecchi contratti
stipulati prima dell'entrata in vigore dell'obbligo.
Lo ha chiarito la Sezione regionale di controllo della Corte
dei conti per l'Emilia-Romagna, con il
parere 14.01.2015 n. 1.
Dal 01.07.2014, anche gli enti locali (come le altre
p.a.) sono soggetti all'obbligo di ridurre del 15% i canoni
di locazione passiva dovuti in base a contratti in essere.
L'art. 24, al comma 4, del dl 66/2014 infatti, ha modificato
l'art. 3 del dl 95/2012, il quale, a sua volta, al comma 3
dispone, appunto, ai fini del contenimento della spesa
pubblica, la riduzione automatica del 15% rispetto alla
misura attualmente corrisposta dei canoni relativi ai
contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a
uso istituzionale.
Prima dell'entrata in vigore del dl 66, tale misura era
prevista con decorrenza dal 01.01.2015. Essa, inoltre,
si applicava alle sole amministrazioni centrali. La novella,
però, ha anticipato la scadenza al 01.07.2014 e
soprattutto ha esteso l'obbligo a tutte le amministrazioni
di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001, includendo,
quindi, anche gli enti locali.
La norma sancisce che la riduzione del canone di locazione
si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi
dell'art. 1339 codice civile, anche in deroga alle eventuali
clausole difformi apposte dalle parti. Pertanto, si tratta
di un automatismo, a differenza di quanto accade per la
riduzione del 5% di fornitura, che rappresenta una mera
facoltà per gli enti.
Tale automaticità, secondo i giudici contabili, implica
anche la retroattività degli effetti, che si riverberano
anche sui vecchi contratti. È comunque fatto salvo il
diritto di recesso del locatore.
La misura ridotta del canone, ovviamente, va prevista anche
nei contatti di nuova stipulazione o oggetto di rinnovo
(articolo ItaliaOggi del 17.01.2015). |
PATRIMONIO:
Passaggio di consegne, danni condivisi.
In tema di rendicontazione dei beni mobili della p.a.,
qualora si accerti un passaggio di funzioni tra un soggetto
consegnatario uscente e uno entrante, l'eventuale
responsabilità amministrativo-contabile dovuta a perdite o a
danneggiamenti dei predetti beni si intende ascrivibile a
entrambi se vi sia incertezza nel periodo in cui il danno
sia prodotto e, quindi, non sia possibile stabilire a quale
gestione contabile risalga il danno. Incertezze che,
tuttavia, possono essere superate attraverso la
presentazione in giudizio di idonei mezzi di prova che
sollevino il contabile dall'aver attuato una condotta dolosa
o negligente.
La II Sez. d'appello della Corte dei Conti, con la
sentenza 01.12.2014 n. 710,
chiarisce i limiti entro cui può esercitarsi la
responsabilità contabile verso i soggetti che svolgono la
funzione di consegnatari di beni mobili all'interno della
p.a.
Il caso ha riguardato l'ammanco e il deterioramento di
beni conseguente al passaggio di consegne tra due presidi di
un istituto scolastico (si veda ItaliaOggi del 13/5/2008).
Entrambi condannati in primo grado perché, secondo il
collegio, non era stato possibile risalire a quando il danno
si fosse concretizzato, ovvero a chi dei due fosse
ascrivibile la negligenza per aver permesso l'ammanco e il
deterioramento dei beni scolastici.
Nella sentenza
d'appello, pertanto, viene riaffermato questo punto
fondamentale. Ovvero, che se mancano fonti di prova, la
responsabilità viene ascritta a entrambi i consegnatari.
Pertanto, come è poi avvenuto nel giudizio di appello, se
uno dei soggetti già condannati (nel caso, il consegnatario
subentrante) produce documenti che attestino la sua
immediata conoscenza degli ammanchi e del deterioramento dei
beni, allo stesso non può essere addebitata alcuna colpa
sulla vicenda.
Il collegio, pertanto, nel riaffermare la
colpa del consegnatario uscente per la perdita dei beni, ha
comunque esercitato il potere riduttivo dell'addebito nei
suoi confronti, avendo rilevato che la sua condotta non è
stata dolosa ma si è concretizzata in una omissione di
vigilanza
(articolo ItaliaOggi del 21.01.2015). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Sindaco senza ombre. Se
professionista non deve avere conflitti. In ogni caso la
valutazione dell'incompatibilità spetta al consiglio.
Sussiste un'ipotesi d'incompatibilità di cui all'art. 63,m
comma 1, n. 2), del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, nei confronti di un sindaco che svolge anche la
professione di geometra ed è titolare di uno studio
professionale che opera nel territorio dell'ente,
principalmente nell'ambito dell'edilizia privata?
Secondo la giurisprudenza, le cause d'incompatibilità di cui
alla norma citata, ascrivibili al novero delle c.d.
incompatibilità d'interessi, hanno la finalità di impedire
che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei
consigli comunali, soggetti portatori di interessi
configgenti con quelli del comune o i quali si trovino
comunque in condizioni che ne possano compromettere
l'imparzialità (cfr. Corte costituzionale, sentenza 20.02.1997, n. 44; Id., sentenza 24.06.2003, n. 220).
In particolare l'ipotesi d'incompatibilità prevista dal
comma 1, n. 2, del menzionato art. 63, è ravvisabile in
presenza di un duplice presupposto: il primo di natura
soggettiva ed il secondo di natura oggettiva.
Sul piano soggettivo, è necessario che l'interessato rivesta
la qualità di titolare o di amministratore ovvero di
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
L'ampiezza di tale formulazione e la pacifica possibilità di
interpretare in senso estensivo le disposizioni che incidono
sul diritto di elettorato passivo consentono di ritenere che
anche colui che esercita una professione intellettuale possa
essere compreso nella nozione di titolare cui fa riferimento
la norma in esame.
Dal punto di vista oggettivo, il sindaco, rivestito di una
delle predette qualità, in tanto può considerarsi
incompatibile, in quanto abbia parte in servizi
nell'interesse del comune. L'espressione «avere parte» è qui
usata per indicare una situazione di potenziale conflitto
del soggetto titolare dell'interesse particolare rispetto
all'esercizio imparziale della carica elettiva.
Ciò comporta
che sia la nozione di partecipazione sia quella di servizi
devono assumere un significato il più possibile esteso e
flessibile, al fine di potervi ricomprendere forme di
partecipazione eterogenee e attività che l'amministrazione
comunale decide di fare proprie o potrà decidere di fare
proprie, all'esito di una sua valutazione di merito. In tal
senso, è irrilevante la natura, pubblicistica o
privatistica, dello strumento prescelto dall'ente locale per
la realizzazione delle proprie finalità istituzionali (cfr.
Corte di cassazione, sezione I, sentenza 22.12.2011,
n. 28504; Id., sentenza 16.01.2004, n. 550; Id.,
sentenza 17.04.1993, n. 4557).
Pertanto, la fattispecie ostativa all'espletamento del
mandato elettorale potrà concretarsi nell'eventualità in cui
il primo cittadino, nella sua qualità di professionista,
prenda parte ad un servizio al quale il comune è
interessato, nell'accezione sopra delineata.
In tal caso, la valutazione della eventuale sussistenza
della causa d'incompatibilità è rimessa al consiglio
comunale.
Infatti, in conformità al generale principio per cui ogni
organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità
dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la
verifica delle cause ostative all'espletamento del mandato è
compiuta con la procedura prevista dall'art. 69 del decreto
legislativo n. 267 del 2000, che garantisce il
contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a
quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa e la
possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa
d'incompatibilità contestata (cfr. Corte di cassazione,
sezione I, sentenza 10.07.2004, n. 12809: Id., sentenza
12.11.1999, n. 12529) (articolo ItaliaOggi del 23.01.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi, decide il comune.
Nello statuto il tetto a interrogazioni e mozioni.
La materia è interamente demandata all'autonomia
degli enti.
Quale regime deve applicarsi al gruppo consiliare formato da
un unico consigliere se dal regolamento comunale non risulta
chiaro se al gruppo «unipersonale» debba essere riconosciuto
lo stesso trattamento riservato agli altri gruppi, ovvero se
al singolo componente possa essere consentito di svolgere un
solo atto di sindacato ispettivo per ogni seduta di
consiglio?
I singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di
organizzazione, sono titolari della competenza a dettare
norme statutarie e regolamentari nella materia. Infatti
l'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo.
Nella fattispecie in esame il regolamento dell'ente sul
funzionamento del consiglio comunale prevede che ciascun
consigliere non può presentare più di un atto di sindacato
ispettivo per ogni seduta consiliare, mentre a ciascun
gruppo consiliare è riconosciuta la possibilità di
promuovere al massimo tre interrogazioni o interpellanze.
Inoltre, la citata fonte normativa riconosce a ogni singolo
consigliere il diritto di presentare una mozione per ogni
seduta e ad ogni gruppo la possibilità di presentarne al
massimo due.
Secondo una interpretazione letterale della normativa in
questione, potrebbe essere riconosciuto al consigliere,
unico componente del gruppo, il regime previsto per tutti
gli altri gruppi dal regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale, ferma restando la disciplina sul
contingentamento dei tempi dei singoli interventi, disposta
dalla medesima fonte normativa.
Tuttavia, poiché la materia dei «gruppi consiliari»
è, come evidenziato, interamente demandata allo statuto ed
al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale
ambito che devono trovare adeguata soluzione le relative
problematiche applicative, posto che, diversamente,
sarebbero necessarie modifiche ed integrazioni a dette fonti
di disciplina locale. Spetta, infatti, alle decisioni del
consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le
singole questioni, valutare l'opportunità di adottare
apposite modifiche regolamentari che disciplinino anche le
ipotesi in argomento
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Permessi per il sindaco.
Quali sono i permessi, ai sensi dell'art. 79 del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, di cui può usufruire il
sindaco che, al contempo riveste la carica di componente
della giunta di una Unione di comuni di cui l'ente locale fa
parte?
Il comma 4 dell'articolo citato prevede che «i componenti
degli organi esecutivi dei comuni __ delle unioni di comuni
__ hanno diritto di assentarsi dal posto di lavoro per un
massimo di 24 ore lavorative mensili, elevate a 48 ore per i
sindaci».
La norma, introdotta dal legislatore del 1999 con
la legge n. 265 e poi recepita nel Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, è volta a rimuovere e/o
impedire l'insorgenza di ostacoli che limitino il libero
accesso del cittadino alle cariche elettive e politiche
amministrative e a tal fine è prevista la possibilità, per
il dipendente pubblico o privato destinatario della
normativa, di optare per la richiesta dell'aspettativa o di
disporre, attraverso i permessi, del tempo necessario per lo
svolgimento della funzione amministrativa.
All'amministratore in argomento, pertanto, deve essere
riconosciuto il diritto di fruire dei suddetti permessi sia
per la carica di sindaco che per quella di componente della
giunta dell'Unione di cui fa parte.
Inoltre, ai sensi del
comma 5 del citato articolo, i lavoratori dipendenti hanno
diritto ad ulteriori permessi «non retribuiti», sino ad un
massimo di 24 ore lavorative mensili, qualora risultino
necessari per l'espletamento del mandato. Risulta
fondamentale che le attività svolte dall'amministratore in
questione siano correlate esclusivamente alle funzioni
amministrative ricoperte, proprio in forza delle cariche
rivestite.
Per quanto attiene poi alle modalità di
attestazione dei permessi fruiti, di cui al comma 6 del
citato art. 79 Tuel, devono essere prontamente e
puntualmente documentate e rilasciate dal dirigente
competente ai sensi dell'art. 107, comma terzo, lett. h), del dlgs n. 267/2000. Per completezza si richiamano le
disposizioni dell'art. 5, commi 7 e 11 del decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010,
n. 122, in materia di riduzione del costo degli apparati
politici e amministrativi
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Dichiarazioni di voto.
L'istituto della dichiarazione di voto
non è espressamente disciplinato dalla legge. Costituendo
esso uno degli strumenti utilizzabili dai componenti il
consiglio comunale per l'esercizio delle proprie funzioni,
si ritiene che la sua previsione e disciplina debba
eventualmente essere contenuta nel regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale.
Il consigliere comunale riferisce che il regolamento del
consiglio comunale del Comune presso cui esercita il proprio
mandato elettorale prevede che 'prima di ogni votazione
ciascun capogruppo, o suo delegato, ha facoltà di chiedere
la parola per dichiarazione di voto' e che la stessa
'deve essere contenuta nel limite massimo di 3 minuti'
(articolo 49, commi 1 e 3).
A tale riguardo desidera sapere se sia 'possibile, sotto
l'aspetto normativo, eliminare la suddetta prerogativa,
ovvero togliere la possibilità di un intervento specifico
per esprimere una dichiarazione di voto'.
[1] Ciò
sul presupposto che una tale previsione debba considerarsi
superflua, nonché potenzialmente generatrice di un inutile
dispendio di tempo, atteso che il medesimo regolamento
prevede, altresì, che i consiglieri che intendono prendere
la parola durante lo svolgimento della discussione
consiliare possono parlare per non più di due volte per una
durata massima di 15 minuti. [2]
In via generale, si osserva che per dichiarazione di voto si
intende la dichiarazione resa da un consigliere, dopo la
chiusura della discussione e prima della votazione, per
esprimere la posizione (favorevole, contraria o di
astensione) che intende assumere nella votazione. Nel caso
di specie, trattandosi di dichiarazione che può essere resa
dal capogruppo consiliare, essa è finalizzata ad esprimere
le motivazioni del voto che il gruppo ritiene di adottare su
un determinato argomento posto in votazione.
A livello normativo, l'istituto della dichiarazione di voto
non è espressamente disciplinato, costituendo esso uno degli
strumenti utilizzabili dai componenti il consiglio comunale
per l'esercizio delle proprie funzioni. In particolare, si
ritiene che la sua eventuale previsione e disciplina rientri
nell'autonomia normativa di cui è dotato tale organo.
Riferimento normativo si rinviene nell'articolo 38, comma 2,
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 laddove prevede
che: 'Il funzionamento dei consigli, nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal
regolamento, approvato a maggioranza assoluta, che prevede,
in particolare, le modalità per la convocazione e per la
presentazione e la discussione delle proposte. [...]'.
Segue che è possibile eliminare la previsione dell'istituto
della dichiarazione di voto, ed a tal fine è necessario
modificare il regolamento del consiglio comunale,
estrapolando da esso la norma di cui all'articolo 49.
Non sarebbe, invece, possibile disapplicare lo stesso,
mantenendo inalterato l'attuale regolamento del consiglio
comunale, sulla scorta della considerazione che il tempo
concesso per la discussione potrebbe essere ritenuto
sufficiente a ricomprendere anche quello sulla dichiarazione
di voto. Da un punto di vista giuridico, infatti, è dato
riscontrare una differenza in relazione ai soggetti
legittimati ad utilizzare i due istituti: in particolare,
mentre il tempo concesso per la discussione sui vari
argomenti all'ordine del giorno spetta a ciascun consigliere
che ne faccia richiesta, quello per la dichiarazione di voto
è di spettanza dei soli capogruppo consiliari. Anche la
finalità dei due istituti è differente: il primo è concesso
ai soli fini della discussione, il secondo per la sola
dichiarazione di voto.
---------------
[1] Si riportano, testualmente, le parole contenute nel
quesito.
[2] Recita, in particolare, l'articolo 42 del regolamento
del consiglio comunale: 'Chi intende prendere la parola deve
chiederlo al Presidente [...]. Nessun Consigliere può
parlare più di due volte sullo stesso argomento, salvo
particolari casi accertati dal Presidente o per fatto
personale. Il primo intervento ha una durata massima di 10
minuti, il secondo è limitato a 5 minuti, per fatto
personale 2 minuti [...]'
(09.01.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'uso pubblico della strada privata.
DOMANDA:
Si chiede un parere in merito a dei lavori di installazione
di una nuova recinzione che se eseguita impedirà il transito
ai veicoli una strada esistente da decenni. Tale strada è
indicata sullo strumento urbanistico vigente del comune come
"strada esistente". Si presenta come strada bianca,
cioè in terra battuta è lunga circa cento metri e collega
due strade comunali. Catastalmente risulta essere in
proprietà privata.
All'inizio, in ambo le parti, sono stati posti dei segnali
di divieto di transito con il panello integrativo con la
dicitura "proprietà privata". Il posizionamento dei
segnali è stato fatto dal proprietario per tutelarsi in caso
di sinistri stradali o richieste danni. Il transito è fatto
soprattutto da bici e qualche veicolo nell'arco della
giornata.
RISPOSTA:
La problematica esposta nel quesito risulta strettamente
connessa all’accertamento o meno, da parte
dell’amministrazione, di un eventuale uso pubblico sulla
strada in questione. E’ chiaro infatti che, al di là della
circostanza che l’area su cui insiste la strada sia
catastalmente qualificata come privata, nulla toglie, che in
concreto su di essa si eserciti di fatto un uso pubblico o
di interesse pubblico.
Al riguardo va ricordato che, come ritenuto in
giurisprudenza (cfr. tra le varie CDS sez. V, sentenza n.
728/2012) “poiché un’area privata possa ritenersi
sottoposta ad una servitù pubblica di passaggio è
necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che
l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di
persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne
consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il
passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di
determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione
degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere
ad essi per esigenze connesse alla loro privata
utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure,
infine, rispetto a strade destinate al servizio di un
determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I,
22.06.1985, n. 3761)..” (cfr. Cons. di Stat. Sez. V,
sentenza n. 728 del 14/02/2012).
Il comune potrà dunque verificare al fine di decidere sulla
legittimità o meno della richiesta di recinzione, se
sussista o meno in concreto, un uso pubblico sulla strada
accertando p.es. se essa sia utilizzata per il transito di
tutti gli utenti della zona e comunque tenendo conto di
altri indici sintomatici di un eventuale uso pubblico come
l’ubicazione della strada stessa, l’inclusione nella
toponomastica del Comune, l’apposizione della numerazione
civica; l’apposizione di segnaletica stradale, la presenza
di aree destinate a parcheggio, la presenza di illuminazione
pubblica, la manutenzione della sede stradale, la eventuale
funzione di raccordo con altre strade e sbocco su pubbliche
vie ovvero per l’essere la stessa parte integrante della
sede viaria stradale ecc..
In sintesi, dunque, il Comune potrà applicare tali criteri
anche nel caso di specie per valutare se la strada privata
possa considerarsi assoggettata o meno ad uso pubblico e
cioè se la stessa sia oggettivamente idonea o meno
all’attuazione di un pubblico interesse ovvero a soddisfare,
anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di
interesse generale (link a
http://www.ancirisponde.ancitel.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: L'Ape ha nuovi parametri. Obiettivo: superare le differenze
tra le regioni. Un dm presto cambierà il calcolo delle prestazioni
energetiche degli edifici.
Pronti i nuovi metodi di calcolo per la misurazione delle
prestazioni energetiche degli edifici e per la compilazione
della certificazione energetica. I requisiti minimi
entreranno in vigore il prossimo 1° luglio 2015 e saranno
resi più severi dal 1° gennaio 2019 per gli edifici pubblici
e dal 1° gennaio 2021 per gli altri edifici, per realizzare
gli «edifici a energia quasi zero». Per gli edifici di nuova
costruzione e per quelli sottoposti a ristrutturazioni
importanti, il rispetto dei requisiti minimi andrà
verificato confrontando l'edificio con un edificio di
riferimento (identico per geometria, orientamento,
ubicazione, destinazione d'uso). Per gli edifici interessati
da semplici riqualificazioni energetiche, relative
all'involucro edilizio e agli impianti tecnici, sono
indicati i requisiti minimi.
Questo è quanto si legge nello
schema di dm del ministero dello sviluppo economico (redatto
di concerto con il ministero dell'ambiente e delle
infrastrutture) che introduce il criterio di calcolo
dell'efficienza energetica degli edifici.
Il decreto andrà
in conferenza unificata il 28 gennaio prossimo per il
prescritto parere. Il decreto è attuativo dell'articolo 5
del decreto legge 04.06.2013 n. 63 (c.d. decreto del
Fare) convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2013
n. 90 e ha aggiornato il dlgs n. 192/2005, in recepimento
della direttiva edifici a energia quasi zero (2010/31/Ue).
Norme Uni. Il nuovo decreto era da tempo atteso dagli
operatori del settore dopo la pubblicazione delle norme Uni/Ts
11300 parte 1 e parte 2 che hanno revisionato le metodologie
di calcolo per eseguire la certificazione energetica. L'ente
italiano di normazione ha rilasciato gli aggiornamenti
relativi alle norme Uni/Ts 11300 parte 1 (determinazione del
fabbisogno di energia termica dell'edificio per la
climatizzazione estiva e invernale) e parte 2
(determinazione del fabbisogno di energia primaria e dei
rendimenti per la climatizzazione invernale e per la
produzione di acqua calda sanitaria), e quello relativo al
rapporto tecnico Uni/Tr 11552 (abaco delle strutture
costituenti l'involucro opaco degli edifici).
I requisiti.
Il decreto definisce i nuovi standard minimi di prestazione
energetica che gli edifici di nuova costruzione e quelli
ristrutturati dovranno raggiungere per rispettare quanto
disposto con la direttiva sugli edifici a energia quasi
zero. In particolare, per gli edifici nuovi o quelli che
subiscono interventi di ristrutturazione c.d. pesante, le
nuove prestazioni energetiche dovranno essere in linea con
quelle di un «edificio tipo» per posizione, volumi,
destinazione d'uso ecc..
Al contrario le prescrizioni per le ristrutturazioni leggere
dovranno rispettare solamente degli standard minimi,
anch'essi previsti nel nuovo decreto. Il testo conterrà
anche la definizione di edificio a energia quasi zero.
Inoltre a partire dal 31.12.2020 tutti gli edifici di nuova
costruzione dovranno essere a energia quasi zero (articolo ItaliaOggi del 24.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rc auto dei dipendenti p.a. a rate e sullo stipendio.
A breve, i dipendenti pubblici potranno pagare i premi
assicurativi Rc auto in dodici rate e con addebito mensile
sul proprio stipendio.
È quanto si ricava dalla lettura della
circolare 15.01.2015 n. 2 della
Ragioneria generale dello stato, emanata per fare
un quadro chiarificatore sulle varie opportunità oggi messe
in campo, di utilizzare lo strumento della delegazione di
pagamento da parte dei dipendenti pubblici la cui partita di
stipendio è attualmente amministrata dal portale NOI PA.
Nel testo della corposa circolare, infatti, un passaggio
innovativo è quello dedicato alla possibilità, per i
dipendenti pubblici, di pagare il premio assicurativo per la
Rc auto, mediante rate mensili e con trattenute sulla
propria partita stipendiale. Si sta diffondendo, infatti,
tra le compagnie assicurative, la prospettiva di spalmare il
pagamento del premio annuale in rate mensili, così da non
pesare sulle finanze dell'assicurato. Adesso, la possibilità
di pagare il premio rateale direttamente dallo stipendio,
potrà ricevere il favore di una notevole platea dei
dipendenti pubblici.
Per la Rgs, non sussistono intoppi in tal senso. Depone in
tal senso, innanzitutto, il fatto che per tali contratti di
assicurazione non è più prevista la clausola di tacito
rinnovo, per cui gli stessi estinguono i propri effetti alla
scadenza. Occorrerà comunque attendere uno schema-tipo che,
a breve, verrà messo a disposizione sul portale NOI PA. La
circolare, già da adesso, fornisce alcune indicazioni di
massima.
La convenzione regolerà solo gli aspetti generali,
rimandando alla libera autonomia delle parti, i contenuti
specifici del contratto assicurativo (per esempio, la misura
del premio legata al chilometraggio percorso). A ogni modo,
si precisa, il pagamento del premio avverrà attraverso una
ritenuta stipendiale di dodici rate mensili di pari importo.
Nella convenzione, inoltre, dovrà essere precisato che la
copertura assicurativa, in deroga alle previsioni del codice
civile, decorrerà dalla data indicata nel contratto e non da
quella del primo pagamento.
Infatti, stante i tempi tecnici per l'attivazione della
delegazione convenzionale di pagamento, la trattenuta sullo
stipendio della prima rata da versare a favore della
compagnia assicurativa, potrà essere effettuata non prima di
un mese. Naturalmente, la compagnia assicuratrice avrà, in
via telematica, notizia dell'avvenuta «messa in quota»
delle somme trattenute al dipendente (articolo ItaliaOggi del
23.01.2015). |
SEGRETARI COMUNALI: Aboliti i segretari, restano i dg. Ma i primi sono
essenziali in funzione anticorruzione.
RIFORMA MADIA/ I direttori generali, invece, sono costati
tanto e serviti a poco.
Confermata l'abolizione dei segretari comunali, ma
introdotta la conferma dei direttori generali.
Gli
emendamenti al disegno di legge delega per la riforma della
pubblica amministrazione riescono in un piccolo capolavoro:
confermano l'abolizione di una figura che svolge funzioni
obbligatorie, mentre nello stesso tempo fanno salva una
figura solo eventuale, che svolge funzioni a loro volta non
obbligatorie.
Uno dei punti di maggiore criticità e
delicatezza del ddl è la scelta, del resto annunciata nella
famosa lettera di 44 punti inviata dal premier e dal
ministro Marianna Madia ai dipendenti pubblici, di eliminare
la figura dei segretari e comunali. Decisione quanto meno
poco coerente con l'intenzione di potenziare la normativa
anticorruzione, della quale i segretari, per legge
responsabili anticorruzione e della trasparenza, sono un
fulcro fondamentale.
Come, del resto, fondamentale è la loro
opera a garanzia del coordinamento dell'attività
amministrativa e, soprattutto, della legittimità complessiva
dell'operato degli enti locali. Per i segretari comunali la
strada segnata è l'abolizione della figura e la confluenza
nell'albo dei dirigenti locali in una sezione speciale a
esaurimento, in modo che non esista più lo status di
segretario comunale: la funzione potrà essere oggetto di
incarichi dirigenziali, non necessariamente, per altro,
concentrati in un'unica funzione dirigenziale.
Per converso, gli emendamenti intendono perseguire il
«mantenimento della figura del direttore generale di cui
all'articolo 108 del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267». Una scelta oggettivamente difficile da comprendere,
dal momento che pare in questo modo configurarsi un
dirigente locale non appartenente al ruolo «unico», che non
sarebbe più così unico. Gli emendamenti, peraltro, fanno
salvo, col mantenimento della figura del direttore generale,
uno dei flop più clamorosi delle riforme Bassanini.
I
direttori generali nei comuni e negli enti locali sono
costati tantissimo e serviti a pochissimo. Difficile vedere
una sia pur minima traccia dell'incremento di efficienza ed
efficacia che avrebbero dovuto assicurare; non uno solo dei
grandi enti andati in default, Roma per prima, ha potuto
contare sull'operato taumaturgico dei direttori generali per
evitare disservizi e mala gestione.
I direttori generali, nonostante la loro scarsissima
utilità, sono costati carissimo: basti ricordare gli esempi
di piccolissimi comuni che conferivano incarichi a direttori
generali da decine di migliaia di euro l'anno, per soli
pochi giorni la settimana, pesantemente censurati in
particolare dalla Corte dei conti della Lombardia. Tanto da
indurre nel 2009 all'abolizione dei direttori generali nei
comuni fino a 100.000 abitanti; una vera e propria
certificazione del fallimento di tale istituto (articolo ItaliaOggi del 23.01.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: I politici non pagheranno per gli atti dei dirigenti.
Le norme «salva Renzi» raddoppiano. Tra gli emendamenti
presentati al disegno di legge delega per la riforma della
pubblica amministrazione spicca quello ai sensi del quale si
prevede il «rafforzamento del principio di separazione tra
indirizzo politico-amministrativo e gestione, e del
conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, anche
attraverso l'esclusiva imputabilità agli stessi della
responsabilità amministrativo-contabile per l'attività
gestionale».
Si deve evidentemente attendere il decreto legislativo che
attuerà il principio indicato, Ma fin d'ora si può
concludere che se sarà tradotto nel senso piuttosto evidente
espresso dalla norma, vi sarà un'area di non imputabilità ex lege degli organi politici per gli atti posti in essere dai
dirigenti, nell'ambito della propria funzione gestionale.
Da un lato, questa previsione potrebbe chiarire una volta e
per sempre che i dirigenti non possono farsi «scudo» di non
meglio precisati «indirizzi politici» per la loro attività,
chiarendo meglio, dunque, i livelli di responsabilità.
Dall'altro, la norma però escluderebbe totalmente gli organi
di governo da responsabilità per il processo di formazione
delle decisioni gestionali, alle quali, sovente, non sono
del tutto estranei, in particolare quando si tratta
dell'attività gestionale condotta dai dirigenti all'apice
dell'organizzazione, chiamati a tradurre in atti gestionali
e progetti operativi programmi di natura
politico-amministrativa.
Sotto questo aspetto, la disposizione apparirebbe
applicabile a un evento piuttosto noto, che può essere
considerato paradigmatico: la condanna subita dall'attuale
premier per danno erariale, dovuta all'assunzione nel suo
staff di presidente della provincia e in quello degli
assessori di quattro dipendenti inquadrati come funzionari,
pur essendo privi di laurea. Se la stesura del decreto
delegato attuativo dell'emendamento confermasse un'area di
piena e totale non imputabilità dell'organo di governo per
decisioni gestionali, da una vertenza come quella
esemplificata, ancora in corso in fase di appello,
occorrerebbe estromettere proprio gli organi di governo
coinvolti. Lo stesso avverrebbe per molti altri casi.
Si assisterebbe, dunque, a una sorta di replica di una noma
«salva premier». Nell'altro spezzone della riforma della
pubblica amministrazione, il dl 90/2014, come si ricorderà,
c'è un'altra previsione normativa utile al caso della
provincia di Firenze: la modifica dell'articolo 90 del dlgs
267/2000, per effetto della quale sarà possibile ai sindaci
(non più ai presidenti delle province, perché la legge
190/2014 fa loro divieto di assumere personale in staff ai
sensi dell'articolo 90) assumere nei propri staff personale
anche non laureato, potendolo retribuire addirittura con
stipendi da dirigente, stipendi, ovviamente, irraggiungibili
se detto personale non laureato ambisse ad essere assunto
per concorso, perché la laurea è essenziale ai fini della
stessa ammissibilità della domanda.
Sempre in tema di responsabilità erariale, gli emendamenti
introducono un'altra novità. Si escluderà, infatti, la
responsabilità amministrativa dei dirigenti nel caso in cui
adottino scelte gestionali che comportino il mancato
raggiungimento dei risultati previsti dai sistemi di
valutazione (scatta la responsabilità «dirigenziale», che
può comportare anche il licenziamento), ma che siano
configurabili come «in sé legittime».
Sarà, allora, fondamentale che i decreti delegati
definiscano in maniera ferrea i confini tra atti e
competenze degli organi di governo e simmetrici atti e
competenze gestionali, per non ingenerare confusione e
ingolfamento dei procedimenti davanti alla magistratura
contabile (articolo ItaliaOggi del 23.01.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Spunta la sanatoria per i sindaci. Riforma della
pubblica amministrazione.
Inflessibile con i dipendenti
«improduttivi», la riforma della Pubblica amministrazione in
cottura al Senato potrebbe rivelarsi gentilissima con i
politici che sono stati o sono ancora amministratori locali,
ai quali sembra promettere una sorta di “salvacondotto” per
metterli al riparo dalla Corte dei conti.
La novità spunta tra gli emendamenti presentati al Senato
dal relatore della «legge Madia».
Dimensioni ed efficacia della barriera che sarà eretta fra
la politica e i magistrati contabili dipendono naturalmente
dai decreti attuativi, perché a Palazzo Madama si sta
discutendo della legge delega, che fissa i principi
generali. Da questo punto di vista la nuova regola, scritta
negli emendamenti depositati dal relatore (Giorgio Pagliari,
del Pd) e quindi figli di un confronto con il Governo,
sembra lasciare margini piuttosto ampi, anche grazie a una
formulazione che agli occhi dei tecnici non brilla per
chiarezza.
Per leggerla bisogna arrivare al nuovo comma g-quater
dell’articolo 13 della legge delega, scritto
nell’emendamento 13.500, dove si chiede al Governo di
rafforzare «il principio di separazione tra indirizzo
politico-amministrativo e gestione anche attraverso
l’esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità
amministrativo-contabile per l’attività gestionale».
Tradotto, significa che in nome dell’autonomia dei
dirigenti, i politici non potrebbero essere chiamati in
questi casi a rispondere per danno erariale, e quindi a
restituire al bilancio pubblico i soldi persi a causa del
danno.
Ma che cos’è davvero «l’attività gestionale», e quali
sono i suoi confini? La partita si gioca tutta qui, e non è
semplice. È «attività gestionale», per esempio,
quella di un assessore al personale che guida la delegazione
del Comune nella trattativa sui contratti decentrati e firma
accordi in cui si sforano i parametri di legge, come
avvenuto in tanti Comuni? Sono «attività gestionale»
le nomine fuori regola, le assunzioni illegittime, i ripiani
eccessivi delle perdite nelle partecipate?
La risposta a queste domande dovrebbe toccare ai decreti
attuativi, ma c’è un problema. Nella giurisprudenza della
Corte dei conti è piuttosto costante l’applicazione della «esimente
politica», che esclude dalla responsabilità ministri o
amministratori locali per scelte che sono il frutto diretto
del loro ruolo. In questo senso, dunque, la «separazione»
delle responsabilità fra i politici e i dirigenti richiesta
dall’emendamento alla delega Madia già esiste. Una nuova
norma, quindi, sembra puntare quanto meno ad allargare il
raggio d’azione di questa «esimente». Di quanto?
A chiederselo potrebbero essere in tanti, soprattutto fra
gli amministratori locali (attuali o ex) che oggi stanno
affrontando un processo in Corte dei conti. Tra questi
spicca per celebrità il presidente del Consiglio, Matteo
Renzi, che il 15 luglio prossimo dovrebbe rispondere ai
magistrati toscani della nomina di quattro dirigenti quando
era presidente della provincia di Firenze. In questo caso il
presunto danno è stimato fra i 200mila e gli 800mila euro,
ma davanti alle varie Procure contabili finiscono vicende
molto più pesanti: ad Alessandria, per esempio, l’ex giunta
di centrodestra è stata condannata a risarcire 7,6 milioni
di euro con l’accusa di aver “aggiustato” i bilanci
per rispettare sulla carta un Patto di stabilità sforato
nella realtà, e la palla è passata all’appello.
Come sempre accade sul terreno penale, la definizione
puntuale della nuova regola sarà importante anche per i
processi in corso, perché se un reato smette di essere tale
cadono anche tutte le partite giudiziarie che lo riguardano
(articolo Il Sole 24 Ore del
23.01.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Gestioni associate verso il rinvio al 2016. Dl «milleproroghe».
Emendamento per i comuni fino a 5mila abitanti.
L’obbligo che dal 1° gennaio scorso
avrebbe costretto i Comuni fino a 5mila abitanti (3mila in
montagna) ad allearsi per gestire in forma associata tutte
le loro funzioni fondamentali è caduto in larga parte nel
vuoto, e il Governo si impegna a far slittare tutto al 2016.
L’emendamento, che dovrebbe essere imbarcato nella legge di
conversione del «Milleproroghe», è solo l’ultimo di una
storia infinita che annaspa ormai da quasi cinque anni.
L’idea delle gestioni associate per dare più efficienza alla
spesa degli oltre 5mila «piccoli Comuni» italiani
(più del 60% del totale) nasce infatti nel luglio 2010,
quando la manovra estiva (articolo 14 del Dl 78/2010) gioca
la carta dell’alleanza obbligatoria sulle «funzioni
fondamentali: una serie di attività che va dal bilancio ai
servizi pubblici e ai servizi sociali, dal Catasto alla
pianificazione urbanistica fino alla polizia locale e alla
protezione civile, escludendo solo anagrafe e stato civile.
Dopo una girandola di proroghe, i Comuni avrebbero dovuto
associarsi in Unioni o convenzioni per gestire tre funzioni
entro il 01.01.2013, altre tre entro il 30 giugno scorso e
completare la rete dal 1° gennaio scorso, ma nei fatti non è
successo quasi nulla. Sulle regole a regime, però, il
Viminale ha deciso di avviare i controlli, con una circolare
(si veda Il Sole 24 Ore del 15 gennaio) che ha chiesto ai
Prefetti di “guidarne” l’applicazione. L’indicazione
ministeriale ha però scatenato le proteste dei sindaci,
stretti fra problemi applicativi e resistenze politiche,
fino alla richiesta dell’ennesimo rinvio accolta ieri dal
Governo in Conferenza Stato-Città.
Sempre nella Conferenza di ieri, Governo e Comuni hanno
siglato gli accordi sulle modalità di distribuzione dei
tagli aggiuntivi prodotti nel 2015 dalle spending review
del 2010 (ancora il Dl 78) e 2012 (il Dl 95). In pratica, si
tratta di 288 milioni, che seguiranno praticamente le stesse
regole utilizzate l’anno scorso, con un’estensione dei “bonus”
ai Comuni coinvolti nelle calamità più recenti (articolo Il Sole 24 Ore del
23.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Reati contro la p.a. sforbiciati.
Perdonati mini abusi d'ufficio e piccole omissioni di atti.
Lo schema di dlgs approvato dal governo ora all'esame delle
commissioni parlamentari.
Sforbiciati i reati contro la pubblica amministrazione.
Saranno perdonati i mini abusi d'ufficio e le piccole
omissioni di atti d'ufficio. Anche i pubblici ufficiali
potranno sfruttare l'agevolazione prevista dal futuro
decreto legislativo sulla non punibilità del fatto tenue e
non abituale.
Lo schema di provvedimento è stato approvato
dal governo in prima lettura e ora è all'attenzione delle
commissioni parlamentari.
Il provvedimento attua la delega conferita al governo con la
legge 67/2014. Quest'ultima legge riforma il sistema
sanzionatorio penale e vara due tipi di depenalizzazione. La
depenalizzazione vera e propria consiste nella programmata
trasformazione di molti reati in illeciti amministrativi:
questo intervento riguarda tutti i reati puniti con sanzione
pecuniaria (tranne alcune materie sensibili, come l'ambiente
o la sicurezza sui luoghi di lavoro), e anche alcuni delitti
e alcune contravvenzioni.
La legge 67/2014 prevede, poi, una depenalizzazione in
concreto e cioè alcuni reati rimangono come previsione
astratta nel codice e nelle leggi speciali; però se, nel
caso specifico, quel fatto (corrispondente al reato) ha
causato una piccola offesa e se il fatto è sporadico (non
abituale), allora il colpevole sarà perdonato e non sarà
punibile.
Quindi, mentre nel primo caso il reato scompare e non è più
punito, nel secondo caso il reato rimane, ma se tenue,
ugualmente non è più punito.
La scommessa del legislatore è che questa sia la strada
giusta per trovare uno soluzione al problema della giustizia
penale che non funziona e delle carceri stracolme.
La tecnica utilizzata è quella dell'applicazione della
regola della non punibilità a tutti i reati che stanno sotto
una certa soglia di sanzione, ma senza delimitare altrimenti
l'ambito di applicazione.
In proposito la relazione illustrativa del provvedimento
scrive che l'ambito di applicazione dell'istituto è di
«ampio respiro, potenzialmente coprendo l'intera area delle
contravvenzioni e parte consistente dei delitti puniti con
la pena della reclusione non superiore a cinque anni. In
particolare la legge delega e lo schema di decreto
legislativo non contengono aprioristiche delimitazioni».
Se non ci sono delimitazioni, allora, sono interessati anche
i reati contro la pubblica amministrazione.
Rientra, quindi, nel campo astratto di applicazione anche un
abuso d'ufficio. L'articolo 323 del codice penale punisce
con la reclusione fino a quattro anni il pubblico ufficiale
o l'incaricato di pubblico servizio che, violando la legge
intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto
vantaggio patrimoniale o arreca ad altri un danno ingiusto.
Viene, quindi, rispettata la soglia massima di pena. Certo
al pubblico ministero e al giudice rimarrà la responsabilità
di verificare se si tratta di un fatto tenue (dalla portata
offensiva bassa) e non abituale (non inserito in una
serializzazione di condotte).
Stesso discorso può farsi per altri reati. Si prenda quello
previsto dall'articolo 328 del codice penale: omissione di
atti di ufficio. La norma punisce, con la reclusione da sei
mesi a due anni, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un
pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo
ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza
pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve
essere compiuto senza ritardo. Il medesimo articolo punisce
anche il funzionario che, in casi diversi da quelli
elencati, non compie l'atto del suo ufficio e non risponde
per esporre le ragioni del ritardo (reclusione fino a un
anno o con la multa fino a euro 1.032).
In entrambe le
ipotesi è rispettato il livello soglia della pena massima
non superiore a cinque anni. E se tale limite è in grado di
escludere le corruzioni e le concussioni, invece, ci
rientrano, per esempio, la malversazione (articolo 316-bis
codice penale), l'indebita percezione di erogazioni statali
(articolo 316-ter codice penale), il peculato mediante
profitto errore altrui (articolo 316 codice penale).
Il catalogo dei reati comprende anche alcuni illeciti contro
l'amministrazione della giustizia. Si pensi, al reato di
omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale
(punita con pena pecuniaria) o all'omissione di referto da
parte del medico (anche qui è prevista solo la multa fino a
516 euro).
Rientra nell'ambito di applicazione la simulazione di reato
(l'articolo 367 del codice penale prevede la reclusione fino
a tre anni), mentre ne resta fuori la calunnia (articolo 368
del codice penale, per la quale il massimo della pena è di
sei anni) (articolo ItaliaOggi del 22.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità, Madia contro Orlando. La ministra: nei
tribunali priorità a dipendenti provinciali.
Un tweet della numero uno di palazzo Vidoni
smentisce il bando del Mingiustizia.
Madia contro Orlando, Funzione pubblica contro ministero
della giustizia. La ragione del contendere è il
ricollocamento dei 20 mila dipendenti provinciali in esubero
che dovrebbe avere la priorità su tutti i processi di
mobilità nella pubblica amministrazione e che invece sembra
essere stata ignorata da un bando di via Arenula per oltre
mille posti negli uffici giudiziari.
E così il ministro Madia su twitter è stato costretto a
metterci una pezza con una risposta che però crea più dubbi
che certezze e dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che
sulla sorte dei dipendenti delle province l'incertezza regna
sovrana. Ma vediamo di chiarire i termini della questione.
Via Arenula dimentica gli esuberi
provinciali. Come
rilevato su ItaliaOggi di ieri, il ministero della giustizia
ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale un bando per 1.031
posti liberi negli uffici giudiziari. Ma, sorprendentemente,
mentre dallo stesso governo provengono esortazioni a
cogliere l'occasione della messa in soprannumero coatta di
circa 20.000 dipendenti provinciali per la «più grande
operazione di razionalizzazione della pubblica
amministrazione», il bando viene configurato in modo da
eludere i vincoli previsti dalla legge di stabilità 2015.
Tale legge, come noto, prevede una serie di vincoli e
passaggi, tali da indurre le pubbliche amministrazioni a
congelare le proprie assunzioni (salvo quelle dei vincitori
di concorsi le cui graduatorie siano vigenti o approvare
all'01.01.2015), proprio per acquisire in mobilità i
dipendenti provinciali in soprannumero. L'avviso del
ministero della giustizia, invece, riserva la «chiamata»
alla mobilità a tutti i dipendenti della p.a. e in
particolare a quelli dei ministeri. Stabilendo, oltre tutto,
che il personale appartenente ad amministrazione diversa dai
ministeri dovrà allegare, altresì, una dichiarazione della
propria amministrazione, con la quale la stessa si impegna
«a procedere al versamento delle risorse corrispondenti al
50% del trattamento economico spettante al personale
interessato al trasferimento», secondo le modalità che
saranno stabilite con il dpcm previsto dall'art. 30, comma
2.3 del dlgs. 165/2001, in corso di perfezionamento».
Previsione piuttosto strana: infatti, il bando, in sostanza,
anticipa gli effetti del dpcm al quale è condizionato, e al
quale avrebbe dovuto succedere nel tempo.
Non solo: nel pretendere la dichiarazione di disponibilità
dell'ente di provenienza, diverso dai ministeri, a coprire
il 50% del trattamento economico dei dipendenti, mette in
sostanza fuori gioco le province, per due motivi. In primo
luogo, perché a causa del versamento coatto di 1,380
miliardi allo stato, le province sono prive di risorse
finanziarie; in secondo luogo, perché ai sensi dell'articolo
1, comma 425, della legge 190/2014, le mobilità dei
dipendenti provinciali in soprannumero sono proprio esentate
dal versamento del 50% del trattamento economico,
esattamente allo scopo di incentivare le mobilità dei
dipendenti provinciali, per altro con priorità verso gli
uffici giudiziari.
Insomma un vero e proprio caos, che ha suscitato
l'intervento del presidente dell'Unione province italiane (Upi),
Alessandro Pastacci, che in una lettera rivolta al ministro
Marianna Madia ha stigmatizzato il fatto che molte
amministrazioni, in spregio alla legge 190/2014, stiano
avviando mobilità aperte e non riservate ai dipendenti
provinciali, portando ad esempio proprio l'avviso di
mobilità del ministero della giustizia.
La numero uno di Palazzo Vidoni ha risposto a Pastacci con
un tweet tutt'altro che risolutivo: «Mobilità sbloccata:
1.071 dipendenti pubblici verso uffici giudiziari dove c'era
carenza personale. Priorità a quelli di province». Un tweet
che ha il sapore di una presa di distanza dall'operato del
ministero della giustizia: una sorta di invito, sintetico e
criptico, a rivedere la decisione adottata, per dare
priorità alla mobilità dei dipendenti provinciali.
Sta di fatto che, come facilmente prevedibile, l'attuazione
della mobilità prevista dalla legge di stabilità 2015 si
rivela da subito molto complessa, per la refrattarietà delle
amministrazioni ad accettare i vincoli alle assunzioni
imposti e la situazione straordinaria imposta dalla riforma
delle province
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni? Con la mobilità. Oltre mille posti
sottratti all'uso dei sovrannumerari.
Il mingiustizia non ha tenuto conto della ricollocazione
dei dipendenti provinciali.
Mille e 31 posti sottratti alla possibile ricollocazione dei
dipendenti provinciali in sovrannumero. È questa la
conseguenza dell'avviso di mobilità indetto dal Ministero
della giustizia e pubblicato il 20 gennaio scorso sulla
Gazzetta Ufficiale (4ª Serie speciale - Concorsi ed esami n.
5).
Nei giorni scorsi il vice presidente del Csm, Giovanni
Legnini, ha parlato di acquisire in mobilità almeno 2 mila
dipendenti provinciali per fare fronte alle carenze di
organico degli uffici giudiziari. Il tutto, in linea sia con
l'articolo 30, comma 2.3, del dlgs 165/2001 sia con
l'articolo 1, comma 425, della legge 190/2014, ai sensi del
quale il dipartimento della funzione pubblica avvia, presso
le amministrazioni dello stato una ricognizione dei posti da
destinare alla ricollocazione del personale provinciale in
sovrannumero interessato ai processi di mobilità, in
conseguenza della quale le amministrazioni statali debbono
comunicare un numero di posti, soprattutto riferiti alle
sedi periferiche, corrispondente, sul piano finanziario,
alla disponibilità delle risorse destinate, per gli anni
2015 e 2016, alle assunzioni di personale a tempo
indeterminato. Successivamente, Palazzo Vidoni pubblica
l'elenco dei posti comunicati nel proprio sito
istituzionale, per attivare le procedure di mobilità,
procedendo in via prioritaria alla ricollocazione dei
dipendenti provinciali in sovrannumero proprio presso gli
uffici giudiziari.
Si crea, tuttavia, un vero e proprio cortocircuito
normativo. Mentre, infatti, la legge di Stabilità congela le
assunzioni, come visto sopra, nel contempo il «milleproroghe»
all'articolo 1, commi da 1 a 5, crea spazi alle
amministrazioni statali per assumere a valere sulle risorse
di turnover del 2013 a condizione che siano già state
ottenute le autorizzazioni ad assumere, prorogate appunto
dalla legge 192/2014.
Infatti, l'articolo 1, comma 5, del milleproroghe dispone:
«Le risorse per le assunzioni prorogate ai sensi del comma
1, lettera b) e del comma 2, per le quali, alla data di
entrata in vigore del presente decreto, non è stata
presentata alle amministrazioni competenti la relativa
richiesta di autorizzazione ad assumere, sono destinate,
previa ricognizione da parte della Presidenza del consiglio
dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica, a
realizzare percorsi di mobilità a favore del personale degli
enti di area vasta in ragione del riordino delle funzioni».
La sostanziale contraddizione tra legge di Stabilità e
decreto milleproroghe porta, dunque, alla situazione
paradossale che migliaia di posizioni vacanti del Ministero
della giustizia siano oggetto di un avviso di mobilità
aperto a tutti: né si attinge a eventuali graduatorie,
continuando così a colpire gli «idonei» dei concorsi,
fortemente penalizzati dalle norme della legge 190/2014; né
si attiva il meccanismo per la ricollocazione dei dipendenti
provinciali.
Poiché obiettivo della legge di Stabilità è ricollocare un
rilevante numero di dipendenti provinciali in sovrannumero
anche presso l'amministrazione della giustizia, occorre
chiedersi perché il ministero della giustizia, ancorché
autorizzato ad assumere, abbia pubblicato il 20 gennaio
sulla Gazzetta Ufficiale, l'avviso. In ogni caso, si giunge
al risultato della sottrazione di ben 1031 posti alla
futura, difficile ricollocazione di ben 20 mila dipendenti
delle province, posti in sovrannumero d'imperio dal
legislatore.
Al di là delle previsioni normative, semplici ragioni di
coerenza con un impianto molto ampio e complesso avrebbero
dovuto consigliare al ministero di meglio ponderare la
decisione e considerare se non sarebbe stato più corretto
rimettere i 1031 posti (per i quali sono indicati anche
profili professionali e sedi) a disposizione della Funzione
pubblica, per partire da subito con la mobilità dei
dipendenti provinciali. Ai quali, peraltro, non sarà
comunque vietato presentare domanda di mobilità. E potrebbe
anche darsi che in migliaia cercheranno di trasferirsi,
prima ancora che si avviino e concludano le procedure per la
loro collocazione in sovrannumero.
È la dimostrazione che la riforma delle province e la legge
190/2014 hanno creato un caos inestricabile, con
comportamenti contraddittori dello stesso governo che ha
attivato dette norme
(articolo ItaliaOggi del 21.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
licenziamenti senza ostacoli. Azioni disciplinari più
veloci. Carriere legate al merito.
Gli ultimi emendamenti al ddl Madia. Salvi i direttori
generali, dirigenti sugli scudi.
Procedimenti disciplinari più veloci e più efficaci per gli
statali.
È tutto racchiuso in un emendamento del relatore, Giorgio
Pagliari (Pd) al ddl Madia di riforma della pubblica
amministrazione, il piano del governo per rafforzare le
attuali regole sui licenziamenti.
Regole che già ci sono e sono molto restrittive (come
riconosciuto dallo stesso ministro a proposito della legge
Brunetta) ma che spesso vengono vanificate da ostacoli di
varia natura. Tra i criteri di delega che spetterà ai
decreti attuativi tradurre in norme precettive, il governo
ha fatto inserire l'«introduzione di norme in materia di
responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti
finalizzate ad accelerare e rendere concreto l'esercizio
dell'azione disciplinare».
Alla stretta fa da contraltare la semplificazione dei
procedimenti di valutazione che dovranno portare a
riconoscere e premiare i dipendenti meritevoli. La
valutazione sarà decisiva per i dirigenti, le cui carriere
saranno legate a doppio filo alle pagelle ricevute e non,
come accade ora, agli automatismi di carriera. I curricula
dei dirigenti saranno monitorati in una banca dati che sarà
gestita dalla Funzione pubblica. In questo data base i
manager pubblici dell'era del ruolo-unico dovranno rendere
pubblico il proprio profilo professionale e gli esiti della
valutazione ricevuta per ciascun incarico.
Nella pubblica amministrazione «licenziare è già possibile,
visto che su 6 mila procedimenti, un quarto si è chiuso con
una sanzione grave come licenziamento o sospensione, noi
adesso inseriamo un criterio di delega che vuole rafforzare
la normativa, in modo che non ci siano più blocchi al
procedimento disciplinare», ha commentato il ministro
Marianna Madia in occasione della presentazione degli ultimi
emendamenti in commissione affari costituzionali al senato
(il termine per la presentazione dei sub-emendamenti scadrà
il 29 gennaio, dopodiché si passerà al voto).
Madia ha tuttavia sottolineato che il governo è «aperto alla
discussione» e che l'indicazione del premier Matteo Renzi «è
di avere i decreti pronti in contemporanea con la legge
delega» intorno ad aprile.
Il numero uno di palazzo Vidoni è anche tornato sul diverso
trattamento tra statali e lavoratori privati in materia di
licenziamenti disciplinari illegittimi, ribadendo che nel
pubblico impiego la regola resta il reintegro (a differenza
del Jobs Act che prevede, salvo casi eccezionali,
l'indennizzo, si veda ItaliaOggi del 15 gennaio) «anche
perché», ha aggiunto, «c'è un rischio di spoils system di
tipo politico che in un'azienda privata non c'è».
Dirigenti.
Nel ruolo unico della dirigenza pubblica confluiranno anche
i dirigenti delle università statali e degli enti pubblici
di ricerca equiparati da questo punto di vista ai dirigenti
dello stato. Nel ruolo unico dei dirigenti regionali saranno
inclusi i dirigenti amministrativi, professionali e tecnici
del Servizio sanitario nazionale, mentre restano fuori i
dirigenti medici, veterinari e sanitari. La valutazione dei
manager pubblici sarà affidata a una commissione, istituita
presso la Funzione pubblica, a cui spetterà conferire ed
eventualmente revocare gli incarichi. Confermata
l'abolizione dei segretari comunali, che confluiranno in
un'apposita sezione a esaurimento del ruolo dei dirigenti
degli enti locali, si salvano invece i direttori generali,
nominabili, ai sensi del Tuel, al di fuori della dotazione
organica e con contratto a tempo determinato, nei comuni
sopra i 15 mila abitanti e nelle province.
La mobilità dei dirigenti dovrà essere «semplificata e
ampliata» e non solo nei passaggi da una p.a. all'altra, ma
anche tra pubbliche amministrazioni e settore privato. Anzi,
si legge, in uno degli emendamenti depositati ieri dal
relatore «l'esperienza effettuata nel privato» dovrà essere
valorizzata «ai fini del conferimento degli incarichi
dirigenziali».
Tra le novità introdotte ex novo dagli emendamenti
del relatore si segnala anche «la confluenza della
retribuzione di posizione fissa nel trattamento economico
fondamentale» e il collegamento, «ove possibile» della
retribuzione di risultato sia agli obiettivi di comparto sia
a «obiettivi assegnati al singolo dirigente».
Infine, dovrà essere rafforzato il principio di separazione
tra indirizzo politico-amministrativo e gestione, con
conseguente incremento dei casi di responsabilità
dirigenziale. Solo i manager pubblici saranno soggetti a
responsabilità amministrativo-contabile per l'attività
gestionale. I politici resteranno dunque al riparo da
responsabilità per danno erariale.
Dipendenti.
Nei concorsi avranno una corsia preferenziale i precari
della p.a. Un emendamento del relatore prevede infatti che
nelle procedure concorsuali venga valorizzata «l'esperienza
professionale di coloro che hanno avuto rapporti di lavoro
flessibile con le amministrazioni pubbliche, incluse le
collaborazioni coordinate e continuative». La valutazione
dei dipendenti pubblici sarà semplificata e, come per i
dirigenti, sarà legata al merito. Dovranno essere sviluppati
«sistemi distinti per la misurazione dei risultati
raggiunti» dalla singola amministrazione e dal singolo
lavoratore.
Arriva infine una stretta sulle assenze per malattia. Un
emendamento sempre depositato ieri introduce una
riorganizzazione con controlli effettivi e attribuisce le
competenze all'Inps.
Enti locali.
Infine, una dichiarazione di principio che sicuramente farà
piacere agli enti locali. Le comunicazioni di dati e
informazioni che gli enti territoriali sono oggi tenuti a
trasmettere alle amministrazioni centrali saranno
«razionalizzate» e soprattutto «concentrate in ambiti
temporali definiti». Non, come accade ora, spalmate
nell'arco dell'anno
(articolo ItaliaOggi del 21.01.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
«Centrali uniche» realizzabili anche con
convenzione. Acquisti. Le istruzioni dell’Anci.
L’acquisizione di lavori, servizi e
forniture di beni mediante un modello organizzativo che
faccia leva su una centrale unica di committenza può essere
realizzata dai Comuni non capoluogo con una convenzione in
forma associata, anche utilizzando lo schema predisposto
dall’Associazione nazionale comuni italiani.
L’obbligo previsto dal comma 3-bis dell’articolo 33 del
Codice dei contratti pubblici è operativo dal 1° gennaio per
gli acquisti di beni e servizi, mentre sarà esteso agli
affidamenti di lavori a partire dal 1° luglio.
La disposizione del decreto legislativo 163/2006
(riformulata dalla legge 89/2014) individua una serie di
soluzioni operative che gli enti possono scegliere,
delineando anche la possibilità di un «accordo consortile».
Questa definizione contenuta nella norma (replicante quella
esistente nella versione precedente) è stata peraltro
interpretata come espressione atecnica, con la quale il
legislatore ha voluto genericamente riferirsi alle
convenzioni definibili in base all’articolo 30 del decreto
legislativo 267/2000, come strumento alternativo all’unione
dei Comuni (Corte dei Conti, sezione regionale di controllo
Umbria, deliberazione 112/2013/Par del 05.06.2013; sezione
regionale di controllo Lazio, delibera 138/2013/Par del
26.06.2013).
La possibilità per i Comuni di avvalersi dei «competenti
uffici», sottintende la volontà di non dare vita a un
organismo autonomo rispetto agli enti stipulanti.
Inoltre, a fronte dei vincoli previsti dall’articolo 2,
comma 28, della legge 244/2007 e dei divieti dettati
dall’articolo 2, comma 186, della legge n. 191/2009, le
amministrazioni comunali non possono costituire consorzi di
funzioni.
Rispetto a questo quadro, quindi, l’accordo consortile è
traducibile operativamente come una convenzione per la
gestione associata in base all’articolo 30 del decreto
legislativo n. 267/2000.
Per sostenere i Comuni nell’organizzazione del modello di
centralizzazione degli acquisti in forma aggregata, l’Anci
ha elaborato uno
schema di convenzione
(accompagnato da una
guida esplicativa,
che ne illustra la natura e alcuni aspetti operativi), che è
stato inviato ieri a tutte le amministrazioni.
Lo strumento pattizio è strutturato in base all’assetto
previsto dall’articolo 30 del decreto legislativo 267/2000 e
presenta una serie di varianti, adattabili dai Comuni che
intendono utilizzarlo, riferite alle due soluzioni previste
dalla disposizione del Tuel: l’ufficio comune o l’ente
capofila.
Il quadro degli elementi principali della convenzione
propone anche una possibile distribuzione delle attività tra
i singoli Comuni aderenti e la struttura organizzativa
configurata come centrale unica di committenza, nella quale
saranno chiamate a operare risorse umane qualificate
appartenenti ai vari Comuni associati.
Il processo di affidamento è invece poggia invece sul
riparto di competenze tra il responsabile del procedimento e
il responsabile della “centrale” di acquisto, con una
serie di indicazioni di dettaglio che distinguono le parti
della procedura di competenza di ciascuno (articolo Il Sole 24 Ore del
21.01.2015). |
APPALTI:
Appalti pubblici, le imprese lanciano l’allarme
sull’Iva. Buzzetti (Ance): norma-killer riduce la liquidità
di 1,3 miliardi. Split payment. Con la legge di stabilità
«salta» il pagamento del 10% da parte della Pa.
È allarme Iva per le
imprese che eseguono appalti di lavori pubblici dopo
l’inserimento nella legge di stabilità dello split payment,
il meccanismo che cancella il versamento dell’importo Iva
(pari al 10%) alle imprese appaltatrici da parte della Pa.
«È una norma-killer che metterà in ginocchio centinaia di
imprese», dice il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti,
che ha registrato una protesta durissima della sua base e
stima in 1,3 miliardi la perdita di liquidità per le
imprese. «Non bastasse il credit crunch e il pagamento
con almeno otto mesi di ritardo medio da parte delle
pubbliche amministrazioni -continua Buzzetti- ora arriva
anche questa norma ad aumentare la pressione sulla già
difficilissima situazione finanziaria delle imprese. Vorrei
ricordare al governo, che credo abbia sottovalutato
l’impatto di questa disposizione sul settore, che nella
situazione attuale le imprese stanno chiudendo nella gran
parte dei casi proprio per l’aggravamento della situazione
finanziaria».
Per le imprese appaltatrici, chiusa la possibilità di
compensare l’Iva a debito con quella a credito all’interno
dell’appalto, non resterà ora che mettersi in fila agli
sportelli del fisco per incassare il credito Iva maturato
con l’appalto. A questo proposito l’Ance ricorda che in
Italia la tempistica per i rimborsi dell’Iva, già sanzionata
con una procedura d’infrazione dall’Unione europea,
raggiunge anche i due anni e mezzo medi «rispetto ai 7-10
giorni della Gran Bretagna, a un mese della Francia e a sei
mesi della Spagna». E proprio l’Unione europea dovrà
comunque autorizzare la deroga al regime Iva imposto con lo
split payment, pur avendo il governo inserito nella stessa
legge di stabilità una norma-catenaccio che consente
comunque l’applicazione della norma dal 1° gennaio 2015 in
attesa del parere di Bruxelles.
Non è escluso quindi che le imprese, qualora non abbiano
soddisfazione dal governo con una modifica alla norma,
possano guardare a Bruxelles anche con qualche azione
legale. «Abbiamo parlato -dice Buzzetti- con il ministro
Lupi, con il sottosegretario Delrio, con il ministero
dell’Economia e ci è stata assicurata un’attenzione al
problema ma certamente se non ci fosse una modifica della
situazione attuale, qualche azione dovremo pur farla».
Tutto questo mentre Matteo Renzi lunedì sera a «Quinta
Colonna» ha spiegato con dovizia come almeno la metà
dell’occupazione persa negli ultimi 6-7 anni riguardi il
settore dell’edilizia e come sia necessario ripartire da lì
per creare occupazione.
«Anche noi -dice Buzzetti- registriamo qualche segnale di
ripresa, per la verità ancora debole e incerto, dalle
compravendite nel settore immobiliare e dai bandi di gara
per gli appalti, ma nulla che ancora si traduca in cantieri
e lavori. Certo è che questa norma sull’Iva rischia di
affossare anche questo barlume di ripresa che le imprese
stanno aspettando da tempo» (articolo Il Sole 24 Ore del
21.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fotovoltaico, la Via è obbligata. Valutazione ambientale per
il solare in parchi e città.
Un decreto del ministero dell'ambiente estende l'obbligo di
verifica per gli impianti energetici.
Assoggettamento obbligatorio alla valutazione di impatto
ambientale per l'installazione di un impianto fotovoltaico
in «aree naturali protette». Il rigoroso regime di tutela
che impone la Via obbligatoria si applicherà ai progetti
ricadenti, anche parzialmente, in tali zone.
La Via dovrà inoltre essere richiesta se l'impianto
fotovoltaico sorge in una zona a forte intensità abitativa
(> 500 abitanti/kmq) o in una zona a protezione speciale o
di interesse storico o se è vicino ad altri impianti.
Accanto alle soglie dimensionali, alle quali le regioni
potranno applicare riduzioni dal 20 al 50%, ci sarà una
serie di criteri sulla base dei quali si deciderà quando un
impianto dovrà essere sottoposto a Via.
Queste le
indicazioni contenute nello schema di decreto del ministero
dell'ambiente contenente le «linee guida sui criteri per
sottoporre a verifica di assoggettabilità a valutazione di
impatto ambientale dei progetti di competenza delle regioni
e province autonome» (art. 20 dlgs n. 152/2006).
Il decreto
contenente le linee guida è attuativo dell'articolo 15, 1°
comma, lettera c), del decreto competitività (legge 116/2014
di conversione, con modificazioni, del decreto legge n.
91/2014) che ha modificato la disciplina in materia di
valutazione di impatto ambientale, introducendo alcuni
emendamenti alle disposizioni di cui al dlgs n. 152/2006
parte II, titolo III.
La modifica introdotta nel decreto
competitività avveniva in seguito a una procedura di
infrazione della commissione europea. Era infatti risultato
in contrasto con la normativa europea, in particolare con la
direttiva 92 del 2011, il fatto che la taglia di un impianto
fosse l'unica discriminante in base alla quale si decideva
la procedura autorizzativa. A seguito del via libera della
conferenza unificata dell'18 dicembre, in data 8 gennaio, lo
schema di decreto contenente le linee guida è stato
trasmesso dal ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio ai presidenti di camera e senato per
l'acquisizione del parere delle competenti commissioni
parlamentari.
Linee guida. Le linee guida entreranno in vigore entro il
quindicesimo giorno dalla pubblicazione in gazzetta
ufficiale del decreto ministeriale. Esse si applicheranno a
tutti i procedimenti in corso. Le regioni e le province
autonomo potranno individuare e richiedere al ministero
dell'ambiente, per specifiche situazioni ambientali e
territoriali e per determinate categorie progettuali,
deroghe ai contenuti delle linee guida, nel rispetto della
normativa comunitaria in materia di valutazione di impatto
ambientale. Il ministero dell'ambiente potrà decidere la
deroga con un successivo decreto ministeriale.
Le linee
guida integrano i criteri tecnico dimensionali e
localizzativi utilizzati per la fissazione delle soglie
(allegato quarto parte seconda del dlgs n. 152/2006) per le
diverse categorie progettuali individuando ulteriori
criteri. L'applicazione di ulteriori criteri comporterà una
riduzione delle soglie dimensionali con estensione dal campo
di applicazione delle disposizioni in materia di Via a
progetti potenzialmente in grado di determinare effetti
negativi sull'ambiente
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri, nuova interfaccia e nuove sanzioni a breve.
Cambia l'applicazione. Tra due settimane obbligo
d'iscrizione.
A disposizione delle imprese soggette al Sistri una nuova
release dell'applicazione di movimentazione e della nuova
interfaccia di interoperabilità. La nuova versione
dell'interfaccia di interoperabilità, disponibile sin d'ora
in ambiente di sperimentazione, verrà rilasciata in ambiente
di pre-esercizio (simulatore) alla scadenza del 29.01.2015 e
in ambiente di esercizio il 13.02.2015.
Questo è quanto si legge sul sito Sistri (www.sistri.it) e
aggiornato al 15.01.2015.
Gli aggiornamenti delle nuove
applicazioni informatiche avvengono a poco più di due
settimane dall'applicazione delle sanzioni per la mancata
iscrizione e il mancato versamento del diritto annuale
Sistri. Il decreto Milleproroghe (articolo 9 del decreto
legge 31.12.2014, n. 192 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
del 31.12.2014 n. 302) ha infatti aggiunto la scadenza del
01.02.2015 come termine a partire dal quale verrà sanzionata
la mancata iscrizione al Sistri o il mancato versamento dei
contributi.
La stessa Assotrasporti insieme ad Azione nel
trasporto italiano, Un.i.cooptrasporti e Cepi-Cci, con un
comunicato di ieri ha chiesto al governo «di sospendere la
richiesta di versamento dei contributi e delle relative
sanzioni sino a quando non si avrà un sistema funzionante,
al minor costo possibile per le aziende aderenti».
Sanzioni Sistri. Dal 1° febbraio si applicheranno le
sanzioni legate alla mancata iscrizione del sistema della
tracciabilità dei rifiuti e l'omesso versamento del
contributo Sistri. L'articolo 206-bis (commi 1 e 2) del dlgs
n. 152/2006 prevede che per l'omessa iscrizione nei termini
previsti si applichi la sanzione amministrativa pecuniaria
da 15.500 euro a 93.000 euro nel caso di rifiuti pericolosi.
Nel caso di rifiuti non pericolosi si applichi la sanzione
amministrativa da 2.660 euro a 15.500 euro. Per l'omesso
pagamento, nei termini previsti, del contributo Sistri viene
stabilita una sanzione amministrativa pecuniaria da 15.500
euro a 93.000 euro nel caso di rifiuti pericolosi.
Per i
rifiuti non pericolosi la sanzione va da 2.660 euro a 15.500
euro. Al contrario non si applicheranno dal 01.01.2015
al 31.12.2015, le sanzioni relative alle omissioni e
violazioni in materia di sistri (articoli 260-bis commi da 3
a 9 del dlgs n. 152/2006), e le sanzioni amministrative
accessorie (articolo 260-ter del dlgs n. 152/2006)
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Buoni pasto esenti fino a 7 euro. L’acquisto da parte delle
aziende resta deducibile al 100 per cento.
Agevolazioni. Per i ticket elettronici dal 1° luglio aumenta
l’importo non imponibile da fisco e previdenza.
Buoni pasto
concessi a dipendenti e collaboratori detassati fino
all’importo complessivo giornaliero di 7 euro se resi in
forma elettronica. La legge di stabilità 2015 ritocca verso
l’alto il tetto di esenzione, portandolo da 5,29 a 7 euro ma
soltanto per i ticket elettronici.
La disposizione -contenuta nei commi 16 e 17 dell’unico articolo della legge
di stabilità (legge 190/2014)- entrerà in vigore dal 01.07.2015 e varrà fino a 200 euro di ulteriori redditi
esentasse che da quest’anno andranno nelle tasche dei
lavoratori beneficiari, seppure sotto forma di compenso in
natura. Dal 2016 in poi, invece, l’agevolazione aumenterà
fino a 400 euro annui.
Fino al 30 giugno di quest’anno, il trattamento fiscale in
capo al lavoratore dipendente rimane invariato: la non
imponibilità delle prestazioni sostitutive delle
somministrazioni in mense aziendali, e cioè dei buoni pasto,
è fissata nella soglia massima di 5,29 euro al giorno, a
prescindere dalla tipologia dei ticket restaurant
distribuiti ed utilizzati.
Dal 01.07.2015, l’articolo 51, comma 2, lettera c), del Tuir, prevede, invece, che non concorrono a formare il
reddito di lavoro dipendente gli importi complessivi
giornalieri fino a 5,29 euro nel caso di ticket non
elettronici (quindi certamente quelli cartacei), elevati a 7
euro relativamente ai ticket elettronici.
L’agevolazione riguarda sia il regime fiscale, sia gli oneri
previdenziali, valendo le stesse esclusioni e limiti dettati
dall’articolo 51 del Tuir anche ai fini del calcolo
dell’imponibile contributivo.
Il valore da prendere in riferimento è quello nominale,
ossia quello facciale indicato sul buono pasto. Peraltro,
ove gli importi complessivi giornalieri fossero più alti di
quelli appena citati, gli stessi andrebbero tassati in busta
paga e assoggettati ai relativi oneri contributivi, ma solo
per l’eccedenza.
I limiti sono validi anche per i lavoratori part-time,
quindi non si richiede alcun riproporzionamento in base
all’orario di lavoro. Anzi, le stesse franchigie sono
riconosciute anche nel caso in cui l’articolazione
dell’orario di lavoro non prevedesse il diritto alla pausa
pranzo (risoluzione agenzia delle Entrate 30.10.2006 n.
118).
Per fruire della detassazione i buoni pasto devono essere
rivolti alla generalità dei dipendenti o a categorie
omogenee di essi. Come è stato precisato
dall’amministrazione finanziaria (circolare 23.12.1997
n. 326/E e circolare 16.07.1998 n. 188/E), per categorie
omogenee non devono intendersi solo quelle previste dal
codice civile (dirigenti, operai, ecc.), ma anche tutti i
dipendenti di un certo tipo, ad esempio tutti i lavoratori
con una certa qualifica o di un certo livello.
L’interpretazione data dalle Entrate è comunque piuttosto
flessibile e volta ad evitare che vi siano concessioni di benefits ad personam. Il responsabile del personale potrà
ben ritagliare gruppi omogenei in base alle esigenze
aziendali e dei lavoratori.
Ai fini della determinazione del reddito di impresa,
l’acquisto dei ticket restaurant è completamente deducibile
e pertanto -come confermato dalle Entrate nella circolare
n6 del 03.03.2009- non sconta il limite del 75% fissato
per le spese di vitto e alloggio dall’articolo 109, comma 5,
del Tuir (articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2015 - tratto da www.fiscooggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel privato Durc a validità breve.
Adempimenti. Non è stata confermata la durata di 120 giorni.
Per i lavori
edili dei soggetti privati, dal 1° gennaio il documento
unico di regolarità contributiva (Durc) è ritornato ad avere
90 giorni di validità, invece di 120.
L’articolo 31, comma 8-sexies, del decreto legge 69/2013
(decreto del Fare) aveva stabilito che «fino al 31.12.2014 la disposizione di cui al comma 5, primo periodo, si
applica anche ai lavori edili per i soggetti privati». La
novità introdotta dal comma 5 riguardava appunto il Durc, in
quanto veniva stabilito che il documento unico di regolarità
contribuvia «rilasciato per i contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture ha validità di 120 giorni dalla data del
rilascio».
Quanto previsto dall’articolo 31, comma 8-sexies, però,
aveva validità fino alla fine del 2014. Poiché nel frattempo
non vi è stata alcuna proroga, si deve ritenere ripristinata
la validità di 90 giorni dalla data del rilascio, fissata in
precedenza dall’articolo 39-septies del decreto legge
273/2005 e successivamente richiamato dall’articolo 7 del
decreto ministeriale del 24.10.2007 il quale, oltre la
durata, stabilisce le modalità di rilascio, i contenuti
analitici del Durc, nonché le tipologie di pregresse
irregolarità di natura previdenziale e di tutela delle
condizioni di lavoro da non considerare ostative al rilascio
del documento medesimo.
L’uniformità della validità del Durc, tra appalti pubblici e
privati, era stata determinata proprio dal Dl 69/2013.
Infatti mentre l’articolo aveva uniformato la durata a 120
giorni, l’articolo 31, comma 5, ha stabilito (ed è ancora
così) che nel pubblico, conformemente a quanto già avveniva
nel settore privato, le stazioni appaltanti per tutte le
fasi dell’appalto e fino all’attestato di esecuzione, devono
chiedere il Durc ogni 120 giorni e non per ogni singola
fase, con la sola esclusione del saldo, in occasione del
quale è necessario un ulteriore documento di regolarità.
Abbandonato ora inspiegabilmente, da parte del legislatore,
l’omogeneo trattamento procedurale relativo alla medesima
materia tra appalti pubblici e quelli privati, per questi
ultimi da questo mese è tornato in vigore il periodo di 90
giorni di validità dalla data della sua emissione, durante
il quale in ogni caso esso conserva tutta la sua efficacia
nelle varie fasi dell’appalto cui conseguono anche eventuali
pagamenti (per esempio stati di avanzamento, perizie,
varianti). Solo al saldo dovrà essere chiesto un apposito
Durc.
Poiché la modifica opera soltanto sulla durata di validità
del documento, si ritiene che nel caso di riscontrate
inadempienze contributive da parte dell’appaltatore nei
confronti dell’Inps, dell’Inail o della Cassa edile, questi
hanno sempre l’obbligo di invitare il soggetto interessato
a regolarizzare la posizione entro 15 giorni, il cui
adempimento permetterà la regolare emissione del Durc (articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2015). |
CONDOMINIO: L’amministratore dura un anno. Occorre in ogni caso un
passaggio in assemblea alla prima scadenza.
Nomine. Una «proroga» dei poteri per la stessa durata è
possibile soltanto se manca il quorum.
L’amministratore
di condominio resta in carica un anno. A seguito della
riforma, la disciplina prevede ora che l’incarico «si
intende rinnovato per eguale durata» (articolo 1129, comma
10, del Codice civile). La laconica previsione potrebbe
indurre a concludere che si sia dinanzi a una generalizzata
ipotesi di rinnovo tacito dell’incarico. In realtà,
questa conclusione è da scartare.
Per un verso, anche in occasione del rinnovo dell’incarico
l’amministratore è tenuto a comunicare i dati di cui al
secondo comma dell’articolo 1129 del Codice civile (dati
anagrafici e professionali, codice fiscale, sede legale e
denominazione se si tratta di società, locale in cui sono
tenuti i registri condominiali, orari in cui è possibile
prenderne visione) e a «specificare analiticamente...
l’importo dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta»
(articolo 1129, comma 14, del Codice civile). Adempimenti,
questi, difficilmente conciliabili con un tacito rinnovo.
Per altro verso, l’amministratore è pur sempre obbligato a
convocare l’assemblea in prossimità della scadenza del suo
incarico affinché si determini in merito alla successiva
gestione, tanto che «il ripetuto rifiuto di convocare
l’assemblea» per la nomina del nuovo amministratore
configura un’espressa ipotesi di “grave irregolarità”
(articolo 1129, comma 12, n. 1, del Codice civile) che
legittima ciascun condomino ad agire per la revoca
giudiziale.
A questo punto, è possibile ipotizzare quattro possibili
esiti:
1) l’assemblea nomina un nuovo amministratore;
2) l’assemblea conferma l’amministratore uscente definendo
espressamente –con modifiche, aggiornamenti e integrazioni– le condizioni del rapporto e dell’incarico;
3) l’assemblea conferma l’amministratore uscente senza
alcuna determinazione in merito al rapporto e all’incarico;
4) l’assemblea, magari riconvocata (per scrupolo del
professionista o perché gli sia stato richiesto dai
condomini), non raggiunge i quorum richiesti per la sua
costituzione e per l’adozione della deliberazione di nomina.
È possibile ritenere che solo nelle due ultime ipotesi operi
il rinnovo dell’incarico, a giustificare il quale non è il
semplice spirare del termine, ma la circostanza che
l’assemblea non abbia voluto o potuto determinarsi su
condizioni e termini della conferma o sulla nomina di un
nuovo amministratore.
In altri termini, il rinnovo dell’incarico per eguale durata
è ipotizzabile solo nell’ipotesi in cui un passaggio
assembleare si sia consumato e si sia accertata la sua
infruttuosità o l’assenza di determinazioni di segno diverso
rispetto alla conferma del rapporto alle medesime
condizioni.
Senza questo passaggio procedimentale, la scadenza del
termine può determinare solo quella situazione, comunemente
indicata, di prorogatio imperii a cui, con la riforma, fa
ora espresso riferimento l’articolo 1129, comma 8, del
Codice civile: «alla cessazione dell’incarico
l’amministratore è tenuto... ad eseguire le attività urgenti
al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza
diritto ad ulteriori compensi».
La nuova disciplina, dunque, non tollera manovre dilatorie o
evasive da parte dell’amministratore in scadenza,
prevedendo, in queste situazioni, precisi effetti: la
stringente delimitazione dell’ambito di operatività dei
poteri dell’amministratore in regime di prorogatio (solo
«attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli
interessi comuni») e il mancato riconoscimento di un
ulteriore compenso costituiscono chiare indicazioni dirette
a dare impulso all’iniziativa dell’amministratore in
scadenza, tenuto a convocare l’assemblea per le necessarie
determinazioni sulla successiva gestione.
La lettura qui proposta consente di trarre due conclusioni:
a) delinea con maggiore chiarezza la distinzione tra
l’ipotesi del rinnovo dell’incarico (articolo 1129, comma
10, del Codice civile) e quella della prorogatio (articolo
1129, comma 8, del Codice civile), con le diverse e
significative conseguenze sul piano dei poteri e del
compenso riconosciuti all’amministratore;
b) induce a ritenere, anche alla luce del dato letterale
della norma, che non vi siano ragioni per confinare la
fattispecie del rinnovo solo alla prima scadenza
dell’incarico (un anno più un “solo” ulteriore anno), con
esclusione di ogni possibilità di rinnovo alle scadenze
successive, come pure alcuni commentatori hanno ipotizzato;
un tacito rinnovo, dunque, ben può riproporsi, alle
condizioni prima richiamate, dopo ogni scadenza, non solo
alla prima (articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2015). |
CONDOMINIO: La delibera dannosa è annullabile per eccesso di potere.
In assemblea. Tribunale di Lecco.
Un delibera
presa solo nell’interesse di quei pochi condomini, che
solitamente in assemblea rappresentano un numero elevato di
millesimi, può essere annullata se assunta in eccesso di
potere.
Finalmente una buona notizia che mette fine alla “dittatura”
condominiale di quei proprietari che si mettono insieme al
fine di perseguire un vantaggio personale in contrasto con
l’interesse collettivo del condominio.
Questo è quello che rimarca il TRIBUNALE di Lecco con la sentenza n. 701/2014. Pur non essendoci alcuna norma che
consente l’annullamento di una delibera condominiale in
assenza di un vizio formale, il giudice di merito, basandosi
sulla giurisprudenza di legittimità che configura l’eccesso
di potere ogni qual volta l’interesse collettivo viene leso
unitamente all’interesse del singolo, ha annullato la
delibera. In particolare, la delibera impugnata era stata
assunta a maggioranza di pochi condomini, che avevano
nominato nuovamente un amministratore già giudicato
inadeguato perché aveva ingenerato diversi contenzioni
giudiziari, esponendo il condominio a continui esborsi
legali.
Dopo una parentesi a conduzione giudiziale, il vecchio
amministratore, proprietario di casa nel condominio si
ricandida e, grazie alla complicità di alcuni condomini
amici che rappresentano la maggioranza in termini di
millesimi, viene rieletto.
Il sindacato del giudice, in sede di impugnativa di una
delibera condominiale, attiene solo alla legittimità della
delibera stessa in relazione a una violazione di una legge o
del regolamento, essendo precluso l’esame del merito e cioè
delle ragioni di opportunità o di convenienza che hanno
indotto l’assemblea ad assumere quella decisione.
In un solo caso il merito può essere sindacato da giudice ed
è proprio quando l’assemblea ha deliberato con eccesso di
potere (Cassazione, sentenze 3177/1978 e, più recentemente,
6853/2001 e 10754/2011).
La nozione di “eccesso di potere” è di natura strettamente
amministrativa, appartenendo in particolare al diritto
pubblico nell’ambito dei vizi di legittimità dell’atto. La
giurisprudenza ha trasfuso questo termine in ambito
condominiale, configurandolo come una grave lesione
dell’interesse della comunione come dispone l’articolo 1109
del Codice civile, primo comma: «ciascuno dei componenti la
minoranza dissenziente può impugnare avanti l’autorità
giudiziaria le deliberazioni della maggioranza se la
deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa
comune».
In conclusione, tutte le volte in cui una delibera
assembleare crea un grave pregiudizio all’amministrazione
della cosa comune, sussisterà il vizio di eccesso di potere
e, dunque, il giudice potrà annullare la decisione viziata
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2015). |
CONDOMINIO:
Contratto di rendimento senza il fondo obbligatorio.
Consumi energetici. Le nuove regole prevedono che ci si
debba dotare dell’Ape.
Nel condominio
non sempre è obbligatorio raccogliere integralmente i fondi
(anche se con i versamenti rateizzati in base al piano dei
lavori) prima di effettuare interventi di manutenzione
straordinaria o innovazioni. Il decreto legislativo 102/2014
ha infatti dato maggior forza al Contratto di rendimento
energetico (o Epc, cioè Energy Performance Contracting) che
prevede il pagamento dilazionato negli anni.
Questo strumento, però, è utilizzabile solo qualora
l’intervento porti al miglioramento dell’efficienza degli
usi finali dell’energia (intesa quest’ultima in tutte le
forme di prodotti energetici, combustibili, energia termica,
energia rinnovabile, energia elettrica o qualsiasi altra
forma di energia). Il contratto può avere a oggetto opere
sia sull’edificio (cappotto, coibentazione eccetera) sia
sugli impianti (riqualificazione centrale termica, solare
termico, fotovoltaico, termoregolazione e
contabilizzazione).
Il punto di partenza quindi è il costo annuo (in termini sia
di energia sia economici) sostenuto dal condominio. È
pertanto necessario ricorrere ad una diagnosi energetica o a
un attestato di prestazione energetica (Ape). Si ricordi
anche che con uno qualunque di questi due documenti il
quorum per deliberare le opere è quello agevolato della
maggioranza degli intervenuti e di almeno un terzo dei
millesimi. Lo studio individuerà quali interventi effettuare
al fine di ottenere un risparmio di energia e, quindi, anche
economico. Dovranno altresì essere calcolati i potenziali
risparmi (energetici ed economici) successivi agli
interventi e il rapporto tra questi ed il costo necessario
per ottenerli. Gli investimenti (lavori, forniture o
servizi) saranno poi pagati in funzione del livello di
miglioramento dell’efficienza energetica stabilito
contrattualmente o di altri criteri di prestazione
energetica concordati, quali i risparmi finanziari.
Contrattualmente, quindi, una volta individuati i costi
complessivi ed il risparmio annuo, verrà determinato il
periodo contrattuale e l’importo (in relazione ai risparmi
effettivamente conseguiti) che verrà pagato ratealmente.
Ad esempio, si ipotizzi in 100 il costo iniziale annuo del
riscaldamento per il condominio. Le opere comporteranno una
spesa di 120. Successivamente ad esse, il costo annuale per
il condominio riferito al riscaldamento a seguito del
risparmio energetico, sarà di 60. Il risparmio di 40 verrà
utilizzato per pagare l’investimento in 3 anni. Si potrà
anche prevedere la restituzione in 6 anni in modo che una
parte del risparmio vada subito a vantaggio del condominio.
Lo stesso legislatore prevede che l’effettivo miglioramento
dell’efficienza energetica venga verificato e monitorato
durante l’intera durata del contratto. Questo dovrà quindi
contenere disposizioni chiare e trasparenti per
quantificazione e verifica dei risparmi garantiti
conseguiti, controlli della qualità e garanzie. Dovranno
quindi essere previste disposizioni che chiariscono la
procedura per gestire modifiche delle condizioni quadro che
incidono sul contenuto e i risultati del contratto (a titolo
esemplificativo: modifica dei prezzi dell’energia, intensità
d’uso di un impianto). Particolare attenzione dovrà essere
prestata per dettagliare gli obblighi di ciascuna delle
parti contraenti e le sanzioni in caso di inadempienza
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2015). |
CONDOMINIO:
Il creditore si può tutelare pignorando le rate ai condòmini.
Pagamenti. Una via per aggirare i limiti della riforma.
L’articolo 63,
comma 2, delle Disposizioni di attuazione del Codice civile
consente al creditore del condominio rimasto insoddisfatto
di agire nei confronti degli obbligati in regola con i
pagamenti solo dopo l’escussione degli altri condòmini.
Con la riforma, pertanto, il creditore del condominio solo
dopo aver esaurito tutte le azioni esecutive nei confronti
dei morosi –subendo le eventuali difficoltà anche
economiche connesse con il recupero dei dati nonché i tempi
e i costi dei procedimenti espropriativi– potrà rivolgere
le proprie istanze verso i virtuosi.
Ma dopo aver ottenuto il titolo giudiziale (cioè il decreto
ingiuntivo), che strade può percorrere il creditore per
veder coattivamente soddisfatto il proprio credito? Anche
alla luce del vivace dibattito dottrinale e
giurisprudenziale a livello di Tribunali suscitato dal
pignoramento del conto corrente condominiale (Reggio Emilia
16/05/2014; Milano 27/05/2014; Pescara 08/05/2014 e 17/12/2013),
volendo ricercare percorsi in grado di tutelare, in modo più
rapido e meno costoso, i crediti del fornitore, si potrebbe
ipotizzare un pignoramento presso terzi. Nel quale i terzi
pignorati siano tutti i singoli condòmini nella loro veste
di debitori del condominio per quegli importi dai medesimi
dovuti in base alla delibera di approvazione del bilancio.
In questa azione esecutiva soggetto passivo sarebbe sempre e
solo il condominio quale debitore del fornitore, posto che,
come in ogni procedimento di espropriazione presso terzi, il
terzo debitor debitoris (cioè il condòmino) mai riveste il
ruolo di parte: il fornitore non andrebbe ad aggredire
esecutivamente i singoli condòmini, bensì il credito vantato
dal condominio nei confronti di questi ultimi così come
risultante dalla delibera di approvazione del bilancio e da
corrispondersi alle scadenze in esso individuate.
Il fornitore, pertanto, avrebbe la possibilità, a seguito
dell’ordinanza di assegnazione, di “intercettare” a proprio
favore le somme dovute dai singoli al condominio a titolo di
rate condominiali evitandone così l’accredito sul conto
corrente condominiale. In forza del provvedimento di
assegnazione il fornitore, così come ogni creditore
assegnatario, si andrebbe, infatti, a sostituire al proprio
originario debitore (condominio) nella titolarità attiva del
credito al medesimo assegnato.
Con l’ordinanza di
assegnazione il credito verso il terzo (singoli condomini),
nei termini di cui all’assegnazione medesima, si
trasferirebbe quindi dal debitore esecutato (condominio) al
creditore pignorante (fornitore) con tutte le conseguenze di
legge (articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2015). |
APPALTI: Split payment, iter graduale. Le p.a. possono accantonare
l'Iva da versare entro il 16/4. Le anticipazioni sul decreto del Mef sul pagamento dell'Iva
a carico del destinatario.
Debutto soft per il meccanismo dello split payment per il
pagamento dell'Iva sulle forniture agli enti pubblici. In
fase di prima applicazione, le amministrazioni possono
limitarsi ad accantonare l'imposta addebitata dai fornitori
dal 2015, in attesa di effettuare il versamento all'erario
in un momento successivo, ma comunque entro il 16 aprile.
Ma soprattutto è stata scongiurata l'applicazione
retroattiva del meccanismo anche alle vecchie fatture non
ancora saldate al 01.01.2015: il decreto del ministero
dell'economia correggerà, infatti, la legge istitutiva.
Facciamo il punto sulle nuove disposizioni introdotte dalla
legge n. 190/2014, alla luce delle anticipazioni contenute
nel comunicato stampa di venerdì 9 gennaio del Mef.
Le disposizioni sullo split payment. Il nuovo art. 17-ter
del dpr n. 633/1972, al comma 1, stabilisce che per le
cessioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate
nei confronti dello stato e dei suoi organi, anche dotati di
personalità giuridica, degli enti pubblici territoriali e
dei loro consorzi, delle camere di commercio, degli istituti
universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti
ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi
prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di
assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza, per i
quali i suddetti enti non sono debitori d'imposta ai sensi
delle disposizioni in materia di Iva, l'imposta è in ogni
caso versata dagli enti stessi secondo modalità e termini
fissati con decreto del ministro dell'economia.
In caso di omesso o ritardato versamento, si applicano le
sanzioni dell'art. 13, dlgs n. 471/1997 e le somme dovute
vengono recuperare dal fisco con l'atto di cui all'art. 1,
comma 430, della legge n. 311/2004.
Il comma 2 esclude dalle suddette disposizioni i compensi
per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla
fonte a titolo di imposta sul reddito.
Versamento dell'Iva a carico del destinatario. In sostanza,
la particolarità introdotta dall'art. 17-ter consiste nel
porre direttamente a carico del cessionario/committente
l'obbligo di versare all'erario l'imposta evidenziata dal
fornitore nella fattura, in deroga al sistema normale
secondo cui l'Iva è riscossa dal fornitore, il quale la
versa poi all'erario al netto dell'imposta detraibile sui
propri acquisti.
Il meccanismo speciale (che dovrà essere
autorizzato dall'Ue perché rappresenta, appunto, una deroga
alle disposizioni della direttiva Iva) non interferisce,
pertanto, sulle modalità di fatturazione dell'operazione,
che rimangono quelle ordinarie, salvo l'esigenza di
specificare nella fattura che l'imposta addebitata deve
essere versata all'erario dal destinatario, ai sensi
dell'art. 17-ter.
In sede di registrazione, invece, si renderanno necessari
degli adattamenti. Il fornitore registrerà le fatture nei
registri Iva in apposita colonna o con apposita codifica,
distintamente secondo l'aliquota applicata, senza computare
però il debito d'imposta, mentre dal punto di vista
contabile, come rilevato dalla fondazione nazionale
commercialisti in una recente nota operativa, stornerà
l'imposta dal totale del credito acceso verso il cliente
contestualmente alla registrazione o con apposita scrittura
di rettifica.
L'ente destinatario registrerà normalmente la
fattura ai sensi dell'art. 25 del dpr n. 633/1972 se effettua
l'acquisto in veste di soggetto passivo dell'Iva, mentre
sotto il profilo contabile dovrà in ogni caso adattare le
rilevazioni, anche per tenere memoria del conto Iva a debito
verso l'erario. A tal fine, potrebbe tornare utile il
registro delle fatture ricevute, che gli enti pubblici sono
obbligati a istituire, a decorrere dal 01.07.2014, ai
sensi dell'art. 42 del dl 24.04.2014, n. 66.
Modalità di pagamento dell'imposta. Secondo quanto
anticipato dal comunicato stampa del Mef, il decreto in
arrivo stabilirà che il pagamento dell'imposta può essere
effettuato, a scelta dell'amministrazione:
a) con un distinto versamento per ciascuna fattura la cui
imposta è divenuta esigibile;
b) in ciascun giorno del mese, con un distinto versamento
considerando tutte le fatture per le quali l'imposta è
divenuta esigibile in tale giorno;
c) entro il giorno 16 di ciascun mese, con un versamento
cumulativo considerando tutte le fatture per le quali
l'imposta è divenuta esigibile nel mese precedente.
In attesa di leggere le disposizioni del decreto, che
dovrebbe disciplinare anche le modalità di recupero dell'Iva
risultante da eventuali note di credito ricevute dai
fornitori, si osserva che l'unico termine di versamento
esplicitamente menzionato nel comunicato riguarda l'ipotesi
sub c).
In via transitoria, inoltre, sarà stabilito che fino
all'adeguamento dei sistemi informativi relativi alla
gestione amministrativo-contabile delle amministrazioni, ma
in ogni caso non oltre il 31.03.2015, le stesse
amministrazioni possono accantonare le somme occorrenti per
il successivo versamento dell'imposta, che deve comunque
essere effettuato entro il 16.04.2015.
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Destinatari, irrilevante lo status di chi acquista i beni o
i servizi.
Le operazioni sottoposte al meccanismo speciale sono quelle
effettuate nei confronti degli enti menzionati nell'art.
17-ter, la cui elencazione corrisponde a quella fornita dal
quinto comma dell'art. 6 del dpr n. 633/1972 in relazione
all'esigibilità differita dell'Iva. È da ritenere, quindi,
che valgano, in merito all'individuazione degli enti
destinatari dello «split payment», i medesimi criteri
interpretativi forniti dall'amministrazione con riguardo al
citato quinto comma.
Si ricorda, in proposito, che con
risoluzione n. 99 del 30.07.2004 è stato precisato che
quest'ultima disposizione non si riferisce a qualsiasi ente
pubblico, ma soltanto a quelli tassativamente menzionati,
essendo peraltro una disposizione di deroga alle regole
generali e, come tale, di stretta interpretazione. In
materia di esigibilità, il comunicato del Mef anticipa che
il decreto stabilisce che sulle operazioni soggette a split
payment l'imposta diviene esigibile al momento del pagamento
oppure, su opzione dell'amministrazione acquirente, al
ricevimento della fattura.
Sempre dal punto di vista dei
destinatari, è irrilevante lo status con il quale il
soggetto pubblico acquista i beni o i servizi, ossia se
nella sua veste istituzionale (o comunque non commerciale),
oppure nell'esercizio di un'attività economica rilevante
agli effetti dell'Iva, in quanto le disposizioni dell'art.
17-ter non distinguono al riguardo.
Dal punto di vista dei fornitori, invece, l'art. 17-ter non
contiene indicazioni di carattere soggettivo, ragion per cui
il meccanismo speciale si applica alle cessioni di beni e
prestazioni di servizi rese nei confronti dei predetti enti
da tutti i soggetti passivi dell'Iva. A rigor di legge,
fatte salve eventuali interpretazioni fondate su criteri
diversi da quello letterale, lo split payment si applica
pertanto anche quando il fornitore che cede il bene o presta
il servizio a un ente ricompreso nell'elenco dell'art.
17-ter rientra, a sua volta, nell'elenco stesso.
Passando ai profili di carattere oggettivo, le disposizioni
dell'art. 17-ter si applicano a tutte le cessioni di beni e
prestazioni di servizi, con le sole eccezioni seguenti,
espressamente previste dalle disposizioni stesse:
a) operazioni per le quali il soggetto destinatario riveste
lo status di debitore dell'Iva in base alle disposizioni in
materia;
b) compensi per prestazioni di servizi assoggettati a
ritenuta Irpef.
È logico ritenere, pur in assenza di una specifica
previsione normativa, che siano comunque escluse dallo split
payment le operazioni alle quali il meccanismo non può
concretamente applicarsi, ossia le operazioni per le quali
non è prevista, per effetto di regimi d'imposta speciali, la
distinta indicazione dell'Iva nella fattura, per esempio le
cessioni di beni soggette al regime del margine, le
prestazioni delle agenzie di viaggio, le cessioni di
prodotti editoriali in regime monofase.
- Operazioni in regime di inversione contabile. L'eccezione
normativa di cui alla lettera a) sopra riportata sta a
significare che sono escluse dal meccanismo speciale dello split payment le particolari operazioni alle quali, ai sensi
degli articoli 17, sesto comma e 74 del dpr n. 633/1972,
l'imposta si applica con un altro meccanismo speciale,
quello dell'inversione contabile (o reverse charge). Per
l'applicazione di quest'ultimo meccanismo, diversamente che
per lo split payment, è però richiesto che il
cessionario/committente agisca in veste di soggetto passivo
dell'Iva.
In definitiva, dunque, quando sussistono i presupposti
oggettivi e soggettivi previsti, prevale il meccanismo
dell'inversione contabile: per esempio, l'ente pubblico che,
nell'esercizio di un'attività economica, fruisce di una
prestazione di servizi di pulizia di un edificio, applicherà
l'Iva integrando la fattura del fornitore (che in tal caso,
naturalmente, non dovrà riportare l'imposta) e registrandola
poi:
- nel registro delle fatture emesse al fine di evidenziare
il debito del tributo nella liquidazione periodica;
- nel registro degli acquisti al fine di esercitare la
detrazione della stessa imposta, se spettante.
Un dubbio si pone per gli acquisti a destinazione promiscua,
ossia quando l'ente pubblico acquista un bene o servizio,
oggettivamente sottoposto al regime dell'inversione
contabile, da utilizzare sia nella sfera istituzionale che
in quella commerciale. In tale eventualità, non infrequente
soprattutto a motivo dell'inclusione dei servizi di pulizia
degli edifici, dal 01.01.2015, tra le operazioni
sottoposte a inversione contabile, per esigenze di
semplificazione sarebbe opportuno prevedere l'applicazione
di un solo meccanismo particolare, indipendentemente
dall'incidenza dell'impiego nell'una e nell'altra finalità.
- Decorrenza. Secondo il comma 632 dell'art. 1 della legge
n. 190/2014, le disposizioni sullo split payment, nelle more
del rilascio dell'autorizzazione del consiglio Ue, si
applicano alle «operazioni per le quali l'Iva è esigibile
a partire dal 01.01.2015». Questa previsione, che
avrebbe attratto nel nuovo meccanismo anche le fatture
emesse precedentemente per le quali l'esigibilità non si è
realizzata al 31.12.2014, sarà opportunamente corretta dal
decreto in arrivo: sarà infatti precisato che le nuove
disposizioni si applicano alle fatture emesse dal
01.01.2015, la cui imposta si renda esigibile da tale data,
in modo da escludere in ogni caso le fatture emesse fino al
31.12.2014
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.01.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Inquinamento, più controlli. Nuovi adempimenti per gli
impianti soggetti ad «Aia». Con il decreto 272/2014 rafforzato il monitoraggio sulla
diffusione di sostanze pericolose.
Doppia scadenza per gli impianti sottoposti ad
autorizzazione integrata ambientale (c.d. Aia), che
dovranno, in base ad attività svolta e sostanze pericolose
coinvolte, entro il 07.04.2015 presentare alle Autorità
competenti la verifica preliminare delle loro potenzialità
di inquinamento ed entro il successivo 07.01.2016, ove
prevista, la relazione di riferimento sullo stato di qualità
di suolo ed acque sotterranee interessate.
Il calendario è dettato dal nuovo dm Minambiente 13.11.2014 n. 272, provvedimento (ufficializzato con comunicato
pubblicato sulla G.U. del 07.01.2015 n. 4, ed
immediatamente in vigore dalla stessa data, in quanto atto
«non normativo» ex dpr 1092/1985) che in attuazione della
nuova disciplina di settore introdotta dal dlgs 46/2014 nel
Dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale) reca le modalità di
redazione della citata relazione, unitamente ad una
ricognizione dei soggetti direttamente obbligati alla stessa
e di quelli tenuti, invece, alla preventiva verifica della
possibilità di contaminazione, che in caso di esito positivo
fa scattare l'altro adempimento.
I nuovi obblighi. Il dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale)
stabilisce con il suo articolo 7 la necessità di
autorizzazione integrata ambientale (rilasciata solo dietro
il rispetto di elevati standard di sicurezza) per
l'esercizio delle industrie ad alto potenziale inquinante
(individuate dagli allegati VIII e XII alla parte seconda
dello stesso Codice) e con il successivo articolo 29-ter e
seguenti l'obbligo per gli impianti coinvolti nell'utilizzo
di sostanze pericolose di elaborare e presentare anche una
relazione sullo stato di qualità dell'ambiente, delegando al
MinAmbiente le istruzioni per la sua redazione.
Il nuovo dm
272/2014 declina tale dettato legislativo, prevedendo un
doppio binario di adempimenti (dai quali sono a monte
escluse le installazioni collocate interamente in mare):
secco obbligo di elaborazione e presentazione della
relazione di riferimento per la quasi totalità degli
impianti elencati nell'allegato XII alla parte 2 del dlgs
152/2006 (ossia, a mente dell'articolo 7 dello stesso Codice
ambientale, per quelli sottoposti ad Aia di competenza
statale); obbligo di preliminare verifica della potenzialità
inquinante, invece, per le installazioni che svolgono
attività ex Allegato VIII alla parte 2, dlgs 152/2006 ma che
non risultano ricomprese anche nel citato Allegato XII del
Codice ambientale (dunque, per gli impianti sottoposti ad
Aia di competenza regionale), con annesso obbligo per gli
stessi di redigere la citata relazione solo in caso di esito
positivo della suddetta valutazione.
La verifica preliminare. La verifica preliminare
(all'eventuale relazione) imposta alle installazioni
regionali (tra cui quelle di produzione di energia,
trasformazione metalli, fabbricazione prodotti chimici,
gestione di rifiuti) è diretta a valutare la possibilità di
contaminazione del suolo e delle acque sotterranee e dovrà
essere effettuata secondo la procedura disciplinata
dall'allegato 1 al dm 272/2014, che prevede tre step:
individuazione di eventuali sostanze pericolose legate
all'attività svolta; misurazione della loro qualità e
quantità; in caso di superamento delle soglie previste dallo
stesso decreto, effettuazione della valutazione del rischio
di contaminazione.
All'esito di tale procedura, in caso di
valutazione negativa per il gestore dell'installazione sarà
sufficiente dare comunicazione della verifica all'Autorità
competente, in caso di valutazione positiva (di sussistenza
del rischio di contaminazione ambientale) scatterà invece
l'obbligo di redigere e presentare anche la citata
relazione.
La relazione di riferimento. Mentre le installazioni
sottoposte ad Aia regionale sono dunque tenute alla
relazione sulla qualità ambientale solo in caso di esito
positivo della verifica preliminare, immediatamente
obbligate all'elaborazione e presentazione della stessa
relazione sono invece a mente del nuovo dm 272/2014 le
installazioni sottoposte ad Aia statale (tra cui raffinerie,
acciaierie, grandi impianti chimici), a esclusione di quelle
costituite esclusivamente da centrali termiche ed altri
impianti di combustione con potenza termica di almeno 300 Mw
e alimentate esclusivamente a gas naturale.
La Relazione
dovrà contemplare lo stato di qualità del suolo e delle
acque sotterranee con esclusivo riferimento alla presenza
delle sostanze pericolose pertinenti ex allegato 1, dm
272/2014 e contenere almeno le informazioni previste
dall'allegato 2 allo stesso decreto (ad eccezione delle
discariche di oltre 10 Mg di rifiuti al giorno o con
capacità totale maggiore di 2.500 Mg destinate ad ospitare
residui diversi dagli inerti, per le quali si dovranno notiziare gli elementi dettati dal dlgs 36/2003).
Scadenzario. Triplice calendario per i termini finali di
presentazione di verifiche e relazioni da parte dei gestori
degli stabilimenti. Gli impianti che alla data di entrata in
vigore del dm 272/2014 (ossia, al 07.01.2015) sono già
in possesso di autorizzazione integrata ambientale dovranno
comunicare alle Autorità competenti l'esito della verifica
preliminare entro il 07.04.2015 e la relazione entro il 07.01.2016. Invece, le installazioni in attesa di rilascio
o rinnovo dell'Aia al 07.01.2015 dovranno integrare la
domanda presentata con l'esito negativo della verifica
preliminare o, ove dovuta, con la relazione (e questo quanto
prima poiché, come sottolineato dallo stesso Minambiente
nella circolare 27.10.2014 n. 22295, l'eventuale
adempimento comporterà il blocco dell'istanza).
Infine, le
altre e nuove installazioni dovranno presentare verifica
preliminare e/o relazione direttamente insieme all'istanza
di autorizzazione integrata ambientale. Le Autorità cui
presentare i citati documenti (unitamente al pagamento della
relativa tariffa istruttoria) sono in base all'articolo 7
del Codice ambientale: per gli impianti ex allegato XII,
parte 2, dlgs 152/2006 (sottoposti ad Aia di competenza
statale, e tenuti direttamente alla relazione), il Ministero
dell'ambiente; per gli impianti ex allegato VIII, parte 2,
dlgs 152/2006 ma non rientranti nell'allegato VIII dello
stesso decreto legislativo (sottoposti ad Aia di competenza
regionale, tenuti alla verifica preliminare, e in caso di
suo esito positivo alla relazione) è l'Ente individuato da
legge regionale o dalla Provincia autonoma
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Bonus su lavori e mobili a scadenza unificata. Con la legge
di Stabilità «scalino» unico al 36% dal 2016.
Ristrutturazioni. Il punto dopo la proroga delle detrazioni
al 50 e 65 per cento.
Scadenza
unificata al 31 dicembre per tutti i bonus legati ai lavori
in casa. L’articolo 1, commi 47-48 della legge di Stabilità
2015 (legge 190/2014), ha prorogato in misura potenziata al
31.12.2015 tutti i bonus fiscali in scadenza al 31.12.2014, concedendo ancora un anno di tempo per fruire
della maggiore detrazione per le ristrutturazioni edilizie,
per gli interventi di riqualificazione energetica e per
l’acquisto di mobili e elettrodomestici per arredare le case
ristrutturate.
Anche nell’ottica della semplificazione si è unificato per
tutti i bonus il termine ultimo di applicazione. Dal 01.01.2016, quindi, resterà in vigore solo la vecchia
detrazione del 36% sino a 48mila euro di spese, prevista in
modo permanente dall’articolo 16 del Tuir (Dpr 917/1986) per
gli interventi di ristrutturazione edilizia e di risparmio
energetico sugli gli edifici residenziali.
La legge di Stabilità sopprime anche la graduale riduzione
della percentuale di detrazione prevista sino al 31.12.2014 e che prevedeva, prima del ritorno alla detrazione
nella misura del 36% dal 01.01.2016, l’applicazione dei
benefici nella misura del 40% fino a 96mila euro, per le
spese di ristrutturazione edilizia sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015 e la riduzione al 50% (dal 65%) per
le spese di riqualificazione energetica.
La detrazione al 50%
La legge di Stabilità ha prorogato la detrazione Irpef
“potenziata” al 50% per il recupero edilizio delle
abitazioni, nel limite massimo di 96mila euro per unità
immobiliare, per le spese sostenute dal 01.01.2015 al
31.12.2015, relative a:
-
interventi di recupero edilizio (manutenzione ordinaria
sulle parti comuni, manutenzione straordinaria, restauro,
risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia),
nonché ulteriori interventi agevolabili (ad esempio,
eliminazione delle barriere architettoniche, misure volte a
prevenire atti illeciti di terzi);
-
acquisto di abitazioni all’interno di fabbricati interamente
ristrutturati da imprese di costruzione o ristrutturazione
immobiliare che provvedono, entro 18 mesi dal termine dei
lavori, alla successiva vendita o assegnazione
dell’immobile.
Il bonus mobili
La proroga al 31.12.2015 vale anche per la detrazione
Irpef del 50% sulle spese sostenute per l’acquisto di mobili
ed elettrodomestici, ivi compresi i grandi elettrodomestici
dotati di etichetta energetica, di classe non inferiore alla A+ (A per i forni) destinati alle abitazioni ristrutturate,
fino a una spesa massima di 10mila euro. Ai fini della
detrazione, le spese sostenute per l’acquisto di mobili
verranno considerate a prescindere dall’importo delle spese
per i lavori di ristrutturazione, come, peraltro, già
previsto per le spese sostenute fino al 31.12.2014.
Il risparmio energetico
Prorogata anche la detrazione Irpef/Ires del 65% per la
riqualificazione energetica degli edifici esistenti, per le
spese sostenute fino al 31.12.2015, anche con
riferimento ai lavori su parti comuni condominiali (o su
tutte le unità immobiliari che compongono il condominio).
In tale ambito, con riferimento agli adempimenti relativi
alla fruibilità della detrazione del 65% per il risparmio
energetico, l’articolo 12 del Dlgs 175/2014, ha eliminato
l’obbligo di inviare all’agenzia delle Entrate la
comunicazione in caso di interventi che si protraggono oltre
il periodo d’imposta. Le Entrate, nella circolare n. 31/E del
30.12.2014, hanno chiarito che la soppressione di tale
obbligo viene riconosciuta sia per i soggetti beneficiari
con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare sia per
i soggetti con periodo d'imposta non coincidente con l’anno
solare.
Inoltre, in applicazione del principio di favor rei
nelle ipotesi di omesso o erroneo invio della comunicazione
prima del 13.12.2014 (data di entrata in vigore del Dlgs 175/2014), la sanzione (da 258 euro a 2.065 euro) non è
dovuta, a condizione che, alla medesima data, non sia già
intervenuto un provvedimento definitivo di applicazione
della sanzione.
Prorogata per tutto il 2015 anche la detrazione del 65% per
interventi di messa in sicurezza statica delle abitazioni
principali e degli immobili a destinazione produttiva.
Per tutti i bonus restano ferme le attuali modalità
operative delle detrazioni, che devono essere ripartite in
10 quote annuali di pari importo e recuperate dalla
dichiarazione relativa al periodo di imposta in cui vengono
eseguiti i lavori.
La ritenuta sui bonifici
Per le imprese esecutrici dei lavori, sempre dal 01.01.2015,
incide negativamente sui flussi di cassa l’aumento, dal 4%
all’8%, della ritenuta operata dalle banche al momento
dell’accredito dei bonifici di pagamento validi per il 50% e
per il 65% delle spese agevolate, a titolo di acconto delle
imposte sul reddito liquidate definitivamente in sede di
dichiarazione dei redditi (articolo Il Sole 24 Ore del
19.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Anticorruzione. Entro il 31 piani aggiornati e dati all’Anac
sugli affidamenti.
Gli enti
locali devono adeguare entro fine mese i piani
anticorruzione e comunicare all’Anac l’avvenuta
pubblicazione dei dati sugli affidamenti di lavori,
forniture e servizi effettuati nel 2014.
Il 31 gennaio è la scadenza per due importanti adempimenti
previsti dalla legge n. 190/2012, dimostrativi della
capacità delle amministrazioni di attuare l’articolato
complesso di adempimenti definito dalla normativa a garanzia
del corretto sviluppo e della trasparenza dell’azione
amministrativa.
La definizione delle misure di prevenzione della corruzione
deve essere ricondotta al nuovo piano triennale per il
periodo 2015-2017, assumendo a riferimento non solo il piano
nazionale (anch’esso in fase di revisione), ma anche le
criticità rilevate in sede di applicazione e di utilizzo
della prima versione dello strumento, sintetizzate da ogni
ente nella relazione inviata entro la fine del 2014 all’Anac.
Le amministrazioni locali hanno la possibilità di inserire
soluzioni più adeguate per affrontare i fenomeni di
corruzione, anche sotto il profilo del contrasto a illeciti
non di natura penale, che, tuttavia, possono costituire
presupposto per la generazione di situazioni più critiche.
Nel nuovo piano, inoltre, devono essere configurate le
misure correlabili ad alcune importanti novità normative
intervenute nel frattempo, come ad esempio le comunicazioni
obbligatorie all’Autorità per le varianti nelle opere
pubbliche (articolo 37 della legge 89/2014) o l’obbligo di
procedura selettiva per l’affidamento di servizi a
cooperative sociali di tipo b (articolo 1, comma 610 della
legge 190/2014), ma anche quelle suggerite dagli
orientamenti della stessa Anac (come ad esempio la rotazione
degli incarichi in alcuni settori di attività).
Nell’elaborazione resta peraltro fondamentale il confronto,
in ciascuna amministrazione, tra il responsabile della
prevenzione e i dirigenti o responsabili di servizio, questi
ultimi chiamati ad evidenziare criticità e rischi rilevati
nell’attività di tutti i giorni.
La definizione del piano anticorruzione deve anche
considerare le particolari implicazioni organizzative
derivanti dai processi aggregativi tra i Comuni per le
funzioni fondamentali e per la gestione associata degli
appalti.
Proprio in relazione agli affidamenti di lavori, servizi e
beni le amministrazioni locali devono attestare all’Anac
entro il 31 gennaio l’avvenuta pubblicazione delle
informazioni richieste dal comma 32 dell’articolo 1 della
legge anticorruzione.
Le informazioni devono essere prodotte esplicitando non solo
la procedura e l’affidatario, ma anche le somme
effettivamente corrisposte in base all’affidamento, secondo
uno schema di sintesi che deve essere pubblicato sulla
sezione amministrazione trasparente del sito internet di
ogni ente.
Per ottimizzare il caricamento l’Autorità ha peraltro
aggiornato anche alcuni parametri tecnici, restando invece
ferme le istruzioni operative approvate nel maggio 2013
dall’allora Avcp.
La comunicazione dell’adempimento deve essere effettuata
dagli enti per mezzo di posta elettronica certificata, con
allegazione al messaggio di un modulo pdf nel quale devono
essere precisate alcune informazioni essenziali
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.01.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Videosorveglianza, per le multe non basta riprendere le
violazioni.
Non basta riprendere con le telecamere comunali le
violazioni per divieto di sosta o per accesso abusivo alla
ztl per inviare le multe al domicilio dei trasgressori. Con
questi sistemi non è infatti possibile verificare se a bordo
dei veicoli risulta presente il trasgressore con conseguente
obbligo di contestazione immediata della violazione.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
17.12.2014 n. 5932 di prot. inoltrato al comune di Ostra.
L'uso dei sistemi elettronici per il controllo della circolazione stradale
non è particolarmente gradito al dipartimento per i
trasporti e la navigazione che non manca di evidenziare le
sue perplessità alla diffusione incontrastata dei
controllori remoti del traffico peraltro ampiamente
utilizzati in tutta Europa e legittimati in Italia anche
dalla legge 689/1981.
A parere del ministero innanzitutto i
casi di contestazione differita dell'infrazione stradale
sono solo quelli elencati dall'art. 201/1-bis. O meglio
queste sono le ipotesi dove la contestazione immediata che
ordinariamente è la regola non è proprio necessaria anche se
il codice e la pratica ammettono altre ipotesi di
contestazione remota (per esempio in caso di incidente
stradale). Tra i casi specificamente esentati dall'obbligo
di contestazione, prosegue la nota, emerge il caso
dell'assenza del trasgressore al momento dell'accertamento.
Tipico il caso del veicolo in divieto di sosta o
abusivamente parcheggiato in una ztl. A parere del ministero
dei trasporti i tradizionali sistemi di videosorveglianza
non sono idonei a verificare se dentro l'abitacolo del
veicolo in divieto è presente il trasgressore e per questo
motivo non possono essere impiegati per spedire le multe per
posta al proprietario del mezzo
(articolo ItaliaOggi del 17.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ricollocazione dei dipendenti, prime falle.
Molte p.a. non tengono conto degli impiegati
provinciali in sovrannumero.
Si aprono le prime falle al sistema di ricollocazione dei
dipendenti provinciali in sovrannumero, come per altro
largamente prevedibile.
Nonostante i vincoli alle assunzioni imposti dall'articolo
1, commi 424 e 425, della legge 190/2014, una breve
navigazione in internet o l'accesso al sistema delle
Comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro rivela che
le amministrazioni pubbliche stanno interpretando in modo
piuttosto disinvolto le disposizioni normative.
Per esempio, il comune di Trani ha attivato ben quattro
avvisi di mobilità volontaria secondo le modalità ordinarie,
previste dall'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001, come
se la legge di stabilità non esistesse. Altri avvisi di
simile tenore hanno pubblicato i comuni di Pese, Conegliano,
Campiglia Marittima, insomma enti locali e di altra natura,
un po' in tutta Italia.
L'Agenzia delle dogane e dei monopoli, da parte sua, non
sembra aver fatto nulla per fermare la procedura di concorso
finalizzata all'assunzione di 49 dirigenti di seconda
fascia, avviata nel 2013 e ancora talmente lontana dalla
conclusione, che la prova preselettiva è stata rinviata ad
un avviso che verrà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, 4ª
serie speciale del 20.02.2015.
Insomma, vuoi perché le amministrazioni pubbliche diverse
dalle province non si sentono direttamente investite e
coinvolte dalla questione e dunque non hanno approfondito a
dovere, vuoi perché le disposizioni citate della legge
190/2014 non chiariscono espressamente che le mobilità
volontarie sono congelate esattamente come i nuovi concorsi
(per quanto questa conclusione sia perfettamente evidente),
vuoi ancora perché, proprio in quanto al corrente dei
vincoli, cerchino di correre per fare assunzioni in
autonomia, in tantissimi stanno bypassando le previsioni
della legge 190/2014.
I fatti mettono in evidenza come manchi un'autorità di
controllo, chiamata a verificare gli adempimenti ai vincoli.
È vero che i commi 424 e 425 della legge di Stabilità
sanzionino con la nullità le assunzioni disposte in loro
violazione. Tuttavia, pare altrettanto evidente che molte
amministrazioni contino sulla circostanza di sfuggire a
maglie di controlli in effetti non formalizzati o
costituiti, oppure pensano che risulterà difficile far
valere le nullità delle assunzioni.
Risulta, dunque, necessario che il Governo intervenga con
estrema urgenza per fermare la corsa alle assunzioni al di
fuori dei vincoli normativi o, quanto meno, per dettare con
chiarezza le modalità operative, istituendo anche un sistema
di controllo e rilevazione delle assunzioni nulle, chiarendo
che da esse discende comunque responsabilità di natura
amministrativa.
In mancanza di questo, al caos già creato dalla riforma
delle province e dalla legge 190/2014 rischia di aggiungersi
l'anarchia e la corsa degli enti meno attenti ai vincoli
alle assunzioni, che finisce per pregiudicare il buon esito
di una procedura di ricollocazione gigantesca, rivolta a
circa 20 mila lavoratori
(articolo ItaliaOggi del 17.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
1° gennaio. Edilizia, Durc a scadenza anticipata. La durata
della regolarità contributiva da 120 giorni scende a 90.
Regolarità contributiva a scadenza anticipata in edilizia.
Dal 01.01.2015, infatti, la durata del Durc emesso per i
lavori edili tra soggetti privati si è ridotta da 120 a 90
giorni dalla data di emissione. A stabilirlo il comma
8-sexies dell'art. 31 del dl n. 69/2013 convertito dalla
legge n. 98/2013.
Per regolarità contributiva s'intende la correntezza di
un'impresa in tutti i pagamenti e gli adempimenti
previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps, Inail e
casse edili per le imprese di tale settore) con riferimento
agli obblighi previsti dalla normativa vigente riferiti
all'intera situazione aziendale.
Il Durc (Documento unico di regolarità contributiva) è il
certificato che attesta tale regolarità: è unico perché
rispetto al passato, quando era necessario fare tre
richieste e ottenere altrettante certificazioni di
regolarità (una per ciascuno degli enti: Inps, Inail e casse
edili), con il Durc le imprese (e i consulenti) fanno
un'unica richiesta e ottengono un unico certificato,
peraltro in versione telematica e in un numero molto
limitato di ipotesi.
A che cosa serve.
Il Durc deve essere richiesto per: tutti i contratti
pubblici (per ogni fase: verifica dichiarazione sostitutiva,
aggiudicazione del contratto, stipula contratto, pagamento
degli stati d'avanzamento lavori o prestazioni relative a
servizi o forniture, certificato collaudo o regolare
esecuzione o verifica conformità, attestazione di regolare
esecuzione e pagamento del saldo finale e rilascio delle
concessioni per la realizzazione di opere pubbliche e gli
affidamenti con procedura negoziata); la gestione di servizi
e attività pubbliche in convenzione o concessione; i lavori
privati soggetti al rilascio della concessione edilizia o
alla Denuncia inizio attività (Dia); la fruizione di
benefici normativi e contributivi concessi da enti o
pubbliche amministrazioni diversi da Inps e Inail; il
rilascio dell'attestazione Società organismi di attestazione
(Soa); l'iscrizione all'Albo dei fornitori; finanziamenti e
sovvenzioni per realizzare investimenti previsti dalla
normativa comunitaria o da normative specifiche; la
valutazione dei lavori pubblici per i quali il committente
non è tenuto all'applicazione del Codice e del Regolamento
(lavori pubblici seguiti in proprio e non su committenza e
opere pubbliche di edilizia abitativa); l'attestazione di
qualificazione dei contraenti generali.
La validità.
Dal 02.09.2013, il Durc viene richiesto e recapitato
esclusivamente tramite Pec (Posta elettronica certificato)
agli indirizzi indicati dagli utenti nel modulo telematico
di richiesta (su internet all'indirizzo
http://www.sportellounicoprevdenziale.it/).
Dalla stessa data, inoltre, la validità del Durc è fissata a
120 giorni per tutti i tipi di certificati (contratti,
appalti, benefici ecc.), con un'unica eccezione: i lavori
edili tra soggetti privati. In tal caso, infatti, la
validità di 120 giorni è rimasta per i certificati emessi
entro il 31.12.2014; per quelli emessi dal 01.01.2015 è
scesa invece a 90 giorni
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Giro di vite sulle partecipate. Vincoli alle assunzioni,
risparmi, premi in base ai risultati.
Gli ultimi emendamenti del relatore al ddl Madia. Rinviate
le modifiche sul pubblico impiego.
Giro di vite sulle società partecipate. Sono in arrivo
paletti alle assunzioni e agli stipendi perché la parola
d'ordine sarà «contenere i costi». Ma soprattutto si
dovranno individuare «criteri di valutazione oggettivi» per
attribuire premi e incentivi che dovranno essere legati ai
risultati raggiunti.
Il decreto legislativo per il riordino delle partecipazioni
pubbliche nelle società di capitali, attuativo della delega
sulla riforma della p.a., fisserà «condizioni e limiti» per
costituire, assumere personale e mantenere partecipazioni
nelle società.
Le aziende in deficit potranno fare ricorso a piani di
rientro, ma anche finire commissariate. Perché i flussi
finanziari tra ente pubblico e società partecipate non
potranno essere infiniti, visto che si dovrà garantire «la
parità di trattamento tra imprese pubbliche e private».
Per le partecipate degli enti locali i criteri per
continuare a operare saranno ancora più restrittivi. Le
società che gestiscono servizi strumentali e funzioni
amministrative dovranno avere precisi requisiti per
mantenere l'attuale assetto di partecipazione pubblica al
capitale. I parametri da prendere in considerazione saranno
il numero dei dipendenti, il fatturato e i risultati di
gestione, intesi come raggiungimento degli obiettivi di
qualità, efficienza ed economicità.
Chi non vi rientra sarà chiamato a razionalizzare le
partecipazioni incentivando processi di aggregazione. Ma in
caso di ristrutturazione societaria e/o privatizzazione
saranno sempre garantiti i livelli occupazionali.
Per il momento si tratta solo di criteri di delega, quindi
tutto dipenderà da come verranno tradotti in norme
precettive dai decreti attuativi. Tuttavia il disegno di
realizzare «una scure» sulle società partecipate appare
evidente dagli emendamenti presentati ieri da Giorgio
Pagliari (Pd), relatore della riforma Madia al senato.
Mentre è rimandato alla prossima settimana il pacchetto di
modifiche in materia di personale, dove dovrebbero trovare
posto alcune norme sui licenziamenti degli statali. Nessuna
novità in arrivo rispetto alle regole già esistenti (il
ministro Marianna Madia ha infatti escluso che nella p.a.
serva una stretta sui licenziamenti disciplinari, visto che,
a suo dire, «le norme ci sono già e sono severe, basta solo
farle applicare», si veda ItaliaOggi di ieri), ma, ha
anticipato Pagliari, «si tratterà solo di alcuni
aggiustamenti per rendere le norme più efficaci».
Cambio di passo anche per la disciplina dei servizi di
interesse economico di carattere locale «con l'abrogazione
dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non conformi
ai principi di concorrenza». La delega al governo contenuta
nel ddl sulla riforma p.a. punta inoltre a incentivare
l'aggregazione delle attività, a introdurre una netta
distinzione tra le funzioni di regolazione e la funzione di
gestione dei servizi e, tra le altre cose, a revisionare la
disciplina dei regimi di proprietà e gestione delle reti e
degli impianti e di cessione di beni in caso di subentro.
«Le misure sulle partecipate pubbliche sono volte a ridurle
e a farne di meno», ha commentato il sottosegretario Angelo
Rughetti, che ha puntato l'attenzione soprattutto
sull'estensione alle partecipate della disciplina
pubblicistica in materia di assunzioni e approvvigionamenti.
Stretta anche sui tempi per l'autotutela amministrativa. Un
ulteriore emendamento del relatore introduce significative
modifiche alla legge 241/1990 sul procedimento amministrativo
riducendo da 24 a 18 mesi, i termini entro cui
un'amministrazione può annullare un provvedimento. Oltre il
termine di 18 mesi una p.a. potrà revocare solo i
provvedimenti amministrativi conseguiti dai cittadini sulla
base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni
mendaci per effetto di condotte che costituiscono reato.
Infine, viene confermato lo stralcio dell'art. 8 del ddl
delega che conteneva le «definizioni di pubblica
amministrazione». In un ordine del giorno, il relatore ha
spiegato che la decisione di cancellare la norma va
individuata nel fatto che l'art. 8 non consentiva di
risolvere «il problema della salvaguardia delle discipline
differenziate per soggetti giuridici compresi in una
categoria di amministrazioni pubbliche per una specifica
funzione, ma aventi sotto tutti gli altri profili natura
giuridica privata».
Il compito di circoscrivere l'ambito della pubblica
amministrazione «per dare certezze interpretative e
applicative alla futura legislazione» spetterà al governo
con un futuro provvedimento che il senato ha chiesto
all'esecutivo di emanare
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestioni
associate, prefetti con le armi spuntate.
Armi spuntate contro i piccoli comuni renitenti ad
associarsi per la gestione delle proprie funzioni
fondamentali. I commissari prefettizi difficilmente potranno
andare oltre un mero ruolo propulsivo.
La procedura di commissariamento è stata disciplinata dal
ministero dell'interno in una circolare inviata nei giorni
scorsi ai prefetti per provare a trasformare finalmente in
realtà il disegno di riordino delle mini municipalità
tracciato dalla manovra estiva 2010 (dl 78).
Come noto, l'obiettivo è quello di accorpare le
amministrazioni più piccole, ossia tutte quelle con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti (soglia che scende a
3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a comunità
montane), che dovrebbero gestire attraverso unioni o
convenzioni il proprio «core business».
Quest'ultimo include, oltre alle funzioni di «back office»
(amministrazione generale, gestione finanziaria e contabile,
controlli), anche quasi tutti compiti di «front office»,
ossia i servizi da erogare a cittadini e imprese.
Le compagini sovracomunali (unioni, ma dopo le modifiche
introdotte dalla legge 56/3014 anche convenzioni) dovrebbero
raggruppare almeno 10.000 abitanti (3.000 in montagna), ma
alcune regioni hanno previsto (come loro consentito) limiti
più bassi.
Il percorso attuativo dell'obbligo è stato caratterizzato da
numerose proroghe, a dimostrazione della difficoltà a
passare dalla teoria organizzativa alla pratica.
Ora, però, il tempo è scaduto: dal 1° gennaio, infatti, i
piccoli comuni dovrebbero aver conferito tutte le dieci
funzioni identificate come fondamentali dalla legge statale.
Ma sul territorio l'atteggiamento prevalente è ancora
l'attendismo: poche, infatti, sono le unioni già operative,
mentre in numero maggiore sono le convenzioni (più facili da
stipulare), anche se spesso sono solo sulla carta. Un caso a
parte sono le ex comunità montane, chiamate a trasformarsi
in unioni montane, raggruppando almeno tre comuni (ma questo
limite, secondo la legge 56, non si applica alle unioni già
costituite).
Per gli inadempienti, a questo punto, dovrebbe scattare
l'esercizio del potere sostitutivo statale: la circolare del
Viminale prevede, a tal fine, una preventiva diffida con la
fissazione di un termine «ponderato» seguita dall'eventuale
commissariamento ad acta per le amministrazioni locali che
ancora non si siano adeguate.
Tale strada, però, non sembra garantire il risultato, non
solo per i numeri dei comuni soggetti all'obbligo: è
difficile immaginare che i commissari possano effettivamente
sostituirsi agli amministratori. Il loro ruolo al massimo
potrà essere propulsivo.
La soluzione, invece, da tempo sollecitata dall'Anci, è
quella di introdurre dei correttivi alla normativa vigente,
che da un lato non definisce in modo chiaro le funzioni da
associare, dall'altro non prevede alcun meccanismo di
accompagnamento e di incentivo per la fase transitoria
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Province,
mobilità senza freni. Non è condizionata ai posti presso gli
uffici giudiziari. La Funzione
pubblica vuole subordinare il passaggio agli enti alle
decisioni delle p.a. statali.
Il processo di mobilità dei dipendenti delle province in
sovrannumero verso regioni e comuni non è subordinato
all'individuazione dei posti disponibili presso le
amministrazioni statali, in particolare gli uffici
giudiziari.
Secondo quanto risulta a ItaliaOggi presso gli uffici della
Funzione pubblica si starebbe facendo largo
un'interpretazione secondo la quale la mobilità dei circa 20
mila dipendenti provinciali verso gli enti locali resta
condizionata all'individuazione dei posti disponibili nei
tribunali e altri uffici dell'amministrazione della
giustizia.
Con la conseguenza di congelare le assunzioni nelle
autonomie fino al completo espletamento della procedura.
Tale tesi si fonda sull'articolo 1, comma 425, della legge
190/2014, ove si parla della ricollocazione dei dipendenti
provinciali «in via prioritaria» appunto negli uffici
giudiziari.
Tuttavia, simile chiave di lettura è da considerare
certamente erronea, in quanto basata sull'estrapolazione
dell'espressione «in via prioritaria» dal contesto della
norma. Dalla lettura della norma, risulta assolutamente
chiaro che la priorità dei trasferimenti dei dipendenti
provinciali in sovrannumero opera esclusivamente tra le
amministrazioni statali: una volta realizzato il
monitoraggio previsto dalla norma (ma basterebbe attuare
l'articolo 2, comma 13, del dl 95/2012), i dipendenti
provinciali destinati alle amministrazioni dello Stato
dovrebbero transitare con priorità presso gli uffici
statali.
Non è corretto ritenere che tale priorità travalichi i
confini delle amministrazioni statali e travolga regioni e
comuni, nei confronti dei quali è il comma 424 a regolare le
modalità della mobilità dei dipendenti provinciali in
sovrannumero, senza subordinazione alcuna ad una preventiva
ricollocazione presso le amministrazioni statali.
Del resto, se così fosse, si rischierebbe di tenere
inchiodati i comuni per lunghissimi mesi. Non c'è da
nascondersi che le amministrazioni statali porterebbero a
compimento le rilevazioni richieste dal comma 425 della
legge 190/2014 in un arco di tempo di moltissimi mesi.
Se ciò condizionasse l'attivazione delle mobilità, si
creerebbero una serie di danni notevolissimi. In primo luogo
ai dipendenti provinciali, che vedrebbero sprecati molti dei
24 mesi a disposizione per ricollocarsi. In secondo luogo,
per i comuni, che non potendo assumere per concorso, sono
costretti ad acquisire per mobilità i dipendenti provinciali
in sovrannumero, ma dovrebbero restare in stand by per
moltissimo tempo, con danno alla gestione dei servizi.
In
terzo luogo, subirebbero un doppio danno le province.
Infatti, prima lo Stato le depaupera di 1 miliardo nel 2015
(2 nel 2016 e 3 dal 2017 in poi), ma, se dovesse
condizionare l'attivazione delle mobilità all'elefantiaca
modalità operativa prevista dal comma 425, costringerebbe le
province a tenere in servizio i dipendenti in sovrannumero,
accollandosi una spesa di personale che assolutamente non
possono più sostenere.
---------------
I comuni hanno fretta di acquisire i
lavoratori provinciali. Per i
sindaci è l'unica chance per coprire le carenze di organico.
I comuni hanno voglia e fretta di acquisire i dipendenti
provinciali in sovrannumero. Le amministrazioni provinciali
sono da giorni, ormai, letteralmente prese d'assalto da
quesiti, telefonate e interlocuzioni dei sindaci, che
mostrano di voler guardare come opportunità da cogliere al
volo l'assunzione dei dipendenti provinciali. Si può
affermare che presso le amministrazioni locali sia passato
il messaggio della legge 190/2014: per gli anni 2015-2016
l'unico sistema di coprire gli organici (al netto della
possibilità di immettere in servizio i vincitori dei
concorsi tratti da graduatorie vigenti o approvate
all'01/01/2015) è reclutare i dipendenti provinciali in
sovrannumero.
I sindaci, nonostante i vincoli imposti dalla
norma tali da ingabbiare fortemente l'autonomia pur
costituzionalmente riconosciuta ai comuni, sono molto
interessati alle opportunità comunque offerte. Fanno molto
gola, ad esempio, tra i dipendenti provinciali che con molta
probabilità potrebbero finire in sovrannumero gli agenti dei
corpi di polizia provinciale. Infatti, i sindaci potrebbero
rafforzare la dotazione degli agenti potendo andare a colpo
sicuro, senza affrontare le fatiche legata alla formazione
che richiede un'attività molto specialistica.
Ovviamente, la
gran parte dei dipendenti provinciali in sovrannumero avrà
profili professionali di carattere amministrativo: tali
figure, tuttavia, sono comunque necessarie ai comuni e anche
in questo caso i sindaci potrebbero contare sull'esperienza
professionale di lavoratori già a conoscenza delle regole
generali di funzionamento di una macchina particolare qual è
l'ente locale.
Difficilmente, dunque, i sindaci metteranno
in piedi pratiche ostruzionistiche alle disposizioni
dell'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014. Semmai, al
contrario, hanno molta fretta. Dovendo rinunciare ad
assunzioni per mobilità volontaria e alla predisposizione di
concorsi, hanno tutto l'interesse a che il processo del
trasferimento dei dipendenti provinciali sia gestito nel
modo più celere possibile, per poter effettuare una
programmazione delle assunzioni credibile e seria, ma
soprattutto coprire i posti vacanti dei comuni quanto prima.
Sarà, dunque, fondamentale che le province collochino al più
presto i propri dipendenti negli elenchi nominativi dei
soprannumerari, come richiesto dall'articolo 2, comma 13,
del dl 95/2012 e che il ministro della funzione pubblica
approvi il decreto previsto dall'articolo 30, comma 2, del dlgs 165/2001, contenente i criteri per i procedimenti di
mobilità, così da permettere al sistema degli enti locali di
fruire, quanto meno, di una razionalizzazione interna
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Statali,
c'è sempre il reintegro. Niente indennizzo per i
licenziamenti disciplinari illegittimi.
Madia: non servono nuove norme nella delega p.a.,
basta applicare quelle che ci sono.
In caso di licenziamento disciplinare
illegittimo nella p.a. la regola generale sarà sempre il
reintegro nel posto di lavoro. Il pubblico impiego
continuerà dunque ad avere uno status privilegiato rispetto
al lavoro privato per cui il dlgs attuativo del Jobs act
(legge delega n. 183/2014) prevede di norma il solo
indennizzo economico con l'unica eccezione dell'ipotesi in
cui il lavoratore riesca a dimostrare in giudizio
«l'insussistenza del fatto contestato».
Solo in questo caso nel privato si avrà ancora diritto al
reintegro.
Il chiarimento è arrivato ieri direttamente dal ministro
della funzione pubblica, Marianna Madia che ha parlato in
commissione affari costituzionali del senato dove è in corso
l'esame della delega sulla riforma della p.a.
I dipendenti pubblici potranno quindi continuare a
beneficiare della cosiddetta «tutela reale» (il
reintegro sul posto di lavoro). Anche perché, ha spiegato il
ministro, «tra lavoro pubblico e privato ci sono delle
differenze oggettive» e gli indennizzi verrebbero pagati
«con i soldi di tutti», mentre nel privato i costi
sono a carico degli imprenditori.
Il ministro ha quindi confermato la volontà del governo di
non introdurre nessuna norma restrittiva in materia di
licenziamenti nella legge delega che ha ripreso l'iter in
commissione dopo lo stop reso necessario per velocizzare i
lavori sulla riforma della legge elettorale. Oggi scade il
termine per depositare gli emendamenti che il relatore
Giorgio Pagliari (Pd) concorderà col governo. Ma, come
annunciato, non ci saranno novità sui licenziamenti. Le
norme, infatti, secondo l'esecutivo ci sono già. Basta solo
applicarle.
E la via da seguire è come sempre la semplificazione. Dei
procedimenti disciplinari, così come di quelli in materia di
valutazione. «Nell'ambito dei licenziamenti disciplinari»,
ha chiarito il numero uno di palazzo Vidoni, «la
normativa Brunetta è già dura e prevede lo scarso rendimento
come criterio per la licenziabilità».
Il relatore ha confermato la volontà del governo di andare
avanti sul ruolo unico della dirigenza pubblica previsto
dall'articolo 10 della delega che dunque non dovrebbe subire
sconvolgimenti nel suo impianto generale. Novità potrebbero
invece arrivare in materia di segretari comunali che la
delega punta a eliminare e a far confluire in un'apposita
sezione a esaurimento del ruolo dei dirigenti degli enti
locali (si veda ItaliaOggi del 9/1/2015) (articolo
ItaliaOggi del 15.01.2015). |
APPALTI:
Trasparenza appalti, invio comunicazioni entro il
31/1.
Entro il 31 gennaio le p.a. dovranno inviare all'Autorità
nazionale anti corruzione la comunicazione di avvenuto
adempimento degli obblighi di trasparenza sugli appalti;
saranno oggetto dell'operazione di trasparenza, che
riguarderà anche i soggetti affidatari dei contratti e
l'importo dei contratti, tutti gli appalti di lavori,
forniture e servizi affidati nel 2014, di qualsiasi importo.
È quanto chiede a tutte le stazioni appaltanti l'Anac,
presieduta da Raffaele Cantone, che ha diramato un
comunicato relativo agli adempimenti previsti dall'articolo
1, comma 32, della legge 190/2012 (la c.d. legge Severino)
per l'anno 2015. Le stazioni appaltanti dovranno quindi
materialmente trasmettere all'Autorità, entro il 31.01.2015,
esclusivamente mediante Posta elettronica certificata
all'indirizzo comunicazioni@pec.avcp.it, un messaggio
attestante l'avvenuto adempimento di pubblicazione delle
informazioni, con contestuale indicazione in un modulo pdf
predisposto dall'Anac, del codice fiscale della stazione
appaltante e dell'Url.
Inoltre le stesse stazioni appaltanti dovranno pubblicare
sul proprio sito web istituzionale le informazioni sui
contratti affidati secondo la struttura e le modalità
definite dall'Autorità. Nel comunicato si dà anche conto che
l'Anac ha provveduto ad aggiornare le specifiche tecniche
per la pubblicazione dei dati, il modulo pdf per la
dichiarazione di adempimento e le Faq di tipo tecnico.
Sarà poi l'Anac, a sua volta, a pubblicare le informazioni
ricevute nel proprio sito web, in una sezione liberamente
consultabile da tutti i cittadini, catalogate in base alla
tipologia di stazione appaltante e per regione. Nel merito
rimangono invariate le indicazioni operative date in
precedenza dall'Avcp nella deliberazione n. 26 del
22.05.2013, nei comunicati del presidente del 22 maggio e
del 13.06.2013 e nella documentazione pubblicata sul sito
dell'Autorità.
A tale riguardo le stazioni appaltanti devono provvedere a
pubblicare nei propri siti web istituzionali i seguenti
dati: il Cig (codice identificativo gara), la struttura
responsabile del procedimento di scelta del contraente,
l'oggetto del bando, la procedura di scelta del contraente,
l'elenco degli operatori invitati a presentare offerte; in
quest'ultimo caso l'Anac precisa che devono essere indicati
i dati di tutti i partecipanti in caso di procedura aperta e
di quelli invitati a seguito di procedura ristretta o
negoziata.
Inoltre nel sito web devono essere riportate anche le
indicazioni relative all'aggiudicatario, all'importo di
aggiudicazione, ai tempi di completamento dell'opera, del
servizio o della fornitura, nonché all'importo delle somme
liquidate.
Entro il 31.01.2015, per quel che riguarda i contratti
affidati nel 2014, le informazioni, relativamente all'anno
precedente devono essere pubblicate in tabelle riassuntive
rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard
aperto che consenta di analizzare e rielaborare, anche a
fini statistici, i dati informatici (articolo
ItaliaOggi del 15.01.2015). |
APPALTI:
Opere, iter semplificati e in tempi ridotti.
Semplificazione delle fasi di realizzazione di un'opera
pubblica e riduzione dei tempi amministrativi; divieto di
deroghe al nuovo codice dei contratti pubblici; superamento
del sistema di verifica dell'Avcpass a favore di un accesso
diretto alle banche dati; valorizzazione della fase
progettuale per contenere le varianti.
Sono queste alcune delle indicazioni espresse dalla
Conferenza delle regioni e delle province autonome nel
parere, reso pubblico in questi ultimi giorni, sul disegno
di legge delega in materia di appalti pubblici che dovrà
recepire nel nostro ordinamento le nuove direttive appalti
n. 23, 24 e 24 del 2014, attualmente all'esame del senato.
Nel parere si esprime «forte apprezzamento per la
previsione di un nuovo testo normativo unitario per gli
appalti e per le concessioni, che si spera abrogherà le
numerose norme extravaganti rispetto all'attuale codice dei
contratti pubblici». Per province autonome e regioni,
infatti, il settore patisce un quadro normativo in cui molte
«norme si sono stratificate nel corso del tempo»
finendo per costituire un «fattore di disorientamento e
di considerevole complicazione procedimentale».
Il primo principio da seguire viene individuato nella
semplificazione della materia, attraverso sia il recepimento
delle direttive, sia nella armonizzazione delle restanti
norme anche di livello regolamentare vigenti all'interno
dell'attuale e complesso quadro normativo. Questa opera di
codificazione, in un nuovo testo unico che sostituirà
l'attuale dlgs 163/2006, di tutte le norme vigenti in
materia «sarà un prezioso fattore di semplificazione,
nonché un importante strumento di accelerazione delle
procedure per l'affidamento dei contratti e di deflazione
del contenzioso giurisdizionale».
Dovrà però trattarsi di un testo unico non soltanto
compilativo, ma anche «innovativo», con disposizioni
valide sia per i contratti di rilevanza comunitaria, sia per
quelli di importo inferiore alla soglia di applicazione
delle direttive europee e per queste ultime sarà necessario
procedere a una «radicale semplificazione, pur nel
rispetto dei principi Ue del Trattato» e a una forte
riduzione dei tempi amministrativi. Al di là delle
osservazioni di metodo, il parere afferma anche la necessità
di modificare e integrare i criteri di delega, ad esempio
con riguardo alla fase di verifica dei concorrenti; in
questo caso il parere punta il dito contro il sistema
Avcpass; in particolare si chiede il superamento
dell'attuale sistema di «intermediazione» creato in
attuazione delle norme istitutive della Banca dati nazionale
dei contratti pubblici, a favore di «strumenti che
favoriscano l'accesso telematico diretto alle banche dati».
Per evitare o almeno contenere il fenomeno delle varianti il
parere evidenzia l'opportunità di procedere alla «introduzione
di misure volte a valorizzare la fase della progettazione».
Infine si esprime anche una preoccupazione rispetto al
processo di aggregazione della domanda: occorre tutelare
l'accesso alle gare per le piccole e medie imprese anche
quando gli importi degli affidamenti saranno necessariamente
molto elevati (si tratta del tema della suddivisione in
lotti, già affrontato nelle direttive Ue) (articolo
ItaliaOggi del 15.01.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Senza
gestione associata Comuni da commissariare. Autonomie.
Circolare del Viminale sull’obbligo per 6mila enti.
Prima una diffida, con un termine «ponderato», e poi il
commissariamento per le amministrazioni locali che non si
adeguano. È la procedura che il ministero dell’Interno
chiede di adottare a tutte le Prefetture per rendere
effettivi i nuovi obblighi di gestione associata delle
funzioni fondamentali nei Comuni fino a 5mila abitanti
(3mila negli enti che appartengono a Comunità montane),
previsti dal lontano 2010 ma più volte ritoccati ed entrati
a regime solo il 1° gennaio scorso.
Con la
nota 12.01.2015 n. 323 di prot. inviata ai
prefetti, il Viminale imprime un salto di qualità ai
controlli, finora solo abbozzati a macchia di leopardo sul
territorio, sull’obbligo di alleanze fra i circa 6mila
Comuni sotto i 3mila o 5mila abitanti per lo svolgimento
delle loro attività più importanti. Dal 1° gennaio scorso,
infatti, questi enti avrebbero dovuto unirsi fra loro per
gestire il bilancio e organizzare i servizi pubblici, per il
Catasto e i servizi sociali, per la pianificazione
urbanistica e l’edilizia scolastica, per la protezione
civile e la polizia locale.
Questo pacchetto, da cui restano esclusi solo l’anagrafe e
lo stato civile, dovrebbe essere affidato a Unioni che
raggruppino almeno tre Comuni e 10mila abitanti (a meno che
la Regione indichi un limite diverso, ma quasi nessuno l’ha
fatto), oppure a convenzioni di durata almeno triennale, ma
fra le amministrazioni locali le resistenze e i problemi
applicativi stanno avendo la meglio, al punto che non più
tardi di martedì la Consulta piccoli Comuni dell’Anci ha
chiesto al Governo di rivedere le norme perché non
funzionano.
Se queste sono le premesse, è ovvio che l’attuazione sul
territorio sia tutt’altro che lineare, e ora il ministero
prova a evitare il rischio più evidente: quello cioè che gli
obblighi di gestione associata, introdotti per ridurre la
spesa pubblica e aumentarne l’efficienza, passino sotto
silenzio, senza controlli puntuali che ne spingano
l’applicazione effettiva. Questo rischio non è teorico,
perché si è verificato puntualmente nel corso delle prime
scadenze fissate dalle leggi sulla riorganizzazione, che
chiedevano ai piccoli Comuni di gestire in forma associata
almeno tre funzioni fondamentali entro il 01.01.2013 e altre
tre entro il 30 giugno scorso. Con la norma a regime, il
quadro però cambia.
I controlli sono necessari, ricorda la circolare del
Viminale, anche perché gli obblighi di gestione associata
servono ad «assicurare il coordinamento della finanza
pubblica», formula che viene usata nelle leggi per
rafforzare i tagli ed evitare che cadano nella piena
autonomia degli enti territoriali (il coordinamento della
finanza pubblica è funzione fondamentale dello Stato secondo
l’articolo 117 della Costituzione).
Di qui il doppio passaggio indicato dal Viminale, che chiede
prima la diffida e poi l’eventuale commissariamento per chi
non si adegua. Tutto chiaro, quindi? Non proprio, perché i
problemi organizzativi lamentati dai Comuni non sono campati
per aria, e soprattutto perché le stesse norme disegnano un
quadro parecchio difficile da controllare. Al di là dei
territori ad Autonomia speciale, dove commissari e
rappresentanti di Governo devono prima verificare che la
Regione abbia scritto le proprie regole sugli obblighi di
gestione associata perché la clausola di salvaguardia rende
inapplicabili in quei casi le norme nazionali, anche dove lo
Statuto è ordinario la verifica non è semplice.
Oltre all’Unione, infatti, i Comuni possono scegliere la via
più flessibile della convenzione, che non ha limiti
demografici minimi da rispettare (l’unico vincolo è la
durata almeno triennale) e soprattutto può essere a
geometria variabile. Il Comune A può convenzionarsi con il
Comune B per la gestione di una funzione e con il Comune C
per lo svolgimento di un’altra funzione, creando un reticolo
di alleanze che nessuna Prefettura potrà verificare davvero
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.01.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La p.a. dice addio alla carta. I documenti
dovranno essere conservati in formato digitale. In G.U. dpcm
che fa partire il conto alla rovescia. Il passaggio
definitivo entro settembre 2016.
La pubblica amministrazione si prepara a dire addio alla
carta. Partirà, infatti, il prossimo febbraio il conto alla
rovescia lungo 18 mesi durante il quale il passaggio al
digitale dovrà essere completato. Entro settembre 2016,
quindi, la p.a., comprese le società partecipate e i
privati, dovranno passare al sistema di gestione informatica
dei documenti.
A tracciare la strada e a dare avvio all'ultimo tassello per
l'applicazione del Codice dell'amministrazione digitale, il
dpcm del 13.11.2014, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 8
del 12.01.2015 recante le regole tecniche in materia di
formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione
e validazione temporale dei documenti informatici nonché di
formazione e conservazione dei documenti informatici delle
pubbliche amministrazioni.
Nel dettaglio, il dpcm stabilisce le modalità, uguali in
tutto il paese, con le quali il sia la p.a. sia le
partecipate, sia i privati potranno scrivere, modificare e
riprodurre un file con valore legale, un certificato o un
qualsiasi altro atto amministrativo. Esigenza che nasce
proprio dal Cad, in vigore ora mai da nove anni, «che
stabilisce come», ha sottolineato Maria Pia Giovannini,
dirigente Agid (Agenzia per l'Italia digitale), «gli atti
formati dalle pubbliche amministrazioni con strumenti
informatici, nonché i dati e i documenti informatici
detenuti dalle stesse, costituiscono informazione primaria
ed originale da cui è possibile effettuare, su diversi o
identici tipi di supporto, duplicazioni e copie per gli usi
consentiti dalla legge».
I passaggi.
Affinché un documento informatico possa avere valore legale
devono prima essere portati a termine tutti i passaggi
dell'operazione previsti dall'art. 3 del dpcm. Primo fra
tutti la sua formazione che può avvenire mediante: redazione
con apposito software, acquisizione diretta da supporto
informatico, registrazioni risultanti da transazioni
informatiche, generazione o raggruppamento di informazioni
provenienti da più banche dati.
Il passaggio successivo è, poi, l'assunzione della
caratteristica di immodificabilità «affinché», si legge
nell'art. 3, «ne sia garantita la staticità nella fase di
conservazione». Nel corso del terzo passaggio, poi, il
documento viene memorizzato nel sistema di gestione
informatica dei documenti o di conservazione.
A fare da perno all'intero processo di formazione, la
caratteristica di immodificabilità. Nel caso di redazione
del documento tramite software la caratteristica di
immodificabilità è, infatti, data dal rispetto dei requisiti
di: firma digitale, validazione temporale, trasferimento a
terzi tramite Pec, memorizzazione su sistemi di gestione
documentale che adottino idonee politiche di sicurezza e
versamento ad un sistema di conservazione.
In caso di documenti frutto, invece, di registrazioni
risultanti da transazioni informatiche o generazione o
raggruppamento di informazioni proventi da più banche dati
la garanzia di immodificabilità è data dall'applicazione di
misure per la protezione dell'integrità delle basi di dati o
dalla produzione di una estrazione statica dei dati e il
trasferimento della stessa nel sistema di conservazione.
Regole tassative, inoltre, anche per la formazione di copia
per immagini di documenti. La duplicazione è, infatti,
possibile solo mediante processi e strumenti che assicurino
che il documento informatico abbia contenuto e forma
identici a quelli del documento.
Documento amministrativo informatico.
A carico della p.a., entro 18 mesi, formare gli originali
dei propri documenti. Per arrivare al documento
amministrativo informatico completo, però, dovranno essere
rispettati tutti i passaggi previsti dall'art. 3 del dpcm.
In questo caso, inoltre, le caratteristiche di
immodificabilità e di integrità del documento saranno
garantite anche grazie alla sua registrazione nel registro
di protocollo, negli ulteriori registri, nei repertori,
negli albi, negli elenchi, negli archivi o nelle raccolte
dati contenute nel sistema di gestione informatica dei
documenti concernente stati, qualità personali e fatti già
realizzati dalle amministrazioni (articolo
ItaliaOggi del 14.01.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Pa,
addio carta da settembre 2016. Pronte le regole tecniche:
definito ogni passaggio fino al documento immodificabile.
Burocrazia e utenti. In Gazzetta il Dpcm che conclude l’iter
avviato nove anni fa con il Codice dell’amministrazione
digitale.
Sono pronte le
regole tecniche sui documenti informatici: con la
pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale n. 8 del 12 gennaio
scorso, del decreto del presidente del Consiglio dei
ministri datato 13.11.2014, si è infatti completata
l’attività normativa necessaria alla completa attuazione del
Codice dell’amministrazione digitale. La gestione totalmente
dematerializzata dei documenti, compresi quelli delle
pubbliche amministrazioni, sin dalla fase della loro
generazione, è ora possibile.
Il decreto rappresenta l’ultimo e atteso tassello per
garantire lo sviluppo digitale del Paese, sempre più al
centro delle attenzioni del Governo sia con i provvedimenti
adottati negli ultimi mesi, tra cui i due decreti datati
entrambi 03.12.2013 per la conservazione elettronica e il
protocollo informatico, ma anche alla luce dell’imminente
estensione a tutte le pubbliche amministrazioni, con
decorrenza 31.03.2015, dell’obbligo di fatturazione
elettronica. Senza dimenticare l’avvio dal prossimo mese di
aprile dello Spid, il sistema pubblico di identità digitale,
che consentirà l’accesso in sicurezza a tutti i siti web che
erogano servizi online.
Ebbene le regole tecniche sul documento informatico assumono
un’importanza fondamentale nella prospettiva di
dematerializzazione e semplificazione, individuando e
disciplinando le caratteristiche e le procedure di
formazione e chiusura del documento informatico, compreso
quello amministrativo, ai fini del successivo trasferimento
nel sistema di conservazione elettronica ove richiesto dalla
natura e dalla tipologia dell’atto. Inoltre, sono chiarite
le regole per la generazione delle copie per immagine di un
documento analogico, per i documenti informatici e per le
copie ed estratti informatici di documenti informatici.
Queste ultime disposizioni rilevano anche per la
dematerializzazione di documenti e scritture analogici
rilevanti a fini tributari e permettono l’attuazione
dell’articolo 4 del decreto ministeriale del 17.06.2014. Le
regole saranno operative dal prossimo 11 febbraio, e cioè
dal trentesimo giorno successivo alla pubblicazione del
decreto, mentre le pubbliche amministrazioni dovranno
adeguarsi entro e non oltre agosto 2016. Decorso tale
termine, le pubbliche amministrazioni sono obbligate a
gestire documenti informatici.
Il documento è informatico non solo se redatto e formato con
idonei applicativi software ma anche se risulta
dall’acquisizione della copia per immagine di un documento
analogico o della copia informatica di un documento
analogico. La registrazione informatica di transazioni o la
presentazione telematica di dati attraverso moduli e
formulari così come la generazione o il raggruppamento di un
insieme di dati provenienti da una o più basi dati
costituiscono ulteriori modalità di formazione del documento
informatico. Analogamente il documento è informatico se
ricevuto per via telematica o su supporto informatico. Il
documento informatico va poi memorizzato in un sistema di
gestione informatica dei documenti o di conservazione.
Una volta formato, il documento deve essere chiuso
attraverso l’utilizzo di processi o strumenti informatici al
fine di renderlo immodificabile durante le fasi di tenuta,
accesso e conservazione. L’immodificabilità di un documento
informatico redatto digitalmente, e quindi la sua chiusura,
viene ottenuta con la sua sottoscrizione con firma digitale
o con firma elettronica qualificata da parte dell’autore,
l’apposizione di una validazione temporale, il trasferimento
a soggetti terzi con posta elettronica certificata con
ricevuta completa, la memorizzazione su sistemi di gestione
documentale con politiche di sicurezza o il versamento a un
sistema di conservazione da parte del gestore.
Per il documento informatico ricevuto telematicamente oppure
risultante dall’acquisizione di un analogico la chiusura
coincide invece con la memorizzazione, da parte del gestore,
nel sistema di gestione informatica dei documenti o nel
sistema di conservazione. Mentre per il documento che deriva
dalla registrazione di transazioni informatiche o
dall’acquisizione telematica di dati, la chiusura si ha al
momento della registrazione dell’esito dell’operazione con
misure per la protezione dell’integrità delle basi dati e
per la produzione e conservazione dei log di sistema.
Alla chiusura del documento informatico deve essere in ogni
caso associato un riferimento temporale e i metadati minimi
generati durante la formazione quali l’identificativo
univoco e persistente, la data di chiusura, l’oggetto, il
soggetto che ha formato il documento, l’eventuale
destinatario e l’impronta del documento informatico
(articolo
Il Sole 24 Ore del 14.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Catasto,
partono le commissioni. Decreto in «Gazzetta»: in vigore dal
28 gennaio le regole per nomine e funzioni.
Delega fiscale. Gli organi devono validare le funzioni
statistiche che formeranno i nuovi valori immobiliari ai
fini delle imposte.
Ci sono voluti solo
due mesi per percorre i circa 12 chilometri che separano
Palazzo Chigi dal poligrafico dello Stato. Era il 10
novembre dello scorso anno quando, dopo un estenuante ping
pong tra commissioni parlamentari e Governo, veniva
finalmente approvato il decreto legislativo che definisce
compiti e composizione delle commissioni censuarie, gli
organi indispensabili per far la riforma del catasto.
In concreto, dalla prima bozza presentata dal Governo alla
mini bicamerale che avrebbe dovuto accelerare i tempi
dell’esame parlamentare, all’entrata in vigore del decreto
legislativo 198/2014 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale di
ieri)?ci sono voluti più di sette mesi. E dieci dall’entrata
in vigore della delega fiscale. Un bel risultato,
considerando che si trattava di una delle norme di
attuazione meno complesse.
Questo primo decreto, l'unico già approvato per la riforma
del catasto, ridefinisce le competenze e il funzionamento
delle commissioni provinciali e centrale, e ne modifica la
composizione. In particolare, tra i sei membri ci saranno
due rappresentanti delle Entrate, uno degli enti locali, tre
di professionisti, tecnici, docenti qualificati ed esperti
di statistica e di econometria, indicati da Ordini e
associazioni di categoria.
Le commissioni censuarie avevano funzioni importanti anche
prima ma di fatto, a causa del blocco delle nomine che
avevano interessato la commissione censuaria centrale, e
molte provinciali, da alcuni anni, aveva perso ormai di
significato.
Ora, invece, le commissioni, che non a caso sono state
oggetto del primo dei decreti legislativi dedicati alla
riforma del catasto (uno dei cardini della delega fiscale),
torneranno a funzionare. A livello locale, le nomine dei
presidenti delle commissioni e dei membri e del presidente
delle sezioni passeranno dal presidente del Tribunale
locale. I membri, in particolare (effettivi e supplenti),
saranno il risultato di una scelta tra i nomi proposti da
associazioni di categoria e ordini professionali (e
designati dal prefetto), dall’agenzia delle Entrate e dall'Anci.
In particolare, i ritardi sono da attribuire proprio ai
tentativi del Governo di non garantire la presenza delle
associazioni di categoria nelle commissioni locali e
centrale, affermata invece con forza dalle commissioni
parlamentari e inserita infine nel testo del decreto.
Per la commissione centrale, invece, il presidente sarà
nominato con Dpr, su proposta decreto del ministro
dell’Economia e previa deliberazione del Consiglio dei
ministri.
La nascita delle commissioni, a questo punto, viene
subordinata a un decreto d’insediamento formato dal
direttore dell’agenzia delle Entrate entro un anno
dall’entrata in vigore del decreto, e permetterà, da una
parte, di riprendere le attività di gestione delle revisioni
dei quadri tariffari estimali (dalle tariffe, che saranno a
metro quadrato, dipenderanno le rendite e i valori su cui
calcolare le tasse) e, soprattutto, di validazione degli
algoritmi che definiranno questi valori e rendite unità per
unità. Il decreto, quindi, è legato a doppio filo con quello
sulle «funzioni statistiche» in modo che la macchina possa
davvero partire.
Di questo secondo decreto (in corso di elaborazione da parte
delle Entrate, si veda il Sole 24 Ore del 4 gennaio scorso)
i contenuti sono centrati soprattutto sull’algoritmo da
applicare alle unità immobiliari, partendo da valori medi
che saranno determinati con un’approssimazione territoriale
molto ampia. «Auspichiamo ora -aggiunge Sforza Fogliani- che
sul secondo decreto legislativo, ormai in fase di
emanazione, si apra una consultazione con la rappresentanza
dei contribuenti così che non si faccia nuovamente carico al
solo Parlamento di garantire il rispetto dei principi di
trasparenza e di contraddittorio tra le parti interessate
stabiliti dalla legge delega»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 14.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti ad hoc nei mini-enti. Piccoli comuni, si
va verso la revisione della centrale unica.
Apertura del ministro Lanzetta ai sindaci. L'Iva sul
pellet potrebbe tornare al 10%.
Si va verso la revisione, con «deroghe
per piccoli comuni», delle norme sull'obbligo di ricorrere
alle centrali uniche di committenza (per beni, forniture e
gare). E, quanto al rincaro dell'Iva sul pellet (dal 10 al
22%), inserito nella legge di stabilità 2015, il governo
«sta studiando una via per il rientro» dal contestato
aumento del prezzo del combustibile.
Parola di Maria Carmela Lanzetta, ministro per gli affari
regionali, che ha partecipato alla giornata di mobilitazione
promossa ieri, a Roma, alla camera dei deputati,
dall'intergruppo parlamentare per lo sviluppo della
montagna. E ha replicato, con timide aperture e rimandi
all'azione di altri dicasteri, alle vivaci sollecitazioni di
circa 300 sindaci di amministrazioni situate dalle Alpi agli
Appennini, affinché vengano sciolti alcuni nodi delicati.
All'idea di un restyling delle regole sulle centrali uniche
degli appalti, finalizzate al contenimento della spesa, la
rappresentante dell'esecutivo ha affiancato una valutazione
(senza soluzione) in merito al pagamento dell'Imu sui
terreni agricoli: «Non vi do risposte», ha dichiarato
davanti alla platea di primi cittadini, perché «ci stiamo
lavorando, di concerto con il ministero dell'economia e
delle finanze, ma sono consapevole che si tratta di un
problema enorme che va affrontato in tempi brevi».
Immediata la replica di Enrico Borghi (Pd), alla guida
dell'intergruppo che, partendo dal presupposto che sulla
tassa si esige, a questo punto, «un provvedimento decisivo»,
ha evidenziato a ItaliaOggi che imporre l'Imu agricola «è
stato un errore, da risolvere il prima possibile con uno
stanziamento che sterilizzi quanto dovuto per il 2014».
Mentre l'intera questione è giusto venga affrontata
«all'interno del dibattito sulla local tax, tenendo ben
presenti criteri di omogeneità sul fronte del trattamento
fiscale degli immobili»
Lanzetta ha assicurato che c'è «attenzione istituzionale»
verso il territorio montano, in particolare per zone che
presentano problemi di dissesto idrogeologico: da un lato,
pertanto, ha garantito che le iniziative per compensare il
balzo al 22% dell'Iva sul pellet sono sul tavolo del
dicastero di via XX settembre, dall'altro è entrata nel
merito della riduzione della consegna di lettere, pacchi e
del pagamento di bollettini (il ridimensionamento del
servizio è previsto dal piano industriale di Poste italiane
per il prossimo triennio, tuttavia il 22 dicembre l'Aula di
Montecitorio ha approvato un ordine del giorno del
centrosinistra per chiedere garanzie sull'attività in tutti
i comuni, compresi quelli in aree a bassa capacità di
utenza, ndr), sostenendo che vi è un «prioritario l'impegno
del governo» sulla strada della «riorganizzazione e
digitalizzazione».
Sul finire dell'evento, i riflettori si sono indirizzati
sulla proposta di legge sui piccoli comuni (C 65), primi
firmatari lo stesso Borghi ed Ermete Realacci (Pd), chiamata
in causa da Serena Pellegrino (Sel) che ne ha invocato la
calendarizzazione in assemblea, e ha chiesto di evitare «il
fallimento» delle amministrazioni di minori dimensioni «già
strangolate dal patto di stabilità» (articolo
ItaliaOggi del 13.01.2015). |
APPALTI: P.a.,
i fornitori devono indicare l'Iva in fattura e poi
stornarla. Nota della fondazione dei
commercialisti sullo split payment.
Per le operazioni fatturate dal 01.01.2015 agli enti
pubblici, soggetti al nuovo meccanismo dello split payment,
i fornitori dovranno indicare l'Iva nella fattura,
registrarla regolarmente nella contabilità e poi stornarla,
contestualmente o con apposita scrittura, dal credito verso
il cliente.
È quanto spiega nella
nota operativa gennaio 2015 sulle nuove
disposizioni dell'art. 17-ter del dpr n. 633/1972, diffusa
ieri dalla Fondazione nazionale commercialisti, nella quale
si dà conto di alcune problematiche e delle soluzioni in
arrivo, anticipate dal ministero dell'economia con il
comunicato stampa del 09.01.2015 (si veda ItaliaOggi di
sabato scorso).
Ambito soggettivo
Il citato articolo 17-ter, introdotto dalla legge n.
190/2014, stabilisce che per le cessioni di beni e per le
prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello stato
e dei suoi organi, anche dotati di personalità giuridica,
degli enti pubblici territoriali e dei loro consorzi, delle
camere di commercio, degli istituti universitari, delle
aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti
pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere
scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza
e di quelli di previdenza, per i quali i suddetti cessionari
o committenti non sono debitori d'imposta ai sensi delle
disposizioni in materia di Iva, l'imposta è in ogni caso
versata dagli stessi cessionari/committenti, secondo
modalità e termini da fissare con decreto ministeriale.
Al riguardo, la fondazione si chiede se l'elencazione sia
tassativa o sia suscettibile di estensione ad altri
soggetti, propendendo per la prima soluzione alla luce dei
chiarimenti forniti dall'amministrazione finanziaria in
merito all'identica elencazione fornita dall'art. 6, quinto
comma, dpr n. 633/1972 ai fini dell'esigibilità differita.
Osserva, inoltre, che il comunicato stampa ha chiarito che
il meccanismo si applica indipendentemente dalla veste con
la quale l'ente destinatario delle forniture agisce
(soggetto passivo o meno), ad eccezione delle operazioni
sottoposte al regime dell'inversione contabile.
Intreccio fra meccanismi speciali
A quest'ultimo proposito, va evidenziato che l'applicazione
del regime dell'inversione contabile, che rende
inapplicabile il meccanismo dello split payment, è
subordinata alla circostanza che il destinatario agisca in
veste di soggetto passivo dell'Iva, mentre il meccanismo
dello split payment, come detto, si applica
indipendentemente da tale requisito. Pertanto, nell'ipotesi
in cui un ente pubblico titolare di partita Iva (in quanto
svolge anche attività economica) riceve, nell'ambito della
sfera commerciale, beni o servizi oggettivamente rientranti
nel regime dell'inversione contabile, applicherà tale
regime; se tali beni o servizi sono invece destinati alla
sfera istituzionale, dovrebbe applicare lo split payment.
È dubbio il trattamento degli acquisti di beni e servizi a
destinazione promiscua, impiegati cioè indistintamente per
la sfera istituzionale che a quella commerciale, per esempio
il servizio di pulizia di un ospedale. È necessario chiarire
se, in tale ipotesi, l'imposta debba applicarsi con
l'inversione contabile o debba essere versata con lo split
payment (articolo
ItaliaOggi del 13.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
compatibilità paesaggistica (ex art. 167 dlgs 42/2004)
dell'abusiva maggiore coibentazione della copertura del
tetto nel rispetto di quanto previsto dalla normativa sul
risparmio energetico, ovverosia di un maggior pacchetto di
coibentazione che aumenta lo spessore della copertura di
circa cm. 33 rispetto a quanto previsto nel progetto
iniziale, dovuto essenzialmente all’adeguamento normativo in
funzione del sistema di riscaldamento adottato.
Osserva il Collegio che l’art. 167,
comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 richiede, ai fini
dell’accertamento della compatibilità paesaggistica dei
“lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica” che gli stessi “non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimante realizzati”.
Il Comune, negli atti impugnati, ha ritenuto idoneo a
integrare la fattispecie preclusiva (data appunto
dall’incremento di volume) l’inserimento nella copertura del
manufatto di un “pacchetto di coibentazione”, legato ad
esigenze di risparmio energetico, che aumenta di una
trentina di cm lo spessore della copertura.
Ritiene il Collegio, in accoglimento della censura in esame,
che la tesi ricostruttiva dell’Amministrazione non sia
convincente e che il rialzamento riscontrato non sia in
realtà idoneo a escludere l’accertamento di compatibilità
paesaggistica richiesto, non integrando la fattispecie
preclusiva correlata all’aumento di volume di cui all’art.
167, comma 4, invocato dall’Amministrazione.
Tale conclusione è raggiunta dal Collegio evidenziando che
nella specie, da un lato, non si è in presenza di un aumento
di volume alla luce della disciplina urbanistica locale e
che, dall’altro lato, il modesto incremento di altezza
complessiva della copertura è dovuto ad esigenze tecniche
funzionali al soddisfacimento di un rilevante interesse
pubblico, com’è quello connesso al risparmio energetico.
Infatti, in primo luogo, deve essere rilevato che, ai sensi
dell’art. 104 del Regolamento Edilizio del Comune, “per
altezza dei fabbricati si intende la distanza corrente tra
il riferimento in sommità e quello alla base dell’edificio”,
laddove il riferimento alla sommità è da intendersi, in caso
di copertura inclinata, come riferito a “l’incontro
dell’intradosso della copertura con il piano della
facciata”, mentre nella fattispecie in esame il modesto
incremento di altezza si è verificato sopra l’intradosso,
per l’inserimento del “cappotto termico”, il che esclude che
ciò determini un incremento volumetrico giuridicamente
rilevate.
Nel gravato provvedimento di diniego il Comune di
Poggibonsi, prendendo specificamente in esame il rilievo
inerente l’applicazione dell’art. 104 del R.E, come
sottopostogli dall’istante in sede di memoria difensiva,
esclude che esso possa avere applicazione oltre l’ambito
urbanistico, ritenendo in particolare che dal punto di vista
paesaggistico anche l’incremento di altezza realizzato nella
specie risulti rilevante. Ciò, tuttavia, non risulta
convincente.
Deve essere in particolare evidenziato che l’ulteriore
altezza realizzata è stata posta in essere, pacificamente,
per realizzare un intervento di “risparmio energetico”; tale
tipologia di interventi risulta fortemente incoraggiata
dall’ordinamento, realizzando finalità pubblicistiche di
sicura rilevanza; lo stesso art. 104 del R.E. del Comune di
Poggibonsi menziona il “risparmio energetico”, come finalità
da perseguire, ma soprattutto norme di legge statale e
regionale perseguono l’obiettivo della realizzazione di
edifici che garantiscano un superiore indice di prestazione
energetica (art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008, art. 146
della legge regionale n. 1 del 2005).
In tal quadro è da escludere, al fine di evitare che
l’ordinamento entri in contraddizione con sé stesso, che un
intervento edilizio urbanisticamente conforme a legge
(stante il fatto che nella specie l’art. 104 del RE esclude
la valenza volumetrica del modesto incremento di altezza
realizzato) e per di più ispirato al perseguimento di
finalità che sono riconosciute anche di valenza
pubblicistica (non essendo contestato che l’intervento in
parola è funzionale a perseguire obiettivi di risparmio
energetico), possa invece essere ritenuto illegittimo da un
punto di vista paesaggistico, dovendo in senso contrario la
preclusione di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42
del 2004 essere ritenuta non applicabile in presenza di un
intervento che non costituisce aumento di volume alla luce
della normativa edilizia applicabile e che è ispirato a
finalità di contenimento di risparmio energetico.
... per l'annullamento del Provvedimento del Dirigente del
Settore Edilizia ed Urbanistica del Comune di Poggibonsi
dello 06.11.2013, prot. n. 26464, pervenuto il 08.11.2013,
con il quale è stato disposto il diniego sull'istanza di
accertamento di compatibilità ambientale paesaggistica
presentata ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. 42/2004 e
s.m.i. il 05.07.2013;
...
Con il primo mezzo di cui al ricorso introduttivo del
giudizio la ricorrente si duole del provvedimento comunale
di diniego di accertamento di compatibilità ambientale e
paesaggistica, negando che nella specie vi fossero i
presupposti per riconoscere la sussistenza di un aumento
volumetrico ostativo alla sanatoria.
La censura è fondata.
In data 05.07.2013 la Polisportiva ricorrente presentava al
Comune di Poggibonsi istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica avente ad oggetto la “attestazione
di conformità per aumento del pacchetto termoisolante della
copertura oltre a modifiche interne e di prospetto al
fabbricato con destinazione spogliatoi”.
Nella relazione tecnica allegata all’istanza (doc. 3
dell’Amministrazione resistente) si specifica che i lavori
hanno comportato, rispetto allo stato autorizzato, una “maggiore
coibentazione della copertura nel rispetto di quanto
previsto dalla normativa sul risparmio energetico”,
poiché “questo maggiore pacchetto di coibentazione
aumenta lo spessore della copertura, di circa cm. 33
rispetto a quanto previsto nel progetto iniziale, dovuto
essenzialmente all’adeguamento normativo in funzione del
sistema di riscaldamento adottato”, concludendo che
“l’aumento della copertura è solo ed esclusivamente tecnico,
ciò non comporta aumento di altezza dei sottostanti locali,
che sono come previsto nel progetto iniziale”.
Esaminata l’istanza, e preso atto del parere della
Soprintendenza che richiedeva di valutare eventuale
incrementi di superficie o volume, il Comune di Poggibonsi
emanava la comunicazione dei motivi ostativi prot. n. 22756
del 03.10.2013, sul rilevo che
“i lavori realizzati in difformità dall’autorizzazione
paesaggistica n. 09/A139 del 10.11.2009, non hanno
determinato creazione di superfici utili, ma hanno
comportato l’aumento di volume, rispetto a quello
legittimamente autorizzato, per l’inserimento di pacchetto
coibente nella copertura, contrastando, pertanto, con l’art.
167, comma 4, del d.lgs. 42/2004”.
Esaminate poi le osservazioni dell’istante,
l’Amministrazione comunale con il provvedimento prot. n.
26464 del 06.11.2013 respingeva l’istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica, richiamando l’incremento di
volume e il d.lgs. n. 42 del 2004.
Osserva il Collegio che l’art. 167, comma 4, del d.lgs. n.
42 del 2004 richiede, ai fini dell’accertamento della
compatibilità paesaggistica dei “lavori, realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica”
che gli stessi “non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimante realizzati”.
Il Comune di Poggibonsi, negli atti impugnati, ha ritenuto
idoneo a integrare la fattispecie preclusiva (data appunto
dall’incremento di volume) l’inserimento nella copertura del
manufatto di un “pacchetto di coibentazione”, legato
ad esigenze di risparmio energetico, che aumenta di una
trentina di cm lo spessore della copertura.
Ritiene il Collegio, in accoglimento della censura in esame,
che la tesi ricostruttiva dell’Amministrazione non sia
convincente e che il rialzamento riscontrato non sia in
realtà idoneo a escludere l’accertamento di compatibilità
paesaggistica richiesto, non integrando la fattispecie
preclusiva correlata all’aumento di volume di cui all’art.
167, comma 4, invocato dall’Amministrazione.
Tale conclusione è raggiunta dal Collegio evidenziando che
nella specie, da un lato, non si è in presenza di un aumento
di volume alla luce della disciplina urbanistica locale e
che, dall’altro lato, il modesto incremento di altezza
complessiva della copertura è dovuto ad esigenze tecniche
funzionali al soddisfacimento di un rilevante interesse
pubblico, com’è quello connesso al risparmio energetico.
Infatti, in primo luogo, deve essere rilevato che, ai sensi
dell’art. 104 del Regolamento Edilizio del Comune di
Poggibonsi, “per altezza dei fabbricati si intende la
distanza corrente tra il riferimento in sommità e quello
alla base dell’edificio”, laddove il riferimento alla
sommità è da intendersi, in caso di copertura inclinata,
come riferito a “l’incontro dell’intradosso della
copertura con il piano della facciata”, mentre nella
fattispecie in esame il modesto incremento di altezza si è
verificato sopra l’intradosso, per l’inserimento del “cappotto
termico”, il che esclude che ciò determini un incremento
volumetrico giuridicamente rilevate.
Nel gravato provvedimento di diniego il Comune di
Poggibonsi, prendendo specificamente in esame il rilievo
inerente l’applicazione dell’art. 104 del R.E, come
sottopostogli dall’istante in sede di memoria difensiva,
esclude che esso possa avere applicazione oltre l’ambito
urbanistico, ritenendo in particolare che dal punto di vista
paesaggistico anche l’incremento di altezza realizzato nella
specie risulti rilevante. Ciò, tuttavia, non risulta
convincente.
Deve essere in particolare evidenziato che l’ulteriore
altezza realizzata è stata posta in essere, pacificamente,
per realizzare un intervento di “risparmio energetico”;
tale tipologia di interventi risulta fortemente incoraggiata
dall’ordinamento, realizzando finalità pubblicistiche di
sicura rilevanza; lo stesso art. 104 del R.E. del Comune di
Poggibonsi menziona il “risparmio energetico”, come
finalità da perseguire, ma soprattutto norme di legge
statale e regionale perseguono l’obiettivo della
realizzazione di edifici che garantiscano un superiore
indice di prestazione energetica (art. 11 del d.lgs. n. 115
del 2008, art. 146 della legge regionale n. 1 del 2005).
In tal quadro è da escludere, al fine di evitare che
l’ordinamento entri in contraddizione con sé stesso, che un
intervento edilizio urbanisticamente conforme a legge
(stante il fatto che nella specie l’art. 104 del RE esclude
la valenza volumetrica del modesto incremento di altezza
realizzato) e per di più ispirato al perseguimento di
finalità che sono riconosciute anche di valenza
pubblicistica (non essendo contestato che l’intervento in
parola è funzionale a perseguire obiettivi di risparmio
energetico), possa invece essere ritenuto illegittimo da un
punto di vista paesaggistico, dovendo in senso contrario la
preclusione di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42
del 2004 essere ritenuta non applicabile in presenza di un
intervento che non costituisce aumento di volume alla luce
della normativa edilizia applicabile e che è ispirato a
finalità di contenimento di risparmio energetico (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 22.01.2015 n. 124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
L’elemento che differenzia il rinnovo del
contratto dalla proroga sta nella circostanza che mentre il
rinnovo presuppone una rinegoziazione delle condizioni, la
proroga si riduce soltanto ad un mero differimento
temporale.
Di fronte all’approvazione di una proroga di un contratto
ritenuta dal privato non corrispondente all’offerta
presentata, questi ha piena libertà di rifiutare la
prestazione e cessare il servizio, né l’Amministrazione
potrebbe avvalersi di strumenti coercitivi per imporgli la
prosecuzione, se non il condizionamento, di natura
esclusivamente economica, verso la sottoscrizione del nuovo
contratto, che, tuttavia, rientra nella dialettica
procedimentale tra stazione appaltante e prestatore di
servizi, e non si traduce in un vizio di legittimità
dell’azione amministrativa.
L’appello è infondato e deve pertanto essere respinto.
Le censure dedotte dalla società appellante non scalfiscono
la legittimità del provvedimento impugnato.
Infatti, i profili di censura dedotti sono riconducibili
all’affermazione dell’illegittimità di una proroga del
contratto parziale e non corrispondente a quanto era stato
offerto dalla società.
Il Collegio osserva che l’esistenza di una offerta
contrattuale difforme, non impediva alla ASL di disporre un
affidamento contrattuale (correttamente, il TAR ha rilevato
come l’elemento che differenzia il rinnovo del contratto
dalla proroga sta nella circostanza che mentre il rinnovo
presuppone una rinegoziazione delle condizioni, la proroga
si riduce soltanto ad un mero differimento temporale - cfr.
Cons. Stato, III, nn. 2682/2012 e 1687/2012). Semmai,
l’affidamento poteva incontrare profili di criticità in
relazione alle norme dell’evidenza pubblica (ed alla
sussistenza dei presupposti per l’affidamento senza gara),
ma tali profili non sono stati minimamente accennati dalla
ricorrente.
Di fronte all’approvazione di una “proroga” (ormai,
rectius: di un “affidamento”) di un contratto
ritenuta non corrispondente all’offerta presentata, la
società aveva invece piena libertà di rifiutare la
prestazione e cessare il servizio; e la ASL non avrebbe
avuto strumenti coercitivi per imporgli la prosecuzione (il
richiamo, nell’appello, all’ingiustificata utilizzazione del
principio di vincolatività dell’offerta, ex art. 11 del
d.lgs. 163/2006, è evidentemente un fuor d’opera).
I fatti dimostrano che vi è stata una rinegoziazione (sia
pure, con esito contestato), o quanto meno l’accettazione
del contratto, che è stato stipulato, anche se con riserva
degli esiti del contenzioso già instaurato: ma ciò
significava soltanto la non acquiescenza o non rinuncia alle
pretese azionate in giudizio; e che la prestazione è stata
eseguita (a quanto sembra, vi sono state poi ulteriori
proroghe del servizio, così ridotto nel contenuto; in ogni
caso, è della legittimità del provvedimento, e non della
successiva esecuzione contrattuale che si discute).
Allo stesso modo, non rileva se l’offerta della società,
disattesa, riguardasse esclusivamente la proroga dell’intero
servizio, ovvero comprendesse la possibilità di scinderne
alcune parti; la questione, sollevata dalla ASL (che ne ha
argomentato la corrispondenza tra offerta e provvedimento
impugnato), è stata oggetto di replica dell’appellante
(replica che sembra fondata, dato che la nota in data
21.12.2010 contenente l’offerta si riferisce alla “proroga
del contratto in essere in scadenza”, e solo dopo
dettaglia i costi in relazione ai distinti servizi), ma
appare irrilevante ai fini della legittimità del
provvedimento impugnato.
Il condizionamento (l’aut aut, come lamenta l’appellante)
verso la sottoscrizione del nuovo contratto, se c’era
(l’appellante, pur affermando che la limitazione delle
prestazioni ha fatto saltare l’equilibrio economico, non lo
dimostra con riferimenti oggettivi), era di natura
esclusivamente economica, ma ciò rientra nella dialettica
procedimentale tra stazione appaltante e prestatore di
servizi, e non si traduce in un vizio di legittimità
dell’azione amministrativa.
Non vi è comunque violazione della buona fede e correttezza
negoziale, perché non risulta che la ASL abbia mai suscitato
la nascita di un affidamento in ordine alla prosecuzione del
contratto a condizioni inalterate, e comunque sussistevano
oggettivi ragioni per disporre una continuazione limitata
nelle more della definizione di diverse e più razionali
modalità di gestione complessiva del servizio.
In sostanza, mentre dapprima il servizio comportava la
raccolta delle cartelle cliniche presso i presidi
ospedalieri ed il trasporto presso il magazzino/archivio
della società, in seguito avrebbe comportato soltanto la
conservazione delle cartelle esistenti in archivio e non
invece il prelievo di nuove cartelle dai presidi (in quanto
ormai destinate ad essere archiviate presso strutture
apprestate dalle ASL), né quello di descaffalazione delle
cartelle medesime per il trasferimento in una nuova sede
(presso le ASL) con fornitura delle scatole (la ASL
sottolinea che si riservava di esaminarlo successivamente,
una volta attivato il nuovo archivio).
La pretesa risarcitoria cade insieme alla domanda di
annullamento del provvedimento impugnato, non trovando nel
mero comportamento della ASL alcun autonomo alternativo
fondamento. Ciò, a prescindere dalla mancata dimostrazione
del danno subito (può peraltro dubitarsi che la
continuazione del solo servizio di custodia delle cartelle
archiviate presso il proprio magazzino, risulti per la
società non remunerativo) (massima tratta da
http://renatodisa.com
- Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.01.2015, n. 159 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropri, accessione invertita contraria alla
Convenzione dei diritti dell'uomo.
L'occupazione acquisitiva è contraria alla convenzione
europea dei diritti dell'uomo come tutte le forme di
espropriazione indiretta elaborate nell'ordinamento italiano
anche e soprattutto in sede giurisprudenziale: il fatto che
sul terreno sia stata ormai realizzata l'opera pubblica non
può fare acquisire il bene all'amministrazione laddove
l'acquisizione del diritto di proprietà, ricorda Strasburgo,
non può mai conseguire a un illecito.
Non conta che sia intervenuta la dichiarazione di pubblica
utilità. Ecco allora che il proprietario del terreno deve
ottenere la restituzione o il risarcimento del danno e il
suo diritto non decorre dalla ormai risalente trasformazione
irreversibile del fondo: il termine quinquennale scatta
dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del
godimento, e dalla data della domanda, quanto alla
reintegrazione per equivalente.
Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di
Cassazione con la
sentenza 19.01.2015 n. 735 che risolve un
contrasto di giurisprudenza.
Illecito permanente
Accolto il ricorso degli eredi del de cuius: si
riapre una controversia cominciata nel lontano 1953 con
l'esproprio di un terreno da parte del Comune che ha
realizzato soltanto nel '60 sul fondo espropriato la scuola
di cui aveva tanto bisogno.
Trova ingresso la censura secondo cui l'accessione invertita
non può essere applicata perché è contraria al principio di
legalità affermato dalla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo: il diritto al risarcimento del proprietario,
dunque, deriva da un illecito permanente com'è appunto
l'occupazione illegittima del terreno da parte di un ente
pubblico.
La giurisprudenza di Strasburgo sottolinea che «lo stato
dovrebbe, prima di tutto, adottare misure tendenti a
prevenire ogni occupazione fuori legge dei terreni, che si
tratti d'occupazione senza titolo dall'inizio o di
occupazione inizialmente autorizzata e divenuta senza titolo
successivamente» (nella specie l'occupazione di urgenza
dell'area diventa illegittima perché il decreto di esproprio
non interviene entro il biennio successivo).
La contrarietà alla Cedu esclude che l'istituto sopravviva
nel nostro ordinamento. Parola al giudice del rinvio (articolo
ItaliaOggi del 20.01.2015). |
ESPROPRIAZIONE:
L’illecito spossessamento del privato da parte
della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno
per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo,
anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità,
all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il
privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non
decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento
del danno.
Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento dei danni
per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione
legittima, durante il quale ha subito la perdita delle
utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della
restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto il
risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla
proprietà del terreno.
Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al
risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità,
quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data
della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente.
Il primo motivo è fondato con conseguente assorbimento del
secondo motivo.
L’occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa)
è, come è noto, istituto di creazione giurisprudenziale
risalente nella prima compiuta formulazione alla sentenza
Cass. s.u. 26.02.1983, n. 1464, ma con un significativo
precedente in Cass. 08.06.1979, n. 3243.
Tale pronunzia -affrontando il caso, non disciplinato dalla
legge, di una occupazione protrattasi oltre i previsti
termini di occupazione legittima e contrassegnata dalla
irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di
un’opera dichiarata di pubblica utilità– è stata il frutto
della dichiarata ricerca di un punto di equilibrio tra la
tutela dell’azione amministrativa (assicurata dall’acquisto
a titolo originario in capo alla pubblica amministrazione
della proprietà del suolo illegittimamente occupato e
trasformato) e la tutela della proprietà privata (assicurata
dall’obbligo dell’amministrazione occupante di risarcire
integralmente il danno arrecato, sulla base, almeno sino
all’entrata in vigore del comma 7-bis dell’art. 5-bis del
d.l. n. 333/1992, del valore venale del bene).
Tale pronunzia, inoltre, ha segnato il superamento del
precedente orientamento in base al quale, nel caso in esame,
il privato restava proprietario del bene occupato, aveva
diritto soltanto al risarcimento del danno determinato dalla
perdita di utilità ricavabili dalla cosa e restava soggetto
alla tardiva sopravvenienza del decreto di espropriazione,
ritenuto idoneo a ricollocare la fattispecie su un piano di
legittimità con l’attribuzione al privato soltanto di un
indennizzo (all’epoca non commisurato al valore venale del
bene) (ex plurimis Cass. 02.06.1977, n. 2234; Cass.
26.09.1978, n. 4323).
La giurisprudenza successiva, dopo la composizione (ad opera
di Cass. s.u. 25.11.1992, n. 12546) del contrasto insorto
circa il termine di prescrizione del diritto al risarcimento
del danno, si è dovuta confrontare con il problema della
compatibilità (o meglio del contrasto) dell’istituto
dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo
addizionale alla Convenzione EDU, come interpretato dalla
Corte EDU.
In particolare, la Corte di Strasburgo ha censurato le forme
di ‘espropriazione indiretta’ elaborate
nell’ordinamento italiano anche e soprattutto in sede
giurisprudenziale (come nel caso dell’occupazione
acquisitiva) e le ha configurate come illecito permanente
perpetrato nei confronti di un diritto fondamentale
dell’uomo, garantito dall’art. 1 citato, senza che alcuna
rilevanza possa assumere in contrario il dato fattuale
dell’intervenuta realizzazione di un’opera pubblica sul
terreno interessato, affermando che l’acquisizione del
diritto di proprietà non può mai conseguire a un illecito
(v., tra le tante, le sentenze Carbonara& Ventura c. Italia,
30.05.2000; Scordino c. Italia, 15 e 29.07.2004; Acciardi c.
Italia, 19.05.2005; De Angelis c. Italia, 21.12.2006;
Pasculli c. Italia, 04.12.2007).
In un’altra sentenza (Scordino c. Italia n. 3, 06.03.2007)
la Corte di Strasburgo ha affermato che “lo Stato
dovrebbe, prima di tutto, adottare misure tendenti a
prevenire ogni occupazione fuori legge dei terreni, che si
tratti d’occupazione sine titulo dall’inizio o di
occupazione inizialmente autorizzata e divenuta sine titulo
successivamente… Inoltre lo Stato convenuto deve scoraggiare
le pratiche non conformi alle norme delle espropriazioni
lecite, adottando disposizioni dissuasive e ricercando le
responsabilità degli autori di tali pratiche. In tutti i
casi in cui un terreno è già stato oggetto d’occupazione
senza titolo ed è stato trasformato in mancanza di decreto
d’espropriazione, la Corte ritiene che lo Stato convenuto
dovrebbe eliminare gli ostacoli giuridici che impediscono
sistematicamente e per principio la restituzione del terreno”
(il medesimo concetto è espresso nella sentenza Carletta c.
Italia, 15.07.2005 “il meccanismo dell’espropriazione
indiretta permette in generale all’amministrazione di
passare oltre le regole fissate in materia di
espropriazione, col rischio di un risultato imprevedibile o
arbitrario per gli interessati, che si tratti di
un’illegalità dall’inizio o di un’illegalità sopraggiunta in
seguito”).
La Corte Europea (v. anche le sentenze Sciarrotta c. Italia,
12.01.2006; Serrao c. Italia, 13.01.2006; Dominici c.
Italia, 15.02.2006; Sciselo c. Italia, 20.04.2006; Cerro
s.a.s. c. Italia, 23.05.2006) si dice anche “convinta che
l’esistenza in quanto tale di una base legale non basti a
soddisfare il principio di legalità”, non potendo
l’espropriazione indiretta comunque costituire
un’alternativa ad un’espropriazione “in buona e dovuta
forma”.
La giurisprudenza di questa Corte successiva alle citate
pronunzie della Corte EDU si è in larga parte orientata non
verso l’abbandono dell’istituto dell’occupazione
acquisitiva, nel frattempo presupposta, come si vedrà meglio
in seguito, da alcune disposizioni di legge, ma verso la
ricerca del superamento dei punti di criticità della
disciplina dell’istituto rispetto ai principi affermati
dalla Convenzione EDU.
In questa prospettiva si collocano, anzitutto, le decisioni
tese ad affermare la compatibilità dell’istituto
dell’occupazione acquisitiva con il principio sancito
dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU,
come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo;
a tal fine si sottolinea che l’istituto non solo ha una base
legale nei principi generali dell’ordinamento, ma ha trovato
previsione normativa espressa prima (settoriale) con l’art.
3 della legge n. 458/1988 e, successivamente, con il comma
7-bis dell’art. 5-bis del d.l. n. 333/1992 (introdotto
dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662/1996) e, quindi,
risulta ormai basato su regole sufficientemente accessibili,
precise e prevedibili, ancorate a norme giuridiche che hanno
superato il vaglio di costituzionalità ed hanno recepito
(confermandoli) principi enucleati dalla costante
giurisprudenza (Cass. s.u. 14.04.2003, n. 5902; Cass. s.u.
06.05.2003, n. 6853).
Altre decisioni si sono preoccupate di fissare il dies a
quo del termine di prescrizione nel momento
dell’emersione certa a livello legislativo dell’istituto e
cioè a partire dalla legge n. 458/1988, ritenendo in tal
modo soddisfatto il necessario ossequio al principio di
legalità affermato in materia dalla Corte EDU (Cass.
28.07.2008, n. 20543; Cass. 05.10.21203; Cass. 22.04.2010,
n. 9620; Cass. 26.05.2010, n. 12863; Cass. 26.03.2013, n.
7583; Cass. 18.09.2013, n. 21333).
Nello stesso orientamento conservativo dell’istituto si
collocano le decisioni che hanno attribuito rilievo, ai fini
dell’interruzione della prescrizione del diritto al
risarcimento del danno, all’offerta ed al deposito
dell’indennità di espropriazione (Cass. 16.01.2013, n. 923)
ovvero alla richiesta di versamento del prezzo di una
progettata cessione volontaria del fondo e alla richiesta
dell’indennità di occupazione (Cass. 14.02.2008, n. 3700).
Infine, sempre nell’ambito dell’orientamento conservativo,
il problema della tutela del privato, rispetto alla
incertezza del dies a quo di un termine di
prescrizione collegato all’irreversibile trasformazione, è
stato definitivamente superato affermando sia che detto
termine inizia a decorrere dal momento in cui il
trasferimento della proprietà venga o possa essere percepito
dal proprietario come danno ingiusto ed irreversibile sia
che la relativa prova incombe sull’Amministrazione (Cass.
17.04.2014, n. 8965).
Nel senso del superamento dell’istituto dell’occupazione
acquisitiva si sono pronunciate Cass. 14.01.2013, n. 705 e
Cass. 28.01.2013, n. 1804. Tali decisioni hanno fondato le
loro conclusioni non solo sulle pronunzie della Corte di
Strasburgo, ma anche sull’art. 42-bis del d.p.r. 08.06.2001,
n. 327 (testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità), sostenendo che tale norma sia applicabile anche ai
fatti anteriori alla sua entrata in vigore e disciplini in
modo esclusivo, e perciò incompatibile con l’occupazione
acquisitiva, le modalità attraverso le quali, a fronte di
un’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di
pubblico interesse, è possibile –con l’esercizio di un
potere basato su una valutazione degli interessi in
conflitto– pervenire ad un’acquisizione non retroattiva
della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della
P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto
che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo di
indennizzo.
Si deve escludere che la questione della sopravvivenza o
meno dell’istituto dell’occupazione acquisitiva per le
fattispecie anteriori all’entrata in vigore del testo unico
di cui al d.p.r. n. 327/2001 possa essere decisa, come
ritenuto dalle citate Cass. nn. 705/2013 e 1804/2013,
l’argomento della retroattività dell’art. 42-bis dello
stesso d.p.r.. Al riguardo, si deve rammentare che
l’articolo in questione è stato aggiunto dall’articolo 34,
comma 1, dei d.l. n. 98/2011, dopo che la Corte
costituzionale, con la sentenza n. 293/2010, aveva
dichiarato l’illegittimità, per eccesso di delega, dell’art.
43 del tu., che aveva dettato una prima regolamentazione
dell’acquisizione sanante.
In tale contesto deve essere letto il comma 8 dell’art.
42-bis, secondo cui “le disposizioni del presente
articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori
alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un
provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o
annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione
di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre
l’acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al
proprietario, maggiorate dell’interesse legale, sono
detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
È vero che la lettera della norma non pone limitazioni di
sorta all’applicazione della stessa a fatti anteriori alla
sua entrata in vigore. L’interpretazione logica suggerisce,
tuttavia, un diverso approdo. Come si è detto, l’art. 42-bis
ha sostituito l’art. 43 del testo unico di cui al d.p.r. n.
327/2001, che aveva introdotto nel nostro ordinamento
l’istituto dell’acquisizione sanante e che era stato espunto
per eccesso di delega dalla Corte costituzionale.
È evidente, pertanto, la preoccupazione del legislatore del
2011 di assicurare alla nuova disposizione la stessa
applicazione temporale già prevista per quella dettata
dall’art. 43, che si inseriva in un sistema organico di
norme destinato a superare l’istituto dell’occupazione
acquisitiva, ma soltanto dopo il 30.06.2003 (data di entrata
in vigore dei testo unico), come confermato dall’assenza in
quella norma della previsione di una applicabilità anche ai
fatti anteriori alla sua entrata in vigore. Tale
preoccupazione emerge, in particolare, laddove nel comma
ottavo dell’art. 42-bis è stata specificamente prevista e
disciplinata l’ipotesi della avvenuta emissione di un
provvedimento di acquisizione ai sensi del precedente art.
43.
Distinte considerazioni devono essere fatte per l’art. 55
del t.u. che, con riferimento al periodo anteriore al
30.09.1996 (per quello successivo l’esclusione dal campo di
applicazione dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n.
333/1992 era già sufficiente ad assicurare il risarcimento
del danno secondo il criterio venale e senza riduzioni),
disciplina il risarcimento dei danni per il caso di
utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica
utilità in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio.
L’art. 55, nell’intenzione del legislatore ed
indipendentemente dalla diversa lettura che se ne dovrà dare
(v. infra punto n. 6 della motivazione), presupponeva
l’applicabilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva,
che è evidentemente incompatibile con l’istituto
dell’acquisizione sanante, poiché questa parte dalla
premessa che una acquisizione alla mano pubblica non si sia
già verificata. Pertanto, solo con il superamento
dell’occupazione acquisitiva, e perciò solo per il periodo
successivo all’entrata in vigore del testo unico, poteva
trovare applicazione il nuovo istituto, disciplinato prima
dall’art. 43 e, poi, dall’art. 42-bis.
È chiaro, tuttavia, che l’originaria incompatibilità,
storicamente certa, tra la disciplina dettata dall’art.
42-bis e quella dettata dall’art. 55, è destinata a venire
meno con una diversa lettura di quest’ultima disposizione
suggerita, come si dirà tra breve, dal contrasto
dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati
dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU.
Resta però il fatto che l’art. 42-bis non può essere
individuato come la causa dell’espunzione dall’ordinamento
dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e si apre,
invece, il diverso problema, non rilevante in questa sede,
se per effetto dell’espunzione dell’istituto, determinata da
una diversa causa, possa ipotizzarsi, alla stregua dei
principi in tema di applicazione della legge ai fatti
anteriori alla sua entrata in vigore ed ai rapporti da tali
fatti generati, un ampliamento temporale del campo di
applicazione dell’art. 42-bis, che non troverebbe più il
limite derivante da situazioni in cui è già avvenuta
l’acquisizione alla mano pubblica, ma eventualmente il
limite, da verificare, dell’irretroattività della nuova
disciplina oltre la decorrenza da essa desumibile e come
sopra individuata.
Il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con
l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU è
sufficiente per escluderne la sopravvivenza nel nostro
ordinamento.
La sussistenza di tale contrasto è stata già riconosciuta da
queste Sezioni unite con le ordinanze nn. 441 e 442 del
13.01.2014 con cui è stata ritenuta rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale del citato art. 42 bis in relazione agli
artt. 3, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost., anche alla luce
dell’art. 6 e dell’art. 1 del protocollo addizionale della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. In tali ordinanze, infatti, questa Corte ha
dato atto che la Corte EDU ha dichiarato più volte “in
radicale contrasto con la Convenzione il principio
dell1espropriazione indiretta, con la quale il trasferimento
della proprietà del bene dal privato alla p.a. avviene in
virtù della constatazione della situazione di illegalità o
illiceità commessa dalla stessa Amministrazione, con
l’effetto di convalidarla; di consentire a quest’ultima di
trame vantaggio; nonché di passare oltre le regole fissate
in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato
imprevedibile o arbitrario per gli interessati. E nella
categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito…
l’ipotesi corrispondente alla c.d. occupazione
espropriativa… ritenendo ininfluente che una tale vicenda
sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia
consentita mediante disposizioni legislative, come è
avvenuto con la L. n. 458 del 1988”.
Tale contrasto deve essere qui ribadito, sottolineando che
il contrario orientamento conservativo ha eliminato nel
tempo i punti di criticità connessi alla prescrizione del
diritto al risarcimento del danno, ma nulla poteva fare
rispetto alla esclusione del diritto alla restituzione,
portato intrinseco dell’istituto dell’occupazione
acquisitiva, che la Corte di Strasburgo, come sopra riferito
(v sopra n. 2), ha ritenuto incompatibile con l’art. 1 della
Convenzione EDU, affermando che lo Stato “dovrebbe
eliminare gli ostacoli giuridici che impediscono
sistematicamente e per principio la restituzione del terreno”
(Scordino c. Italia n. 3, 06.03.2007; Sciarrotta c. Italia,
12.01.2006; Carletta c. Italia, 15.07.2005).
Il contrasto, del resto, è stato affermato anche dalla Corte
costituzionale con la sentenza 08.10.2010, n. 293, rilevando
–anche se solo in un obiter dictum, considerato che
l’illegittimità dell’art. 43 del d.p.r. n. 327/2001 è stata
dichiarata per eccesso di delega– che la Corte di
Strasburgo, “sia pure incidentalmente, ha precisato che
l’espropriazione indiretta si pone in violazione del
principio di legalità, perché non è in grado di assicurare
un sufficiente grado di certezza e permette
all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una
situazione di fatto derivante da azioni illegali, e ciò sia
allorché essa costituisca conseguenza di un’interpretazione
giurisprudenziale, sia allorché derivi da una legge –con
espresso riferimento all’articolo 43 del t.u. qui
censurato-, in quanto tale forma di espropriazione non può
comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione
adottata secondo buona e debita forma (causa Sciarrotta ed
altri c. Italia – Terza Sezione – sentenza 12.01.2006 –
ricorso n. 14793/02)”.
Le conseguenze della contrarietà dell’istituto
dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati
dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU
devono essere individuate sulla base di quanto stabilito
dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del
2007 e 338 del 2011: le norme interne in contrasto gli
obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del primo
protocollo addizionale alla CEDU, che il legislatore è
tenuto a rispettare in forza dell’art. 117, primo comma,
Cost., non possono essere disapplicate dal giudice nazionale
che deve verificare la possibilità di risolvere il problema
in via interpretativa, rimettendo, in caso contrario, la
questione alla Corte costituzionale.
Orbene, nella specie, come chiarito in precedenza,
l’istituto dell’occupazione acquisitiva è stato elaborato
dalla giurisprudenza e, successivamente, è stato presupposto
da diverse disposizioni di legge. Pertanto, una volta
accertata la contrarietà dell’istituto con i principi della
Convenzione EDU, occorre stabilire, da un lato, se
l’interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze
dell’illecita utilizzazione sia o meno la sola consentita
dal sistema e, dall’altro, se le norme che hanno dato ‘copertura’
all’istituto possano o meno essere ‘sganciate’ da questo ed
essere oggetto di una diversa interpretazione.
Al primo interrogativo si deve dare certamente risposta
positiva poiché la c.d. accessione invertita rappresenta una
eccezione rispetto alla normale disciplina degli effetti di
una occupazione illegittima cui consegue ordinariamente il
diritto del soggetto spossessato di richiedere la
restituzione. Tale eccezione si fondava sulla esistenza,
affermata in via interpretativa, di un principio generale,
del quale sarebbero stati espressione gli artt. 936 ss. cod.
civ., in base al quale, nel caso di opere fatte da un terzo
su un terreno altrui, la proprietà sia del suolo sia della
costruzione viene attribuita al soggetto portatore
dell’interesse ritenuto prevalente, con la precisazione che
il principio opera anche in caso di attività illecita posta
in essere dalla P.A. e che quest’ultima deve essere
individuata come il soggetto portatore dell’interesse
prevalente quando viene realizzata un’opera dichiarata di
pubblica utilità.
La giurisprudenza della Corte EDU fa, tuttavia, cadere il
presupposto della possibilità di affermare in via
interpretativa che da una attività illecita della P.A. possa
derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del
privato. Caduto tale presupposto, diviene applicabile lo
schema generale degli artt. 2043 e 2058 c.c., il quale non
solo non consente l’acquisizione autoritativa del bene alla
mano pubblica, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale,
la tutela reale e cautelare apprestata nei confronti di
qualsiasi soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione
in pristino stato dell’immobile, provvedimenti di urgenza
per impedirne la trasformazione ecc), oltre al consueto
risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043
c.c.: esattamente come sinora ritenuto per la c.d.
occupazione usurpativa (ex plurimis Cass. s.u.
19.05.1982; Cass. s.u. 04.03.1997, n. 1907; Cass.
12.12.2001, n. 15710; Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass.
15.09.2005, n. 18239; Cass. s.u. 25.06.2009, n. 14886; Cass.
25.01.2012, n. 1080).
Con riferimento al secondo interrogativo si devono prendere
in considerazione le seguenti disposizioni:
- art. 3, comma 1, della legge n. 458/1988: “il
proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia
residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto
al risarcimento del danno causato da provvedimento
espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in
giudicato, con esclusione della retrocessione del bene”
(disposizione che la Corte costituzionale, con la sentenza
27.12.1991, n. 486, ha esteso al proprietario del terreno
utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica
senza che sia stato emesso alcun provvedimento di
esproprio);
- art. 11, commi 5 e 7, della legge n. 413/1991 che, ai fini
della determinazione della base imponibile per l’imposta sul
reddito, prendono in considerazione, rispettivamente, “le
plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di
soggetti che non esercitano imprese commerciali, di somme
comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva
conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime”
e il “risarcimento danni da occupazione acquisitiva”;
- art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992: “in caso
di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica
utilità, intervenute anteriormente al 30.09.1996, si
applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di
determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con
esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso
l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per
cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano
anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza
passata in giudicato” (comma dichiarato
costituzionalmente illegittimo da Corte cost. n. 349/2007);
- art. 55, comma 1, del d.p.r. n. 327/2001: “nel caso di
utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica
utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di
esproprio alla data del 30.09.1996, il risarcimento del
danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene”
[comma introdotto dall’art.2, comma 89, lettera e), della
legge n. 244/2007 dopo che la Corte costituzionale, con la
citata decisione n. 349/2007, presupponendo implicitamente
esistente e costituzionalmente legittima la c.d. occupazione
acquisitiva, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992, che
determinava il risarcimento del danno in misura inferiore al
valore venale del bene];
La prima delle menzionate disposizioni, escludendo la
retrocessione (da intendersi nel senso di restituzione, come
precisato da Cass. 03.04.1990, n. 2712), presuppone
evidentemente che alla trasformazione irreversibile
dell’area consegua necessariamente l’acquisto della stessa
da parte chi ha realizzato le opere. La disposizione,
tuttavia, non ha carattere generale, essendo limitata alla
utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia
residenziale pubblica, agevolata e convenzionata.
La disposizione, inoltre, come chiarito da Cass. s.u.
25.11.1992, n. 12546, si riferisce ad una fattispecie che
non può ricondursi all’istituto dell’occupazione
acquisitiva, mancando due caratteri fondamentali di questa e
cioè sia l’irreversibile destinazione del suolo privato a
parte integrante di un’opera pubblica (bene demaniale o
patrimoniale indisponibile) sia l’appartenenza a un soggetto
pubblico. Ovviamente, non ci si può nascondere che tale
disposizione è stata ritenuta, sinora, il punto di emersione
a livello normativo del fenomeno dell’occupazione
acquisitiva, del quale il legislatore avrebbe preso atto,
estendendone il campo di applicazione.
Tuttavia, nel momento in cui deve essere verificata la
possibilità di risolvere in via interpretativa il contrasto
tra l’istituto dell’occupazione acquisitiva ed i principi
dettati dall’art. 1 del protocollo addizionale alla
Convenzione EDU, non si può non rilevare che la lettera
della disposizione (abrogata dall’art. 58 del d.p.r.
327/2001 a decorrere dall’entrata in vigore dello stesso
d.p.r. e, per questo, ancora applicabile alle espropriazioni
la cui dichiarazione di pubblica utilità è anteriore al
30.06.2003) si riferisce soltanto alle utilizzazioni per
finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e
convenzionata, ipotesi non solo nella specie non ricorrente,
ma non rientrante neppure, come si è detto, nell’ambito
della figura dell’occupazione acquisitiva elaborata dalla
giurisprudenza.
Ne consegue, indipendentemente dalla configurabilità o meno
in relazione a dette finalità di una funzione sociale della
proprietà da valutare alla luce dell’art. 42 Cost.,
l’irrilevanza nel caso in esame di una questione di
legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge
n. 458/1988, in relazione al disposto dell’art. 117, comma
1, Cost..
Le sopra riportate disposizioni tributarie non disciplinano
l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma le conseguenze
sul piano fiscale della erogazione del risarcimento. Il che
significa che il fisco prende in considerazione soltanto
‘dall’esterno’, come un dato di fatto, le erogazioni
derivanti da una occupazione, che solo a fini descrittivi
della fattispecie viene qualificata come acquisitiva, senza
che le predette disposizioni ne disciplinino gli elementi
costitutivi e l’effetto della c.d. accessione invertita. Ne
consegue che l’espunzione dell’istituto dall’ordinamento non
contrasta con dette disposizioni, che restano applicabili
per il solo fatto che, su domanda del danneggiato e con
implicita rinunzia al diritto di proprietà, via sia stata
l’erogazione del risarcimento.
Per quanto concerne l’art. 55 del d.p.r. n. 327/2001 (non
occorre invece considerare l’art. 5-bis, comma 7-bis, del
d.l. n. 333/1992 in quanto, come si è detto, dichiarato
costituzionalmente illegittimo, ma per il quale varrebbe lo
stesso ragionamento), si deve osservare che tale
disposizione, pur avendo storicamente presupposto una
occupazione acquisitiva, non richiede necessariamente un
contesto nel quale l’occupazione dia luogo all’acquisizione
del terreno alla mano pubblica con esclusione restituzione
al proprietario.
La norma, infatti, prende in considerazione il risarcimento
del danno eventualmente spettante al proprietario in caso di
illecita utilizzazione del suo terreno, ma non esclude
affatto la possibilità di una restituzione del bene
illecitamente utilizzato dall’Amministrazione. In altre
parole, la disposizione in esame, sebbene vista in passato
come copertura normativa dell’istituto creato dalla
giurisprudenza, può e deve essere letta oggi come sganciata
dall’occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse
presente l’inciso ‘ove non abbia luogo la restituzione’
e non più, secondo la lettura data in precedenza, come se in
essa fosse presente l’inciso ‘non essendo possibile la
restituzione’.
In conclusione, alla luce della costante giurisprudenza
della Corte Europea dei diritti dell’uomo, quando il decreto
di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato,
l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un
privato da parte dell’Amministrazione si configurano,
indipendentemente dalla sussistenza o meno di una
dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di
diritto comune, che determina non il trasferimento della
proprietà in capo all’Amministrazione, ma la responsabilità
di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle
fattispecie già ricondotte alla figura dell’occupazione
acquisitiva, viene meno la configurabilità dell’illecito
come illecito istantaneo con effetti permanenti e,
conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d.
occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di
illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto
della restituzione, di un accordo transattivo, della
compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha
trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo
diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni
per equivalente.
A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi espressi
dall’ordinanza di rimessione, si deve escludere che il
proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore
dell’immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in
alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre
concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una
implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo
irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in
tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n.
4451 e Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha
carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non
consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della
proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione (Cass.
03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814).
La cessazione dell’illecito può aversi, infine, per effetto
di un provvedimento di acquisizione reso
dall’Amministrazione, ai sensi dell’art. 42-bis del t.u. di
cui al d.p.r. n. 327/2001, con l’avvertenza che per le
occupazioni anteriori al 30.06.2003 l’applicabilità
dell’acquisizione sanante richiede la soluzione positiva
della questione, qui non rilevante, sopra indicata al punto
n. 4 della motivazione.
Per quanto sinora detto, in accoglimento del primo motivo di
ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con
rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria che dovrà
attenersi al seguente principio di diritto: “l’illecito
spossessamento del privato da parte della p.a. e
l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la
costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche
quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità,
all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il
privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non
decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento
del danno. Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento
dei danni per il periodo, non coperto dall’eventuale
occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita
delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento
della restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto
il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla
proprietà del terreno. Ne consegue che la prescrizione
quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre
dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del
godimento, e dalla data della domanda, quanto alla
reintegrazione per equivalente” (Corte di Cassazione,
Sezz. unite civili,
sentenza 19.01.2015 n. 735 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di opere eseguite in carenza di titolo abilitativo,
l’ordine di demolizione è atto dovuto e non necessita,
pertanto, di una particolare motivazione.
Osserva il Collegio che, ai fini della decisione della
presente controversia, è sufficiente rilevare che la
costante giurisprudenza ha affermato che in presenza di
opere eseguite in carenza di titolo abilitativo, l’ordine di
demolizione è atto dovuto e non necessita, pertanto, di una
particolare motivazione (cfr., ex multis, TAR
Campania, Napoli, Sez. II, 16.10.2013, n. 4642) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 16.01.20145 n. 747 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per
abusi edilizi …. impone al Comune competente la sua disamina
e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli
atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono
efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione
nell’eventualità di un successivo rigetto dell´istanza di
sanatoria.
Osserva il Collegio che, nonostante la pendenza di un
autonomo giudizio avverso la reiezione delle domande di
condono relative alle opere oggetto del presente ricorso,
questo può essere deciso.
Infatti, con la costante giurisprudenza, questa Sezione ha
affermato che: “la presentazione di una domanda di
concessione in sanatoria per abusi edilizi …. impone al
Comune competente la sua disamina e l´adozione dei
provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi
dell´abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva
la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità
di un successivo rigetto dell´istanza di sanatoria” (ex
multis, C.d.S., Sez. V, 28.06.2012, n. 3821; 26.06.2007,
n. 3659; 19.02.1997, n. 165; IV, 16.04.2012, n. 2185; VI,
26.03.2010, n. 1750; 07.05.2009, n. 2833; 12.11.2008, n.
5646) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 16.01.2015 n. 746 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla
temporaneità della destinazione soggettivamente data
all’opera da costruttore, ma deve ricollegarsi alla
intrinseca destinazione materiale di essa ad un uso precario
e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo, con conseguente sollecita eliminazione, non essendo
sufficiente che si tratti di un manufatto smontabile e non
infisso al suolo.
Ne deriva che il carattere di precarietà non può essere
riconosciuto al manufatto adibito stabilmente ad ufficio.
Per costante giurisprudenza –dalla quale il Collegio non ha
motivo di discostarsi-, la natura precaria di un manufatto
non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all’opera da costruttore, ma deve
ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale di essa
ad un uso precario e temporaneo per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, con conseguente sollecita
eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti di un
manufatto smontabile e non infisso al suolo (cfr. ex
multis, Cass. pen., Sez. III, nn. 4002 del 1999 e 39074
del 2009).
Ne deriva che il carattere di precarietà non può essere
riconosciuto al manufatto adibito stabilmente ad ufficio. La
destinazione ad ufficio, peraltro, è chiaramente posta in
luce nel provvedimento gravato e ne costituisce congrua
motivazione, a nulla rilevando, l’intenzione della Società
di porre in vendita anche tale manufatto (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 16.01.2015 n. 737 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza della Suprema Corte è ferma nel
ritenere che le ‘pensiline’ e le ‘tettoie’ sono strutture
idonee ad aumentare l'abitabilità dell'immobile, non potendo
essere, dunque, classificate come mere opere provvisorie e
accessorie.
Ne consegue che un intervento è soggetto al permesso di
costruire, a differenza dei c.d. ‘pergolati’, costituiti da
una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte
superiore e destinati solitamente alla produzione di ombra.
Passando al merito del ricorso, deve innanzitutto rilevarsi
che non correttamente la fattispecie di causa risulta
qualificata come di autotutela, poiché, nella specie, si
verte piuttosto in un’ipotesi in cui l’Amministrazione ha
ritenuto che mancassero i presupposti per la formazione del
titolo abilitativo tramite DIA.
Prendendo congiuntamente in esame i motivi di censura, va
rilevato, infatti, che il primo dei provvedimenti impugnati,
chiaramente fa menzione della realizzazione delle opere
previste dall’art. 3, comma 1, e.5, d.P.R. n. 380 del 2001,
che espressamente comprende l’“installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere, …. che non siano diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee”.
Orbene, la giurisprudenza della Suprema Corte è ferma nel
ritenere che le ‘pensiline’ e le ‘tettoie’
sono strutture idonee ad aumentare l'abitabilità
dell'immobile, non potendo essere, dunque, classificate come
mere opere provvisorie e accessorie; ne consegue che un
intervento è soggetto al permesso di costruire, a differenza
dei c.d. ‘pergolati’, costituiti da una struttura
aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore e
destinati solitamente alla produzione di ombra (ex multis,
Cass., n. 1191 del 2012; cfr. anche TAR Brescia, n. 1481 del
2012).
Per quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere respinto,
non assumendo alcun significato a tal riguardo l’esito del
procedimento penale – come correttamente indicato
dall’Amministrazione, stante i diversi profili di
responsabilità ed il diverso rilievo assegnato all’elemento
soggettivo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 16.01.2015 n. 697 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Pa,
niente servizi professionali affidati a società commerciali.
Gare pubbliche. Il Consiglio di Stato smentisce il Tar
Liguria.
L’affidamento di servizi professionali da parte di un
ente pubblico è riservato a professionisti ed a società
professionali: non sono ammesse società commerciali, nemmeno
se hanno tra i dipendenti almeno un soggetto che ha il
requisito dell’iscrizione all’albo.
Lo precisa il
Consiglio di Stato (Sez. VI,
sentenza 16.01.2015 n. 103), che delinea alcuni
princìpi sulle gare che interessano l’esercizio di
professioni collegiate.
Il caso deciso riguarda una gara per l’affidamento del
servizio di elaborazione buste paga, gestione dei documenti
e consulenza in tema di amministrazione del personale di un
ente pubblico. Il bando prevedeva che potessero partecipare
consulenti del lavoro, avvocati, commercialisti, ragionieri
e periti commerciali, nonché le società di professionisti
(articolo 10 della legge 183/2011) e le società commerciali
con alle dipendenze almeno uno dei soggetti in possesso dei
requisiti di iscrizione al rispettivo albo professionale.
Un’apertura ritenuta legittima dal Tar Liguria, ma non dal
Consiglio di Stato, che ha posto l’accento sulla previsione
di attività riservate a professionisti iscritti ad albi.
Solo i professionisti iscritti o le società professionali
possono infatti assumere l’incarico. L’articolo 10 della
legge 183/2011 ha introdotto nel nostro ordinamento la
società professionale. La prestazione può essere affidata ad
una società, a condizione che l’esercizio dell’attività sia
riservato in via esclusiva ai soci professionisti, che essi
esprimano almeno i due terzi nelle deliberazioni degli
organi societari, che la designazione del socio
professionista incaricato dell’attività sia comunque
effettuata dall’utente e che comunque il nome del
professionista sia comunicato per iscritto all’utente.
Ciò bilancia l’esigenza di consentire l’esercizio di
attività professionali attraverso nuovi moduli organizzativi
di natura societaria, con la necessità di salvaguardare la
caratteristica propria delle professioni con albi, cioè il
carattere personale della prestazione connesso al rapporto
di fiducia.
La sentenza 103 definisce poi gli spazi riservati ai
soggetti iscritti ad albi professionali: non vi rientrano le
attività materiali (operazioni di mero calcolo e di stampa
dei cedolini), che possono essere esercitate anche da
società commerciali (centri di elaborazione dati), con
l’ausilio di un professionista; sono invece “riservate” le
attività che presuppongono elaborazioni intellettuali
implicanti il possesso di specifiche cognizioni. Nel caso
specifico, la gara richiedeva un impegno per adeguare
eventuali variazioni retributive e normative del personale,
l’assolvimento degli adempimenti presso gli enti pubblici
competenti e la consulenza per l’amministrazione del
personale. Attività che presuppongono sapere tecnico e
specifico riservato a professionisti e che giustificano una
limitazione ritenuta proporzionale all’interesse di tutelare
qualità e affidabilità.
Da un lato quindi vi sono le attività materiali (strumentali
ed accessorie), aperte ad ogni modulo economico gestionale
(comprese le società commerciali), dall’altro vi sono
attività che per impegno intellettuale, è riservata agli
iscritti in albi. In quest’ultimo caso, va rispettata la
legge 183/2011, che delinea le modalità di gestione della
prestazione professionale. Nella vicenda esaminata, il
giudice ha quindi disposto il subentro nel contratto della
società professionale al posto della società commerciale che
aveva vinto la gara
(articolo
Il Sole 24 Ore del 20.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Sull'affidamento in subappalto.
L'art. 118, c. 2, del D.Lgs. n. 163/2006, sottopone
l'affidamento in subappalto alla condizione, fra le altre,
che i concorrenti all'atto dell'offerta abbiano indicato i
lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o
parti di servizi e forniture che intendono subappaltare o
concedere in cottimo.
La disposizione -che non richiede espressamente
l'indicazione preventiva del nominativo del subappaltatore-
va peraltro interpretata nel senso che la dichiarazione in
questione deve contenere anche l'indicazione del
subappaltatore unitamente alla dimostrazione del possesso,
in capo a costui, dei requisiti di qualificazione,
ogniqualvolta il ricorso al subappalto si renda necessario a
cagione del mancato autonomo possesso, da parte del
concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione,
potendo essere limitata alla mera indicazione della volontà
di concludere un subappalto nelle sole ipotesi in cui il
concorrente disponga autonomamente delle qualificazioni
necessarie per l'esecuzione delle lavorazioni oggetto
dell'appalto, ossia nelle sole ipotesi in cui il ricorso al
subappalto rappresenti per lui una facoltà, non la via
necessitata per partecipare alla gara.
L'affermazione appare pienamente coerente con lo speculare e
consolidato indirizzo giurisprudenziale che circoscrive i
casi di legittima esclusione del concorrente autore di una
incompleta o erronea dichiarazione di subappalto alle sole
ipotesi in cui il concorrente stesso risulti sfornito in
proprio della qualificazione per le lavorazioni che ha
dichiarato di voler subappaltare, mentre negli altri casi
gli unici effetti negativi si avrebbero in fase esecutiva,
sotto il profilo dell'impossibilità di ricorrere al
subappalto come dichiarato.
La ratio di tale orientamento risiede nell'esigenza,
ricavabile in via sistematica, che la stazione appaltante
sia posta in condizione di valutare sin dall'inizio
l'idoneità di un'impresa, la quale dimostri di possedere in
proprio, o attraverso l'apporto altrui, le qualificazioni
necessarie per l'aggiudicazione del contratto, mentre non
può ammettersi che l'aggiudicazione venga disposta 'al
buio' in favore di un soggetto pacificamente sprovvisto
dei necessari requisiti di qualificazione, al quale dovrebbe
accordarsi la possibilità non soltanto di dimostrare, ma
addirittura di acquisire i requisiti medesimi a gara
conclusa, in violazione del principio della par condicio e
con il rischio per l'amministrazione procedente che
l'appaltatore così designato non onori l'impegno assunto,
rendendo necessaria la ripetizione della gara.
Il subappalto va considerato come strumento negoziale che,
pur differenziandosi dall'avvalimento sotto il profilo
strutturale, ha tuttavia in comune la funzione di allargare
la possibilità di partecipazione alle gare da parte di
soggetti sforniti dei requisiti di partecipazione (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 15.01.2015 n. 216 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
E' pur vero che, a fronte di una clausola
illegittima della lex specialis di gara, che non sia
impeditiva della partecipazione, il concorrente non è ancora
titolare di un interesse attuale all'impugnazione, poiché
ignora se l'astratta e potenziale illegittimità della
predetta clausola si risolverà in un esito negativo della
sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in
un’effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da
tale esito può derivare.
Ordinariamente, in presenza di clausola in se non ostativa
della partecipazione degli interessati –e che impone, ai
fini della partecipazione, oneri assolutamente
incomprensibili o manifestamente sproporzionati e che
comportino l'impossibilità, per l'interessato, di accedere
alla procedura ed il conseguente arresto procedimentale– la
lesione si concretizza con il provvedimento di
aggiudicazione, in quanto il soggetto che se ne duole vanta
comunque una chance di uscire vittorioso dal confronto
comparativo (con conseguente venir meno di ogni interesse a
dolersi del bando).
E' altrettanto vero che la giurisprudenza ha chiarito quali
siano le clausole che precludono ai partecipanti una
corretta e consapevole elaborazione della proposta
economica, ossia <<disposizioni abnormi o irragionevoli che
rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed
economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero
prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la
presentazione dell’offerta; condizioni negoziali che rendano
il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e
obiettivamente non conveniente; imposizione di obblighi
contra ius (es. cauzione definitiva pari all’intero importo
dell’appalto); gravi carenze nell’indicazione di dati
essenziali per la formulazione dell’offerta; presenza di
formule matematiche del tutto errate; atti di gara del tutto
mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei
costi della sicurezza “non soggetti a ribasso”>>.
Nel caso sottoposto all’esame del Collegio, la denunciata
arbitrarietà della formula scelta per l’attribuzione del
punteggio economico integra in astratto una condizione che
rende particolarmente difficoltosa l’elaborazione
dell’offerta, e la predetta circostanza rende la clausola
contestata immediatamente lesiva.
Considerato:
- che è pur vero che, a fronte di una clausola illegittima
della lex specialis di gara, che non sia impeditiva
della partecipazione, il concorrente non è ancora titolare
di un interesse attuale all'impugnazione, poiché ignora se
l'astratta e potenziale illegittimità della predetta
clausola si risolverà in un esito negativo della sua
partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in
un’effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da
tale esito può derivare (cfr. Consiglio di Stato, sez. III –
15/09/2014 n. 4698, che richiama sez. V – 25/06/2014 n. 3203
e 08/04/2014 n. 1665);
- che, ordinariamente, in presenza di clausola in se non
ostativa della partecipazione degli interessati –e che
impone, ai fini della partecipazione, oneri assolutamente
incomprensibili o manifestamente sproporzionati e che
comportino l'impossibilità, per l'interessato, di accedere
alla procedura ed il conseguente arresto procedimentale– la
lesione si concretizza con il provvedimento di
aggiudicazione, in quanto il soggetto che se ne duole vanta
comunque una chance di uscire vittorioso dal confronto
comparativo (con conseguente venir meno di ogni interesse a
dolersi del bando);
- che è altrettanto vero (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV
– 06/06/2014 n. 1470 citata da entrambe le parti) che la
giurisprudenza ha chiarito quali siano le clausole che
precludono ai partecipanti una corretta e consapevole
elaborazione della proposta economica, ossia <<disposizioni
abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo
di convenienza tecnica ed economica ai fini della
partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni
irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta;
condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale
eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente;
imposizione di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva
pari all’intero importo dell’appalto); gravi carenze
nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione
dell’offerta; presenza di formule matematiche del tutto
errate; atti di gara del tutto mancanti della prescritta
indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non
soggetti a ribasso”>>;
- che, nel caso sottoposto all’esame del Collegio, la
denunciata arbitrarietà della formula scelta per
l’attribuzione del punteggio economico integra in astratto
una condizione che rende particolarmente difficoltosa
l’elaborazione dell’offerta, e la predetta circostanza rende
la clausola contestata immediatamente lesiva (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 15.01.2015 n. 74 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Rimesse alla C.G.U.E. due questioni di compatibilità con il
diritto comunitario di normativa nazionale, in materia di
avvalimento frazionato nell'ambito dei servizi e di
esclusione dalla procedura di gara a causa della mancata
percezione dell'onere di versare di un importo per la
partecipazione alla medesima procedura.
Possono dunque formularsi i seguenti
quesiti:
1) se gli artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
debbano essere interpretati nel senso che essi ostino a una
normativa nazionale, come quella italiana sopra descritta,
che consente l’avvalimento frazionato, nei termini sopra
indicati, nell’ambito dei servizi;
2) se i principi del diritto dell’Unione europea, e
segnatamente quelli di tutela del legittimo affidamento, di
certezza del diritto e di proporzionalità, ostino, o no, a
una regola dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta
di escludere da una procedura di evidenza pubblica
un’impresa che non abbia percepito, perché non espressamente
indicato dagli atti di gara, un obbligo -il cui
inadempimento sia sanzionato con l’esclusione- di provvedere
al versamento di un importo per i fini della partecipazione
alla predetta procedura e ciò nonostante che l’esistenza di
detto obbligo non sia chiaramente desumibile sulla base del
tenore letterale della legge vigente nello Stato membro, ma
sia tuttavia ricostruibile a seguito di una duplice
operazione giuridica, consistente, dapprima,
nell’interpretazione estensiva di talune previsioni
dell’ordinamento positivo dello stesso Stato membro e, poi,
nella integrazione –in conformità agli esiti di tale
interpretazione estensiva- del contenuto precettivo degli
atti di gara”.
B. - Il diritto
nazionale e quello dell’Unione europea.
B1. – Ad avviso del Collegio la controversia intercetta due
questioni, rilevanti ai fini della decisione, in relazione
alle quali occorre acquisire l’avviso della Corte di
Giustizia dell’Unione europea in ordine alla corretta
interpretazione del diritto sovranazionale.
B2. – La prima questione concerne la valutazione della
legittimità, con riguardo al diritto dell’Unione europea,
della possibilità, o no, per un’impresa partecipante a una
gara di evidenza pubblica, di ricorrere all’istituto dell’avvalimento
anche in forma frazionata, ossia anche per integrare un
requisito posseduto solo in parte (come verificatosi nel
caso di specie per la CRGT, la quale ebbe a presentare, in
luogo di due, una sola dichiarazione di un istituto
bancario, avvalendosi, per l’altra dichiarazione, del
requisito posseduto dall’impresa ausiliaria).
B3. – La seconda questione concerne il rapporto di
compatibilità, o no, tra i principi eurounitari della tutela
del legittimo affidamento, della certezza del diritto e
della proporzionalità, tutti di valenza generale, da un
lato, e, dall’altro lato, con quello della parità di
trattamento tra le imprese concorrenti, nelle ipotesi in cui
– come quella in esame – la normativa di gara (bando e
disciplinare) non abbia prescritto espressamente, ai fini
della valida partecipazione a una gara, il possesso di un
requisito (sotto forma, nella specie, della prova
dell’adempimento di un obbligo di versamento di una somma),
ancorché la necessità del requisito in parola possa
ricavarsi, attraverso una duplice operazione giuridica di a)
interpretazione estensiva del quadro normativo vigente e b)
di eterointegrazione degli atti di indizione della
procedura.
B4. – Riguardo al tema dell’avvalimento (prima questione),
la normativa nazionale è contenuta nell’art. 49 del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE), con il quale sono stati recepiti
in Italia gli artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE e
l’art. 54 della direttiva 2004/17/CE (per esigenze di
brevità non si riporta il testo dei succitati artt. 47, 48 e
54). L’art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006 non vieta l’avvalimento
frazionato, se non per i lavori nell’ipotesi di cui al comma
6 (comma -peraltro, di recente sostituito dall’art. 21,
comma 1, della L. 30.10.2014, n. 161- non applicabile al
caso di specie ratione temporis).
B5. – Con riferimento alla seconda questione, va
osservato che la normativa della gara della quale si
controverte incontestabilmente non prevedeva espressamente,
a pena di esclusione, l’obbligo per le imprese partecipanti
di provvedere al pagamento del contributo dovuto all’AVCP
(Autorità indipendente, di recente soppressa dall’art. 19
del D.L. n. 90/2014, in quanto sostituita dall’ANAC);
sennonché la sussistenza di tale obbligo è ricavabile, come
sopra spiegato, mediante l’interpretazione estensiva
dell'art. 1, commi 65 e 67, della legge 23.12.2005, n. 266
(legge finanziaria per il 2006; in particolare, il primo
periodo del succitato comma 67 recita: “L'Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici, cui è riconosciuta autonomia
organizzativa e finanziaria, ai fini della copertura dei
costi relativi al proprio funzionamento di cui al comma 65
determina annualmente l'ammontare delle contribuzioni ad
essa dovute dai soggetti, pubblici e privati, sottoposti
alla sua vigilanza, nonché le relative modalità di
riscossione, ivi compreso l'obbligo di versamento del
contributo da parte degli operatori economici quale
condizione di ammissibilità dell'offerta nell'ambito delle
procedure finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche.”):
invero, sebbene le norme citate si riferiscano testualmente
soltanto alla realizzazione delle opere pubbliche,
nondimeno, per un verso, la AVCP, nelle sue deliberazioni
(deliberazioni del 24.01.2008, del 03.11.2010, del
21.12.2011 e del 05.03.2014), ha ritenuto che il mancato
effettivo versamento del contributo comporti, a prescindere
dalla tipologia del contratto messo a gara, la legittima
esclusione dell’impresa inadempiente dalla selezione ad
evidenza pubblica, e, per altro verso, la giurisprudenza
amministrativa, anche dell’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato (ad esempio, la recente sentenza n. 9 del
25.02.2014, nella quale si legge che, nel caso di una legge
di gara “silente”, come quello di cui alla presente
controversia, “la portata imperativa delle norme che
prevedono tali adempimenti conduce, ai sensi dell'art. 1339
Cod. civ., alla eterointegrazione del bando e
successivamente, in caso di violazione dell'obbligo,
all'esclusione del concorrente”), ha affermato che
un’impresa possa essere esclusa da una procedura di evidenza
pubblica anche per la mancata dimostrazione del possesso di
un requisito non richiesto espressamente dalla normativa di
gara, allorquando la necessità del requisito sia desumibile
per effetto dell’operare del meccanismo di eterointegrazione
degli atti amministrativi, meccanismo che, nell’ordinamento
italiano, poggia in via generale sull’art. 1339 c.c.,
secondo cui “Le clausole, i prezzi di beni o di servizi,
imposti dalla legge, sono di diritto inseriti nel contratto,
anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle
parti.”.
La tutela del legittimo affidamento, la certezza del diritto
e la proporzionalità sono principi generali del diritto
dell’Unione europea, di applicazione trasversale
(giurisprudenza pacifica; tra le molte, decisione sul
legittimo affidamento, CGUE n. 201 del 10.09.2009; n. 383
del 13.03.2008; n. 217 del 04.10.2007; sulla certezza del
diritto, CGUE n. 576 dell’11.07.2013; n. 72 del 16.02.2012;
n. 158 del 18.11.2008; sulla proporzionalità, CGUE n. 234
del 18.07.2013; n. 427 del 28.02.2013), e pure del diritto
italiano.
C. - Illustrazione dei motivi del rinvio pregiudiziale.
C1. – Con riferimento alla prima questione sopra
esposta, il Collegio ritiene che, sulla base della normativa
vigente in Italia, l’avvalimento al quale ha fatto ricorso
la CRGT, nonostante le modalità in concreto seguite (ossia,
in relazione a una soltanto delle referenze bancarie), non
fosse vietato, trattandosi di affidamento di servizi. La
generale possibilità di ricorrere all’avvalimento consente
infatti di farne anche un uso frazionato, come ha affermato
la giurisprudenza amministrativa italiana.
Invero il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza n.
5874/2013 (v. anche Cons. Stato, sez. V, 28.04.2014, n.
2200), ha ricordato come la Corte di Giustizia, sez. V, con
pronuncia del 10.10.2013 in causa C-94/12, abbia
riconosciuto l’ammissibilità del c.d. “avvalimento
plurimo o frazionato” e che tale orientamento è
vincolante per il giudice nazionale, oltre a risultare
conforme a quello già espresso dal medesimo Consiglio di
Stato, sez. V, con sentenza dell’08.02.2011, n. 857. Del
resto, se si ammette che un’impresa possa ricorrere all’avvalimento
per entrambe le referenze bancarie, a fortiori la logica
elementare dovrebbe condurre a concludere che il medesimo
istituto possa essere attivato anche per una sola referenza,
atteso che il “più” comprende il “meno”.
Sennonché, dal momento che la fattispecie oggetto della
controversia è differente da quella esaminata nel citato
precedente della Corte di Giustizia dell’Unione europea, il
Collegio reputa doveroso richiedere, sul punto, la corretta
interpretazione del diritto dell’Unione europea, anche in
considerazione del nuovo quadro normativo riveniente dalla
direttiva 2014/24/UE (norme non ancora recepite in Italia,
ma comunque applicabili, quanto meno sotto il profilo
dell’obbligo, in capo ai giudici nazionali, di selezionare e
di prediligere, tra tutte le possibili interpretazioni del
diritto interno, soltanto le esegesi conformi alle norme
eurounitarie da recepire).
Difatti, sotto certi aspetti, l’art. 63 di detta direttiva
sembra aver limitato in parte l’ampio, pregresso favor per
l’istituto dell’avvalimento, quanto meno in relazione a due
profili, ossia riguardo alla possibilità per
l'amministrazione aggiudicatrice di esigere, proprio nel
caso di avvalimento dei requisiti di capacità economica e
finanziaria (il c.d. “avvalimento di garanzia”), che
l'operatore economico ausiliato e i soggetti ausiliari siano
solidalmente responsabili dell'esecuzione del contratto e,
in secondo luogo, con riferimento alla potestà delle
amministrazioni aggiudicatrici (nel caso di appalti di
lavori, di appalti di servizi e di operazioni di posa in
opera o installazione nel quadro di un appalto di fornitura)
di pretendere discrezionalmente che talune prestazioni
critiche siano direttamente svolte dall'offerente stesso
(quindi, con divieto di avvalimento).
C2. – Con riferimento alla seconda questione, il
Collegio muove dalla considerazione che l’ordinamento
dell’Unione europea riconosce il principio della tutela del
legittimo affidamento. Nella fattispecie detto principio
viene in rilievo, dal momento che, come già chiarito, la
disciplina della gara al centro del contendere non prevedeva
espressamente l’adempimento dell’obbligo di versamento del
contributo all’AVCP, per il cui inadempimento la CRGT è
stata esclusa dalla gara, e, per di più, tale obbligo, a ben
vedere, nemmeno era chiaramente ed espressamente previsto
dal diritto positivo italiano (v. il citato art. 1, commi 65
e 67, della L. n. 266/2005) per il settore dei servizi, ma
esso si ricavava per via di interpretazione (alla luce di
altri atti amministrativi, rappresentati dalle richiamate
deliberazioni dell’AVCP) e di eterointegrazione (in forza
dell’applicazione dell’art. 1339 c.c.) degli atti di gara.
In altri termini, il Collegio si domanda se il principio
della tutela del legittimo affidamento, insieme a quelli
della certezza del diritto e della proporzionalità, come
riconosciuti nel diritto dell’Unione europea, ostino, o no,
a una regola del diritto italiano, come sopra ricostruita
(anche sulla base della giurisprudenza dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato), che consenta di escludere
da una procedura di evidenza pubblica un’impresa che abbia
fatto affidamento, per l’appunto, sulla completezza degli
atti amministrativi con i quali sia stata indetta una gara.
Si domanda, in particolare, se il principio del pari
trattamento delle imprese partecipanti a una procedura di
affidamento di un contratto pubblico debba sempre e comunque
prevalere sugli altri principi sopra evocati e, quindi, se
il menzionato principio di par condicio, una volta applicato
al caso di specie, debba condurre fino al punto di ritenere
che il seggio di gara non potesse concedere alla CRGT (ma,
in luogo della CRGT, si sarebbe potuta trovare una qualunque
altra impresa dell’Unione) la possibilità di effettuare, pur
in pendenza del procedimento, il versamento, incolpevolmente
omesso in precedenza.
La questione, ovviamente, postula la valutazione
dell’effettiva sussistenza di una colpa inescusabile nel
comportamento di un’impresa la quale, onde percepire
l’esistenza della causa di esclusione, sia tenuta –stante il
silenzio degli atti di gara– a compiere una duplice
operazione giuridica, consistente, dapprima, nell’estensione
oggettiva per via interpretativa dell’obbligo legale di
versamento del contributo, previsto espressamente solo per
le opere pubbliche, anche al settore dei servizi e,
successivamente, di eterointegrazione in tal senso della
normativa della specifica procedura.
In altri, più semplici, termini, il Collegio si domanda se
la considerazione dei suddetti principi del diritto
dell’Unione europea (tutela del legittimo affidamento,
proporzionalità, certezza del diritto; può aggiungersi, a
ben vedere, anche il principio del favor participationis)
non dovessero spingere la stazione appaltante a consentire,
più ragionevolmente della scelta di disporre l’esclusione
(anche) della CRGT, la regolarizzazione del requisito “occulto”
risultato omesso, accordando alla citata impresa un breve
termine per provvedere al pagamento del contributo. Si
ribadisce che, al posto della CRGT, si sarebbe potuta
trovare un’impresa non italiana, la quale, evidentemente,
avrebbe verosimilmente incontrato finanche maggiori
difficoltà della CRGT nell’acquisire piena conoscenza delle
deliberazioni di un’Autorità indipendente e pure
nell’apprendere dell’esatta interpretazione
giurisprudenziale dell’art. 1339 c.c.
D. - Formulazione dei quesiti.
D1. – Alla stregua di tutto quanto sopra osservato e
considerato, possono dunque formularsi i seguenti quesiti:
“1) se gli artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
debbano essere interpretati nel senso che essi ostino a una
normativa nazionale, come quella italiana sopra descritta,
che consente l’avvalimento frazionato, nei termini sopra
indicati, nell’ambito dei servizi;
2) se i principi del diritto dell’Unione europea, e
segnatamente quelli di tutela del legittimo affidamento, di
certezza del diritto e di proporzionalità, ostino, o no, a
una regola dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta
di escludere da una procedura di evidenza pubblica
un’impresa che non abbia percepito, perché non espressamente
indicato dagli atti di gara, un obbligo -il cui
inadempimento sia sanzionato con l’esclusione- di provvedere
al versamento di un importo per i fini della partecipazione
alla predetta procedura e ciò nonostante che l’esistenza di
detto obbligo non sia chiaramente desumibile sulla base del
tenore letterale della legge vigente nello Stato membro, ma
sia tuttavia ricostruibile a seguito di una duplice
operazione giuridica, consistente, dapprima,
nell’interpretazione estensiva di talune previsioni
dell’ordinamento positivo dello stesso Stato membro e, poi,
nella integrazione –in conformità agli esiti di tale
interpretazione estensiva- del contenuto precettivo degli
atti di gara”.
E. - Sospensione del giudizio e disposizioni per la
Segreteria.
E1. - In conclusione, si rimettono all’esame della CGUE le
sopra esposte questioni di corretta interpretazione del
diritto dell’Unione europea
(C.G.A.R.S.,
ordinanza 15.01.2015 n. 1 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'istituto del soccorso istruttorio nelle gare
d'appalto.
Per meglio definire il perimetro del "soccorso istruttorio"
è necessario distinguere tra i concetti di "regolarizzazione
documentale" ed "integrazione documentale": la
linea di demarcazione discende naturaliter dalle
qualificazioni stabilite ex ante nel bando, nel senso
che il principio del "soccorso istruttorio" è
inoperante ogni volta che vengano in rilievo omissioni di
documenti o inadempimenti procedimentali richiesti a pena di
esclusione dalla legge di gara (specie se si è in presenza
di una clausola univoca), dato che la sanzione scaturisce
automaticamente dalla scelta operata a monte dalla legge,
senza che si possa ammettere alcuna possibilità di esercizio
del "potere di soccorso"; conseguentemente,
l'integrazione non è consentita, risolvendosi in un
effettivo vulnus del principio di parità di trattamento; è
consentita, invece, la mera regolarizzazione, che attiene a
circostanze o elementi estrinseci al contenuto della
documentazione e che si traduce, di regola, nella rettifica
di errori materiali e refusi.
Il "soccorso istruttorio" consente di completare
dichiarazioni o documenti già presentati (ma, non di
introdurre documenti nuovi), solo in relazione ai requisiti
soggettivi di partecipazione dell'impresa; esso non può
essere mai utilizzato per supplire a carenze dell'offerta
sicché non può essere consentita al concorrente negligente
la possibilità di completare l'offerta successivamente al
termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di
errori materiali o refusi.
Inoltre, il "soccorso istruttorio" ricomprende la
possibilità di chiedere chiarimenti, purché il possesso del
requisito sia comunque individuabile dagli atti depositati e
occorra soltanto una delucidazione ovvero un aggiornamento;
in tal caso non si sta discutendo della esistenza del
requisito ma soltanto di una (consentita) precisazione che
non innova e non altera la par condicio e la legalità della
gara, avendo ad oggetto un fatto meramente integrativo, da
un punto di vista formale, di una situazione sostanzialmente
già verificatasi e acquisita (TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 14.01.2015 n. 551 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di specie "non si è proceduto
all’ampliamento della finestra ma unicamente alla
sostituzione dell’originario infisso in legno fatiscente con
uno nuovo uguale in alluminio anodizzato bianco, come per
gli altri due vani di finestra e balcone……La struttura
muraria è stata quindi interessata dai tagli necessari per
l’adeguamento dei vecchi abitacoli al telaio del nuovo
infisso….altrettanto dicasi per gli architravi in legno che
vengono sostituiti con materiale più idoneo, con l’ovvio
obbligo di raccordare il tutto con l’intonaco e il colore
delle parete coinvolte…”.
Pertanto, come descritto anche nella relazione periziale,
l’intervento eseguito dalla ricorrente è consistito nella
sostituzione dell’infisso in legno con uno nuovo in
alluminio anodizzato, ancorato lo stesso al muro con la
putrella, su cui collocare poi l’intonaco.
Ne deriva quindi che, in aderenza all’orientamento della
giurisprudenza al riguardo, tale tipologia di intervento di
sostituzione o di rinnovamento di serramenti -quali infissi,
serrande, finestre e abbaini- rientra nel concetto di
finiture di edifici, come tale configurabile in termini di
manutenzione ordinaria (ai sensi dell'art. 31 della
l. n. 457 del 1978, all’epoca vigente, ora art. 3, lett. a),
t.u. 06.06.2001, n. 380) e, cioè, di attività libera e non
soggetta ad alcun tipo di autorizzazione e ciò sia che
vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che
la sostituzione o il rinnovamento vengano effettuati con
materiali diversi, in quanto nel caso le opere non
comportano modifiche strutturali e di trasformazione
dell’organismo edilizio.
3.1. Con l’ordinanza n. 176/1997 il Sindaco del Comune di
Sperlonga ha intimato alla ricorrente la immediata
sospensione dei lavori eseguiti nell’immobile sito in Via
Nicotera Giovanni n. 29, consistenti nell’“ampliamento di
circa 15 cm sia in altezza che in larghezza, di una finestra
preesistente……con consolidamento dell’architrave in cemento
e putrelle in ferro”, richiamando la normativa in
materia di protezione delle bellezze naturali, e con
successiva ordinanza n. 187 del 04.12.1996, con il richiamo
ai medesimi presupposti, ha ingiunto la demolizione delle
opere stesse. In seguito con il verbale 02.04.1997, prot. n.
630 il Corpo di Polizia Municipale del Comune di Sperlonga
ha accertato la inottemperanza alla predetta ordinanza di
demolizione.
Parte ricorrente lamenta, nella sostanza, di non aver
effettuato alcuna modifica della situazione preesistente, ma
solo di aver sostituito un infisso in legno fatiscente con
altro identico; in particolare, secondo la ricorrente, si
tratterebbe di opere di manutenzione ordinaria, senza alcun
ampliamento della finestra, circostanza comprovata dalla
perizia allegata, posto che la violazione contestata (nella
misura di cm. 15 circa) sarebbe riferita alla sostituzione
del materiale dell’intonaco e dell’architrave.
3.2. Tali doglianze sono fondate alla luce di quanto
rappresentato e documentato in atti, non contestato
dall’Amministrazione intimata, e risultante anche dalla
perizia di parte secondo cui “non si è proceduto
all’ampliamento della finestra richiamata, ma unicamente
alla sostituzione dell’originario infisso in legno
fatiscente con uno nuovo uguale in alluminio anodizzato
bianco, come per gli altri due vani di finestra e
balcone……La struttura muraria è stata quindi interessata dai
tagli necessari per l’adeguamento dei vecchi abitacoli al
telaio del nuovo infisso….altrettanto dicasi per gli
architravi in legno che vengono sostituiti con materiale più
idoneo, con l’ovvio obbligo di raccordare il tutto con
l’intonaco e il colore delle parete coinvolte…”.
Pertanto, come descritto anche nella relazione periziale,
l’intervento eseguito dalla ricorrente è consistito nella
sostituzione dell’infisso in legno con uno nuovo in
alluminio anodizzato, ancorato lo stesso al muro con la
putrella, su cui collocare poi l’intonaco.
Ne deriva quindi che, in aderenza all’orientamento della
giurisprudenza al riguardo, tale tipologia di intervento di
sostituzione o di rinnovamento di serramenti -quali infissi,
serrande, finestre e abbaini- rientra nel concetto di
finiture di edifici, come tale configurabile in termini di
manutenzione ordinaria (ai sensi dell'art. 31 della
l. n. 457 del 1978, all’epoca vigente, ora art. 3, lett. a),
t.u. 06.06.2001, n. 380) e, cioè, di attività libera e non
soggetta ad alcun tipo di autorizzazione e ciò sia che
vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che
la sostituzione o il rinnovamento vengano effettuati con
materiali diversi, in quanto nel caso le opere non
comportano modifiche strutturali e di trasformazione
dell’organismo edilizio (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II,
09.05.2005, n. 3438; Tar Piemonte, sez. I, 12.04.2010, n.
1761).
Del resto l’Amministrazione non ha dimostrato la rilevante
alterazione dell’aspetto esteriore dei luoghi in relazione
alla tipologia dell’edificio e alla sua eventuale
collocazione paesistico-ambientale, in mancanza di idonee
risultanze istruttorie condotte dalla stessa, in disparte la
insufficienza dei presupposti giuridici di cui ai meri
richiami contenuti nelle ordinanze alla normativa ordinaria,
senza la indicazione di specifici regimi vincolistici
applicabili effettivamente al caso di specie (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-ter,
sentenza 14.01.2015 n. 528 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L’organico
carente giustifica il ritardo. Magistrati. La Cassazione ha
escluso il provvedimento disciplinare se il contesto è
disorganizzato.
Il magistrato non può essere punito per il ritardo nel
deposito delle sentenze se lavora in un ufficio sotto
organico.
La Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, con la
sentenza 14.01.2014 n. 470, annulla la decisione
del Csm di punire con la censura un magistrato colpevole di
aver collezionato ritardi sul 70% delle decisioni
depositate.
Una lancia in favore dell’incolpata l’aveva spezzata il
procuratore generale della Cassazione, che aveva escluso
l’antigiuridicità della condotta chiedendo ai probiviri una
marcia indietro, in considerazione delle condizioni di
lavoro che esistevano nella sezione in cui il magistrato
prestava servizio.
In due anni si erano trasferiti due consiglieri su cinque e
il lavoro era stato spalmato sui tre rimasti, che avevano
ereditato materie complesse e ampie: dalle locazioni alla
responsabilità professionale, dagli appalti al condominio.
Il tutto reso più pesante dalle sopravvenienze: un +50%
registrato in una tabella approvata dallo stesso Csm.
Motivi che il Pg riteneva sufficienti per escludere
l’addebito a differenza del Csm che respinge la richiesta di
accogliere il ricorso. Secondo la sentenza impugnata, le
condizioni di lavoro e la scopertura dell’organico non
avevano inciso sull’elevato numero di ritardi che superavano
i 300 giorni e la scarsa produttività era testimoniata
dall’esiguo numero di procedimenti depositati e delle
udienze tenute. La Cassazione invita però la sezione
disciplinare a fare una nuova valutazione esaminando i fatti
e le testimonianze dei colleghi in favore dell’incolpata.
Il rispetto dei tempi imposti dalla giurisprudenza
comunitaria e dalla Cedu non può prescindere dal ruolo
chiave, che la stessa Convenzione affida agli Stati,
nell’organizzare gli uffici giudiziari, dotandoli di
organico efficiente e strutture adeguate. Prescrizione che
nel caso esaminato non sembrava rispettata: i consiglieri in
attività avevano segnalato ai presidenti di sezione e di
Corte d’appello la grave carenza d’organico della sezione,
ma il problema era stato risolto aumentando d’ufficio il
carico di lavoro «sottraendo al magistrato la razionale
auto-organizzazione e gestione del proprio lavoro».
Da verificare anche il numero dei provvedimenti depositati
in tempo, visto il divario nelle affermazioni della difesa e
dell’”accusa”: 499 per la prima solo 199 per la seconda, con
un ritardo nel 70% dei casi. Il controllo impone il
confronto con le sentenze prodotte dai colleghi a parità di
condizioni. Altri nodi da sciogliere riguardano l’osservanza
del piano di rientro dopo il trasferimento del magistrato ad
altra sezione e i successivi pareri favorevoli espressi
sulla sua professionalità: va verificata la congruenza tra
la valutazione positiva, ai fini della progressione della
carriera e il provvedimento disciplinare basato sulla stessa
condotta (articolo
Il Sole 24 Ore del 15.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
È reato installare senza SCIA un condizionatore
esterno in area vincolata.
Cassazione: in zona vincolata l'installazione del
condizionatore senza il rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica comporta il reato previsto dall'art. 181 del
d.lgs. n. 42/2004.
Con la
sentenza
13.01.2015 n. 952 la III Sez. penale della Corte di
Cassazione, richiamando la consolidata giurisprudenza
amministrativa, ha ribadito il principio secondo il quale
i climatizzatori o i condizionatori
costituiscono impianti tecnologici e pertanto se collocati
all'esterno dei fabbricati rientrano nel novero degli
interventi edilizi definiti dall'art. 3 del d.P.R. n. 380
del 2001 sicché sono assoggettati alla relativa normativa di
settore, con la conseguenza che la loro realizzazione o
installazione, seppure non necessitante del permesso di
costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di
inizio di attività (S.C.I.A.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R.
n. 380/2001.
Nella vicenda oggetto del pronunciamento della suprema
Corte, alla proprietaria di un esercizio commerciale era
stata imputata la violazione dell'art. 44, lett. a), d.P.R.
n. 380 del 2001 per avere in qualità di committente
installato, in un'area sottoposta a vincolo paesaggistico,
un condizionatore d'aria in assenza di alcun titolo
autorizzativo e senza osservare il regolamento edilizio
comunale.
DECRETO SBLOCCA ITALIA.
Nella sentenza la Corte di Cassazione ricorda che l'articolo
3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380/2001, come
modificato dall'art. 17, comma 1 del decreto Sblocca Italia
(decreto legge 12.09.2014, n. 133 convertito nella legge
11.11.2014, n. 164) tuttora include tra gli interventi di
manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e
non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
L'articolo 22, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 richiede, per
tali interventi, una SCIA, trattandosi dell'installazione di
impianti che si pongano in rapporto di strumentalità
necessaria rispetto a edifici preesistenti.
Ciò posto, la Cassazione ribadisce che l'esecuzione in
assenza o in difformità degli interventi subordinati a
denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi 1 e 2,
del d.P.R. n. 380/2001 –ora SCIA– allorché non conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore,
comporta l'applicazione della sanzione penale prevista
dall'art. 44 lettera a) del citato d.P.R. n. 380/2001,
atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in
assenza o difformità dalla DIA (ora SCIA), ma conformi alla
citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa
prevista dall'art. 37 dello stesso decreto 380/2001.
Nel caso di specie, l'installazione del condizionatore
d'aria è stata eseguita in violazione dell'art. 17 del
regolamento edilizio comunale e senza la segnalazione
certificata di inizio attività, per cui correttamente è
stata ritenuta la violazione dell'art. 44 lett. a) d.P.R. n.
380/2001.
LA DISCIPLINA DELL'ATTIVITÀ EDILIZIA
LIBERA. L'opera
installata dalla ricorrente, quindi, non rientrava tra le
attività edilizie libere ossia tra gli interventi eseguibili
senza alcun titolo abilitativo. Anche con riferimento a
questi ultimi interventi, la Cassazione ricorda che sono
sempre fatte salve le prescrizioni degli strumenti
urbanistici comunali e comunque l'attività edilizia c.d.
libera deve essere attuata nel rispetto delle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie,
di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle
disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del
paesaggio, di cui al decreto legislativo n. 42/2004 (art. 6,
comma 1, d.P.R. n. 380/2001).
AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA.
Di conseguenza, poiché l'intervento è stato eseguito in zona
nella quale era imposto il vincolo paesaggistico,
l'esecuzione dell'opera era condizionata al rilascio del
nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo, derivando dal mancato rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica l'integrazione della fattispecie di reato
prevista dall'art. 181 del d.lgs. n. 42/2004
(commento tratto da www.casaeclima.com. |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima l'ordinanza di demolizione di opere abusive
laddove si faccia meramente rinvio
ai verbali di accertamento dei VV.UU., che descrivono i
manufatti, richiamati per relationem nelle stesse ordinanze.
Al riguardo va rilevato che il richiamo nell'ordinanza ai
verbali di accertamento –con l’indicazione degli estremi ai
fini dell’identificazione– corrisponde ad una tecnica
motivazionale pienamente ammessa dall’art. 3 della legge n.
241 del 1990 specie allorquando, come nel caso in esame, i
provvedimenti siano preceduti da tali atti istruttori,
acquisibili mediante accesso dall’interessato e pertanto non
può imputarsi l’illegittimità per difetto di motivazione.
---------------
Circa l'illegittima applicazione della legge n. 47 del 1985
al caso di specie, in quanto dai verbali di ispezione
l’impianto trasmittente risulterebbe esistente fin dal 1980
e quindi dovrebbe essere disciplinato dalla legge vigente
all’epoca ossia la legge n. 10 del 1977, tale doglianza non
può essere condivisa tenuto conto del consolidato
orientamento della giurisprudenza riguardo la legittimità
del provvedimento amministrativo che va accertata con
riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al
momento della sua emanazione, secondo il principio del
tempus regit actum, con la conseguenza che non può essere
invocata, a supporto della legittimità dell’atto emanando,
una norma che al momento dell’emanazione dell’atto abbia
perso la sua efficacia.
---------------
Con riferimento alla violazione della norma procedimentale
per la mancata indicazione dell’Autorità cui ricorrere e del
termine, la doglianza non è condivisibile alla luce del
costante orientamento della giurisprudenza secondo cui la
mancata indicazione nel provvedimento impugnato dei termini
e dell'Autorità cui ricorrere concreta unicamente una mera
irregolarità, non incidente sulla validità e sull'efficacia
del provvedimento stesso in quanto la disposizione dell'art.
3, comma 4, della legge n. 241 del 1990 non influisce
sull'individuazione e sulla cura dell'interesse pubblico
concreto cui è finalizzato il provvedimento, né sulla
riconducibilità dello stesso all'autorità amministrativa, ma
tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela
giurisdizionale, con la conseguenza che tale omissione può
tutt’al più dar luogo, nel concorso di significative e
ulteriori circostanze, alla concessione del beneficio della
rimessione in termini.
3.2. Con riferimento alla illegittimità delle ordinanze di
demolizione per la mancata individuazione delle opere da
rimuovere (secondo mezzo) e il difetto di motivazione ed
erronea prospettazione dei fatti (quarto mezzo) si rileva
che le doglianze non sono condivisibili: infatti le opere da
demolire sono desumibili dall’ordinanza impugnata tenuto
conto della espressa indicazione ivi contenuta dell’“impianto
di radio diffusione” -che per la tipologia dello stesso
è identificabile nella specifica struttura propria di tali
impianti (traliccio, basamento, struttura annessa)– nonché
chiaramente individuato mediante il rinvio ai verbali di
accertamento dei VV.UU., che descrivono i manufatti,
richiamati per relationem nelle stesse ordinanze
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.03.2014, n. 1456; Tar
Calabria, Catanzaro, sez. I, 26.05.2014, n. 811)
Al riguardo va rilevato che il richiamo nelle ordinanze in
questione ai verbali di accertamento –con l’indicazione
degli estremi ai fini dell’identificazione– corrisponde ad
una tecnica motivazionale pienamente ammessa dall’art. 3
della legge n. 241 del 1990 specie allorquando, come nel
caso in esame, i provvedimenti siano preceduti da tali atti
istruttori, acquisibili mediante accesso dall’interessato e
pertanto non può imputarsi l’illegittimità per difetto di
motivazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.03.2014, n. 1420)
3.3. Parimenti infondato è l’ulteriore vizio denunciato da
parte ricorrente riguardo la illegittima applicazione della
legge n. 47 del 1985 al caso di specie, in quanto dai
verbali di ispezione l’impianto trasmittente risulterebbe
esistente fin dal 1980 e quindi dovrebbe essere disciplinato
dalla legge vigente all’epoca ossia la legge n. 10 del 1977
(terzo mezzo).
Tale doglianza non può essere condivisa tenuto conto del
consolidato orientamento della giurisprudenza riguardo la
legittimità del provvedimento amministrativo che va
accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto
esistente al momento della sua emanazione, secondo il
principio del tempus regit actum, con la conseguenza
che non può essere invocata, a supporto della legittimità
dell’atto emanando, una norma che al momento dell’emanazione
dell’atto abbia perso la sua efficacia (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 16.04.2013, n. 2094; Tar Piemonte, sez. I,
18.04.2014, n. 688)
3.4. Con riferimento alla violazione della norma
procedimentale per la mancata indicazione dell’Autorità cui
ricorrere e del termine (quinto mezzo), la doglianza non è
condivisibile alla luce del costante orientamento della
giurisprudenza secondo cui la mancata indicazione nel
provvedimento impugnato dei termini e dell'Autorità cui
ricorrere concreta unicamente una mera irregolarità, non
incidente sulla validità e sull'efficacia del provvedimento
stesso in quanto la disposizione dell'art. 3, comma 4, della
legge n. 241 del 1990 non influisce sull'individuazione e
sulla cura dell'interesse pubblico concreto cui è
finalizzato il provvedimento, né sulla riconducibilità dello
stesso all'autorità amministrativa, ma tende semplicemente
ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, con la
conseguenza che tale omissione può tutt’al più dar luogo,
nel concorso di significative e ulteriori circostanze, alla
concessione del beneficio della rimessione in termini (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 16.04.2012, n. 2139; idem, sez. VI,
05.03.2013, n. 1297; sez. III, 16.04.2014, n. 1920; Tar
Lazio, Roma, sez. II, 13.12.2011, n. 9709; Tar Lombardia,
Milano, sez. I, 08.05.2014, n. 1199; Tar Campania, Napoli,
sez. VII, 09.05.2014, n. 2589) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 13.01.2015 n. 431 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
in astratto l’installazione di un’antenna di un impianto
radiofonico non costituisce trasformazione del territorio
comunale agli effetti delle leggi urbanistiche, senza la
necessità di specifica autorizzazione edilizia, la
realizzazione di simili manufatti va però considerata anche
in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli
impianti, richiedendosi la concessione edilizia in caso di
installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni,
con annessi altri manufatti accessori.
Al riguardo, va rilevato che i manufatti come accertati sono
costituiti da un box in lamiera di m. 4 x 4 circa e da un
traliccio di ferro alto circa 25 metri con basamento in
calcestruzzo cementizio che costituiscono strutture edilizie
che secondo l’orientamento della giurisprudenza, tenuto
conto delle rilevanti dimensioni dei tralicci e delle
antenne, devono essere valutate come soggette a permesso di
costruire, imponendosi la necessità di considerare la natura
e la consistenza di tali manufatti.
Infine parimenti infondate sono le doglianze relative alla
qualificazione dei manufatti contestati come opere
assentibili necessariamente mediante titolo autorizzatorio
(sesto e settimo mezzo). A tal proposito occorre rilevare
che, come risulta dalla documentazione in atti, gli impianti
radiofonici, consistenti in antenne, apparecchiature
elettroniche e box di servizio situati nell’area interessata
sono stati oggetto di accertamenti da parte del Comando dei
Vigili Urbani del Comune nonché di un articolato
procedimento giudiziario nei confronti dei soggetti titolari
degli impianti medesimi (tra cui il ricorrente).
I successivi provvedimenti demolitori impugnati sono stati
preceduti da tali atti istruttori, che ne costituiscono il
presupposto di fatto accertandone la consistenza in concreto
e l’impatto nell’ambito del territorio interessato.
Orbene, se in astratto l’installazione di un’antenna di un
impianto radiofonico non costituisce trasformazione del
territorio comunale agli effetti delle leggi urbanistiche,
senza la necessità di specifica autorizzazione edilizia, la
realizzazione di simili manufatti va però considerata anche
in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli
impianti, richiedendosi la concessione edilizia in caso di
installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni,
con annessi altri manufatti accessori (cfr. Tar Sicilia,
Palermo, sez. II, 07.03.2008, n. 310).
Al riguardo, va rilevato che i manufatti come accertati sono
costituiti da un box in lamiera di m. 4 x 4 circa e da un
traliccio di ferro alto circa 25 metri con basamento in
calcestruzzo cementizio -circostanze non smentite dal
ricorrente- che costituiscono strutture edilizie che secondo
l’orientamento della giurisprudenza, tenuto conto delle
rilevanti dimensioni dei tralicci e delle antenne, devono
essere valutate come soggette a permesso di costruire,
imponendosi la necessità di considerare la natura e la
consistenza di tali manufatti (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
08.10.2008, n. 4910; idem, 17.01.2014, n. 225) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 13.01.2015 n. 431 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Al comodatario compete l’obbligo di custodia di
cui agli artt. 1804 e 2051 c.c. e che il custode ha
l’obbligo di avvertire il proprietario di ogni danno al bene
di cui ha la custodia.
4. Con il primo motivo del ricorso principale si
lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1804
e 2051 c.c. in relazione all’art. 360, 3, c.p.c.”.
Premesso che, come affermato dalla Corte di merito, al
comodatario compete l’obbligo di custodia di cui agli artt.
1804 e 2051 c.c. e che il custode ha l’obbligo di avvertire
il proprietario di ogni danno al bene di cui ha la custodia,
assume il ricorrente principale che, essendo stato
l’immobile di cui si discute in causa consegnato al P. in
perfette condizioni di manutenzione, incombeva al custode
l’obbligo di informarlo di eventuali cedimenti,
infiltrazioni, carenze degli impianti elettrici e di ogni
altro danno verificatosi nell’immobile custodito cui doveva
far fronte il proprietario e rappresenta che, invece, dal
momento in cui i Vigili Urbani avevano bloccato l’esecuzione
dei lavori nel 1995, il comodatario non aveva mai informato
il comodante dei danni che si verificavano sul terreno e sui
prefabbricati in questione, rendendo impossibile ogni
intervento da parte sua, tenuto conto che il P., anche a
seguito della diffida della Regione, aveva impedito
l’accesso alla proprietà. Conseguentemente sostiene il C.
che il comodatario sarebbe oggettivamente responsabile dei
danni verificatisi, essendo venuto meno ai suoi obblighi di
custode, non avendo provato né offerto di provare che detti
danni dipendevano da fatto fortuito, e che, pertanto, il
contratto avrebbe dovuto essere risolto.
5. Con il secondo motivo, rubricato “omessa
motivazione circa un fatto controverso e decisivo] per il
giudizio; artt. 1455 c.c. in relazione all’art. 360 n. 5
c.p.c.”, il ricorrente principale lamenta che la Corte
di merito abbia “minimizzato” i danni provocati dal
P., liquidandoli in complessivi Euro 12.000,00. Assume il C.
che, come emergerebbe dalle risultanze istruttorie, i lavori
che il P. avrebbe dovuto eseguire, non si limitavano al “ritombamento
del foro abusivamente aperto ma riguardavano espressamente
anche il crollo del molo di alaggio”, sicché detti
lavori, in base a quanto indicato dalla Corte di merito in
sentenza e precisato dal c.t.u., ammonterebbero a
complessivi Euro 49.600,00, oltre i costi di manutenzione,
cifra di non scarsa entità, con la conseguenza che il
ragionamento dei Giudici di secondo grado, per i quali si
tratterebbe di abusi non tali da aver alterato
significativamente la proprietà del comodante, sarebbe
errato e sussisterebbe la violazione dell’art. 360 n. 5
c.p.c., “per avere la Corte, sulla base di una omessa
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il
giudizio… omesso di considerare una parte importante della
relazione ctu”.
6. Con il terzo motivo si lamenta “violazione e
falsa applicazione degli artt. 1808 e 1576 c.c. in relazione
all’art. 360 n. 3 c.p.c.”. Ad avviso del C. , errerebbe
la Corte di merito nel distinguere fra gli obblighi di
manutenzione ordinaria e manutenzione straordinaria in capo
al comodatario.
Assume il ricorrente principale che se è vero che i lavori
di risistemazione integrale del terreno possono essere
considerati di straordinaria manutenzione, occorre tuttavia
considerare che l’attuale stato dei luoghi dipende da fatto
e colpa del comodatario che/per oltre dieci anni non ha
svolto alcun lavoro di manutenzione ordinaria, il che
risulterebbe anche dalla relazione del ctu., ed evidenzia
che se viene concesso in comodato un terreno in cui vi siano
alberi, arbusti e cespugli, “l’ordinaria manutenzione e
cioè la pulizia, la potatura e il controllo della crescita
delle piante compete al comodatario, che ne è custode e non
al comodante”, il quale interviene solo per lavori di
straordinaria manutenzione (abbattimento di alberi
pericolanti) o in caso di necessità di interventi
straordinari, ed evidenzia peraltro che l’art. 1577 c.c. in
materia di locazione, prevede che “quando la cosa locata
abbisogna di riparazioni che non sono a carico del
conduttore, questi è tenuto a darne avviso al locatore”.
Sostiene pertanto il ricorrente principale che si porrebbe
in violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. l’affermazione della
Corte di merito secondo cui “la manutenzione
straordinaria quando dipendente pacificamente da fatto e
colpa del comodatario”, “non porta alla conseguenza
che vi sia un’inadempienza contrattuale”, la quale
dovrebbe comportare, invece, non solo la risoluzione del
contratto di comodato ma anche la condanna dell’inadempiente
al risarcimento dei danni, come affermato dal Tribunale.
7. Il primo ed il terzo motivo, che essendo strettamente
connessi, possono essere congiuntamente esaminati, sono
fondati in relazione a quanto appresso evidenziato.
Ed invero, pur se la questione dell’omessa tempestiva
segnalazione al proprietario comodante di eventuali
cedimenti, infiltrazioni o altro, della carenza degli
impianti elettrici e di ogni danno strutturale in relazione
ai quali incombeva al proprietario provvedere, è
inammissibile per novità della stessa, come eccepito dal P.
, non essendo stato precisato quando e in che termini tale
questione sia stata proposta in appello, e pur essendo
corretto che le opere di manutenzione straordinaria sono a
carico del proprietario comodante, non può condividersi
l’affermazione della Corte di merito secondo cui anche la
cura della vegetazione spontanea “va considerata a carico
del comodante”, pur avendo la medesima Corte affermato
che il dovere di conservare la cosa comporta l’obbligo di
manutenzione ma solo nell’ambito delle spese di ordinaria
amministrazione.
Va al riguardo evidenziato che, come si desume dal disposto
dell’art. 1808 c.c., mentre spettano al comodante le spese
di straordinaria amministrazione e se le stesse sono
sostenute dal comodatario questi ha diritto al relativo
rimborso solo se necessarie ed urgenti, restano sempre a
carico del comodatario le spese sostenute per servirsi della
cosa locata e comunque, ai sensi dell’art. 1804 c.c. il
comodatario è tenuto a conservare e custodire la cosa con la
diligenza del buon padre di famiglia.
Nella stessa sentenza impugnata (v. p. 17-18) la Corte di
merito ha posto in rilievo, in relazione alla omessa
manutenzione, che gli accertamenti del ctu hanno evidenziato
“un notevole incremento della vegetazione spontanea
rispetto alla situazione esistente al tempo della stipula
del comodato”.
Tanto premesso, non può condividersi l’affermazione dei
giudici di secondo grado secondo cui la cura della
vegetazione spontanea va considerata a carico del comodante,
atteso che nella specie “la vegetazione spontanea non
serviva ad alcun uso né veniva in concreto usata dal P.”
(v. sentenza impugnata, p. 18); risulta infatti evidente che
la cura ordinaria di tale vegetazione consentiva in concreto
l’uso del bene nel suo complesso, e neppure può ritenersi
che al riguardo la situazione si sia aggravata nel tempo a
causa di omessa manutenzione straordinaria.
Precisato che la manutenzione straordinaria differisce da
quella ordinaria in relazione alla normalità dei lavori (nel
senso di ordinaria e periodica ricorrenza) ed all’entità
della spesa (Cass. 19.10.1982, n. 5452) e risultando dalla
sentenza impugnata che la situazione in relazione alla cura
della vegetazione spontanea –cui occorre ordinariamente
provvedere con periodica ricorrenza e che, ove effettuata in
tali termini, non comporta esborsi di rilevante entità– si è
aggravata nel tempo, é evidente che al riguardo il P. non ha
assolto l’obbligo, posto a suo carico, di custodia e
conservazione della cosa con la diligenza del buon padre di
famiglia, evidenziandosi che l’obbligo di conservare, in
particolare, riguarda il mantenimento del bene
nell’originario stato di consistenza, salvo il naturale
deterioramento dovuto all’uso e nella specie, come già
evidenziato, dalla stessa sentenza risulta –e tanto non è
stato oggetto di specifica censura– un notevole incremento
della vegetazione spontanea rispetto alla situazione
esistente al tempo della stipula del comodato. (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 13.01.2015 n. 296 -
link a http://renatodisa.com). |
APPALTI SERVIZI:
Appartiene alla giurisdizione del g.o. la
controversia inerente la valutazione di una clausola penale,
avente funzione di strumento di commisurazione del danno
derivante dall'inadempienza delle prestazioni del gestore
della raccolta e del trasporto dei rifiuti.
Il rapporto
intercorrente tra una società affidataria della raccolta e
del trasporto dei rifiuti urbani ed assimilati, con l'ente
comunale va qualificato come appalto di servizio e non come
concessione di pubblico servizio come del resto confermato
dal tenore dell'art. 30, c. 2, Decr. Leg.vo 163/2006.
Tale rapporto ha fonte negoziale nella stipula di apposito
contratto, per cui gli atti adottati dal Comune in materia
non presentano carattere autoritativo quando si tratti di
rilevazione di fatti costituenti omesso o inesatto
adempimento delle prestazioni dovute dall'appaltatore,
rispetto alla quale le parti sono poste su un piano
paritetico e le rispettive posizioni giuridiche soggettive
hanno natura di diritti soggettivi.
Pertanto, nel caso di specie, la controversia avente ad
oggetto la valutazione di una clausola penale, avente
funzione di strumento di commisurazione del danno derivante
dall'inadempimento appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario, in quanto inerente appunto ai diritti derivanti
dal contratto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 12.01.2015 n. 114 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La Commissione di un concorso pubblico nella fase
relativa all’adozione di criteri prodromici ed essenziali
alla valutazione comparativa di più candidati deve operare
come collegio perfetto, in quanto tale attività non può in
nessun modo configurarsi quale attività preparatoria o
vincolata dell’organo.
La Commissione, pertanto, necessita dell’apporto
partecipativo e contestuale di tutti i suoi componenti e la
mancata partecipazione anche di uno solo di essi rende la
deliberazione invalida, né tale assenza può in alcun modo
essere surrogata attraverso alternative e successive forme
di partecipazione.
1. Motivo d’appello che deve ricevere esame prioritario è
quello con il quale il Comune di Venezia ha dedotto
l’infondatezza del mezzo d’impugnativa accolto dal Giudice
di prime cure.
1a. In proposito va subito sottolineato che tra le parti
esiste concordanza in ordine ai principi giuridici
regolatori della materia sulla quale verte il motivo,
principi che sono quelli già esposti dal primo Giudice: la
divergenza di vedute tra le parti riguarda solo la
conformità -o meno- ai relativi canoni dell’azione della
Commissione preposta al concorso.
Il Tribunale ha esposto le coordinate di principio di cui si
tratta nei seguenti termini: ” … secondo un principio
consolidato della giurisprudenza amministrativa, (il
collegio) deve operare con il "plenum" dei suoi componenti,
e non con la semplice maggioranza (così Cons. St. IV,
05.08.2005, n. 4196; 06.06.2006, n. 3386; 12.05.2008, n.
2188)…È bensì vero che alla luce della giurisprudenza ora
richiamata la necessità di operare con il "plenum" si pone
essenzialmente nelle fasi in cui la Commissione è chiamata a
fare scelte discrezionali, in ordine alle quali v'è
l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro
contributo ai fini di una corretta formazione della volontà
collegiale, e che invece può consentirsi la deroga al
principio della collegialità per le attività preparatorie,
istruttorie e vincolate” (cfr. Cons. Stato Sez. III,
Sent., 03.03.2011, n. 1368; Cons. St., sez. 1, n.
1286/2011).
Nell'ipotesi di collegio perfetto, come nel caso di specie,
la giurisprudenza ha, altresì, precisato, con un
insegnamento pacifico e mai revocato che le deliberazioni
assunte dal collegio sono valide soltanto se deliberate con
la partecipazione di tutti i componenti, di talché non
assume giuridica rilevanza la questione relativa alla così
detta prova di resistenza, tesa ad accertare, in concreto,
la eventuale incidenza dell’assente nel computo dei voti
complessivi (Cons. st., sez. VI, 06.04.1987, n. 230).
L’adozione di criteri prodromici ed essenziali alla
valutazione comparativa di più candidati non può in nessun
modo configurarsi quale attività preparatoria e/o vincolata
dell’organo, così che, tale fase comporta ed esige,
necessariamente, l’apporto partecipativo di tutti i
componenti del seggio in modo contestuale, proprio perché è
nella dialettica tra i componenti che si esplica la funzione
omogeneizzate delle diverse singolarità del collegio che
consente, legittimamente, l’adozione dell’atto finale unico,
che non è e non rappresenta la giustapposizione delle
diverse opinioni, bensì è l’atto del collegio in senso
unitario e non scomponibile.
La mancata partecipazione, al momento della discussione, di
alcuni componenti il seggio di gara non può in alcun modo
essere surrogata attraverso alternative e successive forme
di partecipazione.”
1b. La Sezione, tanto premesso, condivide i principi
enunciati dal Tribunale, ma ritiene che di essi sia stata
fatta nel caso in esame una non corretta applicazione.
Assume in proposito rilievo decisivo, infatti, la
circostanza che, nella vicenda, alle sedute della
Commissione nn. nn. 7, 15 e 17, nelle quali sono stati
approvati, rispettivamente, i criteri di valutazione dei
titoli, nonché i punteggi scaturiti dall’applicazione dei
primi alle posizioni dei singoli interessati, abbiano preso
parte tutti i componenti della Commissione, laddove nelle
sedute non plenarie risultano invece essere state svolte
attività solo istruttorie o comunque essenzialmente
preparatorie rispetto alle predette deliberazioni.
Da qui la sostanziale correttezza del modus procedendi
seguito nel caso concreto.
Il principio del collegio perfetto, e dunque della
necessaria presenza di tutti i membri della commissione,
concerne, difatti, solo l'attività valutativa e deliberativa
vera e propria, e non l'attività istruttoria (Sez. IV,
22.09.2005, n. 4989; cfr. anche V, 28.06.2002, n. 3566); e,
d’altra parte, in giurisprudenza è stato già precisato che
la collegialità dell’operato delle commissioni esaminatrici
non è esclusa da una prima valutazione non collegiale,
purché, tuttavia, all’esame preliminare segua comunque il
rituale esame collegiale (Sez. VI, 11.10.1989, n. 1336).
1c. Per quanto precede deve concludersi, diversamente da
quanto ritenuto dal TAR, nel senso dell’assenza di elementi
sufficienti a denotare che la Commissione abbia violato i
principi, sopra esposti, discendenti dalla sua natura di
collegio perfetto (massima tratta da
http://renatodisa.com
- Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.01.2015 n. 40 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Integra il reato previsto dal DPR 06.06.2001, n.
380, articolo 44, lettera a), la violazione delle distanze
minime previste dalle norme tecniche di attuazione del piano
regolatore comunale.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18/11/2013, il Tribunale di Pordenone
assolveva (OMISSIS) e (OMISSIS) dall’imputazione di cui al
Decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380,
articolo 44, lettera a), perché il fatto non sussiste; la
vicenda concerneva la realizzazione di una recinzione in
contrasto con lo strumento urbanistico vigente, perché posta
a distanza inferiore a 5 m. dall’asse della strada, ed in
difformità dalla d.i.a..
2. Propone ricorso per cassazione il Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Pordenone, denunciando
l’erronea applicazione di legge penale, nonché la mancanza,
contraddittorietà ed illogicità manifesta della motivazione.
Il Tribunale avrebbe errato nel giudicare non operativa la
norma tecnica di attuazione (che prevede il limite dei 5
metri) sulla base della ritenuta individuazione certa del
confine privato.
Inoltre, il Giudice di prime cure non avrebbe indicato le
ragioni per le quali dall’individuazione del medesimo
confine privato deriverebbe la “collocazione” di quello
pubblico, peraltro accertato con modalità diverse da quelle
previste nelle citate norme tecniche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è fondato.
Occorre premettere che, per pacifico indirizzo di questa
Corte, integra il reato previsto dal Decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380, articolo 44, lettera
a), la violazione delle distanze minime previste dalle norme
tecniche di attuazione del piano regolatore comunale (Sez. 3
, n. 42466 del 24/09/2013, Tacchini, Rv. 257376); quale
quella del Comune di Azzano Decimo (Pn), che impone che
qualunque intervento sia realizzato a distanza di almeno 5
metri dall’asse della strada.
Ciò premesso, l’impugnata sentenza, dopo aver dato atto che
la recinzione de qua era stata eretta in violazione di
questo limite, conclude però per l’inoperatività della norma
tecnica in oggetto, atteso che l’opera, comunque, era stata
realizzata dai ricorrenti all’interno della loro proprietà,
il cui confine rispetto alla strada comunale è certo.
Orbene, ritiene la Corte che tale motivazione sia incongrua
ed insufficiente, nella misura in cui non evidenzia il
percorso logico all’esito del quale il Giudice e’ giunto ad
assolvere gli imputati; in particolare, la sentenza non
precisa per quali motivi l’aver eseguito l’intervento
all’interno della proprietà –il cui confine rispetto alla
strada è sicuro– legittimerebbe il mancato rispetto dei
termini di cui alla norma tecnica in esame, la cui portata
sarebbe diversamente cogente.
Trattasi, infatti, di una considerazione meramente
assertiva, priva di ogni richiamo normativo o motivazionale,
che impone l’annullamento della pronuncia con rinvio al
Tribunale di Pordenone (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 07.01.2015 n. 60 -
link a http://renatodisa.com). |
APPALTI:
Il principio di tassatività delle cause di
esclusione ex art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, si
applica anche alle concessioni di servizi.
Il solo parametro per valutare la legittimità delle
ammissioni/esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è
dato dall' art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.
Il principio di tassatività delle cause di esclusione,
disposto dall'art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006
(introdotto dall'art. 4, c. 2, lett. d), n. 2), D.L.
13.05.2011, n. 70, conv., con modif., dalla L. 12.07.2011,
n. 106), si applica anche alle concessioni di servizi di cui
all'art. 30 Codice Appalti, quale principio fondamentale
generale relativo ai contratti pubblici e costituisce
specificazione dei principi di massima partecipazione e di
proporzionalità, talché la sua estensione alla materia delle
concessioni trova esplicito fondamento nell'art. 30, c. 3,
del D.Lgs. n. 163/2006.
Diversamente opinando, si giungerebbe ad un'ingiustificata
divaricazione del regime da seguire nella gare per
l'affidamento di appalti ed in quelle per l'affidamento di
concessioni di servizi.
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che l'art. 46, c. 1-bis,
D.Lgs. n. 163/2006 "ha previsto la tassatività delle
cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante
può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di
mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e
dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti,
nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione".
La stessa disposizione normativa, poi, stabilisce, altresì,
che (inciso finale) "Dette prescrizioni sono, comunque,
nulle".
Inoltre, è principio giurisprudenziale altrettanto pacifico
che "le norme che disciplinano i requisiti soggettivi di
partecipazione alle gare pubbliche vanno interpretate nel
rispetto dei principi di tipicità e tassatività delle
ipotesi di esclusione. Questo orientamento ha recentemente
trovato una puntuale traduzione normativa con il nuovo c.
1-bis, dell'art. 46 d.lgs. 12.04.2006. n. 163, introdotto
dall'art. 4 del d.l. 13.05.2011, n. 70". Pertanto, il
solo parametro per valutare la legittimità delle
ammissioni/esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è
dato dal citato art. 46, c. 1-bis, risultando l'esclusione
legittima solo se ivi rinvenga copertura.
Conseguentemente, da un lato, in tanto l'esclusione è
legittima (e doverosa), in quanto trovi copertura nell'art.
46, c. 1-bis, citato (e anche quando la legge di gara si
spinga, illegittimamente, a negare espressis verbis
la conseguenza espulsiva); dall'altro, tutte le volte in cui
non trovi fondamento nel menzionato paradigma normativo,
l'esclusione è illegittima anche quando (illegittimamente)
prevista nella lex specialis, affetta sul punto da
nullità testuale (art. 46, c. 1-bis, inciso finale) e
parziale (in applicazione analogica dell'art. 1419, c. 2,
del codice civile) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.01.2015 n. 18 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'inosservanza dell'obbligo dichiarativo di
assenza di pregiudizi penali in capo alla società cedente
art. 38 del d.lgs. n. 163/2006.
L'omessa dichiarazione di assenza di pregiudizi penali in
capo alla società cedente ex art. 38 del d.lvo n. 163/2006,
comporta automaticamente l'esclusione dalla gara solo se
espressamente prevista nel bando o se, in ogni caso, vi sia
la prova che gli amministratori (anche cessati nel triennio,
ora nell'anno antecedente la presentazione della
dichiarazione) per i quali sia stata omessa la dichiarazione
hanno in concreto riportato pregiudizi penali non dichiarati
nella presentazione dell'offerta.
Con il d.l. 24.06.2014, n. 90 (recante Misure urgenti per la
semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l'efficienza degli uffici giudiziari), conv. in l., con
modif., dall'art. 1, c. 1, della l. 11.08.2014, n. 114, il
legislatore sembra addirittura superare espressamente
l'interpretazione giurisprudenziale più rigorista che
riteneva legittima l'esclusione a fronte dell'omessa
allegazione della documentazione sul possesso dei requisiti
di idoneità morale; l'art. 39 del decreto sopra citato,
aggiungendo il c. 2-bis all'art. 38 del d.lgs. cit.,
infatti, prevede che, in caso di incompletezza delle
dichiarazioni, vi sia soltanto una penale in favore della
stazione appaltante, la quale assegna al concorrente un
termine, che non deve essere superiore ai dieci giorni,
affinché siano integrate le dichiarazioni necessarie.
Nel caso in cui, invece, le irregolarità non siano
essenziali, la stazione appaltante non ne deve richiedere
nemmeno la regolarizzazione. Pertanto, anche secondo le
scelte del legislatore più recente sembra confermato il
venir meno del principio dell'esclusione automatica dalla
gara.
Rimane, dunque, applicabile il principio ormai consolidato
in giurisprudenza secondo cui l'inosservanza dell'obbligo
dichiarativo di cui all'art. 38 del d.lgs. cit. sugli
amministratori dell'impresa dalla quale si è ottenuto la
disponibilità dell'azienda (in particolare nel caso in cui
si tratti di affitto d'azienda), può portare all'esclusione
del concorrente dalla gara solo se così prevede il bando
ovvero, in caso contrario, se risultino in concreto
pregiudizi penali a carico degli amministratori della
società locatrice (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 18 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
sufficiente la semplice vicinitas per ritenere sussistere le
condizioni dell’azione per lamentare la violazione di norme
edilizie, ambientali o paesaggistiche, sia pure sussistendo
una strada nel mezzo e trattandosi di distanza (tredici
metri o dieci metri, non rileva a tal limitato fine) non
tale, comunque, da escludere un reale interesse alla tutela
giurisdizionale.
Va respinto anche il motivo di appello incidentale (in
realtà non condizionato, se non all’ammissibilità
dell’appello principale) con il quale si ripropone la
eccezione di inammissibilità dell’appello perché si tratta
di costruzione tra edifici distanti, essendo sufficiente la
semplice vicinitas, per ritenere sussistere le
condizioni dell’azione per lamentare la violazione di norme
edilizie, ambientali o paesaggistiche, sia pure sussistendo
una strada nel mezzo e trattandosi di distanza (tredici
metri o dieci metri, non rileva a tal limitato fine) non
tale, comunque, da escludere un reale interesse alla tutela
giurisdizionale (tra varie, si veda Cons. Stato, IV,
17.09.2012, n. 4926)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 11 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce principio consolidato, in materia di
decorrenza del termine per impugnare una costruzione, che
sia onere della parte che deduce la tardività del ricorso la
dimostrazione della effettiva conoscenza ad un determinato
momento e a tal fine non costituisce prova piena né la
pubblicità nella specie all’albo comunale, né la mera
affissione di cartelli di cantiere.
Va respinto anche il motivo di appello incidentale con il
quale si ripropone la eccezione di tardività, sostenendo che
la parte appellante sarebbe venuta a conoscenza dei permessi
di costruire mediante tabella informativa apposta sul
cantiere e dalla pubblicità nell’albo pretorio comunale e in
ogni caso la conoscenza si evincerebbe dagli esposti
menzionati nei verbali della polizia municipale.
Costituisce infatti principio consolidato in materia di
decorrenza del termine per impugnare una costruzione, che
sia onere della parte che deduce la tardività del ricorso la
dimostrazione della effettiva conoscenza ad un determinato
momento e a tal fine non costituisce prova piena né la
pubblicità nella specie all’albo comunale (tra varie, Cons.
Stato, V, 11.11.2010, n. 8017), né la mera affissione di
cartelli di cantiere; il Collegio osserva che, in ogni caso,
si può prescindere dall’ulteriore esame della eccezione di
tardività, in quanto l’appello principale è infondato e come
tale da respingere
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 11 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è vero che in materia di distanze tra
costruzioni costituisce disposizione inderogabile e ha
natura di ordine pubblico la regola (art. 9 D.M. 1444 del
02.04.1968) che fissa in dieci metri la distanza minima
assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, il Collegio osserva che il balcone aggettante,
avente funzione architettonica o decorativa, può essere
compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una
norma di piano di preveda, al di là del richiamo che il
regolamento comunale effettua agli “aggetti”,
differenziandoli dalle “sporgenze”.
Il motivo è
infondato.
Se è vero che in materia di distanze tra costruzioni
costituisce disposizione inderogabile e ha natura di ordine
pubblico la regola (art. 9 D.M. 1444 del 02.04.1968) che
fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, il Collegio
osserva che il balcone aggettante, avente funzione
architettonica o decorativa, come correttamente ha ritenuto
l’amministrazione pubblica nel caso di specie, può essere
compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una
norma di piano di preveda (tra varie, Cons. Stato, IV,
07.07.2008, n. 3381), al di là del richiamo che il
regolamento comunale effettua agli “aggetti”,
differenziandoli dalle “sporgenze”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 11 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Turbativa
d’asta per tutti gli atti equivalenti alla gara. È illecita
la condotta, anche precedente al bando, che inquina l’iter.
Cassazione penale. Interpretazione estensiva del reato
introdotto nel 2010.
Turbativa d’asta ad
ampio raggio. La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 02.01.2015 n. 1, chiarisce la portata
applicativa della riforma del 2010 che ha introdotto nel
Codice penale l’articolo 353 bis. Per la Corte, nell’area
della condotta sanzionabile penalmente rientrano tutti gli
atti che condizionano il «procedimento amministrativo
diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto
equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta
del contraente».
La disposizione, quindi, per contrastare con maggiore
efficacia il fenomeno della turbativa d’asta, che in realtà
può comprendere anche il procedimento di formazione del
bando di gara, condizionandone il contenuto in modo tale che
un determinato soggetto può essere favorito
nell’aggiudicazione ancora prima dell’apertura, «ha
introdotto un nuovo reato di pericolo che, affiancando
l’originario modello tipizzato dall’articolo 353 Codice
penale, tende a reprimere le condotte di turbativa poste in
essere antecedentemente alla pubblicazione del bando».
Condotte che in precedenza non avevano specifica rilevanza
penale. La logica dell’intervento sta nel punire
comportamenti che sono in grado di compromettere il buon
andamento della pubblica amministrazione e, nello stesso
tempo, la libera concorrenza tra i partecipanti alla gara.
Così, con l’obiettivo di estendere la tutela penale alla
fase dei pubblici incanti anteriore alla pubblicazione del
bando, la nuova norma penale punisce chiunque con atti
precisi (violenza, minaccia, doni, promesse, collusioni o
altri mezzi fraudolenti) condiziona il buon andamento del
procedimento amministrativo. Il fine dell’azione illegale è
allora l’inquinamento del contenuto del bando e il reato si
consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine
stesso.
Per integrare il delitto non è necessario, pertanto, che il
contenuto del bando venga effettivamente modificato in
maniera tale da determinare la scelta del contraente. È
sufficiente, invece, che sia stato posto in essere un
turbamento del processo amministrativo, che la correttezza
della procedura di predisposizione del bando sia messa
concretamente in pericolo, con la presenza di un dolo
specifico che si traduce nella finalità di condizionare le
modalità di scelta da parte della pubblica amministrazione.
Detto ciò, la sentenza si sofferma sulla nozione di «atto
equipollente» contenuta nella nuova norma del Codice
penale. Nella nozione rientra, nella lettura della
Cassazione, allora, qualsiasi provvedimento alternativo al
bando di gara adottato per la scelta del contraente.
Compresi quelli che stabiliscono l’affidamento diretto.
«Ne discende -scrivono i giudici della Sesta sezione- che
l’ambito di applicazione della nuova disposizioni si estende
a qualsiasi forma di aggiudicazione che prescinda dalla
celebrazione di una gara e alla stessa fase di selezione
dello strumento di aggiudicazione, oltre che a tutte quelle
situazioni in cui l’attività illecita si risolva nella
stessa elusione del rispetto di una regola procedura
concorrenziale».
Quanto allora all’attribuzione di responsabilità, la
valutazione da parte dell’autorità giudiziaria non può che
comprendere anche i margini di discrezionalità a
disposizione di chi è accusato della turbativa. Nel caso
esaminato era in discussione il condizionamento del
procedimento di scelta del contraente da parte di un’Asl.
All’esame della Cassazione sulla posizione del direttore
generale era emerso in realtà come la sua discrezionalità
nell’influenzare l’iter fosse fortemente limitata e
dall’esistenza di condizioni che dovevano essere piuttosto
valutate dagli uffici amministrativi con pochi margini di un
suo intervento (articolo
Il Sole 24 Ore del 20.01.2015). |
TRIBUTI:
Canoni concessori, sulle telecom batosta dal
Consiglio di Stato. Tributi. Il
cambio di rotta.
Il canone
concessorio previsto dal Codice della strada si applica
anche alle occupazioni dei sottoservizi telefonici e delle
altre reti di telecomunicazione.
È quanto affermato
dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 31.12.2014 n. 6459, diffusa nei giorni
scorsi, che rimette in discussione l’unico punto certo di
approdo della giurisprudenza amministrativa.
La pronuncia riguarda il canone per l’uso o l’occupazione
delle strade, che trova la propria disciplina fondamentale
nell’articolo 27 del Codice della strada (Dlgs 285/92) e si
configura quale entrata patrimoniale gravante sui soggetti
titolari di concessione che utilizzano il suolo e il
sottosuolo pubblico.
Si tratta di un canone non ricognitorio (cioè non connesso a
prestazioni di servizi) che si aggiunge alla tassa o al
canone sull’occupazione del suolo pubblico, ma che nei
progetti governativi sulla local tax era destinato ad essere
accorpato in un unico prelievo.
Negli ultimi anni sono aumentati gli enti locali che hanno
introdotto il canone in questione, tramite l’adozione di
appositi regolamenti, molti dei quali sono stati impugnati
dai gestori dei servizi a rete, alimentando un cospicuo
contenzioso che ha impegnato diversi Tribunali
amministrativi regionali. In particolare quello di Milano ha
discusso lo scorso 26 novembre ben tredici ricorsi, tutti
ancora in attesa di sentenza.
Tra le diverse questioni esaminate, c’è chi ha negato la
propria giurisdizione in favore di quella ordinaria (Tar
Lazio 9772/2014), chi ha fornito alcuni criteri di
determinazione (Tar Brescia 156/2014) e chi ha addirittura
ritenuto illegittima l’introduzione del prelievo (Tar Milano
345/2014 e 1366/2014). Su tutte queste questioni la
giurisprudenza è apparsa oscillante, ma si è mostrata invece
compatta sull’inapplicabilità del canone alle reti per le
comunicazioni elettroniche (si vedano per esempio Tar Milano
665/2014 e 1242/2014, Tar Torino 448/2012).
Il Consiglio di Stato ha tuttavia ribaltato l’orientamento
dei Tar, secondo i quali l’articolo 93 del Dlgs 259/2003
(Codice delle comunicazioni elettroniche) escluderebbe la
possibilità di imporre oneri o canoni nell’ipotesi di
utilizzo del suolo o del sottosuolo pubblico per l’impianto
di reti o per l’esercizio dei servizi di telecomunicazione.
I giudici di Palazzo Spada evidenziano però che l’articolo
93 fa espressamente salva l’applicazione di altre
disposizioni di legge che stabiliscono altri canoni o oneri
per l’impianto di reti o per l’esercizio di servizi di
comunicazione elettronica.
Pertanto il presupposto della pretesa non si rinviene nel
regolamento comunale, ma nelle fonti legislative che
consentono l’introduzione del canone di occupazione, tra cui
l’articolo 27 del Dlgs 285/1992. La disposizione contenuta
nell’articolo 93 non può essere quindi considerata speciale
rispetto alla disciplina di cui all’articolo 27 del Dlgs
285/1992.
La sentenza del Consiglio di Stato ha rilevanti conseguenze
sulle imprese interessate (società di telefonia o di altre
reti di telecomunicazione) e sugli enti locali. Per le prime
si tratta nei fatti di una batosta, perché non potranno più
invocare l’esonero ma dovranno soccombere alle ingenti
pretese di molti enti locali: questi potranno invece fare
cassa (con maggiori possibilità di quadrare i bilanci) e
coltivare con successo i ricorsi pendenti, anche perché la
decisione del Consiglio di Stato finisce per conferire al
canone in questione la patente di legittimità
(articolo
Il Sole 24 Ore del 13.01.2015). |
APPALTI:
Nella gara non cambiano i soggetti. Tar Milano.
Revocato l’affidamento comunale del supporto su accertamento
e riscossione.
Per garantire trasparenza, par
condicio e continuità dell’appalto pubblico, prima
dell’aggiudicazione della gara l’impresa contraente non può
modificare i requisiti oggettivi e soggettivi presentati in
sede di offerta né sostituire con altra azienda l’ausiliaria
nel frattempo fallita.
Lo ha stabilito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con la
sentenza 29.12.2014 n. 3212.
I giudici hanno dato ragione a un Comune che aveva revocato
a una società per azioni l’appalto per il servizio di
supporto al proprio ufficio Tributi nell’attività di
accertamento e riscossione. La revoca era stata decisa una
volta verificato il fallimento dell’impresa ausiliaria dei
cui requisiti tecnico-economici la società si era avvalsa
per partecipare al bando tramite l’istituto dell’avvalimento,
disciplinato dal Codice degli appalti (articolo 49 del
decreto legislativo 163/2006).
Secondo l’aggiudicataria, al contrario, i requisiti di
partecipazione non erano venuti meno, poiché in tali casi lo
stesso Codice degli appalti (comma 19 dell’articolo 37)
consente un’eccezione, cioè la sostituzione dell’azienda
fallita, nonché mandante nei raggruppamenti temporanei e
consorzi ordinari di imprese, con un’altra che sia in
possesso dei requisiti richiesti.
A giudizio del Tar, «l’immodificabilità soggettiva dei
partecipanti durante la gara è indispensabile per una
valutazione obbiettiva sia dell’offerta sia
dell’affidabilità del contraente e costituisce il
presupposto necessario per un sano e trasparente confronto
concorrenziale tra le imprese partecipanti. Per tali
ragioni, la mancanza o la perdita dei requisiti di gara in
questa fase costituisce causa di esclusione dalle gare e non
semplice motivo di sanatoria».
Tali princìpi, afferma la sentenza, «si estendono anche
all’impresa ausiliaria, in quanto il contratto di
avvalimento costituisce elemento che integra i requisiti di
partecipazione alla gara» e anche nel caso, come nella
fattispecie, sia fallita «occorre rammentare che tra i
requisiti di partecipazione sussiste non solo quello della
mancanza di fallimento, ma anche quello che non sia in corso
un procedimento per la dichiarazione di una di tali
situazioni (liquidazione coatta e concordato preventivo,
secondo l’articolo 38 del Codice degli appalti, ndr)»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 22.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
sussistenza -o meno- su di una strada (privata) della
servitù ad uso pubblico.
E’ controversa la sussistenza
sulla predetta via di una servitù ad uso pubblico.
Si tratta di una circostanza la cui prova, ai sensi
dell’art. 64, comma 1, c.p.a., spettava al Comune.
La predetta norma, infatti, diversamente dall’art. 2697
c.c., non ripartisce l’onere della prova solo in base al
criterio che il fatto controverso sia stato posto a
fondamento di una domanda o di una eccezione ma anche sulla
scorta del parametro della disponibilità della prova. Per
cui il ricorrente che affermi o contesti un fatto che può
essere dimostrato attraverso la produzione di atti o
documenti che sono nella esclusiva disponibilità della p.a.
non ha anche l’onere di provarlo, dovendo essere questa ad
offrire al giudice gli elementi atti a confermare o a
smentire le affermazioni contenute nel ricorso.
Al mancato assolvimento dell’onere probatorio posto a carico
della p.a. non può, peraltro, sopperire il potere di
istruzione officiosa, conseguendo, invece, ad esso
l’applicazione la regola di giudizio di cui al secondo comma
dell’art. 64 c.p.a. secondo il quale la mancata prova di un
fatto contestato che si aveva l’onere di provare determina
l’impossibilità per il giudice di tener conto dello stesso.
Il potere acquisitivo del giudice, che nella vigenza
dell’art. 44 del RD 1054 del 1923 aveva una connotazione
ampiamente discrezionale, oggi deve essere, infatti,
esercitato “fermo restando l’onere della prova a carico
delle parti” (art. 63, comma, 1 c.p.a.) ed assume, quindi,
un carattere residuale, potendo il giudice intervenire
autonomamente nei soli casi in cui la parte che ne era
onerata senza sua colpa non sia riuscita ad a raggiungere la
prova completa dei fatti che avrebbe dovuto dimostrare e
dovendosi, invece, applicare nelle situazioni ordinarie le
regole di giudizio e di riparto dell’onere della prova
contemplate nell’art. 64 c.p.a.
La nuova impostazione seguita dal codice deriva peraltro
dall’esigenza di adeguare il rito processuale amministrativo
ai principi del giusto processo sanciti dall’art. 111 della
Costituzione non essendo con essi compatibile un sistema che
consentisse al giudice di sopperire alla inerzia istruttoria
di una delle parti anche qualora gli elementi di prova
fossero nella sua disponibilità o che attribuisse al giudice
una incontrollata discrezionalità nel ripartire i carichi
probatori attraverso l’esercizio de potere acquisitivo.
Al fine di dare la prova relativa alla sussistenza di una
servitù di uso pubblico il Comune avrebbe, quindi, dovuto
produrre un estratto del registro delle strade a uso
pubblico (idoneo a creare quantomeno una presunzione della
sussistenza del diritto affermato) o produrre il titolo di
acquisito della affermata servitù.
Nel merito il ricorso è fondato.
Non è in contestazione la proprietà privata della via che il
Comune di Campi Bisenzio assume essere abusivamente
occupata. Tale fatto risulta implicitamente ammesso dalle
stesse ordinanze impugnate laddove esse affermano che si
tratterebbe di strada “ad uso pubblico”, ed è
espressamente ammesso nella nota del Sindaco del Comune di
campi Bisenzio in data 28.04.2010 nella quale si dichiara
che il tratto di strada di Via S. Martino dal civico 1 al
civico 9 risulta essere privato ad uso pubblico.
E’, invece, controversa la sussistenza sulla predetta via di
una servitù ad uso pubblico.
Si tratta di una circostanza la cui prova, ai sensi
dell’art. 64, comma 1, c.p.a., spettava al Comune di campi
Bisenzio.
La predetta norma, infatti, diversamente dall’art. 2697
c.c., non ripartisce l’onere della prova solo in base al
criterio che il fatto controverso sia stato posto a
fondamento di una domanda o di una eccezione ma anche sulla
scorta del parametro della disponibilità della prova. Per
cui il ricorrente che affermi o contesti un fatto che può
essere dimostrato attraverso la produzione di atti o
documenti che sono nella esclusiva disponibilità della p.a.
non ha anche l’onere di provarlo, dovendo essere questa ad
offrire al giudice gli elementi atti a confermare o a
smentire le affermazioni contenute nel ricorso.
Al mancato assolvimento dell’onere probatorio posto a carico
della p.a. non può, peraltro, sopperire il potere di
istruzione officiosa, conseguendo, invece, ad esso
l’applicazione la regola di giudizio di cui al secondo comma
dell’art. 64 c.p.a. secondo il quale la mancata prova di un
fatto contestato che si aveva l’onere di provare determina
l’impossibilità per il giudice di tener conto dello stesso.
Il potere acquisitivo del giudice, che nella vigenza
dell’art. 44 del RD 1054 del 1923 aveva una connotazione
ampiamente discrezionale, oggi deve essere, infatti,
esercitato “fermo restando l’onere della prova a carico
delle parti” (art. 63, comma, 1 c.p.a.) ed assume,
quindi, un carattere residuale, potendo il giudice
intervenire autonomamente nei soli casi in cui la parte che
ne era onerata senza sua colpa non sia riuscita ad a
raggiungere la prova completa dei fatti che avrebbe dovuto
dimostrare e dovendosi, invece, applicare nelle situazioni
ordinarie le regole di giudizio e di riparto dell’onere
della prova contemplate nell’art. 64 c.p.a.
La nuova impostazione seguita dal codice deriva peraltro
dall’esigenza di adeguare il rito processuale amministrativo
ai principi del giusto processo sanciti dall’art. 111 della
Costituzione non essendo con essi compatibile un sistema che
consentisse al giudice di sopperire alla inerzia istruttoria
di una delle parti anche qualora gli elementi di prova
fossero nella sua disponibilità o che attribuisse al giudice
una incontrollata discrezionalità nel ripartire i carichi
probatori attraverso l’esercizio de potere acquisitivo.
Al fine di dare la prova relativa alla sussistenza di una
servitù di uso pubblico il Comune di Campi Bisenzio avrebbe,
quindi, dovuto produrre un estratto del registro delle
strade a uso pubblico (idoneo a creare quantomeno una
presunzione della sussistenza del diritto affermato) o
produrre il titolo di acquisito della affermata servitù.
Ciò, tuttavia, non è stato fatto.
Nei verbali sulla base dei quali è stata adottata
l’ordinanza impugnata si afferma in modo apodittico la
sussistenza di un diritto di uso pubblico sulla via S. Mauro
ma non viene indicato il titolo in forza del quale tale
diritto sarebbe insorto.
In giudizio il Comune si è difeso affermando che il resede
sarebbe urbanisticamente destinato a viabilità e su di esso
sarebbe stata apposta la segnaletica stradale.
Nessuna delle predette circostanze, tuttavia, può comprovare
la sussistenza di una servitù di uso pubblico: la
destinazione impressa dal PRG non è idonea a costituire
immediatamente un diritto reale su cosa altrui e
l’apposizione della segnaletica è una circostanza di mero
fatto che non incide sul regime dominicale del suolo.
In mancanza della prova del fatto che giustifica l’esercizio
del potere esercitato, il provvedimento impugnato deve,
quindi, essere annullato (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 23.12.2014 n. 2149 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
La sostituzione dell’antenna posta sul lastrico
solare con una che per consistenza e dimensioni riduca la
possibilità di uso comune del terrazzo condominale è
illegittima ed espone il proprietario al risarcimento del
danno.
2.1. – In ogni caso, le censure con tali motivi articolati
non colgono nel segno.
Quanto al primo motivo, perché la Corte d’appello ha ben
spiegato, con una motivazione logicamente coerente, che
l’atteggiamento di mera tolleranza in passato tenuto dal
Condominio non è idoneo a far sorgere in capo all’appellante
alcun diritto a perpetuare, in presenza del chiaro dissenso
dai condomini, una situazione che si pone in violazione
dell’articolo 1102 c.c. e la censura rivolta ad ottenere il
riconoscimento della avvenuta costituzione di un diritto
personale di godimento in favore di (OMISSIS) tende, in
realtà, ad una (non ammissibile in sede di legittimità)
richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai
definitivamente accertati in sede di merito.
In relazione al secondo mezzo, perché esso attiene ad una
circostanza non decisiva: la preesistenza al contratto di
locazione di (OMISSIS) di un basamento con originaria
antenna è privo di significatività, atteso che l’originaria
antenna è stata sostituita con altra più alta e la Corte
d’appello ha, con congruo e motivato apprezzamento, rilevato
che l’antenna di proprietà di (OMISSIS), per le dimensioni e
le caratteristiche, necessita di molteplici cavi tiranti di
bloccaggio ed attrae una parte considerevole della cosa
comune nella disponibilità della stessa società, così
impedendo agli altri condomini di farne parimenti uso.
Quanto al terzo ed al quarto motivo, perché la Corte
d’appello ha supportato la propria valutazione
dell’apprezzabile compromissione del pari uso del lastrico
solare con una logica motivazione, ancorata a precisi e
circostanziati dati di fatto: l’antenna si sviluppa su un
traliccio metallico di circa 18 metri installato su un
basamento in cemento delle dimensioni di m. 1,30 x m. 1,30 x
m. 0,40 ed inoltre il traliccio è vincolato al lastrico
solare (della superficie di mq. 243) mediante ben sette
tiranti imperniati nella pavimentazione, che attraversano
l’intero lastrico solare condominiale e raggiungono tutti i
lati dell’edificio, e vi sono ulteriori cavi.
La ricorrente sollecita al riguardo questa Corte ad
effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto si
come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento,
così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione
del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito
giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto
di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità
maggiore o minore di questa o di quella risultanza
processuale, quanto ancora le opinioni espresse dal giudice
di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di
ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri
desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella
ricostruzione dei fatti di causa potessero ancora
legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità.
3. – Il quinto motivo –con cui si denuncia violazione
dell’articolo 1102 c.c.– è infondato.
La Corte d’appello ha ritenuto, sulla base di un logico e
motivato apprezzamento, che l’installazione dell’antenna
trasmittente della (OMISSIS), in considerazione della sua
consistenza e delle sue dimensioni in rapporto alla
superficie del lastrico, si risolve in una sottrazione alla
possibilità di uso comune di una parte considerevole della
superficie del lastrico solare, e quindi in una
compromissione apprezzabile dell’uso paritetico del bene.
Stante l’accertata situazione di fatto, correttamente la
Corte d’appello ha giudicato l’installazione non consentita
ai sensi dell’articolo 1102 c.c., in quanto costituente, in
concreto, una modificazione delle modalità di uso e di
godimento della cosa comune, che interferisce sul pari uso
della stessa spettante agli altri condomini (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 22.12.2014 n. 27167 -
link a http://renatodisa.com). |
CONDOMINIO:
Ponteggi, responsabilità ampia. Chiamati a
risarcire in caso di furti condominio e ditta.
La Cassazione: dall’illuminazione alla sicurezza, servono
tutte le cautele necessarie.
Nel caso in cui i ladri utilizzino i
ponteggi montati attorno all’edificio condominiale per
introdursi più agevolmente nell’appartamento di un
condomino, sia l’impresa incaricata dei lavori di
ristrutturazione sia il condominio possono essere chiamati a
risarcire il danno subito, qualora non abbiano adottato
tutte le necessarie cautele per evitare il verificarsi di
tale circostanza.
In particolare, l’impresa edile dovrà fare in modo che le
impalcature siano illuminate e sorvegliate durante la notte,
mentre il condominio non potrà limitarsi a inserire nel
contratto di appalto delle clausole nelle quali si obblighi
l’appaltatrice ad adottare tutte le necessarie misure di
prevenzione senza poi sorvegliare a sua volta l’effettiva
esecuzione di tali adempimenti.
Lo ha chiarito la III Sez. civile della Corte di Cassazione
con la
sentenza 19.12.2014 n. 26900.
Nel caso in questione i ladri avevano utilizzato i ponteggi
montati dall’impresa appaltatrice per svaligiare un
appartamento e portarsi via preziosi per un valore di oltre
50 mila euro. Il tribunale aveva quindi condannato la
stessa, in solido con il condominio, al risarcimento dei
danni nei confronti del condomino derubato, ritenendo che
l’apposizione delle impalcature e la mancata sorveglianza
delle stesse avessero agevolato il furto, incidendo quindi
causalmente sulla produzione dell’evento pregiudizievole.
La sentenza era quindi stata confermata in appello ed
entrambe le parti condannate avevano presentato ricorso in
Cassazione. La Suprema corte, nel confermare a propria volta
la sentenza impugnata, ha in primo luogo respinto
l’eccezione per cui la responsabilità dell’impresa
appaltatrice in caso di furto agevolato dai ponteggi
sussista soltanto nel caso in cui sia stato provato uno
specifico inadempimento di un obbligo di fare, essendo
viceversa sufficiente l’aver trascurato le ordinarie norme
di diligenza e l’aver omesso di adottare le cautele idonee a
evitare l’utilizzo anomalo dell’impalcatura da parte di
terzi.
Ancora più interessanti le considerazioni svolte dai giudici
di legittimità relativamente alla responsabilità concorrente
del condominio che abbia appaltato i lavori. Non basta,
infatti, inserire nel contratto di appalto una clausola, per
quanto specifica, che obblighi l’impresa a porre in essere
tutte le misure necessarie a evitare l’utilizzo indebito dei
ponteggi. Certamente è necessario inserire nel contratto
tale previsione, ma questo semplice adempimento formale non
mette al riparo il condominio dalla responsabilità
concorrente per gli eventuali danni che siano derivati ai
condomini dall’inadempimento dell’impresa.
Il condominio, infatti, nella persona dell’amministratore
condominiale, deve comunque vigilare attivamente sul
rispetto da parte dell’impresa delle obbligazioni assunte
nel contratto di appalto. Se, quindi, per fare un esempio, i
condomini abbiano avvertito l’amministratore della mancata
illuminazione notturna dei ponteggi e quest’ultimo non si
sia prontamente attivato per fare in modo che l’appaltatrice
provvedesse subito a tale adempimento, il condominio, al di
là del fatto che tale obbligo fosse contenuto nel contratto,
risponderà per danni nei confronti del comproprietario che
abbia subito il furto agevolato dalle impalcature (ferma
restando la possibilità che i condomini richiedano a loro
volta il risarcimento dei danni all’amministratore per
inadempimento al proprio contratto di mandato).
---------------
Non vanno trascurate le più elementari
norme di diligenza e perizia.
Nel corso dei lavori di ristrutturazione del caseggiato, che
comportano l’utilizzo di ponteggi, non è raro che
malintenzionati si introducano nell’appartamento di qualche
condomino per derubarlo. In tal caso è da escludere una
responsabilità dell’impresa per il solo fatto di aver
installato il ponteggio.
Del resto il condomino non può pretendere che la ditta
incaricata della ristrutturazione ricorra a misure di
sicurezza ulteriori rispetto a quelle solitamente in uso nei
cantieri. Certo questo non significa che l’impresa non debba
adottare quelle minime cautele volte a tutelare la
collettività condominiale.
- Furto tramite ponteggi: la responsabilità
dell’impresa. La
responsabilità dell’impresa è inevitabile qualora
quest’ultima, trascurando le più elementari norme di
diligenza e perizia e la doverosa adozione delle cautele
idonee a impedire l’uso anomalo delle impalcature, abbia
colposamente creato un agevole accesso ai ladri, ponendo
così in essere le condizioni del verificarsi del danno. Così
se il proprietario di un appartamento viene derubato da
ladri che hanno scalato i ponteggi ne risponde l’impresa
che, nel sospendere i lavori, abbia abbandonato il cantiere
(lasciandolo privo di custode e illuminazione), limitandosi
a recintarlo con pannelli metallici.
E, ancora, si deve ritenere colpevole l’impresa se il furto
sia stato agevolato dalla mancata installazione di
un’illuminazione notturna del ponteggio e dalla mancata
rimozione, al termine della giornata lavorativa, delle scale
di collegamento tra i diversi piani del ponteggio. Questo
significa che se l’impresa ha agevolato l’accesso ai ladri,
non può avere rilevanza il fatto che i malintenzionati
avrebbero potuto servirsi anche di altri passaggi o la
mancanza di un cancello a chiusura dell’accesso al cortile
nel quale si trovano le impalcature, trattandosi di
circostanze che potrebbero, se dimostrate, costituire
semplici cause concorrenti, tali cioè da non interrompere il
nesso tra l’uso delle impalcature e il reato.
Non rileva, poi, quale causa di esclusione della
responsabilità, la circostanza che il ponteggio, sebbene
sfornito di antifurto e illuminazione, possa comunque
considerarsi sicuro perché collocato all’interno di un
cortile ben illuminato e magari dotato di un alto muro di
cinta. Naturalmente nei casi sopra detti l’impresa può
sempre evitare gli addebiti dimostrando che, in realtà, i
ladri sono entrati nell’appartamento tramite un diverso
passaggio e non utilizzando i ponteggi.
Tale dimostrazione deve comunque accompagnarsi a quella
tendente a dar prova dell’effettiva adozione da parte
dell’impresa di tutte le cautele atte a impedire che i
ponteggi costituiscano un agevole accesso ai piani
superiori.
- La responsabilità del condominio.
Secondo i giudici è possibile che, oltre alla responsabilità
dell’impresa incaricata dei lavori, vi sia una concorrente
responsabilità del condominio nel caso in cui quest’ultimo
abbia assunto contrattualmente l’obbligo di adottare sistemi
antifurto, quali l’illuminazione dei ponteggi, senza poi
adempiervi.
La concorrente responsabilità del condominio viene poi
ricollegata al mantenimento della struttura, operato per
specifica richiesta del direttore dei lavori nominato dai
condomini, dopo il termine dei lavori, al solo fine di
consentire un più facile collaudo dell’opera: in tal caso
sorge un obbligo di custodia a carico dei condomini che
hanno richiesto il mantenimento della struttura. Di
conseguenza il condominio che richieda il mantenimento dei
ponteggi anche dopo il completamento delle opere di
ristrutturazione, in considerazione dell’assenza di addetti
ai lavori deve adottare idonee forma di vigilanza, anche se
le impalcature sono collocate all’interno di un giardino
recintato.
In ogni caso, se l’assemblea delibera sulla scelta
dell’impresa appaltatrice, sarà bene verificare che la
stessa adotti ogni precauzione necessaria e, nell’ipotesi
contraria, sarà bene che l’amministratore solleciti
l’azienda a dotare il cantiere di adeguate difese per
impedire l’accesso ai ponteggi (senza contare l’importanza
di dotarsi di una specifica polizza assicurativa che
garantisca dal rischio che, attraverso i ponteggi, dei ladri
possano introdursi negli appartamenti).
- Concorso di colpa.
Occorre poi considerare che ove la vittima del furto abbia
favorito l’azione dei ladri (ad esempio lasciando la chiave
della cassaforte sul tavolo di una scrivania), la stessa ne
sarà tenuta a rispondere nella misura che verrà stabilita
dall’autorità giudiziaria e, di conseguenza, verrà
proporzionalmente ridotto l’ammontare del complessivo
risarcimento economico spettante.
- Un caso particolare.
Infine merita di essere ricordato che la Cassazione ha
negato il risarcimento a un condomino derubato il quale
aveva partecipato all’assemblea e aderito espressamente alla
delibera con la quale il condominio, nonostante la
sollecitazione dell’impresa, aveva deciso di non installare
l’impianto antifurto per il suo rilevante costo: in un caso
del genere, quindi, secondo i supremi giudici si deve
escludere ogni responsabilità, non solo dell’impresa
esecutrice dei lavori, ma anche del condominio (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.01.2015).
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MASSIMA
Condominio, appaltatore, impalcatura, furto,
responsabilità.
La responsabilità dell'imprenditore
che si sia avvalso di impalcature per l'espletamento di
lavori sugli edifici è ravvisabile ai sensi dell'art. 2043
c.c., ove siano state trascurate le ordinarie norme di
diligenza e non siano state adottate le cautele idonee ad
impedire l'uso anomalo del ponteggio.
In tal caso è configurabile la concorrente responsabilità
del condominio ex art. 2051 c.c., atteso l'obbligo di
vigilanza e di custodia gravante sul soggetto che ha
disposto il mantenimento della struttura.
L'eventuale clausola inserita nel contratto di appalto a
discarico della responsabilità è vincolante ed efficace nei
rapporti fra le parti del contratto di appalto (nella
specie, fra il Condominio e l'appaltatore), ed ha
indubbiamente l'effetto di consentire al committente di
rivalersi sull'appaltatore per gli eventuali danni di cui
sia chiamato a rispondere per effetto del comportamento di
lui, ma non è invece opponibile ai terzi danneggiati e non
vale ad esonerare il Condominio dall'obbligo di rispondere
nei loro confronti. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Le immissioni rumorose protratte per lungo tempo
ledono diversi diritti, a prescindere dalla prova specifica,
il diritto al riposo notturno, alla serenità e
all’equilibrio della mente, ed alla vivibilità delle loro
case.
1.- Con il primo motivo le ricorrenti denunciano violazione
degli art. 2043 e 2059 cod. civ., sul rilievo che la Corte
di appello le ha condannate al risarcimento dei danni sulla
base del solo accertamento dell’effettiva sussistenza di
immissioni intollerabili, senza previamente accertare se da
tali immissioni siano effettivamente derivati alle intimate
danni risarcibili, così ravvisando sostanzialmente i danni
non patrimoniali in re ipsa, in contrasto con il
consolidato principio giurisprudenziale per cui anche i
danni morali ed esistenziali debbono rigorosamente essere
dimostrati nella loro consistenza ed entità, per dare
diritto al risarcimento.
Con il secondo motivo denunciano omessa motivazione su di un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, cioè sulla
circostanza da esse dedotta nelle difese che è stata
liquidata ad ognuno dei danneggiati una somma uguale, senza
tenere conto della disparità di situazioni ad essi facenti
capo, trattandosi di quattro donne e due uomini, di età
diverse e con diversa vita lavorativa o pensionistica e
diverse peculiarità caratteriali, esistenziali e relazionali
(abitudini, orari, sensibilità, ecc.). Al contrario
avrebbero dovuto essere dimostrate dalle parti, ed accertate
dai giudicanti, le effettive ripercussioni esistenziali
delle immissioni di rumore.
2.- I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati
perché connessi, non sono fondati.
2.1.- La sentenza impugnata ha accertato l’esistenza dei
danni sulla base di elementi presuntivi.
Ha cioè ritenuto che le immissioni sonore “clamorosamente
eccedenti la normale tollerabilità (come accertato dalla ASL
e successivamente tramite CTU)” si sono prodotte per
almeno tre anni nelle abitazioni degli attori, in ore serali
e notturne, determinando “una significativa lesione degli
interessi della persona umana costituzionalmente garantiti
quali in particolare il diritto al riposo notturno,
inevitabilmente pregiudicato (se non addirittura impedito)
dalla musica ad alto volume e dagli schiamazzi…”
(sentenza impugnata, p. 7-8).
La Corte ha accertato altresì –con valutazione in fatto, non
suscettibile di riesame in questa sede– che l’entità del
danno non è da ritenere futile, né è consistita “in meri
disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto
immaginari, come quello alla qualità della vita o alla
felicità”, così uniformandosi ai principi più volte
enunciati da questa Corte in materia (cfr. fra tutte, Cass.
civ. S.U. 11.11.2008 n. 26972; Cass. civ. Sez. 3, n.
20684/2009).
La giurisprudenza citata in contrario dalle ricorrenti
(Cass. civ. Sez. 3, 10.12.2009 n. 25820) circa la necessità
di fornire la prova specifica del danno da immissioni
sonore, non è in termini poiché si riferisce ai casi in cui
il danneggiato faccia valere un vero e proprio danno alla
salute, cioè un danno biologico, calcolabile in punti di
invalidità e risarcibile in termini particolarmente
rigorosi, sulla base di specifiche tabelle.
Nella specie i danneggiati non hanno dedotto di avere subìto
un tal tipo di danno.
Hanno invece dedotto l’indebito, grave pregiudizio arrecato
per almeno tre anni al riposo notturno, alla serenità e
all’equilibrio della mente, ed alla vivibilità delle loro
case, condizioni tutte che il rumore e il frastuono
protraentisi per ore mettono seriamente e ingiustamente a
repentaglio e di cui può ritenersi acquisita la prova anche
per presunzioni, sulla base delle nozioni di comune
esperienza.
2.2.- Quanto all’omessa considerazione delle situazioni
personali, la valutazione equitativa della Corte di merito
ha avuto palesemente riguardo al danno minimo ipotizzabile
per ciascuno dei danneggiati, considerato che la sofferenza
e l’insonnia provocati dalla musica a tutto volume possono
ritenersi comuni a tutti (salvo a coloro che siano affetti
da sordità).
Ma la predetta patologia, così come le peculiari situazioni
od insensibilità personali idonee a giustificare la
diminuzione del risarcimento, avrebbero dovuto essere
dimostrati dai danneggianti, trattandosi di circostanze che
vengono invocate al fine di dimostrare l’insussistenza
totale o parziale del danno (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 19.12.2014 n. 26899 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la realizzata traslazione (40 anni or sono)
di un nuovo fabbricato rispetto a quanto assentito dal
comune la stessa deve essere qualificata come variazione
essenziale (nel caso di specie la variazione alle distanze,
per quanto effettivamente di minima entità, è pur tuttavia
superiore al 2%).
---------------
E' illegittima l'ordinanza di demolizione di un abuso
edilizio commesso 40 anni or sono tenuto conto:
● che
non è stata comunque valutata (dal comune) la possibilità di
una regolarizzazione eccezionale, prospettata dallo stesso
legale dell'amministrazione, in considerazione della prassi
comunale (tenuto conto del fatto che in ogni caso il sedime
dell’edificio risulta parzialmente coincidente con quello
previsto in progetto);
●
della lunga preesistenza dell’opera nell’assetto attuale
(che non ha evidentemente dato luogo in tutto questo tempo a
problemi di carattere igienico-sanitario);
●
all’incolpevole affidamento ingenerato nell’attuale
proprietaria anche dal pregresso comportamento del Comune,
che non ha riscontrato le irregolarità nella realizzazione
neanche all’atto del rilascio del certificato di agibilità
nel 1974, con la conseguente impossibilità per lei di
rendersene conto all’atto dell’acquisto, sulla base degli
ordinari controlli, nonché della buona fede dimostrata anche
con il suo comportamento con il Comune.
La ricorrente ha acquistato nel 2013 un fabbricato edificato
nel 1971 sulla base di regolare licenza edilizia n. 111/1970
ed assistito da regolare certificato di agibilità; in
occasione di alcuni rilievi eseguiti per predisporre la
pratica relativa a lavori di ristrutturazione è emerso che
l’edificio è stato realizzato ab origine con una
lieve traslazione dell’area di sedime, per cui la ricorrente
ha richiesto al Comune parere preventivo circa la
possibilità di ottenere la sanatoria.
Il comune, dopo aver acquisito un parere legale in merito
all’esatto inquadramento della fattispecie di illecito
edilizio eseguito ed alla conseguente sanabilità e o
regolarizzazione degli interventi eseguiti in difformità
della licenza, ha adottato l’atto oggetto della presente
impugnativa, ordinando la demolizione delle opere difformi
dalla licenza edilizia numero 111 del 1970 che risultano in
contrasto con la vigente normativa in merito alla distanza
minima tra superfici finestrate, alla distanza tra
fabbricati e alla distanza dal confine di proprietà.
È incontroverso che l’edificio di cui trattasi sia stato
realizzato, in difformità dalla licenza edilizia, ad una
distanza rispetto alle proprietà confinanti variabile tra
metri 3,75 e m 3,90 circa, ad una distanza di metri,
rispettivamente, 9,90 e 8 rispetto ai due fabbricati siti
all’interno di dette proprietà e ad una distanza, rispetto
ai manufatti insistenti sul confine ed adibiti ad
autorimesse, che risulta pari a metri 7 rispetto ad un
fabbricato condonato nel 1989, a metri 5 rispetto ad altro
manufatto non assentito e a metri 9,20 rispetto al terzo.
Risulta pertanto non rispettato l’articolo 14 delle norme
tecniche di attuazione del piano degli interventi per quanto
riguarda la distanza dai confini di proprietà e tra
fabbricati e l’articolo 9 del DM 1444/1968 per la distanza
tra pareti finestrate.
In considerazione di quanto sopra il parere legale
concludeva per l’ascrizione della traslazione parziale
dell’edificio al novero delle variazioni essenziali, che
l’articolo 31 del d.p.r. 380/2001 sanziona con ordine di
demolizione; veniva peraltro rimarcato anche che, data la
prassi comunale di qualificare (e sanzionare) la traslazione
come parziale difformità quando vi fosse una sovrapposizione
tra la localizzazione assentita e quella effettiva, il
carattere remoto dell’abuso nonché l’affidamento incolpevole
dell’attuale proprietario dell’edificio, il comune avrebbe
anche potuto ritenere che il pregiudizio arrecato dalla
traslazione alle esigenze pubblicistiche di carattere
igienico sanitario e di ordinato assetto e sviluppo del
territorio non richiedesse necessariamente la demolizione
integrale dell’edificio.
Ciò premesso il collegio ritiene fondate le censure di
ricorso con riferimento al difetto di motivazione, reso
particolarmente evidente dal contrasto con la decisione
precedente di avvalersi di un parere legale, il cui
contenuto non risulta poi essere stato fino in fondo
valutato e preso in considerazione ai fini della decisione
che ordina la demolizione; in tale sede non viene infatti
chiarito perché, a prescindere dall’incontestabilità della
qualificazione della traslazione effettuata come variazione
essenziale (punto su cui il collegio concorda perché la
variazione alle distanze, per quanto effettivamente di
minima entità, è pur tuttavia superiore al 2%), non è stata
comunque valutata la possibilità di una regolarizzazione
eccezionale, prospettata dallo stesso legale, in
considerazione della prassi comunale (tenuto conto del fatto
che in ogni caso il sedime dell’edificio risulta
parzialmente coincidente con quello previsto in progetto),
della lunga preesistenza dell’opera nell’assetto attuale
(che non ha evidentemente dato luogo in tutto questo tempo a
problemi di carattere igienico-sanitario), all’incolpevole
affidamento ingenerato nell’attuale proprietaria anche dal
pregresso comportamento del Comune, che non ha riscontrato
le irregolarità nella realizzazione neanche all’atto del
rilascio del certificato di agibilità nel 1974, con la
conseguente impossibilità per lei di rendersene conto
all’atto dell’acquisto, sulla base degli ordinari controlli,
nonché della buona fede dimostrata anche con il suo
comportamento con il Comune; in considerazione di tutto
quanto sopra ricordato il Comune avrebbe anche dovuto
precisare esattamente l’entità delle demolizioni ritenute
necessarie.
Per tutte le considerazioni che precedono il ricorso è
fondato e deve essere accolto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.12.2014 n. 1542 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di una veranda-gazebo, mediante chiusura a
mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica, non ha natura precari, né costituisce intervento
di manutenzione straordinaria o di restauro, ma è opera di
ristrutturazione soggetta a concessione edilizia (oggi a
permesso di costruire).
II – Il ricorso e i motivi aggiunti sono infondati.
III – La ricorrente società, titolare di un esercizio di
ristorazione a Isernia, con la concessione edilizia in data
01.04.1997, ha realizzato lavori di rifacimento di una
struttura protettiva (tipo veranda) collocata all’esterno
dell’esercizio. Sennonché, il territorio del Comune di
Isernia è classificato come zona sismica (con R.D.
22.11.1937) e, dall’esame degli atti d’ufficio, non risulta
depositato il progetto strutturale dell’opera, che –a quanto
consta– non è un tettoia, bensì una struttura chiusa, con
vetrate installate su montanti metallici e travi in legno in
copertura, ancorato con staffe metalliche all’antistante
fabbricato in muratura, priva com’è di fondazioni e
realizzata con un sistema costruttivo non consentito dalle
vigenti norme tecniche anti-sismiche.
Il Servizio tecnico del Comune, avendo rilevato una
violazione di tipo sostanziale –in quanto l’opera è in
contrasto con i punti C1 e seguenti del D.M. 16.01.1996,
recante “norme tecniche per la costruzione in zona
sismica”- ha ordinato la riduzione in pristino, nonché
l’adeguamento della struttura, tutt’altro che provvisoria,
realizzata in difformità dalla concessione edilizia del
01.04.1996; ha inoltre emesso, in via cautelare, l’ordine di
sospensione dei lavori.
Tra le altre cose, il Comune ha contestato alla ricorrente
anche il mancato rispetto delle prescrizioni imposte dalla
Soprintendenza per il beni archeologici e culturali di
Campobasso, con la nota prot. n. 12085 datata 22.06.1996.
La realizzazione di una veranda-gazebo, mediante chiusura a
mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica, non ha natura precaria (cfr.: Tar Toscana Firenze
III, 30.01.2014 n. 185), né costituisce intervento di
manutenzione straordinaria o di restauro, ma è opera di
ristrutturazione soggetta a concessione edilizia (oggi a
permesso di costruire).
Non a caso, la ricorrente si è munita di tale titolo:
sennonché, ha realizzato in parziale difformità, non ha
rispettato le prescrizioni paesaggistiche e non ha provato
il rispetto delle norme di prevenzione sismica. Ciò è
sufficiente per ingiungere la sospensione dei lavori e la
remissione in pristino, senza che occorra una particolare
motivazione in ordine all'interesse pubblico, che deve
ritenersi “in re ipsa”, trattandosi di misura
finalizzata a garantire la sicurezza degli edifici e
l'ordinato, armonico sviluppo edilizio del territorio (cfr.:
Tar Molise I, 21.10.2011 n. 624).
IV - I motivi del ricorso e i motivi aggiunti sono, dunque,
destituiti di fondamento.
La tettoia, assentita con la concessione edilizia del 1997,
è in realtà un locale chiuso. Trattandosi di struttura
ancorata alla muratura dell’edificio, essa non può sottrarsi
alle verifiche antisismiche, di guisa che la mancanza del
deposito strutturale è valida motivazione per sospendere i
lavori e ordinare il ripristino. Non risulta assolto l’onere
di depositare il progetto esecutivo alla Sezione “Comuni
sismici” della Regione Molise – previsto dall’art. 7
della L.R. n. 20/1996 per tutti i lavori di costruzione (e
questo è un lavoro di costruzione!) e persino per le
semplici riparazioni.
Invero, la legge n. 64/1974, in materia di particolari
prescrizioni per costruzioni in zone sismiche, non si
riferisce al concetto di nuova costruzione, ma a quello di
realizzazione di una qualsiasi opera in zona sismica,
risultando, detto concetto, del tutto indifferente e
autonomo rispetto ad altre classificazioni valevoli nella
disciplina edilizia, tale da essere tendenzialmente
omnicomprensivo di tutte le vicende in cui venga in
questione la realizzazione di una costruzione (cfr.: Cons.
Stato IV, 12.06.2009 n. 3706).
Inoltre, le prescrizioni della Soprintendenza –di cui alla
nota del 22.06.1996- condizionano l’assenso edilizio alla
sostituzione del materiale cementizio con componenti in
legno, sennonché i pilastri della tettoia poggiano ancora su
vistosi basamenti in cemento. Tale elemento di sostanziale
difformità sarebbe, di per sé, sufficiente a giustificare la
misura ripristinatoria, di cui all’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001 (cfr.: Cons. Stato VI, 30.04.2014 n. 2821).
Il mancato preavviso procedimentale non costituisce vizio di
legittimità, atteso che, in ragione del carattere vincolato
dell'atto, non occorre alcun avviso di avvio del
procedimento per gli atti sanzionatori in materia edilizia,
tra cui l'ordine di demolizione della costruzione abusiva;
non vi è, nella specie, la violazione dell'art. 7 della
legge n. 241 del 1990 (cfr.: Cons. Stato VI, 01.10.2014 n.
4878) (TAR Molise,
sentenza 18.12.2014 n. 711 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: DISTANZE
LEGALI/ Senza un parapetto non c’è la «veduta».
Non comporta alcuna violazione delle distanze legali
trasformare il solaio in un terrazzo senza parapetto poiché
l’opera non costituisce «nuova veduta».
Questo il principio applicato dalla Corte di Cassazione,
sentenza 10.12.2014 n. 26049, con la quale ha
accolto parzialmente il ricorso dei proprietari di un
immobile (una villetta dove era stata realizzata l’opera),
parte di un più ampio complesso edilizio, ribaltando la
sentenza della Corte d’Appello la quale aveva ritenuto che
la semplice trasformazione di un solaio impraticabile in
terrazzo, fosse di per sé sufficiente a integrare una veduta
sulla proprietà del vicino, considerando irrilevanti sia la
mancanza del parapetto sul lato a confine con il fondo, sia
la presenza, sullo stesso lato, di una recinzione o siepe
removibile in qualsiasi momento.
La Cassazione, invece, ha applicato il principio generale
secondo il quale affinché possano configurarsi gli estremi
di una veduta è necessaria la possibilità di affacciarsi e
guardare di fronte, obliquamente e lateralmente, grazie alla
presenza di un parapetto «che consenta l’esercizio di
tali facoltà in condizioni di sufficiente comodità e
sicurezza» (articolo Il Sole 24 Ore del 13.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
SCIA in via telematica, senza leale collaborazione rigetto
illegittimo. Il destinatario della pec deve informare il
mittente incolpevole della difficoltà di aprire e visionare
il file.
A fronte di una SCIA (Segnalazione
certificata di inizio attività) presentata in via
telematica, l’Amministrazione procedente è tenuta al
rispetto delle regole che ordinariamente informano i
rapporti con i privati, e, prima di tutte, del principio di
leale collaborazione.
Infatti la posta elettronica certificata (Pec), “quale
tecnologia telematica, è strumento con il quale i privati
possono relazionarsi con la pubblica Amministrazione
(articolo 3 D.Lgs. n. 82/2005); la trasmissione a mezzo pec
equivale a notificazione a mezzo posta (articolo 48 D.Lgs.
n. 82/2005); se rispondenti ai requisiti formali
normativamente fissati, le istanze e dichiarazioni inviate
alla pubblica Amministrazione in via telematica equivalgono
a quelle presentate su supporto cartaceo con sottoscrizione
autografa (articolo 65 D.Lgs. n. 82/2005)”.
Lo ha evidenziato il TAR Friuli Venezia Giulia con la
sentenza 03.12.2014 n. 610.
LA VICENDA.
Nel caso affrontato dai giudici amministrativi del Friuli,
la società Telecom Italia aveva presentato a mezzo pec una
SCIA per la modifica di un proprio impianto fisso per la
telefonia mobile nel Comune di Pocenia.
È però intervenuto il divieto comunale di prosecuzione
dell’attività oggetto di SCIA, disposto per una serie di
ragioni, tra le quali il fatto che uno dei file digitali
contenenti la documentazione allegata alla segnalazione non
risultava apribile e quindi visionabile.
IL DESTINATARIO DELLA PEC DEVE INFORMARE IL
MITTENTE DELLA DIFFICOLTÀ DI VISIONARE IL FILE.
Nella sentenza, il Tar Friuli osserva che “Nel momento in
cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della pec
e di consegna della stessa nella casella del destinatario si
determina una presunzione di conoscenza della comunicazione
da parte del destinatario analoga a quella prevista, in tema
di dichiarazioni negoziali, dall’articolo 1335 Cod. civ..
Spetta la destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere
edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di
cognizione del contenuto della comunicazione legate
all’utilizzo dello strumento telematico, pure ammesso dalla
legge”.
Nel caso esaminato, “il Comune non ha nemmeno prospettato
che la mancata apertura dei file contenenti la
documentazione allegati alla SCIA dipendesse da una scelta
deliberata delle segnalanti: ne consegue che era suo dovere
rappresentare agli interessati la circostanza, fissando un
termine per ovviare al problema, con l’avvertimento che il
mancato tempestivo adempimento dell’incombente avrebbe
determinato l’esercizio dei poteri inibitori nel termine di
cui all’articolo 87-bis D.Lgs. n. 259/2003. A ben guardare
–concludono i giudici amministrativi- non si trattava
nemmeno di chiedere un’integrazione documentale, perché nel
caso di specie il documento era stato inviato, ma di
sollecitare, nell’interesse delle stesse segnalanti, una
riproduzione dello stesso in un formato visionabile
dall’Amministrazione”
(commento tratto da www.casaeclima.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'abusiva
realizzazione di un torrino di ascensore (funzionale a
consentire il prolungamento della corsa sino all’ultimo
piano) in zona paesaggisticamente vincolata acquisisce la
qualifica di un vano tecnico sicché lo stesso rientra tra
quelli suscettibili di accertamento della compatibilità
paesistica ai sensi dell’art. 167, comma 4, lettera a).
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Non può essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione, che
addebita ancora alla sentenza del TAR la pretesa di
riscontrare la corrispondenza tra l’ambito urbanistico e
quello della tutela paesaggistica sulla base della fallace
nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione
legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi",
in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla
tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per
l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei
ad apportare una modificazione alla realtà preesistente,
tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di
tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni
tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda
della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in
ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla
realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli
interessi superiori di tutela del paesaggio, non è
suscettibile di condivisione alcuna.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono
specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via
esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei
lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m.
02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991;
art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU)
coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile
(superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di
murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e
finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi)
mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti
dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine,
locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze,
balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi
vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della
superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani
per le relative altezze effettive misurate da pavimento a
pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si
riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che
hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente
essenziale, in relazione all’uso della costruzione
principale, senza assumere il carattere di vani chiusi
utilizzabili, quali sono in genere gli accessori e per
l’appunto la colonna ascensore.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di
Stato, “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile
nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a
un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche
solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di
impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa,
come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa-
quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici
interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno
di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti
il loro significato specialistico, per giungere senz’altro
alla conclusione di un’astratta preclusione normativa
rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente
espressa in funzione della essenzialità del vano corsa
dell’ascensore: per modo da porlo in concreta ed effettiva
relazione (avuto riguardo anche alle reali dimensioni), ai
fini del successivo giudizio di compatabilità paesaggistica,
rispetto al contesto paesaggistico tutelato.
... per la
riforma della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZIONE VII
n. 1748/2009, resa tra le parti, concernente accertamento
compatibilità paesistica di opere realizzate in difformità
dal permesso di costruire.
...
1.- Risulta dalla sentenza appellata che la Soprintendenza
dichiarò improcedibile l’istanza della signora S.R.,
ricorrente originaria, volta all’accertamento postumo della
compatibilità paesaggistica della realizzazione, in
difformità dal permesso di costruire rilasciato per
l’installazione dell’ascensore condominiale, di un torrino,
funzionale a consentire il prolungamento della corsa sino
all’ultimo piano.
Il provvedimento è fondato sulla motivazione che le opere “hanno
comportato anche la realizzazione di volume ex novo, con
conseguente incremento di volumetria legittima…in contrasto
con il citato art. 167, lettere a) e c)” del d.lgs.
22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede
di Napoli ha accolto il ricorso dell’interessata, rilevando
nel realizzato torrino di ascensore la qualifica di un vano
tecnico sicché erroneamente la Soprintendenza avrebbe
ritenuto che l’intervento non rientra tra quelli
suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica
ai sensi dell’art. 167, comma 4, lettera a).
Con l’atto di appello, strutturato su un unico motivo di
gravame, l’Amministrazione critica la sentenza per
l’asserita natura nell’opera di volume tecnico, per
l’interpretazione teleologica in assimilazione di nozioni
urbanistiche nel diverso contesto dei valori paesaggistici,
per la differenza sostanziale tra impatto urbanistico e
impatto paesaggistico, per la violazione della
discrezionalità propria della Soprintendenza nella
valutazione della richiesta di compatibilità paesaggistica
in sanatoria.
L’appellata resiste e con la memoria di costituzione
richiama altra fattispecie (aumento esterno della falda di
25 cm) dove la stessa Soprintendenza aveva sostenuto che, in
quanto volume tecnico, esulasse dal limite alla sanabilità
ex post introdotto dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del
2004 (Tar Napoli, sentenza n. 9328 del 2007).
All’udienza del 10.06.2014 la causa è stata introitata per
la decisione.
2.- L’appello va respinto perché infondato e la sentenza va
confermata.
In linea preliminare occorre muovere dalla rilevazione del
contenuto dell’art. 167 (Ordine di rimessione in pristino o
di versamento di indennità pecuniaria) d.lgs. 22.01.2004, n.
42, il cui comma 4 prevede che l’autorità amministrativa
competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo
le procedure di cui al comma 5, nei casi indicati (per i
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati; per l'impiego
di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai
sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380); il comma 5 consente al
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di
cui al comma 4 di presentare apposita domanda all'autorità
preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento
della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi
che, qualora venga accertata, comporta il pagamento di una
indennità pecuniaria equivalente al maggiore importo tra il
danno arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione.
Come ben considerato dal primo giudice, la Soprintendenza ha
indebitamente dichiarato improcedibile l'istanza di
accertamento della compatibilità paesistica, evidenziando in
motivazione che le opere non rientrano nella casistica
prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c), del
decreto legislativo n. 42 del 2004, perché: "hanno
comportato anche la realizzazione di volume ex novo, con
conseguente incremento della volumetria legittima".
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini
edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il il
linguaggio e i parametri che, seppure incongruamente
rispetto al contesto, usa l’art. 167– il torrino di cui si
verte sia un volume tecnico, perché servente all’ascensore.
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie
evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto
non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante
nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua
valutazione in concreto e postuma di compatibilità
paesaggistica (in quanto, al contrario, rientrantevi perché
accessivo a quelle stesse categorie). Sarebbe stato cioè
necessario, data la natura di volume tecnico, procedere a un
concreto accertamento di compatibilità paesaggistica, con
una valutazione effettiva e concreta rispetto ai valori
tutelati.
3.- Non può dunque essere condiviso l’assunto
dell’Amministrazione, che addebita ancora alla sentenza la
pretesa di riscontrare la corrispondenza tra l’ambito
urbanistico e quello della tutela paesaggistica sulla base
della fallace nozione di “volume tecnico”, laddove
invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici
utili" o "volumi", in un ambito normativo che
attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può
che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici
utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione
alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli
interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni
tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici”
a seconda della loro diversa applicazione nel campo
urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni
modificazione alla realtà preesistente determina “di per
sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del
paesaggio, non è suscettibile di condivisione alcuna.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono
specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via
esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei
lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m.
02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991;
art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU)
coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile
(superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di
murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e
finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi)
mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti
dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine,
locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze,
balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi
vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della
superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani
per le relative altezze effettive misurate da pavimento a
pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si
riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che
hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente
essenziale, in relazione all’uso della costruzione
principale, senza assumere il carattere di vani chiusi
utilizzabili, quali sono in genere gli accessori e per
l’appunto la colonna ascensore.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di
Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di
‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini
in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o
eccedenti il loro significato specialistico, per giungere
senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione
normativa rispetto a una valutazione che va invece
ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità del
vano corsa dell’ascensore: per modo da porlo in concreta ed
effettiva relazione (avuto riguardo anche alle reali
dimensioni), ai fini del successivo giudizio di
compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto
paesaggistico tutelato.
4.- In conclusione, l’appello va respinto, con conferma
della sentenza gravata, risultando la criticata valutazione
della Soprintendenza illegittima (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 01.12.2014 n. 5932 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’iter
pre-gara non è pubblico. Consiglio di Stato. Va tutelato il
segreto sui concorrenti ammessi.
L’intera fase di prequalifica della procedura di gara che
serve ad aprire ed esaminare le domande di partecipazione
delle ditte concorrenti e la documentazione amministrativa
relativa ai loro requisiti di partecipazione non può
avvenire in seduta pubblica. Con le operazioni aperte,
infatti, ogni candidato verrebbe a conoscenza degli ammessi
violando così il principio di segretezza dei concorrenti.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. III, nella
sentenza 24.11.2014 n. 5789.
I giudici hanno dato ragione a una federazione sovrazionale
deputata da una Regione alla gestione del Servizio sanitario
regionale che, per conto di cinque aziende sanitarie locali,
aveva affidato un servizio di ossigenazione domiciliare con
una procedura ristretta che si era tenuta in forma riservata
durante le operazioni di apertura delle buste come
prescritto dal Codice degli appalti (Dlgs 163/2006).
Secondo il collegio, la gara è regolare e non vi è stata
alcuna violazione dei principi di pubblicità, trasparenza,
imparzialità e parità di trattamento in quanto nelle
procedure ristrette -sistema di selezione utilizzato quando
il contratto non ha per oggetto la sola esecuzione o il
criterio di aggiudicazione è quello dell’offerta
economicamente più vantaggiosa come nel caso di specie- tale
fase «non deve essere assistita da pubblicità, restando,
invero, differito l’accesso documentale all’elenco delle
ditte che hanno segnalato l’interesse a partecipare al
concorso fino alla scadenza del termine per la presentazione
delle offerte» (articolo 13, comma 2, lettera b, del
Codice).
In particolare «ogni precedente conoscenza degli atti di
gara e, in particolare dell’elenco dei concorrenti ammessi a
presentare offerta, vanificherebbe la norma garante del
corretto dispiegarsi del confronto concorrenziale, esponendo
inoltre i responsabili del procedimento a sanzione».
Esclusi i casi di appalti segretati o la cui esecuzione
richiede speciali misure di sicurezza, la regola del diritto
d’accesso differito fissata dal Codice è valida anche per le
procedure negoziate e ogni ipotesi di gara informale per
l’elenco dei soggetti invitati a presentare offerte, di
coloro che le hanno presentate o hanno fatto richiesta di
invito, oltre a chi vi ha mostrato interesse.
Inoltre, sempre a detta dei giudici, con un bando che, come
quello in esame, ha previsto di procedere in forma
accelerata per scegliere il contraente anche la «verifica
del possesso in capo ai ricorrenti dei requisiti di ordine
generale, di capacità tecnica, economica/finanziaria ed
altro, non trova sostegno nella disciplina di gara ispirata
ai principi di economicità, efficacia e tempestività»
(articolo 2, comma 1, del Codice)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Affinché
possa considerarsi esistente una servitù pubblica di
passaggio su di una strada realizzata in area privata
occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di
persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in
una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il
collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di
interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della
Pubblica amministrazione.
Del resto, è noto che l'adibizione ad uso pubblico di una
strada (o comunque di un'area) può anche avvenire mediante
la c.d. dicatio ad patriam, per effetto del comportamento
del proprietario che metta il bene a disposizione dei
cittadini, oppure con l'uso del bene da parte della
collettività indifferenziata protratto per lungo tempo, di
guisa che il bene stesso venga ad assumere caratteristiche
analoghe a quelle di un bene demaniale.
4. Né può rilevare il fatto che la strada di proprietà
privata di accesso alla c.da S. Antonio sia senza uscita,
atteso che anche un mero cortile (cfr. Tar Sicilia, Palermo,
sent. n. 2700 del 12.11.2003), se aperto al pubblico ed al
traffico automobilistico indifferenziato dà luogo ad un "uso
pubblico" (art. 2 cod. str.) tale da giustificare
l'intervento dell'Amministrazione; e nella fattispecie, come
già detto, sussiste la prova, ex art. 2700 cod. civ., che
detta strada: è stata asfaltata dal Comune; immette in un
tratto viario che a sua volta incrocia, dopo qualche decina
di metri, una "via comunale"; è manutenzionata dal
Comune medesimo ed è servita di tutti i servizi pubblici
necessari per l'abitabilità e/o agibilità degli immobili
prospicienti.
Peraltro la collocazione della numerazione civica, risulta
già in una attestazione del Sindaco di Messina datata
19.03.1990 e resa in relazione alla costruzione di un
fabbrica da parte di tale C.F. (cfr. all. 6 della produzione
del controinteressato cit.); verosimilmente il medesimo
ricorrente di cui alla sent. della Corte di Cassaz. n.
7573/2012 cit..
Di rilievo appare, poi, la circostanza che i ricorrenti non
deducono, né tanto meno provano, che il libero accesso alla
strada/cortile de qua, mediante autovetture, sia in
effetti impedito (mediante apposti accorgimenti: quali
cancelli, recinzioni, barre di accesso, servizio di
guardiania … ecc.); e quindi sia consentito ai soli
proprietari degli immobili prospicienti sulla strada stessa.
E' da ritenere, quindi, alla stregua degli atti di causa,
che qualsiasi cittadino possa di fatto accedere liberamente
alla strada/cortile in argomento, a piedi o con automezzi, e
che parimenti possa uscirne per immettersi nella viabilità
comunale ("via Comunale" o "via Paolo la Badessa");
in un'area, peraltro, caratterizzata da una forte pendenza,
nei pressi del ripido ed ampio torrente S. Filippo. E ciò è
sufficiente per ritenere che il tratto viario per cui è
causa abbia in effetti una funzione di libero collegamento
dell'area in questione con le pubbliche vie circostanti e
sia destinato al transito di un numero indifferenziato di
persone uti cives, e non uti singuli.
Come da tempo enunciato dalla giurisprudenza amministrativa
affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica
di passaggio su di una strada realizzata in area privata
occorre che essa: a) sia utilizzata da una collettività
indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che
si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene
gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare,
attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica
via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di
interventi di manutenzione da parte della Pubblica
amministrazione (cfr. tra le tante Cons. Stato Sez. VI sent.
n. 2544 del 10.05.2013 che conferma TAR Toscana, 29.07.2008
n. 1834).
Del resto, è noto che l'adibizione ad uso pubblico di una
strada (o comunque di un'area) può anche avvenire mediante
la c.d. dicatio ad patriam, per effetto del
comportamento del proprietario che metta il bene a
disposizione dei cittadini, oppure con l'uso del bene da
parte della collettività indifferenziata protratto per lungo
tempo, di guisa che il bene stesso venga ad assumere
caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (cfr.
Cons. Stato Sez. IV sent. n. 3531 del 15.06.2012, che
annulla TAR Lazio, 06.08.2009 n. 7932; Cons. di Stato, Sez.
I, parere n. 4361 dell'11.07.2011) (TAR Sicilia-Catania,
Sez. III,
sentenza 06.11.2014 n. 2912 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI:
Sulla possibilità di fallimento delle società
pubbliche.
E' di interpretazione autentica la norma di cui al D.L. n.
95/2012, conv. in L. 135/2012, che ha dettato in materia di
società a partecipazione pubblica una disposizione di
generale rinvio alla disciplina codicistica delle società di
capitali.
Il fallimento delle società pubbliche, cui sia affidata
l'erogazione di servizi pubblici, non presenta alcuna
interferenza con la titolarità del servizio, perché, anche
quando la società partecipata gestisce un servizio pubblico,
non è mai titolare di quel servizio, ma semplice affidataria
ad opera dell'ente pubblico socio affidante e, pertanto,
l'applicazione dello statuto dell'imprenditore, ivi compresa
la dichiarazione di fallimento, non determina alcuna
ingerenza dell'autorità giudiziaria nell'attività della
pubblica amministrazione né impedisce l'esecuzione di un
servizio necessario alla collettività.
Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la
costituzione della società, la partecipazione pubblica al
suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono
sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare
il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento di
terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica.
Ciò che rileva nel nostro ordinamento, ai fini
dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore
commerciale, non è il tipo di attività esercitata, ma la
natura del soggetto: se così non fosse si dovrebbe giungere
alla conclusione che anche le società a capitale interamente
privato, cui sia affidata la gestione di un servizio
pubblico ritenuto essenziale, sarebbero esentate dal
fallimento". Insomma, la società a partecipazione pubblica è
una (delle) modalità di gestione del servizio pubblico, pur
non essendone titolare.
E', infatti, compito dell'ente pubblico titolare degli
interessi pubblici, nell'ipotesi di decozione, trovare una
soluzione alternativa al loro soddisfacimento, mediante
gestione del servizio in altra forma o riassegnazione ad
altro soggetto, mentre agli organi del fallimento spetta la
liquidazione delle attività fallimentari, nel rispetto dei
limiti generalmente stabiliti dalla legge, al fine di
assicurare la continuità del servizio pubblico.
---------------
Il D.L. n. 95/2012, convertito in L. 135/2012, ha dettato,
in materia di società a partecipazione pubblica, una norma
di generale rinvio alla disciplina codicistica delle società
di capitali, precisando che: "Le disposizioni del
presente articolo e le altre disposizioni, anche di
carattere speciale, in materia di società a totale o
parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso
che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe
espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal
codice civile in materia di società di capitali" (art.
4, c. 13).
Dalla lettura del Dossier del Servizio Studi del Senato, n.
32 del luglio 2012 n. 39 e del parere del Comitato per la
legislazione del Senato sul disegno di legge n. 5389, si
ricava la volontà del legislatore di attribuire alla norma
in questione natura di norma di interpretazione autentica, "al
fine di imprimere un indirizzo di cautela verso un processo
di progressiva entificazione pubblica di tali società,
valorizzando la forma privata societaria e la disciplina
comune dell'attività rispetto alla sostanza pubblica del
soggetto e della funzione" (TRIBUNALE di Palermo, Sez.
fallimentare,
sentenza 24.10.2014 n. 187 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AGGIORNAMENTO
AL 13.01.2015 |
ã |
Niente ennesima proroga: dal 1° gennaio 2015
(anche) l'Ufficio Tecnico Comunale deve essere
gestito in forma associata!! |
Già con l'AGGIORNAMENTO
AL 17.11.2014 davamo risalto alla notizia
che verosimilmente non ci sarebbe stata l'ennesima
proroga del termine (31.12.2014) entro cui, appunto,
gestire in forma associata anche l'U.T.C. ... e così
è stato. Infatti, nel tradizionale D.L. di fine anno
c.d. "milleproroghe", non v'è traccia. |
QUINDI?? |
Quindi, i comuni aventi meno di 5.000 abitanti
(tranne le poche eccezioni di legge) che non abbiano
provveduto per tempo (entro il 31.12.2014) a
completare gli atti per lo svolgimento associato di
tutte le funzioni obbligatorie si vedranno
recapitare, a breve, la diffida del Prefetto che
assegna agli stessi un termine perentorio per
l'ottemperanza, decorso il quale opera l'azione
sostitutiva del Governo, ai sensi dell'art. 8 della
legge 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. legge la loggia).
Invero, la norma di riferimento (art.
14, commi 31-ter e 31-quater, della Legge 30.07.2010
n. 122) così recita: |
31-ter. I comuni interessati assicurano l’attuazione
delle disposizioni di cui al presente articolo:
(comma
introdotto dall'art. 19, comma 1, lettera e), legge
n. 135 del 2012)
a) entro il 1° gennaio 2013
con riguardo ad almeno tre delle funzioni
fondamentali di cui al comma 28;
b) entro il 30 settembre 2014, con riguardo ad
ulteriori tre delle funzioni fondamentali di cui
al comma 27;
(termine differito dall'art. 23, comma
1-quinquies, legge n. 114 del 2014)
b-bis) entro il 31 dicembre
2014, con riguardo alle restanti funzioni
fondamentali di cui al comma 27.
(lettera b) così sostituita e lettera b-bis, così
introdotta dall'art. 1, comma 530, legge n. 147
del 2013)
31-quater. In caso di decorso
dei termini di cui al comma 31-ter, il prefetto
assegna agli enti inadempienti un termine perentorio
entro il quale provvedere. Decorso inutilmente detto
termine, trova applicazione l'articolo
8 della legge 5 giugno 2003, n. 131.
(comma
introdotto dall'art. 19, comma 1, lettera e), legge
n. 135 del 2012)
|
Al di là di riproporre qui gli interrogativi già
posti nel suddetto precedente aggiornamento ce n'è
un altro ben più di sostanza: se dal 1° gennaio 2015
relativamente all'U.T.C. (per esempio) ci sono
ancora tre P.O. (cui è attribuita la retribuzione di
posizione) in tre comuni di 4.500 abitanti ciascuno
(anziché solamente una ... il minimo da raggiungere
è pari a 10.000 abitanti, salva diversa disposizione
regionale), e costatata la colposa e/o dolosa
inerzia nell'ottemperare ad un precetto di legge,
chi sarà chiamato a
rispondere di danno erariale??
La Procura regionale della Corte dei Conti già
pregusta, da lontano, l'inebriante "profumo di
carne abbrustolita" ...
13.01.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo bottone:
dossier GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Nell’ambito
del procedimento di autorizzazione paesaggistica il parere
vincolante della Soprintendenza deve essere puntualmente e
congruamente motivato e, in caso esso sia negativo, deve
esplicitare le effettive ragioni di contrasto tra
l’intervento progettato ed i valori paesaggistici dei luoghi
compendiati nel decreto di vincolo.
Il parere deve inoltre indicare quale tipo di accorgimento
tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe fare
conseguire all’interessato l’autorizzazione paesaggistica,
in quanto la tutela del preminente valore del paesaggio non
deve necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede interventi improntati a fattiva
collaborazione delle autorità preposte alla tutela
paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative
edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici
insiti nel bene paesaggio.
Nella ipotesi in cui la sicurezza dei luoghi renda
inevitabile, per la stessa Sovrintendenza, interventi
costosi di contenimento, ai quali normalmente non può un
comune proprietario farsi carico, tale attività
collaborativa è maggiormente doverosa, al fine di perseguire
l’obiettivo di un progetto che, nel rispetto dei valori
estetici e storici, consenta al proprietario di intervenire
realizzando un progetto che consenta la utilizzazione
migliore e più fruttuosa del bene vincolato.
Se quindi è evidente che in ogni vicenda analoga i rapporti
tra il privato la cui titolarità sia limitata dal vincolo e
la Soprintendenza, che valuta l’interesse pubblico e della
collettività alla tutela e fruizione del bene vincolato,
debbano essere ispirati a canoni di comportamento di
correttezza e lealtà procedimentale, tali obblighi sono
ispessiti quando la situazione di ammaloramento del bene
richieda interventi, come nella specie, di grande rilevanza
economica, ai quali la parte privata, normalmente, non possa
fare fronte senza ricorrere a progetti che consentano una
valorizzazione economica del bene stesso.
Nel merito, è fondato l’appello proposto
dall’amministrazione.
E’ vero che nell’ambito del procedimento di autorizzazione
paesaggistica il parere vincolante della Soprintendenza deve
essere puntualmente e congruamente motivato e, in caso esso
sia negativo, deve esplicitare le effettive ragioni di
contrasto tra l’intervento progettato ed i valori
paesaggistici dei luoghi compendiati nel decreto di vincolo.
Il parere deve inoltre indicare quale tipo di accorgimento
tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe fare
conseguire all’interessato l’autorizzazione paesaggistica,
in quanto la tutela del preminente valore del paesaggio non
deve necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede interventi improntati a fattiva
collaborazione delle autorità preposte alla tutela
paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative
edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici
insiti nel bene paesaggio (così, tra varie, Cons. Stato, VI,
24.03.2014, n. 1418).
Nella ipotesi in cui la sicurezza dei luoghi renda
inevitabile, per la stessa Sovrintendenza, interventi
costosi di contenimento, ai quali normalmente non può un
comune proprietario farsi carico, tale attività
collaborativa è maggiormente doverosa, al fine di perseguire
l’obiettivo di un progetto che, nel rispetto dei valori
estetici e storici, consenta al proprietario di intervenire
realizzando un progetto che consenta la utilizzazione
migliore e più fruttuosa del bene vincolato.
Se quindi è evidente che in ogni vicenda analoga i rapporti
tra il privato la cui titolarità sia limitata dal vincolo e
la Soprintendenza, che valuta l’interesse pubblico e della
collettività alla tutela e fruizione del bene vincolato,
debbano essere ispirati a canoni di comportamento di
correttezza e lealtà procedimentale, tali obblighi sono
ispessiti quando la situazione di ammaloramento del bene
richieda interventi, come nella specie, di grande rilevanza
economica, ai quali la parte privata, normalmente, non possa
fare fronte senza ricorrere a progetti che consentano una
valorizzazione economica del bene stesso.
Se quindi può pensarsi ad uno speciale dovere di motivazione
(su tale dovere speciale, da ultimo, Cons. Stato, VI,
24.03.2014, n. 1418), attesa la particolarità della
fattispecie, va valutato se in concreto tale obbligo sia
stato rispettato.
Le ragioni del diniego, evincibili in sostanza dall’atto del
14.02.2012 e dalla relazione del 22.05.2012 erano, evitando
di riportare i passaggi di ricostruzione storico-descrittiva
del bene vincolato, i seguenti:
a) la realizzazione del parcheggio “manometterebbe l’area
di sedime del giardino vincolato contiguo al fabbricato”;
giardino che “qualora fosse interessato dalle operazioni
di scavo, sarebbe irrimediabilmente compromesso venendo
alterate anche le caratteristiche idrologiche e
fisico-chimiche dello strato di terreno posto sotto il
substrato, comunque connesso alle piante”;
b) la futura effettuazione di ulteriori scavi archeologici,
“comporterebbe gravi alterazioni non compatibili con la
conservazione delle valenze paesaggistiche del bene
sottoposto a vincolo”;
c) la realizzazione del parcheggio necessiterebbe di “opere
di così evidente impatto sul sistema strutturale, a stretto
contatto con le opere di fondazione del Casino che potrebbe,
durante l’esecuzione di perforazioni e scavi, per quanto
eseguiti con tecnologie avanzate, compromettere l’equilibrio
dell’edificio e di tutti i suoi aspetti decorativi”;
d) “l’indispensabile progetto di consolidamento del Casino,
per quanto ne garantisca la conservazione, ne snaturerebbe
completamente i contenuti incidendo sulle tecniche e
materiali originari e quindi non compatibile con la tutela
dell’immobile sottoposto a vincolo monumentale”;
e) la “destinazione a parcheggio, con le sue relative
conseguenze di uso, andrebbe a configurarsi come elemento
avulso rispetto alle valenze naturalistiche proprie del sito
con modificazioni nella natura e sedimentazione del
sottosuolo creando una cesura nella continuità della
stratificazione dei luoghi con conseguente modifica della
consistenza del soprassuolo non più insistente sulla
superficie naturale ma irreversibilmente separato dal
substrato che ne ha generato e caratterizzato per secoli la
configurazione”; essa “snaturerebbe l’equilibrato
rapporto tra la residenza con giardino e l’area attualmente
destinata a pertinenza-servizio (garage): si determinerebbe
infatti un rovesciamento di tale rapporto, trasformando il
bene preminentemente in un’area di parcheggio con annessa
residenza”;
f) sarebbe “non compatibile con i criteri della tutela
monumentale la modifica proposta nel prospetto delle mura
ottocentesche della villa, sulla via Ludovisi, là dove
sarebbe previsto l’accesso al parcheggio; la stessa
valutazione valga per l’inserimento delle griglie di
areazione, in quanto esse altererebbero l’armonia di un
unicum storico e architettonico esistente da più di due
secoli e sottoposto integralmente a vincolo”;
g) il progetto proposto “non sembra poter risolvere i
problemi statici che interessano il Casino dell’Aurora,
poiché la palificata perimetrale proposta potrebbe solo
isolare l’area di sedime della Villa dal grande scavo del
sottosuolo, senza arrecare adeguati benefici alla
consistenza del terreno e dunque senza assicurare l’opera di
consolidamento della struttura, ritenuta necessaria dalla
Scrivente”.
In sintesi, il diniego motiva sulla base delle seguenti e
numerose ragioni che si contrappongono, per esigenze di
tutela, alla trasformazione proposta del bene vincolato:
a) compromissione idrogeologica e fisico-chimica che
deriverebbe al terreno sottostante le piante a seguito degli
scavi;
b) compromissione del bene vincolato che deriverebbe da
futuri scavi archeologici;
c) impatto del parcheggio sul sistema strutturale a stretto
contatto con le opere di fondazione del Casino dell’Aurora,
con possibile compromissione della parte decorativa a
seguito di scavi e perforazioni;
d) il proposto progetto (che naturalmente contiene insito il
necessario, d’altro canto, consolidamento) snaturerebbe, per
tecniche e materiali, la natura originaria e sarebbe
incompatibile con il vincolo monumentale;
e) la destinazione a parcheggio e il suo uso sarebbero
avulsi dal contesto, snaturerebbero il sottosuolo,
modificando la configurazione che esiste da secoli (il
rapporto tra soprassuolo e substrato);
f) verrebbe snaturato l’equilibrio tra residenza a giardino
e area già ora destinata a pertinenza-garage, trasformandola
quest’ultima in area preminente;
g) incompatibilità della trasformazione delle mura
ottocentesche sulla via Ludovisi, laddove si prevederebbe
l’accesso al parcheggio;
h) incompatibilità delle griglie di areazione (che,
tuttavia, sostiene la parte appellata, potrebbero
scomparire)alterando l’unicum storico ed architettonico
esistente da più di due secoli;
i) non risoluzione dei problemi statica che interessano il
Casino dell’Aurora.
Pertanto, in disparte la loro limitata sindacabilità, se,
nell’ambito dell’esaminato procedimento, il parere negativo
deve essere puntualmente motivato (in tal senso, da ultimo,
tra varie, Cons. Stato, VI, 24.03.2014, n. 1418)
esplicitando le effettive ragioni di contrasto tra
l’intervento progettato ed i valori paesaggistici dei luoghi
vincolati, non può ritenersi che, nella specie, tale
puntuale motivazione faccia difetto.
In più, rispetto alla asserita contraddittorietà che il
primo giudice aveva ravvisato tra il diniego e la
riconosciuta (da tutte le parti) esigenza di consolidamento
statico dell’edificio, va rilevato come invece il diniego
abbia espresso puntuali considerazioni sull’opera di
consolidamento (necessaria), che tuttavia il progetto
proposto non risolverebbe nel modo adeguato (si veda
l’ultimo punto, sub f) sopra richiamato) (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 15.12.2014 n. 6149 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
da escludere che le motivazioni addotte dalla soprintendenza
a sostegno dell’avversato parere negativo possano sfuggire
al sindacato di legittimità del giudice amministrativo,
laddove le stesse risultino inficiate dalla violazione
dell'obbligo di motivazione di cui all'art. 3 della legge n.
241 del 1990, attesa la natura soltanto apparente della
motivazione del parere negativo, reso peraltro in esito ad
integrazioni e chiarimenti della parte proponente
l’intervento, funzionali al superamento delle criticità
evidenziate dalla stessa soprintendenza.
Nel merito, anche questo Collegio è persuaso che il parere
(negativo) conclusivo espresso dalla competente
soprintendenza appaia per più profili apodittico nella
misura in cui lo stesso non esplicita le effettive ragioni
di contrasto tra l’intervento di recupero del vecchio
fabbricato (preesistente alla imposizione del vincolo ed
oggi in cattivo stato manutentivo) ed i valori paesaggistici
dei luoghi compendiati nel decreto di vincolo.
--------------
Ciò che dal parere negativo della
soprintendenza non si ricava è, inoltre, qual tipo di
accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale
potrebbe far conseguire all’interessata l’autorizzazione
paesaggistica, tenuto conto che l’area non è sottoposta a
vincolo di inedificabilità, che l’intervento ha il pregio di
proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e
che la tutela del preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia,
ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva
collaborazione delle autorità preposte alla tutela
paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative
edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici
insiti nel bene paesaggio.
6.- Osserva il Collegio che la tesi difensiva della
amministrazione appellante non appare condivisibile.
Anzitutto è da escludere che le motivazioni addotte dalla
soprintendenza a sostegno dell’avversato parere negativo
possano sfuggire al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, laddove le stesse risultino inficiate, come
dedotto in ricorso, dalla violazione dell'obbligo di
motivazione di cui all'art. 3 della legge n. 241 del 1990,
attesa la natura soltanto apparente della motivazione del
parere negativo, reso peraltro in esito ad integrazioni e
chiarimenti della parte proponente l’intervento, funzionali
al superamento delle criticità evidenziate dalla stessa
soprintendenza.
Nel merito, anche questo Collegio è persuaso che il parere
conclusivo espresso dalla competente soprintendenza appaia
per più profili apodittico nella misura in cui lo stesso non
esplicita le effettive ragioni di contrasto tra l’intervento
di recupero del vecchio fabbricato (preesistente alla
imposizione del vincolo ed oggi in cattivo stato
manutentivo) ed i valori paesaggistici dei luoghi
compendiati nel decreto di vincolo.
Vi si legge, ad esempio, che l’intervento produce
pregiudizio e compromissione agli elementi specifici del
paesaggio tutelato e dichiarato con decreto del 26.03.1955,
ma non si indicano in concreto quali profili del progettato
intervento arrechino pregiudizio agli specifici valori dei
luoghi oggetto di tutela paesaggistica.
Del pari sfuggente appare il riferimento, contenuto nel
parere del Soprintendente per i beni architettonici e
paesaggistici del 20.12.2012, alla asserita alterazione
della percezione consolidata dell’immobile e alle sue
caratteristiche intrinseche, posto che la riconversione di
una vecchia casa colonica a finalità turistico-ricettive,
ove consentita dalla disciplina urbanistica, non può che
comportare una naturale alterazione delle caratteristiche
intrinseche del fabbricato (senza con ciò che ne risulti
necessariamente compromessa la sua “percezione
consolidata”).
Tuttavia, non dovrebbe essere questo, nel caso qui dato, il
valore presidiato dal decreto di vincolo, né questa l’area
riservata alle valutazioni dell’autorità preposta alla
tutela paesaggistica, dovendo piuttosto l’esame appuntarsi
sui tratti esteriori dell’edificio per verificare se e come,
all’esito dell’intervento di recupero, il fabbricato possa
risultare adeguatamente inserito nella cornice ambientale
circostante, e tanto anche in comparazione –come
correttamente rilevato dal giudice di primo grado- alla
percezione estetica che dello stesso possa trarsi
nell’attualità, nelle condizioni di degrado in cui versa
l’immobile.
Ciò che dal parere negativo della soprintendenza marchigiana
non si ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico
o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far
conseguire all’interessata l’autorizzazione paesaggistica,
tenuto conto che l’area non è sottoposta a vincolo di
inedificabilità, che l’intervento ha il pregio di proporre
il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che la
tutela del preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia,
ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva
collaborazione delle autorità preposte alla tutela
paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative
edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici
insiti nel bene paesaggio.
Dalla lettura degli atti recanti il parere negativo in primo
grado impugnato non si evince da ultimo se le attuali
ragioni ostative possano essere superate con la
ripresentazione di un progetto che, ferme restando le
connotazioni plano-volumetriche attuali dell’immobile ed
escluso lo sbancamento del sottosuolo per la realizzazione
dei locali interrati, valorizzi l’uso di materiali della
tradizione locale, come ad esempio il rifacimento
dell’intonaco esterno nelle tinte naturali con malte di
natura non cementizia, ovvero l’apposizione di infissi in
legno o l’uso dei coppi in terra cotta per la copertura dei
tetti; sono, infatti, proprio tali accorgimenti tecnici
esteriori, che ben potrebbe la competente soprintendenza
prescrivere con maggior competenza e compiutezza di quanto
non possa farsi in questa sede, che incidono più di ogni
altra cosa sulla percezione esteriore di un immobile e ne
determinano il suo corretto inserimento nel contesto
paesaggistico circostante.
7.- In definitiva, il Collegio è persuaso che il parere
negativo espresso dalla soprintendenza territoriale sul
progetto di recupero edilizio proposto dalla odierna parte
appellata non possa ritenersi immune dal dedotto vizio
motivazionale, correttamente ritenuto sussistente dal Tar;
né detto vizio può ritenersi emendato, stante la
inconfigurabilità di una motivazione postuma del
provvedimento, dalle pur pregnanti considerazioni contenute
negli atti difensivi dalla appellante amministrazione e
dagli enti intervenuti ad adiuvandum a proposito
della incompatibilità dell’intervento edilizio proposto con
i valori paesaggistici espressi dai luoghi contemplati dal
Leopardi.
Per concludere, in esecuzione della presente sentenza, la
competente soprintendenza provvederà a riattivare, in
collaborazione con il Comune di Recanati e con spirito di
leale interlocuzione con la parte privata, il procedimento
funzionale alla formulazione del prescritto parere, facendo
in modo di ben evidenziare l’iter logico della sua
definitiva espressione di volontà in ordine all’intervento,
nei limiti delle sue attribuzioni e con l’esplicita e
dettagliata indicazione delle condizioni alla cui ricorrenza
il parere di compatibilità paesaggistica potrà essere
rilasciato (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.03.2014 n. 1418 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
VARI:
FISCO E CASA: ACQUISTO E VENDITA (Agenzia delle
Entrate, dicembre 2014). |
VARI:
FISCO E CASA: LE LOCAZIONI (Agenzia delle
Entrate, novembre 2014). |
GURI - GUEE - BURL
(e anteprima) |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
G.U. 12.01.2015 n. 8 "Regole tecniche in materia di
formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione
e validazione temporale dei documenti informatici nonché di
formazione e conservazione dei documenti informatici delle
pubbliche amministrazioni ai sensi degli articoli 20, 22,
23-bis, 23-ter, 40, comma 1, 41, e 71, comma 1, del Codice
dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo
n. 82 del 2005" (D.P.C.M.
13.11.2014). |
ENTI LOCALI: G.U.
08.01.2015 n. 5 "Regolamento recante modalità di
attuazione e di funzionamento dell’Anagrafe nazionale della
popolazione residente (ANPR) e di definizione del piano per
il graduale subentro dell’ANPR alle anagrafi della
popolazione residente" (D.P.C.M.
10.11.2014 n. 194). |
APPALTI:
G.U. 07.01.2015 n. 4 "Regolamento recante disposizioni
concernenti le modalità di funzionamento, accesso,
consultazione e collegamento con il CED, di cui all’articolo
8 della legge 01.04.1981, n. 121, della Banca dati nazionale
unica della documentazione antimafia, istituita ai sensi
dell’articolo 96 del decreto legislativo 06.09.2011, n. 159" (D.P.C.M.
30.10.2014 n. 193). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
31.12.2014 n. 302 "Proroga di termini previsti da
disposizioni legislative" (D.L.
31.12.2014 n. 192). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
G.U. 30.12.2014 n. 301 "Adeguamento dei requisiti di
accesso al pensionamento agli incrementi della speranza di
vita" (Ragioneria Generale dello Stato,
decreto 16.12.2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
F. Gavioli,
Milleproroghe 2015: novità in materia di appalti pubblici
(07.01.2015 - tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L. Spallino,
Nozione di consumo di suolo e linee di indirizzo della
pianificazione comunale nella L.R. Lombardia n. 31/2014
(04.01.2015 - link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L. Spallino,
L.R. Lombardia 28.11.2014, n. 31: tabella degli adempimenti
(Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la
riqualificazione del suolo degradato) (02.01.2015
- link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Iva – Semplificazioni edilizie DL 133/2014 (Decreto
Sblocca Italia) - Vendita di fabbricato oggetto di
intervento edilizio di frazionamento e di modifica di
destinazione d’uso: Iva o Registro? (Consiglio Nazionale
del Notariato,
studio 13-14.11.2014 n. 851-2014/T).
---------------
Sommario: Introduzione 1. Il decreto Sblocca
Italia: le novità in materia edilizia di rilevanza fiscale;
1.1. Considerazioni di sintesi; 2. Le soluzioni sul piano
fiscale; 2.1. Modifica di destinazione d’uso; 2.1.1.
Disciplina fiscale; 2.2. Frazionamento; 2.2.1. I casi ancora
dubbi; Conclusioni. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Iscritti agli albi: prestazioni occasionali senza limiti di
tempo e compenso e senza obbligo di partita IVA.
E’ stato pubblicato oggi sul sito del Centro Studi del
Consiglio Nazionale degli Ingegneri un importante documento
dal titolo “Professionisti
iscritti ad albi e prestazioni occasionali”.
La nota offre una serie di chiarimenti su un aspetto molto
importante dell’attività degli iscritti agli albi: la
possibilità di svolgere prestazioni occasionali in
concomitanza con un rapporto di lavoro dipendente.
Secondo l’analisi svolta dal Centro Studi, per i liberi
professionisti iscritti all’albo che intendano espletare un
lavoro occasionale, non sussiste il limite temporale entro
cui effettuare la prestazione, il limite del compenso e
l’obbligo della partita IVA previsto dalla legge. Si tratta
di un’eccezione espressamente indicata dalla normativa che
regola il lavoro occasionale oltre che un’interpretazione
autentica fornita dal legislatore.
Sulla base di quanto stabilito dalla normativa vigente (in
particolare il decreto legislativo 276/2003, art. 61) la “collaborazione
occasionale” non deve avere durata superiore a 30 giorni
e deve prevedere un compenso entro 5.000 euro. Ma la stessa
normativa, poco oltre (al comma 3), chiarisce che i limiti
imposti allo svolgimento della collaborazione occasionale,
predisposti per evitare un abuso di tale forma contrattuale,
vengono meno per i professionisti iscritti ad un albo
professionale, poiché il rischio di abuso in questo caso non
sussiste.
Il Centro Studi CNI, inoltre, riprendendo la normativa
sottolinea come l’iscrizione ad un albo professionale non
sia da considerarsi come elemento sufficiente a configurare
la professione abituale di un’attività, assoggettabile
quindi a regime Iva e non sottoponibile a regime di
collaborazione occasionale (che, al contrario, non prevede
l’apertura di partita Iva). Di conseguenza, l’iscritto
all’albo che non esercita attività di lavoro autonomo (si
tratterà pertanto di un iscritto che svolge lavoro
dipendente), potrà effettuare attività di lavoro occasionale
(cioè un lavoro svolto in proprio, senza vincolo di
subordinazione con il committente) senza i limiti di tempo e
di remunerazione imposti dalla normativa, oltre che senza
disporre di partita Iva.
Il Centro Studi del CNI, infine, segnala l’importanza di
questa semplificazione. Essa, infatti, risponde a dei
criteri di ragionevolezza e, per molti versi, incentiva il
lavoro. Da questo punto di vista e per la particolare
fattispecie dei professionisti iscritti ad un albo, la
normativa è molto chiara ed esplicita. Particolarmente
rilevante è la possibilità di non disporre di partita IVA,
purché ovviamente le attività svolte siano realmente
occasionali ovvero abbiano il carattere dell’eventualità,
della secondarietà e dell’episodicità. Resta fermo il
principio che per lo svolgimento di lavoro occasionale con
compensi superiori a 5.000 euro, i professionisti dovranno
iscriversi alla gestione separata Inps per il relativo
versamento dei contributi previdenziali (novembre 2014
- link a www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sacchi,
La gestione associata delle funzioni fondamentali dei comuni
dopo la Legge Delrio (n. 56/2014) e il D.L. 90/2014
(tratto da www.gianlucabertagna.it - www.publika.it n. 59 -
ottobre 2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vendita forzata e attestato di prestazione energetica
(alla luce delle recenti modifiche al D.Lgs. 192/2005 di cui
al D.L. 04.06.2013, n. 63, convertito con L. 03.08.2013, n.
90 e di cui al D.L. 23.12.2013, n. 145 convertito in L.
21.02.2014, n. 9) (Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 19-20.06.2014 n. 263-2014/C). |
SINDACATI & ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Rinnovo delle RSU. Elezioni del 03-05.03.2015.
Chiarimenti circa lo svolgimento delle elezioni (ARAN,
circolare 12.01.2015 n. 1/2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La "lotta" alla corruzione e la figura del
whisteblowing
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 12.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Province: dipendenti in sovrannumero e blocco
delle assunzioni nel pubblico impiego
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 29.12.2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
VARI:
Oggetto: Trasporto conto terzi: abolizione dell’obbligo
di compilazione della scheda di trasporto (ANCE Bergamo,
circolare 09.01.2015 n. 11). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: proroga dell’entrata in vigore delle
sanzioni (ANCE Bergamo,
circolare 09.01.2015 n. 9). |
VARI:
Oggetto: Canoni delle concessioni di acqua pubblica –
ANNO 2015 (ANCE Bergamo,
circolare 09.01.2015 n. 8). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Denuncia scarichi industriali in fognatura
(ANCE Bergamo,
circolare 09.01.2015 n. 7). |
EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e
integrazioni - risposta a quesito relativo ai chiarimenti in
merito all'applicazione del decreto interministeriale
18.04.2014 cosiddetto "decreto capannoni"
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 31.12.2014 n. 26/2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Imposte sui redditi - Spese sostenute per la
redazione di un atto di vincolo unilaterale - Art. 16-bis
del TUIR - Istanza di interpello ex art. 11 della L.
27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 30.12.2014 n. 118/E). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - VARI:
OGGETTO: Commento alle novità fiscali - Decreto
legislativo 21.11.2014, n. 175. Primi chiarimenti
(Agenzia delle Entrate,
circolare 30.12.2014 n. 31/E). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
Istruzioni operative tecnico-organizzative per
l'allestimento e la gestione delle opere temporanee e delle
attrezzature da impiegare nella produzione e realizzazione
di spettacoli musicali, cinematografici, teatrali e di
manifestazioni fieristiche, alla luce del D.I. 22.07.2014
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
circolare 24.12.2014 n. 35).
---------------
Decreto "Palchi": come garantire la
sicurezza negli spettacoli.
Dettate dal Ministero del lavoro le istruzioni operative
tecnico-organizzative per l'allestimento e la gestione delle
opere temporanee e delle attrezzature da impiegare nella
produzione e realizzazione di spettacoli musicali,
cinematografici, teatrali e di manifestazioni fieristiche,
alla luce del Decreto Interministeriale 22.07.2014, noto
anche come "Decreto Palchi".
Sulla base di quanto previsto dal Decreto Interministeriale
22.07.2014 -cd. Decreto Palchi- il Ministero del lavoro ha
rilasciato le istruzioni operative tecnico-organizzative per
l'allestimento e la gestione delle opere temporanee e delle
attrezzature da impiegare nella produzione e realizzazione
di spettacoli musicali, cinematografici, teatrali e di
manifestazioni fieristiche.
Per ciascuno dei settori indicati, il Ministero, passo dopo
passo, individua e precisa il campo di applicazione del
menzionato decreto mettendo in risalto gli specifici
obblighi posti, in particolare, a carico del committente,
proprietario/gestore del luogo per quanto concerne le misure
di sicurezza) da garantire in occasione degli eventi
indicati (ad es. per l'allestimento di palchi, tendaggi,
tendistrutture, opere temporanee, lavori in quota etc.), la
formazione specifica in materia di gestione degli impianti,
situazioni di emergenza e di rischio e la redazione dei
piani della sicurezza (individuazione dei contenuti minimi)
(commento tratto da www.ispoa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
OGGETTO: Consulenza giuridica – L’obbligo di
tracciabilità previsto dall’articolo 25, comma 5, della
legge 13.05.1999, n. 133, trova applicazione anche nei
confronti delle associazioni senza fini di lucro e delle
associazioni pro-loco (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 19.11.2014 n. 102/E). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sul risarcimento al danno di immagine alla p.a. da parte di
dipendenti assenteisti.
Il diritto al risarcimento del danno,
nei giudizi di competenza della Corte dei Conti, è
disciplinato dall’art. 1, c. 2, della legge n. 20 del 1994,
in base al quale lo stesso “si prescrive in ogni caso in
cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il
fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del
danno, dalla data della sua scoperta”.
---------------
La giurisprudenza della Corte dei conti, pur avendo chiarito
da tempo che l’occultamento non può coincidere, puramente e
semplicemente, con la commissione (dolosa) del fatto
dannoso, ma richiede un'ulteriore condotta indirizzata
specificamente ad impedirne la conoscenza, ha tuttavia
precisato che in talune fattispecie criminose, quale quella
dedotta in cui i convenuti hanno posto in essere condotte
finalizzate a dare una falsa rappresentazione della realtà
–presenza in servizio-, la volontà di occultare il danno
deve ritenersi in re ipsa, cioè insita nelle concrete
modalità di svolgimento dei fatti, le quali implicano un
obiettivo impedimento ad agire -di carattere giuridico e non
di mero fatto-.
In tali casi l’inizio del termine di prescrizione è stato
pacificamente individuato, non nel momento in cui il fatto
viene meramente scoperto, ma allorché il danno stesso viene
accertato in tutte le sue componenti, a seguito del
provvedimento di rinvio a giudizio in sede penale, senza che
alcun rilievo abbia la mera notizia del fatto.
---------------
Non può revocarsi in dubbio che tutti i convenuti abbiano
tenuto le contestate condotte assenteiste come pure il fatto
che, nell’assentarsi arbitrariamente dal lavoro, gli stessi
abbiano violato il fondamentale obbligo di servizio,
rappresentato dal dovere di fornire la prestazione di lavoro
secondo le condizioni previste dal rapporto di impiego
intrattenuto con la propria amministrazione, cagionando alle
pubbliche finanze un danno pari ai compensi da questa
indebitamente erogati senza ricevere in cambio la
corrispondente attività lavorativa.
Dette condotte risultano certamente caratterizzate
dall’elemento soggettivo del dolo, atteso che l’abitualità e
le descritte modalità con cui sono state poste in essere non
possono non presupporre la piena consapevolezza e volontà di
violare i propri doveri d’ufficio.
---------------
In ordine alla voce di danno richiesta dalla Procura per la
grave lesione all’immagine subita dall'Amministrazione in
conseguenza dell’accertata fraudolenta condotta assenteista
tenuta dai convenuti, la Sezione osserva anzitutto che il
requirente ha posto a fondamento della propria pretesa
risarcitoria l’art. 55-quinquies, commi 1 e 2, del D.Lgs. n.
165 del 2001, introdotto dall’art. 69 del D.Lgs. 27.10.2009,
n. 150, il quale statuisce che “Il lavoratore dipendente di
una pubblica amministrazione che attesta falsamente la
propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei
sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità
fraudolente,……….. ferme le responsabilità penali e
disciplinari e le relative sanzioni è obbligato a risarcire
il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo
di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la
mancata prestazione, nonché il danno all'immagine subiti
dall'amministrazione”.
---------------
Nel vigente ordinamento il “danno all’immagine” ed “al
prestigio” della Pubblica Amministrazione –riconducibile
alla categoria del danno “non patrimoniale”, ex art. 2059
cod. civ.- consiste nella diminuita reputazione dell’ente
presso i consociati, o presso una certa platea di
consociati, conseguente alla lesione di diritti fondamentali
della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione
all’art. 2 e all’art. 97 per la “Pubblica Amministrazione”
nel suo complesso.
La giurisprudenza della Corte di cassazione, a conclusione
di un complesso percorso interpretativo, ha superato la
concezione che individuava tale danno nella lesione
dell’immagine in sé (danno evento), pervenendo ad una
configurazione dello stesso come conseguenza della predetta
lesione, rappresentata dalla diminuita considerazione che
l’ente ha presso i consociati (danno conseguenza).
Tale danno risulta risarcibile “indipendentemente dal fatto
che l’incidenza negativa sull’agire delle persone fisiche
che rappresentano gli organi dell’ente abbia determinato un
danno in senso economico, cioè un danno patrimoniale”; ed
infatti, l’agire dell’ente con la consapevolezza di dover
superare la negatività connessa alla lesione dell’immagine
non potrà non risentirne in termini di efficacia, “onde -a
prescindere da eventuali riflessi economici- tale
conseguenza integra di per sé un danno non patrimoniale” .
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni di appello
della Corte dei conti e del surriferito più recente
orientamento della Corte di cassazione, le Sezioni Riunite
di questa Corte hanno rivisitato tale figura di danno
erariale, precisando che <<il danno all’immagine della
Pubblica amministrazione …….. coincide non già con il fatto
lesivo (in ipotesi di condotta di corruzione), ma con la
lesione (perdita di prestigio), che costituisce una
“conseguenza” (art. 1223 c.c.) del fatto lesivo>>.
In proposito osserva, tuttavia, la Sezione che,
indipendentemente dalla configurazione del danno
all’immagine -come danno-evento o come danno-conseguenza–
attenendo tale pregiudizio ad un bene immateriale, la prova
è, in ogni caso, eminentemente presuntiva, potendo
costituire anche l’unica fonte per la formazione del
convincimento del giudice, mentre la sua quantificazione va
disposta in considerazione della concreta dimensione della
lesione stessa, da valutare in via equitativa, ai sensi
dell’art. 1226 c.c., non essendo possibile l’esatta
determinazione dell’ammontare di un danno di tale natura.
---------------
In via
pregiudiziale, deve essere esaminata l’eccezione di
prescrizione sollevata dal G. relativamente ai fatti dannosi
verificatisi anteriormente al 03/04/2009, ossia al
quinquennio precedente la notifica dell'invito a dedurre
effettuata in data 03.04.2014.
L’eccezione è infondata.
In proposito si osserva che il diritto al risarcimento del
danno, nei giudizi di competenza della Corte dei Conti, è
disciplinato dall’art. 1, c. 2, della legge n. 20 del 1994,
in base al quale lo stesso “si prescrive in ogni caso in
cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il
fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del
danno, dalla data della sua scoperta”.
Ciò premesso, la Sezione ritiene che nella specie ricorra
l’ipotesi del doloso occultamento in relazione alla quale il
Legislatore con la norma suindicata ha espressamente sancito
il principio per cui la prescrizione decorre dalla data
della sua scoperta.
A tale riguardo, la giurisprudenza della Corte dei conti,
pur avendo chiarito da tempo che l’occultamento non può
coincidere, puramente e semplicemente, con la commissione
(dolosa) del fatto dannoso, ma richiede un'ulteriore
condotta indirizzata specificamente ad impedirne la
conoscenza, ha tuttavia precisato che in talune fattispecie
criminose, quale quella dedotta in cui i convenuti hanno
posto in essere condotte finalizzate a dare una falsa
rappresentazione della realtà –presenza in servizio-, la
volontà di occultare il danno deve ritenersi in re ipsa,
cioè insita nelle concrete modalità di svolgimento dei
fatti, le quali implicano un obiettivo impedimento ad agire
-di carattere giuridico e non di mero fatto-. In tali casi
l’inizio del termine di prescrizione è stato pacificamente
individuato, non nel momento in cui il fatto viene meramente
scoperto, ma allorché il danno stesso viene accertato in
tutte le sue componenti, a seguito del provvedimento di
rinvio a giudizio in sede penale, senza che alcun rilievo
abbia la mera notizia del fatto (cfr., ex plurimis,
SS.RR.; sentenza 25.10.1996, n. 63; Sezione Prima, nn. 712 e
1115 del 2014; Sezione Seconda, n. 296 del 2007; Sezione
Terza, n. 10 del 2002 e n. 311 del 2011; Sezione App.
Sicilia, n. 66 del 2004).
Acclarato, dunque, che nella specie ricorre un’ipotesi di
doloso occultamento del danno erariale, ai fini
dell’individuazione del dies a quo, dal quale far
decorrere la prescrizione quinquennale, deve aversi riguardo
alla data dell’11.09.2013, allorché è stata depositata la
richiesta di rinvio a giudizio innanzi al Tribunale di La
Spezia. Per cui nella data in cui è stato notificato al G.
l’invito a dedurre (03.04.2014) il termine quinquennale di
prescrizione era ancora quasi interamente da decorrere.
Sempre in via preliminare, deve respingersi l’eccezione,
sollevata da tutti i convenuti costituiti, di
inutilizzabilità delle prove acquisite nel processo penale
(tabulati telefonici, riprese video attraverso
l'installazione di viodeocamere......), in quanto frutto di
attività di indagine gravemente viziata per violazione della
Convenzione di Budapest del 2001, nonché di decisione della
Corte di Giustizia Europea del 2004.
Al riguardo questa Sezione ha già avuto occasione di
affermare con la sentenza n. 269/2011 (cfr., sent. n.
219/2013), in sintonia con la giurisprudenza della Corte di
Cassazione, che l’adozione di più stringenti limitazioni, in
materia di acquisizione delle prove, riguarda esclusivamente
il processo penale, in cui viene posta a rischio la libertà
personale dell’imputato o dell’indagato (Cass. SS.UU. n.
12717 del 2009, n. 15314 del 2010; Cass. Sez. Trib. n. 4306
del 2010).
Sarebbe, pertanto, arbitrario estendere l'efficacia di una
norma processuale penale (art. 191 c.p.p.), posta a garanzia
dei diritti della difesa in quella sede, ad un ambito
processuale diverso, come quello contabile, munito di regole
proprie ispirate all’accertamento della verità, nel quale le
risultanze degli atti compiuti dall'A.G. in un precedente
processo entrano non come prove in senso tecnico, ma come
elementi da valutare ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c.,
che concorrono ex art. 116 c.p.c. alla formazione del libero
convincimento del giudice (Corte conti, Sez. Liguria, n.
269/2011, cit.; Sez. Prima d’appello n. 3 del 2011 e n. 133
del 2004; Sez. Terza d’appello nn. 75 e 371 del 2005).
In tal caso il rispetto del principio del contraddittorio e
del diritto di difesa è assicurato dalla possibilità
riconosciuta alle parti di svolgere proprie osservazioni
critiche e di dedurre altre prove sui medesimi fatti.
Passando ad esaminare il merito in senso stretto, oggetto
del presente giudizio è la domanda risarcitoria promossa
dalla Procura nei confronti dei convenuti per i danni
patrimoniali e non patrimoniali patiti dal Ministero
dell’economia e delle finanze in conseguenza di numerose
assenze ingiustificate dal servizio.
Al riguardo, il Collegio osserva anzitutto che, sulla base
dei numerosi elementi probatori versati nel giudizio, stante
la loro gravità, precisione e concordanza, ex art. 2729
c.c., la condotta assenteistica dei convenuti risulta
incontrovertibilmente accertata.
Ed invero, premesso che il sistema di rilevamento delle
presenze in ufficio presso la Commissione Tributaria
Provinciale di La Spezia veniva effettuato, ai sensi
dell'art. 23, comma 3, lett. a) ed e) del C.C.N.L. del 1995,
attraverso timbrature giornaliere in entrata e in uscita, le
quali venivano salvate dal programma installato nel lettore
(SIGMA e dal 2010 SIAP-SPRING), è stato accertato che in
numerose giornate dal 2005 al 2010 il G. (il solo per il
quale il controllo delle presenze è stato esteso a ritroso
sino al 2005) e da gennaio a settembre 2010 i restanti
convenuti avevano omesso di timbrare il proprio cartellino,
mediante la “strisciatura” del “badge”
personale, sia in entrata che in uscita o solo in entrata o
in uscita, mentre gli orari di presenza erano stati fatti
risultare da inserimenti manuali effettuati a posteriori,
sulla base di autodichiarazioni degli interessati,
comportanti eccedenze di orario rispetto alle registrazioni
del rilevatore automatico degli accessi e delle uscite.
Con riferimento alla dedotta inattendibilità dei tabulati
relativi alle timbrature in entrata e in uscita effettuate
dai convenuti mediante “strisciata” del badge, deve
rilevarsi che le stesse, contrariamente all’avviso espresso
dai difensori, risultano essere state regolarmente acquisite
dal programma installato sul lettore ottico ed è di queste
che si è tenuto conto per verificare l’effettiva presenza in
servizio dei dipendenti. I problemi lamentati dalla
Dirigente della Commissione, cui fanno riferimento i
difensori, riguardavano il fatto che le timbrature
regolarmente salvate dal programma dei “files day”,
non venivano acquisiti dal programma che avrebbe dovuto
elaborarli (sulla base dell’orario di lavoro ordinario,
delle cause di interruzione o assenza, dei recuperi
fatti……), ai fini della validazione da effettuarsi ad opera
del funzionario responsabile, per cui la Dirigente ha
provveduto manualmente alla loro validazione mensile, previa
estrazione delle registrazioni effettuate sul programma del
lettore, accorgendosi in tale circostanza che per alcuni
dipendenti (i convenuti), tra cui il direttore dell’epoca
(il G.), le timbrature di diverse giornate mancavano del
tutto o erano incomplete (era stata timbrata solo l’entrata
o solo l’uscita), donde la necessità di richiedere a questi
ultimi di autocertificare l’orario di servizio osservato per
poter procedere alla validazione.
Al fine di dimostrare l’inattendibilità del sistema
automatico di rilevazione dei dati delle presenze, i
difensori del G. hanno prodotto diversi atti della
Commissione Tributaria, a sua firma, protocollati nelle
giornate in cui lo stesso, secondo l’accusa, avrebbe fatto
risultare falsamente la propria presenza sul luogo di
lavoro.
Al riguardo, premesso che molti di detti documenti risultano
firmati in giorni per i quali non è stata contestata
l’assenza per l’intera giornata lavorativa (in via meramente
esemplificativa, seguendo l’ordine di produzione, si
evidenziano i documenti protocollati 02.03.2006, 09.06.2006,
19.06.2006, 12.07.2006, 08.11.2006, 30.11.2006, 21.12.2006),
il collegio ritiene, in ogni caso, fondata l’obiezione del
Pubblico Ministero in ordine alla inidoneità di tali
documenti a provare la presenza in ufficio del G. nella data
in cui sono stati protocollati, essendo noto che non vi è
necessariamente coincidenza tra la data in cui un atto viene
firmato e quella in cui viene protocollato.
Tanto considerato circa la piena attendibilità dei tabulati
presi in considerazione per la determinazione dei periodi di
assenza ingiustificata dal servizio, va rilevato che le
condotte dolosamente assenteiste dei convenuti risultanti
dalle discordanze tra le presenze registrate mediante la
strisciata elettronica del badge e gli inserimenti manuali
hanno trovato conferma nel confronto tra gli orari di
ingresso ed uscita dall'ufficio e le cellule telefoniche
agganciate dai dipendenti nei periodi in cui gli stessi
risultavano essere sul luogo di lavoro.
Dai tabulati telefonici acquisiti agli atti è risultato,
infatti, che le utenze dei convenuti G., B. I., M. e B.
durante l'orario in cui figuravano essere in ufficio
agganciavano celle telefoniche distanti chilometri dallo
stesso.
I difensori eccepiscono l'irrilevanza di tale elemento di
prova, stante che lo stesso proverebbe la presenza in un
luogo distante dall'Ufficio dell’utenza telefonica, ma non
del suo titolare, che avrebbe potuto darla in uso ad altri.
L'assunto è infondato. Ed invero, le indagini hanno anche
evidenziato che nei nove mesi in cui è stato sottoposto a
controllo il traffico telefonico delle utenze dei convenuti
queste hanno spesso comunicato tra loro –fino a circa 250
volte B. e G. e B. e I.- sì che, essendo detto accertamento
agli atti del processo, e quindi noto ai difensori, appare
all'evidenza pretestuoso ipotizzare che fosse un parente o
un amico del titolare l’utilizzatore delle utenze predette.
Ulteriore elemento atto a riscontrare in modo irrefutabile
le dolose condotte assenteiste dei convenuti I., M. e B. è
dato dalle riprese delle telecamere poste negli uffici della
Commissione Tributaria, regolarmente autorizzate con decreto
del giudice.
Da dette registrazioni video-fotografiche risulta che I., M.
e B. erano soliti scambiarsi reciprocamente i cartellini di
rilevamento delle presenze (badge), strisciarli
sull'apposito apparato elettronico, sostituendosi
reciprocamente al titolare.
Sulla base della rilevanza e concordanza dei numerosi
elementi probatori versati nel giudizio dall'accusa, non può
dunque revocarsi in dubbio che tutti i convenuti abbiano
tenuto le contestate condotte assenteiste come pure il fatto
che, nell’assentarsi arbitrariamente dal lavoro, gli stessi
abbiano violato il fondamentale obbligo di servizio,
rappresentato dal dovere di fornire la prestazione di lavoro
secondo le condizioni previste dal rapporto di impiego
intrattenuto con la propria amministrazione, cagionando alle
pubbliche finanze un danno pari ai compensi da questa
indebitamente erogati senza ricevere in cambio la
corrispondente attività lavorativa.
Dette condotte risultano certamente caratterizzate
dall’elemento soggettivo del dolo, atteso che l’abitualità e
le descritte modalità con cui sono state poste in essere non
possono non presupporre la piena consapevolezza e volontà di
violare i propri doveri d’ufficio.
La Sezione non ha, però, trovato riscontri probatori al
vincolo di solidarietà apoditticamente prospettato dalla
Procura tra tutti i convenuti.
A tale riguardo va considerato che il danno contestato dalla
Procura è relativo ai periodi lavorativi in cui gli
interessati sono risultati falsamente presenti in ufficio a
seguito del raffronto tra l’orario inserito a sistema
manualmente sulla base di autocertificazioni e quello
risultante dalle timbrature in entrata e in uscita
effettuate dagli interessati con la strisciatura del proprio
badge.
Orbene, con riferimento a tale danno, non vi è prova del
fatto che ciascuno dei convenuti abbia concorso con la
propria condotta a porre in essere gli illeciti riguardanti
gli altri convenuti, che nella prospettazione attorea, giova
ripeterlo, sono rappresentati dall’inserimento manuale di
orari di servizio maggiori di quelli risultanti dalle
timbrature effettuate con il badge.
Né, a tal fine, può soccorrere l’acquisita prova
videofotografica dello scambio reciproco dei badge tra i
convenuti I., M. e B.: detti comportamenti fraudolenti,
sopra valutati quali indizi della condotta assenteista dei
predetti convenuti, sono estranei allo specifico danno
oggetto di contestazione, il quale scaturisce unicamente
dall’inserimento manuale di un falso orario di lavoro e non
dalla timbratura fatta dal collega.
Quanto alla somma per cui deve essere pronunciata condanna
in relazione al danno patrimoniale inferto da ciascuno dei
convenuti all'Amministrazione di appartenenza, la Sezione
ritiene corretta la quantificazione fatta dalla Procura, e
pertanto gli stessi debbono essere condannati a rimborsare
le somme indebitamente percepite nella misura seguente:
G.P. euro 26.645,10;
B.D. euro 7.965;
I.P. euro 1.038,58;
M.M. euro 825,00;
B.S. euro 380,00.
Dette somme dovranno essere rivalutate a decorrere
dall’11.09.2013, data del rinvio a giudizio dei medesimi.
Passando all’esame dell’altra voce di danno richiesta dalla
Procura per la grave lesione all’immagine subita
dall'Amministrazione finanziaria in conseguenza
dell’accertata fraudolenta condotta assenteista tenuta dai
convenuti, la Sezione osserva anzitutto che il requirente ha
posto a fondamento della propria pretesa risarcitoria l’art.
55-quinquies, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001,
introdotto dall’art. 69 del D.Lgs. 27.10.2009, n. 150, il
quale statuisce che “Il lavoratore dipendente di una
pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria
presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza o con altre modalità
fraudolente,……….. ferme le responsabilità penali e
disciplinari e le relative sanzioni è obbligato a risarcire
il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo
di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la
mancata prestazione, nonché il danno all'immagine subiti
dall'amministrazione”.
La predetta disposizione, nel prevedere al comma 2 l’obbligo
specifico di risarcire il danno connesso all’assenteismo
realizzato nel pubblico impiego con modalità fraudolente, ha
nel contempo configurato tale condotta assenteista come una
specifica ipotesi di responsabilità per danno all’immagine
dal carattere innovativo rispetto al previgente quadro
normativo e svincolata dalle condizioni e dai limiti posti
dal legislatore con l’art. 17, comma 30-ter, del D.L. n.
78/2009, convertito dalla L. n. 102/2009.
La specialità di detta disposizione permette di superare
l’eccezione di inammissibilità dell’azione sollevata dai
difensori dei convenuti per mancanza di sentenza
irrevocabile di condanna (cfr. Sez. Toscana n. 46 del 2013 e
Sez. Abruzzo n. 414 del 2012).
Il fatto, poi, che l’art. 55-quinquies, comma 2, del D.Lgs.
n. 165/2001 configuri un’ipotesi di danno all’immagine nuova
comporta l’irretroattività della disposizione e, quindi,
l’applicabilità della stessa ai soli comportamenti posti in
essere successivamente alla sua entrata in vigore, per
effetto del principio generale ricavabile dall’art. 11 delle
Preleggi, secondo cui la Legge non dispone che per
l’avvenire (Sez. Piemonte, n. 54 del 2013; Sez.
Trentino-Alto Adige n. 12 del 2012; Sez. Basilicata, n. 54
del 2013; Sez. Toscana n. 169 del 2013).
Ciò premesso, passando ad esaminare il merito di tale
pretesa, si osserva che nel vigente ordinamento il “danno
all’immagine” ed “al prestigio” della Pubblica
Amministrazione –riconducibile alla categoria del danno “non
patrimoniale”, ex art. 2059 cod. civ.- consiste nella
diminuita reputazione dell’ente presso i consociati, o
presso una certa platea di consociati, conseguente alla
lesione di diritti fondamentali della persona, riconosciuti
e garantiti dalla Costituzione all’art. 2 e all’art. 97 per
la “Pubblica Amministrazione” nel suo complesso
(Corte conti, Sez. III, n. 335 del 2009; Cass. sentenze nn.
8827, 8828 del 2003, n.12929 del 2007, n. 26972 del 2008).
La giurisprudenza della Corte di cassazione, a conclusione
di un complesso percorso interpretativo, ha superato la
concezione che individuava tale danno nella lesione
dell’immagine in sé (danno evento), pervenendo ad una
configurazione dello stesso come conseguenza della predetta
lesione, rappresentata dalla diminuita considerazione che
l’ente ha presso i consociati (danno conseguenza). Tale
danno, secondo quanto affermato nella sopra citata sentenza
della Corte di cassazione n. 12929 del 2007, risulta
risarcibile “indipendentemente dal fatto che l’incidenza
negativa sull’agire delle persone fisiche che rappresentano
gli organi dell’ente abbia determinato un danno in senso
economico, cioè un danno patrimoniale”; ed infatti,
l’agire dell’ente con la consapevolezza di dover superare la
negatività connessa alla lesione dell’immagine non potrà non
risentirne in termini di efficacia, “onde -a prescindere
da eventuali riflessi economici- tale conseguenza integra di
per sé un danno non patrimoniale” .
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni di appello
della Corte dei conti (ex plurimis, Sez. III, n.
143/2009; Sez. II n. 106/2008) e del surriferito più recente
orientamento della Corte di cassazione (successivo a SS.RR.
n. 10/QM/2003), le Sezioni Riunite di questa Corte hanno
rivisitato tale figura di danno erariale, precisando che <<il
danno all’immagine della Pubblica amministrazione ……..
coincide non già con il fatto lesivo (in ipotesi di condotta
di corruzione), ma con la lesione (perdita di prestigio),
che costituisce una “conseguenza” (art. 1223 c.c.) del fatto
lesivo>> (Corte conti, SS.RR. sent n. 1/2011/QM; cfr.,
Sezione Prima sent. n. 316 del 2011).
In proposito osserva, tuttavia, la Sezione che,
indipendentemente dalla configurazione del danno
all’immagine -come danno-evento o come danno-conseguenza–
attenendo tale pregiudizio ad un bene immateriale, la prova
è, in ogni caso, eminentemente presuntiva, potendo
costituire anche l’unica fonte per la formazione del
convincimento del giudice (Cass. sent. n. 26972 del 2008),
mentre la sua quantificazione va disposta in considerazione
della concreta dimensione della lesione stessa, da valutare
in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non essendo
possibile l’esatta determinazione dell’ammontare di un danno
di tale natura (Corte conti, Sez. III, sent. n. 143/2009,
cit.; Cfr. Sez. Liguria, sent. n. 184 del 2012).
Tanto rappresentato, nel caso di specie, non può dubitarsi
che l’abituale condotta assenteista realizzata con modalità
fraudolente dai convenuti abbia arrecato pregiudizio
all’immagine del Ministero dell’economia e delle finanze,
ingenerando presso l’opinione pubblica un notevole
discredito nei riguardi dell’attività istituzionale propria
della Commissione Tributaria.
Passando alla quantificazione di detto danno, la Sezione
ritiene di dovervi procedere in via equitativa, ai sensi
dell’art. 1226 c.c., tenendo conto dei criteri elaborati
dalla giurisprudenza della Corte dei conti, e, in special
modo, dalle Sezioni Riunite nella sentenza n. 10/QM/2003.
In particolare, nella specie, vengono in considerazione:
- la rilevanza del servizio prestato dagli interessati in
quanto dipendenti di un Ufficio preposto alla gestione del
contenzioso in materia fiscale, nonché per il G. la
posizione rivestita di Direttore della Commissione
Tributaria;
- la reiterazione di comportamenti socialmente riprovevoli e
penalmente rilevanti posti in essere in assenza di qualsiasi
giustificazione;
- la propalazione della notitia criminis a livello
esclusivamente locale, i fatti essendo stati riportati, come
documentato dall’accusa, dalla stampa locale (“Il Secolo
XIX”, “La Nazione”, “La Gazzetta della Spezia”).
Infine, con riguardo al G., cui è stato contestato il danno
all’immagine, oltre che per le assenze ingiustificate
relative al 2010, anche per quelle degli anni precedenti
(dal 2005), osserva il collegio che nella determinazione del
danno non patrimoniale deve tenersi conto esclusivamente dei
comportamenti assenteisti tenuti dallo stesso
successivamente al 15.11.2009, data di entrata in vigore
dell’art. 55–quinquies del d.lgs. n. 161/2001, disposizione
che per i motivi suesposti non può avere efficacia
retroattiva.
Ciò posto, in applicazione degli elementi sopra considerati,
il collegio ritiene di dovere ridimensionare la
quantificazione di tale voce di danno operata dalla Procura,
che ha chiesto la condanna, in via solidale, dei convenuti
per la somma complessiva di euro 40,000,00. Ne consegue che
per il danno all’immagine inferto all’Amministrazione di
appartenenza debbono essere condannati G.P. ad euro
10.000,00, B.D. ad euro 2.000,00, I.P., M.M. e B.S. ad euro
500,00 ciascuno. Tutti senza vincolo di solidarietà per i
motivi già esposti.
Conclusivamente, alla luce delle osservazioni che precedono,
i convenuti debbono essere condannati in favore del
Ministero dell'economia e delle finanze, a titolo di dolo,
ma senza vincolo di solidarietà, al pagamento delle somme
seguenti:
- G.P. euro 26.645,10 (ventiseimilaseicentoquarantacinque/10)
per danno patrimoniale ed euro 10.000,00 (diecimila/00) per
danno all'immagine;
- B.D. euro 7.965,00 (settemilanovecentosessantacinque/00)
per danno patrimoniale ed euro 2.000 (duemila/00) per danno
all'immagine;
- I.P. euro 1.038,58 (milletrentotto/58) per danno
patrimoniale ed euro 500,00 (cinquecento/00) per danno
all'immagine;
-M.M. euro 825,00 (ottocentoventicinque/00) per danno
patrimoniale ed euro 500,00 (cinquecento/00) per danno
all'immagine;
- B.S. di euro 380,00 (trecentoottanta/00) per danno
patrimoniale ed euro 500,00 (cinquecento/00) per danno
all'immagine.
Le somme predette dovranno essere rivalutate, secondo gli
indici ISTAT, a decorrere dal’1 gennaio 2013 fino al
deposito della presente sentenza; da quest’ultima data le
somme risultanti dovranno essere maggiorate degli interessi
legali fino all’integrale pagamento.
Le spese seguono la soccombenza e sono poste a carico dei
convenuti in parti uguali
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Liguria,
sentenza 30.12.2014 n. 153). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Tutti i provvedimenti che comportano spesa vanno adottati
previa assunzione del relativo <impegno contabile ed
attestazione della (relativa) copertura finanziaria>, ex
art. 191 TUEL, ivi compresi i provvedimenti con i quali il
Comune conferisce apposito incarico legale ad un avvocato
per la tutela delle ragioni del Comune stesso.
Qualora vengano in essere obbligazioni giuridiche al di
fuori della descritta procedura ordinaria, l’ordinamento
giuscontabile prevede, comunque, la possibilità di
ricondurle nella contabilità ordinaria dell’ente, purché si
tratti di obbligazioni rientranti nelle fattispecie
dettagliatamente elencate nell’art. 191 TUEL e purché venga
adottato un atto di riconoscimento del debito da parte
dell’organo consiliare..
Nel caso, dunque, di mancanza dell’impegno contabile
relativo al conferimento degli incarichi legali de quibus,
si verte in una fattispecie di acquisizione di servizi in
violazione del citato art. 191 del d.lgs. n° 267 del 2000,
con possibilità di riconduzione, a sanatoria, nel sistema di
contabilità dell’Ente, solo mediante attivazione del
procedimento per l’eventuale riconoscimento di debito fuori
bilancio di cui all’art. 194 del d.lgs. n° 267 del 2000
cit., con tutte le condizioni e le limitazioni previste al
riguardo, anche con riferimento –per quanto concerne la
specifica fattispecie qui in esame- alla necessità della
sussistenza dei requisiti oggettivi indicati al comma 1,
lett. e) del menzionato art. 194 relativamente a beni e
servizi acquisiti in violazione degli obblighi di cui ai
commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191 (“nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente,
nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e
servizi di competenza”, ex art. 194 cit.).
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco interpellante,
facendo riferimento ad incarichi di patrocinio legale
dell’Ente affidati, nel passato, con deliberazioni della
Giunta comunale ovvero con determinazioni dirigenziali, a
svariati legali, e premesso che i predetti provvedimenti di
conferimento “recavano assunzione di impegno contabile ex
art. 183 T.U.E.L. per importi a volte simbolici, a volte
comunque insufficienti a coprire l’ammontare del compenso
finale”, mentre “alcune delibere, risalenti agli anni
’90, sono del tutto prive di impegno contabile”,
rappresenta il contrasto emerso, in sede di regolazione
delle competenze finali ritenute spettanti ai predetti
legali, tra l’orientamento espresso dal Responsabile del
Settore Legale dell’Ente e la Dirigente dell’Area
economico-finanziaria.
In particolare –come precisato nella richiesta di parere in
argomento- il primo, facendo riferimento alla deliberazione
della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
l’Emilia Romagna, n. 256 del 25.07.2013, sostiene che la
fattispecie “andrebbe affrontata con una semplice
integrazione dell’impegno contabile originariamente assunto
integrando l’atto di impegno di spesa originario
nell’esercizio corrente (anche se diverso da quello di
conclusione del giudizio ed anche se esso comporta la
decuplicazione dell’impegno originario)”, mentre la
suddetta Dirigente dell’Area economico finanziaria, facendo
anch’essa riferimento a precedenti giurisprudenziali della
Corte dei conti (deliberazioni della Sezione regionale di
controllo per la Campania n. 9 del 2007 e n. 8 del 2009,
nonché della Sezione regionale di controllo per la Sardegna
n. 2 del 2007 e della Sezione regionale di controllo per
l’Abruzzo n. 360 del 2008), “sostiene che la
rilevantissima differenza fra l’impegno originariamente
assunto e la spesa finale evidenzi con chiarezza che ci si
trovi di fronte a spese assunte, pur all’interno delle
categorie di utilità ed arricchimento per l’ente
nell’esercizio di pubbliche funzioni e servizi di
competenza, ma certamente al di fuori delle prescrizioni di
cui all’art. 191 T.U.E.L., e quindi nella fattispecie tipica
dei debiti fuori bilancio”.
Analogo contrasto –espone il Sindaco interpellante– si è
verificato, con riferimento ad una proposta di delibera
dell’Ente sottoposta al parere del Collegio dei revisori
-all’interno di detto Organo “nel quale uno dei
componenti propende per la riconoscibilità del debito fuori
bilancio e due componenti ritengono che debba seguirsi la
procedura della integrazione di impegno contabile a
competenza”.
Conseguentemente, al fine di poter consentire agli Organi
deliberanti del Comune, con l’ausilio consultivo di questa
Sezione, di portare a soluzione le questioni di che
trattasi, il Sindaco dell’Ente chiede parere in subiecta
materia ex art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003 n.
131.
...
La richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di
Marano di Napoli trae origine, in realtà, da due distinte
fattispecie, che rientrano nella materia della
contabilità pubblica, ciascuna delle quali ha generato
perplessità ritenute abbisognevoli di un supporto consultivo
di questa Sezione.
Da un lato, invero, viene rappresentato, dall’Ente
interpellante, il conferimento di incarichi –conferiti a “diversi
legali”- di rappresentanza e di difesa in giudizio del
Comune, con “assunzione di impegno contabile ex art. 183
T.U.E.L. per importi a volte simbolici, a volte comunque
insufficienti a coprire l’ammontare del compenso finale”,
e,
dall’altro, l’Ente medesimo fa riferimento al
conferimento di analoghi incarichi, con “alcune delibere
[…] del tutto prive di impegno contabile”.
Ciò premesso, va osservato che, con riferimento alla prima
delle suesposte tipologie di provvedimenti (conferimento di
incarichi con assunzione di impegni ex art. 183 del d.lgs.
n. 267 del 2000, poi rivelatisi insufficienti), viene
documentata in atti l’esistenza di una “proposta di
deliberazione” di riconoscimento di debito fuori
bilancio ex art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n° 267
del 2000, trasmessa al Collegio dei revisori dei conti
dell’Ente ai sensi dell’art. 239 del menzionato d.lgs. n.
267 del 2000, dal Dirigente A.E.F., relativa all’ammontare
delle competenze professionali di un avvocato, eccedenti
l’importo inizialmente impegnato, quale successivamente
integrato con ulteriore impegno a titolo di acconto.
Su tale proposta si è già espresso l’interpellato Collegio,
come da verbale del 15.07.2014, acquisito agli atti.
Da quanto è dato evincere dal contenuto del menzionato
verbale, tra i componenti del Collegio dei revisori è
insorto un contrasto interpretativo, in quanto il Presidente
di tale Collegio ha ritenuto che, nella fattispecie, dovesse
essere formulato, così come richiesto, specifico parere in
ordine al riconoscimento di debito fuori bilancio, mentre
gli altri due componenti si sono mostrati favorevoli
all’applicazione di una procedura di adeguamento dello
stanziamento iniziale “integrando l’originario impegno di
spesa per soddisfare integralmente la pretesa creditoria del
professionista al fine di evitare maggiori oneri derivanti
da eventuali procedure di esecuzione con addebito a carico
del responsabile del servizio per le ulteriori somme
riconosciute rispetto alla pretesa iniziale”.
Conclusivamente, il predetto Collegio, a maggioranza, ha
ritenuto “di non dover esprimere alcun parere limitandosi
a ritrasmettere l’intero fascicolo al Responsabile
proponente per l’esatto adempimento” (p.v. citato, pag.
5).
Dunque, risulta che, relativamente alla suindicata
fattispecie di effettiva esistenza di uno stanziamento
iniziale (ancorché poi rivelatosi insufficiente) relativo
all’ammontare della spesa per il conferimento di incarichi
legali, presso l’Ente non solo sono già stati esplicitati
precisi, quanto contrastanti, convincimenti da parte dei
competenti Dirigenti (cfr. richiesta di parere in esame,
pag. 2), ma è già stata avviata e conclusa una procedura
consultiva, all’esito della quale è emerso un chiaro
(ancorché non unanime) orientamento dell’interpellato
Collegio dei revisori.
Da ciò consegue, in parte qua, l’inammissibilità
della richiesta di parere in argomento, non essendo
consentito alla Sezione né di ingerirsi, con proprie
valutazioni e secondo propri orientamenti, nelle scelte
discrezionali di esclusiva competenza dell’Ente, né,
comunque, di finalizzare la funzione consultiva svolta ex
art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003 n. 131, alla
composizione di contrasti interpretativi -insorti e
formalizzati all’interno dell’Ente interpellante– già,
peraltro, motivatamente sottoposti all’esame dell’Organo di
revisione. Invero, in tal caso, “il parere richiesto
implicherebbe un giudizio della Sezione su valutazioni già
compiute e su posizioni già assunte da Organi dell’Ente, con
l’effetto di trasformare, di fatto, la funzione consultiva
in una sorta di funzione di controllo sulla conformità a
legge di atti, valutazioni e/o comportamenti posti in essere
da Organi comunali, o di dirimere conflitti fra detti
Organi: funzioni che, invero, sono precluse alla Corte dei
conti nella presente sede” (così Corte dei conti,
Sezione regionale di controllo per la Campania,
deliberazione n. 239/2012 del 27.09.2012).
Circa l’altra fattispecie contemplata nel quesito posta alla
Sezione (ipotesi di assoluta mancanza, ab origine, di
previo impegno di spesa), non appare sussistere la suddetta
preclusione alla trattazione di merito in questa sede
consultiva, sicché la richiesta di parere in argomento
risulta, relativamente alla già descritta, ulteriore,
fattispecie, ammissibile anche sotto il profilo oggettivo.
Al riguardo, va anzitutto affermato, in adesione alla
consolidata giurisprudenza di questa Corte, che “tutti
i provvedimenti che comportano spesa vanno adottati previa
assunzione del relativo <impegno contabile ed attestazione
della (relativa) copertura finanziaria>, ex art. 191 TUEL,
ivi compresi i provvedimenti con i quali il Comune
conferisce apposito incarico legale ad un avvocato per la
tutela delle ragioni del Comune stesso”
(così, condivisibilmente, Corte dei conti, Sezione regionale
di controllo per l’Abruzzo, deliberazione n. 360/2008 del
14-18.07.2008).
Il rispetto delle procedure previste dalla legge nel caso di
assunzione di obbligazioni giuridiche nei confronti di terzi
(in particolare: artt. 182-185 e 191 del d.lgs. n° 267 del
2000) garantisce, invero, il soddisfacimento dell’obbligo
della copertura finanziaria degli atti da cui derivano
impegni di spesa, e consente di evitare la formazione di
debiti originati in sede extracontabile (in terminis,
cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
l’Emilia Romagna, deliberazione n° 256/2013 del 25.07.2013).
A ciò va aggiunto che “qualora vengano
in essere obbligazioni giuridiche al di fuori della
descritta procedura ordinaria, l’ordinamento giuscontabile
prevede, comunque, la possibilità di ricondurle nella
contabilità ordinaria dell’ente, purché si tratti di
obbligazioni rientranti nelle fattispecie dettagliatamente
elencate nell’art. 191 TUEL e purché venga adottato un atto
di riconoscimento del debito da parte dell’organo consiliare”
(Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
l’Emilia Romagna, deliberazione n° 256/2013 cit.; cfr. anche
Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione
n° 55/2013 dell’11-17.06.2013, con particolare riferimento
alla necessità di valutazione dell’utilità della
prestazione).
Nel caso, dunque, di mancanza dell’impegno contabile
relativo al conferimento degli incarichi legali de quibus,
si verte in una fattispecie di acquisizione di servizi in
violazione del citato art. 191 del d.lgs. n° 267 del 2000,
con possibilità di riconduzione, a sanatoria, nel sistema di
contabilità dell’Ente, solo mediante attivazione del
procedimento per l’eventuale riconoscimento di debito fuori
bilancio di cui all’art. 194 del d.lgs. n° 267 del 2000
cit., con tutte le condizioni e le limitazioni previste al
riguardo, anche con riferimento –per quanto concerne la
specifica fattispecie qui in esame- alla necessità della
sussistenza dei requisiti oggettivi indicati al comma 1,
lett. e) del menzionato art. 194 relativamente a beni e
servizi acquisiti in violazione degli obblighi di cui ai
commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191 (“nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente,
nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e
servizi di competenza”, ex art. 194 cit.).
Questa Corte, peraltro, ha già più volte esaminato la
normativa relativa al riconoscimento dei debiti fuori
bilancio, pronunciandosi esaustivamente in ordine alla
natura e alle caratteristiche di tale procedura (ex
plurimis, cfr. Sezione regionale di controllo per
l’Emilia Romagna, deliberazione n° 311/2012 del 26.07.2012);
in questa sede, dunque, attese le finalità della richiesta
di parere in esame, non può, al riguardo, che essere
ribadita la necessità che –anche nella fattispecie de qua–
venga data puntuale, motivata e razionale osservanza alle
disposizioni di legge che disciplinano la materia
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 29.12.2014 n. 261). |
APPALTI SERVIZI: Prestazioni
artistiche, promosso l'affido diretto under 40 mila.
La Corte dei conti toglie le castagne dal fuoco a molte
amministrazioni locali.
Legittimi gli affidamenti diretti di prestazioni artistiche,
sotto la soglia dei 40 mila euro.
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della
Liguria col
parere 10.11.2014 n. 64,
toglie le castagne dal fuoco per tutti i comuni che da
sempre si arrovellano sulle modalità da seguire per
assicurarsi le prestazione di artisti di vario genere, da
mettere sotto contratto per assicurare la realizzazione
delle tante manifestazioni turistiche o di intrattenimento
da essi curate.
La Sezione Liguria ha risposto al quesito posto dal comune
di Loano in merito alla possibilità di affidare
direttamente, mediante procedura negoziata senza preventiva
pubblicazione di bando, l'attività artistica, nell'ipotesi
in cui un comune intenda organizzare un evento con un «determinato
artista curato in esclusiva da un'agenzia di spettacoli non
iscritta al Mepa».
Il parere della Sezione fa un excursus normativo, non
pienamente coerente, sulla possibilità che le prestazioni
contrattuali dei comuni siano ancora affidabili senza fare
ricorso al Mepa, se di valore inferiore alla soglia
comunitaria e, ulteriormente, se sotto la soglia dei 40 mila
euro che, ai sensi dell'articolo 125 del dlgs 163/2006
consente l'affidamento diretto per cottimo fiduciario. In
sostanza, la posizione della Sezione Liguria è favorevole.
Nello specifico si può osservare che se nel Mepa non sono
presenti prestazioni di servizi di una certa categoria,
ovviamente il servizio può essere affidato mediante gli
ordinari sistemi di gara.
Più specificamente, la Sezione ritiene comunque possibile
affidare direttamente, senza gara, le prestazioni artistiche
per due ordini di motivi.
In primo luogo, perché, secondo la Corte dei conti la
prestazione artistica non rientra «di per sé nella
materia dell'appalto di servizi, costituendo una prestazione
di opera professionale disciplinata dall'art. 2229 c.c. Non
sussistono pertanto, ab origine, le ragioni per
l'applicazione del codice dei contratti pubblici alla
fattispecie in esame».
Tale conclusione, tuttavia, appare fuorviante e non
corretta. Le prestazioni artistiche, infatti, nel codice dei
contratti, sono espressamente considerate come servizi. Lo
dispone il punto 26 dell'Allegato IIB «Servizi ricreativi,
culturali e sportivi» e il vocabolario comune degli appalti,
che contempla una serie molto ampia di «servizi artistici».
La Sezione Liguria si ostina a ritenere applicabile alla
fattispecie degli appalti la particolarità tutta italiana
della prestazione d'opera professionale, come fosse cosa
diversa dalle prestazioni di servizi, ignorando, come troppi
altri giudici, l'articolo 3, comma 19, del dlgs 163/2006,
norma di derivazione europea che travolge il diritto
commerciale italiano e considera operatore economico anche
la persona fisica, purché offra servizi sul mercato.
Infatti, la Sezione Liguria, in parziale contraddizione, in
secondo luogo non esclude, indirettamente, che la
prestazione artistica sia un appalto di servizi. Infatti, il
parere afferma: «Quand'anche si dovesse ritenere che la
medesima possa rientrare tra gli appalti di servizi, essa
deve essere ricompresa nell'ambito di applicazione dell'art.
57, comma 2, dlgs 163/2006 che consente la procedura
negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara
''qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica... il
contratto possa essere affidato unicamente a un operatore
economico determinato''».
In effetti, come visto prima, le prestazioni artistiche sono
certamente appalti di servizi, sottratti, comunque, alla
piena applicazione del dlgs 163/2006, rientrando
nell'allegato IIB al Codice. Il che significa che in ogni
caso esse possono essere affidate con le procedure
semplificate previste dall'articolo 27 del codice.
Tuttavia, la Sezione Liguria evidenzia correttamente «l'infungibilità
della prestazione artistica», caratteristica tale da
renderla inidonea a procedure comparative, siano esse
elettroniche o tradizionali.
Dunque, anche il confronto semplificato tra 5 offerenti,
previsto dall'articolo 27 del codice dei contratti, non
sarebbe utile, nel caso di specie, vista l'inconfrontabilità
concorrenziale della performance del singolo artista.
Occorre aggiungere che diverse conclusioni sarebbero da
trarre se il comune intendesse acquisire il servizio di
organizzazione della manifestazione. In questo caso, non si
può dubitare che si tratti di un appalto di servizi vero e
proprio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.01.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
gestione associata delle funzioni comunali.
Il recente D.L. 06.07.2012, n. 95
(convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma
1, L. 07.08.2012, n. 135) all’art. 19 ha variato la
normativa diretta al contenimento delle spese per
l'esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni,
apportando modificazioni alla disciplina di cui ai commi 25
e seguenti dell’art. 14 del D.L. 31.05.2010, n. 78
(convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n.
122).
Il predetto articolo 14 –dopo aver
premesso che le disposizioni dettate dai commi da 26 a 31
sono dirette ad assicurare il coordinamento della finanza
pubblica e il contenimento delle spese per l'esercizio delle
funzioni fondamentali dei comuni– ha stabilito (comma 26)
che “L'esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni è
obbligatorio per l'ente titolare”. Tali sono, ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della
Costituzione, le funzioni indicate al comma 27.
Tuttavia, l’obbligatorietà della funzione
non legittima e non giustifica, di per sé, alcuna deroga sia
al divieto di assunzione, sopra esaminato, sia all’obbligo
di riduzione della spesa di personale dell’Ente locale.
In altre parole, qualora l’Ente non
disponga e non possa assumere risorse lavorative sufficienti
o idonee all’assolvimento (di tutte o di parte) delle
funzioni fondamentali indicate, deve avvalersi della
possibilità di aderire a un diverso assetto organizzativo
per il loro svolgimento che, per gli enti di più piccole
dimensioni diventa obbligo.
---------------
Quello che qui conta mettere in evidenza è che
le prescrizioni sopra indicate hanno una finalità
ben più ampia di quella meramente riduttiva della spesa, in
quanto esigono che le funzioni siano svolte “secondo i
principi di efficacia, economicità, di efficienza e di
riduzione delle spese”.
In altre parole, il fenomeno associativo che doverosamente e
progressivamente interesserà tutte le funzioni fondamentali
dei comuni rientranti nella fascia demografica di cui
trattasi comporta che ad esso ci si rivolge non solo per
tamponare una momentanea e transitoria carenza di risorse,
finanziarie o umane, da destinare alla funzione da
assolvere, ma assume i caratteri di un assetto organizzativo
stabile. Tale assetto organizzativo deve essere
necessariamente in grado di programmare e coordinare la
gestione del servizio e di misurarne i risultati, secondo
indicatori che ne attestino l’efficacia e l’efficienza.
---------------
In definitiva, il legislatore chiede di
spostare l’angolo di attenzione dal livello di spesa di ogni
singolo comune al livello di spesa per il servizio
associato, commisurandolo alla efficacia e alla maggiore
efficienza dello stesso rispetto a quanto singolarmente
assicurato da ciascun ente in precedenza. In questa ottica
si tratta di un significativo mutamento di prospettiva: la
gestione di un servizio associato non può più essere
rappresentata sotto il profilo dei meri risultati contabili
che rifluiscono sui conti del singolo Ente, ma deve essere
considerata nel suo complesso e valutata con riferimento al
raggiungimento di risultati gestionali predeterminati.
---------------
3.6 – Tanto chiarito, la questione da affrontare può
riassumersi nei seguenti termini: posto un Comune che non
abbia nei propri ruoli personale idoneo da adibire allo
svolgimento di una funzione fondamentale ed essenziale, né
possa procedere ad assunzioni avendo superato la soglia
massima del rapporto spesa di personale/spesa corrente, ci
si chiede se possa ugualmente assicurare detta funzione
aderendo a una Convenzione che ne regoli l’esercizio in
comune, assumendo a carico del proprio bilancio la spesa
occorrente alla remunerazione (pro quota) di personale alle
dipendenze di altro Ente ma adibito al servizio associato.
4.1 – Al quesito può darsi risposta affermativa, con le
precisazioni che seguono.
4.2 - L’obiettivo di ridurre o, quanto meno, contenere,
l’incidenza delle spese di personale negli enti locali è
ritenuto, da sempre, obiettivo prioritario di finanza
pubblica. Ad esso, nel tempo, si sono ispirate diverse norme
finalizzate, prima di tutto, a razionalizzare e riordinare
le strutture organizzative degli Enti e, ove necessario, a
imporre limiti e vincoli di spesa.
A tale ultima categoria appartiene la disposizione contenuta
nell’art. 76, comma 7, D.L. n. 112/2008 (come oggi vigente
per effetto di successive modifiche), sopra citata, che fa
appunto divieto agli enti nei quali l'incidenza delle spese
di personale (comprese le spese sostenute anche dalle
società a partecipazione pubblica locale totale o di
controllo che sono titolari di affidamento diretto di
servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgono
funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale
aventi carattere non industriale, né commerciale, ovvero che
svolgono attività nei confronti della pubblica
amministrazione a supporto di funzioni amministrative di
natura pubblicistica) è pari o superiore al 50 per cento
delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale
a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia
contrattuale.
Gli enti che non hanno superato detta soglia possono
procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato
nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle
cessazioni dell'anno precedente, fatta eccezione per le
assunzioni del personale destinato allo svolgimento delle
funzioni in materia di polizia locale (oltre che di
istruzione pubblica e del settore sociale) per i quali è
calcolato, ai fini assunzionali, l’onere nella misura
ridotta del 50 per cento. In ogni caso, le predette
assunzioni continuano a rilevare per intero ai fini del
calcolo delle spese di personale come sopra previsto (primo
periodo del comma 7).
Per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale
è pari o inferiore al 35 per cento delle spese correnti sono
ammesse, in deroga al limite del 40 per cento, le assunzioni
per turn-over che consentano l'esercizio delle funzioni
fondamentali previste dall'articolo 21, comma 3, lettera b),
della legge 05.05.2009, n. 42. Dette assunzioni, comunque,
sono ammesse nel rispetto degli obiettivi del patto di
stabilità interno e fermo restando i limiti di contenimento
complessivi delle spese di personale.
4.3 - La disposizione sopra riportata va collocata come
necessario completamento di quelle, più risalenti, contenute
ai commi 557 e 562 dell’articolo unico della legge n.
296/2006, che da tempo hanno chiamato le autonomie regionali
e locali (siano esse soggette o meno al patto di stabilità)
a concorrere al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica
mediante il contenimento del costo del personale.
Contenimento da raggiungere riducendo l'incidenza
percentuale delle spese di personale rispetto al complesso
delle spese correnti, attraverso la parziale reintegrazione
dei cessati e contenendo la spesa per il lavoro flessibile;
la razionalizzazione e lo snellimento delle strutture
burocratico-amministrative, e l’accorpamento di uffici; il
contenimento delle dinamiche di crescita della
contrattazione integrativa.
Solo laddove queste misure non siano state sufficienti a
raggiungere i risultati-obiettivo e fino a quando non si
saranno liberati spazi assunzionali, l’estrema soluzione
adottata dal legislatore è stata individuata, come sopra
detto, nel vietare le assunzioni e, per quelle ammesse,
limitare comunque l’incidenza delle spese.
4.4 – Di recente l’attenzione del legislatore è tornata a
occuparsi di modalità organizzative per l’erogazione dei
servizi e delle funzioni intestate agli Enti Locali,
soprattutto con riferimento a quelli di più piccole
dimensioni, al fine di superare l’estrema polverizzazione
degli Enti in comunità di pochi abitanti nei confronti dei
quali l’assolvimento dei compiti fondamentali deve essere
adeguato e differenziato anche in relazione alla capacità
finanziaria dell’Ente medesimo.
4.5 - Il recente D.L. 06.07.2012, n. 95
(convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma
1, L. 07.08.2012, n. 135),
contenente “Disposizioni urgenti per la revisione della
spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese
del settore bancario”, all’art. 19 ha
variato la normativa diretta al contenimento delle spese per
l'esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni,
apportando modificazioni alla disciplina di cui ai commi 25
e seguenti dell’art. 14 del D.L. 31.05.2010, n. 78
(convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n.
122).
Il predetto articolo 14 –dopo aver premesso
che le disposizioni dettate dai commi da 26 a 31 sono
dirette ad assicurare il coordinamento della finanza
pubblica e il contenimento delle spese per l'esercizio delle
funzioni fondamentali dei comuni– ha stabilito (comma 26)
che “L'esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni è
obbligatorio per l'ente titolare”. Tali sono, ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della
Costituzione, le funzioni indicate al comma 27,
tra cui (lett. i), quella di polizia municipale o di polizia
amministrativa locale.
4.6 - Tuttavia, l’obbligatorietà della
funzione non legittima e non giustifica, di per sé, alcuna
deroga sia al divieto di assunzione, sopra esaminato, sia
all’obbligo di riduzione della spesa di personale dell’Ente
locale.
In altre parole, qualora l’Ente non
disponga e non possa assumere risorse lavorative sufficienti
o idonee all’assolvimento (di tutte o di parte) delle
funzioni fondamentali indicate, deve avvalersi della
possibilità di aderire a un diverso assetto organizzativo
per il loro svolgimento che, per gli enti di più piccole
dimensioni, come
nel caso del Comune di Cirigliano, diventa
obbligo.
A questo riguardo la disciplina in esame (comma 28) ha
stabilito che i comuni con popolazione fino a 5.000
abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o
sono appartenuti a comunità montane, sono obbligati a
esercitare in forma associata, mediante unione di comuni o
convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di cui al
comma 27, ad esclusione della funzione di tenuta dei
registri dello stato civile, della funzione anagrafica ed
elettorale. Ai comuni è precluso di svolgere singolarmente
le funzioni fondamentali svolte in forma associata e la
medesima funzione non può essere svolta da più di una forma
associativa.
La normativa statale in argomento impone anche termini
rigorosi entro i quali procedere. I comuni interessati
devono assicurare, infatti, l'attuazione delle disposizioni
di cui sopra: a) entro il 01.01.2013 con riguardo ad almeno
tre delle funzioni fondamentali; b) entro il 01.01.2014 con
riguardo alle restanti funzioni fondamentali.
4.7 - Quello che qui conta mettere in evidenza è che
le prescrizioni sopra indicate hanno una finalità
ben più ampia di quella meramente riduttiva della spesa, in
quanto esigono che le funzioni siano svolte “secondo i
principi di efficacia, economicità, di efficienza e di
riduzione delle spese”.
In altre parole, il fenomeno associativo che doverosamente e
progressivamente interesserà tutte le funzioni fondamentali
dei comuni rientranti nella fascia demografica di cui
trattasi comporta che ad esso ci si rivolge non solo per
tamponare una momentanea e transitoria carenza di risorse,
finanziarie o umane, da destinare alla funzione da
assolvere, ma assume i caratteri di un assetto organizzativo
stabile. Tale assetto organizzativo deve essere
necessariamente in grado di programmare e coordinare la
gestione del servizio e di misurarne i risultati, secondo
indicatori che ne attestino l’efficacia e l’efficienza.
Ed infatti, posto che l’esercizio in forma associata delle
funzioni si fonda su convenzioni della durata almeno
triennale, “ove alla scadenza del predetto periodo, non
sia comprovato, da parte dei comuni aderenti, il
conseguimento di significativi livelli di efficacia ed
efficienza nella gestione, secondo modalità stabilite con
decreto del Ministro dell'interno, da adottare entro sei
mesi, sentita la Conferenza Stato-Città e autonomie locali,
i comuni interessati sono obbligati ad esercitare le
funzioni fondamentali esclusivamente mediante unione di
comuni” (comma 31-bis).
Ciò è vero sia con riferimento alle forme associative che
sorgono nell’ambito della dimensione territoriale ottimale e
omogenea per area geografica individuata dalla Regione
(comma 30), con un limite demografico comunque non inferiore
a 10.000 abitanti, sia con riferimento a ogni altra forma
associativa che sorga nelle more dell’intervento regionale
ma in attuazione delle prescrizioni di legge.
In definitiva, il legislatore chiede di
spostare l’angolo di attenzione dal livello di spesa di ogni
singolo comune al livello di spesa per il servizio
associato, commisurandolo alla efficacia e alla maggiore
efficienza dello stesso rispetto a quanto singolarmente
assicurato da ciascun ente in precedenza. In questa ottica
si tratta di un significativo mutamento di prospettiva: la
gestione di un servizio associato non può più essere
rappresentata sotto il profilo dei meri risultati contabili
che rifluiscono sui conti del singolo Ente, ma deve essere
considerata nel suo complesso e valutata con riferimento al
raggiungimento di risultati gestionali predeterminati.
4.8 - Da quanto sopra argomentato se ne ricava che, sul
piano del rispetto della normativa vincolistica in materia
di assunzioni di personale, il Comune di Cirigliano ben può
usufruire del servizio di polizia locale reso
dall’Associazione dei Comuni alla quale partecipa senza
dover assumere proprio personale. Peraltro, sul piano della
contabilità dell’Ente neppure rileva come spesa di
personale, da porre in rapporto alla spesa corrente, il
pagamento della quota parte della spesa complessiva del
servizio associato, dal momento che la spesa del personale
impiegato è contabilizzata per intero da ciascun Ente al
quale detto personale è legato da rapporto organico di
lavoro.
A tal proposito si dovrebbe prendere in considerazione la
opportunità che, simmetricamente, la spesa sostenuta a
titolo di rimborso a favore del servizio reso dalla gestione
associata debba essere neutralizzata ai soli fini del
calcolo del rapporto spesa di personale/spesa corrente.
Diversamente, tale rapporto verrebbe ad essere alterato due
volte: una prima volta, per la mancata iscrizione al
numeratore (spesa di personale) degli oneri corrisposti per
il servizio; una seconda volta, per il mantenimento al
denominatore (spesa corrente) dei medesimi oneri.
In ogni caso è possibile che, per il Comune di Cirigliano,
il rapporto spesa di personale/spesa corrente torni ad
essere, nel 2013, inferiore al 50%, così da aprire, a
partire dal 2014, nuovi spazi assunzionali mentre, a parità
di tutte le altre condizioni, rimarrebbe costante la
rigidità della spesa di personale per gli Enti associati che
abbiano fornito il personale necessario all’assolvimento del
servizio.
Tale opportunità deve, tuttavia, conciliarsi con quanto
osservato da questa stessa Sezione in occasione della citata
delibera n. 51/2013/PAR che sul punto così si esprime: “Si
consideri, infatti, preliminarmente che, salvo che un ente
non sia animato (avendone la possibilità) da spirito
oblativo, le convenzioni –che, come si è visto, per dettato
normativo hanno ad oggetto “funzioni e servizi determinati”–
normalmente non saranno unidirezionali, e quindi ciascuno
dei vari enti convenzionati potrà fornire il personale
necessario per l’esercizio delle singole funzioni da
associare, e quindi assumerne la delega o distaccare le
risorse umane necessarie all’ufficio comune.
Conseguentemente, gli enti locali che accettino di
rinunciare a parte della prestazione lavorativa di un
proprio dipendente in favore di altri enti convenzionati,
pur dovendo computarne integralmente la spesa ai fini della
predetta norma, riceveranno beneficio dal mancato conteggio
della quota necessaria a retribuire la prestazione svolta in
favore dei propri cittadini dal personale di altri enti”.
Ciò per significare che in un contesto
associativo, che pure non ha ancora assunto quegli elementi
di spiccata personalità propria dell’Unione, l’analisi dei
fabbisogni di personale e la conseguente programmazione deve
necessariamente essere orientata verso un orizzonte più
ampio di quello del singolo comune, che tenga conto, cioè,
dell’ambito associativo e abbia come obiettivo il
conseguimento dei risultati della gestione, di cui si è
detto (Corte dei
Conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 18.09.2013 n. 113). |
QUESITI & PARERI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ P.a., una casa di vetro.
L'accesso trova limiti solo nella privacy. Le norme del Tuel
non sono soggette alle limitazioni della legge 241/1990.
Il diritto di accesso agli atti, esercitato da un
cittadino–elettore, può essere richiesto per atti
concernenti le posizioni organizzative, le schede di
valutazione, la relazione metodologica sull'attività di
valutazione, la relazione del Nucleo di valutazione e le
indennità corrisposte per ciascuna posizione organizzativa
di un ente locale?
L'articolo 10
del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina il
diritto di accesso e informazione, dispone che tutti gli
atti dell'amministrazione comunale sono pubblici,
rafforzando il diritto alla trasparenza dell'azione
amministrativa locale per il cittadino-elettore.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, tale norma non
intende, comunque, radicare in capo a quest'ultimo un
interesse generico alla legittimità dell'azione
amministrativa attraverso un controllo generalizzato degli
atti, che soggiacerebbe alla disciplina dettata dalla legge
n. 241/1990.
Invero la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, ha precisato, che ai sensi del richiamato
disposto normativo è consentito al cittadino residente di
accedere agli atti amministrativi dell'ente locale di
appartenenza senza alcun condizionamento e senza necessità
della previa indicazione delle ragioni della richiesta,
dovendosi cautelare la sola segretezza degli atti la cui
esibizione è vietata dalla legge o da esigenze di tutela
della riservatezza dei terzi.
Al fine di una completa disamina della problematica occorre
tenere conto delle vigenti disposizioni che impongono gli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, come
dettate in particolare dagli articoli 5 e 9 del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, che prevedono, tra l'altro,
il diritto di chiunque di richiedere documenti, informazioni
o dati.
Pertanto, la specifica norma sull'accesso agli atti degli
enti locali, contenuta nel decreto legislativo n. 267/2000,
non è soggetta alle limitazioni previste dalla legge n.
241/1990 che impongono la dimostrazione di un effettivo
interesse alla conoscenza di un provvedimento emesso e
detenuto dalla pubblica amministrazione.
A supporto di tale orientamento soccorre la decisione del
17.01.2013 resa dalla Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, secondo la quale le disposizioni di cui alla
legge n. 241/1990 recedono di fronte alla norma di cui
all'art. 10 del Tuel che, in quanto norma speciale, prevale
rispetto alla disciplina generale.
Il diritto di accesso, tuttavia, ha sempre trovato un
contemperamento con le esigenze di tutela dei dati personali
anche secondo quanto ritenuto dal Garante per la protezione
dei dati personali che, in materia di gestione del rapporto
di lavoro in ambito pubblico afferma il diritto delle
organizzazioni sindacali di conoscere i dati attinenti alla
prestazione lavorativa, primariamente in forma aggregata.
Analoga limitazione, si ritiene, debba porsi nei confronti
del cittadino che chiede di accedere ai dati relativi al
rapporto di lavoro dei dipendenti comunali.
Assume, pertanto, specifico rilievo il comma 3-bis
dell'articolo 19 del decreto legislativo n. 196 del
30.06.2003, come modificato dall'art. 14 della legge
04.11.2010, n. 183, il quale ha, tra l'altro, stabilito che
«le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni
di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la
relativa valutazione sono rese accessibili
dall'amministrazione di appartenenza. Non sono invece
ostensibili, se non nei casi previsti dalla legge, le
notizie concernenti la natura delle infermità e degli
impedimenti personali o familiari che causino l'astensione
dal lavoro, nonché le componenti della valutazione o le
notizie concernenti il rapporto di lavoro tra il predetto
dipendente e l'amministrazione, idonee a rivelare taluna
delle informazioni di cui all'articolo 4, comma 1, lettera
d)».
Ciò posto, tale completa apertura in ordine alla pubblicità
delle prestazioni rese dai dipendenti è riferibile a quegli
atti adottati dall'entrata in vigore dell'art. 14 della
legge n. 183 del 04.11.2010, fermo restando il diritto
all'accesso a tutti gli altri provvedimenti
dell'amministrazione non classificati come «segreti»
o contenenti dati sensibili, che potranno essere consegnati
ai richiedenti sulla base e con le modalità dettate dalle
specifiche norme regolamentari di cui gli enti sono tenuti a
dotarsi (articolo
ItaliaOggi del 09.01.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Potere sostitutivo limitato. Inapplicabile al
diritto d'accesso dei consiglieri.
Gli amministratori locali godono tuttavia di prerogative
assai ampie
È applicabile l'art. 2, commi 9-bis
e seguenti della legge n. 241/1990, come modificato
dall'art. 1 del dl n. 5/2012, convertito con modificazioni
dalla legge n. 35/2012 nel caso di un consigliere comunale
che, a fronte dell'inutile decorso del termine di trenta
giorni dalla presentazione di una richiesta di accesso agli
atti del comune, ha prodotto un'istanza di intervento
sostitutivo alla luce della sopra citata normativa?
L'istanza di accesso prodotta dal consigliere comunale
potrebbe comportare l'adozione di un provvedimento?
Il diritto d'accesso dei consiglieri comunali e provinciali
agli atti amministrativi dell'ente locale è disciplinato
espressamente dall'art. 43, comma 2, del Tuel del
18.08.2000, n. 267, il quale prevede in capo agli stessi il
diritto di ottenere dagli uffici comunali, tutte le notizie
e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento
del loro mandato.
Dal contenuto di tale norma emerge chiaramente che i
consiglieri comunali hanno diritto di accesso a tutti gli
atti che possano essere d'utilità all'espletamento del
proprio mandato, senza alcuna limitazione, essendo estraneo
all'ampiezza di tale diritto qualunque divieto di «ottenere
notizie e informazioni» su atti o documenti che possano
essere qualificati «segreti» e come tali sottratti
alla sua visione o estrazione di copia (cfr. Commissione di
accesso ai documenti amministrativi - determinazione del
Plenum in data 06.04.2011).
Nel caso di specie, lo statuto del comune prevede che i
consiglieri comunali, ai fini dell'esercizio delle funzioni
consiliari, hanno diritto di accesso, con le modalità
previste dal regolamento, ai documenti e agli atti dei
procedimenti del comune utili all'espletamento del proprio
mandato, ivi compresi quelli riservati.
Il regolamento comunale disciplina la materia prevedendo, in
particolare, che il diritto di informazione e di accesso
agli atti amministrativi si esercita mediante richiesta al
segretario comunale o ad altro dipendente da questi
designato.
La libera consultazione degli atti è fissata per due giorni
alla settimana come individuati direttamente dal segretario,
mentre per il rilascio di copie da parte del responsabile
del servizio competente in materia, il regolamento prevede
il termine massimo di trenta giorni successivi a quello
della richiesta.
Entro lo stesso termine, il segretario comunale, qualora
rilevi la sussistenza di divieti o impedimenti al rilascio
della copia richiesta, informa il consigliere interessato,
con comunicazione scritta nella quale sono illustrati i
motivi che non ne consentano la consegna.
Le norme interne all'ente, dunque, non prevedono l'istituto
del silenzio diniego, stabilito, invece, dall'art. 25, comma
4, della legge n. 241/1990 esclusivamente nei confronti dei
cittadini che intendono accedere agli atti della pubblica
amministrazione, i quali possono poi utilizzare i rimedi
giurisdizionali e paragiurisdizionali previsti dalla stessa
disposizione, al fine di fare valere il diritto negato.
Ferma restando la possibilità di utilizzare i predetti
rimedi giurisdizionali, il diritto di accesso dei
consiglieri è diversamente qualificato dal nostro
ordinamento, in quanto è strettamente connesso all'esercizio
del mandato elettorale, attenendo a finalità diverse
rispetto a quelle che trovano specifica disciplina nel Capo
V (artt. 22-28) della legge n. 241/1990.
L'art. 2 della citata legge n. 241/1990 disciplina le
procedure da adottare per la «conclusione del
procedimento», pertanto il comma 9-bis non si applica
alle ipotesi di accesso del consigliere, previste, invece,
dall'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Tale assunto trova conferma dalla lettura del successivo
comma 9-ter dell'art. 2, laddove è prevista la facoltà, al «privato»
che ha titolo alla conclusione del procedimento, di
rivolgersi al responsabile di cui al comma 9-bis.
Tuttavia, la non applicabilità delle richiamate
disposizioni, non può condurre alla conclusione di una
minore tutela del diritto di accesso del consigliere, il
quale gode delle più vaste garanzie connesse al proprio
status, così come stabilito dall'articolo 43 del Tuel (articolo
ItaliaOggi del 02.01.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità degli amministratori locali presidenti di
associazioni locali.
Per i consiglieri comunali che
rivestono, altresì, la carica di Presidenti di associazioni
locali che ricevono contributi in denaro da parte
dell'amministrazione comunale potrebbe sussistere la causa
di incompatibilità prevista dall'art. 63, c. 1, n. 1) del
D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può
ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore
di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
A tal fine, devono ricorrere cumulativamente i tre requisiti
previsti dalla norma e cioè che la sovvenzione erogata dal
Comune abbia i caratteri della continuità, della
facoltatività e della notevole consistenza.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito
all'esistenza di una causa di incompatibilità per due
consiglieri comunali che sono, altresì, presidenti di due
associazioni locali che ricevono contributi in denaro da
parte dell'amministrazione comunale.
In via preliminare, si rileva che la valutazione della
sussistenza delle cause di ineleggibilità o di
incompatibilità dei componenti di un organo elettivo
amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo.
È, infatti, principio di carattere generale del nostro
ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano
esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Ciò premesso, con riferimento alla fattispecie in esame
potrebbe venire in rilievo la causa di incompatibilità
prevista dall'articolo 63, comma 1, numero 1), seconda
parte, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, il
quale prevede che non può ricoprire la carica di consigliere
comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda che
riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in
tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa
superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate
dell'ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina,
[1] il termine
'ente' deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi
rientrano anche gli organismi privi di personalità
giuridica. In questo senso si è pronunciata anche la Corte
di Cassazione
[2] che ha inteso
comprendere nella nozione di ente sovvenzionato le persone
giuridiche pubbliche, private e le associazioni non
riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica,
abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Per quanto riguarda la specificazione del concetto di
sovvenzione, secondo la dottrina e la giurisprudenza,
[3] essa deve
consistere in un'erogazione continuativa a titolo gratuito,
volta a consentire all'ente sovvenzionato di raggiungere,
con l'integrazione del proprio bilancio, le finalità in
vista delle quali è stato costituito.
In definitiva, affinché si verifichi la situazione di
incompatibilità in questione, la succitata norma prescrive
che tale sovvenzione debba possedere, cumulativamente, tre
caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve
essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento
finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo,
ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte
facoltativo, tenuto conto di quanto in appresso precisato;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve
essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per
cento del totale delle entrate annuali dell'ente
sovvenzionato.
Con riferimento alla fattispecie in esame l'Ente dovrà,
pertanto, valutare se sussistano tutti i tre requisiti sopra
indicati.
In particolare, mentre pare non sorgano dubbi interpretativi
circa il significato da dare al requisito della continuità
ed a quello della notevole consistenza, si ritiene invece
opportuno fornire alcune considerazioni circa il modo di
intendere il concetto di facoltatività.
Al riguardo si rileva come, in passato, la tesi dottrinaria
prevalente affermava che per determinare l'incompatibilità
la sovvenzione non deve avere il carattere
dell'obbligatorietà, nel senso che 'non deve essere
conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un
contratto bilaterale, ma deve rientrare nella
discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo gratuito
o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera
determinazione dell'Ente che la accorda'.
[4] Corre
l'obbligo di rilevare che più di recente ha ottenuto
l'avallo del Ministero dell'Interno la tesi secondo la quale
la sovvenzione è facoltativa 'nel senso e nei limiti in
cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge'.
[5] Trattasi di
impostazione più rigorosa che circoscrive il concetto
dell'obbligatorietà a quelle sole elargizioni per le quali
manchi qualsiasi facoltà discrezionale dell'Ente locale nel
concederle.
[6]
Alla luce di un tanto, l'Ente valuti se ricorrono, in
relazione alla fattispecie concreta, i requisiti sopra
indicati, l'esistenza dei quali porterebbe all'insorgenza
dell'indicata causa di incompatibilità.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la causa di
incompatibilità prevista dall'articolo 63, comma 1, num. 2),
del D.Lgs. 267/2000 il quale sancisce l'incompatibilità
dell'amministratore locale che, in qualità di titolare,
amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento abbia parte, direttamente o indirettamente, in
servizi nell'interesse del comune.
Nel termine servizi si suole ricomprendere 'qualsiasi
rapporto intercorrente con l'ente locale che a causa della
sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia
in grado di determinare conflitto di interessi.'
[7] La
giurisprudenza ha, altresì, specificato che l'ampia
espressione di 'servizi nell'interesse del comune' si
riferisce 'a tutte quelle attività che l'ente locale,
nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante
l'esercizio dei poteri normativi ed amministrativi
attribuitigli, fa e considera proprie [...]'.
[8]
Spetta all'Ente valutare se le associazioni in oggetto
svolgono o meno dei 'servizi' nell'interesse
dell'amministrazione comunale.
---------------
[1] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo,
Amministrazione locale, 3, ed. Giuffré, II ed. 1994, pag. 78
e segg.; R.O. Di Stilo - E. Maggiora, Ineleggibilità e
incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985,
pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità,
incandidabilità nell'ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Corte di Cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[3] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.05.1972, n.
1479.
[4] Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore,
1982, pag. 140. Nello stesso senso, Enrico Maggiora,
'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente
locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV.,
'L'ordinamento comunale', Giuffrè editore, 2005, pag. 138.
Tale filone interpretativo è, tutt'ora, seguito dall'ANCI il
quale ha affermato, anche di recente, che la facoltatività
della sovvenzione richiede che 'l'intervento finanziario
dell'ente locale non deve derivare da un obbligo di legge o
da un obbligo convenzionale' (così pareri del 17.09.2014 e
del 28.04.2014).
[5] Ministero dell'Interno, parere del 30.12.2010 (prot. n.
15900/TU/63). In dottrina, si veda, F. Pinto e S. D'Alfonso,
'Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità e status
degli amministratori locali', Maggioli editore, 2003, pag.
196.
[6] Si veda, anche, il parere dell'08.03.2002 espresso
sull'argomento dalla Regione Val d'Aosta, ove si afferma
che: 'La sovvenzione si intende facoltativa nel senso e nei
limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito
dalla legge. Non si sottrae dal concetto di sovvenzione
facoltativa un contributo dovuto sulla base di un
regolamento comunale, laddove la determinazione del
regolamento sia riconducibile ad una scelta discrezionale
dell'ente'.
[7] Saporito, Pisciotta, Albanese, 'Elezioni regionali ed
amministrative', Bologna, 1990, pag. 115.
[8] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n.
550
(31.12.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Gruppo comunale dei volontari della protezione civile -
spese - responsabilità.
Nell'ipotesi in cui il volontario di
protezione civile provochi dei danni (ad esempio, per errori
di manovra nell'utilizzo dell'attrezzatura in dotazione), si
configura, a carico del medesimo, un'ipotesi di
responsabilità civile extracontrattuale ai sensi dell'art.
2043 c.c..
Mentre dal punto di vista penale la responsabilità è
personale e non può estendersi in capo al Comune per il
quale il volontario ha operato, dal punto di vista
civilistico potrebbe sussistere anche la responsabilità
dell'ente locale ai sensi dell'articolo 2049 c.c..
È formulata una richiesta di parere in merito alla gestione
del gruppo comunale dei volontari di protezione civile ed,
in particolare, sulle eventuali responsabilità che possono
insorgere in capo ai dipendenti dell'ente locale che
agiscono a supporto del gruppo medesimo.
Più nello specifico, sul presupposto che le strutture
comunali non incidono sulle scelte e sulle attività dei
volontari e, di conseguenza, sulle spese a favore del gruppo
stesso e che esistono dei capitoli per impegni e
liquidazioni (aventi ad oggetto carburante, mezzi,
vestiario, illuminazione, riscaldamento della sede,
eccetera), suddivisi tra l'ufficio ragioneria e l'ufficio
tecnico, l'ente domanda:
a) quali responsabilità ricadono sugli uffici e sul
personale in merito agli esborsi sostenuti dal gruppo
comunale dei volontari;
b) se è facoltà degli uffici opporsi a determinate spese
qualora le relative scelte non siano di competenza di questi
ultimi
[1];
c) quale sia il soggetto competente ad effettuare tutte le
verifiche nell'ipotesi di acquisto di beni e servizi
[2];
d) quale sia il soggetto che autorizza l'utilizzo delle
macchine comunali a favore del gruppo dei volontari e quali
responsabilità ricadono e su chi in merito all'eventuale uso
non conforme alle regole dei mezzi stessi o da un volontario
privo dei requisiti necessari per condurre il veicolo;
e) quale soggetto risponde dal punto di vista civile e
penale nell'ipotesi di danni a vetture, persone e cose
durante le attività dei volontari.
Si svolgono, al riguardo, le seguenti considerazioni di
carattere generale, al fine di fornire al Comune instante
alcuni elementi di riflessione, così da porre l'ente nella
condizione di affrontare e risolvere in autonomia le
problematiche sopra evidenziate.
Si rammenta, anzitutto, che quella di protezione civile è
una delle competenze più delicate ed importanti del Comune a
tutela degli interessi diffusi.
È necessario, inoltre, prendere in considerazione alcuni
principi generali in merito ai poteri e al riparto di
competenze -all'interno dell'ente Comune- tra sindaco e
responsabili degli uffici.
Si sottolinea, al riguardo, che la protezione civile intesa
come competenza amministrativa spetta al Comune in quanto
luogo privilegiato di tutela degli interessi esposti della
popolazione. Ai sensi dell'articolo 15 della legge
24.02.1992, n. 225 - Istituzione del Servizio nazionale
della protezione civile, il sindaco è l'autorità comunale di
protezione civile. A questo fa capo una responsabilità
diretta e personale nel garantire la tutela immediata della
incolumità dei cittadini qualora messa a rischio
[3].
A livello comunale, il responsabile della protezione civile
è, dunque, il sindaco, che nomina, tra i volontari, un
coordinatore: quest'ultimo si occupa della gestione
operativa del gruppo, dell'utilizzo e manutenzione delle
attrezzature in dotazione, della concreta realizzazione, in
accordo con il sindaco, di tutte le attività svolte dai
volontari
[4].
Si rammenta, poi, che, ai sensi dell'articolo 50, commi 1 e
2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel), sulle
competenze sindacali, il sindaco è l'organo responsabile
dell'amministrazione del Comune, rappresentando l'ente e
sovrintendendo al funzionamento dei servizi e degli uffici e
all'esecuzione degli atti.
Dovendo coordinare tale previsione con le prescrizioni
dell'articolo 107 del Tuel (Funzioni e responsabilità della
dirigenza)
[5], ne risulta
che il sindaco sovrintende al lavoro dei dipendenti ed, in
generale, a tutte le attività che sono fondamentalmente
assegnate alla struttura comunale e ai responsabili dei
servizi
[6].
Alla struttura amministrativa e burocratica spetta,
pertanto, l'attività di 'gestione' che si concretizza
in atti amministrativi, come le determinazioni, con le quali
-ad esempio- si acquistano beni e servizi, anche per motivi
e finalità di protezione civile, atti amministrativi per i
quali i dirigenti sono responsabili.
Alla luce di tali brevi riflessioni e dei principi generali
sopra richiamati, è possibile fornire una risposta ai primi
tre interrogativi formulati dall'Ente. Così, mentre resta
fermo, in capo agli organi di governo del Comune, il compito
di formulare gli indirizzi generali dell'azione dell'ente
(anche in particolare attraverso il bilancio di previsione
che ha natura autorizzatoria), compete ai responsabili degli
uffici, in linea con gli obiettivi individuati dai soggetti
che governano l'amministrazione locale, ogni aspetto
gestionale ed operativo compresa l'adozione degli atti di
spesa e l'incombenza delle gare d'appalto, con i relativi
controlli e con le conseguenti responsabilità.
Così, pare allo scrivente che, se una spesa facente capo al
gruppo dei volontari della protezione civile è in linea con
gli indirizzi generali dell'azione del Comune e trova
copertura autorizzatoria nel relativo capitolo del bilancio
di previsione dell'ente, il necessario controllo da parte
del responsabile dell'ufficio -lungi dal potersi opporre
alla stessa- si limiterà alla regolarità amministrativa
contabile, mentre il responsabile dell'ufficio ragioneria
apporrà il visto di regolarità contabile attestante la
copertura finanziaria ex articoli 151, comma 4, e 153, comma
5, decreto legislativo 267/2000.
Tali indicazioni permettono anche di circoscrivere la
responsabilità degli uffici ai controlli sopra delineati
sulla rispondenza degli atti di gestione agli atti di
indirizzo. L'acquisto di beni e servizi deve, inoltre,
avvenire conformemente alle disposizioni legislative in
materia anche per quanto attiene la scelta del prodotto e
dell'operatore economico al quale rivolgersi (decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 - codice dei contratti
pubblici). La relativa responsabilità ricade sull'ufficio
contratti se istituito ovvero sull'ufficio al quale di volta
in volta fa capo -e che, quindi, gestisce- l'acquisto del
bene o servizio (ad esempio l'ufficio patrimonio).
Per quanto concerne l'utilizzazione di mezzi e macchine di
proprietà comunale, occorre verificare l'esistenza di un
regolamento comunale in materia di uso e gestione dei
veicoli. Risulta, infatti, opportuno disciplinare in sede
regolamentare l'utilizzo (temporaneo e non) delle macchine
comunali da parte di altri soggetti (come ad esempio i
volontari), individuando le modalità generali
-assicurazione, responsabilità- di uso dei mezzi stessi. Il
regolamento deve, poi, rimandare a provvedimenti specifici
(determinazioni di autorizzazione all'utilizzazione dei
veicoli), da emanare da parte del responsabile del servizio
nelle cui competenze rientra la gestione del parco mezzi
dell'ente (ad esempio ufficio patrimonio)
[7].
Per quanto attiene ai profili di responsabilità
nell'utilizzo dei mezzi comunali non conforme alle regole o
da parte di chi non ha i requisiti per l'utilizzo del
veicolo
[8], oltre alla
personale responsabilità del volontario secondo i principi
generali che saranno approfonditi in seguito, si rammenta
che, in base alla previsione dell'articolo 6 del regolamento
comunale di protezione civile, è il coordinatore del gruppo
che sceglie l'attrezzatura e i volontari necessari per
l'intervento. Potrebbe, pertanto, profilarsi anche la
responsabilità del coordinatore nell'ipotesi in cui indichi
e scelga quale volontario per la conduzione di un mezzo
comunale un soggetto privo dei requisiti e delle
indispensabili abilitazioni (culpa in eligendo).
Si affronta ora il quesito la cui trattazione richiede
considerazioni più ampie ed estese, essendo necessario
confrontarsi con i profili attinenti alla responsabilità dei
volontari di protezione civile, nell'ipotesi in cui durante
le attività di questi ultimi si verifichino delle
fattispecie di danno a mezzi, persone e/o cose. Come
richiesto dal soggetto instante, è, infatti, bene esaminare
i principali lineamenti della responsabilità giuridica nella
quale possono incorrere i volontari della protezione civile
nell'esercizio delle loro mansioni. Anche il volontario è,
invero, investito nel corso della sua attività da
responsabilità ed è chiamato a rispondere nell'ipotesi di
violazione -colposa o dolosa- di un obbligo giuridico
[9].
Per quanto attiene ai profili di responsabilità civile, il
volontario potrebbe incorrere in quella forma di
responsabilità denominata extracontrattuale, per la quale
qualunque fatto (doloso o colposo) che cagiona ad altri un
danno ingiusto obbliga colui che lo ha commesso a risarcire
il danno (articolo 2043 c.c.)
[10]. La
responsabilità in cui il volontario può incorrere sarà più
probabilmente di tipo colposo
[11] ovverosia
dovuta a negligenza, imprudenza o imperizia del soggetto
[12].
Nell'ipotesi in cui il singolo volontario -precedentemente
addestrato- provochi dei danni (ad esempio, per errori di
manovra nell'utilizzo dell'attrezzatura in dotazione),
determinati da colpa per non aver seguito le regole
cautelari o di condotta assimilate durante la formazione, si
configura, quindi, un'ipotesi di responsabilità
extracontrattuale a carico del medesimo. Così, nel caso in
cui, per mancato utilizzo di idonee misure cautelari, sia
arrecato un danno a terzi, si appalesa una responsabilità
extracontrattuale gravante sul volontario
[13].
È, ora, doveroso evidenziare che, mentre dal punto di vista
penale, la responsabilità è personale e non può estendersi
in capo al Comune per il quale il volontario ha operato, dal
punto di vista civilistico, potrebbe sussistere anche la
responsabilità dell'ente locale ai sensi dell'articolo 2049
c.c.
[14]. Ed, invero,
l'articolo citato contiene una norma ritenuta applicabile
anche alla pubblica amministrazione
[15].
Per i risvolti che può assumere in relazione all'attività
svolta dal volontario di protezione civile, sembra, dunque,
potersi richiamare quel tipo di responsabilità 'oggettiva',
denominata 'Responsabilità dei padroni e dei committenti',
estensibile a tutte le ipotesi di responsabilità del
preponente per i danni arrecati dal fatto illecito dei
propri preposti e disciplinata dall'articolo 2049 del codice
civile. Per l'articolo ora menzionato, del fatto dannoso
compiuto da un preposto, da un commesso o da un dipendente,
rispondono anche, rispettivamente, il preponente, il
committente, il datore di lavoro, ovverosia coloro che si
sono avvalsi, per l'espletamento di un'opera o di un
servizio, di un altro soggetto, assumendo su di sé il
rischio derivante dall'inserimento di quel lavoratore
nell'ambito della propria organizzazione
[16].
Ai sensi di tale disposizione, a cagione del fatto commesso
dai propri preposti, ne deriverebbe, per l'ente pubblico, il
dovere giuridico di risarcire il danno arrecato al privato,
in violazione del generale precetto -sancito dall'articolo
2043 c.c.- di non recare danno ingiusto a nessuno.
Si rammenta che i volontari della protezione civile operano,
all'interno di una organizzazione/gruppo comunale, a favore
della pubblica amministrazione ed espletano, per questa,
funzioni istituzionali. Ai fini della responsabilità
indiretta prevista dall'articolo 2049 c.c., non è richiesta
l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, mentre è
condizione necessaria e sufficiente la sussistenza di un
incarico di esecuzione di opere/servizi, anche di carattere
occasionale e temporaneo, che importi un vincolo di
dipendenza, vigilanza e sorveglianza tra preponente e
preposto, in relazione alle mansioni a questo affidate
[17]. Ciò che
conta, ai fini del sorgere della responsabilità ex articolo
2049 c.c., è, dunque, la natura subordinata dell'attività
del preposto, la quale deriva non dal carattere precario o
stabile della mansione, né dal fatto che essa sia retribuita
o meno (né dalle modalità di detta retribuzione), ma
dall'inserimento dell'attività stessa nella struttura
organizzativa e funzionale dell'ente che la utilizza
[18].
Si evidenzia, inoltre, che la presunzione di responsabilità,
sancita dall'articolo 2049 c.c., postula un collegamento tra
il fatto dannoso, commesso dal preposto ed il lavoro da
costui disimpegnato. A tal fine, non si richiede un vero e
proprio nesso di causalità, ma è sufficiente un rapporto di
occasionalità necessaria, nel senso che l'incombenza svolta
dal preposto abbia determinato una situazione tale da
agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento
dannoso
[19].
Le regole qui esposte trovano applicazione soltanto se il
danno è cagionato nell'espletamento di funzioni affidate,
non se il volontario agisce in autonomia. Ed, invero, il
preponente può essere esonerato dalla responsabilità del
preposto qualora dimostri che il comportamento di
quest'ultimo e le conseguenze che ne sono dipese presentino
i caratteri dell'abnormità e dell'eccezionalità rispetto
alle funzioni ed alle imposizioni organizzative ricevute o
che questo abbia agito nell'ambito della propria privata
autonomia ed attività. La riferibilità dell'atto alla
pubblica amministrazione (cosiddetta responsabilità per
fatto altrui ex articolo 2049 c.c.) deve, pertanto, essere
esclusa quando l'azione del preposto costituisce un atto
personale del medesimo, posto in essere al di fuori
dell'esplicazione delle funzioni amministrative e per fini
del tutto personali e cioè al di fuori di quelli
istituzionali dell'ente.
Tutti i principi sopra evidenziati valgono anche con
riferimento al volontario della protezione civile. In tal
caso, per il danneggiato, sarà sufficiente provare
l'esistenza di un 'rapporto di subordinazione' tra il
soggetto agente (volontario) e il soggetto ritenuto
formalmente responsabile (Comune), oltre al fatto che il
primo abbia agito nell'ambito delle incombenze cui è adibito
[20]. L'ente
pubblico si assume, pertanto, il rischio dei danni che
possono derivare dall'aver preposto un volontario a svolgere
i propri compiti ed è, quindi, responsabile del danno (anche
se la prestazione è solo occasionale).
Preponente e preposto -nella fattispecie prospettata dal
soggetto instante, rispettivamente, Comune e volontario-
sono chiamati a rispondere in solido nei confronti del terzo
danneggiato: il primo a titolo di responsabilità oggettiva
per fatto altrui ex articolo 2049 c.c. (responsabilità
indiretta); il secondo a titolo di responsabilità per fatto
proprio ex articolo 2043 c.c. (responsabilità diretta). Il
titolo della responsabilità per i due soggetti è, quindi,
diverso. In ogni caso, l'unicità del fatto illecito, dannoso
per i terzi, determina la solidarietà tra i vari soggetti
(nel caso in esame, pubblica amministrazione e volontario)
obbligati verso il danneggiato
[21].
Così, per la giurisprudenza, la sussistenza di specifici
elementi di colpa addebitabili al preposto, autore del
comportamento dannoso e la propagazione della responsabilità
ex articolo 2049 al committente, legittimano il danneggiato
alla domanda di risarcimento del danno nei confronti di
entrambi, restando del tutto indifferente, a tal fine, la
diversa normativa che configura le responsabilità di questi
[22].
Si precisa, infine, che il preponente (Comune), che
risarcisce il danno patito dal terzo, ha azione di regresso
nei confronti del preposto (volontario) che quel danno ha
causato
[23]. Ed, invero,
l'art. 2049 c.c. prospetta una ipotesi di responsabilità
oggettiva per fatto altrui, a garanzia della pretesa
risarcitoria dei terzi danneggiati, salvo l'esercizio
dell'azione di regresso nei confronti dell'autore del danno.
Per quanto attiene, invece, ai profili di responsabilità
penale, si evidenzia il principio fondamentale in materia,
esplicitato nell'articolo 27 della Costituzione: 'La
responsabilità penale è personale'. Non può esistere,
pertanto, una responsabilità penale della pubblica
amministrazione poiché tale forma di responsabilità ha
natura personale, per cui solo gli individui possono esserne
investiti
[24].
---------------
[1] Ad esempio, le spese sostenute per attività
autorizzate dal sindaco a supporto di manifestazioni, spese
di riscaldamento e illuminazione della sede per tempi e modi
individuati dai volontari.
[2] Se l'acquisto sia necessario, quale tipo di prodotto, le
ditte cui rivolgersi.
[3] Letto il regolamento comunale di protezione civile
dell'ente instante, si rammenta che, ai sensi dell'articolo
3 di quest'ultimo, il sindaco è responsabile unico del
gruppo e ai sensi dell'articolo 13 è garante del rispetto e
dell'osservanza del regolamento medesimo.
[4] Anche l'articolo 3 del regolamento comunale di
protezione civile dell'ente instante contempla la nomina, da
parte del sindaco, di un coordinatore -individuato tra i
volontari- al quale compete l'organizzazione e la
responsabilità operativa di tutte le attività svolte dal
gruppo. Ai sensi dell'articolo 6 del citato regolamento,
spetta, così, al coordinatore, su ordine del sindaco, la
scelta dell'attrezzatura e dei volontari da impiegare, al
fine di garantire la tempestività e la idoneità tecnica
degli interventi di protezione civile.
[5] L'articolo dispone: '1. Spetta ai dirigenti la direzione
degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme
dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si
uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo spettano agli organi di
governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri
di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali
e di controllo. 2. Spettano ai dirigenti tutti i compiti,
compresa l'adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l'amministrazione verso
l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o
non rientranti tra le funzioni del segretario ... . 3. Sono
attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli
obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo
adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare,
secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai
regolamenti dell'ente: a) la presidenza delle commissioni di
gara ...; b) la responsabilità delle procedure d'appalto
...; c) la stipulazione dei contratti; d) gli atti di
gestione finanziaria, ivi compresa l'assunzione di impegni
di spesa; ... i ) gli atti ad essi attribuiti dallo statuto
e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal sindaco.
4. Le attribuzioni dei dirigenti ... possono essere derogate
soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative. 5. A decorrere dalla data di entrata in vigore
del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono
agli organi di cui al capo I titolo III (n.d.r.: consiglio,
giunta, sindaco) l'adozione di atti di gestione e di atti o
provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la
relativa competenza spetta ai dirigenti ... . 6. I dirigenti
sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in
relazione agli obiettivi dell'ente, della correttezza
amministrativa, della efficienza e dei risultati della
gestione'.
[6] Si legga L. Alessandrini, 'Ruolo e funzioni del Comune e
del sindaco in protezione civile', DPCinforma (periodico
informativo del Dipartimento della Protezione Civile),
supplemento al n. 32, gennaio 2001.
[7] Si veda, in tal senso, il parere dell'Anci datato
13.02.2008.
[8] Ad esempio, per quanto riguarda la tipologia di patente
necessaria per la conduzione del veicolo, occorre fare
riferimento alla specifica normativa vigente in materia,
contenuta nel codice della strada (decreto legislativo
30.04.1992, n. 285).
[9] Il volontario, come qualunque cittadino, è responsabile
civilmente e penalmente; quindi è tenuto a risarcire il
danno che cagiona ad un terzo durante la sua attività e a
subire anche l'applicazione delle sanzioni previste
dall'ordinamento giuridico penale, qualora la condotta
mantenuta sia rilevante penalmente.
[10] La responsabilità extracontrattuale scaturisce dalla
violazione di norme di condotta che regolano la vita sociale
ed impongono doveri di rispetto degli interessi altrui.
[11] Nell'attività di volontariato, dato il fine di
solidarietà e collaborazione sociale dell'azione prestata,
la responsabilità si configura di norma come colposa, cioè
priva della volontà di creare il danno. Si legga G. Galli 'I
profili di responsabilità giuridica del volontario di
Protezione Civile';
[12] Quale criterio di valutazione del comportamento tenuto
dal volontario, la diligenza è quella dovuta secondo le
circostanze e non la 'diligenza media'. Data l'utilità
collettiva del comportamento, si ritiene socialmente
tollerabile un rischio di danno maggiore, in circostanze
qualificate come possono essere quelle di un intervento di
protezione civile. Si legga ancora G. Galli 'I profili di
responsabilità giuridica del volontario di Protezione
Civile', cit.. La negligenza consiste in un difetto di
attenzione volta alla salvaguardia altrui e rappresenta
l'antitesi tra il comportamento tenuto dal soggetto agente e
le regole universali che indicano quali sono le condotte
diligenti. L'imprudenza consiste nel difetto delle misure di
cautela dirette a prevenire e ad evitare il verificarsi del
danno. Tali norme di cautela possono essere imposte
contrattualmente a chi svolge particolari attività e
l'inosservanza di tali norme è sufficiente a connotare il
carattere colposo del fatto. L'imperizia consiste
nell'inosservanza delle regole tecniche proprie di una
determinata professione; essa può derivare o dalla carenza
di preparazione del soggetto che agisce o dalla carenza di
mezzi tecnici.
[13] Il danneggiato potrebbe adire le vie giudiziarie
instaurando un procedimento civile al fine di ottenere il
ristoro dei danni subiti.
È opportuno, qui, ricordare che, ai sensi della legge
regionale 31.12.1986, n. 64 (Organizzazione delle strutture
ed interventi di competenza regionale in materia di
protezione civile), articolo 10, comma 1, lettera f),
l'amministrazione regionale è autorizzata a sostenere gli
oneri relativi a coperture assicurative, a favore degli
operatori della protezione civile, siano essi dipendenti
degli enti o volontari, per l'ipotesi di infortuni e
malattia e per danni a terzi (responsabilità civile verso
terzi) al fine di manlevare i volontari dal dovere di
risarcire i danni causati a terzi soggetti, laddove essi
abbiano agito nell'ambito dell'espletamento delle mansioni
affidate dal gruppo di appartenenza in attività di
protezione civile (addestramento, esercitazione,
prevenzione, emergenza ...).
[14] L'articolo statuisce: 'I padroni e di committenti sono
responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei
loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a
cui sono adibiti'.
[15] Si legga S. Baggio, 'La responsabilità della struttura
sanitaria', Giuffrè, 2008, 512.
[16] Il principio che sta alla base di tale responsabilità è
quello che mira ad agevolare il danneggiato permettendogli
di ottenere ristoro del danno subito mediante l'immediata
imputazione della responsabilità dell'evento dannoso in capo
al datore di lavoro per il fatto commesso dal dipendente.
[17] Cassazione Civile, sentenza n. 2732/1970.
[18] Cassazione Civile, sentenze 27.07.1998, n. 7336 e
05.05.1980, n. 2957. Per Cassazione Civile, sentenze nn.
15362/2004 e 3616/1988, è sufficiente che le persone siano
inserite, anche se temporaneamente o occasionalmente,
nell'organizzazione aziendale ed abbiano agito, in questo
contesto, per conto e sotto la vigilanza dell'imprenditore.
Si legga ancora S. Baggio, 'La responsabilità della
struttura sanitaria', cit., 527.
[19] Così, Cassazione Civile, sentenze nn. 4951/2002 e
6341/98. È, poi, doveroso segnalare quanto precisato dalla
giurisprudenza di legittimità, la quale, in alcune
occasioni, ha rimarcato come la responsabilità del
preponente ex articolo 2049 c.c. non è esclusa neppure
nell'ipotesi in cui il soggetto della cui attività egli si
sia avvalso abbia operato oltre i limiti delle sue
incombenze o persino trasgredendo gli ordini ricevuti
(Cassazione Civile, sentenza n. 2574/1999) o addirittura
agendo con dolo (Cassazione Civile, sentenza n. 89/2002). Si
scorra, al riguardo anche S. Baggio, 'La responsabilità
della struttura sanitaria', cit., 512.
Ai fini dell'insorgenza della responsabilità di cui
all'articolo 2049 c.c. è sufficiente che il preposto agisca
nell'ambito dell'incarico affidatogli, così da non
configurare una condotta del tutto estranea rispetto al
rapporto con il preponente (Cassazione Civile, sentenze nn.
6506/95 e 14096/01), in modo che il comportamento produttivo
di danno sia comunque tenuto per finalità coerenti con
quelle in vista delle quali le mansioni gli furono affidate
e non per finalità proprie alle quali il committente non
sia, neppure, mediatamente interessato o compartecipe (così,
Cassazione Civile, sentenza n. 12417/98). Si scorrano anche
Cassazione Civile, sez. lav., sentenza del 03.04.1991, n.
3442, nonché Cassazione Civile, sentenze nn. 2734/94,
7760/1992 e 4927/1988.
[20] Come già evidenziato, la giurisprudenza ha, al
riguardo, in particolare, chiarito che tale rapporto potrà
consistere anche in un vincolo di mera occasionalità tra il
committente e colui che esegue l'incarico. 'La
responsabilità del committente per fatto proprio
dell'ausiliario di cui all'articolo 2049 c.c. sussiste non
solo in presenza di un rapporto contrattuale ma anche in
presenza di un rapporto effettuale che leghi due soggetti,
dei quali uno esplichi, in posizione di subordinazione,
un'attività per conto dell'altro, il quale conservi un
potere di direzione e sorveglianza sulla condotta del
primo'. Così, Cassazione Civile, sentenza del 09.08.1991, n.
8668. È la possibilità di controllare l'operato del soggetto
che determina la posizione di determinazione e, quindi, la
responsabilità ex articolo 2049 c.c.
[21] Si veda Cassazione Civile, sentenza n. 1343/1972.
[22] Cassazione Civile, sez. III, sentenza 06.01.1983, n.
75.
[23] Si veda Tribunale penale di Milano, sez. I, sentenza 19
dicembre 2005. In dottrina, si legga M. Rodolfi, 'La
responsabilità civile', Il Giudice di Pace Quaderni, Ipsoa,
2007, n. 9.
[24] È, inoltre, sempre personale anche la responsabilità
connessa a una violazione amministrativa (ad esempio, per
infrazione al codice della strada commessa con mezzi
comunali - violazioni per eccesso di velocità, per
attraversamento di incrocio con semaforo rosso, per divieto
di sosta, eccetera). Si veda il parere Anci datato 09.01.2006
(29.12.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI
LOCALI:
Concessione di contributi e vantaggi economici
all'associazionismo locale.
La disciplina della concessione di
contributi e di vantaggi economici, ai sensi dell'art. 12
della L. 241/1990, ricade nell'ambito dell'autonomia
regolamentare del comune, al quale spetta l'interpretazione
del proprio regolamento nonché, eventualmente, stabilire,
con disposizione espressa, il divieto di cumulo di
provvidenze diverse. In assenza di una tale previsione la
cumulabilità dovrebbe ritenersi consentita.
Il Comune, dopo aver premesso che il proprio regolamento per
la concessione di contributi, vantaggi economici, patrocinio
e premi di rappresentanza -distintamente disciplinati-
contempla, tra le tipologie di vantaggio economico, tariffe
agevolate
[1] o ridotte
[2] per l'uso di
immobili comunali, chiede di conoscere se un'associazione
locale, che già fruisca di tale beneficio nello svolgimento
di una determinata attività, possa presentare domanda di
contributo per la realizzazione della medesima iniziativa
ed, in ipotesi positiva, se risulti ammissibile 'concedere
il contributo ammettendo qualsiasi pezza giustificativa
della spesa sostenuta oppure concedere il contributo
richiedendo espressamente la documentazione di spese diverse
dal pagamento parziale della concessione di utilizzo del
bene per il quale si è già avuto il vantaggio economico'.
Sentito il Servizio finanza locale si formulano le seguenti
considerazioni.
Anzitutto, si rileva che sulla problematica oggetto di
quesito non si rinvengono indicazioni normative o
interpretative, né pronunce giurisprudenziali.
Si segnala poi, in termini generali, che l'argomento in
esame ricade nell'ambito dell'autonomia regolamentare del
Comune, al quale spetta l'interpretazione del proprio
regolamento vigente nonché, eventualmente, stabilire, con
disposizione espressa, il divieto di cumulo delle due
provvidenze. In assenza di una tale previsione la
cumulabilità dovrebbe ritenersi consentita.
Quanto alla specifica fattispecie, si osserva che l'attuale
regolamento comunale disciplina separatamente i contributi
(Capo I: artt. 5-15) e i vantaggi economici (Capo II: artt.
16-17). In tale contesto non sembra rinvenirsi alcuna
disposizione che possa apparire ostativa al cumulo dei due
benefici.
Ciò posto - ferma restando la piena discrezionalità del
Comune nel sancire, in via regolamentare, un divieto di
cumulo o prevedere l'estromissione, dalle spese ammissibili
a contributo, di quanto pagato a titolo di tariffa
agevolata/ridotta - si ritiene di poter segnalare che
l'ammissibilità a contributo della spesa per l'uso di
immobili comunali rimasta effettivamente a carico
dell'associazione sembrerebbe potersi ritenere coerente con
la previsione dell'art. 10 del regolamento, il quale
stabilisce che l'Amministrazione comunale può concedere
contributi «a copertura» degli oneri relativi, tra gli
altri, alle spese per «[...] conduzione dei locali sede
dell'iniziativa» e per «l'affitto e noleggio locali».
Quanto al quesito concernente la dimostrazione della spesa
sostenuta dall'associa-zione, la disciplina sembra potersi
rinvenire nell'art. 13, secondo comma, del regolamento, il
quale dispone che, in sede di rendicontazione, i soggetti
beneficiari dei contributi devono produrre una sintetica
relazione sull'avvenuto svolgimento della manifestazione o
dell'iniziativa, «corredata dall'elenco analitico dei
giustificativi di spesa (fatture, notule, ricevute, ecc.),
indicando anche eventuali entrate proprie, contributi
pubblici, privati e sponsorizzazioni ottenuti per la stessa,
la cui sommatoria, aggiunta al contributo comunale erogato,
non deve complessivamente superare l'ammontare dei costi
rimasti effettivamente a carico del beneficiario».
L'art. 15, primo comma, lett. c), dello stesso regolamento
prevede, infatti, che «Comporta la revoca del contributo
concesso e, ove questo sia già stato liquidato, la
restituzione del medesimo: [...] c) il saldo attivo
dell'iniziativa o attività derivante dal contributo concesso
rispetto ai costi sostenuti dal beneficiario, per la parte
concorrente al saldo».
---------------
[1] Previste in favore di enti ed associazioni privi di
scopo di lucro.
[2] Contemplate per le associazioni iscritte all'Albo
comunale dell'associazionismo
(23.12.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Mud 2015, operazione restyling. Più informazioni
sui rifiuti da comunicare entro il 30/4.
Il Dpcm 17.12.2014 detta le istruzioni per la nuova
dichiarazione verde.
Descrizione più analitica su stato
fisico e destinazione finale dei rifiuti.
Questa una delle novità formali previste dal Dpcm 17.12.2014
recante la nuova modulistica per la dichiarazione ambientale
«Mud» da effettuare entro il prossimo 30.04.2015 alle
competenti Camere di commercio in relazione ai residui
prodotti o gestiti nell'anno precedente.
Dal punto di vista dei soggetti obbligati e delle categorie
dei materiali da dichiarare il nuovo Dpcm (adottato in
attuazione della legge 70/1994, istitutiva del «740 verde»,
e pubblicato sul Supplemento ordinario n. 97 alla G.U. del
27/12/2014 n. 299) conferma invece quanto già previsto per
la comunicazione dello scorso anno, limitandosi a recepire
alcuni mutamenti normativi come l'avvicendarsi, in tema di «Raee»,
del nuovo dlgs 49/2014 al pregresso dlgs 151/2005 e la
sospensione della piena operatività del Sistri che ha
interessato l'intero 2014.
Cosa comunicare.
Il Dpcm 17.12.2014 conferma innanzitutto le sei categorie di
beni oggetto di comunicazione: «rifiuti», «veicoli fuori
uso», «imballaggi», «Raee», «rifiuti urbani», «Aee». La
modulistica da compilare in relazione alla «comunicazione
rifiuti» impone però di fornire alla p.a. maggiori
informazioni rispetto a quelle richieste dal pregresso Dpcm
12.12.2013 (relativo al «Mud» 2014), prevedendo una più
articolata descrizione dello «stato fisico» dei rifiuti
prodotti o gestiti (con la comparsa della nuova e aggiuntiva
voce «vischioso e sciropposo») e una duplice declinazione
dei quantitativi dei rifiuti ancora in giacenza presso
l'azienda (da dichiarare separatamente in base alla
destinazione finale: recupero o smaltimento).
Permane la «Scheda materiali» già prevista dal Dpcm
12.12.2013 per dichiarare le eventuali quantità di
«materiali secondari» generati ex articolo 184-ter del dlgs
152/2006, quali beni che hanno cessato di essere rifiuti
all'esito delle procedure tecniche e burocratiche di
recupero previste dalle regole sull'end of waste.
Chi è obbligato alla dichiarazione.
Obbligati alla «comunicazione rifiuti» sono i produttori e i
gestori di rifiuti individuati dagli articoli 189 (nella sua
versione 2pre Sistri», ossia precedente alle modifiche
introdotte dal dlgs 205/2010) e 220 del dlgs 152/2006 (salvo
l'obbligo di effettuare, per quanto di competenza, anche la
diversa «comunicazione imballaggi»), nonché i gestori di
rifiuti portuali individuati dall'articolo 4, comma 6 del
dlgs 182/2003. Obbligati alla «comunicazione veicoli fuori
uso» sono invece i soggetti che gestiscono i rifiuti di
categoria individuati dal dlgs 209/2003 (mentre quelli
rientranti nel dlgs 152/2006, seppur analoghi, vanno
dichiarati nella citata «comunicazione rifiuti»).
La «comunicazione imballaggi» continua a interessare
Consorzi e gestori di impianti di rifiuti di imballaggio
individuati dall'articolo 220 e seguenti dello stesso
«Codice ambientale». La platea dei soggetti interessati alle
comunicazioni «Raee» (rifiuti di apparecchiature elettriche
ed elettroniche) e «Aee» (apparecchiature elettriche ed
elettroniche) sono invece quelli rispettivamente previsti
dagli articoli 19, comma 6 e 29, comma 6, del nuovo dlgs
49/2014, il provvedimento che dal 12.04.2014 ha sostituito
quasi integralmente il pregresso dlgs 151/2005. La
comunicazione «Rifiuti urbani, assimilati e raccolti in
convenzione» resta appannaggio dei soggetti istituzionali
responsabili dei servizi di gestione integrata rifiuti, che
devono ivi comunicare anche i Raee raccolti tramite gli
appositi «centri».
Termini e modalità della comunicazione.
La deadline per la presentazione è, come accennato, quella
del 30 aprile 2015. Sostanzialmente invariate rispetto allo
scorso anno sono anche modalità di compilazione del modello
e di presentazione della dichiarazione.
La compilazione dovrà essere effettuata su supporto
informatico secondo le istruzioni del Dpcm 17.12.2014, con
la possibilità per i piccoli produttori iniziali di rifiuti
(non più di sette tipologie di rifiuti per unità locale, con
utilizzo fino a 3 trasportatori e fino a 3 destinatari
finali) di scegliere una modalità «semplificata» che prevede
l'utilizzo di modulistica cartacea.
Parallelamente, la presentazione della dichiarazione alle
camere di commercio territorialmente competenti dovrà essere
fatta entro il citato termine per via telematica nel primo
caso, tramite inoltro della modulistica cartacea nel secondo
caso.
Mud e Sistri.
La dichiarazione «Mud» interesserà nel 2015 come nel 2016
anche i produttori e gestori dei rifiuti che operano in
Sistri. In relazione al 2015 l'obbligo scaturisce dal dl
101/2013, provvedimento che ha sospeso per l'anno 2014 tutte
le sanzioni relative alle violazioni degli obblighi di
tracciamento telematico dei rifiuti, imponendo però ai
soggetti interessati di tenere (dietro minaccia delle
relative pene) le tradizionali scritture ambientali
(registri di carico/scarico, formulario di trasporto,
dichiarazione ambientale).
In relazione al 2016, l'obbligo deriva invece dal dl
192/2014 (c.d. «Milleproroghe», pubblicato sulla G.U. del
31.12.2014, n. 302, dunque successivamente al Dpcm
17.12.2014) che impone agli «operatori Sistri» di continuare
a effettuare il tracciamento tradizionale dei rifiuti
(dunque, «Mud» compreso) anche per tutto il 2015, questa
volta sospendendo però (lo ricordiamo) fino al 31 dicembre
dell'anno in corso solo le sanzioni relative alle violazioni
delle regole operative del tracciamento telematico (tenuta
delle schede informatiche, radio controllo del trasporto
rifiuti, videosorveglianza discariche) e prevedendo invece
la sanzionabilità dal 01.02.2015 dell'omessa iscrizione al
nuovo Sistema telematico e del mancato pagamento del
relativo contributo anno (si veda ItaliaOggi Sette del
05/01/2015) (articolo
ItaliaOggi Sette del 12.01.2015). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Acquisti, incognita risorse per le «alleanze» fra
enti. Consip e centrali regionali non soddisfano tutti i
bisogni. Comuni non capoluogo. Le strade per acquisire il
codice identificativo della gara.
Negli acquisti di
beni e servizi, dal 1° gennaio i Comuni non capoluogo
possono ottenere il codice identificativo gara dall’Anac
solo se dichiarano che stanno operando nel rispetto delle
nuove disposizioni sulle centrali di committenza. Questi
Comuni devono effettuare i loro acquisti facendo riferimento
alle soluzioni previste dall’articolo 33, comma 3-bis del
Codice dei contratti, e dal 1° luglio dovranno attenersi a
questi moduli anche per l’affidamento degli appalti di
lavori.
L’Anac ha recepito l’obbligo normativo e dall’inizio
dell’anno ha inserito nella procedura per l’acquisizione del
Cig una schermata specifica, nella quale il Rup deve rendere
una dichiarazione sostitutiva sul fatto che sta operando
secondo uno dei moduli di acquisizione previsti dalla
disposizione del Codice riformulata dalla legge 89/2014.
Questa dichiarazione è correlata all’obbligo, per
l’Autorità, di non concedere il Cig ai Comuni non capoluogo
che operino singolarmente.
Il nuovo quadro presenta ancora numerose criticità. Il primo
modello individuato dalla norma, quello delle Unioni di
comuni, ha una diffusione molto disomogenea e solo in pochi
casi è stato individuato anche come soggetto a cui affidare
la gestione delle procedure. Se l’Unione esiste, i Comuni
aderenti devono farvi ricorso come centrale di committenza.
Il novero dei soggetti aggregatori non è ancora definito,
pertanto per gli enti è possibile prendere in considerazione
su questo versante solo la Consip e le centrali di
committenza regionali (soggetti per i quali il Dpcm
attuativo dell’articolo 9, comma 2, della legge 89/2014
prevede l’iscrizione obbligatoria nell’elenco). Peraltro la
Consip e le centrali regionali non soddisfano tutti i
potenziali fabbisogni delle amministrazioni, per cui queste
devono fare ricorso ad una delle altre soluzioni indicate
nella norma. In questa prospettiva l’accordo con altri
Comuni non capoluogo si presenta come il modello più
facilmente gestibile, dato che in molte province non sono
ancora state attivate le stazioni uniche appaltanti (Sua).
L’impostazione delle convenzioni (in base all’articolo 30
del Tuel) presenta però vari problemi: dalla scelta tra la
costituzione di un ufficio comune e l’individuazione di un
ente capofila (al quale delegare lo svolgimento delle
procedure), all’individuazione delle risorse umane che per
ciascun Comune opereranno presso il nuovo soggetto.
Per i singoli enti ci sono ancora molte difficoltà
interpretative sulla gestione dei lavori di urgenza e di
estrema urgenza, previsti dagli articoli 175 e 176 del Dpr
207/2010, in quanto difficilmente riconducibili alle
mini-centrali di committenza proprio per i loro presupposti
(che possono comportare l’affidamento direttamente da parte
del tecnico comunale che interviene sul posto).
Le amministrazioni devono invece riportare senza alcun
dubbio al modello di acquisizione prescelto le procedure di
acquisto di beni o servizi con ricorso a cooperative sociali
di tipo B, e quelle di affidamento di attività ad
associazioni sportive e organismi di volontariato, quando
queste comportino l’acquisizione del Cig e non possano
rientrare nelle soluzioni derogatorie previste dalla
normativa (Mepa, piattaforme elettroniche, affidamenti
tradizionali entro 40mila euro).
Per aiutare le amministrazioni ad affrontare tali
problematiche, l’Anci sta predisponendo una guida con
modelli e schemi di atti, che verrà resa disponibile a breve (articolo
Il Sole 24 Ore del 12.01.2015). |
ENTI LOCALI:
Per le gestioni associate convenzioni più
flessibili. Piccoli enti. Unico vincolo la durata triennale.
Le gestioni associate delle funzioni
fondamentali devono essere definite e attivate dai Comuni
fino a 5mila abitanti.
Il Dl 192/2014 non prevede al momento proroghe ulteriori, e
gli enti che non l’abbiano ancora fatto devono individuare
il modulo organizzativo per tutte le funzioni fondamentali e
attivarlo. Tra novembre e dicembre molti Prefetti hanno
inviato ai Comuni interessati e ancora inadempienti lettere
di diffida, indicando nella prima metà di gennaio il termine
per far pervenire una comunicazione riassuntiva degli atti
adottati.
Per operare, pur in tempi così stretti, i Comuni possono
scegliere tra l’Unione (articolo 32 del Tuel), potendo
aderire solo a una, e quello più flessibile delle
convenzioni (articolo 30), per le quali è prevista una
durata almeno triennale.
Per le Unioni la normativa prevede anche un dimensionamento
minimo, stabilito in 10mila abitanti, salvo diversa scelta
regionale. I Comuni possono invece stipulare più
convenzioni, non avendo, al di là del dato temporale,
ulteriori limiti particolari (nemmeno in ordine al
dimensionamento minimo).
La scelta della soluzione più idonea si riflette anche
sull’esercizio in forma associata di molti servizi, tra i
quali i servizi sociali, il trasporto pubblico e la gestione
dei rifiuti.
Nella prospettiva di organizzazione di area vasta, i Comuni
devono procedere entro il 28 febbraio all’adesione agli enti
di governo degli ambiti e dei bacini territoriali ottimali
individuati dalle Regioni per i servizi pubblici locali a
rete (con rilevanza economica), secondo quanto previsto
dalla legge di stabilità 2015 (comma 609).
Se le regioni non hanno ancora istituito o designato l’ente
di governo dell’Ato, il termine è stabilito in 60 giorni dal
momento in cui l’organismo sarà individuato. La mancata
adesione comporta la diffida e, in caso di ulteriore
inadempienza dopo 30 giorni, l’esercizio del potere
sostitutivo da parte del presidente della Regione.
Il quadro normativo rafforzato dalle disposizioni della
legge di stabilità impedisce ai singoli Comuni di affidare
servizi pubblici locali a rete e con rilevanza economica,
qualora sia stato già costituito l’ente di governo (come nel
caso dell’Emilia-Romagna con l’agenzia Atersir o del Veneto
con i consigli di bacino)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 12.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti
a contratto, assunzioni bloccate.
Gli enti locali non potranno assumere dirigenti a contratto,
ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2001, in
combinazione con l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001.
È l'effetto del congelamento biennale delle assunzioni, per
gli anni 2015 e 2016, imposto dall'articolo 1, comma 424,
della legge 190/2014.
Nonostante la norma sia espressamente riferita solo al
divieto di effettuare assunzioni a tempo indeterminato, se
non per i vincitori dei concorsi inseriti in graduatorie
vigenti o approvate al 31/12/2014 o per i dipendenti delle
province in sovrannumero, i suoi effetti si estendono anche
alle assunzioni dei dirigenti a contratto.
Soccorre allo scopo la sia pure poco persuasiva
deliberazione della sezione autonomie della Corte dei conti
12.06.2012. In risposta al quesito se la spesa per le
assunzioni dei dirigenti a tempo determinato ex articolo 110
del dlgs 267/2000 rientrasse o meno nei vincoli stabiliti
dall'articolo 9, comma 28, del dl 70/2010 e, dunque, nel 50%
della spesa sostenuta per lavoro flessibile nel 2009, la
sezione ha ritenuto che le assunzioni di dirigenti a
contratto fossero sottratte a detto vincolo.
Secondo la sezione, i primi due periodi dell'articolo 19,
comma 6-quater, del dlgs 165/2001 vigente prima della
modifica operata col dl 90/2014 «sottraggono gli
incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato,
conferibili dagli enti locali ex art. 110, comma 1 del Tuel,
ai vincoli assunzionali previsti dall'articolo 9, comma 28,
del dl 78/2010 nonché al vincolo assunzionale, già previsto
dall'art. 76, comma 7, primo periodo, seconda parte (entro
il limite del 40% della spesa per cessazioni dell'anno
precedente)».
La sezione autonomie ha ritenuto, sulla base
dell'interpretazione letterale del testo allora vigente
dell'articolo 19, comma 6-quater, emergesse l'intento del
legislatore di sottoporre il conferimento degli incarichi
dirigenziali a tempo determinato ex articolo 110, comma 1, «ai
soli vincoli di spesa e assunzionali ai quali è soggetto
l'ente per il tempo indeterminato. Ciò, al fine di
svincolare l'amministrazione territoriale da ulteriori
restrizioni assunzionali riservate a determinate categorie
di personale, occupandosi quindi di bilanciare gli effetti
occupazionali conseguenti alla disciplina di contenimento
degli incarichi dirigenziali a contratto con quella per il
lavoro a tempo indeterminato e non anche con quella che
regola i rapporti di lavoro a tempo determinato o flessibile».
In sostanza, la Corte dei conti considera che poiché
l'articolo 110, comma 1, del Tuel consente assunzioni a
tempo determinato di dirigenti ma su fabbisogni stabili
della dotazione organica, unica ipotesi ammessa, dunque, di
contratti flessibili come alternativa a quelli a tempo
indeterminato, detti contratti debbano rispettare non il
tetto di spesa al lavoro flessibile, bensì i tetti di spesa
per il turnover dei dipendenti a tempo indeterminato.
In effetti, al di là del supporto ermeneutico fornito dalla
magistratura contabile, se un ente locale decidesse nel
biennio 2015-2016 di coprire, sia pure solo a tempo
determinato, un posto della dotazione organica dirigenziale
«consumando» così la spesa del turnover a propria
disposizione, impedirebbe a dirigenti delle province o
vincitori di concorsi per qualifica dirigenziale aventi i
requisiti stabiliti dalla legge 190/2014 di essere
ricollocati o ottenere la immissione in servizio.
Dunque, il ricorso alle assunzioni di dirigenti a contratto
vanificherebbe la ricollocazione dei circa 750 dirigenti
provinciali che si troveranno in sovrannumero da qui al 31
marzo prossimo, in attuazione della legge di Stabilità 2015.
Conseguentemente, le assunzioni di dirigenti a chiamata
dovranno considerarsi nulle (articolo ItaliaOggi del
10.01.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Riparazione pecuniaria per delitti contro la p.a..
In aggiunta al risarcimento danni.
Arriva la riparazione pecuniaria per i
delitti contro la pubblica amministrazione. Oltre al
risarcimento del danno, i soggetti condannati saranno tenuti
all'integrale restituzione, alla p.a. stessa, dell'ammontare
di quanto indebitamente ottenuto. Non solo. Al pubblico
ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio sarà
concesso di fare richiesta per lo sconto o la conversione
delle pena solo nel caso in cui abbiano integralmente
restituito il prezzo o il profitto del reato.
Queste alcune delle misure contenute nel ddl 19 (voto di
scambio, falso in bilancio) al vaglio della commissione
giustizia del senato a cui il governo, nella tarda serata di
mercoledì, ha presentato alcune proposte di modifica con
l'obiettivo di trasporre nel testo il contenuto del ddl
anticorruzione varato nel corso del Consiglio dei ministri
del 12 dicembre scorso (si veda ItaliaOggi di ieri).
Un pacchetto di misure, quello che sta prendendo forma
all'interno del ddl 19, suddiviso in tre comparti normativi:
anticorruzione, reati economici e antimafia. Il testo, però,
resta suscettibile di modifiche. E stata, infatti, fissata
il 19 gennaio la scadenza per la presentazione dei
subemendamenti alle proposte di modifica del governo. E,
proprio in sede di votazione degli emendamenti (compresi
quelli giacenti in commissione da giugno scorso) la
commissione, di concerto con l'esecutivo, dovrà decidere se
mantenere due testi separati (anticorruzione e reati
economici da una parte e norme antimafia dall'altra) o se
far confluire tutto all'interno del ddl 19 così come
suggerito dall'esecutivo nel corso della riunione della
commissione di mercoledì sera.
Da un punto di vista normativo, però, l'impianto più solido
(le modifiche proposte sono, infatti, solo in aggiunta e non
di modifica) sembra essere quello del contrasto alla
corruzione. E la a strada scelta è quella dell'inasprimento
delle pene sia sul fronte della reclusione sia sul fronte
economico.
Per quanto attiene la reclusione sono aumentate da 8 a 10
anni e da 3 a 5 anni tutte le pene edittali previste per i
reati contro la p.a. Sul fronte pecuniario, invece, il ddl
19 prevede l'introduzione dell'art. 322-quater del codice
penale rubricato riparazione pecuniaria. In base al nuovo
disposto della norma i pubblici ufficiali o gli incaricati
di pubblico servizio condannati per uno dei reati contro la
p.a. oltre al risarcimento del danno saranno tenuti alla
restituzione in termini monetari, verso l'amministrazione di
riferimento, di quanto indebitamente ricevuto.
A ciò si aggiunge la modifica voluta dall'esecutivo, in base
alla quale gli stessi soggetti per chiedere uno sconto o la
conversione della pena in base all'art. 444 cpp., dovranno
restituire integralmente il prezzo o il profitto del reato.
Infine, sempre in base a una proposta del governo, è
stabilito che quando il pm esercita l'azione penale
relativamente a reati contro la p.a. è tenuto a informare il
presidente dell'Anac dando notizia delle imputazione (articolo
ItaliaOggi del 09.01.2015). |
ENTI LOCALI: Anagrafe
centralizzata. In Gazzetta il Dpcm
con le regole per il passaggio del testimone.
L'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr)
subentrerà gradualmente alle anagrafi tenute dai comuni.
Nell'Anpr saranno contenuti i dati del cittadino, della
famiglia anagrafica e della convivenza, i dati dei cittadini
italiani residenti all'estero, nonché il domicilio digitale,
di cui all'articolo 3-bis, del dlgs 07.03.2005, n. 82.
Lo prevede il decreto del presidente del consiglio dei
ministri 10.11.2014, n. 194, intitolato «Regolamento
recante modalità di attuazione e di funzionamento
dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) e
di definizione del piano per il graduale subentro dell'Anpr
alle anagrafi della popolazione residente», che è stato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 5 di ieri e in
vigore dal 23 gennaio prossimo.
Diverse le prescrizioni previste per la nuova Anagrafe.
Essa, ad esempio, conserva le variazioni anagrafiche e i
dati relativi alle situazioni anagrafiche pregresse e, in
una distinta sezione, le schede anagrafiche relative alle
persone cancellate.
Il cittadino registrato nell'Anagrafe nazionale della
popolazione residente potrà esercitare il diritto di accesso
ai propri dati personali presso gli uffici anagrafici, anche
consolari, ovvero tramite sito web dell'Anpr, in modalità
diretta e sicura, e previa identificazione informatica e
trasmissione dei dati in modalità protetta.
La durata delle procedure di subentro per ogni comune è dal
decreto 194 del 2014 stimata in due settimane, di cui la
prima è dedicata agli invii e la seconda al completamento
delle elaborazioni (articolo ItaliaOggi del 09.01.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Prestazioni
senza vincoli.
Nota del Centro studi degli
ingegneri.
Prestazioni occasionali senza limiti di tempo e compenso e
senza obbligo di partita Iva per i professionisti iscritti
agli albi.
Lo afferma il centro studi del Consiglio nazionale degli
ingegneri, attraverso la pubblicazione di un documento dal
titolo «Professionisti iscritti ad albi e prestazioni
occasionali».
La nota, infatti, offre una serie di chiarimenti sulla
possibilità, per i professionisti, di svolgere prestazioni
occasionali in concomitanza con un rapporto di lavoro
dipendente. Secondo l'analisi svolta dal centro studi del
Cni, non sussiste il limite temporale entro cui effettuare
la prestazione, il limite del compenso e l'obbligo della
partita Iva previsto dalla legge. Questo perché si
tratterebbe di una eccezione «espressamente indicata
dalla normativa che regola il lavoro occasionale».
Sulla base di quanto stabilito dalla normativa vigente (in
particolare il dlgs 276/2003, art. 61), si legge nella nota
diffusa dal centro studi del Cni, la «collaborazione
occasionale» non deve avere durata superiore a 30 giorni
e deve prevedere un compenso entro 5.000 euro. La stessa
normativa chiarisce, però, che «i limiti imposti allo
svolgimento della collaborazione occasionale, predisposti
per evitare un abuso di tale forma contrattuale, vengono
meno per i professionisti iscritti ad un albo professionale,
poiché il rischio di abuso in questo caso non sussiste».
Il centro studi Cni, inoltre, sottolinea come «l'iscrizione
ad un albo professionale non sia da considerarsi come
elemento sufficiente a configurare la professione abituale
di un'attività, assoggettabile quindi a regime Iva e non
sottoponibile a regime di collaborazione occasionale».
Di conseguenza, l'iscritto all'albo che non esercita
attività di lavoro autonomo «potrà effettuare attività di
lavoro occasionale (cioè un lavoro svolto in proprio, senza
vincolo di subordinazione con il committente) senza i limiti
di tempo e di remunerazione imposti dalla normativa, oltre
che senza disporre di partita Iva».
Resta fermo il principio, conclude il centro studi, che per
lo svolgimento di lavoro occasionale con compensi superiori
a 5.000 euro, i professionisti dovranno iscriversi alla
gestione separata Inps (articolo
ItaliaOggi del 09.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: P.a.,
procedimenti più veloci. Rappresentante statale unico in
conferenza di servizi.
Ripartono al senato i lavori sulla delega. Il
relatore: sui licenziamenti le norme ci sono già.
Niente più traccheggiamenti in
Conferenza di servizi. Vi parteciperà un unico
rappresentante delle amministrazioni statali, designato
dagli Uffici territoriali dello stato che sostituiranno le
attuali prefetture e svolgeranno il ruolo di raccordo con i
cittadini. Le amministrazioni che non partecipano alla
conferenza di servizi, o non rilasciano il parere nei
termini, non potranno agire in autotutela, e quindi revocare
o annullare d'ufficio il provvedimento.
La nuova conferenza di servizi deciderà a maggioranza per
«assicurare la celerità dei lavori». Spetterà al decreto
legislativo di riordino disciplinare il calcolo delle
presenze e dei quorum necessari per evitare che i
procedimenti amministrativi rimangano incagliati in attesa
di un nulla osta. E per garantire ai cittadini e alle
imprese il diritto di accedere a documenti, dati e servizi
della p.a. in modalità digitale, verranno definiti i livelli
qualitativi minimi dei servizi online che le p.a. dovranno
garantire. Chi non si adeguerà agli standard verrà
sanzionato, mentre saranno previsti incentivi per le
amministrazioni virtuose. Tutti gli uffici pubblici, infine,
dovranno essere dotati di connettività a banda larga e
dovranno garantire l'accesso ad internet.
Ripartono da qui, con il pacchetto di emendamenti presentati
ieri dal relatore Giorgio Pagliari (Pd), i lavori del
disegno di legge delega sulla riforma della p.a. che entrerà
nel vivo la prossima settimana in commissione affari
costituzionali del senato. Il termine per la presentazione
degli emendamenti è fissato per giovedì prossimo alle 13 e
c'è grande attesa per le modifiche che governo e relatore
decideranno di introdurre alle norme in materia di
personale. All'interno delle quali però sembra escluso che
possano trovare posto nuove regole sui licenziamenti nel
pubblico impiego (alla luce dell'approvazione del nuovo jobs
act).
Secondo Pagliari, la delega non è la sede adatta per riforme
di questo tipo. «Occorre dare maggiore puntualità,
laddove necessario, alla disciplina dei doveri dei
dipendenti pubblici, ma in una logica di equilibrio senza
passare a un giustizialismo privo di senso», ha
osservato. «La delega non è la riforma della pubblica
amministrazione», ha dichiarato a ItaliaOggi, «e
anche qualora lo fosse, non si può far partire una riforma
dalla disciplina del licenziamento, ossia dalla patologia
del rapporto di lavoro. Una patologia che può dipendere da
diversi fattori, individuali, certo, ma anche di sistema».
«Io credo che la disciplina in materia di licenziamenti
sia completa», ha aggiunto, «il problema è di
valutare i termini della concreta attuazione delle norme e
individuare i modi per renderle più efficaci».
Il relatore ha confermato la volontà del governo di andare
avanti sul ruolo unico della dirigenza pubblica previsto
dall'articolo 10 della delega che dunque non dovrebbe subire
sconvolgimenti nel suo impianto generale. Novità potrebbero
invece arrivare in materia di segretari comunali che la
delega punta a eliminare e a far confluire in un'apposita
sezione a esaurimento del ruolo dei dirigenti degli enti
locali.
Mentre sulla grana dell'esercito di idonei (84 mila secondo
i dati ufficiali della Funzione pubblica, più del doppio
secondo fonti ufficiose) messi in stand by senza alcuna
possibilità di assunzione nel prossimo biennio a causa della
necessità di ricollocare i 20 mila esuberi delle province
(si veda ItaliaOggi del 03/01/2015), Pagliari ha escluso che
la delega possa essere la sede giusta. «È un problema
reale che coinvolge migliaia di persone, ma affrontarlo in
una delega significherebbe tentare di risolverlo con armi
spuntate» (articolo
ItaliaOggi del 09.01.201). |
APPALTI: Cantone
(Anac): negli appalti albo unico dei commissari di gara.
Istituire un albo nazionale dei commissari di gara per
limitare la discrezionalità delle stazioni appaltanti;
vietare le deroghe al codice appalti, rafforzare i controlli
e premiare l'affidabilità delle imprese che consegnano i
lavori in tempo e non chiedono riserve o varianti.
Sono queste alcune delle indicazioni fornite dal presidente
dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone,
nel suo intervento di ieri presso la commissione lavori
pubblici del senato.
Cantone ha messo l'accento sulla necessità di ridurre la
discrezionalità delle stazioni appaltanti e ha citato
l'esperienza di Expo 2015 dove «tutti gli appalti oggetto
dell'inchiesta sono stati affidati con l'offerta più
vantaggiosa», un meccanismo più discrezionale del prezzo
più basso. La soluzione per evitare la discrezionalità delle
stazioni appaltanti passa, ad avviso del presidente Anac,
per l'istituzione di «un albo nazionale dei commissari di
gara, ben controllato»; sarebbe un meccanismo per
provare a rendere meno permeabile a fenomeni distorsivi la
fase di scelta dell'appaltatore.
Sul nuovo codice che recepirà le direttive europee sugli
appalti Cantone ritiene che debba essere molto snello, con
poche regole di carattere generale e per il resto si debba
puntare sulla cosiddetta soft regulation, cioè sulle
linee guida e sui bandi-tipo dall'Anac, cui dovrebbe però
accompagnarsi un rafforzamento dei poteri sanzionatori per
chi non si adegua. Sui meccanismi derogatori, utilizzati
nelle emergenze e nei grandi eventi, Cantone è stato netto:
«non c'e' grande opera che non preveda una deroga e il
nuovo codice le dovrà impedire, oppure dovrà prevedere un
regolamento a monte».
Secondo Cantone, infine, bisogna qualificare l'offerta
mettendo in atto un sistema premiante per le imprese, non
più attraverso un controllo esclusivamente formale ma
attraverso «un meccanismo che tenga conto dei
comportamenti tenuti dalle imprese vincitrici di un appalto
in precedenti appalti: quindi puntualità nei lavori, il
fatto che abbiano fatto il meno possibile ricorso ai premi
di accelerazione eccetera. Insomma una serie di indici
accanto a quelli tradizionali che non possono essere solo
quelli del certificati penali o dei carichi pendenti. Serve
un sistema nuovo che richieda qualcosa in più» (articolo
ItaliaOggi del 09.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Nelle
unioni di comuni non c'è un tetto al numero di assessori.
La legge nazionale non prevede alcun limite numerico alla
composizione dell'organo esecutivo delle unioni di comuni.
Lo ha chiarito l'Anci, rispondendo al quesito posto da
alcuni comuni piemontesi. La nota ricostruisce l'evoluzione
del quadro normativo in materia, partendo dall'art. 19,
comma 3, del dl 95/2012. Tale norma aveva previsto un tetto
al numero dei componenti dei consigli unionali, disponendo
che esso non dovesse essere superiore a quello previsto per
i comuni con popolazione pari a quella complessiva
dell'ente. In tal modo, venivano indirettamente limitate
anche le dimensioni delle giunte, a mente dell'art. 47 del
Tuel, che le rapporta a quelle degli organi consiliari.
Inoltre, per le c.d. unioni «speciali» (ossia quelle
riservate ai comuni con meno di 1.000 abitanti e deputate
allo svolgimento della totalità delle funzioni e dei servizi
municipali), era previsto esplicitamente che la giunta fosse
composta dal presidente e dagli assessori in numero non
superiore a quello previsto per i comuni di pari
popolazione. L'art. 19, tuttavia, è stato abrogato dalla
legge 56/2014 (c.d. legge Delrio), che ha anche eliminato il
modello dell'unione speciale.
Nella disciplina vigente, non sono più previsti per le
unioni limiti al numero dei seggi consiliari e, di
conseguenza, ai posti dal assessore, anche perché si tratta
di cariche assolutamente gratuite, non potendo essere
attribuiti ai titolari retribuzioni, gettoni e indennità o
emolumenti in qualsiasi forma percepiti. Anzi, il comma
dell'art. 32 del Tuel, come riscritto dalla stessa legge 56,
espressamente dispone che «il consiglio (dell'unione) è
composto da un numero di consiglieri definito nello statuto,
eletti dai singoli consigli dei comuni associati tra i
propri componenti, garantendo la rappresentanza delle
minoranze e assicurando la rappresentanza di ogni comune».
Probabilmente l'equivoco è nato dalla lr piemontese n.
11/2012, la quale, all'art. 4, comma 5, lett. f) (mutuando
la disciplina relativa alle giunte delle comunità montane),
prevede che il numero dei componenti dell'organo esecutivo
non superi il numero dei componenti previsto per l'organo
esecutivo dei comuni con popolazione pari a quella
complessiva dell'unione. Ma, sottolinea la nota, si tratta
di una norma illegittima in quanto inerente a una materia di
competenza legislativa statale esclusiva (ex art. 117, comma
2, lett. p), Cost.) (articolo
ItaliaOggi del 09.01.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Conferenza servizi ultra-semplificata.
Delega Pa. Gli emendamenti del relatore Pagliari.
Nelle conferenze di servizi semplificate che usciranno
dalla riforma della Pa ci sarà un solo rappresentante dello
Stato e varrà la regola del silenzio-assenso per le
amministrazioni che non esprimono un proprio parere nel
corso del processo decisionale.
È quanto prevede uno degli emendamenti presentati ieri dal
relatore del disegno di legge delega di riforma della Pa,
Giorgio Pagliari, che la prossima settimana dovrebbe
presentare nuove modifiche al testo (16 articoli per 10
deleghe) in attesa che la Commissione Bilancio completi i
suoi pareri.
I procedimenti amministrativi che vedono coinvolti più enti
dovrebbero così diventare così più veloci e, soprattutto, in
grado di arrivare a conclusione, mentre verrebbe superata la
possibilità per una singola amministrazione di eliminare
ex post parte delle determinazioni assunte in sua
assenza.
Per il testo della delega, ancora all’esame della
Commissione Affari costituzionali dopo la lunga pausa
determinata dalla scelta di anticipare la lettura dell’Italicum,
la discussione è dunque ripartita.
La presidente della Commissione, Anna Finocchiaro, ha deciso
la non riapertura dei termini per la presentazione di nuovi
emendamenti, chiesta tra gli altri da Scelta civica. Si
procederà dunque da dove il confronto s’era fermato con la
volontà espressa dal Governo di determinare, sulla base
della discussione parlamentare, eventuali nuove correzioni
al testo anche sui temi più delicati del licenziamenti
disciplinari e della riorganizzazione della dirigenza. Ieri
il ministro Marianna Madia ha confermato l’obiettivo di
un’approvazione della delega Pa entro primavera, mentre a
palazzo Vidoni si sta già lavorando ai decreti attuativi.
Sul pubblico impiego la volontà resta per la stesura di un
testo unico che aggiorni e riordini la normativa cumulata
dal 2001 in poi con l’obiettivo, in particolare, di passare
da assetti organizzativi basati sulle vecchie «piante
organiche» a più misurabili «fabbisogni» cui
legare le procedure di mobilità (banco di prova resta
l’attuazione della riforma delle province), mentre sulla
valutazione delle performance, lo scarso rendimento e le
sanzioni delle responsabilità disciplinari l’idea di fondo è
quella di una semplificazione delle norme Brunetta, finora
rimaste inapplicate.
Ma il Governo, come detto, si rimetterà alle indicazioni
parlamentari e se serviranno misure più specifiche le
valuterà. Sulle assenze per malattia è confermato, poi,
l’obiettivo di affidare i controlli solo all’Inps. Il
relatore sul nodo dei licenziamenti disciplinari nel
pubblico impiego tiene comunque a chiarire: «nessuna
debolezza nei confronti dei lavativi» ma senza «giustizialismi».
Tra gli emendamenti del relatore anche la riformulazione
dell’articolo 1 della delega, sulla «Carta della
cittadinanza digitale» per garantire la disponibilità di
connettività a banda larga e l’accesso alla rete in ogni
ambito amministrativo, dalle scuole alle Asl fino agli enti
più periferici (articolo
Il Sole 24 Ore del 09.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Guida
all’acquisto. L’Ape non annulla la vendita.
Prevista una sanzione da 3 a 18mila euro per chi non allega
al rogito una copia dell’attestato energetico.
È il documento che informa il potenziale acquirente sul
grado di efficienza dell’immobile e rappresenta un ulteriore
strumento di valutazione e confronto, che serve a orientare
il mercato verso gli edifici a miglior rendimento.
L’attestato di prestazione energetica (Ape) ha sostituito
dal 06.06.2013, integrandolo, il precedente attestato di
certificazione energetica (Ace): rilasciato da esperti
qualificati e indipendenti, fotografa il fabbisogno annuo di
energia necessaria ai servizi di climatizzazione invernale e
estiva in relazione all’uso standard, secondo la
destinazione urbanistica, attribuisce una classe energetica
(con lettere da A+ a G) e contiene raccomandazioni per il
miglioramento dell’efficienza stessa.
Il decreto interministeriale, previsto dal Dl 63/2013
(convertito nella legge 90/2013) per rivisitare le
metodologie di calcolo delle prestazioni, non è però ancora
arrivato: per la redazione dell’attestato si fa quindi
riferimento a modulistica e linee guida previgenti (e alla
normativa regionale). Alle diverse modifiche intervenute nel
corso degli anni sulla disciplina dell’attestato energetico
e gli obblighi imposti, si è aggiunta in ultimo quella del
decreto sulle Semplificazioni fiscali (Dlgs 175/2014) che
sposta dall’agenzia delle Entrate al ministero dello
Sviluppo economico l’accertamento e l’attuazione del
procedimento sanzionatorio.
Gli obblighi nelle compravendite
Ma quali sono le regole da rispettare? Il Dlgs 192/2005
(art.6, comma 2) stabilisce che «nel caso di vendita, di
trasferimento di immobili a titolo gratuito o di nuova
locazione di edifici o unità immobiliari, ove l'edificio o
l'unità non ne sia già dotato, il proprietario è tenuto a
produrre l’attestato di prestazione energetica».
Nelle compravendite, l’Ape va dunque allegato ai contratti e
l’acquirente deve dichiarare in un’apposita clausola di aver
ricevuto dal venditore la documentazione comprensiva
dell’attestato. «C’è un obbligo di dotazione, di allegazione
e di consegna –riassume Sveva Dalmasso del Consiglio
notarile di Milano– e il principio vale per tutti gli atti
traslativi a titolo oneroso: per quelli a titolo gratuito
come la donazione non c’è invece bisogno di allegare».
Se le parti non consegnano l’attestato da allegare, il
notaio –che esercita un controllo formale (non tecnico) del
documento– non può in teoria rifiutarsi di ricevere l’atto,
ma deve informare delle conseguenze civilistiche e delle
sanzioni previste. La mancata allegazione, infatti, per
legge comporta non la nullità del contratto ma una sanzione
amministrativa da 3mila a 18mila euro, che le parti devono
pagare in solido. Stessa sanzione è prevista in caso di
omessa dichiarazione nel contratto.
Le regole per i compromessi
Il proprietario deve rendere disponibile l’Ape al potenziale
acquirente nel momento stesso in cui decide di metter in
vendita l’immobile, ricorrendo o meno ad annunci
commerciali. L’attestato deve essere dunque già presente
all’avvio delle trattative e va consegnato alla loro
chiusura: al più tardi alla stipula del “compromesso”.
«Non corre invece alcun obbligo di allegare l'attestato al
preliminare – commenta il notaio Dalmasso – e d’altra parte
non sono previste sanzioni. La disciplina si applica infatti
agli atti traslativi, non ai contratti preliminari che hanno
solo effetti “obbligataori”».
La validità dell'attestato
L’attestato, come spiega il Dlgs 192/2005 (art. 6, comma 5),
«ha una validità temporale massima di dieci anni a partire
dal suo rilascio ed è aggiornato a ogni intervento di
ristrutturazione o riqualificazione che modifichi la classe
energetica dell’edificio o dell'unità immobiliare». La
validità è subordinata al rispetto delle prescrizioni per le
operazioni di controllo/adeguamento degli impianti.
Gli Ace rilasciati entro il 5 giugno (e ancora validi)
possono essere perciò utilizzati anche per gli atti
stipulati in futuro, sempre che non vengano effettuati
interventi di ristrutturazione che incidano sulla classe
energetica dell’edificio (anche questa validità è
subordinata al rispetto delle regole di
controllo/adeguamento degli impianti). Oltre a un
presupposto di carattere contrattuale, legato al
trasferimento dell’immobile, ce n’è perciò uno di carattere
oggettivo: a prescindere da un loro “passaggio” devono
dotarsi di Ape i nuovi edifici e quelli ristrutturati
(soggetti cioè a manutenzione ordinaria, straordinaria,
ristrutturazione, risanamento conservativo).
L'intreccio con le norme regionali
Tornando alle compravendite, il nodo principale riguarda
l'intreccio tra legislazione nazionale e regionale. Le
regioni, oltre a propri sistemi locali per il rilascio
dell’attestato, prevedono in molti casi proprie regole per
esclusioni e sanzioni.
Quali norme vanno applicate? «La questione –osserva il
notaio Dalmasso- è dibattuta e soggetta a diverse
interpretazioni. Ci sono regioni come la Lombardia che
ritengono prevalere il proprio sistema sanzionatorio
particolareggiato (ad esempio da 500 a 2mila euro per
attestato non conforme, da 5mila a 20mila euro per cessione
a titolo oneroso senza Ape, eccetera). Su questi temi, e in
relazione ai casi specifici regionali, affidarsi al notaio è
comunque il miglior modo per sgombrare il campo da dubbi
residui» (articolo
Il Sole 24 Ore dell'08.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti
locali, precari in standby. Stoppate le possibili assunzioni
a tempo indeterminato. Gli ostacoli
posti dalla legge di Stabilità 2015 alla stabilizzazione del
personale.
Stabilizzazioni del personale degli enti
locali al palo negli anni 2015 e 2016. La legge di Stabilità
2015 (legge 190/2014), con le sue previsioni sulla mobilità
dei dipendenti delle province, non solo blocca per almeno
due anni la possibilità di scorrere le graduatorie dei
concorsi e permettere di reclutare gli idonei, ma impedirà
di assumere a tempo indeterminato i precari, con i requisiti
previsti dalla legge.
Si tratta di tre categorie di soggetti: quelli previsti
dall'art. 1, commi 519 e 558, della legge 296/2006, quelli
indicati dall'art. 3, comma 90, della legge 244/2007, nonché
coloro che alla data di entrata in vigore del dl 101/2013
(il cosiddetto decreto D'Alia) avessero maturato, negli
ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio con
contratto di lavoro subordinato a tempo determinato alle
dipendenze dell'amministrazione che emana il bando.
Di fatto, quindi, la legge di Stabilità 2015 oltre a
incidere pesantemente sull'attuazione del dl 90/2014, messo
sostanzialmente al palo per l'impossibilità di dare corso
alla staffetta generazionale, pone nel nulla anche la terza
ondata di stabilizzazioni, attivata dall'allora governo
Letta. Infatti, l'art. 4, comma 6, del dl 101/2013,
convertito in legge 125/2013, stabilisce che le procedure di
stabilizzazioni sono possibili «solo a valere sulle
risorse assunzionali relative agli anni 2013, 2014, 2015 e
2016 anche complessivamente considerate, in misura non
superiore al 50%, in alternativa a quelle di cui all'art.
35, comma 3-bis, del dlgs 30.03.2001, n. 165. Le graduatorie
definite in esito alle medesime procedure sono utilizzabili
per assunzioni nel triennio 2013-2016 a valere sulle
predette risorse».
Ma la legge di Stabilità 2015 riserva l'utilizzo delle
risorse assunzionali per gli anni 2015 e 2016 esclusivamente
alle assunzioni dei vincitori dei concorsi, in base a
graduatorie vigenti o approvate alla data dell'01.01.2015,
nonché alle mobilità del personale provinciale in
sovrannumero, l'ondata di circa 20 mila lavoratori creata
dalla legge di stabilità. Dunque, le stabilizzazioni sono
possibili al ricorrere di ristrette condizioni.
L'esistenza o l'approvazione di una graduatoria alla data
del 31.12.2014; oppure, l'attivazione in base alle sole
risorse per l'anno 2013. La legge 190, dunque, modifica
implicitamente il dl D'Alia, sottraendo alle amministrazioni
pubbliche la possibilità di destinare risorse degli anni
2014 e 2015 alle stabilizzazioni. Occorre ricordare che a
complicare il già caotico sistema creato dalla combinazione
tra legge Delrio e legge di Stabilità 2015, si è messo anche
il decreto Milleproroghe: il dl 192/2014, infatti, proroga
per le amministrazioni statali il termine per effettuare le
assunzioni a valere sulle risorse liberatesi nel 2013, alla
data del 31.01.2015.
Dunque, nel corso del 2015, alle assunzioni dei vincitori
dei concorsi e dei dipendenti delle province, si sommeranno
anche le assunzioni per nuovi concorsi, purché finanziate
entro i tetti di spesa del 2013. Questa indicazione valevole
in modo espresso per le amministrazioni statali per effetto
del dl 192/2014, vale anche per regioni ed enti locali, dal
momento che la legge di stabilità in ogni caso riserva ai
vincitori dei concorsi e ai dipendenti provinciali, come
detto, le risorse destinate ad assunzioni degli anni 2014 e
2015.
Sempre il dl 192/2014 ha anche allungato i termini previsti
dall'articolo 4, comma 9, del dl 101/2013, consentendo alle
province di prorogare i contratti col personale precario
fino al 31.12.2015. Per quanto tale proroga sia stata
sbandierata come una soluzione al problema dei precari
provinciali, a ben vedere essa resterà, tuttavia,
sostanzialmente inapplicabile. Infatti, lo stesso art. 4,
comma 9, del dl subordina tali proroghe al «rispetto dei
vincoli finanziari di cui al presente comma, del patto di
stabilità interno e della vigente normativa di contenimento
della spesa complessiva di personale».
Ma, visto che la totalità delle province non potrà
rispettare il patto di stabilità e, soprattutto, la vigente
normativa in tema di contenimento della spesa di personale,
visto che devono tagliare il 50% del costo della dotazione
organica (il 30% le città metropolitane e le province
montane), nessuna provincia potrà disporre legittimamente la
proroga ai precari (articolo
ItaliaOggi del 06.01.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Province,
personale in esubero in cerca di ricollocazione.
In ballo circa 20 mila dipendenti
per effetto del taglio lineare alla spese delle dotazioni
organiche.
Per i dipendenti in esubero delle
province, la legge di Stabilità non propone nessuna garanzia
di ricollocazione. Contrariamente a quanto asserito dal
governo, il testo della legge 190/2014 non mette affatto al
sicuro i circa 20 mila dipendenti interessati dagli esuberi
creati dalla legge, per effetto del taglio lineare alle
spese delle dotazioni organiche di province e città
metropolitane.
L'esecutivo, infatti, insiste col sottolineare che regioni e
comuni, con priorità, e amministrazioni statali, in
subordine, saranno obbligati ad assumere, dopo aver chiamato
in servizio i vincitori dei concorsi le cui graduatorie
siano valide alla data di entrata in vigore della legge di
stabilità, i dipendenti provinciali, mediante i
trasferimenti per mobilità.
La legge di Stabilità 2015 punta, in particolare, a spingere
regioni e comuni a effettuare le assunzioni, stabilendo che
«le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016,
destinano le risorse per le assunzioni a tempo
indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa
vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso
pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della presente
legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità
soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e
2015, salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario».
Questo significa che regioni ed enti locali negli anni 2015
e 2016 debbono destinare le risorse per le assunzioni a
tempo determinato, pari al 60% (o anche 80% per gli enti
particolarmente virtuosi) del costo delle cessazioni
dell'anno precedente, alla chiamata in ruolo dei vincitori
dei concorsi.
Ciò che residua del 60% alla mobilità dei dipendenti
provinciali; tuttavia, in deroga ai limiti di spesa previsti
dalla legge, regioni e comuni potranno destinare il 40%
residuo del costo delle cessazioni dei dipendenti (avvenute
nel 2014 e 2015) integralmente all'assunzione per mobilità
dei dipendenti provinciali. Tuttavia, quello che
apparentemente è un obbligo che garantirebbe la continuità
del lavoro per i dipendenti provinciali, è una semplice
esortazione perfettamente aggirabile. Infatti, regioni ed
enti locali non sono obbligati ad assumere. Le assunzioni le
effettueranno solo se lo riterranno. Allora, in quel caso,
dovranno rispettare le indicazioni della legge di Stabilità.
Nulla, per come è scritta la norma, vieta a regioni e comuni
di non effettuare alcuna assunzione a tempo indeterminato
negli anni 2015 e 2016, e di coprire eventuali fabbisogni
con contratti a tempo determinato di 24 mesi (dunque al di
sotto della soglia limite di 36 mesi), aspettando che
scadano i vincoli imposti dalla legge finanziaria e tornare
ad assumere chi vogliono a partire dall'01/01/2017,
lasciando, così, inattuato il piano del governo per
ricollocare i 20 mila dipendenti provinciali. Si pensi, in
particolare, alla dirigenza: la legge 190 non esclude
affatto che una regione o un ente locale assuma dirigenti a
contratto a tempo determinato (quelli chiamati senza
concorsi, per fiducia con gli organi politici), invece che
acquisire in mobilità i dirigenti provinciali.
Le tutele, dunque, di cui parla il governo sono solo
teoriche e lasciate alla buona volontà di regioni, enti
locali e amministrazioni statali che davvero intendano
effettuare assunzioni a tempo indeterminato. Perché il
meccanismo funzioni e consenta realmente il trasferimento
dei dipendenti provinciali verso regioni, comuni o
amministrazioni statali, occorrerebbe prevedere l'obbligo
nei loro confronti di assumere i dipendenti delle province
in sovrannumero, vincolando a tale scopo le risorse
disponibili per gli anni 2015 e 2016, vietando ogni
assunzione a tempo determinato, con l'eccezione di
sostituzioni di ferie e maternità o di settori e servizi
come il sociale o le scuole, finalizzata allo scopo di
eludere la norma, nonché di vietare almeno fino al
31.12.2016 le assunzioni della dirigenza a contratto.
Intanto, è trascorsa con un nulla di fatto la data del
02.01.2015, quando, a dire del sottosegretario alla Funzione
pubblica, Angelo Rughetti, si sarebbe dovuto approvare un
decreto per imporre alle regioni di acquisire personale e
funzioni provinciali o attribuirlo ai comuni (articolo
ItaliaOggi del 06.01.2015
). |
APPALTI: Appalti
a codice cogente. La nuova normativa applicabile da subito.
Il centro studi del senato per il varo contestuale del
regolamento attuativo.
Il nuovo codice sui contratti pubblici
che recepirà le direttive appalti pubblici dovrà essere
adottato contestualmente al suo regolamento attuativo; la
contestuale adozione del codice e del regolamento è
necessaria per evitare che, come accadde con il codice De
Lise, passino quattro anni prima della emanazione del dpr
207 del 2010.
È quanto suggeriscono i tecnici del servizio studi del
senato nella analisi del
disegno di legge n. 1678 che reca la delega per
il recepimento nel nostro ordinamento delle nuove direttive
appalti e concessioni pubbliche (n. 23, 24 e 25 del 2014).
Il disegno di legge delega, che il governo avrebbe voluto
vedere approvato entro il 2014, dovrebbe iniziare a breve
l'iter parlamentare presso la ottava commissione del senato,
dopo che il 4 dicembre scorso è stato a essa assegnato,
anche se non risulta a oggi ancora calendarizzato. Al di là
del ritardo sulla tabella di marcia che il viceministro per
le infrastrutture Riccardo Nencini aveva voluto imprimere al
testo fin dalla scorsa estate, emerge adesso un nuovo
elemento messo in evidenza dai tecnici del senato che hanno
rilevato come sia forse meglio riformare complessivamente la
normativa sugli appalti pubblici e non limitarsi, invece,
alla sola adozione di un nuovo codice unificato.
Il disegno di legge delega prevede infatti la messa a punto
di un nuovo codice nel quale verranno recepite le norme
comunitarie e adeguate e semplificate le restanti norme
nazionali non toccate dalle direttive Ue; si chiarisce
inoltre che questo nuovo codice entrerà in vigore
gradualmente con una opportuna norma transitoria e che il
tutto dovrà concludersi entro il 18.02.2016, due mesi prima
del termine previsto dalle direttive per il recepimento da
parte dei diversi stati membri.
I tecnici del senato notano però che «nulla si dice sul
regolamento del codice» e affermano che «potrebbe
essere opportuno valutare la possibilità e l'opportunità di
prevedere forme e procedure per addivenire alla contestuale
adozione di codice e regolamento». Nel dossier sul
disegno di legge il Servizio Studi evidenzia infatti che
sarebbe opportuno evitare quanto accaduto dopo il varo del
vigente codice dei contratti pubblici (il cosiddetto codice
De Lise del 2006) quando passarono quattro anni prima che
venisse adottato il regolamento attuativo, il dpr 207 del
2010.
Si tratta di un rilievo di particolare rilevanza che
potrebbe richiedere, laddove recepito nel corso dell'esame
parlamentare, un notevole allungamento dei tempi di
predisposizione dei testi e che, soprattutto, sembra mettere
in dubbio la possibilità che a valle del codice si possano
dettare norme attuative attraverso meccanismi di «soft
law» che prescindano dal regolamento, cioè da un dpr.
Il dossier del Senato, dopo avere ricordato la
tempistica successiva al varo della legge delega, che
prevede pareri della conferenza unificata (30 giorni), del
Consiglio di stato (sempre in 30 giorni) e delle commissioni
parlamentari (in 40 giorni), rileva anche che andrebbe
meglio disciplinato il meccanismo di consultazione pubblica
delle categorie interessate, definendo metodologia e
modalità operative delle stesse.
Infine si suggerisce al governo di valutare la possibilità
di introdurre nella delega procedimenti amministrativi in
grado di superare gli ostacoli derivanti dalla necessità di
procedere a eventuali modifiche legislative che potrebbero
rendere problematico l'esercizio della discrezionalità
amministrativa dell'esecutivo (articolo
ItaliaOggi del 06.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Impiantistica.
Climatizzatori. Così cambia il libretto.
A disposizione delle imprese una nuova versione compilabile
del libretto d'impianto per la climatizzazione invernale e/o
estiva unitamente a numerosi allegati e rapporti di
controllo.
Nella sezione libretto di impianto del sito del comitato
termotecnico italiano (http://www.cti2000.it/) sono stati
pubblicati
i file pdf compilabili del libretto e dei rapporti di
controllo di efficienza energetica in varie
configurazioni, nonché gli esempi applicativi del dm
sviluppo economico del 10.02.2014.
Il primo è un file unico e completo con campi compilabili
che consente di avere sul proprio pc il file completo del
libretto di impianto e i quattro file dei rapporti di
controllo. Il secondo file costituito da singole pagine con
campi compilabili consente di stampare eventuali pagine
integrative e costruire un libretto a misura del proprio
impianto. In quest'ultimo caso però va detto che il campo «codice
catasto» deve essere compilato per ogni nuova pagina. Si
tratta di un file zippato costituito da tanti file singoli
quante sono le schede del libretto.
Ricordiamo che con il decreto del ministero dello sviluppo
economico 10.02.2014 è stato disciplinato il nuovo modello
di libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto
di efficienza energetica .
Il libretto è disponibile in forma cartacea o elettronica.
Nel primo caso viene conservato dal responsabile
dell'impianto o eventuale terzo responsabile, che ne cura
l'aggiornamento dove previsto o mettendolo a disposizione
degli operatori di volta in volta interessati. Il libretto
di impianto elettronico è conservato presso il catasto
informatico dell'autorità competente o presso altro catasto
accessibile all'autorità competente, e viene aggiornato di
volta in volta dagli operatori interessati, che possono
accedere mediante una password personale al libretto.
Il libretto di impianto è obbligatorio per tutti gli
impianti di climatizzazione invernale e/o estiva,
indipendentemente dalla loro potenza termica, sia esistenti
che di nuova installazione (articolo ItaliaOggi del
06.01.2015). |
APPALTI: Committenti,
stop alle sanzioni. Niente penalità per il passato a seguito
dell’applicazione della responsabilità solidale.
Semplificazioni. La circolare dell’agenzia delle Entrate
precisa le modalità di applicazione del principio del «favor
rei».
L’abrogazione della
responsabilità tributaria in tema di appalti, a opera
dell’articolo 28 del decreto legislativo 175/2014, ha
effetto anche sulle violazioni già commesse, ma solo per le
sanzioni applicabili al committente. L’appaltatore, infatti
continua a rispondere (solidalmente con il subappaltatore)
per il passato, non beneficiando del cosiddetto favor rei.
Con questa affermazione riportata nella
circolare 30.12.2014 n. 31/E,
l’agenzia delle Entrate applica in maniera letterale (e
restrittiva) il principio dell’articolo 3, comma 2 del
decreto legislativo 472/1997 alle conseguenze negative
innescate dal non aver ottemperato agli adempimenti
prescritti dall’articolo 35, commi da 28 a 28-ter del
decreto legge 223/2006, eliminati dal 13 dicembre scorso.
L’Agenzia ricorda che l’abrogazione riguarda le sole
conseguenze circa le omissioni (intervenute nella “filiera”)
attinenti alle ritenute fiscali sui redditi di lavoro
dipendente, poiché già l’articolo 50, comma 1 del Dl 69/2013
aveva escluso i versamenti Iva dall’ambito oggettivo di
applicazione della disciplina.
È indicativo che la stessa circolare affermi (come più volte
sostenuto su queste pagine) che le disposizioni ora abrogate
abbiano previsto in capo ai destinatari «adempimenti
complessi, con rischi reali di blocco dei pagamenti tra i
soggetti coinvolti nella filiera», in netto contrasto «con
le finalità della Direttiva europea n. 7/2011 contro i
ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, recepita
nel nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 192 del 2012».
Rimaneva, tuttavia, il dubbio sull’applicabilità delle
disposizioni ora abrogate alle violazioni commesse all’epoca
della loro vigenza, ossia:
- gli omessi (o infedeli) versamenti Iva ad opera
dell’appaltatore o del subappaltatore commessi in pendenza
dei pagamenti operati dal committente e dall’appaltatore (in
assenza delle opportune verifiche) a partire dall’11.10.2012
e sino al 22.06.2013;
- gli omessi (o infedeli) versamenti di ritenute sui redditi
di lavoro dipendente ad opera dei medesimi soggetti con
riferimento ai pagamenti operati dai committenti e dagli
appaltatori (in assenza delle opportune verifiche)
dall’11.10.2012 al 13.12.2014.
Il tutto con riferimento ai contratti di appalto e
subappalto (anche verbali) stipulati (o rinnovati) a
decorrere dal 12.08.2012.
L’eliminazione delle norme ha un effetto liberatorio per il
committente anche per le infrazioni (non definitivamente
sanzionate) commesse in passato, poiché il favor rei si
applica senza dubbio alcuno alla sanzione pecuniaria (da
5.000 a 200.000 euro) che era posta a suo carico.
Il medesimo principio, sempre secondo le Entrate, non
troverebbe applicazione in relazione alla responsabilità
solidale prevista in capo all’appaltatore, non trattandosi,
tecnicamente, di una “sanzione”. Si è già rilevato
(si veda Il Sole 24 Ore dell’11 novembre) che la
responsabilità in parola ha una evidente (e sostanziale)
natura “punitiva”, quale penalizzazione che si è
voluto attribuire all’appaltatore per la mancata verifica
documentale anteriore al pagamento. Anche la Circolare
Confindustria del 12 dicembre scorso riconosce a essa una
natura “parasanzionatoria”, per cui non è detto che
l’orientamento delle Entrate trovi concorde la
giurisprudenza.
Al di là dell’abolizione dei “controlli cartacei”
imposti dalle disposizioni ora non più vigenti, va sempre
sottolineato che per evitare problemi occorre dotarsi di
quanti più documenti e informazioni possibile attestanti la
regolare «esistenza civilistica e fiscale» del
subappaltatore, l’adempimento corretto da parte sua degli
obblighi previdenziali, oltre a tutto quanto riguarda più
direttamente il rapporto in essere con il committente.
La circolare 31/E ricorda, peraltro, come l’abrogazione
della solidarietà tributaria non riguarda quella retributiva
e contributiva prevista dall’articolo 29 del decreto
legislativo. 276/2003 (nonché dall’articolo 1676 del Codice
civile). Anzi, proprio il decreto semplificazioni ha
previsto che il committente, chiamato a rispondere, ha
l’obbligo di assolvere, ove previsto, tutti gli adempimenti
del sostituto d’imposta. La previsione ha natura
confermativa di un principio di carattere generale, già
affermato in precedenza (risoluzione n. 481/E/2008)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 06.01.2015). |
VARI: Multe,
ricorsi anche via Pec ma con modalità incerte. Codice della
strada. Nota dell’Interno.
Le Prefetture devono garantire che i ricorsi contro le
multe stradali possano essere presentati anche via Pec e
quelle che ancora non lo fanno devono adeguarsi. Ma le
modalità di utilizzo della posta elettronica certificata
restano controverse.
In teoria, dovrebbe essere tutto già chiaro: la norma che
introduce la possibilità di usare Pec per tutte le
comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di
una di consegna risale a dieci anni fa (Dlgs 82/2005,
articolo 48).
Ma alcune Prefetture, nei loro siti internet istituzionali,
non facevano riferimento a questa possibilità. Di fronte
alle segnalazioni di cittadini che facevano notare questa
mancanza, il ministero dell’Interno ha confermato l’obbligo
di ricevere i ricorsi anche via Pec (nota 11.11.2014 n.
17666 di prot. del dipartimento Affari interni e
territoriali). Ma questa precisazione ha anche creato dubbi
sulla “veste” che il ricorso “telematico” deve
avere.
Infatti, spiega che la Pec è ammessa se sottoscritta «con
firma digitale autenticata della persona legittimata».
In alternativa, prevede un messaggio di posta certificata
che abbia in allegato un documento pdf in cui sia contenuto
il testo del ricorso, con la firma dell’interessato.
Un’alternativa che lascia perplessi, perché è tra una prima
modalità “iperprotetta” e un’altra che lascia invece
spazio a possibili abusi. Infatti, da un lato, nei ricorsi
cartacei non è necessaria alcuna autenticazione della firma,
dall’altro lato, consentire che possa essere allegato un pdf
lascia spazio all’invio di un testo la cui provenienza non è
dimostrata pienamente: in questo caso, è certo solo che il
messaggio Pec è stato inviato dall’interessato, ma nulla è
garantito riguardo all’allegato.
A questo punto, è prevedibile che al ministero arrivino
richieste di ulteriori chiarimenti
(articolo
Il Sole 24 Ore del 06.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Detrazioni
al 50% per il 2015. Sale dal 4% all’8% la ritenuta operata
sui bonifici a titolo d’acconto dalle banche. Recupero
edilizio. Le regole per il bonus Irpef sulle parti comuni
condominiali dopo la legge di Stabilità.
Cambiano ancora le
regole per la detrazione dall’Irpef delle spese per recupero
edilizio o risparmio energetico sostenute dal condominio. La
legge di stabilità, entrata in vigore il 01.01.2015, ha
stabilito che le spese legate al settore dell’edilizia e del
risparmio energetico ora vengano rese detraibili seguendo
questo schema:
- detrazione Irpef del 50% per il recupero edilizio delle
parti comuni condominiali, nel limite massimo di 96mila euro
per unità immobiliare, per le spese sostenute dal 01.01.2015
al 31.12.2015; dal 01.01.2016, l’agevolazione continuerà a
operare nella misura ordinaria del 36% (articolo 16-bis del
Dpr 917/1986);
- proroga, per le spese sostenute dal 1° gennaio al
31.12.2015, della detrazione Irpef del 50% per l’acquisto di
mobili ed elettrodomestici -compresi i grandi
elettrodomestici dotati di etichetta energetica, di classe
non inferiore alla A+ (A per i forni)- destinati alle
abitazioni ristrutturate (la portineria o altre parti comuni
abitativi), fino a un massimo di 10mila euro e
indipendentemente dalle spese per opere di recupero o
risparmio energetico;
- proroga della detrazione Irpef/Ires del 65% per la
riqualificazione energetica degli edifici esistenti, per le
spese sostenute dal 1° gennaio al 31.12.2015, su parti
comuni condominiali (o su tutte le unità che compongono il
condominio). Inoltre, l’ambito applicativo del bonus viene
esteso, per le spese sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015,
a ulteriori tipologie di interventi agevolabili, quali:
l’acquisto e la posa in opera di schermature solari, nel
limite di detrazione di 60mila euro; l’acquisto e la posa in
opera di impianti di climatizzazione invernale dotati di
generatori di calore alimentati da biomasse combustibili,
nel limite di detrazione pari a 30mila euro.
- proroga, dal 1° gennaio al 31.12.2015, del “bonus
antisismica”, ossia della detrazione del 65% nel limite
massimo di spesa di 96mila euro, per interventi di messa in
sicurezza statica delle “abitazioni principali” e degli
immobili a destinazione produttiva, situati nelle zone
sismiche ad alta pericolosità.
Infine, per le spese sostenute dal 01.01.2015, agevolabili
con le detrazioni per il recupero edilizio e la
riqualificazione energetica, è previsto, sempre dal
01.01.2015, l’aumento, dal 4% all’8%, della ritenuta operata
dalle banche al momento dell’accredito dei bonifici di
pagamento delle spese agevolate, a titolo di acconto delle
imposte sul reddito dovute dall’impresa esecutrice.
Sparisce, quindi, la possibilità di ottenere la detrazione
per il risparmio energetico, anche se ridotta al 50%, per il
periodo dal 1° gennaio al 30.06.2016 (l’ampliamento era
previsto dal Dl 63/2013).
Insomma, ci sono sei mesi di tempo in meno per programmare
ed eseguire questi interventi con detrazione al 50% ma ci
sono sei mesi in più per poter fare spese detraibili al 65
per cento
(articolo
Il Sole 24 Ore del 06.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri,
lo slittamento è parziale. Nel 2015 niente sanzioni per
violazioni a regole operative.
Lo prevede il dl Milleproroghe:
dall'01/02/2015 punibile chi non s'iscrive o non paga il
contributo.
Dal 1° febbraio acquistano piena efficacia le norme che
sanzionano mancata iscrizione e omesso pagamento del
contributo Sistri, mentre restano sospese per tutto il 2015
quelle che puniscono l'inosservanza delle regole operative
del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti
(tenuta delle schede informatiche, trasporto con
documentazione di rito e monitoraggio del percorso,
videosorveglianza delle discariche).
A conferire (seppur parziale) operatività al Sistri è il
decreto legge 31.12.2014, n. 192 (meglio noto come «Milleproroghe»,
pubblicato sulla G.U. del 31/12/2014, n. 302), provvedimento
che invece di riproporre, come in passato, lo slittamento di
12 mesi dell'operatività di tutto il sistema sanzionatorio
Sistri ex dlgs 152/2006 ha rinnovato la proroga (scaduta lo
scorso 31.12.2014) solo a alcune delle disposizioni in
materia.
Le novità del «Milleproroghe».
Il dl 192/2014 dispone attraverso la novella del dl 101/2013
(il precedente provvedimento di proroga in materia) la
disapplicazione fino al 31.12.2015 dell'intero articolo
260-ter del «Codice ambientale» (recante le sanzioni
accessorie per le violazioni del Sistri) insieme alla
sospensione fino alla stessa data dei soli commi dal 3 al 9
dell'articolo 260-bis del dlgs 152/2006 (sanzioni per il
mancato tracciamento telematico dei rifiuti) stabilendo
espressamente la piena efficacia dal 01.02.2015 delle norme
previste dai commi 1 (sanzioni per omessa iscrizione) e 2
(sanzioni per mancato pagamento del contributo) dello stesso
articolo.
Secondo il tenore letterale del «Milleproroghe» lo
slittamento dell'operatività del Sistri è dettato «al fine
di consentire la tenuta in modalità elettronica dei registri
di carico e scarico e dei formulari di accompagnamento dei
rifiuti trasportati nonché l'applicazione delle altre
semplificazioni e le opportune modifiche normative».
Locuzione, questa, che farebbe pensare a una prossima e
radicale rivisitazione dell'attuale e complessa architettura
del sistema, per avvicinarla a una versione evoluta dello
storico sistema di tracciamento cartaceo dei rifiuti.
In materia, si ricorda infatti che già l'articolo 14 del dl
91/2014 aveva affidato al Minambiente l'adozione (entro il
termine del 24.08.2014, inutilmente spirato) di regolamenti
finalizzati a garantire «l'applicazione
dell'interoperabilità» (ossia l'interazione tra il sistema
telematico e software terzi) e «la sostituzione dei
dispositivi token usb» previsti dal Sistri.
Le ricadute sul sistema.
Ciò che deriva dall'intervento legislativo «d'urgenza» è un
rinnovato sistema transitorio, in base al quale (secondo la
nuova formulazione dell'articolo 11, comma 3-bis del citato
dl 101/2013) fino al 31.12.2015 i soggetti obbligati al
Sistri godono di una sospensione delle sanzioni per le sole
violazioni relative allo stretto tracciamento telematico dei
rifiuti ma devono al contempo (dietro minaccia delle
relative sanzioni) sia provvedere a formalizzare
l'iscrizione al sistema pagando il relativo contributo sia
continuare a osservare (come previsto dallo stesso dl del
2013) anche le attuali e tradizionali regole di tracciamento
costituite da registri di carico/scarico, formulario di
trasporto, dichiarazione ambientale «Mud» (proprio in questi
gironi rinnovata dal Dpcm 17.12.2014, pubblicato sul S.o. n.
97 alla G.U. del 27/12/2014 n. 299) previste dagli articoli
188, 189, 190 e 193 del dlgs 152/2006 nella versione
precedente alle modifiche introdotte dal Dlgs 205/2010 (il
provvedimento che ha adeguato il «Codice ambientale» alla
disciplina sul tracciamento telematico dei rifiuti).
A rendere meno grevi le minacce, a partire dal febbraio
2015, delle sanzioni (amministrative pecuniarie fino a 93
mila euro) per omessa iscrizione e mancato pagamento del
contributo Sistri saranno gli istituti del «cumulo
giuridico» e «ravvedimento operoso» previsti dai commi 9-bis
e 9-ter dell'articolo 260-bis, dlgs 152/2006, che (già dal
01.01.2015, non essendo oggetto di proroga alcuna)
garantiscono, rispettivamente: per più violazioni,
l'applicazione della sola sanzione più grave aumentata fino
al triplo; l'immunità dalle sanzioni in caso di adempimento
entro 30 giorni dalla commissione dell'illecito, la
riduzione delle stesse ad in caso di definizione della
controversia entro 60 giorni dalla contestazione.
I soggetti obbligati al Sistri.
In base al quadro normativo di riferimento (risultante dal
combinato disposto di dlgs 152/2006, dl 101/2013 e dm
24.04.2014) il Sistri è attualmente obbligatorio per:
enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali
pericolosi (a eccezione, se non stoccano i propri rifiuti,
delle aziende agricole che li conferiscono a propri sistemi
di raccolta e delle piccole strutture individuate dal
decreto ministeriale del 2014); enti/imprese di
raccolta/trasporto a titolo professionale, di trattamento,
recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti
speciali pericolosi; nuovi produttori di rifiuti pericolosi;
operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti
speciali pericolosi; Comuni e imprese di trasporto rifiuti
urbani della Regione Campania.
Corte Ue e Sistri.
Sebbene il tracciamento telematico dei rifiuti non sia
imposto dall'Ue, le reiterate proroghe della piena
operatività del Sistri rischiano di costare all'Italia una
procedura d'infrazione proprio per mancato adeguamento alle
norme ambientali comunitarie. Il pericolo nasce dall'aver il
legislatore nazionale (come più sopra accennato) agganciato
alla sospensione delle norme sanzionatorie quella
dell'efficacia dei «nuovi» articoli 188, 189, 190 e 193 del
dlgs 152/2006, alcuni dei quali recanti le disposizioni
necessarie per attuare l'ultima direttiva in materia di
rifiuti, la 2008/98/Ue.
Circostanza, quest'ultima, che non è sfuggita alla Corte Ue,
la quale pronunciandosi con sentenza dello scorso 18.12.2014
(causa C-551/13) su un ricorso sollecitato da un'impresa
italiana rivendicante il «diritto al trattamento in proprio
dei rifiuti prodotti» previsto dall'articolo 15 della
direttiva in parola ha ritenuto ingiustificata la mancata
trasposizione di detta disposizione sul piano nazionale
entro il termine del 12.12.2010 previsto dallo stesso
provvedimento Ue e spirato il 12 dicembre 2010 (articolo
ItaliaOggi Sette del 05.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Sconto
sui contributi a rischio corto circuito. Ristrutturazioni
agevolate ma cresce il costo delle varianti. Gli importi del
costruire. Gli incentivi del decreto Sblocca Italia per la
riqualificazione.
La spinta per la riqualificazione dell’esistente a scapito
del consumo di suolo passa anche per la leva economica. Il
decreto sblocca-Italia ne è solo l’ultimo esempio. Il Dl
133/2014 ha modificato le previsioni sull’onerosità dei
titoli edilizi, premiando appunto con uno sconto sui costi
di costruzione le ristrutturazioni . Tuttavia, le misure
inserite nel Testo unico dell’edilizia sono sì
significative, ma anche contraddittorie.
Il sistema dell’onerosità dei titoli edilizi è ormai
consolidato dal 1977 (legge Bucalossi) ed è confluito
nell’articolo 16 del Dpr 380/2001 (Testo unico
dell’edilizia):? il rilascio del permesso di costruire (o la
formazione di Dia e Scia onerose) comporta un contributo
commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione,
nonché al costo di costruzione.
Il contributo si divide così in due voci distinte:
- la prima è relativa al costo di costruzione degli edifici
(determinato in via parametrica dalle Regioni per le nuove
costruzioni e dai Comuni in particolare per i progetti di
ristrutturazione) e variabile dal 5% al 20% di questo costo;
- la seconda è afferente agli oneri di urbanizzazione (si
veda l’articolo a fianco).
In questo contesto si è appunto inserito il Dl 133 con tre
distinte previsioni per cui, nel determinare l’entità degli
oneri, i Comuni:
- devono differenziare gli interventi al fine di
incentivare, soprattutto nelle aree a maggiore densità del
costruito, quelli di ristrutturazione edilizia, anziché la
nuova costruzione;
possono deliberare che i costi di costruzione sulle
ristrutturazioni siano inferiori ai valori per le nuove
costruzioni;
- devono ridurre il contributo di costruzione in misura non
inferiore al 20% rispetto a quello previsto per le nuove
costruzioni nei casi non interessati da varianti
urbanistiche, deroghe o cambi di destinazione d’uso
comportanti maggior valore rispetto alla destinazione
originaria.
Il favor per incentivare la rigenerazione del patrimonio
edilizio esistente non potrebbe essere più evidente. Ma
quasi a compensare gli sconti concessi, lo sblocca-Italia
contestualmente inasprisce il contributo per gli interventi
edilizi che si accompagnano a modifiche della disciplina
urbanistica incrementando il valore delle aree o degli
edifici oggetto di intervento.
Nel determinare l’incidenza degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, infatti, i Comuni devono ora tenere
conto «del maggior valore generato da interventi su aree
o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio
di destinazione d’uso».
Il maggior valore dovrà essere «suddiviso in misura non
inferiore al 50% tra il Comune e la parte privata ed è
erogato da quest’ultima al Comune stesso sotto forma di
contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico,
in versamento finanziario». Le somme sono vincolate alla
realizzazione di opere pubbliche nell’area.
La disposizione è piuttosto complicata ma, nella sostanza,
vuole dividere tra il proprietario e la collettività il
maggior valore commerciale derivante dalla modifica della
disciplina urbanistica che, ad esempio, muti un’area da
agricola ad edificabile-residenziale.
Del resto previsioni simili esistono già in diverse
disposizioni regionali e nella prassi dei piani regolatori
di tanti comuni (Roma su tutti) che infatti la norma in
commento fa espressamente salve.
La disposizione si presta però ad alcune considerazioni
critiche. In primo luogo, va detto che le varianti di Prg
che incrementano il valore fondiario in termini evidenti
come nell’esempio appena portato sono normalmente attuate
mediante l’approvazione di piani urbanistici di dettaglio
sulle poche aree ancora libere, all’interno dei quali si
sviluppa la negoziazione tra privato e Comune volta a
redistribuire l’incremento del valore di mercato.
La disposizione si manifesta dunque principalmente rivolta
alle varianti di Prg interessanti il patrimonio edilizio
esistente, spesso degradato e bisognoso di interventi, anche
di bonifica ambientale, sicuramente più onerosi di quelli
necessari per la trasformazione dei cosiddetti greenfield
(spazi non costruiti).
Il sistema va così in corto circuito perché si rischia di
appesantire l’intervento dei privati con regole stabilite a
priori e disancorate dalle specifiche realtà locali, in
contraddizione con il favore per gli interventi di
rigenerazione urbana e riqualificazione edilizia che le
disposizioni dello sblocca-Italia sopra considerate vogliono
incentivare
---------------
Cambia ogni 5 anni la quota degli oneri di
urbanizzazione. Le procedure. Aggiornamento affidato ai
Comuni.
Il contributo di costruzione si compone anche della voce
afferente alle opere di urbanizzazione primaria (quali
strade, parcheggi, servizi a rete) e secondaria (quali
parchi, scuole, ospedali, servizi sociali, sportivi e
culturali) che i Comuni devono realizzare e manutenere per
garantire l’ordinato sviluppo del territorio.
L’incidenza degli oneri di urbanizzazione è stabilita con
deliberazione del Consiglio comunale in base alle tabelle
parametriche che la Regione definisce per classi di Comuni.
Ogni cinque anni i Comuni provvedono ad aggiornare gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria, in conformità alle
relative disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e
prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria,
secondaria e generale.
Negli interventi più rilevanti, la legge consente che le
opere di urbanizzazione siano realizzate direttamente dal
costruttore, a scomputo degli oneri dovuti.
Prevede infatti l’articolo 16 del Dpr 380/2001 che la quota
di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione, se non
corrisposta al Comune all’atto del rilascio del permesso di
costruire o rateizzata, possa essere assolta mediante
l’impegno a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite
dall’amministrazione e con conseguente acquisizione delle
opere realizzate al patrimonio indisponibile del Comune.
Il comma 2-bis della norma citata chiarisce quindi che
nell’ambito degli strumenti attuativi e degli atti
equivalenti comunque denominati, nonché degli interventi in
diretta attuazione dello strumento urbanistico generale,
l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria
di importo inferiore alla soglia comunitaria di cui
all’articolo 28, comma 1, lettera c), del Dlgs 12.04.2006,
n. 163, funzionali all’intervento di trasformazione
urbanistica del territorio, è a carico del titolare del
permesso di costruire (o altro titolo edilizio equipollente)
e non trova applicazione il Dlgs 12.04.2006, n. 163. Va
precisato che fino al 2016 la soglia europea per i lavori
che obbliga alla gara ammonta a 5,186 milioni di euro. Al di
sopra di questo importo, trova attuazione il Codice dei
contratti pubblici che impone, appunto, di selezionare gli
appaltatori delle opere con gare pubbliche.
Nel silenzio della legge, la prassi amministrativa conosce
anche la possibilità di realizzare opere di urbanizzazione
al posto del pagamento del contributo commisurato al costo
di costruzione. Non si tratta dello scomputo previsto dal
Testo unico dell’edilizia, ma di una compensazione economica
che le parti possono concordare nelle convenzioni
urbanistiche (Tar Pescara n. 1142 del 2010)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 05.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Le
p.a. versano l'Iva all'erario (ma con un'eccezione).
L'impatto delle disposizioni sullo split
payment in vigore dal 1° dicembre scorso.
Le pubbliche amministrazioni non possono più pagare l'Iva
sugli acquisti di beni e servizi ai loro fornitori, ma
devono versarla direttamente all'erario. Anche sulle vecchie
fatture non ancora saldate.
Questo per effetto delle disposizioni contenute nell'art.
17-ter del dpr n. 633/72, aggiunto dalla legge n. 190 del
23.12.2014 (di Stabilità 2015), pubblicata nella G.U. n. 300
del 29.12.2014, S.O. n. 99), che hanno introdotto il
particolare meccanismo c.d. dello «split payment» per
la riscossione dell'Iva sulle forniture agli enti pubblici.
Dovrebbero fare eccezione, pur nel silenzio della norma, le
fatture senza evidenza dell'imposta, ad esempio per
operazioni sottoposte al regime del margine. Il meccanismo,
derogando alle disposizioni della direttiva, dovrà essere
autorizzato dall'Ue; la legge prevede tuttavia che è
comunque applicabile alle operazioni la cui imposta diviene
esigibile dal 01.01.2015 (anche se fatturate
precedentemente).
Le nuove disposizioni
L'art. 17-ter, comma 1, stabilisce che per le cessioni di
beni e per le prestazioni di servizi effettuate nei
confronti dello stato e dei suoi organi, anche dotati di
personalità giuridica, degli enti pubblici territoriali e
dei loro consorzi, delle camere di commercio, degli istituti
universitari, delle asl, degli enti ospedalieri, degli enti
pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere
scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza
e di quelli di previdenza, per i quali i suddetti enti non
sono debitori d'imposta ai sensi delle disposizioni in
materia di Iva, l'imposta è in ogni caso versata dagli enti
stessi secondo modalità e termini fissati con decreto del
ministro dell'economia. In caso di omesso o ritardato
versamento, si applicheranno le sanzioni dell'art. 13, dlgs
n. 471/1997.
Il comma 2 esclude dalle suddette disposizioni i compensi
per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla
fonte a titolo di imposta sul reddito.
In pratica, i fornitori emetteranno normalmente le fatture,
indicandovi l'Iva; gli enti destinatari, però, pagheranno
loro soltanto l'imponibile (e le altre somme diverse
dall'Iva), mentre corrisponderanno l'imposta all'erario con
le modalità e nei termini che dovranno essere stabiliti con
apposito decreto.
È da ritenere, come accennato, che il meccanismo non possa
trovare applicazione nei casi in cui, per effetto di
speciali regimi, l'Iva non sia evidenziata nella fattura:
per esempio, cessioni di beni usati e prestazioni delle
agenzie di viaggio soggette ai regimi del margine (per le
quali, peraltro, la relativa imposta viene calcolata con
procedimenti particolari), cessioni di prodotti editoriali
in regime monofase art. 74, dpr 633/1972.
Per espressa previsione di legge, il meccanismo non si
applica nei casi in cui l'ente cessionario o committente
assume la veste di debitore dell'Iva, ad esempio operazioni
sottoposte al regime dell'inversione contabile di cui agli
artt. 17 e 74 del dpr 633/1972, acquisti intracomunitari: in
tali casi, quindi, l'ente deve continuare a liquidare e
contabilizzare l'Iva dovuta come previsto da dette
disposizioni (integrazione della fattura del fornitore,
registrazione dell'imposta a debito ecc.).
Decorrenza
Il comma 632 dell'art. 1 della legge n. 190/2014 prevede che
le suddette disposizioni, nelle more del rilascio
dell'autorizzazione da parte del Consiglio Ue ai sensi
dell'art. 395 della direttiva Iva, trovano comunque
applicazione per le operazioni per le quali l'Iva è
esigibile a partire dal 01.01.2015. Poiché l'Iva relativa
alle operazioni effettuate nei confronti dei suddetti enti
diviene esigibile non al momento di effettuazione
dell'operazione, ma all'atto del pagamento del corrispettivo
ai sensi dell'art. 6, quinto comma, dpr 633/1972, il nuovo
meccanismo si applica ai pagamenti di forniture effettuati
dal 01.01.2015, anche se la fattura sia stata emessa
precedentemente (salvo che, al momento dell'emissione della
fattura, il fornitore si sia avvalso della facoltà di
rinunciare all'esigibilità differita). In proposito, è da
osservare che il meccanismo dello split payment è
incompatibile con la facoltà dei fornitori di rinunciare
all'esigibilità differita, che pertanto dovrebbe ora
ritenersi implicitamente preclusa. Misure compensatorie per
i fornitori.
Per attenuare i riflessi negativi a danno dei fornitori, è
previsto che le operazioni sottoposte a split payment
si computano ai fini del presupposto del rimborso del
credito Iva basato sull'aliquota media. È altresì previsto
che con lo stesso decreto che fisserà le modalità e i
termini di pagamento, i fornitori saranno inclusi fra i
soggetti aventi diritto ai rimborsi Iva prioritari,
limitatamente al credito rimborsabile relativo alle
operazioni dell'art. 17-ter (articolo ItaliaOggi del
03.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO: Per
i capannoni la notifica è doppia.
Sicurezza. Interpello del ministero.
La comunicazione relativa alla costruzione e
realizzazione di edifici o locali da adibire ad attività
industriali è cosa ben diversa dalla notifica preliminare
che incombe sul committente per la realizzazione di una
opera edile, per cui l’una non sostituisce l’altra. È tale
il parere espresso dalla Commissione per gli interpelli,
istituita presso il ministero del Lavoro.
Con l’interpello
31.12.2014 n. 26/2014 è stato chiesto se, nel
caso in cui un cantiere temporaneo abbia per oggetto la
costruzione, ovvero l’ampliamento o la ristrutturazione di
edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, la
notifica prevista dall’articolo 67 del Dlgs 81/2008 (Testo
unico sulla salute sicurezza sui luoghi di lavoro), i cui
contenuti sono stati individuati con il decreto
interministeriale del 18.04.2014, debba ritenersi sostituita
dalla notifica preliminare che il committente o il
responsabile dei lavori, ai sensi dell’articolo 99 del Testo
unico, deve trasmettere prima dell’inizio dell’attività alla
Asl e alla direzione territoriale del Lavoro (Dtl).
L’interpello, dopo aver chiarito che la comunicazione
all’organo di vigilanza (Asl competente per territorio) deve
contenere la descrizione dell’oggetto delle lavorazioni e
delle principali modalità di esecuzione delle stesse, nonché
la descrizione dei locali e degli impianti, ha rilevato che
l’obiettivo di questa notifica, a carico del datore di
lavoro, è informare l’Asl al fine di consentire di dare
preventivamente indicazioni tecniche (strutturali,
impiantistiche, di igiene industriale) atte a migliorare le
condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
La notifica ex articolo 99, invece, individua un diverso
soggetto obbligato (committente o responsabile dei lavori) e
ha l’obiettivo di rendere noti i dati del cantiere
all’organo di vigilanza perché possa effettuare una corretta
programmazione degli interventi di controllo nel comparto
delle costruzioni, interessato da un numero elevato di
infortuni.
Inoltre con l’interpello 20/2014 la Commissione ha ribadito
che, ai sensi dell’articolo 47 del Testo unico
l’eleggibilità del rappresentante, tra i lavoratori non
appartenenti alla Rsa, opera esclusivamente quando non sia
presente in azienda una rappresentanza sindacale ex articolo
19 della legge 300/1970.
Con l’interpello 27/2014 viene invece confermato che il
datore di lavoro può stipulare una convenzione con la Asl,
per lo svolgimento della sorveglianza sanitaria, se e quando
il medico, interessato alla convenzione, ai sensi
dell’articolo 39, comma 3, del Testo unico non sia assegnato
al servizio di vigilanza.
Infine con l’interpello 28/2014 è stato precisato che la
subordinazione gerarchica di un medico competente
incardinato nella stessa struttura ove opera il direttore
che ne è anche responsabile del servizio di prevenzione
protezione, può riguardare i soli aspetti che esulano dallo
specifico incarico di medico competente, stante la
condizione di piena autonomia organizzativa e funzionale che
gli deve essere garantita dal datore di lavoro per lo
svolgimento delle proprie funzioni, peraltro penalmente
sanzionate (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.01.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Comuni, inizio anno col botto. Gestione associata
delle funzioni, acquisti centralizzati.
Per i mini-enti è giunta l'ora di mettersi insieme.
Pronte le lettere di messa in mora dei prefetti.
Inizio anno con il botto per gli uffici
dei comuni. Da ieri, infatti, sono entrate in vigore alcune
riforme destinate a rivoluzionare l'assetto della p.a.
locale. Il cambiamento più profondo è quello che interessa i
mini-enti, ossia quelli al di sotto dei 5.000 abitanti
(limite che scende a 3.000 in montagna), che dal 1° gennaio
sono obbligati a gestire in forma associata tutte le proprie
funzioni fondamentali individuate dal legislatore statale,
con la sola eccezione di quelle riguardanti anagrafe, stato
civile e servizi elettorali.
L'obbligo risale addirittura alla manovra estiva del 2010
(dl 78), ma l'iter applicativo è stato scandito da continue
proroghe. Le funzioni già devolute a unioni o convenzioni
(che rappresentano le due uniche modalità organizzative
ammesse) o erano già gestite in forma associata (ad esempio,
servizi sociali) o sono piuttosto «leggere» (ad esempio,
protezione civile o catasto).
Il vero core business, che include le funzioni «pesanti»
(come, ad esempio, amministrazione, gestione finanziaria e
contabile e controllo, servizi pubblici locali,
pianificazione urbanistica; si veda la tabella), è ancora
tutto da trasferire.
Ecco perché fino all'ultimo molti si aspettavano un nuovo
rinvio, che però non ha trovato posto nel Milleproroghe.
Ovviamente, non ci sono ancora monitoraggi precisi sul grado
di compliance delle amministrazioni interessate,
anche se la sensazione è che molte siano ancora impreparata
a questo passaggio, complice anche la recente tornata
elettorale e le numerose novità introdotte in materia dalla
recente legge 56/2014 (legge Delrio).
Anche quelli che sono partiti, nella maggior parte dei casi,
hanno solo agito a un livello normativo «alto», rinviando
l'effettiva riorganizzazione dei servizi a successivi
regolamenti attuativi.
Di ciò è consapevole la stessa Anci, che per voce del suo
presidente, Piero Fassino, ha puntato il dito contro
l'attuale quadro legislativo, «che non incoraggia lo
sviluppo delle gestioni associate e delle unioni di comuni».
Basti pensare al fatto che la maggior parte dei tributi e
delle risorse perequative sono intestate ai singoli comuni,
anche se servono a finanziare attività da gestire a livello
sovraccomunale. Secondo Anci, «la battaglia da fare per
rilanciare le gestioni associate è quella di arrivare a un
nuovo strumento normativo che renda più semplice e più
vantaggioso ai comuni associarsi».
Nel frattempo, però, gli obblighi rimangono e molte
prefetture hanno pronte le lettere di messa in mora dei
sindaci: il mancato adempimento, infatti, è sanzionato con
il possibile esercizio del potere sostitutivo del governo
attraverso il commissariamento degli enti che non si
adeguano. Invero, si tratta di una minaccia relativa, dal
momento che difficilmente i commissari potrebbero andare
effettivamente sostituirsi agli amministratori inadempienti.
Alcune regioni hanno anche previsto l'inserimento coercitivo
dei comuni renitenti nelle forme associative ritenute più
idonee. Ma anche in tal caso è difficile pensare che si
arrivi a un conflitto fra governatori e sindaci, specie
mentre i primi sono già impegnati nella difficile partita
sulla distribuzione delle funzioni finora gestite dalla
province.
Sempre dal 1° gennaio è operativo anche l'obbligo di
acquisti centralizzati per i beni e servizi previsto dal dl
66/2014, che in teoria avrebbe dovuto scattare già dallo
scorso 1° luglio e che era stato rinviato di sei mesi (un
anno per i lavori) dal successivo dl 90. In tal caso, sono
soggetti tutti i comuni non capoluogo, indipendentemente
dalla dimensione demografica, che possono avvalersi, oltre
che di unioni e convenzioni, anche delle province e di un
soggetto aggregatore. Qui la sanzione, al contrario del caso
precedente, è molto efficace: per chi non si adegua, niente
cig, visto che l'Anac non potrà più rilasciarlo ai singoli
enti, con conseguente blocco delle procedure. Esattamente
quello che è successo sei mesi fa, rendendo inevitabile la
proroga. Dopo la pausa natalizia si vedrà se nel frattempo
qualcosa è cambiato (articolo
ItaliaOggi del 02.01.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province, prorogati i contratti a termine.
Prorogati al 31.12.2015 i contratti a termine dei lavoratori
provinciali.
Il decreto legge Milleproroghe, nella sua versione
definitiva (dl n. 192/2014, pubblicato sulla G.U. n. 302 del
31/12/2014), si è arricchito di numerose disposizioni sugli
enti di area vasta. A cominciare proprio dallo slittamento «per
le strette necessità connesse alle esigenze di continuità
dei servizi» dei contratti a tempo determinato. Inoltre,
le province che non abbiano approvato il bilancio di
previsione 2014 al 31 dicembre guadagnano due mesi in più
(fino al 28/02/2015).
Per incentivare il trasferimento dei dipendenti provinciali,
a seguito del riordino previsto dalla legge Delrio, si
stabilisce che le risorse stanziate per la proroga delle
assunzioni e rimaste inutilizzate siano destinate ai
processi di mobilità. Sono fatte salve, in ogni caso, le
assunzioni in favore dei vincitori di concorso (articolo
ItaliaOggi del 02.01.2015t). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Enti locali, assunzioni vincolate. Comuni e
regioni devono assorbire gli esuberi provinciali.
LEGGE DI STABILITÀ/ Dopo i vincitori di concorso,
priorità al personale in sovrannumero.
Nuovi vincoli per le assunzioni di
comuni e regioni. La legge di Stabilità 2015 (legge n.
190/2014) estende indirettamente anche agli altri enti
territoriali le conseguenze della «guerra santa» contro le
province, limitando fortemente le assunzioni negli anni
2015-2016.
La legge regola in modo piuttosto confuso e lacunoso l'iter
che regioni e comuni (e gli altri enti locali diversi dalle
province) dovranno rispettare, per assumere personale.
Il primo passaggio sarà, come sempre, la programmazione
triennale delle assunzioni, che per il primo biennio
risulterà fortemente limitata dalle disposizioni della legge
finanziaria.
Contestualmente, regioni e comuni dovranno determinare le
risorse disponibili per effettuare assunzioni a tempo
indeterminato in ciascuno degli anni 2015 e 2016. Nel 2015
tali risorse sono pari al 60% del costo delle cessazioni del
2014 (cumulabili con resti non utilizzati degli anni 2012 e
2013); nel 2016, la percentuale di copertura del turnover
salirà all'80%.
Le risorse così individuate dovranno essere riservate in
primo luogo all'immissione in ruolo dei vincitori di
concorso pubblico collocati nelle graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della legge di
stabilità; in subordine, alla ricollocazione nei propri
ruoli del personale provinciale dichiarato in sovrannumero e
destinato ai trasferimenti in mobilità.
Tuttavia, in deroga ai limiti percentuali al costo del
turnover, allo scopo di agevolare la ricollocazione del
personale provinciale mediante la mobilità le regioni e gli
enti locali potranno destinare la restante percentuale della
spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014
e 2015. Ciò significa che nel 2015, il 40% del costo delle
cessazioni, e nel 2016, il 20% del costo delle cessazioni
dell'anno precedente serviranno per coprire i costi
dell'acquisizione in mobilità del personale provinciale in
sovrannumero.
La spesa incontrata per acquisire in mobilità il personale
delle province non si computerà nel tetto alle spese di
personale, imposto dall'articolo 1, comma 557, della legge
296/2006.
Determinata così la spesa consentita per le assunzioni,
regioni ed enti locali nel 2015-16 avranno modo anche di
stabilire quanto personale assumere e in quali profili e
qualifica.
Regioni ed enti locali, dunque, dovranno comunicare al
ministro per gli affari regionali e le autonomie, al
ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al ministro dell'economia e delle finanze
due dati: sia il numero del personale «ricollocabile»,
corrispondente ai posti resi disponibili per turnover
secondo quando indicato sopra; sia il numero di personale «ricollocato»,
quello cioè effettivamente assunto mediante mobilità.
La legge di Stabilità, tuttavia, non chiarisce né come, né
quando regioni ed enti locali dovranno effettuare queste
comunicazioni.
Manca del tutto, poi, la precisazione di un obbligo di
pubblicare i posti disponibili per la ricollocazione, anche
se detto obbligo pare possa ricavarsi implicitamente
dall'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001, che regola le
procedure di mobilità, per quanto la mobilità imposta dalla
legge di stabilità assuma toni di straordinarietà.
Manca, ancora, qualsiasi indicazione su come regioni ed enti
locali dovranno selezionare i dipendenti provinciali che
risponderanno agli avvisi pubblici. Anche in questo caso si
può colmare la lacuna con quanto prevede l'articolo 30,
comma 1, del dlgs 165/2001, che impone alle amministrazioni
intenzionate (nel caso di specie, indotte) ad assumere per
mobilità di definire preventivamente i requisiti
professionali richiesti. Ovviamente, regioni e comuni non
potranno richiedere requisiti tali da rendere impossibile o
inefficace il processo di ricollocazione.
Altrettanto ovvio è che ai fini della mobilità «speciale»
prevista dalla legge di stabilità 2015, i dipendenti delle
province non avranno bisogno del «preventivo assenso»
dell'amministrazione di appartenenza, che, di fatto, sarà
sostituito dall'adempimento all'obbligo di determinare entro
90 giorni dalla vigenza della legge di stabilità nomi e
cognomi dei dipendenti in sovrannumero, destinati al
trasferimento verso altri enti.
Regioni ed enti locali dovranno rispettare puntualmente le
indicazioni operative desumibili dalla legge di stabilità.
Qualsiasi assunzione effettuata violando gli adempimenti
ricordati sarà nulla.
----------------
Entro il 2016 c'è il rischio che i posti
non bastino.
Presso regioni e comuni i posti disponibili per i dipendenti
provinciali in sovrannumero non saranno sufficienti al
riassorbimento entro il 2016. Il processo di mobilità dei
dipendenti delle province immaginato dalla legge di
Stabilità 2015 alla prova dei fatti risulterà molto più
complicato di quanto non risulti dalle dichiarazioni
tranquillizzanti del governo.
Al di là della circostanza, documentata dal Conto annuale
del personale, che il comparto regioni-enti locali ogni anno
non effettua mediamente più di 4.500 assunzioni, sicché la
ricollocazione dei 20 mila dipendenti provinciali
interessati risulta estremamente difficile, occorre anche
tenere presente che non tutti i posti possano considerarsi «disponibili»
per le professionalità delle province. Questo, sia per
ragioni logistiche, sia per esigenze dei fabbisogni.
Sul piano logistico, è chiaro che le possibilità di
ricollocazione presso le regioni è estremamente bassa e
limitata sostanzialmente alle province che abbiano sede nei
capoluoghi di regione. Solo in quel caso, infatti, sarà
possibile rispettare il limite territoriale dei 50
chilometri per i trasferimenti di personale. Le sedi delle
regioni decentrate in altre province sono pochissime, sicché
di fatto il contributo regionale alle ricollocazioni
risulterà molto limitato.
Per quanto riguarda i comuni, è noto che essi abbiano una
rilevante serie di scoperture per profili che nelle province
risultano assenti o indisponibili. Si pensi agli assistenti
sociali, o agli educatori degli asili nido e scuole materne:
sono fabbisogni tipici delle amministrazioni comunali,
irreperibili nelle province. Oppure, si pensi al rilevante
fabbisogno di figure professionali tecniche: ingegneri,
architetti, geometri. Nelle province esistono, ma è evidente
che non saranno facilmente oggetto di mobilità verso i
comuni, in quanto la gran parte di loro sarà addetto alle
funzioni fondamentali residuate alle province, come edilizia
scolastica, manutenzione delle strade e pianificazione
urbanistica.
Dunque, non solo i numeri potenziali dei posti disponibili
presso regioni ed è enti locali di per sé sono bassi, come
attesta il Conto annuale, ma vi è una forte possibilità di
mismatching tra i profili professionali di cui hanno
bisogno in particolare i comuni e le professionalità in
uscita dalle province.
Se, dunque, non vi sarà un rilevante intervento delle
amministrazioni statali nella ricollocazione dei 20 mila
dipendenti provinciali interessati, al primo gennaio 2017
potrebbero essere davvero in molti a dover entrare in quella
sorta di particolare cassa integrazione che è, nel lavoro
pubblico, la collocazione nelle liste di disponibilità con
l'80% dello stipendio (articolo
ItaliaOggi del 02.01.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Multe, anche la Pec per il ricorso al
prefetto.
Chi intende presentare ricorso al prefetto contro una multa
stradale d'ora in poi potrà tranquillamente utilizzare anche
la posta elettronica certificata magari allegando in formato
pdf il gravame regolarmente sottoscritto. Ovvero firmando
digitalmente la doglianza da inoltrare tempestivamente
all'ufficio territoriale del governo.
Lo ha chiarito il Ministero dell'interno con la
circolare 11.11.2014 n. 17166 di prot.
indirizzata a tutte le prefetture nel mese di novembre ma
solo ora resa nota. Sul fronte delle notifiche digitali
delle multe al momento tutto resta invariato.
Non si può infatti ancora procedere alla spedizione
elettronica delle sanzioni perché manca il decreto
interministeriale necessario al via libera dell'attesa
riforma. Eppure il risparmio connesso a questo via libera
sarebbe molto rilevante.
Ma la semplificazione digitale tarda a decollare anche in
materia di contenzioso stradale laddove la Pec dovrà
inevitabilmente diventare lo strumento ordinario di gestione
e scambio delle pratiche. Siccome numerosi cittadini hanno
reclamato circa le contraddittorie informazioni disponibili
sui siti informativi delle prefetture il Viminale ha deciso
di chiarire meglio alcuni aspetti relativi alla semplice
presentazione del ricorso al prefetto. L'invio delle
doglianze non potrà di certo avvenire con posta elettronica
ordinaria, specifica la nota ministeriale. L'articolo 203
del codice stradale specifica che il ricorso al prefetto può
essere presentato con lettera raccomandata.
L'art. 48 del dlgs 82/2005, prosegue il Viminale, ammette
però la trasmissione telematica delle comunicazioni che
necessitano di una ricevuta di invio e di una di consegna.
In buona sostanza secondo questo dlgs la trasmissione via
Pec del ricorso è parificata a tutti gli effetti alla
notifica con raccomandata. Per questo motivo, conclude il
parere centrale, poiché l'articolo 203 cds non dispone
espressamente il contrario, il ricorso al prefetto contro
una multa può essere presentato anche via Pec. Purché la
doglianza sia sottoscritta con firma digitale del soggetto
legittimato ovvero alla Pec sia allegato, in formato pdf, il
testo del gravame firmato dall'interessato (articolo
ItaliaOggi del 31.12.20). |
EDILIZIA PRIVATA:
Notaio detraibile. Ristrutturazioni,
sconto del 50%.
L'Agenzia delle entrate sugli atti legati al bonus.
Ristrutturazioni edilizie, spese notarili detraibili al 50%.
Nel caso in cui sia necessario recarsi dal notaio per fare
in modo che una determinata parte dell'edificio oggetto di
ristrutturazione sia qualificabile come pertinenza
dell'unità immobiliare (vincolo pertinenziale) le spese
sostenute possono essere detratte al 50%. L'atto del notaio,
infatti, è necessario alla determinazione del contributo
complessivo da corrispondere essendo finalizzato
all'integrazione della pertinenza nell'unità immobiliare
principale.
A chiarirlo, ieri, l'Agenzia delle entrate, tramite la
risoluzione 30.12.2014 n. 118/E, in risposta a un
interpello avente ad oggetto l'ambito di applicazione
dell'art. 16-bis del Tuir.
Nel dettaglio, il contribuente si è rivolto
all'amministrazione finanziaria per avere un chiarimento
circa la possibilità di portare in detrazione, nell'ambito
di una ristrutturazione edilizia, le spese sostenute per
ottenere dal notaio la redazione dell'atto di costituzione
del vincolo pertinenziale rispetto all'immobile principale.
Atto resosi necessario per ottenere dal comune di residenza
il permesso di costruzione.
A tal proposito l'amministrazione finanziaria ha ricordato
come «tra gli oneri che danno diritto alla detrazione del
50% rientrano, tra gli altri, le spese per l'Iva, l'imposta
di bollo e i diritti pagati per le concessioni, le
autorizzazioni e le denuncie di inizio lavori, nonché gli
oneri di urbanizzazione e altri eventuali costi strettamente
inerenti la realizzazione degli interventi», aggiungendo,
poi che, «in base alla legge regionale del Piemonte 21/1998,
gli interventi edilizi diretti al recupero del sottotetto a
fini abitativi sono classificati come interventi di
ristrutturazione o risanamento conservativo rientrando,
quindi tra quei lavori che possono usufruire della
detrazione al 50%».
Fatte queste premesse l'Agenzia ha poi chiarito che, in
realtà, l'atto notarile non è elemento essenziale alla
realizzazione degli interventi edilizi, ma è, bensì, «un
atto avente la finalità di rendere la parte di sottotetto
esiste pertinenza dell'unità immobiliare principale con la
conseguenza di essere, quindi, funzionale alla riduzione del
contributo da corrispondere».
Essendo, quindi, strettamente legato all'immobile, «il
costo sostenuto per la redazione dell'atto notarile di
costituzione del vincolo pertinenziale, in quanto rilevante
per la determinazione dell'importo detraibile, deve seguire
lo stesso regime fiscale ed essere ammesso in detrazione»
(articolo ItaliaOggi del 31.12.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., c'è già il licenziamento dei
fannulloni.
Il licenziamento per scarso rendimento nella pubblica
amministrazione esiste già da molto tempo. Non occorre
aspettare che entri in vigore la «riforma Madia» della
pubblica amministrazione per introdurlo, né rimandare alla
contrattazione nazionale collettiva.
È esattamente dalla prima tornata contrattuale successiva
alla «privatizzazione» del rapporto di lavoro
pubblico (dovuta al dlgs 29/1993, poi trasfuso nel dlgs
165/2001) che il licenziamento con preavviso per scarso
rendimento è regolato dai contratti nazionali collettivi.
Nel comparto regioni enti locali, fu disciplinato dal Ccnl
06.07.1995, all'articolo 25, comma 6, lettera e),
nell'ambito del «codice disciplinare» integrato in
quel contratto.
Oggi, la medesima fattispecie del licenziamento disciplinare
con preavviso per scarso rendimento è regolata dal Ccnl
11.04.2008, all'articolo 3, comma 7, lettera e), ai sensi
del quale costituisce causa di licenziamento la «continuità,
nel biennio, dei comportamenti rilevati attestanti il
perdurare di una situazione di insufficiente rendimento o
fatti, dolosi o colposi, che dimostrino grave incapacità ad
adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio».
L'insufficiente rendimento è, in ogni caso, fonte
dell'applicazione delle sanzioni disciplinari fino alla
multa o alla sospensione dal lavoro con privazione della
retribuzione, se di minore gravità.
Non bastasse la vigenza quasi ventennale della disciplina
contrattuale dello scarso rendimento, la riforma Brunetta,
il dlgs 150/2009 ha reso anche norma di legge il
licenziamento dovuto all'accertamento di insufficiente
produttività e capacità del lavoratore pubblico,
introducendo nel dlgs 165/2001, l'articolo 55-quater, comma
2.
Tale disposizione prevede che «il
licenziamento in sede disciplinare è disposto, altresì, nel
caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco
temporale non inferiore al biennio, per la quale
l'amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle
disposizioni legislative e contrattuali concernenti la
valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche,
una valutazione di insufficiente rendimento e questo è
dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti
la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o
regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da
atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza o
dai codici di comportamento di cui all'articolo 54».
È, dunque, da considerare priva di qualsiasi fondamento la
teoria, proposta in questi giorni anche dai sindacati,
secondo la quale nella pubblica amministrazione non si possa
licenziare i dipendenti “fannulloni” e che allo scopo
occorra attendere una norma di legge ad hoc, oppure
attendere che la norma introdotta dalla riforma Brunetta sia
attuata dai contratti collettivi.
Si è visto che la contrattazione collettiva vigente prima
ancora del dlgs 150/2009 disciplina, e da tempo, il
licenziamento per scarso rendimento. Il dlgs 150/2009 ha
precisato che esso può essere cagionato in particolare dalla
ripetuta insufficiente valutazione, secondo i sistemi
previsti dalla normativa vigente. La contrattazione
collettiva non è assolutamente condizione per l'applicazione
del licenziamento, ma solo una delle fonti dalle quali è
possibile ricavare le obbligazioni lavorative violate, poste
a fondamento del licenziamento del dipendente.
Trattandosi di licenziamento disciplinare, non si vede la
ragione per la quale ad esso non dovrebbero applicarsi le
modifiche alla disciplina di tutela dai licenziamenti
illegittimi, posto che il Jobs Act lascia la reintegra nel
posto di lavoro come rimedio proprio ai licenziamenti
disciplinari. Non sarebbe comprensibile, del resto, perché
per i lavoratori del privato vigerebbe l'inversione
dell'onere della prova dell'insussistenza del fatto, mentre
per i lavoratori pubblici (se non si applicasse la riforma,
come sostengono alcuni) no (articolo
ItaliaOggi del 31.12.2014). |
ENTI LOCALI:
In Lombardia. Province, competenze
confermate.
Confermate le competenze attribuite alle province lombarde
con alcune eccezioni: agricoltura, foreste, caccia e pesca
vengono ritrasferite alla regione Lombardia. Ma con due
eccezioni: la Città metropolitana di Milano e la provincia
di Sondrio che avranno una maggiore autonomia.
Lo prevede il progetto di legge di riforma del sistema delle
autonomie approvato dalla giunta lombarda in attuazione
della legge Delrio.
Il progetto di legge, ha sottolineato il presidente della
regione Roberto Maroni, «tiene conto della specificità
dei territori».
«La Città metropolitana di Milano», ha spiegato, «esercita
tutte le funzioni già conferite alla provincia di Milano
(comprese quelle in agricoltura, foreste, caccia e pesca) e
ulteriori funzioni rispetto a quelle fondamentali previste
dalla legge Delrio, perché questo nuovo ente è qualcosa di
molto diverso dalle nuove province».
L'altra eccezione riguarda la provincia di Sondrio che godrà
di «forme particolari di autonomia» e di un aumento
progressivo della disponibilità finanziaria» (articolo
ItaliaOggi del 31.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pertinenze, bonus 50% per le spese
notarili.
Fisco e immobili/2. Le indicazioni della risoluzione n.
118/E.
Anche la fattura del notaio relativa a un atto con il
quale il sottotetto recuperato è asservito al sottostante
appartamento rientra tra i costi di cui il contribuente può
domandare la detrazione dall’Irpef conseguente
all’effettuazione degli interventi di recupero del
patrimonio edilizio.
Lo afferma la
risoluzione 30.12.2014 n. 118/E
dell’agenzia delle Entrate.
Come noto, sono detraibili dall’Irpef lorda, in particolare,
i costi sostenuti per interventi realizzati su singole unità
immobiliari residenziali qualificabili come opere di “manutenzione
straordinaria”, di “restauro e risanamento
conservativo” e di “ristrutturazione edilizia”.
Il caso da cui la risoluzione 118/E origina era un
intervento di recupero di un sottotetto a fini abitativi
realizzato in Piemonte la quale prevede, da un lato, che «il
rilascio della concessione edilizia» occorrente per
l'effettuazione dell’intervento di recupero del sottotetto «comporta
la corresponsione del contributo commisurato agli oneri di
urbanizzazione e al costo di costruzione»; e, d'altro
lato, che detto contributo è ridotto alla metà «qualora
il richiedente la concessione provveda, contestualmente al
rilascio della concessione, a registrare ed a trascrivere,
presso la competente conservatoria dei registri immobiliari,
dichiarazione notarile con la quale le parti rese abitabili
costituiscano pertinenza dell’unità immobiliare principale».
Con questo atto di destinazione pertinenziale, in sostanza,
il soggetto che effettua l’intervento di recupero del
sottotetto si vincola a utilizzare il sottotetto recuperato
come pertinenza della propria abitazione principale: la
norma ha l’evidente fine di agevolare coloro che migliorano
la vivibilità della propria abitazione rispetto a coloro che
recuperano il sottotetto per finalità speculative (ad
esempio, per venderlo o per concederlo in locazione) o che
comunque svolgono lavori finalizzati a incrementare il
valore di un edificio diverso dalla loro casa di abitazione.
Ebbene, con la risoluzione in esame, l’agenzia delle Entrate
ammette alla detrazione il costo di questo atto recante il
vincolo di pertinenzialità, in quanto atto occorrente per
ottenere (con oneri ridotti) il rilascio del titolo
abilitativo comunale necessario per poter procedere
all’esecuzione dei lavori di recupero del sottotetto.
Il recupero a fini abitativi del sottotetto di un edificio è
senz’altro, infatti, un intervento rientrante in una delle
categorie degli interventi di recupero ammesse a detrazione
(manutenzione straordinaria, restauro e risanamento
conservativo e di ristrutturazione edilizia); ed è principio
consolidato che, tra i costi detraibili relativi a tali
interventi, siano comprendibili non solo quelli direttamente
relativi alle opere edilizie, ma anche quelli inerenti le
occorrenti formalità burocratiche; ad esempio, con le
circolari 57/E/98 e 121/E/98 è stato precisato che tra gli
oneri che danno diritto alla detrazione rientrano, tra gli
altri: le spese per l'imposta sul valore aggiunto, per
l'imposta di bollo e per i diritti pagati per le
concessioni, le autorizzazioni, le denunzie di inizio lavori
nonché per gli oneri di urbanizzazione
(articolo
Il Sole 24 Ore del 31.12.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Dal 2016 serviranno quattro mesi in più per
andare in pensione. Previdenza. In
Gazzetta il decreto sullo slittamento.
Come previsto dalle
stime della riforma delle pensioni Fornero, dal 2016 per
ottenere la pensione occorrerà aspettare 4 mesi in più. È la
conseguenza del miglioramento della speranza di vita,
certificata dalla Ragioneria dello Stato, con la conseguenza
di requisiti più severi per l’accesso alla pensione.
Il decreto del
ministero dell’Economia 16.12.2014 è stato pubblicato sulla
«Gazzetta Ufficiale» del 30 dicembre, senza ritardi rispetto
al ruolino di marcia fissato dal Dl 201/2011, convertito
nella legge 2014/2011.
Dal 2016, dunque, scatterà il secondo aumento dei requisiti
anagrafici e contributivi dopo l’adeguamento avvenuto nel
2013. In particolare, per le pensioni anticipate saranno
necessari, per gli uomini, 42 anni e dieci mesi di
contributi; per le donne 41 anni e dieci mesi di contributi.
Per la pensione di vecchiaia i requisiti sono differenti per
le donne del settore privato rispetto agli uomini e alle
donne del settore pubblico. Gli uomini, dipendenti o
lavoratori autonomi, dovranno raggiungere i 66 anni e sette
mesi di età. Lo stesso requisito è fissato per le donne del
pubblico impiego.
Per le lavoratrici del settore privato l’aumento della
speranza di vita si combina con l’innalzamento dei minimi
fissati dalla riforma previdenziale per arrivare a
parificare i requisiti di accesso alla pensione di
vecchiaia. Per le dipendenti del settore privato
occorreranno 65 anni e sette mesi, per le autonome 66 anni e
un mese. In parallelo si innalzeranno i requisiti di età per
le pensioni calcolate con il contributivo puri (63 anni e
sette mesi).
Anche per coloro a cui si applica ancora il sistema delle
quote, primi fra tutti i lavoratori occupati in attività
usuranti, la somma tra contributi ed età anagrafica si
innalzerà di altri quattro mesi e così pure l’età minima per
accedere al trattamento
(articolo
Il Sole 24 Ore del 31.12.2014). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’obbligo
di adottare le misure, tanto urgenti, quanto definitive,
idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe
solo sul soggetto responsabile dell’inquinamento medesimo,
che sia individuato come tale per avervi dato causa.
Le norme citate individuano nella responsabilità dell'autore
dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la fonte
dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza, cui aderisce il Tribunale, deduce
che l’obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza un
sito non grava automaticamente sul soggetto incolpevole, che
ha avuto la gestione dell’area risultata poi inquinata, o
sul proprietario parimenti incolpevole, fermo restando che
quest’ultimo può spontaneamente intraprendere le operazioni
di ripristino, secondo il richiamato meccanismo dell’art.
245 del d.l.vo 2006 n. 152.
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre lo
svolgimento di attività di recupero e di risanamento ai
privati che non hanno responsabilità diretta sull'origine
del fenomeno contestato e che vengono individuati solo in
quanto proprietari del bene o soggetti che ne hanno avuto la
disponibilità, come nel caso in esame, per effetto di
rapporti contrattuali o di altro tipo.
L'enunciato è d'altronde conforme al principio cui si ispira
la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex
art. 130/R, Trattato CE) che impone a colui che con la sua
attività genera un rischio di inquinamento o a chi provoca
un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o
della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata o di chi ne
abbia la disponibilità ma non sia responsabile della
contaminazione non grava alcun obbligo di porre in essere
gli interventi ambientali in argomento, ma solo la facoltà
di eseguirli, al fine di evitare l'espropriazione del
terreno interessato gravato da onere reale per le spese
sostenute per gli interventi di recupero ambientale,
assistite da privilegio speciale immobiliare ex art. 253 del
d.l.vo n. 152/2006.
La normativa citata prevede, infatti, che, in caso di
mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte
del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata
individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale
vanno eseguite dall'amministrazione competente, la quale
potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del
valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in
cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti
sul terreno oggetto dei suddetti interventi.
Insomma, l’amministrazione non può imporre a chi ha la
disponibilità di un’area inquinata o al proprietario
dell’area stessa, che non sia anche l'autore
dell'inquinamento, l'obbligo di porre in essere le misure di
messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui al d.l.vo
n. 152/2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario
incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto
dal successivo art. 253 in tema di oneri reali e privilegio
speciale immobiliare.
Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del
d.lgs. n. 152/2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti,
una chiara e netta distinzione tra la figura del
responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario del
sito, che non abbia causato o concorso a causare la
contaminazione.
Le censure sono fondate.
In ordine alle procedure di bonifica dei siti inquinati,
l’art. 242 del d.l.vo n. 152/2006, ai primi tre commi,
dispone che: “1. Al verificarsi di un evento che sia
potenzialmente in grado di contaminare il sito, il
responsabile dell'inquinamento mette in opera entro
ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà
immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui
all'articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica
all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che
possano ancora comportare rischi di aggravamento della
situazione di contaminazione.
2. Il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie
misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla
contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri
oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello
delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia
stato superato, provvede al ripristino della zona
contaminata, dandone notizia, con apposita
autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti
per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione.
L'autocertificazione conclude il procedimento di notifica di
cui al presente articolo, ferme restando le attività di
verifica e di controllo da parte dell'autorità competente da
effettuarsi nei successivi quindici giorni. Nel caso in cui
l'inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i
parametri da valutare devono essere individuati, caso per
caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi
svolte nel tempo.
3. Qualora l'indagine preliminare di cui al comma 2 accerti
l'avvenuto superamento delle CSC anche per un solo
parametro, il responsabile dell'inquinamento ne dà immediata
notizia al comune ed alle province competenti per territorio
con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in
sicurezza di emergenza adottate. Nei successivi trenta
giorni, presenta alle predette amministrazioni, nonché alla
regione territorialmente competente il piano di
caratterizzazione con i requisiti di cui all'Allegato 2 alla
parte quarta del presente decreto. Entro i trenta giorni
successivi la regione, convocata la conferenza di servizi,
autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali
prescrizioni integrative. L'autorizzazione regionale
costituisce assenso per tutte le opere connesse alla
caratterizzazione, sostituendosi ad ogni altra
autorizzazione, concessione, concerto, intesa, nulla osta da
parte della pubblica amministrazione”.
Il successivo art. 250 precisa, inoltre, che "qualora i
soggetti responsabili della contaminazione non provvedano
direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo
ovvero non siano individuabili e non provvedano né il
proprietario del sito né altri soggetti interessati, le
procedure e gli interventi di cui all'articolo 242 sono
realizzati d'ufficio dal comune territorialmente competente
e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l'ordine
di priorità fissato dal piano regionale per la bonifica
delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti
pubblici o privati, individuati ad esito di apposite
procedure ad evidenza pubblica. Al fine di anticipare le
somme per i predetti interventi le regioni possono istituire
appositi fondi nell'ambito delle proprie disponibilità di
bilancio”.
Del resto, l’art. 192 del medesimo d.l.vo, nel disciplinare
il divieto di abbandono di rifiuti, precisa che “1.
L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo
e nel suolo sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi
genere, allo stato solido o liquido, nelle acque
superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli
articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi
1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate.
4. Qualora la responsabilità del fatto illecito sia
imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona
giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono
tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che
siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo
le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in
materia di responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche, delle società e delle associazioni”.
In argomento il Tribunale ha già chiarito che il combinato
disposto delle disposizioni appena citate rende evidente che
l’obbligo di adottare le misure, tanto urgenti, quanto
definitive, idonee a fronteggiare la situazione di
inquinamento incombe solo sul soggetto responsabile
dell’inquinamento medesimo, che sia individuato come tale
per avervi dato causa (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV,
26.08.2014, n. 2253; TAR Lombardia Milano, sez. IV,
08.07.2014, n. 1768; TAR Lombardia Milano, sez. IV,
30.05.2014, n. 1373; TAR Lombardia Milano, sez. IV,
13.01.2014, n. 108; TAR Lombardia Milano, sez. IV,
31.01.2012, n. 332).
Le norme citate individuano nella responsabilità dell'autore
dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la fonte
dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza, cui aderisce il Tribunale, deduce
che l’obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza un
sito non grava automaticamente sul soggetto incolpevole, che
ha avuto la gestione dell’area risultata poi inquinata, o
sul proprietario parimenti incolpevole, fermo restando che
quest’ultimo può spontaneamente intraprendere le operazioni
di ripristino, secondo il richiamato meccanismo dell’art.
245 del d.l.vo 2006 n. 152 (cfr., oltre alla giurisprudenza
già richiamata, anche TAR Toscana, sez. II, 06.05.2009, n.
762).
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre lo
svolgimento di attività di recupero e di risanamento ai
privati che non hanno responsabilità diretta sull'origine
del fenomeno contestato e che vengono individuati solo in
quanto proprietari del bene o soggetti che ne hanno avuto la
disponibilità, come nel caso in esame, per effetto di
rapporti contrattuali o di altro tipo.
L'enunciato è d'altronde conforme al principio cui si ispira
la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art.
174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a colui che con
la sua attività genera un rischio di inquinamento o a chi
provoca un inquinamento di sostenere i costi della
prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata o di chi ne
abbia la disponibilità ma non sia responsabile della
contaminazione non grava alcun obbligo di porre in essere
gli interventi ambientali in argomento, ma solo la facoltà
di eseguirli, al fine di evitare l'espropriazione del
terreno interessato gravato da onere reale per le spese
sostenute per gli interventi di recupero ambientale,
assistite da privilegio speciale immobiliare ex art. 253 del
d.l.vo n. 152/2006.
La normativa citata prevede, infatti, che, in caso di
mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte
del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata
individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale
vanno eseguite dall'amministrazione competente, la quale
potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del
valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in
cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti
sul terreno oggetto dei suddetti interventi.
Insomma, l’amministrazione non può imporre a chi ha la
disponibilità di un’area inquinata o al proprietario
dell’area stessa, che non sia anche l'autore
dell'inquinamento, l'obbligo di porre in essere le misure di
messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui al d.l.vo
n. 152/2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario
incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto
dal successivo art. 253 in tema di oneri reali e privilegio
speciale immobiliare.
Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del
d.lgs. n. 152/2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti,
una chiara e netta distinzione tra la figura del
responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario del
sito, che non abbia causato o concorso a causare la
contaminazione (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
13.11.2013, n. 25 e Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
ordinanza, 25.09.2013, n. 21) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.01.2015 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: La
scala di accesso al tetto resta comune.
Condominio. Occorre un titolo valido
per poter «inglobare» gli spazi dell’ultimo piano.
La scala per raggiungere il tetto del condominio non si
tocca. Anche se gli spazi comuni usati per l’accesso sono
ormai in uso esclusivo a un condòmino.
Il caso è abbastanza frequente, soprattutto in città: la
fame di terrazzi e sottotetti ha portato in molti casi
all’acquisto di quelli che erano beni comuni, o alla loro
concessione in uso esclusivo a chi possiede l’appartamento
dell’ultimo piano.
In molte situazioni, però, l’accesso al tetto è assicurato
da una scala che, partendo dall’ultimo piano (di regola dal
pianerottolo) esce sul tetto o sbuca su un terrazzo comune
da cui si accede al tetto con un’ulteriore scala. Quando il
terrazzo o il lastrico solare vengono però ceduti in
esclusiva, spesso l’idea che questi accessi vengano usati
impropriamente dai condòmini, attraversando uno spazio che
ormai si considera di proprietà, spinge i concessionari del
diritto a rendere difficile o addirittura impossibile
l’accesso. Si tratta, ovviamente, di un comportamento
illegittimo, di cui la Corte di Cassazione, Sez. II civile,
si è occupata da ultimo con la
sentenza 08.01.2015 n. 40.
Nel caso affrontato dalla Corte la proprietaria dell’unità
immobiliare all’ultimo piano aveva anche un terrazzo in uso
esclusivo e la mansarda con una servitù di accesso a favore
del condominio per la manutenzione del tetto. Al terrazzo si
accedeva con una scala condominiale. La condòmina, però,
inglobava il volume scala nel suo appartamento, installando
una scaletta verticale disagevole e pericolosa.
Il condominio inziava un contenzioso che lo vedeva
vittorioso in primo e secondo grado ma la condòmina non si
arrendeva. La Cassazione le ha dato a sua volta torto,
affermando che i motivi da lei dedotti sono infondati: «poiché
nella specie l’area in contestazione riguarda parte del vano
scala e gli ultimi tre gradini della originaria scala in
legno che collegava, assieme al pianerottolo, il vano alla
porta d’accesso al terrazzo condominale, vale, ai fini della
prova della proprietà comune in capo ai condòmini, la norma
dell’articolo 1117 del Codice civile, relativa alle parti
dell’edificio che, in difetto di prova contraria (da
fornirsi a opera del condòmino) debbono presumersi comuni».
E dato che dai titoli non era emerso un diritto ma al
contrario l’inglobamento era solo una «mera circostanza
di fatto», la Cassazione ha confermato la condanna della
condòmina a ripristinare a sue spese la «situazione dei
luoghi quale esistente prima dei lavori di ristrutturazione
entro 120 giorni»; in mancanza, veniva autorizzato il
condominio a provvedere e ad addebitare i costi alla
condòmina inadempiente (articolo
Il Sole 24 Ore del 09.01.2015). |
TRIBUTI:
Tares sul garage anche se non lo si usa.
Il contribuente paga la Tares sul garage anche se non lo
utilizza. Il prelievo fiscale scatta per il solo fatto che
il comune mette a disposizione il servizio.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con
sentenza 07.01.2015 n. 33, ha accolto il ricorso
del comune di Catania. Insomma, per la VI Sez. civile - T la
difesa del contribuente che puntava sul mancato utilizzo del
garage non ha come conseguenza una riduzione o addirittura
l'esenzione dall'imposta.
Gli Ermellini hanno spiegato che in virtù degli artt. 62 e
64 del dlgs 507/1993, la tassa è dovuta indipendentemente
dal fatto che l'utente utilizzi il servizio, salva
l'autorizzazione dell'ente impositore allo smaltimento dei
rifiuti secondo altre modalità, purché il servizio sia
istituito, e sussista la possibilità della utilizzazione, ma
ciò non significa che, per ogni esercizio di imposizione
annuale, la tassa è dovuta solo se il servizio sia stato
esercitato dall'ente impositore in modo regolare, così da
consentire al singolo utente di usufruirne pienamente.
Infatti, il presupposto impositivo è costituito dal solo
fatto oggettivo dell'occupazione o della destinazione del
locale, a qualsiasi uso adibiti, e prescinde, quindi, del
tutto dal titolo in base al quale gli immobili sono occupati
o detenuti (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2015). |
APPALTI:
Il principio di tassatività delle cause di
esclusione ex art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, si
applica anche alle concessioni di servizi.
Il solo parametro per valutare la legittimità delle
ammissioni/esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è
dato dall' art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.
Il principio di tassatività delle cause di esclusione,
disposto dall'art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006
(introdotto dall'art. 4, c. 2, lett. d), n. 2), D.L.
13.05.2011, n. 70, conv., con modif., dalla L. 12.07.2011,
n. 106), si applica anche alle concessioni di servizi di cui
all'art. 30 Codice Appalti, quale principio fondamentale
generale relativo ai contratti pubblici e costituisce
specificazione dei principi di massima partecipazione e di
proporzionalità, talché la sua estensione alla materia delle
concessioni trova esplicito fondamento nell'art. 30, c. 3,
del D.Lgs. n. 163/2006.
Diversamente opinando, si giungerebbe ad un'ingiustificata
divaricazione del regime da seguire nella gare per
l'affidamento di appalti ed in quelle per l'affidamento di
concessioni di servizi.
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che l'art. 46, c. 1-bis,
D.Lgs. n. 163/2006 "ha previsto la tassatività delle
cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante
può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di
mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e
dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti,
nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione".
La stessa disposizione normativa, poi, stabilisce, altresì,
che (inciso finale) "Dette prescrizioni sono, comunque,
nulle". Inoltre, è principio giurisprudenziale altrettanto
pacifico che "le norme che disciplinano i requisiti
soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche vanno
interpretate nel rispetto dei principi di tipicità e
tassatività delle ipotesi di esclusione. Questo orientamento
ha recentemente trovato una puntuale traduzione normativa
con il nuovo c. 1-bis dell'art. 46 d.lgs. 12.04.2006. n.
163, introdotto dall'art. 4 del d.l. 13.05.2011, n. 70".
Pertanto, il solo parametro per valutare la legittimità
delle ammissioni/esclusioni dalle procedure selettive
pubbliche è dato dal citato art. 46, c. 1-bis, risultando
l'esclusione legittima solo se ivi rinvenga copertura.
Conseguentemente, da un lato, in tanto l'esclusione è
legittima (e doverosa), in quanto trovi copertura nell'art.
46, c. 1-bis citato (e anche quando la legge di gara si
spinga, illegittimamente, a negare espressis verbis
la conseguenza espulsiva); dall'altro, tutte le volte in cui
non trovi fondamento nel menzionato paradigma normativo,
l'esclusione è illegittima anche quando (illegittimamente)
prevista nella lex specialis, affetta sul punto da
nullità testuale (art. 46, c. 1-bis, inciso finale) e
parziale (in applicazione analogica dell'art. 1419 c.2 del
codice civile) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.01.2015 n. 18 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA: Stabilisce
l’art. 30, primo comma, del d.P.R. 06.06.2001, n. 30 che “si
ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o
adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
Quella descritta dalla norma appena illustrata è la cd. “lottizzazione
abusiva materiale” che si caratterizza per la presenza
di opere finalizzate alla trasformazione dei suoli; e che si
differenzia dalla cd. “lottizzazione abusiva negoziale”
(sempre definita dall’art. 30, comma primo, del d.P.R. n.
380 del 2001) la quale si realizza allorché il proprietario,
senza realizzare opere, dopo averlo frazionato, alieni il
terreno in lotti di dimensioni tali da denotare
inequivocabilmente la volontà di destinarli a scopi
edificatori.
La giurisprudenza ha chiarito che affinché si concretizzi
l’illecito della lottizzazione abusiva materiale è
sufficiente la realizzazione di qualsiasi tipo di opere in
concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio
preesistente e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia
un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione
(che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico
urbanistico che necessita adeguamento degli standard. La
ratio della norma è invero quella di preservare la potestà
programmatoria attribuita all'Amministrazione, al fine di
garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un
corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli
insediamenti abitativi e dei correlativi standard
compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Peraltro, la stessa giurisprudenza ha altresì chiarito che
-proprio perché lo scopo del legislatore è quello di evitare
la trasformazione urbanistica complessiva di un’area in
assenza di un’adeguata programmazione che renda
urbanisticamente sostenibile tale trasformazione- l’illecito
è integrato anche nel caso in cui per le singole opere
facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il
titolo edilizio.
12. Stabilisce l’art. 30, primo comma, del d.P.R.
06.06.2001, n. 30 che “si ha lottizzazione abusiva di
terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere
che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione”.
13. Quella descritta dalla norma appena illustrata è la cd.
“lottizzazione abusiva materiale” che si
caratterizza per la presenza di opere finalizzate alla
trasformazione dei suoli; e che si differenzia dalla cd. “lottizzazione
abusiva negoziale” (sempre definita dall’art. 30,
comma primo, del d.P.R. n. 380 del 2001) la quale si
realizza allorché il proprietario, senza realizzare opere,
dopo averlo frazionato, alieni il terreno in lotti di
dimensioni tali da denotare inequivocabilmente la volontà di
destinarli a scopi edificatori.
14. La giurisprudenza ha chiarito che affinché si
concretizzi l’illecito della lottizzazione abusiva materiale
è sufficiente la realizzazione di qualsiasi tipo di opere in
concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio
preesistente e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia
un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione
(che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico
urbanistico che necessita adeguamento degli standard. La
ratio della norma è invero quella di preservare la
potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione, al
fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica,
un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli
insediamenti abitativi e dei correlativi standard
compatibile con le esigenze di finanza pubblica (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 07.06.2012, n. 3381).
15. Peraltro, la stessa giurisprudenza ha altresì chiarito
che -proprio perché lo scopo del legislatore è quello di
evitare la trasformazione urbanistica complessiva di un’area
in assenza di un’adeguata programmazione che renda
urbanisticamente sostenibile tale trasformazione- l’illecito
è integrato anche nel caso in cui per le singole opere
facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il
titolo edilizio (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
26.03.1996, n. 301) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.01.2015 n. 13 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gara
valida anche senza una «carta». Appalti. Sentenza del
Consiglio di Stato.
Minori formalità e meno esclusioni automatiche nelle gare
di appalto, con l’entrata in vigore delle norme dell’estate
2014 che rendono obbligatorio e non più facoltativo il
soccorso istruttorio.
Lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 05.01.2015 n. 18, che applica il
principio del soccorso istruttorio ampliato dal 25 giugno
scorso con il Dl 90/2014, convertito dalla legge 114
(articolo 39).
La norma consente una più vasta ammissione alle gare per le
imprese che omettano documenti necessari per partecipare.
Per di più, sottolinea Consiglio di Stato, l’innovazione
esprime una generale volontà del legislatore di superare le
cause di esclusione meramente formali. L’incompletezza delle
dichiarazioni dei concorrenti genera infatti solo una
sanzione economica a favore della stazione appaltante.
Nel caso deciso con la sentenza 18/2015, un concorrente
aveva partecipato alla gara in associazione temporanea con
altre imprese, una delle quali aveva in affitto un ramo di
azienda: gli amministratori e i tecnici della società che
aveva ceduto in affitto il ramo di azienda avrebbero dovuto
dichiarare l’assenza di pregiudizi penali. Pur mancando tali
dichiarazioni, il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima
la partecipazione dell’associazione temporanea, perché la
mancanza della dichiarazione degli amministratori
dell’azienda ceduta in locazione è stata ritenuta un “peccato
veniale”, applicando il generale principio della più
ampia partecipazione.
Un principio che la norma del Dl 90/2014 applica
distinguendo tra «incompletezza delle dichiarazioni»
e «irregolarità non essenziali». L’incompletezza
delle dichiarazioni genera una penale a favore della
stazione appaltante, la quale assegna al concorrente
termini, non superiore a 10 giorni, affinché siano integrate
le dichiarazioni necessarie, mentre le irregolarità non
essenziali non generano, da parte della stazione appaltante,
nemmeno la richiesta di regolarizzazione.
Esercitare il potere di soccorso istruttorio diventa quindi
doveroso per ogni ipotesi di mancanza o irregolarità di
dichiarazioni e l’esclusione dalla gara è una sanzione che
scatta solo quando vi è una omessa produzione, integrazione
o regolarizzazione delle dichiarazioni carenti entro il
termine assegnato dalla stazione appaltante.
L’intero meccanismo non è completamente indolore, perché le
irregolarità che vengono sanate devono essere accompagnate
dal pagamento di una sanzione pecuniaria in misura non
inferiore all’uno per mille, non superiore all’uno per cento
del valore della gara e comunque non superiore a 50.000
euro.
È quindi prevedibile una diminuzione del contenzioso o, al
più (Tar Milano, ordinanza 1604/2014, confermata dal
Consiglio di Stato 5809/2014) uno spostamento delle liti,
che non avranno più ad oggetto le esclusioni bensì l’entità
della sanzione pecuniaria, impugnata dal concorrente che
ritenga di aver dichiarato tutto il necessario
(articolo
Il Sole 24 Ore del 09.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Sull'inosservanza dell'obbligo dichiarativo di
assenza di pregiudizi penali in capo alla società cedente
art. 38 del d.lgs. n. 163/2006.
L'omessa dichiarazione di assenza di pregiudizi penali in
capo alla società cedente ex art. 38 del d.lvo n. 163/2006,
comporta automaticamente l'esclusione dalla gara solo se
espressamente prevista nel bando o se, in ogni caso, vi sia
la prova che gli amministratori (anche cessati nel triennio,
ora nell'anno antecedente la presentazione della
dichiarazione) per i quali sia stata omessa la dichiarazione
hanno in concreto riportato pregiudizi penali non dichiarati
nella presentazione dell'offerta.
Con il d.l. 24.06.2014, n. 90 (recante Misure urgenti per la
semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l'efficienza degli uffici giudiziari), conv. in l., con
modif., dall'art. 1, c. 1, della l. 11.08.2014, n. 114, il
legislatore sembra addirittura superare espressamente
l'interpretazione giurisprudenziale più rigorista che
riteneva legittima l'esclusione a fronte dell'omessa
allegazione della documentazione sul possesso dei requisiti
di idoneità morale; l'art. 39 del decreto sopra citato,
aggiungendo il c. 2-bis all'art. 38 del d.lgs. cit.,
infatti, prevede che, in caso di incompletezza delle
dichiarazioni, vi sia soltanto una penale in favore della
stazione appaltante, la quale assegna al concorrente un
termine, che non deve essere superiore ai dieci giorni,
affinché siano integrate le dichiarazioni necessarie.
Nel caso in cui, invece, le irregolarità non siano
essenziali, la stazione appaltante non ne deve richiedere
nemmeno la regolarizzazione. Pertanto, anche secondo le
scelte del legislatore più recente sembra confermato il
venir meno del principio dell'esclusione automatica dalla
gara.
Rimane, dunque, applicabile il principio ormai consolidato
in giurisprudenza secondo cui l'inosservanza dell'obbligo
dichiarativo di cui all'art. 38 del d.lgs. cit. sugli
amministratori dell'impresa dalla quale si è ottenuto la
disponibilità dell'azienda (in particolare nel caso in cui
si tratti di affitto d'azienda), può portare all'esclusione
del concorrente dalla gara solo se così prevede il bando
ovvero, in caso contrario, se risultino in concreto
pregiudizi penali a carico degli amministratori della
società locatrice (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 18 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Grava sul privato l’onere della prova circa il
possesso del titolo edilizio abilitativo o delle ragioni per
le quali, nel caso particolare, un titolo edilizio non era
necessario.
---------------
La repressione degli abusi edilizi è espressione di attività
strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza
o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire
in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della
commissione dell’abuso.
---------------
L’illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae
e che conserva nel tempo la sua natura, e l’interesse
pubblico alla repressione dell’abuso è “in re ipsa”.
L’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è
necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico
all’osservanza della normativa urbanistico–edilizia e al
corretto governo del territorio. Non sussiste alcuna
necessità di motivare in modo particolare un provvedimento
col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto,
quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca
della commissione dell’abuso e la data dell’adozione
dell’ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela
l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la
realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore “contra legem”. Non può
ammettersi cioè un affidamento meritevole di tutela alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva. Colui che
realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che
l'amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo
avvantaggiato, adottando solamente a notevole distanza di
tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile.
D’altra parte, ammettere la sostanziale “estinzione” di un
abuso per il decorso del tempo vorrebbe dire accettare una
sorta di sanatoria “extra ordinem”, di fatto, che opererebbe
anche quando l’interessato non ha ritenuto di avvalersi del
corrispondente istituto previsto e disciplinato dalla
normativa di sanatoria di cui alle leggi nn. 47/1985,
724/1994 e 326/2003; senza neanche pagare le somme dovute a
titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata,
il che non sarebbe conforme a principi basilari di
ragionevolezza e parità di trattamento nell’esercizio del
potere amministrativo.
Invero, l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare” (conf. CdS, IV, n.
4403/2011, secondo cui l’ordinanza di demolizione
costituisce atto dovuto della p.a., riconducibile ad
esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza
dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del
medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla
legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio
non richiede una particolare motivazione, essendo
sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito
dell’opera realizzata; né è necessaria una previa
comparazione dell’interesse pubblico alla repressione
dell’abuso, che è in “re ipsa”, con l’interesse del privato
proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento
repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione
dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di
sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi
nel tempo).
Il motivo è infondato e va respinto.
In via preliminare e in termini generali va rammentato che:
- grava sul privato l’onere della prova circa il possesso
del titolo edilizio abilitativo o delle ragioni per le
quali, nel caso particolare, un titolo edilizio non era
necessario;
- la repressione degli abusi edilizi è espressione di
attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di
decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva
intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza
dall’epoca della commissione dell’abuso;
- l’illecito edilizio ha carattere permanente, che si
protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e
l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso è “in re
ipsa”. L’interesse del privato al mantenimento
dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto
all’interesse pubblico all’osservanza della normativa
urbanistico–edilizia e al corretto governo del territorio.
Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la
demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo
periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e
la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione,
poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso
sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva
si concretizza in una volontaria attività del costruttore “contra
legem”. Non può ammettersi cioè un affidamento
meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può
dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia prima in un
certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a
notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi
dell'abuso non sanabile (v. “ex plurimis”, Cons. St.,
IV, 3182/2013, VI, 6072/2012 e IV, 4403 /2011, 79/2011,
5509/2009 e 2529/2004);
- d’altra parte, ammettere la sostanziale “estinzione”
di un abuso per il decorso del tempo vorrebbe dire accettare
una sorta di sanatoria “extra ordinem”, di fatto, che
opererebbe anche quando l’interessato non ha ritenuto di
avvalersi del corrispondente istituto previsto e
disciplinato dalla normativa di sanatoria di cui alle leggi
nn. 47/1985, 724/1994 e 326/2003; senza neanche pagare le
somme dovute a titolo di oblazione stabilite dalla normativa
sopra citata, il che non sarebbe conforme a principi
basilari di ragionevolezza e parità di trattamento
nell’esercizio del potere amministrativo;
- il collegio non ignora che per un diverso orientamento,
più sensibile alle esigenze del privato, su cui v. Cons.
St., sez. V, nn. 883/2008 e 3270/2006, “il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il
protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla
vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento in capo
al privato, rispetto al quale graverebbe sul Comune un “onere
di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello al mero ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato”.
Si ritiene, tuttavia, di non condividere l’orientamento
suddetto. Va invece accolta la tesi per cui, come si è già
visto (v. , “ex multis”, Cons. St., IV, n. 79/2011 e,
ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali aggiuntivi), “l'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare” (conf. CdS, IV, n. 4403/2011, secondo cui
l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto della
p.a., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in
mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In primo luogo, e in termini generali, va
ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce attività vincolata della P. A., con la
conseguenza che ai fini dell’adozione delle ordinanze di
demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell’atto.
In secondo luogo, il motivo di gravame non potrebbe
comunque trovare accoglimento atteso che, dovendo la
disciplina sulla partecipazione del privato al procedimento
amministrativo essere esaminata da un’angolazione
“antiformalistica”, andrebbe considerato il fatto che
l’ordinanza di demolizione ha, quale presupposto, in larga
misura, il precedente provvedimento n. 770/09 di
annullamento delle dia presentate dal 2006, sicché ben
potrebbe parlarsi –se non di una partecipazione in senso
proprio-, quantomeno di una conoscenza del procedimento “de
quo” da parte della società, in grado di far pervenire
proprie osservazioni.
Ma, soprattutto, va considerata l'innovazione apportata
dalla l. n. 15 del 2005 che, nel modificare la l. n.
241/1990, ha introdotto l'art. 21-octies che, al comma 2,
prescrive che "non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato. Il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per
mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'Amministrazione dimostri che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato".
Il citato art. 21-octies, comma 2, ha introdotto il
principio della “dequotazione” dei vizi formali del
procedimento non incidenti sul contenuto sostanziale del
provvedimento finale, specie se avente natura vincolata, di
tal che, sussistendone i presupposti, va escluso che la
violazione della regola procedimentale suindicata possa
assurgere a vizio in sé idoneo ad annullare il provvedimento
impugnato in primo grado.
---------------
Sulla questione
se costituisce requisito essenziale dell’ingiunzione a
demolire anche l’indicazione dell’area soggetta ad
acquisizione gratuita e di diritto, per il caso di mancata
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi entro i 90
giorni dall’ingiunzione, è stato affermato che “l’omessa o
imprecisa indicazione di un'area che verrà acquisita di
diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di
illegittimità dell'ordinanza di demolizione… mentre con il
contenuto dispositivo di quest'ultima si commina, appunto,
la sanzione della demolizione del manufatto abusivo,
l'indicazione dell'area costituisce presupposto accertativo
ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura
sanzionatoria”.
Persiste infatti, nonostante la parzialmente diversa
formulazione dell’art. 31, comma 2, del t. u. n. 380/2001
–che contiene la locuzione aggiuntiva “indicando nel
provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai
sensi del comma 3”, mancante nell’art. 7, comma 2, della l.
n. 47/1985- la netta distinzione tra ordinanza di
demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo,
dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a
demolire.
Va quindi mantenuto il principio in base al quale
l'individuazione dell'area da acquisirsi non deve essere
necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione
di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben
potendo essere riportata nel momento in cui si procede
all'acquisizione del bene.
L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione,
dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al
patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per
il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non
costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa
giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è
tutelata dalla previsione di un successivo e distinto
procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale,
tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di
accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con
precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
3.2. E’ infondato e
va respinto anche il motivo sub. 2), articolato nei profili
2.1. e 2.2., con cui si denuncia l’erroneità della sentenza
riproponendo, in sostanza, le censure mosse in primo grado
relativamente alla omessa individuazione –nell’ordinanza
140/12- dell’area di sedime che, nel caso di mancato
ripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni, formerà
oggetto di acquisizione gratuita e di diritto al patrimonio
del Comune ex art. 31, commi 2 e 3, del t. u. n. 380/2001, e
alla violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990.
3.2.1. Per quanto attiene a quest’ultima violazione
procedimentale, in primo luogo, e in termini
generali, va ribadito che l’esercizio del potere repressivo
degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della P.
A., con la conseguenza che ai fini dell’adozione delle
ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto
(v., “ex multis”, Cons. St., sez. V, nn. 3337/2012 e
4764/2011; più di recente v. Cons. St., sez. IV, n.
734/2014, con indicazioni giurisprudenziali ulteriori).
In secondo luogo, anche a voler seguire, per un
momento, l’impostazione argomentativa dell’appellante, il
motivo di gravame non potrebbe comunque trovare accoglimento
-con il conseguente accoglimento dell’appello e
l’annullamento “in toto” dell’ordinanza n. 140/12,
salvi però i provvedimenti ulteriori dell’autorità
amministrativa, atteso che, dovendo la disciplina sulla
partecipazione del privato al procedimento amministrativo
essere esaminata da un’angolazione “antiformalistica”,
andrebbe considerato il fatto che l’ordinanza di demolizione
ha, quale presupposto, in larga misura, il precedente
provvedimento n. 770/09 di annullamento delle dia presentate
dal 2006 (atto impugnato senza successo da Immobilsud
dinanzi al giudice amministrativo), sicché ben potrebbe
parlarsi –se non di una partecipazione in senso proprio-,
quantomeno di una conoscenza del procedimento “de quo”
da parte della società, in grado di far pervenire proprie
osservazioni.
Ma, soprattutto, va considerata l'innovazione apportata
dalla l. n. 15 del 2005 che, nel modificare la l. n.
241/1990, ha introdotto l'art. 21-octies che, al comma 2,
prescrive che "non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato" (in tema di
applicazione dell’art. 21-octies cit., comma 2, alle
ingiunzione di demolizione v. Cons. St., nn. 1208/2014,
3471/2013 e 4403/2011).
Il citato art. 21-octies, comma 2, ha introdotto il
principio della “dequotazione” dei vizi formali del
procedimento non incidenti sul contenuto sostanziale del
provvedimento finale, specie se avente natura vincolata, di
tal che, sussistendone i presupposti, va escluso che la
violazione della regola procedimentale suindicata possa
assurgere a vizio in sé idoneo ad annullare il provvedimento
impugnato in primo grado.
Nel caso in esame, dalle considerazioni in diritto svolte
sopra e da quelle che si esporranno in appresso a
confutazione dei motivi d’appello di natura “sostanziale”
dedotti emerge che, anche in presenza di un formale avviso
di avvio del procedimento destinato a concludersi con
l’ordinanza di demolizione n. 140/12 contestata avanti al
Tar, il contenuto finale dell’ordinanza emanata non avrebbe
potuto essere diverso da quello che è stato in concreto
(fatta salva quella parte dell’ordinanza di demolizione di
cui è stata accertata giudizialmente l’illegittimità).
Va perciò condivisa l’asserzione della sentenza appellata
secondo la quale, per le ragioni per le quali vanno respinti
i motivi di ricorso diversi da quelli posti a base
dell’accoglimento (parziale) del ricorso limitatamente alle
opere di cui ai punti 4, 15, 16, 19 e 20 della determina
140/12, trova applicazione il disposto di cui all’art. 21–octies,
comma 2, della l. n. 241/1990, la cui “ratio” è
diretta a “far prevalere gli aspetti sostanziali su
quelli formali nelle ipotesi in cui le garanzie
procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a
causa della mancanza di un potere concreto di scelta da
parte dell'Amministrazione”.
3.2.2. Per quanto riguarda, poi, l’omessa individuazione,
direttamente nell’ordinanza di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi, dell’area di sedime che in caso di
mancata demolizione e riduzione dei luoghi nel pristino
stato entro 90 giorni formerà oggetto di acquisizione
gratuita e di diritto al patrimonio del Comune, va
rammentato in via preliminare che l’art. 31, comma 2, del t.
u. n. 380/2001 prevede che il dirigente o funzionario
comunale competente, “accertata l'esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai
sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al
responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di
diritto, ai sensi del comma 3”; e che il comma 3 dello
stesso art. 31 dispone che “se il responsabile dell'abuso
non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato
dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione,
il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune…”.
Va rammentato inoltre che in base a quanto dispone(va)
l’art. 7, commi 2 e 3, della l. n. 47/1985, “il sindaco,
accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione,
in totale difformità dalla medesima ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi del successivo articolo 8,
ingiunge la demolizione. Se il responsabile dell'abuso non
provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il
bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo
le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune…”; e che la
giurisprudenza formatasi nella vigenza del citato art. 7 ha
affermato più volte (v. , “ex plurimis”, Cons. St. ,
sez. V. n. 3438 del 2014, sez. IV, n. 4659 del 2008 e sez.
VI, n. 1998 del 2004) che “la funzione dell'ingiunzione
di demolizione è quella di provocare il tempestivo
abbattimento del manufatto abusivo ad opera del
responsabile, rendendogli noto che il mancato adeguamento
spontaneo determina sanzioni più onerose della semplice
demolizione. A tale scopo è quindi sufficiente che l'atto
indichi il tipo di sanzioni che la legge collega all'abuso,
senza puntualizzare le aree eventualmente destinate a
passare nel patrimonio comunale. L'interessato, infatti, può
così compiere le proprie valutazioni, le quali non possono
essere influenzate dalla semplice non conoscenza delle aree
di cui il comune disporrà concretamente l'acquisizione. La
l. n. 47 del 1985 ha distinto, nell'ambito dell'art. 7, i
due atti, di ingiunzione e acquisitivo, basando il primo sul
presupposto dell'abuso, con il contenuto proprio della
contestazione della trasgressione e dell'ordine di
demolizione, e il secondo sulla verifica di inottemperanza
al primo. Requisiti dell'ingiunzione di demolizione sono
perciò l'esistenza della condizione che la rende vincolata,
cioè l'accertata esecuzione di opere abusive, e il
conseguente ordine di demolizione e non anche la
specificazione puntuale della portata delle sanzioni,
richiamate nell'atto quanto alla tipologia preordinata dalla
legge, ma recate con successivo, eventuale provvedimento”.
Ciò posto, questo collegio ritiene che anche nella vigenza
del t.u. n. 380/2001 il principio sopra trascritto non muti.
Ai fini della reiezione del profilo di censura il collegio
non ha che da fare richiamo a un precedente specifico di
questo Consiglio (sez. IV, 25.11.2013, n. 5593, con
riferimento all’impugnazione di un’ingiunzione di
demolizione emanata nel 2004) col quale, sulla questione se
costituisse requisito essenziale dell’ingiunzione a demolire
impugnata anche l’indicazione dell’area soggetta ad
acquisizione gratuita e di diritto, per il caso di mancata
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi entro i 90
giorni dall’ingiunzione, è stato affermato che “l’omessa
o imprecisa indicazione di un'area che verrà acquisita di
diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di
illegittimità dell'ordinanza di demolizione… mentre con il
contenuto dispositivo di quest'ultima si commina, appunto,
la sanzione della demolizione del manufatto abusivo,
l'indicazione dell'area costituisce presupposto accertativo
ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura
sanzionatoria”.
Persiste infatti, nonostante la parzialmente diversa
formulazione dell’art. 31, comma 2, del t. u. n. 380/2001
–che contiene la locuzione aggiuntiva “indicando nel
provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai
sensi del comma 3”, mancante nell’art. 7, comma 2, della
l. n. 47/1985- la netta distinzione tra ordinanza di
demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo,
dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a
demolire.
Va quindi mantenuto il principio in base al quale
l'individuazione dell'area da acquisirsi non deve essere
necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione
di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben
potendo essere riportata nel momento in cui si procede
all'acquisizione del bene. L’omessa indicazione,
nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita
di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi
del comma 3 dell’art. 31 per il caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione non costituisce ragione di
illegittimità dell’ordinanza stessa giacché la posizione del
destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di
un successivo e distinto procedimento di acquisizione
dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo
imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza
nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al
patrimonio comunale.
Di qui, la correttezza di quanto si legge in sentenza, ossia
che il contenuto essenziale dell’ingiunzione di demolizione
consiste nel “prescrivere la rimozione delle opere
abusive”, cosicché ai fini della legittimità
dell’ingiunzione basta che vi sia l’analitica indicazione
delle opere abusivamente realizzate ma non occorre che vi
sia anche l’esatta individuazione dell’area destinata ad
essere acquisita al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza all'ordine di demolizione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un intervento qualificabile come ristrutturazione
edilizia presuppone un immobile preesistente, sul quale le
opere intervengano, costruito in modo legittimo, e non un
fabbricato privo di titolo edilizio, ossia abusivo. La
regolarità, sotto il profilo urbanistico–edilizio,
dell’immobile preesistente, interessato da diverse tipologie
d’interventi, che non siano quelli di nuova edificazione,
costituisce presupposto imprescindibile per l’ammissibilità
degli interventi in questione.
Ex art. 10/c) del t. u. n. 380/2001 gli interventi di
ristrutturazione edilizia comportanti modifiche di volume,
sagome, prospetti e superfici sono soggetti a permesso di
costruire, con la conseguente demolizione delle opere
eseguite in assenza di permesso in totale difformità da
esso, fatta salva l’applicazione della sanzione (soltanto)
pecuniaria qualora ricorra la condizione di cui all’art. 33,
comma 2, t. u. cit..
In via preliminare e
in termini generali va rammentato che:
- l’area in questione è classificata dalla variante generale
al PRG come zona G –insediamenti urbani integrati ed è
disciplinata dagli articoli 54 e 138 delle NTA, con
particolare riguardo alla subordinazione dell’attività
edilizia all’approvazione di strumento urbanistico
esecutivo,
- un intervento qualificabile come ristrutturazione edilizia
presuppone un immobile preesistente, sul quale le opere
intervengano, costruito in modo legittimo, e non un
fabbricato privo di titolo edilizio, ossia abusivo. La
regolarità, sotto il profilo urbanistico–edilizio,
dell’immobile preesistente, interessato da diverse tipologie
d’interventi, che non siano quelli di nuova edificazione,
costituisce presupposto imprescindibile per l’ammissibilità
degli interventi in questione.
Ex art. 10/c) del t. u. n. 380/2001 gli interventi di
ristrutturazione edilizia comportanti modifiche di volume,
sagome, prospetti e superfici sono soggetti a permesso di
costruire, con la conseguente demolizione delle opere
eseguite in assenza di permesso in totale difformità da
esso, fatta salva l’applicazione della sanzione (soltanto)
pecuniaria qualora ricorra la condizione di cui all’art. 33,
comma 2, t. u. cit.
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto riguarda la nozione di pertinenza,
l’art. 817 cod. civ. definisce pertinenze “le cose destinate
in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra
cosa”. La nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza
amministrativa è però meno ampia di quella civilistica.
La giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che
gli elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da
un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel
senso che il medesimo deve essere di entità tale da non
alterare in modo rilevante l’assetto del territorio;
dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale
tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente
incapacità per le medesime di essere utilizzate
separatamente ed autonomamente. Un’opera può definirsi
accessoria rispetto a un'altra, da considerarsi principale,
solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in
modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi
l'alterazione dell'essenza e della funzione dell'insieme.
Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto
oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice
utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la
disponibilità di entrambe.
In materia edilizia “è qualificabile pertinenza qualsiasi
manufatto strumentale rispetto ad uno principale e di
dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo; più in
particolare la pertinenza è configurabile quando vi è un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria
e principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole,
oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa cui esso inerisce; inoltre, a differenza
della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai
fini edilizi il manufatto può essere considerato pertinenza
quando non solo è preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo
servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di
mercato e non comporta un c.d. carico urbanistico.
---------------
La più favorevole disciplina in materia di pertinenze,
realizzabili mediante dia, con il conseguente
assoggettamento, nel caso di opere eseguite in assenza o in
difformità dalla dia, a sanzione soltanto pecuniaria ex art.
37 del t. u. n. 380/2001, è applicabile esclusivamente agli
interventi che afferiscano a immobili edificati in modo
legittimo e non trova, viceversa, applicazione nel caso di
interventi pertinenziali a immobili abusivi.
In via preliminare e
in termini generali va rammentato che:
- per quanto riguarda la nozione di pertinenza, l’art. 817
cod. civ. definisce pertinenze “le cose destinate in modo
durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”. La
nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza
amministrativa è però meno ampia di quella civilistica. La
giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che gli
elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da un lato,
l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il
medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo
rilevante l’assetto del territorio; dall’altro, l’esistenza
di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa
principale, con la conseguente incapacità per le medesime di
essere utilizzate separatamente ed autonomamente. Un’opera
può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da
considerarsi principale, solo quando la prima sia parte
integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose
separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e
della funzione dell'insieme.
Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto
oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice
utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la
disponibilità di entrambe. In materia edilizia “è
qualificabile pertinenza qualsiasi manufatto strumentale
rispetto ad uno principale e di dimensioni modeste rispetto
a quest'ultimo; più in particolare la pertinenza è
configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e
strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè un nesso
che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un
uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta
e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso
inerisce; inoltre, a differenza della nozione di pertinenza
di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può
essere considerato pertinenza quando non solo è preordinato
ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito
di un autonomo valore di mercato e non comporta un c.d.
carico urbanistico (cfr. Cons. St., nn. 3952/2014,
3074/2014, 2196/2014 e altre);
- la più favorevole disciplina in materia di pertinenze,
realizzabili mediante dia, con il conseguente
assoggettamento, nel caso di opere eseguite in assenza o in
difformità dalla dia, a sanzione soltanto pecuniaria ex art.
37 del t. u. n. 380/2001, è applicabile esclusivamente agli
interventi che afferiscano a immobili edificati in modo
legittimo e non trova, viceversa, applicazione nel caso di
interventi pertinenziali a immobili abusivi;
- nella specie, come emerge dagli atti (e, “in primis”,
dalle premesse dell’ord. n. 140/12), con riferimento alla
maggior parte degli interventi le dia presentate da
Immobilsud sono state -legittimamente: v. Cons. St. , IV, n.
5704/2013- annullate dal Comune
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In via preliminare, la generale necessità, “ex
lege”, della licenza edilizia per l’esercizio dello “jus
aedificandi” va fatta risalire al 1942 per i soli centri
abitati (v. art. 31 della l. n. 1150/1942) e, per l’intero
territorio comunale, al 1967 (v. art. 10 della l. n.
765/1967; si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n.
47/1985 a conferma della possibilità, anche prima della l.
n. 765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di
regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non solo
per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei
centri abitati).
I rilievi di parte appellante non persuadono il collegio.
In contrario, a conferma della sostanziale correttezza delle
conclusioni alle quali si è giunti in sentenza, vale
osservare –e comunque ribadire- quanto segue:
- in via preliminare, la generale necessità, “ex lege”,
della licenza edilizia per l’esercizio dello “jus
aedificandi” va fatta risalire al 1942 per i soli centri
abitati (v. art. 31 della l. n. 1150/1942) e, per l’intero
territorio comunale, al 1967 (v. art. 10 della l. n.
765/1967; si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n.
47/1985 a conferma della possibilità, anche prima della l.
n. 765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di
regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non
solo per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei
centri abitati)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'ordinanza
di demolizione di un fabbricato, integralmente abusivo, dopo
quasi 30 anni.
Non può ritenersi che il potere
sanzionatorio dell’Amministrazione venga meno o possa essere
esercitato solo in presenza di un rafforzato corredo
motivazionale quando sia decorso un notevole lasso di tempo
dalla realizzazione dell’abuso, come sostengono i ricorrenti
nel primo motivo di ricorso.
In proposito appare sufficiente richiamare la copiosa
giurisprudenza, in primo luogo del Consiglio di Stato, che
univocamente afferma che tutte le volte in cui risulti
realizzato un manufatto abusivo, nonostante il decorso del
tempo l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine
di demolizione per il solo fatto di avere riscontrato opere
abusive e che il provvedimento deve intendersi
sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata
abusività dell’opera, essendo “in re ipsa” l’interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
---------------
Circa la mancata indicazione dell’area da acquisire al
patrimonio comunale in caso di mancata demolizione, ci si
limita ad osservare che tale omissione non è idonea ad
inficiare da sola la legittimità dell’ordinanza di
demolizione, potendo e dovendo tale indicazione essere
effettuata nel successivo eventuale provvedimento di
acquisizione al patrimonio comunale.
... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n.
11/09 del 06.10.2009;
...
Espongono in particolare i ricorrenti di essere proprietari,
in qualità di eredi di S.M.A., originaria ricorrente defunta
dopo la proposizione del ricorso, di un’area sita nel Comune
di Martano in Catasto a fgl. 1 p.lla 117 su cui, fin dal
1980 era stato realizzato un edificio di due piani e che,
con l’ordinanza impugnata, l’A.C. a distanza di ben
trent’anni dalla realizzazione delle opere ne aveva ingiunto
la demolizione sul presupposto della relativa abusività.
Tanto premesso il ricorso è infondato e va pertanto
rigettato.
Ed invero, risulta in fatto incontestato che il manufatto
insistente sul suolo di proprietà dei ricorrenti sia stato
realizzato a suo tempo in assenza di qualsivoglia titolo
abitativo e che, proprio in ragione del carattere abusivo
dell’opera, ne sia stata ingiunta la demolizione.
Al riguardo, non può ritenersi che il potere sanzionatorio
dell’Amministrazione venga meno o possa essere esercitato
solo in presenza di un rafforzato corredo motivazionale
quando sia decorso un notevole lasso di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, come sostengono i ricorrenti nel
primo motivo di ricorso; in proposito appare sufficiente
richiamare la copiosa giurisprudenza, in primo luogo del
Consiglio di Stato, che univocamente afferma che tutte le
volte in cui risulti realizzato un manufatto abusivo,
nonostante il decorso del tempo l’amministrazione deve senza
indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di
avere riscontrato opere abusive e che il provvedimento deve
intendersi sufficientemente motivato con l’affermazione
dell’accertata abusività dell’opera, essendo “in re ipsa”
l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione
(cfr. Consiglio Stato, sez. IV n. 395572010, Consiglio di
Stato sez. V, n. 4892/2014, n. 3568/2014, n. 3281/2014).
Parimenti infondati si palesano il secondo ed il terzo
motivo di ricorso secondo cui l’ordinanza sarebbe
illegittima perché non conterrebbe alcuna qualificazione
giuridica dell’abuso realizzato, non recando alcuna
specifica indicazione della norma violata ed ingiungendo
aprioristicamente la demolizione delle opere, peraltro senza
neanche contenere l’indicazione dell’area che verrebbe
acquisita al patrimonio comunale.
Al riguardo osserva il Collegio che l’ordinanza impugnata
richiama espressamente l’articolo 27 del del d.p.r. 380/2001
che prevede proprio il potere di demolizione da parte del
responsabile dell’ UTC nell’esercizio del potere di
vigilanza e la medesima ordinanza, pur non individuando
esplicitamente la norma applicata, afferma espressamente che
“nessun titolo autorizzativo è stato richiesto e/o
rilasciato per l’esecuzione delle opere suddette” con
ciò pertanto legittimando l’applicazione della disciplina di
cui all’articolo 31 d.p.r. citato e quindi l’ingiunta
demolizione; quanto poi alla mancata indicazione dell’area
da acquisire al patrimonio comunale in caso di mancata
demolizione, ci si limita ad osservare che tale omissione
non è idonea ad inficiare da sola la legittimità
dell’ordinanza di demolizione, potendo e dovendo tale
indicazione essere effettuata nel successivo eventuale
provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale.
Quanto poi all’ultimo motivo di ricorso, osserva il collegio
che il potere dovere di repressione degli abusi edilizi,
riconosciuto dagli articoli 27 e 31 d.p.r. 380/2001 al
responsabile dell’UTC, non può essere inibito dalla
disciplina dettata in materia di amianto invocata dai
ricorrenti, trattandosi nel caso che ci occupa di opere in
eternit realizzate in assenza di qualsivoglia titolo
abitativo; ragionando a contrario infatti dovrebbe
pervenirsi alla paradossale conclusione per cui la
realizzazione di opere in amianto in assenza di qualsivoglia
titolo abilitativo, dunque nella situazione di potenziale
massima lesività per l’ordinato assetto del territorio,
farebbe comunque venir meno il potere dovere dell’organo
competente alla repressione degli abusi edilizi di espletare
i propri compiti.
Conclusivamente il ricorso va rigettato (TAR Puglia-Lecce,
Sez. III,
sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'appartenenza
di una strada ad un ente pubblico territoriale può essere
desunta da una serie di elementi presuntivi aventi i
requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti
dall'art. 2729 c.c., non potendo reputarsi, a tal fine
elemento da solo sufficiente l'inclusione o meno della
strada stessa nel relativo elenco, già previsto dall'art. 8
della legge n. 126 del 1958, avente natura dichiarativa e
non costitutiva, ed avendo carattere relativo la presunzione
di demanialità di cui all'art. 22 della legge n. 2248 del
1865, all. F.
Per essere riconosciuta ed accertata la servitù pubblica di
un passaggio necessitano di tre presupposti:
a) il sentiero deve essere posto al servizio di una
collettività indeterminata di cittadini portatori di un
interesse generale,
b) il sentiero deve essere oggettivamente idoneo a
soddisfare le esigenze di interesse generale,
c) deve sussistere un titolo valido a sorreggere
l'affermazione del diritto di uso pubblico che, nella
maggior parte dei casi, si identifica con la dimostrazione
dell'uso da tempo immemorabile da parte della collettività
pubblica.
Ed invero, è noto come secondo la giurisprudenza "l'appartenenza
di una strada ad un ente pubblico territoriale può essere
desunta da una serie di elementi presuntivi aventi i
requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti
dall'art. 2729 c.c., non potendo reputarsi, a tal fine
elemento da solo sufficiente l'inclusione o meno della
strada stessa nel relativo elenco, già previsto dall'art. 8
della legge n. 126 del 1958, avente natura dichiarativa e
non costitutiva, ed avendo carattere relativo la presunzione
di demanialità di cui all'art. 22 della legge n. 2248 del
1865, all. F" (cfr. Cass. Civ., Sez. 11, 09.11.2009, n.
23705) e che “per essere riconosciuta ed accertata la
servitù pubblica di un passaggio necessitano di tre
presupposti: a) il sentiero deve essere posto al servizio di
una collettività indeterminata di cittadini portatori di un
interesse generale, b) il sentiero deve essere
oggettivamente idoneo a soddisfare le esigenze di interesse
generale, c) deve sussistere un titolo valido a sorreggere
l'affermazione del diritto di uso pubblico che, nella
maggior parte dei casi, si identifica con la dimostrazione
dell'uso da tempo immemorabile da parte della collettività
pubblica” (TAR Bolzano 16/01/2013 n. 14 o ancora in
termini cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 10.06.2008, n.
643) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 05.01.2015 n. 5 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Compensi illegittimi, l'obbligo del recupero non deve
incidere sul tenore di vita dei dipendenti beneficiati.
Il Collegio propende per l’applicazione,
largamente seguita in giurisprudenza, secondo cui il
recupero di somme indebitamente corrisposte dalla P.A. a
propri dipendenti ha natura di atto dovuto non rinunciabile
perché espressione di funzione vincolata.
Di qui la ritenuta natura paritetica e non autoritativa del
rapporto in concreto intercorso e la consistenza del diritto
soggettivo dell’amministrazione di ripetere la somma a
fronte dell’obbligo specifico di restituzione della stessa
da parte dei chi l’ha indebitamente percepita, con
conseguente mancanza dell’obbligo dell’Amministrazione di
motivare sull’interesse pubblico sotteso al disposto
recupero.
Ne consegue che, ferma restando la normale ripetibilità
delle somme indebitamente pagate, la buona fede di regola
invocata dal debitore in subiecta materia, rileva
elusivamente in ordine alle modalità del recupero, al fine
di non incidere in modo eccessivamente oneroso sulle
esigenze di vita del dipendente.
Venendo allo scrutinio delle dedotte doglianze conviene
ricordare che sul recupero delle somme erroneamente
corrisposte dall’Amministrazione ai propri dipendenti questo
Tribunale (cfr. TAR Campania sez VII 12.12.2007 n. 16222) ha
talvolta sostenuto che il recupero de quo non avrebbe natura
di atto vincolato perché configurantesi come atto di
autotutela ex art. 21-nonies, comma 1, della legge n.
241/1990 , di natura discrezionale dipendente dal “Peso”
del recupero sulla situazione concreta, dell’affidamento
ingenerato nel dipendente nonché sullo stato di buona fede
dello stesso dipendente.
Nella fattispecie concreta il Collegio propende tuttavia per
l’applicazione, largamente seguita in giurisprudenza,
secondo cui il recupero di somme indebitamente corrisposte
dalla P.A. a propri dipendenti ha natura di atto dovuto non
rinunciabile perché espressione di funzione vincolata (cfr.
ex multis Consiglio di Stato sez IV, 24.05.2007).
Di qui la ritenuta natura paritetica e non autoritativa del
rapporto in concreto intercorso e la consistenza del diritto
soggettivo dell’amministrazione di ripetere la somma a
fronte dell’obbligo specifico di restituzione della stessa
da parte dei chi l’ha indebitamente percepita, con
conseguente mancanza dell’obbligo dell’Amministrazione di
motivare sull’interesse pubblico sotteso al disposto
recupero.
Ne consegue che, ferma restando la normale ripetibilità
delle somme indebitamente pagate, la buona fede di regola
invocata dal debitore in subiecta materia, rileva
elusivamente in ordine alle modalità del recupero, al fine
di non incidere in modo eccessivamente oneroso sulle
esigenze di vita del dipendente (TAR Campania-Napoli, Sez.
V,
sentenza 02.01.2015 n. 14 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'istituto della clausola sociale.
La clausola sociale -anche nota come clausola di "protezione"
o di "salvaguardia" sociale o "clausola sociale di
assorbimento"- è un istituto previsto dalla
contrattazione collettiva e da specifiche disposizioni
legislative statali (art. 69, d.lgs. n. 163/2006, l'art. 63,
c. 4, d.lgs. n. 112/1999, l'art. 29, c. 3, d.lgs. n.
276/2003), che opera nelle ipotesi di cessazione di un
appalto e di subentro di altre imprese o società
appaltatrici e risponde all'esigenza di assicurare la
continuità del servizio e dell'occupazione, nel caso di
discontinuità dell'affidatario.
Relativamente alla legittimità di tale clausola sociale di "riassorbimento"
la giurisprudenza, ormai prevalente -nel disattendere la
tesi per la quale dall'inosservanza della clausola
discenderebbe un effetto automaticamente e rigidamente
escludente dalla gara- si è oggi consolidata nel senso di
ritenere legittima tale clausola, la quale però deve essere
interpretata nel senso che l'appaltatore subentrante deve
prioritariamente assumere gli stessi addetti che operavano
alle dipendenze dell'appaltatore uscente, ma solo a
condizione che il loro numero e la loro qualifica siano
armonizzabili con l'organizzazione d'impresa prescelta
dall'imprenditore subentrante, sulla base del presupposto
che l'iniziativa economica privata è sì libera, ma deve
avere riguardo anche all'utilità sociale.
Con la conseguenza che tale clausola, ove richiamata dal
bando, ha sì portata cogente, ma nel senso che l'offerente
non può ridurre ad libitum il numero di unità da impiegare
nell'appalto (potendo, peraltro, impugnare la clausola del
bando ove il numero di unità fino a quel momento adibito al
servizio sia incongruo e sovrabbondante, senza, però, che
tale clausola comporti l'obbligo per l'impresa
aggiudicataria di assumere a tempo indeterminato ed in forma
automatica e generalizzata tutto il personale già utilizzato
dalla precedente impresa affidataria del servizio (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 02.01.2015 n. 6 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il termine previsto dall’art. 2 l. n. 241/1990
per l’adozione di provvedimenti amministrativi ha natura
ordinatoria e non perentoria: pertanto, l’inosservanza da
parte dell’amministrazione non esaurisce il potere di
provvedere né determina di per sé l’illegittimità dell’atto
adottato fuori termine.
- Ritenuta destituita di fondamento anche la seconda censura
articolata nel ricorso con il quale il ricorrente deduce la
violazione del termine di conclusione del procedimento da
parte dell’Amministrazione che, ai sensi dell’art. 2, comma
2, della L. 241/1990 dovrebbe intendersi fissato in trenta
giorni, termine ampiamente disatteso: risultano invero non
conducenti i contributi giurisprudenziali offerti all’esame
del Collegio - dal momento che nel caso in esame un
provvedimento espresso è stato invece adottato (ed
impugnato); il Collegio rileva che “il termine previsto
dall’art. 2 l. n. 241/1990 per l’adozione di provvedimenti
amministrativi ha natura ordinatoria e non perentoria:
pertanto, l’inosservanza da parte dell’amministrazione non
esaurisce il potere di provvedere né determina di per sé
l’illegittimità dell’atto adottato fuori termine”
(Consiglio di Stato sez. IV 10.06.2014 n. 2964) (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 31.12.2014 n. 3483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Nelle
gare legittimo il livello retributivo dei contratti
«gialli». Appalti. Chiarimento del
Tar di Brescia.
Nell’appalto di servizi, il costo del lavoro può essere
calcolato ed offerto sulla base di un contratto collettivo
del gruppo associativo Cnai, depositato presso il Cnel.
Lo sottolinea il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, nella
sentenza 31.12.2014 n. 1470, che ha deciso una
lite sulla gestione per sei anni del servizio di front
office (prenotazioni telefoniche, accettazioni, cassa)
di un’azienda ospedaliera.
Al termine della gara, il concorrente secondo classificato
si era rivolto al tribunale amministrativo regionale
invocando l’applicazione dell'articolo 86 del Dlgs 163/2006
(codice appalti) che esclude, dopo adeguata verifica, le
offerte che appaiano basse in modo anomalo.
L’impresa seconda classificata sosteneva in particolare che
il costo del lavoro offerto dall’impresa aggiudicataria era
anomalo, perché inferiore del 15% rispetto ai livelli
retributivi desumibili da tabelle ministeriali. Inoltre, il
contratto collettivo Cnai, che l’aggiudicataria intendeva
applicare, non esprimeva, secondo l’impresa contestatrice,
un accordo stipulato da un sindacato rappresentativo e
quindi non poteva giustificare la voce “costo del lavoro”
dell’offerta risultata aggiudicataria.
Il Tar ha deciso la questione confermando l’aggiudicazione,
partendo dal presupposto che il bando non può imporre ai
concorrenti di modificare il contratto collettivo nazionale
di lavoro che le imprese intendano applicare (tesi già
espressa dal Tar Piemonte 1392/2004, su un sevizio di
mediazione culturale). In ogni caso, i costi del lavoro
offerti dalle imprese concorrenti potrebbero essere ritenuti
bassi in modo anomalo (causando l’esclusione dell'impresa)
utilizzando come parametro di valutazione i valori del costo
del lavoro risultanti da tabelle ministeriali.
Tuttavia, anche tali tabelle non pongono limiti
inderogabili, bensì sono semplici parametri di valutazione
di congruità. Quindi, l’offerta di un concorrente si può
discostare da tali tabelle, purché il divario non sia
eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei
lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione
collettiva (Tar Brescia 1300/2014). Ciò significa che
l’imprenditore può presentare offerte in cui il costo del
lavoro corrisponda ad un contratto collettivo nazionale,
giustificandone gli importi se inferiori a tabelle
ministeriali.
Il Tar Brescia si è occupato anche della delicata posizione
di imprenditori che formulino offerte fortemente
competitive, basate su trattamenti economici molto bassi,
condivisi da specifiche associazioni sindacali. Senza mezzi
termini, nel corso della lite si è quindi contestata la
legittimità dell’impiego dei cosiddetti contratti collettivi
“gialli”, conclusi da rappresentanze sindacali con
uno scarsissimo livello di rappresentatività dei lavoratori.
In presenza di tali contratti “pirata”, che generano
“dumping sociale”, le imprese che rischiano di essere
escluse a causa dei maggiori costi per retribuzioni
sarebbero costrette ad iscriversi all’associazione datoriale
a cui ha aderito l'impresa che ha formulato l’offerta più
bassa sulla voce “retribuzione”.
Questa distorsione è un rischio concreto quando si sia in
presenza di una pluralità di contratti collettivi nazionali
per la medesima categoria (come nel caso deciso dal Tar, in
cui si contrapponevano i contratti di settore Cnai e
Confcommercio). Nella sentenza del Tar di Brescia il
problema è stato risolto allineandosi agli orientamenti
della Cassazione (7383/1996; 4074/1999), sottolineando che,
per determinare la “giusta retribuzione”, non è
possibile scegliere un cosiddetto “contratto leader”
quale indice di commisurazione del trattamento economico
complessivo proporzionato ai sensi dell’articolo 36 della
Costituzione.
Applicando quindi principi di libertà sindacale delle
imprese concorrenti, si è escluso che il bando di gara possa
imporre agli imprenditori l’applicazione di un contratto
piuttosto che un altro: la gara è quindi stata giudicata
all’offerta che, senza risultare anomala, è risultata più
conveniente nella voce costo del lavoro
(articolo
Il Sole 24 Ore del 06.01.2015). |
APPALTI:
Per giurisprudenza pacifica, il giudizio di
anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce
espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in
caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che
rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta.
Il giudice amministrativo può, quindi, sindacare le
valutazioni compiute dalla Stazione appaltante sotto il
profilo della logicità, ragionevolezza e adeguatezza
dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle
singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione
della sfera propria dell’Amministrazione.
In sede di verifica delle offerte anomale, anche l’esame
delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a
dimostrazione della non anomalia della propria offerta,
rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione,
con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche
illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione
oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto,
il giudice di legittimità può esercitare il proprio
sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il
proprio giudizio a quello dell’Amministrazione.
In sede di verifica delle offerte anomale, il giudizio di
anomalia va riferito all’offerta nella sua globalità e non
già a singole voci, con la conseguenza che il giudizio di
anomalia non può fondarsi esclusivamente sulla ravvisata
incongruità dei costi del lavoro e sulla sostanziale
inaffidabilità, solo sotto questo profilo, dell’offerta.
Quel che rileva, facendo applicazione dei principi che si
sono ricordati, è che, a giudizio dell’Amministrazione,
l’offerta risulti nel suo complesso affidabile e
conveniente, al momento dell’aggiudicazione, e che a tale
momento l’aggiudicatario dia garanzia di una seria
esecuzione del contratto.
6.5. La pronuncia n. 5196/2014 del Consiglio di Stato da
ultimo citata ha ribadito (capi 8.1. e 8.2, 10 e 11) anche
consolidati principi in subiecta materia, quali
quelli per cui:
- per giurisprudenza pacifica, il giudizio di anomalia o di
incongruità dell’offerta costituisce espressione di
discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di
macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano
palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta (Consiglio
di Stato, Sez. III n. 1487 del 27.03.2014; Sez. V, n. 3737
del 26.06.2012);
- il giudice amministrativo può, quindi, sindacare le
valutazioni compiute dalla Stazione appaltante sotto il
profilo della logicità, ragionevolezza e adeguatezza
dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle
singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione
della sfera propria dell’Amministrazione (Consiglio di
Stato, sez. V, n. 974 del 18.02.2013);
- in sede di verifica delle offerte anomale, anche l’esame
delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a
dimostrazione della non anomalia della propria offerta,
rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione,
con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche
illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione
oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto,
il giudice di legittimità può esercitare il proprio
sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il
proprio giudizio a quello dell’Amministrazione (Consiglio di
Stato, sez. V, n. 3340 del 06.06.2012);
- in sede di verifica delle offerte anomale, il giudizio di
anomalia va riferito all’offerta nella sua globalità e non
già a singole voci, con la conseguenza che il giudizio di
anomalia non può fondarsi esclusivamente sulla ravvisata
incongruità dei costi del lavoro e sulla sostanziale
inaffidabilità, solo sotto questo profilo, dell’offerta
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014).
- quel che rileva, facendo applicazione dei principi che si
sono ricordati, è che, a giudizio dell’Amministrazione,
l’offerta risulti nel suo complesso affidabile e
conveniente, al momento dell’aggiudicazione, e che a tale
momento l’aggiudicatario dia garanzia di una seria
esecuzione del contratto (in termini, ancora Consiglio di
Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014).
6.6. Tenuto conto di tutto quanto precede, della dirimente
circostanza che le giustificazioni di ATI SDS trovano un
obiettivo ancoraggio al CCNL CNAI dalla stessa applicabile e
applicato, della valutazione globale dell’offerta e non di
singole sue voci che occorre effettuare, devono essere
disattese le contestazioni di fondo e su singole voci
(lavoratori svantaggiati, ore non lavorate per maternità,
malattia e infortuni) mosse in contrario nei primi due
motivi di ricorso, nonché le correlate censure di difetto di
istruttoria e di motivazione ivi dedotte (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 31.12.2014 n. 1470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla base dell'art. 17, comma 3, l. 55/1990 è
stato emanato il d.p.c.m. 11.05.1997, n. 187, il cui art. 1,
comma 1, ha posto un obbligo informativo a carico delle
società aggiudicatarie di opere pubbliche, ivi comprese le
concessionarie e le subappaltatrici, da assolvere prima
della stipulazione del contratto, concernente le
intestazioni fiduciarie, collegato all'onere stabilito dal
successivo art. 4, comma 1, di far cessare entro 90 giorni
l'intestazione fiduciaria, al fine di poter legalmente
contrarre con la pubblica amministrazione.
In seguito, l'art. 9, comma 63, della legge n. 415 del 1998
ha articolato diversamente il divieto originario, rendendo
autonoma la posizione delle fiduciarie autorizzate ai sensi
della legge n. 1966 del 1939, atteso che, in tale caso,
permane il solo obbligo di comunicare l'identità del socio
fiduciario entro 30 giorni dalla richiesta a tal fine
formulata dall'amministrazione;
In giurisprudenza si è perciò già rilevato che, allo stato,
l'art. 17, comma 3, prevede due differenti situazioni: da
un lato, un divieto assoluto di intestazione fiduciaria,
che comporta l'immediata esclusione dalla gara,
dall'altro, un mero obbligo comunicativo, susseguente
all'aggiudicazione e da assolversi, pertanto, a seguito di
essa e prima della stipula del contratto, pur nel rispetto
del termine di legge.
In altre parole, il coordinamento tra l'art. 38, lett. d),
del d.l.vo n. 163 del 2006 e il combinato disposto delle
norme poste dall'art. 17, comma 3, della legge n. 55/1990 e
dall'art. 1, comma primo, del d.p.c.m. n. 187/1991, conduce
a ritenere che la dichiarazione riguardante la
partecipazione azionaria da parte di società fiduciarie,
autorizzate ai sensi della legge n. 1966/39, non deve essere
effettuata dal concorrente in sede di presentazione
dell'offerta, ma dal concorrente che abbia conseguito
l'aggiudicazione e a seguito di richiesta della stazione
appaltante in sede di controllo dei requisiti.
---------------
A) la "ratio" del divieto di intestazione fiduciaria di cui
all'art. 17, co. 3, della legge n. 55/1990 è -da un lato-
quella di impedire in assoluto la partecipazione alle
pubbliche gare di società fiduciarie che non siano
autorizzate ai sensi della legge n. 1966 del 1939;
dall'altro lato, quella di imporre a tali società
fiduciarie comunque autorizzate l'obbligo di comunicare
all'Amministrazione committente o concedente prima della
stipula del contratto o della convenzione la propria
composizione societaria (il tutto, ben s'intende, per
evidenti esigenze di trasparenza e soprattutto di
prevenzione di fenomeni criminosi legati anche all'utilizzo
di siffatte società);
B) proprio con riferimento a detta "ratio", il divieto in
questione deve dunque ritenersi in ogni caso violato e
considerato come causa di esclusione automatica solo quando
nel contesto di una pubblica gara venga ammessa a
partecipare una singola società o un consorzio costituito da
più società direttamente posseduti da una società fiduciaria
non autorizzata;
C) nel caso di società o di consorzi partecipati da società
fiduciarie autorizzate, tale divieto deve ritenersi violato
ed essere altresì considerato come causa automatica di
esclusione dalla gara solo quando la società o il consorzio
partecipante alla gara abbia poi omesso la comunicazione di
cui al predetto D.P.C.M. n. 187 del 1991.
7. Ancora sulla scorta del consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa, parimenti infondato si rivela
il quarto e ultimo di ricorso, con cui si denuncia la
violazione dell’art. 17 legge 55/1990 e dell’art. 38 comma 2
lett. d) Cod. contr.
Invero, TAR Lombardia, sez. III, 03/12/2013 n. 2681 ha
evidenziato al capo 4.2 che:
- sulla base del citato art. 17, comma 3, è stato emanato il
d.p.c.m. 11.05.1997, n. 187, il cui art. 1, comma 1, ha
posto un obbligo informativo a carico delle società
aggiudicatarie di opere pubbliche, ivi comprese le
concessionarie e le subappaltatrici, da assolvere prima
della stipulazione del contratto, concernente le
intestazioni fiduciarie, collegato all'onere stabilito dal
successivo art. 4, comma 1, di far cessare entro 90 giorni
l'intestazione fiduciaria, al fine di poter legalmente
contrarre con la pubblica amministrazione;
- in seguito, l'art. 9, comma 63, della legge n. 415 del
1998 ha articolato diversamente il divieto originario,
rendendo autonoma la posizione delle fiduciarie autorizzate
ai sensi della legge n. 1966 del 1939 (come quella presente
nel capitale sociale di SDS), atteso che, in tale caso,
permane il solo obbligo di comunicare l'identità del socio
fiduciario entro 30 giorni dalla richiesta a tal fine
formulata dall'amministrazione;
- in giurisprudenza si è perciò già rilevato che, allo
stato, l'art. 17, comma 3, prevede due differenti
situazioni: da un lato, un divieto assoluto di
intestazione fiduciaria, che comporta l'immediata esclusione
dalla gara,
dall'altro, un mero obbligo comunicativo, susseguente
all'aggiudicazione e da assolversi, pertanto, a seguito di
essa e prima della stipula del contratto, pur nel rispetto
del termine di legge (così già espressamente TAR Lombardia
Milano, sez. I, 18.11.2011, n. 2797, che richiama Consiglio
di Stato, sez. V, n. 4010 del 2002);
- in altre parole, il coordinamento tra l'art. 38, lett. d),
del d.l.vo n. 163 del 2006 e il combinato disposto delle
norme poste dall'art. 17, comma 3, della legge n. 55/1990 e
dall'art. 1, comma primo, del d.p.c.m. n. 187/1991, conduce
a ritenere che la dichiarazione riguardante la
partecipazione azionaria da parte di società fiduciarie,
autorizzate ai sensi della legge n. 1966/39, non deve essere
effettuata dal concorrente in sede di presentazione
dell'offerta, ma dal concorrente che abbia conseguito
l'aggiudicazione e a seguito di richiesta della stazione
appaltante in sede di controllo dei requisiti.
A sua volta, TAR Friuli-Venezia Giulia 14/06/2013, n. 343 ha
dichiarato di condividere l'analisi della normativa sopra
ricordata che ha condotto il Consiglio di Stato, con la
sentenza della V Sezione n. 264/2011, a confermare la
sentenza di quel TAR n 360/2010, affermando:
A) che la "ratio" del divieto di
intestazione fiduciaria di cui all'art. 17, co. 3, della
legge n. 55/1990 è -da un lato- quella di impedire in
assoluto la partecipazione alle pubbliche gare di società
fiduciarie che non siano autorizzate ai sensi della legge n.
1966 del 1939;
dall'altro lato, quella di imporre a tali società
fiduciarie comunque autorizzate l'obbligo di comunicare
all'Amministrazione committente o concedente prima della
stipula del contratto o della convenzione la propria
composizione societaria (il tutto, ben s'intende, per
evidenti esigenze di trasparenza e soprattutto di
prevenzione di fenomeni criminosi legati anche all'utilizzo
di siffatte società);
B) che, proprio con riferimento a detta "ratio",
il divieto in questione deve dunque ritenersi in ogni caso
violato e considerato come causa di esclusione automatica
solo quando nel contesto di una pubblica gara venga ammessa
a partecipare una singola società o un consorzio costituito
da più società direttamente posseduti da una società
fiduciaria non autorizzata;
C) che, nel caso di società o di consorzi
partecipati da società fiduciarie autorizzate, tale divieto
deve ritenersi violato ed essere altresì considerato come
causa automatica di esclusione dalla gara solo quando la
società o il consorzio partecipante alla gara abbia poi
omesso la comunicazione di cui al predetto D.P.C.M. n. 187
del 1991.
E nel caso qui all’esame la stazione appaltante ha
espressamente dichiarato (memoria 01.12.2014) che
richiederà, in sede di controllo dei requisiti prodromici
alla sottoscrizione contrattuale, la dichiarazione
riguardante la partecipazione azionaria di società
fiduciarie (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 31.12.2014 n. 1470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Costituisce diritto vivente il principio per cui
in sede di gara d’appalto i concorrenti non possono operare
alcun filtro in sede di dichiarazioni rilasciate ai sensi
dell’art. 38 codice dei contratti pubblici, relativamente
alla indicazione delle condanne penali subite ed alla loro
rilevanza sulla moralità professionale che è riservata in
via esclusiva alla stazione appaltante.
Costituisce parimenti diritto vivente il principio per cui
la riabilitazione del condannato e l’estinzione del reato,
per essere rilevanti in sede di gara d’appalto, devono
essere formalizzate in una pronuncia espressa del giudice
dell’esecuzione o dal giudice che ha emesso la condanna
(secondo quanto stabilito dal codice previgente), ma
comunque sempre in una pronuncia espressa.
Costituisce, infine, diritto vivente il principio per cui
nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei
contratti pubblici, il <potere di soccorso> sancito
dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice -sostanziandosi
unicamente nel dovere della stazione appaltante di acquisire
elementi estrinseci relativi a documenti o dichiarazioni già
esistenti, chiedere chiarimenti, rettificare errori
materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole
ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti- non
consente la produzione tardiva del documento o della
dichiarazione mancante o la regolarizzazione della forma
omessa, ove tali adempimenti, siano previsti a pena di
esclusione.
---------------
L’avere corredato l’offerta di un’attestazione falsa o
comunque non conforme al modello imposto dalle norme di
gara, determina legittimamente l’esclusione dalla gara,
posto che la mancata dichiarazione incide non già sugli
effetti delle condanne taciute quanto piuttosto sulla
situazione di infedeltà, reticenza o inaffidabilità della
ditta stessa.
Inoltre, è irrilevante che gli illeciti penali non
dichiarati siano eventualmente inidonei ad incidere sulla
moralità professionale della concorrente, in quanto,
l’esistenza di false dichiarazioni circa i precedenti penali
si configura come causa autonoma di esclusione, mentre le
valutazioni in ordine alla gravità delle condanne e alla
loro incidenza sulla moralità professionale spettano
esclusivamente alla stazione appaltante e non già al
concorrente, il quale è pertanto obbligato ad indicare tutte
le condanne riportate, senza poterne autonomamente operare
una selezione sulla base di meri criteri personali.
7) Il ricorso non è fondato.
8) Il Collegio, oltre a rilevare preliminarmente che il
d.lgs. n. 163/2006 non distingue, nel genus delle
fattispecie penalmente rilevanti, le species
riconducibili ad una branca (codice penale) piuttosto che ad
un’altra (codice penale militare di pace), osserva, invero,
che, per pacifico e condivisibile orientamento
giurisprudenziale (ex multis C.d.S., V, 27.01.2014,
n. 400), “…costituisce diritto vivente il principio per
cui in sede di gara d’appalto i concorrenti non possono
operare alcun filtro in sede di dichiarazioni rilasciate ai
sensi dell’art. 38 codice dei contratti pubblici,
relativamente alla indicazione delle condanne penali subite
ed alla loro rilevanza sulla moralità professionale che è
riservata in via esclusiva alla stazione appaltante (cfr. da
ultimo; Cons. St, sez. V, n. 1378 del 2013; Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, determinazione n. 1 del
2010)”; “costituisce parimenti diritto vivente il
principio per cui la riabilitazione del condannato e
l’estinzione del reato, per essere rilevanti in sede di gara
d’appalto, devono essere formalizzate in una pronuncia
espressa del giudice dell’esecuzione (cfr. fra le tante
Autorità di vigilanza, parere 21.05.2008, n. 162;
determinazione n. 1 del 2010; Cons. St., sez. VI, n. 4019
del 2010)” o –aggiunge il Collegio– dal giudice che ha
emesso la condanna (secondo quanto stabilito dal codice
previgente), ma comunque sempre in una pronuncia espressa. “Costituisce,
infine, diritto vivente il principio per cui nelle procedure
di gara disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il
<potere di soccorso> sancito dall’art. 46, co. 1, del
medesimo codice -sostanziandosi unicamente nel dovere della
stazione appaltante di acquisire elementi estrinseci
relativi a documenti o dichiarazioni già esistenti, chiedere
chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire
interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par
condicio dei concorrenti- non consente la produzione tardiva
del documento o della dichiarazione mancante o la
regolarizzazione della forma omessa, ove tali adempimenti,
siano previsti a pena di esclusione (cfr. fra le tante Cons.
St., sez. V, 3077 del 2011)”.
8.1) In giurisprudenza è stato anche chiarito che ”l’avere
corredato l’offerta di un’attestazione falsa o comunque non
conforme al modello imposto dalle norme di gara, determina
legittimamente l’esclusione dalla gara, posto che la mancata
dichiarazione incide non già sugli effetti delle condanne
taciute quanto piuttosto sulla situazione di infedeltà,
reticenza o inaffidabilità della ditta stessa. Inoltre, è
irrilevante che gli illeciti penali non dichiarati siano
eventualmente inidonei ad incidere sulla moralità
professionale della concorrente, in quanto, l’esistenza di
false dichiarazioni circa i precedenti penali si configura
come causa autonoma di esclusione, mentre le valutazioni in
ordine alla gravità delle condanne e alla loro incidenza
sulla moralità professionale spettano esclusivamente alla
stazione appaltante e non già al concorrente, il quale è
pertanto obbligato ad indicare tutte le condanne riportate,
senza poterne autonomamente operare una selezione sulla base
di meri criteri personali” (TAR Emilia Romagna-Parma,
sez. I, sentenza 13.11.2013, n. 341) (TAR Friuli Venezia
Giulia,
sentenza 31.12.2014 n. 678 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Canone commisurato alla gravità del danno.
Tar Lazio sull'occupazione di alloggi di servizio
della p.a..
È legittimo commisurare l'importo del canone di occupazione
degli alloggi di servizio della p.a. alla durata della
violazione dell'obbligo di rilascio e quindi alla gravità
del danno prodotto ai legittimi aspiranti all'assegnazione
del medesimo alloggio.
Lo dice la Sez. I-bis del TAR Lazio-Roma con
sentenza 30.12.2014 n. 13339.
L'importo del canone deve essere, altresì, commisurato
all'ingiustificato arricchimento degli occupanti sine
titolo, che in alcuni casi proprio grazie al beneficio
del canone agevolato hanno potuto acquistare una casa di
proprietà.
Secondo i giudici, poi, non può ravvisarsi alcuna
ingiustizia, né alcuna irragionevolezza o contraddittorietà
con il criterio del reddito dell'occupante, in quanto si
tratta di parametri atti, per motivi diversi, a commisurare
l'occupazione alla gravità dell'elemento soggettivo
(persistere nella sottrazione ai legittimi assegnatari di un
immobile di servizio finalizzata a risparmiare sul costo
dell'affitto di un immobile di mercato pur avendo la
possibilità di reperirne uno) e alla gravità del danno
prodotto (che aumenta con il protrarsi dell'occupazione).
Il Tar ha, quindi, sottolineato come la finalità perseguita
sia quella di improntare la gestione dei beni di proprietà
pubblica a criteri di economicità e redditività, riservando
la finalità sociale alle sole categorie deboli, categorie
svantaggiate, per le quali la legge prevede che la
rideterminazione del canone non faccia riferimento al
criterio dei prezzi di mercato, ma segua più articolati e
favorevoli parametri.
E inoltre, da un punto di vista strettamente tecnico,
l'eventuale mancanza della cosiddetta relazione esplicativa,
che seppure non allegata al provvedimento è comunque
acquisibile esercitando il diritto di accesso, secondo i
giudici laziali «rileva al solo fine della individuazione
del dies a quo dal quale far decorrere i termini
decadenziali per la proposizione dei motivi aggiunti, in
quanto essa costituisce un'integrazione della motivazione
del provvedimento finale, ma non consente di ritenere
illegittimo per difetto di motivazione l'atto impugnato in
quanto la procedura della determinazione del canone in
questione, gli elementi di valutazione e i criteri di
valutazione sono puntualmente disciplinati dall'allegato A
del dm del 16.03.2011». Tale decreto, infatti, indica
espressamente i criteri per l'individuazione del prezzo
presumibile di mercato, dato dalla media delle quotazioni
Omi, per la zona in cui è collocato l'immobile.
Si aggiunge, poi, che la validità, sul piano sostanziale,
delle operazioni di rilievo e di attribuzione dei
coefficienti effettuate dai tecnici ministeriali può essere
messa in discussione soltanto evidenziando errori di fatto
sulle misurazioni o di «errori palesi di apprezzamento»
della qualità delle finiture (o di altri elementi la cui
valutazione è affidata alla «sensibilità peritale»)
mediante una perizia «giurata» di parte (articolo
ItaliaOggi Sette del 12.01.2015). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Il criterio per accertare se la progettazione di
una costruzione rientri nella competenza professionale dei
geometri, ai sensi dell'art. 16 lett. m) r.d. 11.02.1929 n.
274, consiste, infatti, nel valutare le difficoltà tecniche
che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e
le capacità occorrenti per superarle.
La delimitazione della competenza dei geometri e geometri
laureati in tale materia va effettuata anche in base al
criterio economico e tecnico-qualitativo della modestia o
tenuità dell'opera, cosicché agli stessi è preclusa la
realizzazione di un complesso di opere che richieda una
visione di insieme, che ponga problemi di carattere
programmatorio, che imponga una valutazione complessiva di
una serie di situazioni la cui soluzione, sotto il profilo
tecnico, può incontrare difficoltà non facilmente superabili
con la competenza professionale dei medesimi professionisti.
---------------
L’inserimento dell’opera o dei lavori nel programma (o
elenco annuale) non dà luogo, per ciò stesso, alla
complessità nell’accezione di cui all’art. 16 del r.d. n.
274 del 1929, per la semplice ragione che ben può venire in
evidenza la presenza di opere di importo elevato (con
obbligo, pertanto, di inserimento nel programma o
nell’elenco) ma di modesta difficoltà quale può essere, di
regola, una semplice manutenzione anche straordinaria.
D’altronde, se da un lato è vero che l’obbligo per il
consiglio comunale di inserire i lavori nel programma
triennale o nell’elenco annuale assuma attualità qualora
l’opera superi l’importo di centomila euro, è pur vero -ciò
che smentisce ancor di più la necessaria correlazione tra
detto importo e complessità dell’intervento- che siffatto
valore altro non costituisce che la somma delle voci
dell’intero quadro economico di cui all’art. 16 del d.P.R.
n. 207 del 2010 (comprese, ad esempio, le somme a
disposizione dell’amministrazione, non del tutto
irrilevanti, inidonee in qualche modo a connotare le
caratteristiche dell’opera).
... per l'annullamento dell'avviso per l'espletamento di
un’indagine di mercato per l'affidamento di servizi tecnici,
di cui all'articolo 91 del d.lgs 12.04.2006 n. 163 relativi
ad edifici scolastici indetto dall'Area gestione del
territorio del Comune di Palermo, nella parte in cui agli
artt. 1 e 4 esclude la partecipazione dei geometri e dei
geometri laureati;
...
5.- Il ricorso, poiché fondato nei termini di seguito
specificati, deve essere accolto.
6.- La scelta del Comune di Palermo, che, come s’è detto, ha
escluso i geometri ed i geometri laureati dal novero dei
soggetti ammessi ad esprimere la propria manifestazione
d’interesse sul potenziale conferimento «dei servizi
tecnici di cui all’art. 91» del d. lgs. n. 163 del 2006,
si mostra errata nel metodo e nel merito.
7.- La natura e la tipologia degli incarichi da conferirsi,
in assenza di una puntuale dimostrazione che, in effetti,
tutti gli interventi diano luogo a quella particolare
complessità dalla quale far discendere l’impossibilità di
affidarli ai geometri e geometri laureati, obiettivamente
non giustifica, quantomeno per le modalità con cui è stata
pensata, sul piano delle regole di concorrenza e di parità
di trattamento, l’esclusione di siffatta categoria di
professionisti dalla possibilità di manifestare il relativo
interesse alla procedura.
Al di là della non proprio perspicua indicazione dell’avviso
sull’oggetto delle prestazioni, il quale (vedasi l’oggetto e
l’art. 2, comma 1), da un lato, mira a sollecitare la
manifestazione di disponibilità per il conferimento di
futuri incarichi «di servizi tecnici di cui all’art. 91
del d.lgs. n. 163 del 2006» (e non già di soli incarichi
di progettazione, come invece ritenuto dalla difesa del
Comune, cfr. pag. 3, par. 5, della memoria) e, per altro
verso, richiama interventi di «carattere edilizio,
impiantistico e strutturale» (art. 1), va osservato che
l’importo della prestazione professionale (recte: del
servizio) non può costituire sinonimo di complessità (o non
complessità) degli interventi che della stessa costituiscono
oggetto, da cui deriverebbe l’ipotetica delimitazione, sul
versante soggettivo, delle categorie professionali ammesse.
Nel caso di specie, il tenore dell’avviso induce a ritenere
che i lavori non siano esclusivamente caratterizzati da
interventi strutturali per i quali, in taluni casi (e non
sempre) potrebbe ipotizzarsi un’assenza di competenze dei
geometri: l’avviso fa, invero, riferimento anche a lavori di
manutenzione straordinaria e di edilizia per i quali detta
competenza non può astrattamente escludersi, a meno che la
concreta connotazione dell’intervento non lo imponga.
Il criterio per accertare se la progettazione di una
costruzione rientri nella competenza professionale dei
geometri, ai sensi dell'art. 16 lett. m) r.d. 11.02.1929 n.
274, consiste, infatti, nel valutare le difficoltà tecniche
che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e
le capacità occorrenti per superarle. La delimitazione della
competenza dei geometri e geometri laureati in tale materia
va effettuata anche in base al criterio economico e
tecnico-qualitativo della modestia o tenuità dell'opera,
cosicché agli stessi è preclusa la realizzazione di un
complesso di opere che richieda una visione di insieme, che
ponga problemi di carattere programmatorio, che imponga una
valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui
soluzione, sotto il profilo tecnico, può incontrare
difficoltà non facilmente superabili con la competenza
professionale dei medesimi professionisti.
Il Comune, benché abbia esattamente individuato gli
interventi da rendere oggetto dei servizi di che trattasi
(considerato che gli stessi sarebbero stati inseriti negli
strumenti di programmazione), non ha affatto offerto
elementi idonei a giustificare l’esclusione dei geometri e
geometri laureati dalla procedura.
In tal senso, la scelta della civica amministrazione deve
essere giudicata non conforme a canoni di buona
amministrazione considerato, peraltro, che ove fosse venuto
in rilievo un intervento escluso dalla «competenza»
dei geometri, gli uffici ben avrebbero potuto disporre, in
ipotesi, successivamente, l’espulsione di siffatti
professionisti dal novero dei soggetti da ammettere (non già
alla manifestazione di interesse ma) al sorteggio previsto
dallo stesso avviso. Esclusione, questa, che, ovviamente,
non avrebbe potuto prescindere dalla valutazione delle
specifiche e concrete caratteristiche dell’intervento da
realizzare, senza precludere, ab origine ed in via
del tutto astratta, l’ammissione dei predetti soggetti alla
predetta fase di manifestazione di interesse.
A diverse conclusioni non può condurre l’affermazione della
difesa comunale, avente valore meramente assertivo poiché
non supportata da nessun elemento idoneo a smentire le
affermazioni di parte ricorrente, secondo cui tutti gli
interventi di progettazione contemplerebbero l’adeguamento
antisismico degli edifici: un espresso, esclusivo e
specifico riferimento a tale categoria di interventi non è
dato rinvenirsi né nell’avviso pubblico (il quale si limita
genericamente a richiamare, tra gli altri, gli interventi «strutturali»
che, peraltro, non necessariamente ricomprendono misure
antisismiche) né nel novero dell’esperienza curriculare
richiesta ai professionisti, che, per il vero, punta
l’attenzione, tra le altre, sulle esperienze di tema di
adeguamento alla normativa di igiene, sicurezza ex d.lgs. n.
81 del 2008 ed agibilità di edifici scolastici.
Sotto altro profilo, lo stesso asserito inserimento delle
opere nel programma triennale dei lavori pubblici,
circostanza alla quale la difesa del Comune di Palermo
correla la complessità delle stesse e la (necessaria)
susseguente impossibilità per i geometri e geometri laureati
di essere chiamati allo svolgimento delle attività di cui
trattasi, non infirma quanto finora detto. L’inserimento
dell’opera o dei lavori nel predetto programma (o elenco
annuale) non dà luogo, per ciò stesso, alla complessità
nell’accezione di cui all’art. 16 del r.d. n. 274 del 1929,
per la semplice ragione che ben può venire in evidenza la
presenza di opere di importo elevato (con obbligo, pertanto,
di inserimento nel programma o nell’elenco) ma di modesta
difficoltà quale può essere, di regola, una semplice
manutenzione anche straordinaria (cfr. TAR Piemonte,
sentenza n. 852 del 2007).
D’altronde, se da un lato è vero che l’obbligo per il
consiglio comunale di inserire i lavori nel programma
triennale o nell’elenco annuale assuma attualità qualora
l’opera superi l’importo di centomila euro, è pur vero -ciò
che smentisce ancor di più la necessaria correlazione tra
detto importo e complessità dell’intervento- che siffatto
valore altro non costituisce che la somma delle voci
dell’intero quadro economico di cui all’art. 16 del d.P.R.
n. 207 del 2010 (comprese, ad esempio, le somme a
disposizione dell’amministrazione, non del tutto
irrilevanti, inidonee in qualche modo a connotare le
caratteristiche dell’opera), così come previsto dall’art. 6
della l.r. n. 12 del 2011 nonché dal decreto
dell’Assessorato alle infrastrutture e mobilità della
Regione Siciliana n. 14/OSS del 10.08.2012 (ad oggetto «procedura
e schemi-tipo per la redazione del programma triennale […]
ai sensi dell'articolo 128 del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163 […] e degli articoli 13 e 271 del decreto
del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207»).
8.- L’esclusione dei geometri e dei geometri laureati, alla
luce di quanto sopra esposto, siccome censurata dalla parte
ricorrente e nei termini in cui è stato voluto dal Comune di
Palermo, si pone in contrasto con i parametri normativi di
riferimento, sicché il ricorso va accolto con conseguente
annullamento dell’atto impugnato nei limiti della domanda,
ossia nella parte in cui l’impugnato avviso preclude a
siffatta categoria di professionisti di accedere alla fase
preliminare della procedura per cui è causa (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 22.12.2014 n. 3422 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
diritto di proprietà può subire limitazioni, per ragioni di
interesse generale, nei limiti fissati dalla legge, ex art.
42 Cost., tra le quali vanno ricomprese quelle di natura
urbanistica.
Il correlativo esercizio del potere di pianificazione non
può infatti essere inteso, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma deve essere ricostruito come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo del medesimo, avendo la disciplina
urbanistica lo scopo di conformare l'esercizio delle facoltà
inerenti i diritti reali, con gli interessi pubblici
implicati.
I.1) Una prima questione, di carattere generale, attiene al
rapporto tra le disposizioni che consentono la chiusura del
fondo, nell’ambito delle facoltà riconosciute dal diritto di
proprietà e dalla disciplina venatoria, e quelle contenute
nel P.T.C. del Parco, che vietano invece, sulle aree di che
trattasi, la realizzazione di recinzioni.
In particolare, secondo i ricorrenti (terzo e sesto motivo
ricorso R.G. n. 1916/11, secondo motivo ricorso R.G. n.
2857/11), il combinato disposto degli artt. 841, 842, c.c.,
15 L. n. 157/1992 e 37 c. 5 L.R. n. 26/1993, che consentono
al proprietario di chiudere il proprio fondo, dovrebbe
prevalere sulle disposizioni del Piano Territoriale di
Coordinamento del Parco, poste a fondamento dei
provvedimenti impugnati, che invece inibiscono l’esercizio
di tale facoltà (art. 15.3, lett. n, per la zona ZB,
naturalistica parziale zoologica biogenergetiva, art. 9.G.10
per la zona G2, pianura irrigua a preminente vocazione
agricola, art. 8.C.10 per la zona C2, agricola forestale a
prevalente interesse paesaggistico), sia in ragione del
criterio di specialità che del principio di gerarchia.
Ritiene il proposito il Collegio che, in linea generale,
come correttamente ricordato dalla difesa del Parco, il
diritto di proprietà può subire limitazioni, per ragioni di
interesse generale, nei limiti fissati dalla legge, ex art.
42 Cost., tra le quali vanno ricomprese quelle di natura
urbanistica. Il correlativo esercizio del potere di
pianificazione non può infatti essere inteso, sul piano
giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di proprietà, così
offrendone una visione affatto minimale, ma deve essere
ricostruito come intervento degli enti esponenziali sul
proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo
del medesimo (C.S., Sez. IV, 22.09.2014 n. 4731), avendo la
disciplina urbanistica lo scopo di conformare l'esercizio
delle facoltà inerenti i diritti reali, con gli interessi
pubblici implicati (C.S., Sez. V, 21.06.2013 n. 3429).
Con riferimento alla fattispecie per cui è causa, ritiene il
Collegio che le citate norme del Piano Territoriale, in
quanto espressione della predetta potestà urbanistica, sono
idonee a conformare il diritto di proprietà, in applicazione
dei principi giurisprudenziali sopra richiamati. Il Piano
Territoriale di Coordinamento del Parco si pone infatti
quale atto di pianificazione territoriale regionale a
carattere generale, avente natura normativa, nella parte in
cui contiene direttive per gli Enti competenti ad altri
livelli di pianificazione, comportando invece immediatamente
e direttamente vincoli e limiti anche per i privati laddove,
come nel caso si specie, si spinge alla puntuale indicazione
di prescrizioni volte alla tutela di uno specifico interesse
di settore (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.04.2004 n.
1477, Corte Costituzionale, 11.06.1999 n. 225) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.12.2014 n. 3157 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Al
fine della decorrenza del termine di impugnazione di un
provvedimento, non basta la mera notizia della sua esistenza
e del suo carattere sfavorevole per il destinatario,
occorrendo conoscerne il contenuto, per poter valutare se
l'atto è illegittimo o meno. Ne consegue che laddove
l'amministrazione comunichi l'esistenza di un provvedimento
sfavorevole, senza la motivazione posta a corredo, il
destinatario ha una mera facoltà e non un onere, di
impugnare subito l'atto per poi proporre i motivi aggiunti,
ma ben può attendere di conoscere la motivazione dell'atto
per poter, una volta avuta conoscenza del contenuto
dell'atto, e quindi dell'effetto lesivo, valutare se
impugnarlo o meno.
La piena conoscenza del provvedimento richiede infatti una
conoscenza estesa a tutti gli elementi dell'atto
qualificabili come essenziali e individuabili tramite la sua
motivazione.
Nel caso in cui ancora non si conosca l'effettiva
motivazione del provvedimento, non è infatti configurabile
per l'interessato l'onere di una doppia impugnazione, prima
con il ricorso introduttivo e poi con i motivi aggiunti, e
ciò in quanto, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 241/1990, la
motivazione non ha carattere opzionale, ma è obbligatoria,
sicché la mera notizia che esista un provvedimento lesivo
non può essere equiparata alla piena conoscenza del
provvedimento medesimo.
Alla luce di quanto precede, l’eccezione va respinta, a
prescindere dall’applicabilità al caso di specie del D.Lgs.
n. 163/2006, ed in particolare degli artt. 79, c. 5, e 120,
c. 2, contestata dalla stazione appaltante e dalla
controinteressata atteso che, in ogni caso, anche in base
alla giurisprudenza antecedente all’entrata in vigore di
dette disposizioni, “al fine della decorrenza del termine
di impugnazione di un provvedimento, non basta la mera
notizia della sua esistenza e del suo carattere sfavorevole
per il destinatario, occorrendo conoscerne il contenuto, per
poter valutare se l'atto è illegittimo o meno. Ne consegue
che laddove l'amministrazione comunichi l'esistenza di un
provvedimento sfavorevole, senza la motivazione posta a
corredo, il destinatario ha una mera facoltà e non un onere,
di impugnare subito l'atto per poi proporre i motivi
aggiunti, ma ben può attendere di conoscere la motivazione
dell'atto per poter, una volta avuta conoscenza del
contenuto dell'atto, e quindi dell'effetto lesivo, valutare
se impugnarlo o meno” (C.S. Sez. IV 08.2.2007 n. 522).
La piena conoscenza del provvedimento richiede infatti una
conoscenza estesa a tutti gli elementi dell'atto
qualificabili come essenziali e individuabili tramite la sua
motivazione.
Nel caso in cui ancora non si conosca l'effettiva
motivazione del provvedimento, non è infatti configurabile
per l'interessato l'onere di una doppia impugnazione, prima
con il ricorso introduttivo e poi con i motivi aggiunti, e
ciò in quanto, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 241/1990, la
motivazione non ha carattere opzionale, ma è obbligatoria,
sicché la mera notizia che esista un provvedimento lesivo
non può essere equiparata alla piena conoscenza del
provvedimento medesimo (TAR Sardegna, 05.11.2009 n. 1607,
TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 05.05.2009 n. 2360, TAR
Campania, Salerno, Sez. I 21.01.2009 n. 114) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.12.2014 n. 3147 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A termini dell’art. 145, comma 1, c.p.a., “la
notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro
sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante
o alla persona incaricata di ricevere la notificazioni o, in
mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”.
In proposito, la giurisprudenza di vertice ha precisato che
il disciplinare le modalità di ricezione degli atti, in
maniera che essi siano consegnati ad una persona fisica
all’uopo incaricata, costituisce preciso onere del legale
rappresentante della persona giuridica ed esplicazione dei
poteri auto-organizzativi di questa che deve esercitarli non
con disposizioni meramente interne, ma con modalità tali da
richiamare in modo chiaro e immediato l’attenzione
dell’ufficiale giudiziario.
Ne consegue che la legittimazione alla ricezione della
persona che riceve l’atto deve presumersi sulla base della
presenza del soggetto presso la sede legale, incombendo sul
destinatario dell’atto l’onere della prova contraria, e
comunque colui che esegue la notifica non ha alcun obbligo
di ricercare in primo luogo il rappresentante e solo
successivamente l’incaricato, presumendosi che la persona
che, senza contestazioni, si riceva l’atto, sia incaricata
di detta ricezione, anche sulla scorta di un incarico
provvisorio o precario; quindi, se dalla relazione
dell’ufficiale giudiziario o postale risulti la presenza di
una persona che si trovava nei locali della sede stessa, è
da presumere che tale persona fosse (in quel momento)
addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona
giuridica, anche se da questa non dipendente, onde la
società per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di
provare che la stessa persona, oltre a non essere suo
dipendente, non era addetta neppure alla sede per non averne
mai ricevuto incarico alcuno.
III. Va pure preliminarmente disattesa l’eccezione di
nullità della notifica del ricorso (e, conseguentemente,
della disposta C.T.U.), in ragione della circostanza che il
ricorso medesimo sarebbe stato notificato non a mani di
soggetto legittimato alla ricezione e, precisamente, non a
mani del legale rappresentante della società, ovvero di
soggetto da questi delegato, ma a mani del socio, signor
C.C., e peraltro neppure (apparentemente) presso la sede
legale della società.
III.1) Osserva il Collegio che, a termini dell’art. 145,
comma 1, c.p.a., “la notificazione alle persone
giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di
copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata
di ricevere la notificazioni o, in mancanza, ad altra
persona addetta alla sede stessa”.
In proposito, la giurisprudenza di vertice ha precisato che
il disciplinare le modalità di ricezione degli atti, in
maniera che essi siano consegnati ad una persona fisica
all’uopo incaricata, costituisce preciso onere del legale
rappresentante della persona giuridica ed esplicazione dei
poteri auto-organizzativi di questa che deve esercitarli non
con disposizioni meramente interne, ma con modalità tali da
richiamare in modo chiaro e immediato l’attenzione
dell’ufficiale giudiziario (cfr. Cass. n.16103/2007).
Ne consegue che la legittimazione alla ricezione della
persona che riceve l’atto deve presumersi sulla base della
presenza del soggetto presso la sede legale, incombendo sul
destinatario dell’atto l’onere della prova contraria (cfr.
Cass., nn. 10134/2002 e 5304/1998, ex pluris), e
comunque colui che esegue la notifica non ha alcun obbligo
di ricercare in primo luogo il rappresentante e solo
successivamente l’incaricato, presumendosi che la persona
che, senza contestazioni, si riceva l’atto, sia incaricata
di detta ricezione, anche sulla scorta di un incarico
provvisorio o precario; quindi, se dalla relazione
dell’ufficiale giudiziario o postale risulti la presenza di
una persona che si trovava nei locali della sede stessa, è
da presumere che tale persona fosse (in quel momento)
addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona
giuridica, anche se da questa non dipendente, onde la
società per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di
provare che la stessa persona, oltre a non essere suo
dipendente, non era addetta neppure alla sede per non averne
mai ricevuto incarico alcuno (cfr., ex pluris, Cass.
n. 12754/2005)
(TAR Abruzzo-L’Aquila,
sentenza 20.12.2014 n. 955 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la questione
relativa al computo nelle distanze dei balconi e dei vani
tecnici, va osservato in linea generale che le parti
aggettanti di un fabbricato rientrano certamente tra gli
elementi che costituiscono gli edifici da assoggettare al
regime delle distanze in edilizia di cui all’articolo 9 del
D.M. 02.04.1968, n. 1444 (“Limiti inderogabili di distanze
tra i fabbricati”) per assicurare le note condizioni di
salubrità sotto il profilo igienico-sanitario, mediante
l’eliminazione di perniciose intercapedini.
E’ invero noto che la distanza di dieci metri tra pareti
finestrate ed edifici antistanti, prevista dall’art 9, D.M.
02.04.1968, n. 1444, come argomentato correttamente dalla
difesa di parte ricorrente, va calcolata con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse
siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuole
distanziare, sono solo i manufatti come le mensole, le
lesene, i risalti verticali delle pareti con funzione
decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni,
le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le
sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari
(e significative) dimensioni, che siano quindi destinate
anche a estendere e ampliare per l’intero fronte
dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo.
---------------
In considerazione di tali inderogabili esigenze, ancora di
recente si è espressa la IV Sezione del Consiglio di Stato,
in fattispecie relativa al distacco di una scala, ritenendo
che il vano scale e, a maggior ragione, una rampa di scala
scoperta, pur non incidendo sulla volumetria, trattandosi di
volume tecnico, può assumere diversa rilevanza sul piano
della normativa dettata per le distanze dai confini,
concludendo che deve ritenersi non tollerabile la presenza
di una parte, sia pure di modesta entità, di un opus
edilizio che vada ad insistere in maniera permanente su uno
spazio territoriale che deve rimanere libero da qualsiasi
ingombro.
Analoga conclusione ha tratto il Consiglio di Stato con
riferimento espresso ai balconi, distinguendo, ai fini della
determinazione del volume dell’edificio, i balconi
aggettanti che sporgono dalla facciata dell’edificio,
costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal
quale protendono, senza svolgere alcuna funzione di sostegno
né di copertura, dalle terrazze a livello incassate nel
corpo dell’edificio, il che ha consentito di argomentarne,
invero non proprio pianamente, la sostanziale “irrilevanza”
(o, al contrario, la rilevanza) anche ai fini del computo
delle distanze “solo nel caso in cui una norma di piano
preveda ciò”.
---------------
E’ tuttavia certo che la eventuale norma di piano che, sul
presupposto (e a condizione) della loro minima invadenza
strutturale, escludesse i “balconi” dal computo delle
distanze, o che ne individuasse le condizioni di esclusione,
costituirebbe in ogni caso norma eccezionale e di favore, in
quanto integrativa e “derogativa” della norma di ordine
pubblico di cui all’art. 9 del D.M. più volte richiamato.
IV.4) Il Collegio
ritiene di dover disattendere le contestazioni mosse e di
dover al contrario assumere a proprie le conclusioni cui è
pervenuto il consulente tecnico.
Quanto, anzitutto, al profilo relativo alla possibilità di
deroghe delle distanze minime previste, va osservato che il
provvedimento impugnato è il rilascio di un permesso di
costruire e non già di una lottizzazione convenzionata
ovvero di un piano particolareggiato che preveda
espressamente distanze inferiori in deroga; la mera
possibilità di deroga contenuta nel PRE, in definitiva, non
importa ex se deroga alle distanze ed impone, al
contrario, il rispetto delle stesse ogniqualvolta
l’intervento si atteggi, come nel caso, come individuo.
La ratio della invocata disposizione è peraltro ben
individuabile proprio nella natura unitaria di un intervento
plurimo in tale consistenza autorizzato, che ben
consentirebbe una diversa disposizione reciproca dei
fabbricati edificandi, ove essa fosse, ben vero,
convenzionalmente pattuita (in caso di intervento
convenzionato) ovvero autoritariamente imposta (nel caso di
piano particolareggiato), e nessuno dei due casi ricorre
nella specie.
Quanto alla questione relativa al computo nelle distanze dei
balconi e dei vani tecnici, va osservato in linea generale
che le parti aggettanti di un fabbricato rientrano
certamente tra gli elementi che costituiscono gli edifici da
assoggettare al regime delle distanze in edilizia di cui
all’articolo 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (“Limiti
inderogabili di distanze tra i fabbricati”) per
assicurare le note condizioni di salubrità sotto il profilo
igienico-sanitario, mediante l’eliminazione di perniciose
intercapedini.
E’ invero noto che la distanza di dieci metri tra pareti
finestrate ed edifici antistanti, prevista dall’art 9, D.M.
02.04.1968, n. 1444, come argomentato correttamente dalla
difesa di parte ricorrente, va calcolata con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse
siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuole
distanziare, sono solo i manufatti come le mensole, le
lesene, i risalti verticali delle pareti con funzione
decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni,
le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le
sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari
(e significative) dimensioni, che siano quindi destinate
anche a estendere e ampliare per l’intero fronte
dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo
(cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 6909/2005).
IV.5) In considerazione di tali inderogabili esigenze,
ancora di recente si è espressa la IV Sezione del Consiglio
di Stato (con sentenza 04.03.2014, n. 1000), in fattispecie
relativa al distacco di una scala, ritenendo che il vano
scale e, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta, pur
non incidendo sulla volumetria, trattandosi di volume
tecnico, può assumere diversa rilevanza sul piano della
normativa dettata per le distanze dai confini, concludendo
che deve ritenersi non tollerabile la presenza di una parte,
sia pure di modesta entità, di un opus edilizio che vada ad
insistere in maniera permanente su uno spazio territoriale
che deve rimanere libero da qualsiasi ingombro.
Analoga conclusione ha tratto il Consiglio di Stato con
riferimento espresso ai balconi, distinguendo, ai fini della
determinazione del volume dell’edificio, i balconi
aggettanti che sporgono dalla facciata dell’edificio,
costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal
quale protendono, senza svolgere alcuna funzione di sostegno
né di copertura, dalle terrazze a livello incassate nel
corpo dell’edificio (cfr. Cons. di Stato, n. 3381/2008), il
che ha consentito di argomentarne, invero non proprio
pianamente, la sostanziale “irrilevanza” (o, al
contrario, la rilevanza) anche ai fini del computo delle
distanze “solo nel caso in cui una norma di piano preveda
ciò” (cfr. TAR Lazio, n. 5319/2010; TAR Liguria, n.
1736/2009).
E’ tuttavia certo che la eventuale norma di piano che, sul
presupposto (e a condizione) della loro minima invadenza
strutturale, escludesse i “balconi” dal computo delle
distanze, o che ne individuasse le condizioni di esclusione,
costituirebbe in ogni caso norma eccezionale e di favore, in
quanto integrativa e “derogativa” della norma di
ordine pubblico di cui all’art. 9 del D.M. più volte
richiamato (cfr. Cons. di Stato, n. 5557/2013)
(TAR Abruzzo-L’Aquila,
sentenza 20.12.2014 n. 955 - link a
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INCARICHI PROFESSIONALI:
La nullità derivante dall’adozione d’una delibera
di conferimento dell’incarico professionale non accompagnata
dall’attestazione della necessaria copertura finanziaria può
essere sanata attraverso la ricognizione postuma di debito
da parte dell’ente locale, ai sensi dell’art. 24 del
decreto-legge 02.03.1989, n. 66 (convertito, con
modificazioni, nella legge 24.04.1989, n. 144), poi seguito
dal d.lgs. n. 267 del 2000 (art. 191 e 194); tale
dichiarazione, per contro, non rileva e non può avere alcuna
efficacia sanante ove il contratto stipulato dalla P.A. sia
privo della forma scritta.
Il credito di chi ha fornito la prestazione od il servizio
nei confronti della p.a. sussiste dunque direttamente nei
confronti del funzionario. Questi, ove manchino i necessari
adempimenti formali per la validità dell’impegno di spesa
assunto dalla p.a., ne risponderà in proprio verso il
privato fornitore.
L’insorgenza del rapporto obbligatorio direttamente tra il
fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbia
consentito la prestazione comporta l’impossibilità di
esperire nei confronti del Comune l’azione di arricchimento
senza causa, stante il difetto del necessario requisito
della sussidiarietà.
Pertanto, dopo l’introduzione della normativa di cui agli
artt. 191 e 194 del D.Lgs. n. 267/2000, la questione del
riconoscimento dell’utilità della prestazione può porsi di
regola solo allorché siano il funzionario o l’amministratore
responsabili verso il privato a proporre l’azione di cui
all’art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A..
1.2. Tutti i motivi possono essere esaminati congiuntamente,
e vanno dichiarati infondati per due ragioni assorbenti e
preliminari.
1.3. La prima ragione è che il contratto stipulato dal
ricorrente col Comune di Roccarainola è nullo per difetto di
forma scritta, e tale nullità non può essere sanata dal
riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte della
p.a..
1.4. E’ stato, infatti, lo stesso ricorrente ad ammettere
che il contratto da lui stipulato col Comune di Roccarainola
non aveva forma scritta.
La stipula con la pubblica amministrazione di un qualsiasi
contratto privo della forma scritta è nulla, e tale nullità
non può essere sanata attraverso il riconoscimento, da parte
della amministrazione committente, dell’utilità della
prestazione ricevuta.
Questa Corte, al riguardo, con orientamento ormai
consolidato ha già stabilito che “il riconoscimento di un
debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 37 del d.lgs.
25.02.1995, n. 77, costituisce un procedimento discrezionale
che consente all’ente locale di far salvi, nel proprio
interesse, gli impegni di spesa in precedenza assunti
tramite specifica obbligazione, ancorché sprovvista di
copertura contabile, ma non ha la funzione di introdurre una
sanatoria per i contratti nulli o, comunque, invalidi –come
quelli conclusi senza il rispetto della forma scritta ‘ad
substantiam’– né apportare una deroga al regime di
inammissibilità dell’azione di indebito arricchimento di cui
all’art. 23 del d.l. 02.03.1989, n. 66, convertito, con
modificazioni, nella legge 24.04.1989 n. 144” (Sez. 1,
Sentenza n. 25373 del 12/11/2013, Rv. 629076).
Da ciò consegue che mentre la nullità derivante
dall’adozione d’una delibera di conferimento dell’incarico
professionale non accompagnata dall’attestazione della
necessaria copertura finanziaria può essere sanata
attraverso la ricognizione postuma di debito da parte
dell’ente locale, ai sensi dell’art. 24 del decreto-legge
02.03.1989, n. 66 (convertito, con modificazioni, nella
legge 24.04.1989, n. 144), poi seguito dal d.lgs. n. 267 del
2000 (art. 191 e 194), tale dichiarazione, per contro, non
rileva e non può avere alcuna efficacia sanante ove il
contratto stipulato dalla P.A. sia privo della forma scritta
(Sez. 3, Sentenza n. 27406 del 18/11/2008, Rv. 605528).
1.5. Nel caso di specie, pertanto, la nullità del contratto
stipulato tra l’ing. P.G.A. ed il Comune di Roccarainola, in
quanto privo di forma scritta, non può essere in alcun modo
sanata dal riconoscimento dell’utilità della prestazione da
parte della amministrazione comunale: sicché resta
irrilevante nel presente giudizio se la Corte d’appello
abbia o meno correttamente escluso la sussistenza della
prova di tale riconoscimento.
1.6. La seconda ragione preliminare ed assorbente di
infondatezza del ricorso è che l’azione di ingiustificato
arricchimento è una azione residuale, accordata
dall’orientamento quando l’impoverito non disponga di alcun
strumento giuridico a tutela della propria pretesa.
Tale presupposto non sussiste nel caso di spese fuori
bilancio dei Comuni (e, più in generale, degli enti locali).
1.7. Giova ricordare, a tal fine, come il legislatore, per
porre limite ad una preoccupante crescita delle spese degli
enti locali, nel 1989 stabilì che “nel caso in cui vi sia
stata l’acquisizione [da parte dell’ente locale] di beni o
servizi in violazione dell’obbligo indicato nel comma 3 [e
cioè senza la deliberazione autorizzativa né l’impegno
contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di
previsione], il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini
della controprestazione e per ogni altro effetto di legge
tra il privato fornitore e l’amministratore o il funzionario
che abbiano consentita la fornitura. Detto effetto si
estende per le esecuzioni reiterate o continuative a tutti
coloro che abbiano reso possibili le singole prestazioni”
(art. 23, comma 4, d.l. 02.03.1989 n. 66, convertito in
legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L.
24.04.1989, n. 144).
Successivamente, tale norma venne abrogata dall’art. 123,
comma 1, lettera (n), d.Lgs. 25.02.1995, n. 77 (recante “Ordinamento
finanziario e contabile degli enti locali”), e
sostituita dall’art. 35, comma 4, dello stesso decreto, il
quale ha introdotto in subiecta materia una
importante novità, vale a dire la possibilità per l’ente
locale di riconoscere, con deliberazione consiliare, la
legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da
acquisizioni di beni o servizi non autorizzate, “nei
limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento
per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza”.
La legge è passata quindi da un sistema di “irresponsabilità
assoluta” della p.a., nel caso di assunzione di beni o
servizi non regolarmente deliberate, ad un sistema di “irresponsabilità
relativa”, nel quale a determinate condizioni la p.a.
poteva decidere di “riconoscere” il debito fuori
bilancio.
L’ultima tappa dell’evoluzione normativa in subiecta
materia è rappresentata dall’approvazione del testo
unico sugli enti locali (d.lgs. 18.08.2000 n. 267), il cui
art. 191 ha stabilito che “nel caso in cui vi è stata
l’acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo
indicato nei commi 1, 2 e 3 [e cioè in assenza dell’impegno
contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di
previsione e l’attestazione della copertura finanziaria], il
rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della
controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi
dell’articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato
fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che
hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o
continuative detto effetto si estende a coloro che hanno
reso possibili le singole prestazioni”.
Il successivo art. 194, comma 1, lettera (e), stabilisce poi
che gli enti locali, con apposita deliberazione, possono
riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio
derivanti da “acquisizione di beni e servizi, in
violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3
dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito
dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza”.
Il credito di chi ha fornito la prestazione od il servizio
nei confronti della p.a. sussiste dunque direttamente nei
confronti del funzionario. Questi, ove manchino i necessari
adempimenti formali per la validità dell’impegno di spesa
assunto dalla p.a., ne risponderà in proprio verso il
privato fornitore. L’insorgenza del rapporto obbligatorio
direttamente tra il fornitore e l’amministratore o il
funzionario che abbia consentito la prestazione comporta
l’impossibilità di esperire nei confronti del Comune
l’azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del
necessario requisito della sussidiarietà.
Pertanto, dopo l’introduzione della normativa sopra
riassunta, la questione del riconoscimento dell’utilità
della prestazione può porsi di regola solo allorché siano il
funzionario o l’amministratore responsabili verso il privato
a proporre l’azione di cui all’art. 2041 cod. civ. nei
confronti della P.A. (così, testualmente, Sez. 6 – 3,
Ordinanza n. 1391 dei 23/01/2014, Rv. 629726; nello stesso
senso, ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 12880 del
26/05/2010, Rv. 613213) (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 19.12.2014 n. 26911 -
link a http://renatodisa.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Costituisce
principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui
non è accoglibile la domanda di risarcimento del danno
formulata nel processo amministrativo in modo del tutto
generico, senza che il ricorrente fornisca il minimo
principio di prova e, prima ancora, senza neanche allegare
precisamente i fatti sui quali la domanda si fonda.
Ritiene il Collegio che, per le ragioni di seguito esposte,
la domanda risarcitoria sia infondata.
Costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello
secondo cui non è accoglibile la domanda di risarcimento del
danno formulata nel processo amministrativo in modo del
tutto generico, senza che il ricorrente fornisca il minimo
principio di prova e, prima ancora, senza neanche allegare
precisamente i fatti sui quali la domanda si fonda (TAR
Liguria, sez. II, 15.10.2010, n. 9501; TAR Campania Napoli,
sez. III, 10.05.2010, n. 3367).
Nel caso concreto non si può non rilevare come la domanda
risarcitoria proposta dal ricorrente sia del tutto generica
in quanto formulata senza la benché minima prospettazione
dei fatti costituitivi del diritto vantato e, a maggior
ragione, senza che sia stata fornita alcuna prova a supporto
degli stessi.
Va pertanto ribadita l’infondatezza di tale domanda (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.12.2014 n. 3119 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere/dovere di repressione degli abusi edilizi
-configuranti a loro volta un illecito permanente- non è
soggetto a decadenza, costituendo invece attività vincolata,
senza che l’Amministrazione debba fornire una specifica o
analitica motivazione con riguardo al decorso del tempo.
Neppure assume rilevanza, come vorrebbe invece parte
ricorrente, il presunto decorso del tempo dalla
realizzazione dell’abuso.
In primo luogo, infatti, appare provato che le strutture
abusive risalgono ad epoca successiva al 1989 –allorché
risulta un primo sopralluogo dell’Amministrazione nel 1998–
sicché non è certo decorso un lungo tempo fra l’edificazione
e la reazione repressiva da parte del Comune.
In ogni modo, il Collegio ritiene di aderire al prevalente
indirizzo giurisprudenziale, per il quale il potere/dovere
di repressione degli abusi edilizi -configuranti a loro
volta un illecito permanente- non è soggetto a decadenza,
costituendo invece attività vincolata, senza che
l’Amministrazione debba fornire una specifica o analitica
motivazione con riguardo al decorso del tempo (così, fra le
più recenti: Consiglio di Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2196
e TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 21.11.2014, n. 1282).
Tale indirizzo giurisprudenziale merita di essere condiviso
nel caso di specie, nel quale l’abuso appare di notevole
rilevanza, oltre che posto in essere in zona boschiva (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.12.2014 n. 3095 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - APPALTI:
La valutazione che la P.A. in prima battuta e,
quindi, il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione
esclusiva, sono chiamati a compiere va effettuata in
astratto e, per dir così, “ab externo”, senza che
nell’esercizio di quest’ultima funzione vi sia spazio per
compiere apprezzamenti diretti (e indebiti) sulla
documentazione richiesta quale strumento di prova diretta, o
di mancata prova, della lesione sofferta dalla parte in sede
di giudizio civile e sulla fondatezza della domanda
giudiziale civile, ossia della pretesa sottostante.
---------------
Fatta salva la disciplina prevista dal presente codice per
gli appalti segretati o la cui esecuzione richiede speciali
misure di sicurezza, sono esclusi il diritto di accesso e
ogni forma di divulgazione in relazione:
a) alle informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito
delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che
costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione
dell'offerente, segreti tecnici o commerciali;
b) a eventuali ulteriori aspetti riservati delle offerte, da
individuarsi in sede di regolamento;
c) ai pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti
all'applicazione del presente codice, per la soluzione di
liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici;
d) alle relazioni riservate del direttore dei lavori e
dell'organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del
soggetto esecutore del contratto.
In relazione all'ipotesi di cui al comma 5, lettere a) e b),
è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda
in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in
relazione alla procedura di affidamento del contratto
nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di
accesso”.
Come già osservato da condivisa giurisprudenza il rapporto
tra la normativa generale in tema di accesso e quella
particolare, sopra riportata, dettata in materia di
contratti pubblici, non va posto in termini di accentuata
differenziazione, ma piuttosto di complementarietà, nel
senso che le disposizioni (di carattere generale e speciale)
contenute nella disciplina della legge n. 241 del 1990
devono trovare applicazione tutte le volte in cui non si
rinvengono disposizioni derogatorie (e quindi dotate di una
specialità ancor più elevata in ragione della materia) nel
Codice dei contratti, le quali trovano la propria ratio nel
particolare regime giuridico di tale settore
dell’ordinamento.
In tal senso la disciplina dettata dall’art. 13 del Codice
dei contratti pubblici, essendo destinata a regolare in modo
completo tutti gli aspetti relativi alla conoscibilità degli
atti e dei documenti rilevanti nelle diverse fasi di
formazione ed esecuzione dei contratti medesimi, costituisce
una sorta di microsistema normativo, collegato all’idea
della peculiarità del settore considerato, pur all’interno
delle coordinate generali dell’accesso tracciate dalla l. n.
241 del 1990.
Nel codice dei contratti l’accesso è strettamente collegato
alla sola esigenza di una difesa in giudizio con una
previsione, quindi, molto più restrittiva di quella
contenuta nell’art. 24 l. n. 241 cit., la quale contempla un
ventaglio più ampio di possibilità, consentendo l’accesso
ove necessario per la tutela della posizione giuridica del
richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione
processuale.
... per
l'annullamento del provvedimento Prot. CBA-00I9990-P
dell'11.06.2014 con cui l'ANAS S.p.A., Compartimento della
Viabilità della Puglia, ha comunicato la reiezione
dell'istanza di accesso avanzata dal ricorrente in data
06.05.2014 relativamente agli atti della gara informale
volta all'affidamento per il completamento dei lavori di
messa in sicurezza delle SS. SS. 16-16
VAR-89-90-271-655-693, in esito alla risoluzione del
contratto d'appalto rep. n. 35230 sottoscritto tra le parti
in data 08.01.2013;
...
Il ricorso merita accoglimento nei limiti di seguito
precisati.
Diversamente da quanto opinato dall’ANAS nel gravato
diniego, sussiste in capo alla parte ricorrente l’“interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso”, atto a giustificare la
richiesta ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241 del 1990. Al
fine di valutare la sussistenza di tale interesse occorre
avere riguardo alle finalità che l’istante dichiara di
perseguire, richiedendo la norma in parola un “legame tra
finalità dichiarata ed il documento richiesto”. Nel caso
in esame, la ricorrente ha espressamente dichiarato che la
documentazione richiesta:
1) è finalizzata alla produzione nel giudizio civile
pendente instaurato dall’IMPRESA MOTTOLA ed avente ad
oggetto la risoluzione del contratto in danno disposta
dall’ANAS;
2) è necessaria ai fini della determinazione dell’importo
della fideiussione di cui, eventualmente, l’ANAS potrà
beneficiare.
L'interesse enunciato dalla ricorrente –e rappresentato fin
dalla prima istanza- appare idoneo a supportare
adeguatamente la pretesa dell'istante, in relazione alla
difesa dei suoi interessi giuridici (ex art. 24, co. 7, l.
241/1990); sotto tale profilo, va ricordato che la
valutazione che la P.A. in prima battuta e, quindi, il
giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva
sono chiamati a compiere va effettuata in astratto e, per
dir così, “ab externo”, senza che nell’esercizio di
quest’ultima funzione vi sia spazio per compiere
apprezzamenti diretti (e indebiti) sulla documentazione
richiesta quale strumento di prova diretta, o di mancata
prova, della lesione sofferta dalla parte in sede di
giudizio civile e sulla fondatezza della domanda giudiziale
civile, ossia della pretesa sottostante (CGARS sent.
07.05.2014 n. 310).
Va in definitiva consentito alla ricorrente l’accesso
richiesto, non senza evidenziare -tuttavia- che la richiesta
dell’IMPRESA MOTTOLA è riferita, genericamente, a tutti gli
atti della procedura negoziata che ha fatto seguito alla
risoluzione del contratto intercorso tra le parti del
presente giudizio.
Orbene, la circostanza della mancata partecipazione della
ricorrente alla gara (puntualmente evidenziata dall’ANAS
nella nota gravata) incide, non sulla sussistenza
dell’interesse all’accesso (come sostenuto dalla
resistente), bensì sulla individuazione degli atti
ostensibili.
Ed invero, l’art. 13, co. 1, d.l.vo n. 163/2006 recita: “Salvo
quanto espressamente previsto nel presente codice, il
diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento
e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le
candidature e le offerte, è disciplinato dalla legge
07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni”.
Ai sensi dei successivi commi 5 e 6, poi “Fatta salva la
disciplina prevista dal presente codice per gli appalti
segretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di
sicurezza, sono esclusi il diritto di accesso e ogni forma
di divulgazione in relazione:
a) alle informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito
delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che
costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione
dell'offerente, segreti tecnici o commerciali;
b) a eventuali ulteriori aspetti riservati delle offerte, da
individuarsi in sede di regolamento;
c) ai pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti
all'applicazione del presente codice, per la soluzione di
liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici;
d) alle relazioni riservate del direttore dei lavori e
dell'organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del
soggetto esecutore del contratto.
In relazione all'ipotesi di cui al comma 5, lettere a) e b),
è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda
in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in
relazione alla procedura di affidamento del contratto
nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di
accesso”.
“Come già osservato da condivisa giurisprudenza il
rapporto tra la normativa generale in tema di accesso e
quella particolare, sopra riportata, dettata in materia di
contratti pubblici, non va posto in termini di accentuata
differenziazione, ma piuttosto di complementarietà, nel
senso che le disposizioni (di carattere generale e speciale)
contenute nella disciplina della legge n. 241 del 1990
devono trovare applicazione tutte le volte in cui non si
rinvengono disposizioni derogatorie (e quindi dotate di una
specialità ancor più elevata in ragione della materia) nel
Codice dei contratti, le quali trovano la propria ratio nel
particolare regime giuridico di tale settore
dell’ordinamento.
In tal senso la disciplina dettata dall’art. 13 del Codice
dei contratti pubblici, essendo destinata a regolare in modo
completo tutti gli aspetti relativi alla conoscibilità degli
atti e dei documenti rilevanti nelle diverse fasi di
formazione ed esecuzione dei contratti medesimi, costituisce
una sorta di microsistema normativo, collegato all’idea
della peculiarità del settore considerato, pur all’interno
delle coordinate generali dell’accesso tracciate dalla l. n.
241 del 1990. Nel codice dei contratti l’accesso è
strettamente collegato alla sola esigenza di una difesa in
giudizio con una previsione, quindi, molto più restrittiva
di quella contenuta nell’art. 24 l. n. 241 cit., la quale
contempla un ventaglio più ampio di possibilità, consentendo
l’accesso ove necessario per la tutela della posizione
giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione alla
sola dimensione processuale (Consiglio di Stato n.
6121-2008)” – cfr. TAR Campania, Napoli, sez. 6, sent.
11/07/2014 n. 3880/2014.
Alla luce del suesposto quadro normativo, può osservarsi che
alla ricorrente è precluso del tutto l’accesso agli atti di
cui al precedente co. 5 e, nonostante l’interesse difensivo
di cui è portatrice, anche a quelli sub a) e b), siccome
l’impresa non ha concorso alla procedura cui si riferisce la
richiesta di accesso.
Nel rispetto dei predetti limiti, l’ANAS dovrà consentire
l’accesso agli atti della procedura negoziata.
In conclusione, il ricorso va accolto, con il conseguente
ordine a Anas s.p.a., in persona del leg. rapp.te p.t., di
esibire alla ricorrente i documenti di cui all’istanza del
06/05/2014 entro il termine di 30 giorni, decorrenti dalla
notificazione della presente sentenza ad opera della
ricorrente o dalla sua comunicazione in via amministrativa
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 19.12.2014 n. 1603 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l’ordinanza di demolizione che non
risulta preceduta dall’avviso di avvio del procedimento,
previsto dall’art. 7 della legge 241 del 1990, senza che
vengano esplicitate eventuali ragioni di urgenza.
Infatti, l'art. 7, della legge n. 241 del 1990, per i
procedimenti non a istanza di parte, e l'art. 10-bis, stessa
legge per i procedimenti a istanza di parte, sono due punti
particolari di codificazione dei principi di correttezza e
buon andamento che impongono all'amministrazione di creare
il contraddittorio con i destinatari degli effetti dei
provvedimenti sia al fine di consentire il diritto di difesa
sia per acquisire ogni utile elemento in modo da ridurre il
rischio di motivazioni inadeguate.
Invero, l'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento amministrativo ai soggetti nei confronti dei
quali il provvedimento finale è destinato a produrre
effetti, previsto dall'art. 7, della legge 07.08.1990 n. 241
allo scopo di realizzare un vero e proprio contraddittorio
all'interno del procedimento amministrativo, ha valenza di
carattere generale; pertanto esso si applica a tutti i
procedimenti amministrativi, salve le eccezioni previste
dalla legge.
La necessità di comunicazione dell'avvio del procedimento ai
destinatari dell'atto finale è stata prevista in generale
dall'art. 7, della legge n. 241 del 1990 non soltanto per i
procedimenti complessi che si articolano in più fasi
(preparatoria, costitutiva ed integrativa dell'efficacia),
ma anche per i procedimenti semplici che si esauriscono
direttamente con l'adozione dell'atto finale, i quali
comunque comportano una fase istruttoria da parte della
stessa autorità emanante.
La portata generale del principio è confermata dal fatto che
il legislatore stesso (art. 7, comma 1, ed art. 13, della
legge n. 241 del 1990) si è premurato di apportare delle
specifiche deroghe (speciali esigenze di celerità, atti
normativi, atti generali, atti di pianificazione e di
programmazione, procedimenti tributari) all'obbligo di
comunicare l'avvio del procedimento, con la conseguenza che
negli altri casi deve in linea di massima garantirsi tale
comunicazione, salvo che non venga accertata in giudizio la
sua superfluità in quanto il provvedimento adottato non
avrebbe potuto essere diverso, anche se fosse stata
osservata la relativa formalità.
... per l'annullamento, previa sospensione dell’esecuzione,
dell’ordinanza di demolizione n. 8/2014 Prot. N. 3260
dell’08.07.2014 firma del Sindaco Responsabile dell’Area
Tecnica, con la quale è stata accertata l'avvenuta
esecuzione di opere in assenza delle prescritte
autorizzazioni, consistenti nella realizzazione di una tenda
scorrevole elettrica e pavimentazione in c.a. addossata al
fabbricato esistente sito in via Case Sparse Borgobello n. 1
ad uso agriturismo denominato "I Benandanti" di
proprietà della ricorrente;
...
Oggetto del presente ricorso è l'ordinanza di demolizione
datata 08.07.2014 del Sindaco che ha ordinato alla
ricorrente di sospendere i lavori di una copertura
antistante l’agriturismo di proprietà.
Va da subito evidenziato come il ricorso risulti fondato.
Innanzitutto manca l'avviso di avvio del procedimento,
necessario ai sensi della legge 241 del 1990, salvo le
ipotesi di urgenza non riscontrabili nel caso in esame.
Tale avviso costituisce un vero e proprio obbligo per
l’amministrazione emanante l’atto e consente all’interessato
di far valere nella fase prodromica all’emanazione dell’atto
le sue eventuali ragioni.
Infatti, l'art. 7, della legge n. 241 del 1990, per i
procedimenti non a istanza di parte, e l'art. 10-bis, stessa
legge per i procedimenti a istanza di parte, sono due punti
particolari di codificazione dei principi di correttezza e
buon andamento che impongono all'amministrazione di creare
il contraddittorio con i destinatari degli effetti dei
provvedimenti sia al fine di consentire il diritto di difesa
sia per acquisire ogni utile elemento in modo da ridurre il
rischio di motivazioni inadeguate (TAR Lombardia Brescia,
sez. I, 09.06.2009, n. 1190).
Invero, l'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento amministrativo ai soggetti nei confronti dei
quali il provvedimento finale è destinato a produrre
effetti, previsto dall'art. 7, della legge 07.08.1990 n. 241
allo scopo di realizzare un vero e proprio contraddittorio
all'interno del procedimento amministrativo, ha valenza di
carattere generale; pertanto esso si applica a tutti i
procedimenti amministrativi, salve le eccezioni previste
dalla legge (Consiglio di Stato, sez. V, 16.06.2009, n.
3861).
La necessità di comunicazione dell'avvio del procedimento ai
destinatari dell'atto finale è stata prevista in generale
dall'art. 7, della legge n. 241 del 1990 non soltanto per i
procedimenti complessi che si articolano in più fasi
(preparatoria, costitutiva ed integrativa dell'efficacia),
ma anche per i procedimenti semplici che si esauriscono
direttamente con l'adozione dell'atto finale, i quali
comunque comportano una fase istruttoria da parte della
stessa autorità emanante.
La portata generale del principio è confermata dal fatto che
il legislatore stesso (art. 7 comma 1 ed art. 13, della
legge n. 241 del 1990) si è premurato di apportare delle
specifiche deroghe (speciali esigenze di celerità, atti
normativi, atti generali, atti di pianificazione e di
programmazione, procedimenti tributari) all'obbligo di
comunicare l'avvio del procedimento, con la conseguenza che
negli altri casi deve in linea di massima garantirsi tale
comunicazione, salvo che non venga accertata in giudizio la
sua superfluità in quanto il provvedimento adottato non
avrebbe potuto essere diverso, anche se fosse stata
osservata la relativa formalità (Consiglio di Stato, sez. VI,
23.03.2009, n. 1724).
Invero l’ordinanza gravata non risulta preceduta dall’avviso
di avvio del procedimento, previsto dall’art. 7 della legge
241 del 1990, senza che vengano esplicitate eventuali
ragioni di urgenza.
Inoltre la struttura di cui si ordina la demolizione
risulta, dalla documentazione in atti, del tutto
provvisoria, aperta da tutti i lati, adibita a copertura
stagionale dalla pioggia e dal sole e comunque non in grado
di creare volumetria; sulla base della legge regionale n. 19
del 2009 si tratta di edilizia cosiddetta libera non
soggetta ad alcuna preventiva autorizzazione.
La fondatezza del ricorso comporta l'annullamento del
provvedimento impugnato laddove le spese di giudizio seguono
la soccombenza e sono liquidate in dispositivo (TAR Friuli
Venezia Giulia,
sentenza 19.12.2014 n. 658 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Così come avviene nel processo, infatti, anche in
fase istruttoria del procedimento amministrativo, una volta
che la parte privata abbia dettagliatamente e
documentalmente cercato di provare le proprie ragioni, sta
alla parte pubblica motivare in ordine alle motivazioni
ostative all’accoglimento dell’istanza, confutando le
affermazioni della parte interessata. Ciò è necessario al
fine del rispetto dell’art. 10-bis della l. 241/1990, norma
che altrimenti sarebbe del tutto priva di utilità nel nostro
sistema, e che rappresenta l’esplicitazione del principio
costituzionale di buon andamento e imparzialità
dell’Amministrazione, che pure si assume –a ragione–
violato.
Infatti, come pure puntualmente illustrato da questo Tar, il
principio di buon andamento della p.a. di cui all'art. 97
Cost. assume nel procedimento amministrativo un ruolo
fondamentale e innovativo poiché offre una maggiore
tutelabilità degli interessi del privato; in quanto in
applicazione dello stesso, il mezzo utilizzato dalla p.a.
deve al contempo essere idoneo ed efficace allo scopo
perseguito. Lo stesso è già presente nel nostro ordinamento
come una delle manifestazioni del principio di
ragionevolezza, nel quale confluiscono i principi di
uguaglianza, di imparzialità e buon andamento.
In tale prospettiva, il principio di proporzionalità,
richiamando una valutazione che incide sulla misura
dell'esercizio del potere, impone alla p.a. di valutare
attentamente le esigenze dei soggetti titolari di interessi
coinvolti nell'azione amministrativa, al fine di trovare la
soluzione che comporti il minor sacrificio per gli interessi
stessi.
Ne discende che la motivazione del provvedimento
amministrativo –che è intesa a consentire al cittadino la
ricostruzione del percorso logico e giuridico mediante il
quale l'Amministrazione si è determinata ad adottare un dato
provvedimento, controllando il corretto esercizio del potere
ad esso conferito dalla legge– è insufficiente laddove nel
provvedimento definitivo non sia dia conto delle motivazioni
in risposta alle argomentate osservazioni proposte dal
privato a seguito dell'avviso dato ai sensi dell'art. 10-bis
l. n. 241 del 1990.
Tanto premesso, si osserva che “Così come avviene nel
processo, infatti, anche in fase istruttoria del
procedimento amministrativo, una volta che la parte privata
abbia dettagliatamente e documentalmente cercato di provare
le proprie ragioni, sta alla parte pubblica motivare in
ordine alle motivazioni ostative all’accoglimento
dell’istanza, confutando le affermazioni della parte
interessata. Ciò è necessario al fine del rispetto dell’art.
10-bis della l. 241/1990, norma che altrimenti sarebbe del
tutto priva di utilità nel nostro sistema, e che rappresenta
l’esplicitazione del principio costituzionale di buon
andamento e imparzialità dell’Amministrazione, che pure si
assume –a ragione– violato.
Infatti, come pure puntualmente illustrato da questo Tar
(sez. VII, 06.09.2012 n. 3764), il principio di buon
andamento della p.a. di cui all'art. 97 Cost. assume nel
procedimento amministrativo un ruolo fondamentale e
innovativo poiché offre una maggiore tutelabilità degli
interessi del privato; in quanto in applicazione dello
stesso, il mezzo utilizzato dalla p.a. deve al contempo
essere idoneo ed efficace allo scopo perseguito. Lo stesso è
già presente nel nostro ordinamento come una delle
manifestazioni del principio di ragionevolezza, nel quale
confluiscono i principi di uguaglianza, di imparzialità e
buon andamento.
In tale prospettiva, il principio di proporzionalità,
richiamando una valutazione che incide sulla misura
dell'esercizio del potere, impone alla p.a. di valutare
attentamente le esigenze dei soggetti titolari di interessi
coinvolti nell'azione amministrativa, al fine di trovare la
soluzione che comporti il minor sacrificio per gli interessi
stessi.
Ne discende che la motivazione del provvedimento
amministrativo –che è intesa a consentire al cittadino la
ricostruzione del percorso logico e giuridico mediante il
quale l'Amministrazione si è determinata ad adottare un dato
provvedimento, controllando il corretto esercizio del potere
ad esso conferito dalla legge– è insufficiente laddove nel
provvedimento definitivo non sia dia conto delle motivazioni
in risposta alle argomentate osservazioni proposte dal
privato a seguito dell'avviso dato ai sensi dell'art. 10-bis
l. n. 241 del 1990” (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. 4,
sent. 12/06/2014 n. 3249) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 18.12.2014 n. 1598 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la prevalente e condivisibile
giurisprudenza, gli atti di repressione degli abusi edilizi
hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo
dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario.
Passando al merito del ricorso, va respinto il primo motivo
di censura, con cui si lamenta la mancata comunicazione di
avvio del procedimento, in quanto -secondo la prevalente e
condivisibile giurisprudenza- gli atti di repressione degli
abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata
(essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta
trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai
fini della loro adozione, non sono richiesti apporti
partecipativi del soggetto destinatario (TAR Puglia, sez.
III, 17/12/2013 sent. n. 1689, nonché ex multis TAR
Lazio, sez. I-quater, 09/09/2014 sent. n. 9525, TAR Molise,
07.02.2013, n. 85; TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
06/02/2013, n. 737, TAR Napoli Sez. 2, 16/10/2013 n. 4642)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 18.12.2014 n. 1590 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La demolizione deve ritenersi atto dovuto
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata
irregolarità dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse
pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel
tempo- senza necessità di una specifica comparazione con gli
interessi privati coinvolti o sacrificati.
L'ordinanza di demolizione è, infatti, espressione di potere
autoritativo non soggetto a prescrizione o decadenza, posta
la prevalenza dell'aspettativa della collettività a vedere
rispettate le norme in materia edilizia ed urbanistica,
rispetto all'affidamento del contravventore a vedere
conservata l'opera abusiva.
Deve, inoltre,
osservarsi che la demolizione deve ritenersi atto dovuto
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata
irregolarità dell'intervento, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se
risalente nel tempo- senza necessità di una specifica
comparazione con gli interessi privati coinvolti o
sacrificati. L'ordinanza di demolizione è, infatti,
espressione di potere autoritativo non soggetto a
prescrizione o decadenza, posta la prevalenza
dell'aspettativa della collettività a vedere rispettate le
norme in materia edilizia ed urbanistica, rispetto
all'affidamento del contravventore a vedere conservata
l'opera abusiva (TAR Lazio, sez. I-quater, 09/09/2014 sent.
n. 9525)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 18.12.2014 n. 1590 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Non può dubitarsi che, a seguito della
presentazione della denuncia d’inizio attività, il decorso
del tempo determini il consolidarsi del titolo con
conseguente necessità della sua preventiva rimozione, in
vista dell’assunzione di iniziative sanzionatorie.
Questo principio trova, però, applicazione sul presupposto
della corrispondenza di quanto dichiarato alla situazione di
fatto e di diritto esistente, e con esclusivo riguardo alla
tipologia di intervento che l’istante dichiara di voler
realizzare. Ciò in ragione della ratio stessa dell’istituto
della denuncia d’inizio attività, la quale consente una
semplificazione procedimentale sulla base di una diretta
assunzione di responsabilità da parte del cittadino.
Deve escludersi, pertanto, che la presentazione della
denuncia possa produrre un effetto legittimante alla
realizzazione di opere edilizie laddove essa rechi
dichiarazioni incomplete o addirittura non conformi alla
situazione di fatto e di diritto esistente.
Inoltre, come detto, l’efficacia abilitante non può che
prodursi con riferimento alla qualificazione dell’intervento
dichiarata dallo stesso istante nella propria denuncia e nei
limiti di tale qualificazione, dovendo parimenti negarsi che
dalla d.i.a. possano discendere effetti diversi e ulteriori
rispetto a quanto in essa dichiarato.
Erra, inoltre, parte ricorrente quando lamenta la violazione
dei principi in tema di autotutela, per non avere il Comune
instaurato alcun procedimento di secondo grado: ed invero,
il manufatto per il quale è causa non coincide con quello
oggetto delle d.i.a. (circostanza, si ripete, non smentita
dal ricorrente) per cui non può ritenersi applicabile la
disciplina di cui all’articolo 23 del d.P.R. 380/2001, in
quanto nessun titolo implicito si sarebbe formato rispetto
alle opere in contestazione e nessun affidamento del privato
da “tutelare” viene in evidenza con la conseguenza
che l’amministrazione non era, quindi, tenuta ad agire
preliminarmente in autotutela (in termini, TAR Campania,
sez. VI, 08/05/2014 sent. n. 2525).
Va inoltre osservato, che “non può dubitarsi che, a
seguito della presentazione della denuncia d’inizio
attività, il decorso del tempo determini il consolidarsi del
titolo con conseguente necessità della sua preventiva
rimozione, in vista dell’assunzione di iniziative
sanzionatorie. Questo principio trova, però, applicazione
sul presupposto della corrispondenza di quanto dichiarato
alla situazione di fatto e di diritto esistente, e con
esclusivo riguardo alla tipologia di intervento che
l’istante dichiara di voler realizzare. Ciò in ragione della
ratio stessa dell’istituto della denuncia d’inizio attività,
la quale consente una semplificazione procedimentale sulla
base di una diretta assunzione di responsabilità da parte
del cittadino…. Deve escludersi, pertanto, che la
presentazione della denuncia possa produrre un effetto
legittimante alla realizzazione di opere edilizie laddove
essa rechi dichiarazioni incomplete o addirittura non
conformi alla situazione di fatto e di diritto esistente.
Inoltre, come detto, l’efficacia abilitante non può che
prodursi con riferimento alla qualificazione dell’intervento
dichiarata dallo stesso istante nella propria denuncia e nei
limiti di tale qualificazione, dovendo parimenti negarsi che
dalla d.i.a. possano discendere effetti diversi e ulteriori
rispetto a quanto in essa dichiarato” (Tar Lombardia,
Milano, sez. II, sent. 18/06/2014 n. 1406)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 18.12.2014 n. 1590 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La tesi giurisprudenziale, secondo cui vi è
l’obbligo dell’Amministrazione di motivare circa le ragioni
di pubblico interesse alla demolizione se, per il lungo
lasso di tempo trascorso, si sia formato nel privato
contravventore, a causa dell’inerzia mantenuta dai pubblici
poteri, un affidamento sulla legittimità dell’opera, non è
confortata dalla sussistenza di alcuna espressa previsione
normativa in tale senso.
Al contrario, a siffatta interpretazione sembrano ostare la
natura rigidamente vincolata del potere
sanzionatorio–repressivo degli abusi edilizi, nonché il dato
giuridico per cui la sanzione demolitoria, più che a punire
il responsabile dell’abuso, è volta a ripristinare la
situazione antecedente alla violazione, ponendo un rimedio
ai fenomeni di compromissione del territorio. Ne discende
che il mero decorso del tempo non è sufficiente a far
insorgere un affidamento sulla legittimità dell’opera o,
comunque, sul consolidamento dell’interesse del privato alla
sua conservazione, né, per conseguenza, ad imporre la
necessità di una specifica motivazione in ordine
all’esistenza di un interesse pubblico prevalente.
Infatti, l’unico interesse, la cui tutela è rimessa dal
legislatore alla sanzione demolitoria, è l’interesse al
ripristino dell’assetto del territorio preesistente
all’abuso, tipizzato come prevalente dallo stesso
legislatore. In definitiva, il potere di irrogare delle
sanzioni in materia edilizia ed urbanistica può essere
esercitato in ogni tempo, posto che la legge non lo
sottopone a termini di prescrizione, né di decadenza, e che
riguarda una situazione di illiceità permanente, ossia una
situazione di fatto attualmente contra ius.
Esso, inoltre, non necessita di specifica motivazione in
relazione alla sussistenza dell’interesse pubblico ad
irrogare la sanzione, neppure quando l’abuso sia stato
commesso parecchi anni prima, non essendo configurabile
nessun legittimo affidamento del contravventore a vedere
conservata una situazione di fatto che, in disparte
l’idoneità o meno del tempo a consolidarla, rimane contra
ius.
Quanto, infine, alla
doglianza relativa al lasso temporale intercorso tra la
presentazione della d.i.a. e l’impugnata ordinanza, va
osservato che “La tesi giurisprudenziale, secondo cui vi
è l’obbligo dell’Amministrazione di motivare circa le
ragioni di pubblico interesse alla demolizione se, per il
lungo lasso di tempo trascorso, si sia formato nel privato
contravventore, a causa dell’inerzia mantenuta dai pubblici
poteri, un affidamento sulla legittimità dell’opera, non è
confortata dalla sussistenza di alcuna espressa previsione
normativa in tale senso.
Al contrario, a siffatta interpretazione sembrano ostare la
natura rigidamente vincolata del potere
sanzionatorio–repressivo degli abusi edilizi, nonché il dato
giuridico per cui la sanzione demolitoria, più che a punire
il responsabile dell’abuso, è volta a ripristinare la
situazione antecedente alla violazione, ponendo un rimedio
ai fenomeni di compromissione del territorio. Ne discende
che il mero decorso del tempo non è sufficiente a far
insorgere un affidamento sulla legittimità dell’opera o,
comunque, sul consolidamento dell’interesse del privato alla
sua conservazione, né, per conseguenza, ad imporre la
necessità di una specifica motivazione in ordine
all’esistenza di un interesse pubblico prevalente.
Infatti, l’unico interesse, la cui tutela è rimessa dal
legislatore alla sanzione demolitoria, è l’interesse al
ripristino dell’assetto del territorio preesistente
all’abuso, tipizzato come prevalente dallo stesso
legislatore. In definitiva, il potere di irrogare delle
sanzioni in materia edilizia ed urbanistica può essere
esercitato in ogni tempo, posto che la legge non lo
sottopone a termini di prescrizione, né di decadenza, e che
riguarda una situazione di illiceità permanente, ossia una
situazione di fatto attualmente contra ius.
Esso, inoltre, non necessita di specifica motivazione in
relazione alla sussistenza dell’interesse pubblico ad
irrogare la sanzione, neppure quando l’abuso sia stato
commesso parecchi anni prima, non essendo configurabile
nessun legittimo affidamento del contravventore a vedere
conservata una situazione di fatto che, in disparte
l’idoneità o meno del tempo a consolidarla, rimane contra
ius” (così TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 08.11.2007,
sentenza n. 6200, nonché ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 24/07/2013 sent. n. 3810, Cons. Stato,
sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79;
sez. IV, 04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI,
06.09.2010, n. 17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez.
VIII, 05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631;
TAR Piemonte, Torino, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR
Lazio, Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria,
Genova, sez. I, 21.03.2011, n. 432)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 18.12.2014 n. 1590 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il proprietario di un fondo urbanisticamente
unitario, fatti salvi i limiti in materia di distanze dai
confini e altezze massime degli edifici, può localizzare
l’intervento edilizio ove ritiene più opportuno poiché il
carico urbanistico rappresentato dalla volumetria
realizzabile su un determinato fondo nel rispetto degli
indici di piano, non altera la densità territoriale della
zona, o comparto, ovunque sia collocata l’opera all’interno
del fondo considerato.
Lo stesso principio trova applicazione nel caso di
asservimento o accorpamento della capacità edificatoria di
un fondo a favore di un altro che ne assorbe la volumetria,
accrescendo così la propria potenzialità edilizia; quindi,
ai fini della verifica del rapporto fra superficie fondiaria
e volumetria realizzata (indice di fabbricabilità
fondiaria), si dovrà tener conto anche della superficie del
fondo asservito che avrà, per questo, esaurito al sua
potenzialità edificatoria.
Vale pertanto anche per l'asservimento il principio della
libera allocazione dei volumi poiché la materiale
collocazione dei fabbricati, se avviene nel rispetto
dell’indice di fabbricabilità fondiaria quale rapporto fra
la cubatura realizzata e la superficie impiegata, non incide
per definizione sulla densità edilizia territoriale che
esprime la sommatoria dei volumi attribuiti ai lotti
edificabili di una zona o comparto comprensiva degli spazi
pubblici e di servizio comuni.
Da quanto detto si ricava che l'accorpamento o asservimento
di un’area, per lo sfruttamento della volumetria che essa
esprime sul suolo di un’altra con aumento della capacità
edificatoria propria di quest’ultima, trova un limite
insuperabile nell'omogeneità dell'area da asservire rispetto
a quella destinata all'edificazione, onde prevenire
l'elusione dei limiti di densità territoriale posti dallo
strumento urbanistico.
---------------
E' ius receptum che un’aerea non è idonea ad esprimere una
cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo
strumento urbanistico, di modo che qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo o condonata,
impegna la superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
E ancora, un'area edificatoria, già utilizzata a fini
edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione, solo
quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente, al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa.
Ciò detto, occorre preliminarmente richiamare il principio
secondo il quale il proprietario di un fondo
urbanisticamente unitario, fatti salvi i limiti in materia
di distanze dai confini e altezze massime degli edifici, può
localizzare l’intervento edilizio ove ritiene più opportuno
poiché il carico urbanistico rappresentato dalla volumetria
realizzabile su un determinato fondo nel rispetto degli
indici di piano, non altera la densità territoriale della
zona, o comparto, ovunque sia collocata l’opera all’interno
del fondo considerato.
Lo stesso principio trova applicazione nel caso di
asservimento o accorpamento della capacità edificatoria di
un fondo a favore di un altro che ne assorbe la volumetria,
accrescendo così la propria potenzialità edilizia; quindi,
ai fini della verifica del rapporto fra superficie fondiaria
e volumetria realizzata (indice di fabbricabilità
fondiaria), si dovrà tener conto anche della superficie del
fondo asservito che avrà, per questo, esaurito al sua
potenzialità edificatoria.
Vale pertanto anche per l'asservimento il principio della
libera allocazione dei volumi poiché la materiale
collocazione dei fabbricati, se avviene nel rispetto
dell’indice di fabbricabilità fondiaria quale rapporto fra
la cubatura realizzata e la superficie impiegata, non incide
per definizione sulla densità edilizia territoriale che
esprime la sommatoria dei volumi attribuiti ai lotti
edificabili di una zona o comparto comprensiva degli spazi
pubblici e di servizio comuni.
Da quanto detto si ricava, come stabilito da costante
giurisprudenza (Consiglio di Stato sez. IV, 04.05.1979, n.
302, sez. V, 03.03.2003, n. 1172; 10.06.2005, n. 3052;
22.10.2007, n. 5496; sez. IV, 30.09.2008, n. 4708), che
l'accorpamento o asservimento di un’area, per lo
sfruttamento della volumetria che essa esprime sul suolo di
un’altra con aumento della capacità edificatoria propria di
quest’ultima, trova un limite insuperabile nell'omogeneità
dell'area da asservire rispetto a quella destinata
all'edificazione, onde prevenire l'elusione dei limiti di
densità territoriale posti dallo strumento urbanistico.
---------------
Nondimeno è ius
receptum che un’aerea non è idonea ad esprimere una
cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo
strumento urbanistico, di modo che qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo o condonata,
impegna la superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata (TAR Lombardia Brescia, sez. I,
25/11/2011, n. 1629).
E ancora, un'area edificatoria, già utilizzata a fini
edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione, solo
quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente, al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa (Consiglio di
Stato, sez. V, 28/05/2012, n. 3120)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 18.12.2014 n. 1588 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In ordine alla sussistenza dell’obbligo da parte
dell’amministrazione di provvedere a fronte di una domanda
di autotutela avanzata dal privato, la giurisprudenza è
consolidata nel ritenere che nessun obbligo di provvedere
sussista in capo all’ente in relazione all’esercizio del
potere di riesame.
Infatti, in tali ipotesi l’obbligo di provvedere si porrebbe
in contrasto, sia con il principio generale di certezza
delle situazioni giuridiche a cui si collega
l’inoppugnabilità del provvedimento oltre il termine
decadenziale previsto dalla legge, sia con la previsione
normativa di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990
che rimette alla P.A. la scelta discrezionale di utilizzare
o meno il potere di autotutela.
Detto in altri termini, “i provvedimenti di autotutela sono
manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente
discrezionale che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di
attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la
sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la
rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è
titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una
situazione già definita con provvedimento inoppugnabile;
pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i
mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli garantisce, o
per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine
previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un
provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo
sollecitare l’esercizio del potere da parte
dell’Amministrazione, quest’ultima, a fronte della domanda
di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere”.
Conseguentemente “non sussiste la possibilità di fare
ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di
provocare il ricorso dell’Amministrazione all’autotutela;
tale divieto trova il proprio fondamento nell’esigenza di
evitare il superamento della regola della necessaria
impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di
decadenza. Siffatto escamotage presuppone, in definitiva,
una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento
non impugnato, e l’intrapresa della procedura del
silenzio-rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un
secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non
tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta
all’Amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una
mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa
sorgere in capo all’Amministrazione stessa alcun obbligo di
provvedere”.
La E.I.T. srl ha agito in giudizio chiedendo in via
principale l'accertamento dell'obbligo del Comune di Fasano
di rispondere sulla sua istanza di annullamento in
autotutela della concessione demaniale n. 11 del 14.08.2013
rilasciata in favore di G.G.; in via subordinata la
ricorrente ha impugnato la nota 20.08.2014 del Comune di
Fasano, laddove interpretata dal collegio come atto a
contenuto provvedimentale conclusivo del procedimento di
autotutela, nonché in ogni caso la concessione demaniale n.
11 del 2013 rilasciata in favore di Giovanni Gallo.
Il Comune di Fasano si è costituito in giudizio eccependo
preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per silenzio
non esistendo nessun obbligo in capo all’amministrazione di
procedere di fronte ad un’istanza di annullamento in
autotutela di un proprio precedente atto, trattandosi di
decisione ampiamente discrezionale, esercitabile d’ufficio e
non coercibile dall’esterno; nel merito l’ente locale ha
contestato in ogni caso la fondatezza del ricorso, anche per
quanto attiene alle censure svolte avverso la concessione
demaniale 11 del 2013 rilasciata in favore di G.G..
All’esito del giudizio, sull’istanza svolta dalla ricorrente
in via principale (accertamento dell’obbligo del Comune di
provvedere in autotutela), va dichiarata l’inammissibilità
del ricorso.
Invero, in ordine alla sussistenza dell’obbligo da parte
dell’amministrazione di provvedere a fronte di una domanda
di autotutela avanzata dal privato, la giurisprudenza è
consolidata nel ritenere che nessun obbligo di provvedere
sussista in capo all’ente in relazione all’esercizio del
potere di riesame.
Infatti, in tali ipotesi l’obbligo di provvedere si porrebbe
in contrasto, sia con il principio generale di certezza
delle situazioni giuridiche a cui si collega
l’inoppugnabilità del provvedimento oltre il termine
decadenziale previsto dalla legge, sia con la previsione
normativa di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990
che rimette alla P.A. la scelta discrezionale di utilizzare
o meno il potere di autotutela (Consiglio di Stato, sez. V,
sentenza 03.10.2012 n. 5199).
Detto in altri termini, “i provvedimenti di autotutela
sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente
discrezionale che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di
attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la
sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la
rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è
titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una
situazione già definita con provvedimento inoppugnabile;
pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i
mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli garantisce, o
per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine
previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un
provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo
sollecitare l’esercizio del potere da parte
dell’Amministrazione, quest’ultima, a fronte della domanda
di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere”.
Conseguentemente “non sussiste la possibilità di fare
ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di
provocare il ricorso dell’Amministrazione all’autotutela;
tale divieto trova il proprio fondamento nell’esigenza di
evitare il superamento della regola della necessaria
impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di
decadenza. Siffatto escamotage presuppone, in definitiva,
una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento
non impugnato, e l’intrapresa della procedura del
silenzio-rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un
secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non
tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta
all’Amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una
mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa
sorgere in capo all’Amministrazione stessa alcun obbligo di
provvedere” (Consiglio di Stato, n. 2549 del 2012).
Pertanto, sulla base di tali principi, il ricorso per
silenzio va dichiarato inammissibile (TAR Puglia-Lecce, Sez.
I,
sentenza 17.12.2014 n. 3112 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche i chiarimenti della
stazione appaltante sono ammissibili se contribuiscono, con
un’operazione di interpretazione del testo, a renderne
chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio di una
disposizione del bando, ma non quando, proprio mediante
l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire alla
disposizione un significato ed una portata diversa e
maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso
violandosi il rigoroso principio formale della “lex
specialis”, posto a garanzia dei principi di cui all’art. 97
cost..
Ora, a prescindere
dal fatto che l’impiego dell’espressione “di norma” sembra
di per sé avvalorare la tesi dell’appellante del valore
soltanto orientativo del chiarimento, va anzitutto
rammentato che in tema di gare d’appalto le uniche fonti
della procedura di gara sono costituite dal bando di gara,
dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali
allegati.
Nessuna interferenza può essere ascritta alle informazioni
rilasciate dall'Amministrazione in sede di richiesta di
chiarimenti.
I chiarimenti auto interpretativi della stazione appaltante
non possono né modificare il bando, né integrarlo, né
rappresentarne un’inammissibile interpretazione autentica
poiché il bando, in quanto “lex specialis”
predeterminata, dev’essere interpretato e applicato per
quello che oggettivamente prescrive, senza che possano
acquisire rilevanza preclusiva atti interpretativi postumi
della stazione appaltante.
Tornando al caso di specie appare dunque improprio
attribuire alla “lex specialis”, come pretenderebbe
di fare ASLA, un significato e una portata diversi da quelli
che risultano dal testo letterale della stessa.
Del resto, “nelle gare pubbliche i chiarimenti della
stazione appaltante sono ammissibili se contribuiscono, con
un'operazione di interpretazione del testo, a renderne
chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio di una
disposizione del bando, ma non quando, proprio mediante
l'attività interpretativa, si giunga ad attribuire alla
disposizione un significato ed una portata diversa e
maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso
violandosi il rigoroso principio formale della "lex
specialis", posto a garanzia dei principi di cui all'art. 97
cost.“ (Cons. St. , V, n. 5570/2012).
Inoltre, se si considera che il chiarimento è stato soltanto
pubblicato sul sito Internet dell’Università e che la “lex
specialis” non imponeva alle concorrenti di consultare
il sito web dell’Ateneo per verificare l’eventuale avvenuta
pubblicazione di chiarimenti vincolanti dati dalla stessa
stazione appaltante, se ne deve dedurre che la risposta n. 8
non poteva assumere valore di vincolo per l’appellante,
l’offerta economica del quale doveva pertanto essere
valutata dalla stazione appaltante in base alle sole
prescrizioni di bando, disciplinare di gara e capitolato
speciale
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.12.2014 n. 6154 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche, ove
l'Amministrazione consideri congrua l'offerta sulla base
delle spiegazioni fornite dal concorrente in sede di
verifica dell'anomalia, la sua valutazione deve ritenersi
sufficientemente motivata con richiamo “per relationem” ai
chiarimenti ricevuti, tanto più che la verifica delle
offerte anomale non ha per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando invece
ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile
e, dunque, se dia o non serio affidamento circa la corretta
esecuzione.
Il giudizio di anomalia dell'offerta richiede una
motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in
senso negativo mentre, in caso positivo, non occorre che la
relativa determinazione sia fondata su un'articolata
motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni
ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una
motivazione espressa “per relationem” alle giustificazioni
rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro
volta, siano state congrue ed adeguate.
Va però specificato, in aggiunta, che l’ammissibilità della
motivazione “per relationem” del giudizio di congruità non
esime la stazione appaltante da un obbligo di valutazione
complessiva di tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria
del sub procedimento. Saranno le giustificazioni fornite
dalla concorrente sottoposta a valutazione ex articoli 86 e
seguenti del codice dei contratti pubblici a fungere da
parametro di riferimento sul quale misurare, “per relationem”,
la legittimità del giudizio finale di congruità.
---------------
Sul versante dell’ampiezza –o della ristrettezza-
dell’ambito della verifica giurisdizionale sul potere
tecnico–discrezionale esercitato dalla stazione appaltante
in sede di valutazione dell’anomalia delle offerte appare
opportuno rammentare che questo Consiglio ha osservato che
“le valutazioni compiute dalla stazione appaltante in sede
di riscontro delle anomalie delle offerte presentate sono
considerate espressione di un ampio potere
tecnico–discrezionale, insindacabile in sede giurisdizionale
salva l’ipotesi in cui esse siano palesemente illogiche,
irrazionali o fondate su una insufficiente motivazione o su
errori di fatto”.
Va premesso in via generale che, in primo luogo, come
rilevato in numerose occasioni da questo Consiglio (v. , “ex
plurimis”, sez. V, nn. 5703, 4785 e 3563 del 2012, 4450
del 2011 e 7266 del 2010), “nelle gare pubbliche, ove
l'Amministrazione consideri congrua l'offerta sulla base
delle spiegazioni fornite dal concorrente in sede di
verifica dell'anomalia, la sua valutazione deve ritenersi
sufficientemente motivata con richiamo “per relationem” ai
chiarimenti ricevuti, tanto più che la verifica delle
offerte anomale non ha per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando invece
ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile
e, dunque, se dia o non serio affidamento circa la corretta
esecuzione” (così, testualmente, Cons. St. , V, n.
4450/2011 cit.).
“Il giudizio di anomalia dell'offerta richiede una
motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in
senso negativo mentre, in caso positivo, non occorre che la
relativa determinazione sia fondata su un'articolata
motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni
ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una
motivazione espressa “per relationem” alle giustificazioni
rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro
volta, siano state congrue ed adeguate” (Cons. St. , V,
n. 4785/2012 cit.).
Va però specificato, in aggiunta, che l’ammissibilità della
motivazione “per relationem” del giudizio di
congruità non esime la stazione appaltante da un obbligo di
valutazione complessiva di tutto ciò che è emerso nella fase
istruttoria del sub procedimento. Saranno le giustificazioni
fornite dalla concorrente sottoposta a valutazione ex
articoli 86 e seguenti del codice dei contratti pubblici a
fungere da parametro di riferimento sul quale misurare, “per
relationem”, la legittimità del giudizio finale di
congruità.
In secondo luogo, sul versante dell’ampiezza –o della
ristrettezza- dell’ambito della verifica giurisdizionale sul
potere tecnico–discrezionale esercitato dalla stazione
appaltante in sede di valutazione dell’anomalia delle
offerte appare opportuno rammentare che questo Consiglio
(v., “ex multis”, sez. III, n. 5781/2013 e V, n.
1925/2011 e n. 741/2010) ha osservato che “le valutazioni
compiute dalla stazione appaltante in sede di riscontro
delle anomalie delle offerte presentate sono considerate
espressione di un ampio potere tecnico–discrezionale,
insindacabile in sede giurisdizionale salva l’ipotesi in cui
esse siano palesemente illogiche, irrazionali o fondate su
una insufficiente motivazione o su errori di fatto”.
Calando i principi su esposti nel caso di specie, per quanto
riguarda l’aspetto strettamente e formalmente motivazionale
della valutazione di congruità compiuta dalla stazione
appaltante, a voler seguire la tesi del Tar, un giudizio
positivo di congruità dell’offerta –che di per sé ha natura
globale e sintetica sulla serietà dell’offerta nel suo
insieme, dal che deriva, nel caso di valutazione positiva di
congruità, la sufficienza –con le specificazioni di cui
sopra- della motivazione “per relationem” alle
giustificazioni date dall’impresa offerente (Cons. St., III,
n. 4322/2011)- esigerebbe un’articolata motivazione
sostanzialmente ripetitiva delle medesime giustificazioni
considerate accettabili e attendibili dalla stazione
appaltante, con un’alquanto dubbia compatibilità con i
princìpi di economicità dell’attività amministrativa sanciti
dalla l. n. 241/1990.
In realtà, è lo stesso art. 88, comma 3, del codice dei
contratti pubblici a imporre che la verifica delle offerte
ritenute anormalmente basse avvenga attraverso l’esame degli
elementi costitutivi dell’offerta tenendo conto delle
precisazioni fornite dalla concorrente (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 15.12.2014 n. 6154 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Onorari, opposizione segnata. Sentenza o
ordinanza: conta la forma scelta dai giudici.
La parcella dell'avvocato al centro di una
decisione della Corte di cassazione.
Per quanto riguarda gli onorari che sono dovuti
all'avvocato, al fine di individuare il regime impugnatorio
del provvedimento di opposizione al decreto ingiuntivo
(sentenza oppure ordinanza), assume rilevanza la forma
adottata dal giudice.
Questo principio hanno sottolineato i giudici della Corte di
Cassazione con la sentenza 12.12.2014 n. 26163 su un
caso in cui un avvocato notificava a un suo cliente decreto
ingiuntivo immediatamente esecutivo con precetto, emesso dal
giudice di pace per un importo a titolo di onorario e
competenze relative all'attività professionale svolta.
Il cliente con atto di citazione si opponeva sostenendo di
aver già provveduto a saldare il conto. Il gdp dichiarava
l'improcedibilità dell'opposizione. Il tribunale dichiarava
inammissibile l'appello del cliente, per avere la sentenza
impugnata natura sostanziale di ordinanza, come tale
inappellabile.
La Cassazione osserva che già le sezioni unite hanno, con
una sentenza del 2011 (n. 390), affermato il principio di
diritto secondo il quale: «In tema di opposizione a
decreto ingiuntivo, per onorari e altre spettanze
professionali dovute dal cliente al proprio difensore, ai
fini dell'individuazione del regime impugnatorio del
provvedimento, sentenza oppure ordinanza legge n. 794 del
1942, ex art. 30, che ha deciso la controversia, assume
rilevanza la forma adottata dal giudice, ove la stessa sia
frutto di una consapevole scelta, che può essere anche
implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in
concreto svolto il relativo procedimento». E inoltre,
anche nel caso in cui il patrono si fosse avvalso del
procedimento di ingiunzione, l'opposizione deve svolgersi,
obbligatoriamente, nelle forme dello speciale procedimento
ex artt. 29 e 30 legge 794/1942.
Il provvedimento conclusivo, a prescindere dalla forma
adottata, ha natura sostanziale di ordinanza soggetta
esclusivamente al ricorso per cassazione ex art. 111 e non
all'appello. Tale principio, però, non può trovare
applicazione quando la controversia non abbia a oggetto solo
la determinazione della misura del compenso, ma si estende
ad altri oggetti di accertamento e decisione (articolo
ItaliaOggi Sette del 12.01.2015). |
APPALTI:
I criteri di individuazione del presidente di commissione di
gara nelle centrali di committenza.
Le centrali di committenza, quali nuove
formule organizzatorie, implicano un disallineamento tra
l'amministrazione alla quale saranno imputati gli effetti
del contratto e quella che gestisce la procedura.
Orbene, in presenza di tali schemi amministrativi, l'esegesi
dell'art. 84, comma 3, del Codice dei contratti pubblici,
dev'essere condotta in ossequio a criteri ermeneutici
teleologici, più che letterali.
Quindi, l'uso di un criterio finalistico impone una diversa
lettura della disposizione, secondo la quale il presidente
della commissione può essere scelto anche (meglio: deve
essere scelto) tra i dirigenti o tra i funzionari della
diversa (rispetto a quella che gestisce la gara)
amministrazione in favore della quale sarà resa la
prestazione contrattuale dovuta dall'impresa selezionata e
nell'interesse della quale la centrale di committenza ha
amministrato la gara.
L’opzione ermeneutica appena preferita si rivela, infatti,
esattamente coerente con la ratio della disposizione di
riferimento, che, là dove impone la nomina, come Presidente
della Commissione giudicatrice, di un dirigente o di un
funzionario della stazione appaltante, intende realizzare
una duplice finalità: il contenimento della spesa pubblica e
la trasparenza nel governo della procedura.
Il legislatore ha, evidentemente, inteso, con l’introduzione
della misura in commento, realizzare, per un verso, un
effetto di risparmio e assicurare, per un altro, una
gestione imparziale della gara.
Orbene, l’esegesi che riconosce il rispetto del precetto in
questione anche nell’ipotesi in cui il Presidente della
Commissione di gara venga scelto tra i dirigenti o tra i
funzionari dell’amministrazione sostanzialmente beneficiaria
degli effetti negoziali del contratto, ancorché formalmente
diversa da quella che gestisce la procedura, risulta
coerente con entrambe le finalità sopra segnalate.
Il Presidente della Commissione così selezionato, infatti,
garantisce sia l’effetto di risparmio (non avendo titolo ad
alcun compenso per quell’attività), sia quello di
trasparenza (in quanto incardinato nell’amministrazione
beneficiaria finale della prestazione dovuta dall’impresa
selezionata e, quindi, si presume, esclusivamente portatore
dell’interesse pubblico alla corretta gestione della
procedura competitiva).
3.- L’appello è fondato, alla stregua delle considerazioni
che seguono, e dev’essere accolto.
3.-1 Prima di scrutinare la questione della sussistenza
della violazione del precetto consacrato all’art. 84, comma
3, d.lgs. cit., appare, tuttavia, utile precisare le
funzioni del CRAS.
Si deve, al riguardo, rilevare che la Giunta Regionale del
Veneto, con delibera n. 2370 del 29.12.2011, ha istituito il
Coordinamento Regionale Acquisti per la Sanità, quale
centrale di committenza regionale ascrivibile alla
fattispecie definita dall’art. 3, comma 34, d.lgs. cit., e
ha stabilito di affidare la gestione economico-finanziaria
di tale organismo all’Azienda Ospedaliera di Padova.
Si tratta, a ben vedere, di una deliberazione che assegna al
predetto organismo il compito di gestire le procedure di
selezione dei contraenti in materia sanitaria,
nell’interesse e per conto delle Aziende sanitarie e
ospedaliere della Regione (come si ricava chiaramente
dall’esame delle univoche premesse della suddetta delibera),
di guisa che gli effetti dei provvedimenti di aggiudicazione
adottati dal CRAS si producono direttamente nella sfera di
attribuzioni di queste ultime (restando del tutto
irrilevante la mancata stipula di una convenzione, siccome
del tutto inutile per la produzione dei predetti effetti,
tra il CRAS e le Aziende del Veneto).
3.2- Così chiariti i compiti del CRAS, occorre procedere a
una corretta e coerente esegesi del paradigma legale di
riferimento (che tenga anche conto della ratio del
relativo precetto), onde verificarne il rispetto (o la
violazione) nella procedura controversa.
La norma, che vincola alla nomina come Presidente della
Commissione di un dirigente o di un funzionario con funzioni
apicali della stazione appaltante, è concepita e formulata
con riferimento a uno schema organizzativo semplice della
gestione della gara e, cioè, a un modello in cui
l’amministrazione appaltante gestisce anche la procedura.
La disposizione, viceversa, per come strutturata, non si
adatta a moduli organizzativi, sempre più diffusi e
avvertiti come ineludibili, nei quali le procedure vengono
centralizzate presso organismi formalmente incardinati
presso amministrazioni diverse da quelle contraenti e, nei
confronti delle quali, operano come centrali di committenza,
secondo il meccanismo rappresentativo descritto all’art. 3,
comma 34, d.lgs. cit..
Si tratta di formule organizzatorie che si stanno imponendo
in tutti i livelli di governo e che assolvono la precipua
funzione di ridurre il rischio di fenomeni corruttivi e di
standardizzare le procedure comuni a una molteplicità di
amministrazioni.
La scelta di tali modelli organizzativi implica un
disallineamento tra l’amministrazione alla quale saranno
imputati gli effetti del contratto e quella che gestisce la
procedura.
Orbene, in presenza di tali schemi amministrativi, l’esegesi
dell’art. 84, comma 3, d.lgs. cit., dev’essere condotta in
ossequio a criteri ermeneutici teleologici, più che
letterali.
L’utilizzo esclusivo di un parametro interpretativo che
valorizzi il significato lessicale delle parole imporrebbe
di leggere la disposizione nel senso che il Presidente della
Commissione dev’essere scelto tra i dirigenti o tra i
funzionari dell’amministrazione che gestisce la procedura,
anziché di quella alla quale vengono sostanzialmente
imputati gli effetti del contratto oggetto della gara.
L’uso di un criterio finalistico, invece, impone la diversa
lettura secondo la quale il Presidente della Commissione può
essere scelto anche (meglio: deve essere scelto) tra i
dirigenti o tra i funzionari della diversa (rispetto a
quella che gestisce la gara) amministrazione in favore della
quale sarà resa la prestazione contrattuale dovuta
dall’impresa selezionata e nell’interesse della quale la
centrale di committenza ha amministrato la gara (come già
ritenuto per la centrale di committenza della Regione Lazio
da Cons. St., sez. III, 28.03.2014, n. 1498).
L’opzione ermeneutica appena preferita si rivela, infatti,
esattamente coerente con la ratio della disposizione
di riferimento, che, là dove impone la nomina, come
Presidente della Commissione giudicatrice, di un dirigente o
di un funzionario della stazione appaltante, intende
realizzare una duplice finalità: il contenimento della spesa
pubblica e la trasparenza nel governo della procedura.
Il legislatore ha, evidentemente, inteso, con l’introduzione
della misura in commento, realizzare, per un verso, un
effetto di risparmio e assicurare, per un altro, una
gestione imparziale della gara.
Orbene, l’esegesi che riconosce il rispetto del precetto in
questione anche nell’ipotesi in cui il Presidente della
Commissione di gara venga scelto tra i dirigenti o tra i
funzionari dell’amministrazione sostanzialmente beneficiaria
degli effetti negoziali del contratto, ancorché formalmente
diversa da quella che gestisce la procedura, risulta
coerente con entrambe le finalità sopra segnalate.
Il Presidente della Commissione così selezionato, infatti,
garantisce sia l’effetto di risparmio (non avendo titolo ad
alcun compenso per quell’attività), sia quello di
trasparenza (in quanto incardinato nell’amministrazione
beneficiaria finale della prestazione dovuta dall’impresa
selezionata e, quindi, si presume, esclusivamente portatore
dell’interesse pubblico alla corretta gestione della
procedura competitiva)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.12.2014 n. 6139 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
I giudizi di merito delle offerte tecniche, in
quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono
sottratti al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogici,
irrazionali, arbitrari o fondati su un altrettanto palese e
manifesto travisamento dei fatti.
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Il giudizio di anomalia costituisce (anch’esso) espressione
di discrezionalità tecnica e, come tale, sindacabile solo in
caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale, con
la conseguenza che al giudice amministrativo, al di fuori di
tali ipotesi, resta precluso formulare un’autonoma verifica
della congruità delle offerte, che si risolverebbe in
un’inammissibile invasione della sfera valutativa riservata
all’Amministrazione.
4.2- Con il secondo
motivo si insiste nel sostenere l’illogicità e l’erroneità
dei punteggi attribuiti dalla Commissione di gara
all’offerta tecnica, sia della Acilia che della Biotronik.
Per disattendere tale censura, è sufficiente richiamare i
principi affermati dall’indirizzo giurisprudenziale univoco
e consolidato (cfr. ex multis Cons. St., sez. V,
26.03.2014, n. 1468) secondo il quale i giudizi di merito
delle offerte tecniche, in quanto espressione di
discrezionalità tecnica, sono sottratti al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano
manifestamente illogici, irrazionali, arbitrari o fondati su
un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti.
Orbene, in coerenza con la regola di giudizio appena
enunciata, deve rilevarsi che, nella fattispecie scrutinata,
non è dato rilevare, ma, a ben vedere, non è stata neanche
dedotta (si veda pag. 26 dell’appello incidentale), la
sussistenza, a carico delle valutazioni contestate, di quei
vizi macroscopici che, soli, ne autorizzano il sindacato di
legittimità nella specie invocato.
4.3- Anche il terzo e ultimo motivo dell’appello
incidentale, con cui si ribadisce l’erroneità del giudizio
di congruità dell’offerta di Biotronik (formulato in esito
alla valutazione della sua anomalia), dev’essere respinto.
Come, infatti, costantemente affermato da un indirizzo
giurisprudenziale dal quale non si ravvisano ragioni per
discostarsi (cfr. ex multis Cons. St., sez. III,
21.10.2014, n. 5196), il giudizio di anomalia costituisce
(anch’esso) espressione di discrezionalità tecnica e, come
tale, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o
di erroneità fattuale, con la conseguenza che al giudice
amministrativo, al di fuori di tali ipotesi, resta precluso
formulare un’autonoma verifica della congruità delle
offerte, che si risolverebbe in un’inammissibile invasione
della sfera valutativa riservata all’Amministrazione.
Orbene, una volta riscontrata l’adeguatezza
dell’istruttoria, la completezza delle giustificazioni
trasmesse da Biotronik e la valutazione della loro congruità
da parte dell’Amministrazione (per mezzo di una motivazione
sufficiente, in quanto correttamente strutturata per
relationem alle giustificazioni fornite), risulta
impedito un sindacato del merito del relativo giudizio, in
mancanza di carenze o di errori (nella specie insussistenti)
che rivelino ictu oculi il carattere non remunerativo
dell’offerta e, quindi, la sua inattendibilità
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.12.2014 n. 6139 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalto
annullato in anticipo. Non aggiudicazione legittima pure
prima della sentenza.
Corte di giustizia UE/ Una decisione scaturita da
un rinvio del Tar Lombardia.
È legittimo non aggiudicare un appalto e annullare la gara
anche prima della sentenza definitiva a carico
dell'aggiudicatario.
È quanto afferma la Corte di giustizia europea con la
sentenza 11.12.2014 causa C-440/13,
su rinvio pregiudiziale del Tar Lombardia.
Nel caso esaminato l'Amministrazione, oltre ad avere
ritenuto anomala l'offerta, si era disposta a non
aggiudicare dal momento che nei confronti
dell'aggiudicatario erano state avviate indagini penali
preliminari nei confronti del legale rappresentante della
ditta aggiudicataria per reati di truffa e di falsità
ideologica. La mancata aggiudicazione veniva quindi motivata
con evidenti ragioni di opportunità e motivi legati ai
principi di buona amministrazione.
L'aggiudicatario (poi rinviato a giudizio per turbata
libertà degli incanti) impugnava l'atto di annullamento
della gara e chiedeva i danni. Il Tar Lombardia procedeva
invece al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per
sapere se fosse legittimo il provvedimento di annullamento
della gara in assenza di una sentenza definitiva, passata in
giudicato
La Corte europea chiarisce che le cause di esclusione
previste all'articolo 45, paragrafo 2, lettere d) e g) della
direttiva 2004/18 conferiscono alle amministrazioni
aggiudicatrici il potere di escludere chi nell'esercizio
della propria attività professionale abbia commesso un
errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova
dall'amministrazione aggiudicatrice, o che si sia reso
gravemente colpevole di false dichiarazioni nel fornire le
informazioni che possono essere richieste ai fini della
selezione qualitativa delle offerte, oppure che non abbia
fornito dette informazioni, senza che sia necessario
attendere una sentenza di condanna passata in giudicato.
Pertanto in base al diritto comunitario è legittima la
decisione di revoca per ragioni correlate alla valutazione
dell'opportunità, dal punto di vista dell'interesse
pubblico, di condurre a termine una procedura di
aggiudicazione, tenuto conto, fra l'altro, dell'eventuale
modifica del contesto economico o delle circostanze di fatto
o, ancora, delle esigenze dell'amministrazione
aggiudicatrice interessata (articolo ItaliaOggi Sette del
05.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Antenne
tv, il comune non può negare sanatorie.
L'antenna resta dov'è: il comune non può negare all'impianto
la sanatoria motivando il rigetto con questioni
squisitamente privatistiche e non per violazioni di norme
urbanistiche o ambientali.
È quanto emerge dalla
sentenza 10.12.2014 n. 3050, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Annullato il provvedimento dell'amministrazione che dice no
al titolo abilitativo. Il punto è che manca la prova che il
trasmettitore della radio installato sul tetto dell'edificio
impedisca agli altri condomini di utilizzare il lastrico
solare o di installarvi a loro volta impianti.
Il giudice amministrativo ricorda le regole del codice
civile: né l'assemblea dei condomini né il regolamento da
questa approvato possono vietare l'installazione di singole
antenne ricetrasmittenti, in quanto in tale modo non sono
disciplinate le modalità di uso della cosa comune, ma viene
a essere menomato il diritto di ciascun condomino all'uso
del tetto di copertura, incidendo sul diritto di proprietà
comune.
In particolare bisogna tenere presente la disposizione ex
articolo 1102 Cc: ciascun partecipante può servirsi della
cosa comune, a patto che non ne alteri la destinazione e non
impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso
secondo il loro diritto.
Nella specie manca la dimostrazione che l'impianto della
discordia pregiudichi l'uso e il godimento del lastrico
solare da parte degli altri condomini o impedisca loro di
installare antenne o impianti simili. Spese compensate per
la novità della questione (articolo ItaliaOggi del
10.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Paesaggio,
meno limiti sul solare.
Falla normativa per il Tar Piemonte.
Non è sempre necessario il parere positivo della
soprintendenza per installare il fotovoltaico su tetto in
aree sottoposte a vincolo paesaggistico. Al contrario è
necessaria per il solare termico in aree vincolate. Per
installare il fotovoltaico su tetto in aree sottoposte a
vincolo paesaggistico l'autorizzazione della soprintendenza
è necessaria solo in alcuni casi, come negli immobili di
pregio o nei centri storici. Ma soprattutto: la normativa è
talmente contorta e stratificata che la volontà del
legislatore risulta di difficile interpretazione. Urge un
intervento chiarificatore.
Questo è quanto si legge nella
sentenza 10.12.2014 n. 1946 del TAR Piemonte,
Sez. I..
Oggetto del ricorso è l'installazione di un impianto
fotovoltaico aderente al tetto in area sottoposta a vincolo.
Il ricorrente chiedeva l'annullamento dell'atto con cui il
comune comunicava la sussistenza del vincolo paesaggistico.
Alla luce di ciò i lavori potevano iniziare solo dopo
l'acquisizione del parere della soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici.
I giudici del Tar Piemonte accolgono il ricorso del
ricorrente sostenendo che «pur non essendo condivisibile in
toto l'assunto della difesa di parte ricorrente, secondo
cui, in materia, deve trovare sempre applicazione la
procedura semplificata di comunicazione preventiva al
comune, senza necessità alcuna di tutela dei vincoli
ambientali e paesaggistici, neppure lo è la tesi della
difesa erariale secondo cui, in presenza di qualsivoglia
vincolo ex dlgs n. 42/2004, risulta sempre imprescindibile
il parere della sovrintendenza.
Per il fotovoltaico, si legge nella sentenza, anche se si è
in area vincolata (come le aree del piano paesistico, le
fasce di rispetto di 150 metri dai corsi d'acqua o le aree
sottoposte a vincolo ambientale generalizzato) non serve il
parere della soprintendenza, a meno che non si tratti delle
«ville, i giardini e i parchi che si distinguono per la
loro non comune bellezza» e «i complessi di cose
immobili che compongono un caratteristico aspetto avente
valore estetico e tradizionale, inclusi i centri e i nuclei
storici» (articolo
ItaliaOggi del 09.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
violate, demolizione anche se si è in buona fede. Balconi.
Tutti i condòmini sono legittimati ad agire.
I balconi troppo vicini non evitano la demolizione, anche
se nel frattempo l’orientamento delle sentenze sul calcolo
delle distanze è cambiato.
Nella
sentenza 02.12.2014 n. 25501 la II Sez. civile
della Corte di Cassazione ha deciso sulla causa nata dalla
domanda dei proprietari di un immobile, i quali avevano
chiesto la demolizione di alcuni manufatti presenti in un
edificio confinante, denunciando la violazione delle
distanze legali tra costruzioni.
Questa domanda era stata proposta sia nei confronti della
società costruttrice del fabbricato, sia nei confronti di
coloro che si erano poi resi acquirenti dei singoli
appartamenti del costituito condominio. Il tribunale di
Sassari e la Corte d’appello di Cagliari avevano dato
ragione a chi aveva promosso la causa, condannando ad
arretrare, fino al rispetto della distanza dal confine
stabilita dal vigente Piano regolatore comunale, l’ingresso
del vano scala condominiale, i balconi e le canne fumarie.
Fra i diversi motivi del ricorso per cassazione, rigettato
dalla Suprema Corte, il compratore di uno degli appartamenti
oggetto della parziale demolizione aveva opposto il proprio
legittimo affidamento e la propria buona fede, stante la
regolarità urbanistica dell’edificio, dotato di regolare
concessione edilizia, e tenuto conto che al momento
dell’acquisto la giurisprudenza non considerava i balconi
aperti ai fini del computo delle distanze.
Ma è ormai pacifico che, mentre non vanno calcolate come
riferimento per le distanze le sporgenze esterne del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale,
costituiscono invece «corpo di fabbrica» i balconi, anche se
scoperti, che siano di apprezzabile profondità e ampiezza.
Il fatto che decenni orsono questa conclusione fosse
controversa nelle aule dei tribunali non vale a fondare oggi
l’affidamento incolpevole di chi avesse comprato all’epoca
un immobile provvisto di balconi troppo vicini alla
proprietà confinante: come spiega ora la Cassazione,
infatti, perché si possa pretendere che un mutamento
interpretativo non sia retroattivo (ovvero, perché si
instauri la cosiddetta tutela da “prospective overruling”),
si deve essere in presenza di un imprevedibile ribaltamento
della giurisprudenza su di una regola del processo, e non su
norme di carattere sostanziale, quali quelle attinenti ai
limiti della proprietà.
È invece altrettanto evidente che, qualora l’immobile
venduto risulti costruito in violazione delle distanze
legali, in favore del compratore opera verso il venditore la
garanzia per evizione, ai sensi degli articoli 1483 e 1484
del Codice civile, o la garanzia prevista dall’articolo
1489.
Quanto ai rapporti tra edifici condominiali e proprietà
confinanti, si consideri come la domanda di arretramento di
un fabbricato in condominio per violazione delle distanze
legali deve essere proposta necessariamente nei confronti di
tutti i condòmini, e non invece nei confronti
dell’amministratore del condominio.
Così come tutti i condòmini, e non soltanto quelli che siano
proprietari degli appartamenti direttamente prospettanti
verso le costruzioni limitrofe che violano le distanze
legali, sono legittimati ad agire per far valere il rispetto
delle relative disposizioni.
Le norme sulle distanze sono poi applicabili anche nei
rapporti tra i condòmini di uno stesso edificio
condominiale, purché compatibili, però, con la disciplina
particolare relativa alle cose comuni, cioè quando
l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le
prime.
Pertanto, se il giudice accerti che non sia alterata la
destinazione delle parti condominiali e non sia impedito il
pari uso agli altri partecipanti, riterrà legittima l’opera
realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per
regolare i rapporti tra le proprietà contigue. Né possono
operare le norme del Codice civile in tema di distanze,
nell’ipotesi dell’installazione di impianti indispensabili
ai fini di una reale abitabilità delle singole unità
immobiliari (articolo
Il Sole 24 Ore del 06.01.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lo
sportello unico (SUAP) realizza il principio della
semplificazione amministrativa in relazione allo svolgimento
delle attività di impresa inserendo in un unico centro
organizzativo tutte le vicende riguardanti l’attività
produttiva.
Tuttavia, dalle competenze dello sportello unico esula tutto
ciò che attiene, tra l’altro, alla regolarità edilizia dei
beni strumentali all’attività di impresa.
1.– Il Comune di Pescasseroli, con ordinanza del 27.12.2011,
n. 7350, ha accertato la realizzazione da parte del sig.
F.D.P. di taluni interventi edilizi, nell’ambito del «Camping
Sant’Andrea», privi di titolo autorizzativo,
disponendone la demolizione. In particolare, è stata
rilevata la costruzione abusiva di: a) «centoquarantaquattro
manufatti provvisti di rete idrica, fognante, elettrica e
gas, collegati tra loro da dieci strade carrabili e pedonali»;
b)
«un’area
adibita ad area giochi ed area camper (…)»;
c) «un
ponticello in acciaio». Nell’ordinanza vengono elencati
(numeri 1-144) i suddetti manufatti con indicazione della
destinazione e delle dimensioni.
...
4.– Con il primo motivo l’appellante deduce l’erroneità
della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto la
legittimità di tutti i manufatti in ragione del fatto che
gli stessi erano stati indicati nella procedura avviata con
la segnalazione certificata di inizio attività presentata,
in data 03.07.2011, presso lo Sportello unico delle attività
produttive (SUAP) del patto territoriale e conclusasi
positivamente nel dicembre 2011. In particolare, si afferma
che, in tale sede, l’amministrazione avrebbe positivamente
valutato anche gli aspetti di rilevanza edilizia.
Il motivo non è fondato.
In ambito statale l’art. 38, la cui rubrica reca «impresa
in un giorno», del decreto-legge 25.06.2008 n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della
finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito,
con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 13, dispone,
per quanto interessa in questa sede, che con regolamento
statale di delegificazione si dia attuazione al principio
secondo cui «lo sportello unico costituisce l’unico punto
di accesso per il richiedente in relazione a tutte le
vicende amministrative riguardanti la sua attività
produttiva e fornisce, altresì, una risposta unica e
tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni
comunque coinvolte nel procedimento».
In attuazione del suddetto decreto-legge è stato adottato il
decreto del Presidente della Repubblica 07.09.2010, n. 160
(Regolamento per la semplificazione ed il riordino della
disciplina sullo sportello unico per le attività produttive,
ai sensi dell'articolo 38, comma 3, del decreto-legge
25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla
legge 06.08.2008, n. 13), il quale ha disposto, tra l’altro,
che il SUAP sia l’«unico soggetto pubblico di riferimento
territoriale per tutti i procedimenti che abbiano ad oggetto
l'esercizio di attività produttive e di prestazione di
servizi, e quelli relativi alle azioni di localizzazione,
realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o
riconversione, ampliamento o trasferimento, nonché
cessazione o riattivazione delle suddette attività».
Tale decreto prevede un procedimento automatizzato per le
attività sottoposte a segnalazione certificata di inizio
attività (SCIA) e un procedimento ordinario per le altre
attività (artt. 5-8).
In ambito regionale la legge della Regione Abruzzo
23.10.2003, n. 16 (Disciplina delle strutture ricettive
all'aria aperta) prevede che:
a) l’apertura, il trasferimento e le modifiche concernenti
l’operatività delle strutture turistico ricettive all’aria
aperta sono soggetti a SCIA (comma 1);
b) la SCIA è corredata dalle autocertificazioni e
dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà comprovanti
il possesso dei requisiti di legge, nonché dalle
attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati,
unitamente agli elaborati tecnici necessari, «fermo
restando il rispetto delle norme sulla sicurezza dei luoghi
di lavoro, urbanistiche, edilizie, ambientali,
paesaggistiche, culturali, di pubblica sicurezza, igienico
sanitarie, sulla prevenzione incendi e sull’accessibilità».
Dall’analisi complessiva della normativa statale e regionale
sopra riporta emerge chiaramente come lo sportello unico
realizzi il principio della semplificazione amministrativa
in relazione allo svolgimento delle attività di impresa
inserendo in un unico centro organizzativo tutte le vicende
riguardanti l’attività produttiva. Dalle competenze dello
sportello unico esula tutto ciò che attiene, tra l’altro,
alla regolarità edilizia dei beni strumentali all’attività
di impresa (in questo senso, sia pure con riferimento ad una
diversa normativa regionale, si veda Corte costituzionale,
sentenza 28.10.2013, n. 251).
Ne consegue che, nella fattispecie in esame, non è possibile
desumere la legittimità degli interventi realizzati soltanto
perché gli stessi erano indicati in una segnalazione
certificata di inizio attività avente ad oggetto, per
espressa disposizione di legge, esclusivamente profili di
rilevanza amministrativa afferenti allo svolgimento
dell’attività di impresa (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.11.2014 n. 5777 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Gare
pubbliche aperte alle università. Consiglio di Stato. Il
sostegno statale non falsa il principio di concorrenza.
Le università degli studi sono a tutti gli effetti operatori
economici che possono partecipare alle gare pubbliche e non
violano la concorrenza per il solo fatto di beneficiare di
finanziamenti o altre agevolazioni dallo Stato.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, nella
sentenza 21.11.2014 n. 5767.
I giudici hanno accolto il ricorso di una università che, in
qualità di capogruppo di un raggruppamento temporaneo di
imprese, aveva vinto la gara a procedura aperta bandita
dalla Regione per la redazione dei piani di gestione dei
siti compresi nella rete europea Natura 2000, ma poi
annullata in primo grado per la contestazione di un’impresa
del settore in merito in particolare al diritto di tali enti
ad assumere la veste di appaltatori di servizi.
A parere del collegio, il Tar ha mal interpretato quanto
chiarito dalla Corte di giustizia europea (sentenza n.
305/2009) che al contrario, sulla base della direttiva
comunitaria 2004/18 relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, forniture e servizi (recepita in Italia dal Codice
degli appalti, legge n. 163/2006), ha sancito il «principio
della massima apertura al mercato a tutti gli operatori
pubblici e privati, prediligendo un’interpretazione
estensiva della nozione di “ente pubblico”».
Per la Corte Ue, quest’ultima apre gli appalti pubblici di
servizi «a soggetti che non perseguono un preminente
scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa
di un’impresa e non assicurano una presenza regolare sul
mercato, quali le università e gli istituti di ricerca
nonché i raggruppamenti costituiti da università e
amministrazioni pubbliche». Secondo la sentenza di
Palazzo Spada, la concorrenza non è falsata quando, come nel
caso in esame, non c’è in particolare «alcuna prova di
connessione tra il sostegno pubblico e la partecipazione e
l’aggiudicazione di una gara d’appalto» in quanto per le
università questi affidamenti «qualificabili più
propriamente “attività commerciali” anziché “lucrative”
generano utili che sono imputati ai capitoli di gestione
inerenti le finalità istituzionali di didattica e ricerca».
Par condicio salva poi, hanno spiegato i giudici, anche
quando una delle mandanti del gruppo sia, come nella
fattispecie, una società di capitali che agisce per fini di
lucro dato che «il limite funzionale previsto per
l’università è connesso alla funzione principale della
ricerca e dell’insegnamento» e che tali enti, con la
nascita del ministero dell’Università (legge n.168/1989),
incassano in prevalenza «contributi volontari, proventi
di attività, rendite, frutti e alienazioni del patrimonio,
atti di liberalità e corrispettivi di contratti e
convenzioni» (articolo
Il Sole 24 Ore del 07.01.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il danno ingiusto, cagionato dalla Pubblica
amministrazione in conseguenza dell’inosservanza dolosa o
colposa dei tempi di definizione del procedimento
amministrativo, ha come presupposto la considerazione per
cui, per il cittadino, il tempo è un bene della vita, la cui
perdita ha un costo che è suscettibile di ristoro
patrimoniale in presenza dei dovuti presupposti.
In linea di principio la pretesa al danno da ritardo può
essere formulata rispettivamente:
- in termini di indennizzo da “mero ritardo” di cui all’art.
2-bis secondo comma della legge n. 241/1990 che concerne
l’ipotesi del ristoro per la mancata emissione di un
provvedimento finale al momento della scadenza del termine
assegnato. Il superamento del termine finale di un
procedimento amministrativo non comporta l’illegittimità
dell'atto tardivo ma resta sul piano della responsabilità
civile dell’Amministrazione e non include come conseguenza
giuridica del ritardo l’illegittimità dell'atto tardivamente
adottato.
Il decorso del “...termine di conclusione del procedimento
ad istanza di parte… per il quale sussiste l'obbligo di
pronunziarsi…” implica la corresponsione di un indennizzo da
liquidare con le modalità di un emanando regolamento
ministeriale (al momento supplito dalla Direttiva 09.01.2014
- Dipartimento Funzione Pubblica 09.01.2014).
Come è evidente dalla sua qualificazione in termini di
“indennizzo", in tal caso il ristoro è configurabile per il
solo decorso del termine anche in casi di situazioni
fortuite, di forza maggiore, errore scusabile, ecc. e
prescinde anche dall’elemento della “colpa”;
- nella richiesta di un risarcimento vero e proprio,
previsto dall’art. 2-bis, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241.
Tale fattispecie –che può concorrere con l’indennizzo di cui
sopra- deve essere ricondotto relativamente
all’identificazione degli elementi costitutivi della
responsabilità all’alveo proprio dell’art. 2043 c.c. .
In conseguenza il danno da ritardo risarcibile non può
essere presunto iuris et de jure in collegamento al semplice
passaggio del tempo, ma è necessaria la verifica della
sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo
(ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio
subito), nonché quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa
del danneggiante).
Come la Sezione ha già avuto modo di puntualizzare, in tale
ipotesi, la valutazione dell’elemento della colpa non può
dunque essere limitata al meccanico procrastinarsi
dell’adozione del provvedimento finale, bensì alla
dimostrazione che la Pubblica amministrazione abbia agito
con dolo o colpa grave.
La domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex
art. 2043 c.c., può essere accolta dal giudice solo se
l’istante dimostri che il provvedimento favorevole avrebbe
potuto, o dovuto, essergli rilasciato già ab origine e che
sussistono tutti i requisiti costitutivi dell’illecito
aquiliano, tra i quali elementi univoci indicativi della
sussistenza della colpa in capo alla pubblica
amministrazione.
Il motivo va respinto.
Il danno ingiusto, cagionato dalla Pubblica amministrazione
in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa dei tempi
di definizione del procedimento amministrativo, ha come
presupposto la considerazione per cui, per il cittadino, il
tempo è un bene della vita, la cui perdita ha un costo che è
suscettibile di ristoro patrimoniale in presenza dei dovuti
presupposti.
In linea di principio la pretesa al danno da ritardo può
essere formulata rispettivamente:
- in termini di indennizzo da “mero ritardo” di cui
all’art. 2-bis secondo comma della legge n. 241/1990 che
concerne l’ipotesi del ristoro per la mancata emissione di
un provvedimento finale al momento della scadenza del
termine assegnato. Il superamento del termine finale di un
procedimento amministrativo non comporta l’illegittimità
dell'atto tardivo ma resta sul piano della responsabilità
civile dell’Amministrazione e non include come conseguenza
giuridica del ritardo l’illegittimità dell'atto tardivamente
adottato (Cons. di Stato Sez. VI, 06.04.2010 n. 1913). Il
decorso del “...termine di conclusione del procedimento
ad istanza di parte… per il quale sussiste l'obbligo di
pronunziarsi…” implica la corresponsione di un
indennizzo da liquidare con le modalità di un emanando
regolamento ministeriale (al momento supplito dalla
Direttiva 09.01.2014 - Dipartimento Funzione Pubblica
09.01.2014). Come è evidente dalla sua qualificazione in
termini di “indennizzo", in tal caso il ristoro è
configurabile per il solo decorso del termine anche in casi
di situazioni fortuite, di forza maggiore, errore scusabile,
ecc. e prescinde anche dall’elemento della “colpa”
(Consiglio di Stato sez. IV 22/05/2014 n. 2638);
- nella richiesta di un risarcimento vero e proprio,
previsto dall’art. 2-bis, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241.
Tale fattispecie –che può concorrere con l’indennizzo di cui
sopra- deve essere ricondotto relativamente
all’identificazione degli elementi costitutivi della
responsabilità all’alveo proprio dell’art. 2043 c.c. .
In conseguenza il danno da ritardo risarcibile non può
essere presunto iuris et de jure in collegamento al
semplice passaggio del tempo, ma è necessaria la verifica
della sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo
(ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio
subito), nonché quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa
del danneggiante).
Come la Sezione ha già avuto modo di puntualizzare, in tale
ipotesi, la valutazione dell’elemento della colpa non può
dunque essere limitata al meccanico procrastinarsi
dell’adozione del provvedimento finale, bensì alla
dimostrazione che la Pubblica amministrazione abbia agito
con dolo o colpa grave (cfr. Consiglio di Stato sez. IV
20/05/2014 n. 2543).
La domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex
art. 2043 c.c., può essere accolta dal giudice solo se
l’istante dimostri che il provvedimento favorevole avrebbe
potuto, o dovuto, essergli rilasciato già ab origine
e che sussistono tutti i requisiti costitutivi dell’illecito
aquiliano, tra i quali elementi univoci indicativi della
sussistenza della colpa in capo alla pubblica
amministrazione.
Risultano pertanto inconferenti non solo i richiami
giurisprudenziali effettuati da parte appellante, ma anche
l’asserita possibilità per il danneggiato, nel giudizio
risarcitorio di provare la colpa dell’amministrazione “anche
solo in via indiziaria” (p. 11 appello): al riguardo la
giurisprudenza ha chiarito che “in relazione ai danni da
mancato tempestivo esercizio dell’attività amministrativa,
spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova
dell’esistenza del pregiudizio, specie perché ha natura
patrimoniale, non potendosi invocare il c.d. principio
acquisitivo in quanto surroga l’onere di allegazione dei
fatti; e se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni
semplici per fornire la prova dell’esistenza del danno e
della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di
allegare circostanze di fatto precise e, quando il soggetto
onerato di tale allegazione non vi adempie, non può darsi
ingresso alla valutazione equitativa del danno a norma
dell’art. 1226 c.c. perché tale norma presuppone
l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del
pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza
tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato
assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato”
(Cons. Stato, sez. V, 21.06.2013 n. 3405) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 18.11.2014 n. 5663 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine
di configurare l’interesse al ricorso, così come previsto
dall’art. 100 c.p.c..
In presenza del suddetto requisito “non è necessario
accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto
impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il
soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si
considerano i consistenti oneri economici collegati al
contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una
qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano
un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il
nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile
diminuzione della qualità panoramica, ambientale,
paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di
valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul
mercato".
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione necessaria e
sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al
ricorso
Secondo un orientamento costante di questo Collegio, dal
quale non v’è motivo per discostarsi, la c.d.
vicinitas è di per sé sufficiente al fine di
configurare l’interesse al ricorso, così come previsto
dall’art. 100 c.p.c. (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV
22.01.2013 n. 361; id. 17.09.2012 n. 4926; id. 29.08.2012 n.
4643; id. 10.07.2012 n. 4088; C.G.A. della Regione Siciliana
04.06.2013 n. 553).
In presenza del suddetto requisito “non è necessario
accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto
impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il
soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si
considerano i consistenti oneri economici collegati al
contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una
qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano
un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il
nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile
diminuzione della qualità panoramica, ambientale,
paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di
valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul
mercato" (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 18.04.2014 n.
1995).
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione
necessaria e sufficiente a fondare la legittimazione e
l’interesse al ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
10.06.2014 n. 2965; id. 13.03.2014 n. 1210; id. 13.11.2012
n. 5715; id. 17.09.2012, n. 4924)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.11.2014 n. 5662 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto
dei duecento metri prevista dal citato articolo si pone alla
stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non
consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di
opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione
dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di
rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle
esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia
della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati
all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area
di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il vincolo di rispetto cimiteriale pertanto preclude il
rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi
dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di
compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità
dell'opera con i valori tutelati dal vincolo.
Sul carattere assoluto del vincolo di inedificabilità
nascente dalla fascia di rispetto cimiteriale non incide
neppure la circostanza della preesistenza o meno del vincolo
all'esecuzione delle opere.
---------------
Con riferimento alle fasce di rispetto cimiteriale, l’art.
28 della l. 166/2002 ha parzialmente riscritto l’art. 338
del RD 1265/1934, prevedendo che, fermo restando il divieto
di costruire nuovi edifici all’interno della fascia di
rispetto cimiteriale, all’interno di quest’ultima, “per gli
edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero
ovvero interventi funzionali all’utilizzo dell’edificio
stesso, tra cui l’ampliamento nella percentuale massima del
10 per cento e i cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli
previsti dalle lettere a), b), c), e d) del primo comma
dell’art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457” (ovvero
manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro
e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia).
La giurisprudenza all’interno delle c.d. “zone di rispetto”
ha sempre negato ogni tipo di attività edilizia
“costruttiva”, ferme restando i soli corpi di fabbrica già
esistenti all’interno di detta fascia.
La normativa citata, però, ha sollevato il dibattito
giurisprudenziale concernente la portata dell’art. 338, c.
5, del R.D. n. 1265/1934 ove si prevede che: “Per dare
esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un
intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire,
previo parere favorevole della competente azienda sanitaria
locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell’area, autorizzando
l’ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di
parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
Parte della giurisprudenza, infatti, ritiene che
l’espressione “intervento urbanistico” si riferisca
solamente alle opere pubbliche o di pubblica utilità al fine
di non snaturare la ratio stessa della legge.
Al contrario, altra parte della giurisprudenza ricomprende
in questa espressione anche le opere realizzate dai privati.
Il Collegio aderisce alla prima opzione interpretativa, in
quanto si tratta di materia disciplinata direttamente dalla
legge e non suscettibile, pertanto, di deroghe, da parte di
altra disposizione normativa se non di pari o superiore
rango ed in base alle seguenti considerazioni.
Con le modifiche apportate dall’art. 28 della legge n. 188
cit. il limite all’edificabilità privata è stato comunque
fissato in 200 metri dal perimetro dell’impianto
cimiteriale, posto che il primo comma dell’art. 338 r.d. m.
1265 cit. nella nuova formulazione stabilisce espressamente
che “È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici
entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto
cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici
vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale
esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste
dalla legge”.
Dalla lettura di siffatta norma si ricava, in primo luogo,
che il limite all’edificabilità privata non è più ancorato
alla “fascia di rispetto” (che può variare in relazione alle
determinazioni adottate dall’Autorità Comunale), ma è
legislativamente fissata in ogni caso entro il limite di 200
metri da calcolarsi dal perimetro dell’impianto cimiteriale.
Il regime vincolistico così delineato con riferimento
all’attività edilizia dei privati appare più che in linea
con la ratio delle deroghe ed eccezioni al limite dei 200
metri previste dalla legge medesima che sono ammesse in
funzione dell’ampliamento dei cimiteri esistenti o della
costruzione di nuovi cimiteri (comma 4), nonché nei casi in
cui l’amministrazione comunale debba dare esecuzione ad
un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento
urbanistico. Trattasi in entrambi i casi di eccezioni
giustificate da esigenze pubblicistiche correlate alla
stessa edilizia cimiteriale, oppure ad altri interventi
pubblici purché compatibili con le concorrenti ragioni di
tutela della zona (comma 5). Sulla chiara limitazione della
deroga in oggetto alle sole “opere pubbliche e di interesse
pubblico” indicate dall’art. 28, comma 5, legge cit. si è
espresso altresì di recente il Consiglio di Stato con la
sentenza sez. V 29.03.2006 n. 1593.
Pertanto non vi è motivo di dubitare della ragionevolezza di
una interpretazione che svincola l’ambito di operatività del
vincolo cimiteriale di inedificabilità dalla delimitazione
“in concreto” delle fasce di rispetto da parte del Comune,
avuto proprio riguardo al rilievo preminente di carattere
igienico-sanitario del vincolo di tutela cimiteriale che può
ammettere deroghe solo in presenza di concorrenti ragioni
pubblicistiche, sempre compatibilmente con le esigenze
sottese all’esistenza del vincolo.
Al riguardo, la giurisprudenza, ormai consolidata, ha
affermato che "in materia di vincolo cimiteriale la
salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal
citato articolo si pone alla stregua di un vincolo assoluto
di inedificabilità che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale” (ex multis
C.d.S., V, 14.09.2010, n. 6671; C.d.S., IV 12.03.2007, n.
1185, TAR Sicilia, Palermo, III, 18.01.2012, n. 77; TAR
Campania, Napoli, IV, 29.11.2007, n. 15615; Tar
Lombardia-Milano, 11.07.1997, n. 1253).
Il vincolo di rispetto cimiteriale pertanto preclude il
rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi
dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di
compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità
dell'opera con i valori tutelati dal vincolo (cfr. C.d.S.,
V, 03.05.2007, n. 1933 e del 12.11.1999, n. 1871).
Sulla preesistenza del manufatto rispetto al vincolo, le
tesi di parte ricorrente non hanno trovato riscontro
probatorio, atteso che, contrariamente a quanto asserito in
ricorso, il vincolo in questione non è stato imposto per la
prima volta con la delibera di CC del 2005, che ha solo
ridotta a 50 metri l’estensione della relativa zona di
rispetto, peraltro ad altri fini, come si chiarirà in
seguito. L'individuazione di fasce di rispetto intorno ai
cimiteri, infatti risale,prim'ancora che alla legge n.
166/2002, all'art.338 del testo unico delle leggi sanitarie
n. 1265/1934, ed è fatto notorio che il cimitero di
Fuorigrotta sia di impianto ottocentesco.
Sul carattere assoluto del vincolo di inedificabilità
nascente dalla fascia di rispetto cimiteriale non incide
neppure la circostanza della preesistenza o meno del vincolo
all'esecuzione delle opere (TAR Campania Napoli, sez. III,
04/04/2012, n. 1621).
Va da ultimo esaminata l’eccezione difensiva che fa leva
sulla avvenuta riduzione della estensione della fascia di
rispetto cimiteriale a 50 mt. giusta il disposto dell’art.
27 del piano cimiteriale comunale.
Osserva il Collegio che, con riferimento alle fasce di
rispetto cimiteriale, l’art. 28 della l. 166/2002 ha
parzialmente riscritto l’art. 338 del RD 1265/1934,
prevedendo che, fermo restando il divieto di costruire nuovi
edifici all’interno della fascia di rispetto cimiteriale,
all’interno di quest’ultima, “per gli edifici esistenti
sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi
funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui
l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i
cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle
lettere a), b), c), e d) del primo comma dell’art. 31 della
legge 05.08.1978, n. 457” (ovvero manutenzione
ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e
risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia).
La giurisprudenza all’interno delle c.d. “zone di
rispetto” ha sempre negato ogni tipo di attività
edilizia “costruttiva”, ferme restando i soli corpi
di fabbrica già esistenti all’interno di detta fascia (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 476 e Consiglio
di Stato, sez. V, 12.11.1999, n. 1871).
La normativa citata, però, ha sollevato il dibattito
giurisprudenziale concernente la portata dell’art. 338, c.
5, del R.D. n. 1265/1934 ove si prevede che: “Per dare
esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un
intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire,
previo parere favorevole della competente azienda sanitaria
locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell’area, autorizzando
l’ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di
parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
Parte della giurisprudenza, infatti, ritiene che
l’espressione “intervento urbanistico” si riferisca
solamente alle opere pubbliche o di pubblica utilità al fine
di non snaturare la ratio stessa della legge
(Consiglio di Stato, sez. V, 29.03.2006 n. 1593; Id.,
03.05.2007, n. 1934).
Al contrario, altra parte della giurisprudenza ricomprende
in questa espressione anche le opere realizzate dai privati
(cfr. in tal senso TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 22.02.2007,
n. 189, ma si veda anche TAR Sardegna, Cagliari, sez. II,
20.03.3009, n. 322; Id., 18.05.2007, n. 973; Id.,
26.06.2007, n. 1348. Lo stesso TAR Veneto, sez. II, nella
sentenza del 27.07.2009 n. 2226).
Il Collegio aderisce alla prima opzione interpretativa, in
quanto si tratta di materia disciplinata direttamente dalla
legge e non suscettibile, pertanto, di deroghe, da parte di
altra disposizione normativa se non di pari o superiore
rango ed in base alle seguenti considerazioni.
Con le modifiche apportate dall’art. 28 della legge n. 188
cit. il limite all’edificabilità privata è stato comunque
fissato in 200 metri dal perimetro dell’impianto
cimiteriale, posto che il primo comma dell’art. 338 r.d. m.
1265 cit. nella nuova formulazione stabilisce espressamente
che “È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi
edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro
dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti
urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi,
comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge”.
Dalla lettura di siffatta norma si ricava, in primo luogo,
che il limite all’edificabilità privata non è più ancorato
alla “fascia di rispetto” (che può variare in
relazione alle determinazioni adottate dall’Autorità
Comunale), ma è legislativamente fissata in ogni caso entro
il limite di 200 metri da calcolarsi dal perimetro
dell’impianto cimiteriale.
Il regime vincolistico così delineato con riferimento
all’attività edilizia dei privati appare più che in linea
con la ratio delle deroghe ed eccezioni al limite dei
200 metri previste dalla legge medesima che sono ammesse in
funzione dell’ampliamento dei cimiteri esistenti o della
costruzione di nuovi cimiteri (comma 4), nonché nei casi in
cui l’amministrazione comunale debba dare esecuzione ad
un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento
urbanistico. Trattasi in entrambi i casi di eccezioni
giustificate da esigenze pubblicistiche correlate alla
stessa edilizia cimiteriale, oppure ad altri interventi
pubblici purché compatibili con le concorrenti ragioni di
tutela della zona (comma 5). Sulla chiara limitazione della
deroga in oggetto alle sole “opere pubbliche e di
interesse pubblico” indicate dall’art. 28, comma 5,
legge cit. si è espresso altresì di recente il Consiglio di
Stato con la sentenza sez. V 29.03.2006 n. 1593.
Pertanto non vi è motivo di dubitare della ragionevolezza di
una interpretazione che svincola l’ambito di operatività del
vincolo cimiteriale di inedificabilità dalla delimitazione “in
concreto” delle fasce di rispetto da parte del Comune,
avuto proprio riguardo al rilievo preminente di carattere
igienico-sanitario del vincolo di tutela cimiteriale che può
ammettere deroghe solo in presenza di concorrenti ragioni
pubblicistiche, sempre compatibilmente con le esigenze
sottese all’esistenza del vincolo.
Non può accogliersi neppure l’ulteriore censura con cui
parte ricorrente ritiene assentibile l’intervento, in quanto
configurabile quale mero ampliamento o manutenzione
dell’edificato esistente. Assume il ricorrente che il
divieto ad edificare, come previsto dall’art. 28 della legge
n. 188 cit., riguarda solo i nuovi edifici e non anche
quelli preesistenti, rispetto ai quali la norma pone una
specifica normativa di dettaglio, contenuta nell’ultimo
comma della stessa norma.
Tuttavia, ad avviso del Collegio, non può censurarsi la
qualificazione operata dall’amministrazione quale intervento
di “nuova edificazione”, posto che si tratta di
sopraelevazione di un terzo piano, nonché realizzazione di
ulteriore vano sul lastrico solare, e quindi di manufatti
suscettibili di autonoma utilizzazione e costituenti
incremento del carico residenziale (TAR Campania-Napoli,
Sez. IV,
sentenza 14.11.2014 n. 5942 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
l. 06.08.1967 n. 765, come noto, ha esteso all’intero
territorio comunale l’obbligo di munirsi di titolo
abilitativo ad edificare, con ciò innovando l’art. 31 della
L. 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica) che, in
precedenza, circoscriveva tale obbligo esclusivamente agli
immobili situati nei centri urbani.
---------------
Le risultanze delle mappe catastali non sono idonee a
comprovare l’epoca di realizzazione dei manufatti,
occorrendo, evidentemente, idonea visura catastale
riportante gli immobili o altra prova documentale
sufficiente al conseguimento di siffatta prova (ad esempio,
un contratto notarile che faccia menzione delle opere,
indicandone una data certa di preesistenza e fornendone una
adeguata descrizione, un contratto agrario debitamente
registrato che menzioni i manufatti, etc.).
---------------
Nessuna valenza probatoria può essere attribuita
all’affermazione del ricorrente, resa nella forma della
dichiarazione sostitutiva di atto notorio, trattandosi di
dichiarazione testimoniale proveniente dalla stessa parte
che intenderebbe giovarsi delle sue risultanze e quindi in
contrasto col tradizionale principio processuale nemo testis
in causa propria cui si ispira l'art. 246 c.p.c..
Né d'altra parte sarebbe consentito al Collegio di porre a
fondamento della decisione le dichiarazioni sostitutive
rese.
Ciò in quanto la dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà non è utilizzabile nel processo amministrativo,
trattandosi in sostanza di un mezzo surrettizio per
introdurre in quest'ultimo una prova testimoniale atipica:
essa quindi non ha alcun valore probatorio e può costituire
solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi
gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione.
Invero, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale,
l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione di un’opera
edilizia ai fini dell’ottenimento del condono o
dell’esenzione ratione temporis della necessità di un titolo
edilizio grava sul privato richiedente e comporta che anche
la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è
sufficiente a tale fine, essendo necessari ulteriori
riscontri documentali, eventualmente anche indiziari, purché
altamente probanti. Tale onere può ritenersi a sufficienza
soddisfatto soltanto quando le prove addotte risultano
obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti
che, da soli od unitamente ad altri elementi probatori,
offrono la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione
del manufatto, mentre la semplice produzione di una
dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al
rango di prova, seppure presuntiva, sull’epoca di
realizzazione dell’abuso.
La censura è destituita di giuridico fondamento.
In punto di fatto, è priva di riscontro probatorio la
pretesta vetustà dei manufatti e, in specie, la loro
risalenza al periodo antecedente all’entrata in vigore della
L. 06.08.1967 n. 765 che, come noto, ha esteso all’intero
territorio comunale l’obbligo di munirsi di titolo
abilitativo ad edificare, con ciò innovando l’art. 31 della
L. 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica) che, in
precedenza, circoscriveva tale obbligo esclusivamente agli
immobili situati nei centri urbani.
E’ chiaro che parte ricorrente sostiene tale posizione al
fine di contestare la natura abusiva dell’opera, ritenendo
che il manufatto non richiedesse il previo rilascio del
titolo concessorio: tuttavia, trattasi di asserzione
contestata dalla difesa dell’amministrazione e non
sufficientemente comprovata dal ricorrente.
Né tale conclusione appare smentita delle conclusioni rese
nella relazione tecnica di parte.
Sotto un primo profilo, le risultanze delle mappe catastali
non sono idonee a comprovare l’epoca di realizzazione dei
manufatti, occorrendo, evidentemente, idonea visura
catastale riportante gli immobili o altra prova documentale
sufficiente al conseguimento di siffatta prova (ad esempio,
un contratto notarile che faccia menzione delle opere,
indicandone una data certa di preesistenza e fornendone una
adeguata descrizione, un contratto agrario debitamente
registrato che menzioni i manufatti, etc.). Viceversa, la
produzione documentale esibita in giudizio non è idonea a
conseguire lo scopo probatorio perseguito da parte
ricorrente in quanto inidonea a dare certezza sulla
preesistenza del manufatto rispetto al 1967 e in ordine alla
reale consistenza e caratteristica costruttiva del bene.
Si aggiunga che nelle mappe catastali in questione vi è
riportato un unico manufatto mentre nel caso in esame si
discorre di due distinte costruzioni, con la conseguenza
che, in mancanza di ulteriori elementi probatori, non è
possibile appurare la presunta vetustà di entrambe le opere
delle quali, pertanto, va ribadita la natura abusiva.
Quanto poi alle dichiarazioni sostitutive valgano le
seguenti considerazioni.
Nessuna valenza probatoria può essere attribuita
all’affermazione del ricorrente, resa nella forma della
dichiarazione sostitutiva di atto notorio, trattandosi di
dichiarazione testimoniale proveniente dalla stessa parte
che intenderebbe giovarsi delle sue risultanze e quindi in
contrasto col tradizionale principio processuale nemo
testis
in causa propria cui si ispira l'art. 246 c.p.c., (TAR
Lecce, 07.02.2007 n. 328).
Né d'altra parte sarebbe consentito al Collegio di porre a
fondamento della decisione le dichiarazioni sostitutive rese
dai Sig.ri A.F. e E.C..
Ciò in quanto la dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà non è utilizzabile nel processo amministrativo,
trattandosi in sostanza di un mezzo surrettizio per
introdurre in quest'ultimo una prova testimoniale atipica:
essa quindi non ha alcun valore probatorio e può costituire
solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi
gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 07.08.2012 n. 4527; Sez. IV, 03.05.2005 n.
2094; TAR Puglia, Lecce, 10.10.2013 n. 2116).
Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’onere
di dimostrare l’epoca di realizzazione di un’opera edilizia
ai fini dell’ottenimento del condono o dell’esenzione
ratione temporis della necessità di un titolo
edilizio grava sul privato richiedente e comporta che anche
la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è
sufficiente a tale fine, essendo necessari ulteriori
riscontri documentali, eventualmente anche indiziari, purché
altamente probanti. Tale onere può ritenersi a sufficienza
soddisfatto soltanto quando le prove addotte risultano
obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti
che, da soli od unitamente ad altri elementi probatori,
offrono la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione
del manufatto, mentre la semplice produzione di una
dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al
rango di prova, seppure presuntiva, sull’epoca di
realizzazione dell’abuso (TAR Umbria, 30.08.2013 n. 462; TAR
Liguria, Sez. I, 04.12.2012 n. 1565; TAR Campania, Napoli,
Sez. III, 18.01.2011 n. 280)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.11.2014 n. 5894 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia urbanistica il presupposto per
l'adozione dell'ingiunzione di demolizione delle opere
edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione
dell'opera in totale difformità della concessione o in
assenza della medesima, con la conseguenza che tale
provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è atto
dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera.
Il potere di reprimere abusi edilizi non è soggetto né a
prescrizione, né a decadenza stante il carattere
permanentemente illegale dell'abuso edilizio medesimo, per
cui non è configurabile alcun possibile affidamento del
privato sulla legittimità di opere edilizie abusive.
Con un ulteriore motivo di
gravame il ricorrente lamenta la mancata specificazione
delle ragioni di interesse pubblico per le quali, nonostante
il tempo decorso dalla realizzazione dei manufatti,
l’amministrazione ha ritenuto di dover comminare la sanzione
demolitoria.
La censura non coglie nel segno.
In materia urbanistica difatti il presupposto per l'adozione
dell'ingiunzione di demolizione delle opere edilizie abusive
è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale
difformità della concessione o in assenza della medesima,
con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i
predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera.
Il potere di reprimere abusi edilizi non è soggetto né a
prescrizione, né a decadenza stante il carattere
permanentemente illegale dell'abuso edilizio medesimo, per
cui non è configurabile alcun possibile affidamento del
privato sulla legittimità di opere edilizie abusive.
Le considerazioni illustrate conducono al rigetto del
ricorso introduttivo avverso l’ordine di demolizione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.11.2014 n. 5894 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mancata specificazione dell’area di sedime e
della sua esatta estensione non inficiano la legittimità del
gravato atto acquisitivo, così come la circostanza che, come
si legge nei motivi aggiunti, il ricorrente non sia
proprietario dell’area di sedime (benché nel ricorso
introduttivo si sia dichiarato titolare del fondo).
Ciò in quanto, con specifico riferimento a detta area di
sedime, il provvedimento in questione non può produrre
effetto nei confronti del ricorrente; viceversa il
proprietario del suolo pretermesso potrà poi autonomamente
gravarsi nei confronti del provvedimento sanzionatorio per
quanto attiene sia alla omessa notifica del provvedimento
sia alla mancata specificazione della porzione immobiliare,
facendo valere le proprie ragioni entro il termine
decorrente dalla piena conoscenza dell’atto acquisitivo.
Parimenti infondati si appalesano i rilievi che attengono al
successivo provvedimento acquisitivo disposto dal Comune ai
sensi dell’art. 31, terzo comma, del D.P.R. 380/2001.
In particolare, è inaccoglibile la censura con cui è stata
dedotta la violazione dell'art. 7 della L. n. 241/1990 per
omessa comunicazione di avvio del procedimento culminato con
l'adozione del provvedimento impugnato. Difatti, come
previsto dall'art. 21-octies della L. 241/1990,
l'annullamento giurisdizionale dell'atto impugnato è
precluso dalla correttezza sostanziale dello stesso. Nel
caso specifico l'acquisizione al patrimonio comunale appare
legittima alla luce dell'incontestata inottemperanza
all’ordine di demolizione citato nel provvedimento impugnato
e della natura vincolata del provvedimento (TAR Lazio, Roma,
30.06.2009 n. 6326).
La mancata specificazione dell’area di sedime e della sua
esatta estensione non inficiano la legittimità del gravato
atto acquisitivo, così come la circostanza che, come si
legge nei motivi aggiunti, il ricorrente non sia
proprietario dell’area di sedime (benché nel ricorso
introduttivo si sia dichiarato titolare del fondo).
Ciò in quanto, con specifico riferimento a detta area di
sedime, il provvedimento in questione non può produrre
effetto nei confronti del ricorrente; viceversa il
proprietario del suolo pretermesso potrà poi autonomamente
gravarsi nei confronti del provvedimento sanzionatorio per
quanto attiene sia alla omessa notifica del provvedimento
sia alla mancata specificazione della porzione immobiliare,
facendo valere le proprie ragioni entro il termine
decorrente dalla piena conoscenza dell’atto acquisitivo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.11.2014 n. 5894 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Si
è dell’avviso di aderire al prevalente orientamento
giurisprudenziale che ritiene comunque legittimo il recupero
delle somme (indebitamente erogate) non tenendo conto della
buona fede del percipiente, considerando il recupero come un
atto dovuto non rinunziabile espressione di una funzione
pubblica vincolata.
In capo all’Amministrazione che abbia effettuato un
pagamento indebitamente dovuto ad un proprio dipendente si
riconosce, perciò, una posizione soggettiva che deve essere
qualificata come diritto soggettivo alla restituzione, alla
quale si contrappone, avendo gli atti che si riferiscono ad
un credito derivante da un rapporto di impiego natura
paritetica e non autoritativa, una correlativa obbligazione
del dipendente; qualora l'Amministrazione intenda recuperare
le somme indebitamente corrisposte, non deve annullare
l'atto di corresponsione delle stesse in quanto l'indebito
si configura come tale per l'obiettivo contrasto con una
norma, con la conseguenza che non vi è obbligo di motivare
circa l'interesse pubblico che induce ad effettuare il
recupero patrimoniale.
In definitiva la Sezione, come già in precedenti
perfettamente identici alla fattispecie in esame, ritiene di
fare proprio il principio della normale ripetibilità di tali
crediti da parte della P.A., soprattutto nel caso di somme
di lieve entità, ciò perché il recupero delle somme
indebitamente corrisposte ai dipendenti pubblici ha natura
di atto dovuto ex art. 2033 c.c., con la conseguenza che la
buona fede del percettore rileva ai soli fini delle modalità
con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da
non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle
esigenze di vita del dipendente. Pertanto lo stato
psicologico del debitore, in ipotesi in buona fede, di per
sé non preclude l'attività di recupero dell'indebito, ma
impone l'obbligo di una più approfondita valutazione degli
interessi implicati, in particolare sotto il profilo del
grado di lesione di quello del dipendente.
Ne consegue che, nel caso come in trattazione in cui il
sacrificio imposto con il recupero è di lieve entità,
l'interesse del dipendente a trattenere gli emolumenti
percepiti non può prevalere su quello pubblico alla
ripetizione delle somme erogate indebitamente, che è di per
sé sempre attuale e concreto.
2. Il Collegio ritiene, con riguardo alla problematica del
recupero delle somme erroneamente corrisposte
dall'Amministrazione, di non ignorare come proprio questo
Tribunale (TAR Campania, Napoli, VII, 12.12.2007, n. 16222)
abbia talvolta sostenuto che siffatto recupero non
costituirebbe un atto assolutamente vincolato, trattandosi,
nella sostanza, di un atto di autotutela che dovrebbe,
pertanto, tener conto del "peso" del recupero sulla
situazione concreta, dell'affidamento ingenerato nel
dipendente, nonché dello stato di buona fede dello stesso
(Cons. Stato, VI, 28.06.2007, n. 3773; V, 13.07.2006, n.
4413; 15.10.2003, n. 6291), attesa la natura discrezionale
puntualizzata dallo stesso art.21-nonies, comma 1, della
Legge n. 241/1990.
3. Tuttavia, nella fattispecie, si è dell’avviso di aderire
al prevalente orientamento giurisprudenziale che ritiene
comunque legittimo il recupero delle somme non tenendo conto
della buona fede del percipiente, considerando il recupero
come un atto dovuto non rinunziabile espressione di una
funzione pubblica vincolata (ex multis, Cons. Stato,
IV, 24.05.2007, n. 2651; 12.05.2006, n. 2679; 22.9.2005, nn.
4964 e n. 4983; TAR Toscana, I, 08.11.2004, n. 5465; TAR
Sicilia, Catania, II, 12.08.2003, n. 1272; TAR Lazio,
Latina, 11.02.1993, n. 143).
In capo all’Amministrazione che abbia effettuato un
pagamento indebitamente dovuto ad un proprio dipendente si
riconosce, perciò, una posizione soggettiva che deve essere
qualificata come diritto soggettivo alla restituzione, alla
quale si contrappone, avendo gli atti che si riferiscono ad
un credito derivante da un rapporto di impiego natura
paritetica e non autoritativa, una correlativa obbligazione
del dipendente; qualora l'Amministrazione intenda recuperare
le somme indebitamente corrisposte, non deve annullare
l'atto di corresponsione delle stesse in quanto l'indebito
si configura come tale per l'obiettivo contrasto con una
norma, con la conseguenza che non vi è obbligo di motivare
circa l'interesse pubblico che induce ad effettuare il
recupero patrimoniale (TAR Campania, Napoli, IV, 25.02.1998,
n. 681).
3.1 In definitiva la Sezione, come già in precedenti
perfettamente identici alla fattispecie in esame (ex
plurimis, 02.12.2009, nn. 8285 e 8264), ritiene di fare
proprio il principio della normale ripetibilità di tali
crediti da parte della P.A., soprattutto nel caso di somme
di lieve entità, ciò perché il recupero delle somme
indebitamente corrisposte ai dipendenti pubblici ha natura
di atto dovuto ex art. 2033 c.c., con la conseguenza che la
buona fede del percettore rileva ai soli fini delle modalità
con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da
non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle
esigenze di vita del dipendente. Pertanto lo stato
psicologico del debitore, in ipotesi in buona fede, di per
sé non preclude l'attività di recupero dell'indebito, ma
impone l'obbligo di una più approfondita valutazione degli
interessi implicati, in particolare sotto il profilo del
grado di lesione di quello del dipendente.
Ne consegue che, nel caso come in trattazione in cui il
sacrificio imposto con il recupero è di lieve entità,
l'interesse del dipendente a trattenere gli emolumenti
percepiti non può prevalere su quello pubblico alla
ripetizione delle somme erogate indebitamente, che è di per
sé sempre attuale e concreto (Cons. Stato, IV, 08.06.2009,
n. 3516; V, 23.03.2004, n. 1535; TAR Veneto, III,
02.04.2009, n. 1072; TAR Lazio, Roma, I-ter, 08.06.2009, n.
5466; I, 01.04.2008, n. 2764; TAR Campania, Salerno, I,
07.03.2006, n. 237).
Nonostante il richiamo ad un precedente della Sezione (n.
4391 del 2007) che si era limitato a denunciare
l’insufficienza della motivazione, per le ragioni dianzi
esposte non appaiono, dunque, meritevoli di accoglimento
neanche le censure dedotte in sede ricorsuale in ordine
all’obbligo per l'Amministrazione di fornire una specifica
motivazione delle ragioni del recupero, anche perché
l'obbligo ex lege di recupero preclude la facoltà di
rinunciare agli effetti favorevoli del decorso del tempo
(Cons. Stato, IV, 11.12.2001, n. 6197) (TAR Campania-Napoli,
Sez. V,
sentenza 12.11.2014 n. 5835 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ai
sensi dell'art. 83, comma 5, d.lgs. 12.04.2006, n. 163:
- deve intendersi rimessa alla stazione appaltante la
facoltà di determinare i criteri di valutazione delle
offerte, che vanno però prefissati nella lex specialis, e
ciò al fine di consentire a tutti i partecipanti alla
procedura di avere sin dall'inizio contezza di tutti gli
elementi che incidono sulla partecipazione, sulla
valutazione delle offerte e, quindi, in ultima analisi
sull'aggiudicazione; rientra quindi nella discrezionalità
della stazione appaltante predeterminare l'incidenza del
prezzo, in rapporto alla qualità della proposta, nella
valutazione dell'offerta e la relativa determinazione;
- l'esercizio di tale discrezionalità non può essere oggetto
di censura del giudice, a meno che non venga rilevato
l'eccesso di potere per irragionevolezza e arbitrarietà.
V.1.1. La censura è priva di pregio.
V.1.2. Contrariamente all’assunto di parte, i criteri di
valutazione possiedono un livello di dettaglio che consente
di orientare in maniera oggettiva l’attribuzione delle
preferenze e la formulazione di un’offerta consapevole anche
alla luce delle prestazioni oggetto del servizio
puntualmente descritte.
V.1.3. Invero, secondo orientamento giurisprudenziale
condiviso, nelle gare pubbliche, ai sensi dell'art. 83,
comma 5, d.lgs. 12.04.2006, n. 163:
- “deve intendersi rimessa alla stazione appaltante la
facoltà di determinare i criteri di valutazione delle
offerte, che vanno però prefissati nella lex specialis, e
ciò al fine di consentire a tutti i partecipanti alla
procedura di avere sin dall'inizio contezza di tutti gli
elementi che incidono sulla partecipazione, sulla
valutazione delle offerte e, quindi, in ultima analisi
sull'aggiudicazione; rientra quindi nella discrezionalità
della stazione appaltante predeterminare l'incidenza del
prezzo, in rapporto alla qualità della proposta, nella
valutazione dell'offerta e la relativa determinazione”
(Cons. di St., sez. V, 17.07.2014, n. 3769);
- “l'esercizio di tale discrezionalità non può essere
oggetto di censura del giudice, a meno che non venga
rilevato l'eccesso di potere per irragionevolezza e
arbitrarietà” (Cons. di St., sez. VI, 17.06.2014, n.
3043)(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 12.11.2014 n. 5808 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Una
volta accertata la correttezza dell'applicazione del metodo
del confronto a coppie ovvero quando non ne sia stato
accertato l'uso distorto o irrazionale, non c'è spazio
alcuno per un sindacato del giudice amministrativo nel
merito dei singoli apprezzamenti effettuati ed in
particolare sui punteggi attribuiti nel confronto a coppie,
che indicano il grado di preferenza riconosciuto ad ogni
singola offerta in gara, con l'ulteriore conseguenza che la
motivazione delle valutazioni sugli elementi qualitativi
risiede nelle stesse preferenze attribuite ai singoli
elementi di valutazione considerati nei raffronti con gli
stessi elementi delle altre offerte.
---------------
L'attribuzione del punteggio secondo il delineato metodo
fondato su un'indicazione preferenziale ancorata a indici
predeterminati non richiede di per sé alcuna estrinsecazione
logico - argomentativa della preferenza, giacché il giudizio
valutativo deve ritenersi insito nell'assegnazione delle
preferenze, dei coefficienti e di conseguenza del punteggio
… non può dubitarsi che l'obbligo della motivazione nel caso
di specie è da considerarsi assolto in quanto, come emerge
dagli atti di causa ed in particolare dei verbali della
commissione di gara, per tutti i singoli elementi
qualitativi di valutazione i singoli commissari hanno
espresso la propria preferenza, attribuendo un determinato
punteggio nel confronto a coppie (in virtù dell'apposito
sistema, proprio di tale metodo di valutazione, secondo cui
1 indicava la parità, 2 la preferenza minima, 3 la
preferenza piccola, 4 la preferenza media, 5 la preferenza
grande e 6 la preferenza massima), dalla cui somma è
derivato poi il punteggio attribuito ad ogni progetto
offerto nell'ambito della griglia di valutazione contenuta
nel bando di gara.
Non può pertanto ragionevolmente dubitarsi che …. le
determinazioni della commissione di gara in ordine alla
valutazione dei singoli elementi costituenti il
progetto-offerta (delle ricorrenti e degli altri
concorrenti) erano pienamente intelligibili, sia pur non
attraverso lo strumento della motivazione argomentativa, ma
attraverso i singoli valori di preferenza espressi da ogni
singolo commissario per i singoli elementi di valutazione.
---------------
Nella procedura di affidamento mediante confronto a coppie,
pertanto, “la "motivazione aritmetica" è sufficiente e non
richiede alcun supplemento motivazionale nel caso in cui un
bando abbia indicato criteri valutativi dettagliati e
adeguati rispetto allo specifico oggetto del contratto messo
a gara.
---------------
E' inammissibile per difetto di interesse il ricorso
dell’impresa terza classificata nella graduatoria finale di
una gara d'appalto, qualora essa abbia lamentato l'anomalia
soltanto dell'offerta dell'aggiudicataria e non anche
dell'offerta dell'impresa collocatasi al secondo posto in
graduatoria.
V.1.7. Quanto al difetto di
motivazione, la censura è parimenti infondata posto che:
- “Una volta accertata la correttezza dell'applicazione
del metodo del confronto a coppie ovvero quando non ne sia
stato accertato l'uso distorto o irrazionale, non c'è spazio
alcuno per un sindacato del giudice amministrativo nel
merito dei singoli apprezzamenti effettuati ed in
particolare sui punteggi attribuiti nel confronto a coppie,
che indicano il grado di preferenza riconosciuto ad ogni
singola offerta in gara, con l'ulteriore conseguenza che la
motivazione delle valutazioni sugli elementi qualitativi
risiede nelle stesse preferenze attribuite ai singoli
elementi di valutazione considerati nei raffronti con gli
stessi elementi delle altre offerte” (TAR Lazio, Latina,
sez. I, 17.03.2014, n. 212; Cons. di St., sez. VI,
19.03.2013, n. 1600);
- “l'attribuzione del punteggio secondo il delineato
metodo fondato su un'indicazione preferenziale ancorata a
indici predeterminati non richiede di per sé alcuna
estrinsecazione logico - argomentativa della preferenza,
giacché il giudizio valutativo deve ritenersi insito
nell'assegnazione delle preferenze, dei coefficienti e di
conseguenza del punteggio … non può dubitarsi che l'obbligo
della motivazione nel caso di specie è da considerarsi
assolto in quanto, come emerge dagli atti di causa ed in
particolare dei verbali della commissione di gara, per tutti
i singoli elementi qualitativi di valutazione i singoli
commissari hanno espresso la propria preferenza, attribuendo
un determinato punteggio nel confronto a coppie (in virtù
dell'apposito sistema, proprio di tale metodo di
valutazione, secondo cui 1 indicava la parità, 2 la
preferenza minima, 3 la preferenza piccola, 4 la preferenza
media, 5 la preferenza grande e 6 la preferenza massima),
dalla cui somma è derivato poi il punteggio attribuito ad
ogni progetto offerto nell'ambito della griglia di
valutazione contenuta nel bando di gara.
Non può pertanto ragionevolmente dubitarsi che …. le
determinazioni della commissione di gara in ordine alla
valutazione dei singoli elementi costituenti il
progetto-offerta (delle ricorrenti e degli altri
concorrenti) erano pienamente intelligibili, sia pur non
attraverso lo strumento della motivazione argomentativa, ma
attraverso i singoli valori di preferenza espressi da ogni
singolo commissario per i singoli elementi di valutazione"
(Cons. di Stato, sez. V, 28.02.2012, n. 1150);
- "nella procedura di affidamento mediante confronto a
coppie, pertanto, “la "motivazione aritmetica" è sufficiente
e non richiede alcun supplemento motivazionale nel caso in
cui un bando abbia indicato criteri valutativi dettagliati e
adeguati rispetto allo specifico oggetto del contratto messo
a gara” (Cons. di St., sez. V, 28.03.2013, n. 1838).
V.2. Con ulteriore motivo di gravame, la ricorrente deduce
l’anomalia dell’offerta del R.T.I. aggiudicatario,
sostenendo, conseguentemente, che lo stesso dovesse essere
escluso dalla gara.
V.2.1. Il motivo presenta profili di evidente
inammissibilità per carenza di interesse della ricorrente in
ragione del posizionamento in graduatoria, ottava
classificata, e dell’omessa impugnativa di quanti la
precedono.
Si è, in particolare, osservato, secondo un principio di
ordine generale pienamente condiviso dal Collegio, che: “E'
inammissibile per difetto di interesse il ricorso
dell’impresa terza classificata nella graduatoria finale di
una gara d'appalto, qualora essa abbia lamentato l'anomalia
soltanto dell'offerta dell'aggiudicataria e non anche
dell'offerta dell'impresa collocatasi al secondo posto in
graduatoria” (Cons. di St., Ad. plen., 03.02.2014, n. 8)
e, ciò vale, a maggior ragione, qualora il collocamento
della ricorrente sia sensibilmente inferiore
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 12.11.2014 n. 5808 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione
non richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell’amministrazione in relazione al
provvedere.
Infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei
presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi”.
Ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di
demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la
constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in
totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza
che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è
sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso,
essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua
rimozione”.
In relazione ai dedotti vizi motivazionali dell’atto, il
Collegio evidenzia come la giurisprudenza abbia da tempo
affermato che in presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza
di demolizione non richiede, in linea generale, una
specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé
motivazione sufficiente per l’adozione della misura
repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di
un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad
intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi,
non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione
in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I,
19.07.2006, n. 6021); infatti “l’ordinanza di demolizione
di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non
necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione
dei presupposti di fatto e all’individuazione e
qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona,
sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per
l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime
in assenza o in totale difformità del titolo concessorio,
con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto,
essa è sufficientemente motivata con l’accertamento
dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla
sua rimozione” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006
n. 3270)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 12.11.2014 n. 5804 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel vagliare un intervento edilizio consistente
in una pluralità di opere deve effettuarsene una valutazione
globale atteso che “la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprendere l'effettiva portata
dell'operazione.
Né è possibile scomporre un’unica operazione edificatoria in
distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi
soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione,
dovendo piuttosto procedersi a valutarla nella sua
unitarietà.
Deve, inoltre, rilevarsi che
l’intervento edilizio realizzato, pur riguardando una
pluralità di opere deve essere globalmente considerato.
Questa Sezione ha affermato che nel vagliare un intervento
edilizio consistente in una pluralità di opere, come qui
accade, deve effettuarsene una valutazione globale atteso
che “la considerazione atomistica dei singoli interventi
non consente di comprendere l'effettiva portata
dell'operazione” (cfr. in tali sensi, Tar Campania,
Napoli, questa sezione sesta, sentenze n. 5835 del
18.12.2013, n. 1114 del 05.03.2012; n. 26787 del 03.12.2010;
16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n.
7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n.
584); né è possibile scomporre un’unica operazione
edificatoria in distinte fasi, cosicché possano individuarsi
interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a
concessione, dovendo piuttosto procedersi a valutarla nella
sua unitarietà (così la giurisprudenza sopra riportata e
così già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16.07.2001, n.
2955)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 12.11.2014 n. 5804 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il concetto di pertinenza civilistico e quello
urbanistico/edilizio sono da tenere distinti, sicché gli
interventi che, pur essendo accessori a quello principale,
incidono in tutta evidenza sull’assetto edilizio
preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico
devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire.
Senza considerare che le opere edilizie abusive “realizzate
in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano
eseguite in totale difformità dalla concessione e, se
costituenti pertinenze, non sono suscettibili di
autorizzazione in luogo della concessione".
--------------
Al fine di verificare se una determinata opera ha carattere
precario, che è condizione per l'accertamento della non
necessarietà del rilascio della relativa concessione
edilizia, occorre verificare la destinazione funzionale e
l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata;
pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali
a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea,
destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo,
entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di
carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il
permesso di costruire.
Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va
valutata con riferimento non alle modalità costruttive,
bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza
che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze
meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione
perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante, ed è legittima l'ordinanza di demolizione di
opere che, pur difettando del requisito
dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili),
consistano in una struttura destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la
precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non
assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa
non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è
destinato e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla
rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai
proprietari.
A parte il rilievo che i
ricorrenti nemmeno indicano rispetto a quale manufatto le
opere sarebbero pertinenziali vale quanto da tempo affermato
dalla giurisprudenza secondo cui “il concetto di
pertinenza civilistico e quello urbanistico/edilizio sono da
tenere distinti, sicché gli interventi che, pur essendo
accessori a quello principale, incidono in tutta evidenza
sull’assetto edilizio preesistente, determinando un aumento
del carico urbanistico devono ritenersi sottoposti a
permesso di costruire” (cfr. Consiglio di stato, sez. V,
07.04.2011, n. 2159).
Senza considerare che le opere edilizie abusive “realizzate
in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano
eseguite in totale difformità dalla concessione e, se
costituenti pertinenze, non sono suscettibili di
autorizzazione in luogo della concessione” (Tar
Campania, questa sesta sezione, n. 5835 del 18.12.2013 e n.
2245 del 30.04.2013, nel cui seno è richiamata Cass. Penale,
sezione terza, pronuncia n. 2733 del 31.01.1994).
Quest’ultimo ragionamento può essere ripercorso
relativamente ai realizzati sbancamenti e ampliamenti
edilizi descritti nell’ordinanza di demolizione.
Quanto alla asserita precarietà (per i materiali utilizzati)
delle opere descritte sub i), p) q) ed s) del ricorso
(sostituzione della copertura di un terrazzo in lamiera
completa di controsoffittatura in legno; manufatto di 19,5
mq.; baracca di 75 mq., tettoia di 36 mq in legno) la
giurisprudenza ha evidenziato che "Al fine di verificare
se una determinata opera ha carattere precario, che è
condizione per l'accertamento della non necessarietà del
rilascio della relativa concessione edilizia, occorre
verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale
al cui soddisfacimento essa è destinata; pertanto, solo le
opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una
esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo
il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza
l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e,
in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.
Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va
valutata con riferimento non alle modalità costruttive,
bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza
che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze
meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione
perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante, ed è legittima l'ordinanza di demolizione di
opere che, pur difettando del requisito
dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili),
consistano in una struttura destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la
precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non
assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa
non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è
destinato e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla
rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai
proprietari" (Consiglio di Stato, sez. III, 12.09.2012,
n. 4850).
Nella fattispecie, non vi è alcun indice (né viene dedotto –
la precarietà è meramente affermata) della sussistenza dei
requisiti sopra richiamati per considerare le opere precarie
e non soggette a permesso di costruire.
Relativamente al mutamento di destinazione d’uso sub h) si
rileva che la contestazione riguarda la realizzazione delle
relative opere e non il mutamento in sé (che nella
prospettazione di parte ricorrente non avrebbe determinato
aumento del carico urbanistico)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 12.11.2014 n. 5804 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di un intervento edilizio realizzato
in assenza dei prescritti titoli, l'ordine di demolizione
costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non
procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia
di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi.
Con riguardo al paventato
rischio di danneggiare con la demolizione la struttura
preesistente si evidenzia che in presenza di un intervento
edilizio realizzato in assenza dei prescritti titoli,
l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la
possibilità di non procedere alla rimozione delle parti
abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime
costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva,
subordinata alla circostanza dell'impossibilità del
ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Campania
Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 12.11.2014 n. 5804 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Condominio.
Rumore, dai tribunali tutela rafforzata.
Hanno diritto a far interrompere le immissioni di rumore e a
ottenere il risarcimento del danno (sia patrimoniale che non
patrimoniale) i condomini nei cui appartamenti si propagano
rumori provenienti dall’impianto di riscaldamento
condominiale che superano la «normale tollerabilità».
Pertanto non è necessario verificare il rispetto o meno dei
limiti riportati nel Dpcm del 5 dicembre 1997 dedicato alle
immissioni sonore provenienti da impianti interni
all’edificio.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la
sentenza 31.10.2014 n. 23283.
La Cassazione ricorda che «l’articolo 844 del Codice
civile è uno strumento di tutela che consente di ottenere la
cessazione del comportamento lesivo», oltre al
risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto
di proprietà nonché «al risarcimento del danno non
patrimoniale ove siano stati lesi i valori della persona, in
particolare, della salute di chi ha il diritto di godere il
bene compromesso dall’emissione». Per la Cassazione non
conta la circostanza che l’impianto di riscaldamento fosse a
norma e mantenuto a regola d’arte «da personale tecnico
qualificato».
Quindi, il Dpcm del 05.12.1997 è irrilevante nei rapporti
tra privati. Se la Corte accerta che le immissioni sono
intollerabili in base all’articolo 844 del Codice civile
scatta in automatico la responsabilità prevista
dall’articolo 2043 del Codice civile e il connesso
risarcimento del danno e non serve, pertanto, la prova di un
comportamento doloso o colposo del condominio. Di
conseguenza, per la Cassazione, la normativa di diritto
pubblico (cioè il Dpcm) fissa solo le linee guida generali
per la tutela dell’interesse collettivo.
La situazione, in ogni caso, è più complessa di come appare.
Infatti, l’articolo 6-ter del decreto legge 208/2008
stabilisce che «nell’accertare la normale tollerabilità
delle immissioni e delle emissioni acustiche, ai sensi
dell’articolo 844 del Codice civile, sono fatte salve in
ogni caso le disposizioni di legge e i regolamenti che
disciplinano sorgenti e la priorità di un determinato uso».
La formulazione può apparire oscura, ma il suo obiettivo è
chiaro: privilegiare la normativa in materia acustica, che
nel caso in esame sarebbe il Dpcm del 1997, rispetto ai
criteri abitualmente impiegati in sede civilistica.
La sentenza 23283 segue altre due pronunce della Cassazione
del medesimo tenore, vale a dire la 2319/2011 e la 939/2011,
confermando un orientamento che elimina le certezze create
dal Dl 208/2008. Le due sentenze del 2011, in realtà, fanno
riferimento a cause iniziate prima dell’entrata in vigore
del Dl 208/2008; nelle loro motivazioni non citano il Dl e
quindi non affrontano l’apparente incongruenza tra le
decisioni e la nuova legge. La conseguenza di questo “garbuglio”
normativo è stata l’incremento della litigiosità sul tema
delle immissioni sonore, poiché il criterio della “tollerabilità”
rende nella pratica intollerabile qualunque rumore appena
avvertibile.
Sul tema si attendono ora le nuove disposizioni del Governo,
che con la Legge europea 2013-bis (legge 161/2014) ha
ricevuto la delega per adeguarsi alle regole europee
sull’inquinamento acustico, inclusa la semplificazione delle
procedure autorizzative in materia di requisiti acustici
passivi degli edifici
(articolo
Il Sole 24 Ore del 12.01.2015).
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MASSIMA
L'accertamento del superamento della
soglia della normale tollerabilità di cui all'art. 844 cod.
civ., comporta nella liquidazione del danno da immissioni,
sussistente in "re ipsa", l'esclusione di qualsiasi criterio
di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità
dell'uso, in quanto venendo in considerazione, in tale
ipotesi, unicamente l'illiceità del fatto generatore del
danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell'azione
generale di risarcimento danni di cui all'art. 2043 c.c. e,
specificamente, per quanto concerne il danno alla salute,
nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi
dell'art. 2059 cod. civ.. |
PUBBLICO IMPIEGO: Nei
concorsi si salva la brutta. La scaletta degli appunti non è
segno di riconoscimento.
Il Tar Puglia: lo schema risponde a un'esigenza
di un'ordinata stesura del compito.
Nell'ambito di concorsi e selezioni pubbliche non può essere
interpretato come segno di riconoscimento la scaletta
appuntata dal candidato sul foglio recante la traccia della
prova giacché essa risponde all'evidente esigenza di
organizzare la stesura del compito scritto.
Lo ha stabilito il TAR Puglia-Bari, Sez. II, con la
sentenza 10.10.2014 n. 1178.
Nel caso di specie un giovane medico ha partecipato ad una
selezione pubblica per l'accesso alla scuola di
specializzazione in ortopedia e traumatologia. Il candidato
si è visto escludere dalla graduatoria finale perché ha
utilizzato uno dei fogli forniti dalla commissione per
redigere una scaletta, poi inserita nella busta assieme agli
altri elaborati della prova scritta. Secondo la commissione
di gara, gli appunti allegati dal candidato avrebbero
rappresentato un chiaro segno di riconoscimento, sicché il
provvedimento di esclusione sarebbe stato un atto dovuto.
Il medico ha, quindi, proposto ricorso innanzi al tribunale
amministrativo. Il giudice ha accolto la domanda cautelare
proposta, per l'effetto sospendendo il provvedimento di
esclusione e ordinando all'amministrazione di correggere lo
scritto. All'esito della valutazione obbligata il candidato
è risultato vincitore. Il provvedimento cautelare è stato
peraltro confermato in sede d'appello dal Consiglio di
stato, adito da altra partecipante rimasta lesa dalla
vittoria posticipata del ricorrente.
La sentenza in esame tratta il merito della vicenda, e
conferma l'apprezzamento reso in sede cautelare in ordine
alla illegittimità del provvedimento di esclusione adottato
dalla commissione.
Secondo il Tar, infatti, la busta del candidato escluso non
avrebbe contenuto alcun segno di riconoscimento propriamente
detto. I giudici amministrativi hanno osservato come,
nell'ambito dei concorsi pubblici, la regola dell'anonimato
non possa essere interpretata nel senso che ogni astratta
possibilità di diversità tra gli elaborati vada qualificata
come segno di riconoscimento, bensì «solo quando il segno
oggetto di esame assuma un carattere anomalo rispetto alle
ordinarie manifestazioni del pensiero»; in quest'ottica,
si spiega, «non può essere interpretato quale segno di
riconoscimento la cd. scaletta appuntata dal candidato sul
foglio recante la traccia della prova giacché risponde
all'evidente esigenza di organizzare la stesura del compito
scritto».
Il Tar si spinge oltre, affermando come i contrassegni che
si rinvengono nella minuta (dove si riportano, ad esempio,
l'elenco degli argomenti da sviluppare o l'orario di inizio
e termine della prova) rimangono ad ogni modo relegati al
segreto della busta, sicché «non assumono un carattere
oggettivamente e incontestabilmente anomalo, tale che ad
essi possa ricondursi l'astratta idoneità a fungere da
elemento identificativo delle generalità del concorrente».
Sulla scorta di queste argomentazioni il ricorso è stato
accolto anche nel merito, e il candidato è riuscito ad
aggiudicarsi il posto nella scuola di specializzazione. La
pronuncia merita apprezzamento per la lettura solidaristica
offerta dai giudici del Tar e, tuttavia, il principio di
diritto affermato non scioglie ogni dubbio sul problema
della identificabilità dei candidati: anche gli appunti in «brutta»,
infatti, possono rappresentare un elemento efficace per
falsare i risultati della selezione sol che si consideri la
possibilità, per la commissione, di prenderne visione
siccome allegata agli altri elaborati della prova (articolo
ItaliaOggi Sette del 05.01.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Appalto senza concessione ko. Il contratto non
può essere convalidato retroattivamente.
La Cassazione non trascura però l'esistenza di
orientamenti meno severi in materia.
Il contratto di appalto per la costruzione di un immobile
senza concessione edilizia è nullo, avendo un oggetto
illecito, per violazione delle norme imperative in materia
urbanistica e non può essere convalidato in virtù di una
concessione posticipata con effetti retroattivi.
Lo ha stabilito la seconda sezione civile della Corte di
Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 09.10.2014 n. 21350.
Nel caso concreto il proprietario di un terreno alluvionato
ha concluso un contratto di appalto per la realizzazione di
un fabbricato da adibire a stalla. L'appaltatore ha
realizzato il lavoro commissionato ma, all'atto della
richiesta di pagamento, si è visto eccepire il rifiuto del
committente. All'imprenditore non è rimasto che rivolgersi
al giudice ordinario, il quale ha concesso un decreto
ingiuntivo per la somma dei lavori pattuita dai due
contraenti.
Il committente si è prontamente opposto al decreto spiegando
il perché non volesse onorare i suoi debiti: da un lato, ha
osservato come il contratto di appalto fosse nullo a cagione
della mancanza del permesso di costruire per realizzare la
stalla; dall'altro ha sottolineato al giudice
l'inadempimento dell'appaltatore, reo di avergli consegnato
l'opera finita con grande ritardo. L'opposto si è difeso
rimarcando che l'assenza del permesso fosse circostanza nota
fin dall'inizio, e comunque irregolarità sanata con effetto
retroattivo dalla concessione successivamente rilasciata
dall'ente; quanto al ritardo nella consegna, invece, il
costruttore ha insistito nel ribadire che questo non poteva
essergli addebitato perché dovuto alle condizioni climatiche
che avevano reso impossibile il rispetto delle tempistiche.
Il tribunale, con sentenza confermata in sede di appello, ha
rigettato l'opposizione del committente. Per entrambi i
giudici di merito, infatti, doveva escludersi la nullità del
contratto di appalto, essendo stato accertato che la
concessione edilizia, già richiesta prima dell'inizio dei
lavori, era stata rilasciata posticipatamente, con efficacia
retroattiva e con idoneità, anche in ipotesi di concessione
in sanatoria, a determinare l'estinzione del reato di abuso
edilizio, in relazione all'accertamento di conformità e di
non contrasto delle opere in questione con lo strumento
urbanistico vigente.
Il committente, fermo nel non voler onorare il proprio
debito, si è rivolto, in ultima istanza, alla Suprema corte
di cassazione cui è stato chiesto l'annullamento della
sentenza della Corte territoriale. Il proprietario ha
insistito nel ribadire la nullità del contratto stipulato
finanche in presenza della concessione retroattiva, stante
l'impossibilità di procede alla convalida di un contratto
nullo. Di talché, ha osservato la difesa del costruttore,
una cosa sono gli effetti prodotti dalla concessione sul
piano amministrativo e penale, altro è la validità del
contratto a monte.
Gli Ermellini, nel dare ragione al ricorrente, hanno
tacciato di erroneità l'apprezzamento svolto dalla Corte
d'appello: la concessione edilizia, infatti, non può
sopperire anche all'invalidità originaria cui va affetto il
contratto d'appalto per l'esecuzione di lavori. La decisione
dei giudici di secondo grado, secondo la Corte, si pone in
contrasto con il principio, già in passato affermato,
secondo cui «il contratto di appalto per la costruzione
di un immobile senza concessione edilizia è nullo, ai sensi
degli artt. 1346 e 1418 c.c., avendo un oggetto illecito,
per violazione delle norme imperative in materia
urbanistica, con la conseguenza che tale nullità, una volta
verificatasi, impedisce sin dall'origine al contratto di
produrre gli effetti suoi propri e ne impedisce anche la
convalida ai sensi dell'art. 1423 c.c.».
La Corte non trascura l'esistenza di orientamenti meno
severi in materia: alcune Corti, in particolare, hanno
precisato che «l'illiceità del contratto di appalto è
ravvisabile solo ove esso sia, di fatto, eseguito in carenza
di concessione e non pure per il solo fatto che quest'ultima
sia rilasciata dopo la data della stipulazione del
contratto, di appalto, ma prima della realizzazione
dell'opera». In questi caso, si osserva, non sarebbe
conforme alla «mens legis» la sanzione di nullità di
un contratto il cui adempimento sia stato, per espressa
volontà delle parti, posposto al previo ottenimento della
concessione o autorizzazione richiesta.
Nella vicenda in esame, tuttavia, la concessione edilizia
era pervenuta quando i lavori erano stati da tempo eseguiti.
Non si verteva, quindi, nel caso di contratto
sospensivamente condizionato, in forza di presupposizione,
al previo ottenimento dell'atto amministrativo, mancante al
momento della relativa stipulazione, bensì in quello di
contratto interamente eseguito cui ha fatto seguito il
provvedimento autorizzatorio. Per questo motivo la Corte ha
rigettato il ricorso, per l'effetto affermando la nullità
del contratto e ribadendo, ai fini civilistici, la totale
irrilevanza dell'estinzione dell'illecito penale per
abusivismo edilizio (articolo ItaliaOggi Sette del
12.01.2015). |
APPALTI:
RUP non può fare commissario di gara.
Con la
sentenza 09.10.2014 n. 1630 il TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
applica allo specifico
settore degli appalti pubblici due principi cardine
del diritto amministrativo: l’onere di
tempestiva impugnazione del provvedimento immediatamente
lesivo della sfera giuridica del privato e la necessità di
una diversificazione dei ruoli all’interno del procedimento
amministrativo ai fini dell’imparzialità dell’azione
amministrativa.
Esaminiamo più nel dettaglio le due questioni.
A fronte del tentativo di uno degli operatori economici non
aggiudicatari di denunciare l’esistenza di presunte
contraddittorietà nei documenti di gara solo dopo
l’aggiudicazione, il TAR ricorda come l’interesse del
candidato al corretto svolgimento della procedura venga
inciso già al momento della pubblicazione del bando
deficitario della necessaria chiarezza, per cui è onere del
soggetto, che da tale provvedimento ritenga di subire un
pregiudizio, contestarne immediatamente la legittimità,
senza attendere l’esito della procedura.
Infatti, l’inerzia inizialmente serbata di fronte ai
presunti vizi della documentazione di gara si traduce,
inevitabilmente, in un’acquiescenza tacita alle regole poste
dalla lex specialis, con conseguente impossibilità di
una sua successiva impugnazione.
Tale principio è, del resto, espresso dall’art. 120, co. 5,
del D.Lgs. 02.07.2010, n. 104 recante il Codice del processo
amministrativo, laddove precisa che i termini per il ricorso
avverso gli atti relativi alle procedure di affidamento dei
contratti pubblici decorrono, “per i bandi e gli avvisi
con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla
pubblicazione….. ovvero, in ogni altro caso, dalla
conoscenza dell’atto”.
Correttamente, quindi, il TAR calabrese ha optato per la
reiezione delle eccezioni sollevate dal ricorrente nei
confronti del disciplinare di gara e del capitolato speciale
d’appalto, dichiarandone l’inammissibilità per tardività.
Infatti, l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici che
si consolidano sulla base di un provvedimento
amministrativo, ancorché illegittimo, come un bando di gara,
risulta preminente rispetto alla scelta del singolo di
concorrere all’acquisizione di un certo bene della vita
secondo delle regole che ritiene errate e che si riserva di
contestare solo una volta che la competizione si sia
conclusa con un epilogo a lui sfavorevole.
L’altro principio di diritto che il Tribunale amministrativo
enuncia con particolare rigore è costituito dal divieto per
il RUP di partecipare, come membro, alla Commissione
giudicatrice di cui all’art. 84 del D.Lgs. 12.04.2006, n.
163.
Tale norma reca la disciplina dell’organo collegiale
incaricato di valutare l’offerta tecnica degli operatori
economici partecipanti ad una gara da aggiudicare secondo il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La Commissione giudicatrice si inserisce, quindi, in una
fase cruciale della procedura di gara, essendo chiamata ad
esprimersi sul pregio tecnico-qualitativo della proposta
formulata dal concorrente, secondo i criteri indicati dal
bando di gara e dalla documentazione complementare.
Il comma quarto della disposizione in esame recita
testualmente che: “I commissari diversi dal Presidente
non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente
al contratto del cui affidamento si tratta”.
Secondo il Collegio giudicante, tale norma è posta a
presidio dell’imparzialità dell’azione amministrativa nello
specifico settore degli affidamenti, in quanto volta ad
impedire che nel procedimento formativo della volontà del
soggetto pubblico rientrino figure che hanno svolto
precedenti funzioni endoprocedimentali idonee a
condizionarne il giudizio.
Per i giudici, il RUP è una di queste.
Le attività che competono al funzionario designato quale RUP
sono, infatti, così numerose ed incisive che la sua
partecipazione alla Commissione giudicatrice è ritenuta
illegittima in quanto idonea a vulnerare l’esigenza di
mantenere nettamente distinte, nell’ambito del procedimento
amministrativo finalizzato all’affidamento di un contratto
pubblico, le funzioni istruttoria e decidente, sul
presupposto che chi è chiamato ad esprimere
discrezionalmente le proprie valutazioni in tanti momenti
cruciali della procedura finisce inevitabilmente per essere
influenzato dalle posizioni ideologiche alle quali in tali
occasioni è approdato e non è in grado, pertanto, di
esprimere un giudizio obiettivo e neutrale sul pregio
tecnico di un’offerta.
Una breve disamina dei compiti assegnati al RUP dal D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 recante il Codice dei contratti pubblici
e dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207, che ne costituisce il
Regolamento di attuazione ed esecuzione, contribuirà a
lumeggiare le ragioni di questa incompatibilità.
L’art. 10 del Codice, rubricato “Responsabile delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture”, nel descrivere
i compiti che spettano al RUP, offre una significativa
istantanea dell’ampiezza delle sue prerogative.
Già l’esordio della disposizione, che individua un
responsabile “unico” per le fasi di progettazione,
affidamento ed esecuzione di ogni contratto pubblico, è
fortemente sintomatico della peculiarità delle funzioni
svolte.
La competenza del RUP, infatti, non si limita alla
conduzione della fase di individuazione del contraente che,
essendo governata da norme di diritto amministrativo,
troverebbe già nella Legge 07.08.1990, n. 241 la propria
ragion d’essere; la sua competenza abbraccia anche la fase
di esecuzione del contratto, nella quale, a mente dell’art.
2, co. 4, del Codice, trovano ingresso istituti e principi
propri del diritto privato.
Particolarmente indicativa è, poi, l’espressione contenuta
nel comma secondo dell’art. 10 in esame, secondo cui “Il
responsabile del procedimento svolge tutti i compiti
relativi alle procedure di affidamento previste dal presente
codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, e alla
vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non
siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.
Il RUP, in sostanza, ha una competenza residuale, che attrae
al proprio interno tutti i compiti non espressamente
attribuiti dalla legge ad altre figure.
Dalla lettura delle varie disposizioni dedicate al RUP, in
particolare degli artt. 9, 10, 272 e 273 del D.P.R.
05.10.2010, n. 207, che vanno nel dettaglio ad indicare i
compiti enunciati in nuce dall’art. 10 del Codice, emerge
l’attribuzione al RUP di un ruolo di impulso, di proposta,
di indirizzo e coordinamento, di verifica delle attività
svolte dagli altri organi della procedura nonché,
ovviamente, della tradizionale funzione istruttoria, che
accentra nel RUP ampi poteri nelle fasi più delicate
dell’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione.
Sul RUP grava, in definitiva, un obbligo di risultato:
quello di concludere il procedimento, affrontando e
risolvendo tutti gli accidenti che gli si presentano lungo
un percorso dove solo parzialmente la sua azione è vincolata
da norme immediatamente precettive e, più spesso, la scelta
della soluzione del caso concreto è lasciata al suo prudente
apprezzamento, procedendo ad un delicato bilanciamento dei
principi espressi dall’art. 2 del Codice.
A mente di tale norma, “l’affidamento e l’esecuzione di
opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del
presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni
e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità,
efficacia, tempestività e correttezza; l’affidamento deve
altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità
di trattamento, non discriminazione, trasparenza,
proporzionalità, nonché quello di pubblicità…”.
Come ogni branca dell’ordinamento, anche il settore degli
appalti pubblici non si sottrae, infatti, alla constatazione
dell’esistenza di inevitabili lacune normative che,
tuttavia, non esimono il RUP dal cercare la regula iuris
applicabile alla fattispecie che si offre al suo esame ed
utile ai fini della prosecuzione del procedimento,
compiendo, pur nel doveroso rispetto dei principi regolatori
della materia, una scelta inevitabilmente discrezionale.
Tuttavia, i contesti in cui il RUP è chiamato ad esercitare
i poteri discrezionali che gli competono ne fanno una figura
“sbilanciata” che, in quanto tale, pregiudicherebbe
la necessaria imparzialità richiesta alla Commissione
giudicatrice.
Innanzitutto, il ruolo del RUP è decisivo nella
determinazione delle clausole del bando di gara ed, in
particolare, dei requisiti di partecipazione, quindi delle
regole in base alle quali gli operatori economici
concorreranno all’aggiudicazione (artt. 10, co. 1, lett. d)
e 273, co. 1, lett. c) del Regolamento).
Nella modulazione dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-professionale richiesti ai
fini della partecipazione alla gara, il RUP deve evitare che
siano fissati “senza congrua motivazione, limiti di
accesso connessi al fatturato aziendale” (art. 41, co.2,
del Codice per i requisiti economici) e che le informazioni
richieste non eccedano l’oggetto dell’appalto (art. 42, co.
3, del Codice per i requisiti tecnici).
La previsione di tali limiti, che costituiscono diretta
applicazione dei principi di proporzionalità e del favor
partecipationis, non esclude, tuttavia, la presenza di
ampi margini di discrezionalità in capo al soggetto
incaricato di proporre, avallare ed, in ogni caso,
determinare la lex specialis della procedura, ossia
il RUP.
Altro passaggio cruciale del procedimento, nel quale
troneggia la figura del RUP, è quello nel quale si decide
dell’eventuale esclusione di un concorrente per le
irregolarità della documentazione presentata dove,
nonostante gli accorgimenti linguistici utilizzati dalle
recenti novelle legislative, l’attività valutativa del RUP è
ancora significativamente estesa.
Si pensi all’istituto della regolarizzazione disciplinata
dall’art. 46 del Codice dove, se si era conosciuto un
parziale ridimensionamento della discrezionalità del RUP con
l’introduzione di un elenco tassativo delle cause di
esclusione (comma 1-bis) e la corrispondente lettura datane
dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici con la
determinazione n. 4 del 10.10.2012, si è assistito ad una
reviviscenza della discrezionalità del RUP con le ultime
novità introdotte dal D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito,
con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114.
Per effetto di tale intervento legislativo, è stato inserito
un comma 2-bis nell’art. 38 che commina una sanzione
pecuniaria, da quantificare in sede di bando, per i casi in
cui i concorrenti presentino delle dichiarazioni sostitutive
sul possesso dei requisiti di ordine generale irregolari o
incomplete, salvo che si tratti di “casi di irregolarità
non essenziali ovvero di mancanza o incompletezza di
documenti non indispensabili”, nei quali è esclusa sia
la richiesta di regolarizzazione che l’applicazione della
sanzione.
Ancora una volta, si attribuisce al RUP un’ampia
discrezionalità nel giudizio sull’essenzialità o
indispensabilità del documento e, quindi, sulla sorte del
candidato.
Tuttavia, ai sensi dell’art. 84, co. 4, del Codice, lo
svolgimento di altri incarichi di natura amministrativa non
solo impedisce l’assolvimento dell’incarico di commissario
ma è, a sua volta, da questo impedito.
L’incarico di commissario crea, cioè, un’incompatibilità
anche rispetto alla futura assunzione di incarichi tecnici
ed amministrativi nell’ambito della medesima procedura.
Pertanto, il soggetto che facesse parte della Commissione
giudicatrice non potrebbe successivamente essere designato
quale RUP e procedere, di conseguenza, alla verifica
dell’anomalia delle offerte.
Con riferimento a tale subprocedimento, il D.P.R.
05.10.2010, n. 207 ha definitivamente chiarito che compete
al Responsabile del procedimento chiedere e valutare le
giustificazioni di cui all’art. 87 del Codice ai concorrenti
che abbiano presentato un’offerta sospettata di anomalia
(art. 121 per i lavori pubblici e art. 284 per i servizi e
le forniture).
La verifica dell’anomalia si colloca, quindi in una fase
successiva all’apertura delle offerte, in particolare a
valle dell’attribuzione dei punteggi per la componente
tecnico-qualitativa.
Si comprende bene come il RUP non si troverebbe nella
condizione di neutralità necessaria a scrutinare
oggettivamente la congruità di un’offerta laddove, in un
momento immediatamente antecedente, avesse espresso il
proprio giudizio sul “peso” tecnico della stessa.
Si afferma, così, il principio secondo cui solo il rispetto
dell’alterità dei ruoli, quale espressione anche di una
funzione di controllo che ciascun organo della procedura
deve assolvere sull’operato dell’altro, riesca a garantire
quell’esigenza di imparzialità che, intesa quale necessaria
equidistanza della Pubblica Amministrazione rispetto agli
interessi in gioco, l’art. 97 della Costituzione codifica
come canone fondamentale dell’azione amministrativa.
Perché, riprendendo una suggestiva espressione riportata nel
testo della sentenza del 1° aprile 2009, n. 2070 del
Consiglio di Stato, “icasticamente può quindi affermarsi
che l’amministrazione o è imparziale o non è”
(link a www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel caso di mutamento di destinazione d'uso,
anche senza opere, da artigianale a commerciale, trattandosi
di un cambiamento implicante il passaggio ad una categoria
funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico va
rilevato che ai sensi dell'art. 19, d.P.R. n. 380 del 2001,
il sopravvenuto mutamento della destinazione d'uso, anche in
assenza di interventi, comporta comunque l'insorgenza del
presupposto imponibile per la debenza del contributo dovuto,
compreso quello relativo al costo di costruzione.
Ciò a maggior ragione se, come nel caso in esame, il cambio
di destinazione è avvenuto con opere. E’ noto come il
contributo relativo al costo di costruzione sia il
corrispettivo dovuto in presenza di una trasformazione
edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di
opere, si riveli produttiva di vantaggi economici per il suo
autore; situazione, questa, che si verifica anche nel caso
di mutamento d'uso, intendendo per tale ogni variazione
anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico e che determini comunque un aumento del c.d.
carico urbanistico.
---------------
In caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di
corrispondere il contributo concessorio è un principio
enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n.
10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n.
47/1985, la cui "ratio", come chiarito dalla giurisprudenza,
è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la
nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato
all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico,
attraverso la modifica della destinazione il contributo
possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del
richiedente".
---------------
Nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato dal
ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di
intervento da una classe contributiva originaria e meno
"pesante" (artigianale) ad un'altra tipologia (commerciale),
non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico
urbanistico.
Si è trattato, cioè, di un cambio di destinazione d'uso
intervenuto tra categorie autonome, quella artigianale e
quella commerciale, che ha comportato un aumento del carico
urbanistico con conseguente mutamento degli "standard".
Presupposto, questo, sufficiente a giustificare la richiesta
di contributo per oneri di urbanizzazione.
---------------
I provvedimenti relativi alla determinazione degli oneri
concessori e dell'oblazione non necessitano di motivazione
in ordine alla somma indicata, in quanto risultano da un
mero calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali
indicazioni normative, senza che in proposito residui un
margine di discrezionalità.
Non è pertanto configurabile, a carico dell'Amministrazione,
un onere di specificare le ragioni della decisione adottata,
sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei
conteggi effettuati dall'ente.
1.2 Con riguardo alla qualificazione delle modifiche oggetto
dell’istanza come mero cambio di destinazione d’uso con
opere, la tesi di parte ricorrente non può essere condivisa.
Difatti, nel caso di mutamento di destinazione d'uso, anche
senza opere, da artigianale a commerciale, trattandosi di un
cambiamento implicante il passaggio ad una categoria
funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico va
rilevato che ai sensi dell'art. 19, d.P.R. n. 380 del 2001,
il sopravvenuto mutamento della destinazione d'uso, anche in
assenza di interventi, comporta comunque l'insorgenza del
presupposto imponibile per la debenza del contributo dovuto,
compreso quello relativo al costo di costruzione (Tar Veneto
26.11.2012 1445).
Ciò a maggior ragione se, come nel caso in esame, il cambio
di destinazione è avvenuto con opere. E’ noto come il
contributo relativo al costo di costruzione sia il
corrispettivo dovuto in presenza di una trasformazione
edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di
opere, si riveli produttiva di vantaggi economici per il suo
autore; situazione, questa, che si verifica anche nel caso
di mutamento d'uso, intendendo per tale ogni variazione
anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico e che determini comunque un aumento del c.d.
carico urbanistico (CdS Sez. IV 14.10.2011 n. 5539).
1.3 Riguardo l’affermazione di parte ricorrente per cui gli
oneri avrebbero dovuto essere rapportati al cambio di
destinazione d’uso e non alla nuova costruzione, il Collegio
osserva come, in caso di cambio di destinazione d'uso
l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio sia un
principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della
legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della
legge n. 47/1985, la cui "ratio", come chiarito dalla
giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare
che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile
avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime
contributivo urbanistico, attraverso la modifica della
destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in
parte a vantaggio del richiedente" (CdS sez. V,
07.12.2010, n. 8620, 30.08.2013 n. 426).
Né la delibera di Consiglio Comunale n. 177 del 28.05.1979,
citata dal ricorrente e allegata al ricorso, può essere
interpretata nel senso di superare tale fondamentale
principio, nella parte in cui prescrive l’abbattimento del
costo di costruzione del 50% in caso di ristrutturazione con
cambio di destinazione d’uso e senza modifica di strutture
portanti.
Ancora, non possono essere applicati gli oneri di
urbanizzazione previsti nella delibera di Giunta Comunale n.
2449 del 29.11.1994 per il caso di ristrutturazione edilizia
con cambio di destinazione. Difatti, la presenza di un
cambio di destinazione d’uso da artigianale a commerciale,
con il corredato aumento di carico urbanistico che
caratterizza quest’ultima destinazione, indubbiamente lascia
la possibilità all’Amministrazione di valutare se, ai fini
della determinazione degli oneri, risulti prevalente il
cambio di destinazione o il tipo di intervento (si veda in
materia il condivisibile ragionamento in Tar Piemonte
27.03.2013 n. 381).
Come nota il Comune, in caso contrario si creerebbe un
cortocircuito logico che renderebbe i cambi di destinazione
senza opere, in presenza di aumento di carico urbanistico,
più costosi di quelli con opere, qualora quest’ultimi
fossero riconducibili allo sconto previsto per le
ristrutturazioni dalla citata delibera 177/1979.
Correttamente, il Comune ha quindi qualificato il cambio di
destinazione da artigianale a commerciale come “nuova
costruzione”, anche tenuto che la precedente
costruzione, con destinazione artigianale non era tenuta al
pagamento del costo di costruzione, con conseguente
pagamento degli oneri “per differenza” ai sensi
dell’art. 2 lett. f) del Regolamento Comunale.
1.4 Nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato
dal ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di
intervento da una classe contributiva originaria e meno "pesante"
(artigianale) ad un'altra tipologia (commerciale), non solo
diversa ma anche più gravosa in termini di carico
urbanistico. Si è trattato, cioè, di un cambio di
destinazione d'uso intervenuto tra categorie autonome,
quella artigianale e quella commerciale, che ha comportato
un aumento del carico urbanistico con conseguente mutamento
degli "standard". Presupposto, questo, sufficiente a
giustificare la richiesta di contributo per oneri di
urbanizzazione.
2 Ancora, con riguardo all’affermato calcolo errato
dell’oblazione per avere computato metri cubi in eccesso, va
specificato che i provvedimenti relativi alla determinazione
degli oneri concessori e dell'oblazione non necessitano di
motivazione in ordine alla somma indicata, in quanto
risultano da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla
base di puntuali indicazioni normative, senza che in
proposito residui un margine di discrezionalità. Non è
pertanto configurabile, a carico dell'Amministrazione, un
onere di specificare le ragioni della decisione adottata,
sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei
conteggi effettuati dall'ente (da ultimo Tar Lazio Roma
18.02.2014 n. 2015).
Nel caso in esame, i calcoli effettuati dal Comune sono
contestati con calcoli di parte (depositati unitamente al
ricorso) che risultano generici, dato che il Comune medesimo
ha depositato la documentazione fornita dal ricorrente per
la sanatoria, ove i vani dei quali il ricorrente chiede lo
scorporo in quanto ingressi comuni ad altre parti di
edificio non sono stati indicati e scorporati (tavole 7 e
9). Il calcolo è stato quindi correttamente effettuato sulla
base della documentazione presentata dal ricorrente
medesimo, in allegato all’istanza di sanatoria (TAR Marche,
sentenza 06.10.2014 n. 816 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In tema di legittimazione di un comitato di
cittadino per la protezione degli interessi ambientale, la
giurisprudenza, che con indirizzo uniforme e consolidato ha
originariamente ritenuto sicuramente legittimate le sole
associazioni protezionistiche espressamente individuate con
apposito decreto ministeriale ai sensi del combinato
disposto degli artt. 13 e 18 della legge n. 349 del 1986, al
fine di evitare il possibile configurarsi di un’azione
popolare, ha progressivamente ammesso la possibilità di
valutare per caso la legittimazione (ad impugnare i
provvedimenti amministrativi i materia di ambiente e
conseguentemente anche quella ad intervenire nei relativi
giudizi) anche in capo ad associazioni locali
(indipendentemente dalla loro natura giuridica), purché
perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi
di natura ambientale, abbiano un adeguato grado di
rappresentatività e stabilità ed abbiano altresì un stabile
collegamento con il territorio in cui è sito il bene che si
assume leso.
E’ stato sottolineato che ai fini della legittimazione non è
sufficiente il solo scopo associativo a rendere
differenziato un interesse diffuso o adespota, facente capo
alla popolazione nel suo complesso, come quello della
salvaguardia dell’ambiente, né l’astratta titolarità del
diritto all’informazione ambientale, specie quando tale
scopo associativo si risolve nell’utilizzazione delle
finalità sociali ed ambientali per superare la carenza delle
concrete ragioni di proposizione dell’azione
giurisdizionale, fermo restando che la necessaria
sussistenza del requisito dello stabile collegamento con il
territorio esclude la legittimazione di quei comitati
occasionali, costituiti cioè proprio ed esclusivamente al
fine di ostacolare specifiche iniziative asseritamente
lesive dell’ambiente o per impugnare specifici atti.
In tema di legittimazione di un comitato di cittadino per la
protezione degli interessi ambientale, la giurisprudenza,
che con indirizzo uniforme e consolidato ha originariamente
ritenuto sicuramente legittimate le sole associazioni
protezionistiche espressamente individuate con apposito
decreto ministeriale ai sensi del combinato disposto degli
artt. 13 e 18 della legge n. 349 del 1986, al fine di
evitare il possibile configurarsi di un’azione popolare, ha
progressivamente ammesso la possibilità di valutare per caso
la legittimazione (ad impugnare i provvedimenti
amministrativi i materia di ambiente e conseguentemente
anche quella ad intervenire nei relativi giudizi) anche in
capo ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro
natura giuridica), purché perseguano statutariamente in modo
non occasionale obiettivi di natura ambientale, abbiano un
adeguato grado di rappresentatività e stabilità ed abbiano
altresì un stabile collegamento con il territorio in cui è
sito il bene che si assume leso (ex multis, Cons.
St., sez. V, 14.06.2007, n. 3192; 17.07.2004, n. 5136; sez.
VI, 26.07.2001, n. 4123).
E’ stato sottolineato che ai fini della legittimazione non è
sufficiente il solo scopo associativo a rendere
differenziato un interesse diffuso o adespota, facente capo
alla popolazione nel suo complesso, come quello della
salvaguardia dell’ambiente, né l’astratta titolarità del
diritto all’informazione ambientale, specie quando tale
scopo associativo si risolve nell’utilizzazione delle
finalità sociali ed ambientali per superare la carenza delle
concrete ragioni di proposizione dell’azione giurisdizionale
(Cons. St., sez. VI, 05.12.2002, n. 6657; sez. V,
09.12.2013, n. 5881), fermo restando che la necessaria
sussistenza del requisito dello stabile collegamento con il
territorio esclude la legittimazione di quei comitati
occasionali, costituiti cioè proprio ed esclusivamente al
fine di ostacolare specifiche iniziative asseritamente
lesive dell’ambiente o per impugnare specifici atti (Cons.
St., sez. V, 18.04.2012, n. 2234; sez. IV, 21.08.2013, n.
4233; 19.02.2010, n. 1001)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4928 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Alla stregua dei principi comunitari e nazionali,
oltre che delle sue stesse peculiari finalità, la
valutazione di impatto ambientale non si sostanzia in una
mera verifica di natura tecnica circa la astratta
compatibilità ambientale dell'opera, ma implica una
complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare
il sacrificio ambientale imposto rispetto all'utilità
socio-economica, tenuto conto anche delle alternative
possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione-zero.
In particolare, è stato evidenziato che "la natura
schiettamente discrezionale della decisione finale (e della
preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante
tecnico ed anche amministrativo, rende allora fisiologico ed
obbediente alla ratio su evidenziata che si pervenga ad una
soluzione negativa ove l'intervento proposto cagioni un
sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il
soddisfacimento dell'interesse diverso sotteso
all'iniziativa; da qui la possibilità di bocciare progetti
che arrechino vulnus non giustificato da esigenze
produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di
soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello
sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra
consumazione delle risorse naturali e benefici per la
collettività che deve governare il bilanciamento di istanze
antagoniste”.
La valutazione di impatto ambientale non è perciò un mero
atto (tecnico) di gestione ovvero di amministrazione in
senso stretto, rientrante come tale nelle attribuzioni
proprie dei dirigenti, trattandosi piuttosto di un
provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria
funzione di indirizzo politico-amministrativo con
particolare riferimento al corretto uso del territorio (in
senso ampio), attraverso la cura ed il bilanciamento della
molteplicità dei (contrapposti) interessi, pubblici
(urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo
economico-sociale) e privati.
---------------
La funzione stessa della valutazione di impatto ambientale
“è preordinata alla salvaguardia dell'habitat nel quale
l'uomo vive, che assurge a valore primario ed assoluto, in
quanto espressivo della personalità umana, attribuendo ad
ogni singolo un autentico diritto fondamentale, di
derivazione comunitaria (direttiva 27.07.1985 n. 85/337/CEE,
concernente la valutazione dell'impatto ambientale di
determinati progetti pubblici e privati); diritto che
obbliga l'amministrazione a giustificare, quantomeno ex post
ed a richiesta dell'interessato, le ragioni del rifiuto di
sottoporre un progetto a V.I.A. all'esito di verifica
preliminare.
A tali fini, l'ambiente rileva non solo come paesaggio, ma
anche come assetto del territorio, comprensivo di ogni suo
profilo, e finanche degli aspetti scientifico-naturalistici
(come quelli relativi alla protezione di una particolare
flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili
estetici della zona”, sottolineandosi che la stessa Corte
Costituzionale, ha affermato che "lo stesso aspetto del
territorio, per i contenuti ambientali e culturali che
contiene, è di per sé un valore costituzionale", da
intendersi come valore "primario".
---------------
E’ stato anche sottolineato che proprio per le finalità cui
è preordinata la valutazione di impatto ambientale, la
disciplina relativa normativa ha prefigurato un modello di
istruttoria aperto ai contributi partecipativi dei soggetti
portatori di interessi pubblici e privati coinvolti
nell'opera, con la conseguenza che l'impegno motivazionale
dell'autorità deliberante è tanto più pregnante quanto più
l'istruttoria abbia fatto emergere, mediante apporti
partecipativi di soggetti, pubblici e privati, anche
esponenziali di interessi collettivi, ricadute
potenzialmente negative sul contesto ambientale ed
insediativo interessato dall'iniziativa, fermo restando che
l’amministrazione, nel rendere il giudizio di valutazione
ambientale, esercita un'amplissima discrezionalità che non
si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale
suscettibile di verificazione tout court sulla base di
oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo
profili particolarmente intensi di discrezionalità
amministrativa e istituzionale in relazione
all'apprezzamento degli interessi pubblici e privati
coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato
giurisdizionale sulla determinazione finale emessa.
---------------
Sono state inoltre delineate le differenze tra valutazione
di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale,
evidenziando che mentre la prima si sostanzia in una
complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare
il sacrificio ambientale imposto dal progetto rispetto
all'utilità socio-economica dallo stesso ritraibile, tenuto
conto anche delle alternativi possibili e dei riflessi sulla
c.d. opzione zero, investendo propriamente gli aspetti
localizzativi e strutturali di un impianto (e più in
generale dell'opera da realizzare), la seconda -introdotta
nel nostro ordinamento in attuazione della direttiva
96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate
dell'inquinamento- è atto che sostituisce, con un unico
titolo abilitativo, tutti i numerosi titoli che erano invece
precedentemente necessari per far funzionare un impianto
industriale inquinante, assicurando così efficacia,
efficienza, speditezza ed economicità all'azione
amministrativa nel giusto contemperamento degli interessi
pubblici e privati in gioco, e incide quindi sugli aspetti
gestionali dell'impianto.
La giurisprudenza ha
ripetutamente affermato (Cons. St., sez. V, 31.05.2012, n.
3254; 22.06.2009, n. 4206; sez. IV, 22.01.2013, n. 361;
05.07.2010, n. 4246; VI, 17.05.2006, n. 2851) che, alla
stregua dei principi comunitari e nazionali, oltre che delle
sue stesse peculiari finalità, la valutazione di impatto
ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura
tecnica circa la astratta compatibilità ambientale
dell'opera, ma implica una complessa e approfondita analisi
comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto
rispetto all'utilità socio-economica, tenuto conto anche
delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d.
opzione-zero; in particolare, è stato evidenziato che "la
natura schiettamente discrezionale della decisione finale (e
della preliminare verifica di assoggettabilità), sul
versante tecnico ed anche amministrativo, rende allora
fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si
pervenga ad una soluzione negativa ove l'intervento proposto
cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello
necessario per il soddisfacimento dell'interesse diverso
sotteso all'iniziativa; da qui la possibilità di bocciare
progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze
produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di
soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello
sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra
consumazione delle risorse naturali e benefici per la
collettività che deve governare il bilanciamento di istanze
antagoniste” (Cons. St, sez. IV, 05.07.2010, n. 4246;
sez. VI, 22.02.2007, n. 933).
La valutazione di impatto ambientale non è perciò un mero
atto (tecnico) di gestione ovvero di amministrazione in
senso stretto, rientrante come tale nelle attribuzioni
proprie dei dirigenti, trattandosi piuttosto di un
provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria
funzione di indirizzo politico-amministrativo con
particolare riferimento al corretto uso del territorio (in
senso ampio), attraverso la cura ed il bilanciamento della
molteplicità dei (contrapposti) interessi, pubblici
(urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo
economico-sociale) e privati.
Ciò del resto è del tutto coerente con la funzione stessa
della valutazione di impatto ambientale che (Cons. St., sez.
IV, 09.01.2014, n. 36), “è preordinata alla salvaguardia
dell'habitat nel quale l'uomo vive, che assurge a valore
primario ed assoluto, in quanto espressivo della personalità
umana (Cons. St., sez. VI, 18.03.2008, n. 1109), attribuendo
ad ogni singolo un autentico diritto fondamentale, di
derivazione comunitaria (direttiva 27.07.1985 n. 85/337/CEE,
concernente la valutazione dell'impatto ambientale di
determinati progetti pubblici e privati); diritto che
obbliga l'amministrazione a giustificare, quantomeno ex post
ed a richiesta dell'interessato, le ragioni del rifiuto di
sottoporre un progetto a V.I.A. all'esito di verifica
preliminare (Corte giust. 30.04.2009, C75/08). A tali fini,
l'ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come
assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e
finanche degli aspetti scientifico-naturalistici (come
quelli relativi alla protezione di una particolare flora e
fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici
della zona”, sottolineandosi che la stessa Corte
Costituzionale (sent. 07.11.2007, n. 367), ha affermato che
"lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti
ambientali e culturali che contiene, è di per sé un valore
costituzionale", da intendersi come valore "primario"
(Corte Cost., sentt. nn. 151/1986; 182/2006), ed "assoluto"
(sent. n. 641/1987).
E’ stato anche sottolineato che proprio per le finalità cui
è preordinata la valutazione di impatto ambientale, la
disciplina relativa normativa ha prefigurato un modello di
istruttoria aperto ai contributi partecipativi dei soggetti
portatori di interessi pubblici e privati coinvolti
nell'opera, con la conseguenza che l'impegno motivazionale
dell'autorità deliberante è tanto più pregnante quanto più
l'istruttoria abbia fatto emergere, mediante apporti
partecipativi di soggetti, pubblici e privati, anche
esponenziali di interessi collettivi, ricadute
potenzialmente negative sul contesto ambientale ed
insediativo interessato dall'iniziativa (Cons. St., sez. V,
18.04.2012, n. 2234), fermo restando che l’amministrazione,
nel rendere il giudizio di valutazione ambientale, esercita
un'amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un
mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di
verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di
misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente
intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in
relazione all'apprezzamento degli interessi pubblici e
privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato
giurisdizionale sulla determinazione finale emessa (Cons.
St., sez. V, 27.03.2013, n. 1783).
Sono state inoltre delineate le differenze tra valutazione
di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale,
evidenziando che mentre la prima si sostanzia in una
complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare
il sacrificio ambientale imposto dal progetto rispetto
all'utilità socio-economica dallo stesso ritraibile, tenuto
conto anche delle alternativi possibili e dei riflessi sulla
c.d. opzione zero, investendo propriamente gli aspetti
localizzativi e strutturali di un impianto (e più in
generale dell'opera da realizzare), la seconda -introdotta
nel nostro ordinamento in attuazione della direttiva
96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate
dell'inquinamento- è atto che sostituisce, con un unico
titolo abilitativo, tutti i numerosi titoli che erano invece
precedentemente necessari per far funzionare un impianto
industriale inquinante, assicurando così efficacia,
efficienza, speditezza ed economicità all'azione
amministrativa nel giusto contemperamento degli interessi
pubblici e privati in gioco, e incide quindi sugli aspetti
gestionali dell'impianto (Cons. St, sez. V, 17.01.2012, n.
5292)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4928 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Obbligo di bonifica e privilegio speciale
immobiliare sul fondo.
Il D.Lgs. n. 152 del 2006 stabilisce che
l'obbligo di bonifica è in capo al responsabile
dell'inquinamento che le autorità amministrative hanno
l'onere di individuare e ricercare (artt. 192, 242 e 244);
che il proprietario dell'area non responsabile
dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno solo la
facoltà di effettuare interventi di bonifica (art. 245); che
nel caso di mancata individuazione del responsabile o di
assenza di interventi volontari, le opere di bonifica sono
realizzate dalle Amministrazioni competenti (art. 250) che,
a fronte delle spese sostenute, si vedono riconosciuto un
privilegio speciale immobiliare sul fondo (253).
Ne consegue che, laddove l'Amministrazione non provi che
l'inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile alla
società, a quest’ultima non può essere imposto alcun obbligo
di adottare misure di bonifica in un'ottica di recupero del
sito.
Deve, inoltre, aggiungersi che la giurisprudenza ha
sottolineato la necessità del rigoroso accertamento del
nesso di causalità fra il comportamento del "responsabile"
ed il fenomeno dell'inquinamento, affermando che tale
accertamento deve essere fondato su una adeguata motivazione
e su idonei elementi istruttori.
3. Venendo alla questione principale, va detto che questo
Collegio non ritiene di discostarsi dalla nota
giurisprudenza, anche di questo TAR, che in materia fa
applicazione del principio europeo “chi inquina paga”
trasfuso nella normativa nazionale, anche nella
considerazione che dal punto di vista fattuale
l’inquinamento ambientale (derivante dall’accumularsi di
materiale inquinato) risulta risalente nel tempo né si è
verificato alcun evento emergenziale, improvviso e
imprevedibile, che non consentisse all’amministrazione il
pieno rispetto della normativa vigente.
Invero, ad avviso di questo Collegio, tanto la disciplina di
cui al d.lgs. n. 22/1997 (in particolare, l'art. 17, comma
2), quanto quella introdotta dal d.lgs. n. 152/2006 (ed in
particolare, gli artt. 240 e segg.), si ispirano al
principio secondo cui l'obbligo di adottare le misure, sia
urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione
d’inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale
situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo
di dolo o colpa. Al contrario, l'obbligo di bonifica o di
messa in sicurezza non può essere invece addossato al
proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità
(nello stesso senso, TAR Sicilia, Catania, Sez. I,
26.07.2007, n. 1254). L'Amministrazione non può, perciò,
imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità
diretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano
individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento
delle attività di recupero e di risanamento.
4. In sostanza, si afferma l'illegittimità degli ordini di
smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario (ovvero gestore a vario titolo) di un fondo in
ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata
dimostrazione da parte dell'amministrazione procedente,
sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente
motivazione (quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni
o su condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità
soggettiva della condotta.
L'enunciato è conforme al principio "chi inquina, paga",
cui si ispira la normativa comunitaria (cfr. art. 174, ex
art. 130/R, del Trattato CE), la quale impone al soggetto
che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i
costi della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione, già sancita dal d.lgs. n. 22/1997,
risulta confermata e specificata dagli artt. 240 e segg. del
d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si
desume l'addossamento dell'obbligo di effettuare gli
interventi di recupero ambientale, anche di carattere
emergenziale, al responsabile dell'inquinamento, che
potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero
il gestore dell'area interessata (TAR Calabria, Catanzaro,
n. 954 del 2012; TAR Toscana, Sez. II, n. 665/2009).
5. Va precisato, in argomento, che il principio "chi
inquina, paga" vale, altresì, per le misure di messa in
sicurezza d'emergenza, secondo la definizione che delle
misure stesse è fornita dall'art. 240, comma 1, lett. m),
del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve
termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza
di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione
repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la
diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione,
impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed
a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di
bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente).
Infatti, anche l'adozione delle misure di messa in sicurezza
d'emergenza è addossata dalla normativa in discorso al
soggetto responsabile dell'inquinamento (cfr. art. 242 del
d.lgs. n. 152 cit.).
Invero, i suddetti principi si attagliano al disposto di cui
all'art. 192 del D.lgs. n. 152/2006, dal momento che
siffatta disposizione legislativa non soltanto riproduce il
tenore dell'abrogato art. 14 del D.lgs. n. 22/1997, con
riferimento alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o
colpa, ma, in più, integra il precedente precetto,
precisando che l'ordine di rimozione può essere adottato
esclusivamente "in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo".
6. Si deve altresì sottolineare che a carico del
proprietario dell'area inquinata, che non sia altresì
qualificabile come responsabile dell'inquinamento, non
incombe alcun obbligo di porre in essere gli interventi in
parola, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area
interessata libera da pesi. Dal combinato disposto degli
artt. 244, 250 e 253 del Codice ambiente si ricava, infatti,
che, nell'ipotesi di mancata esecuzione degli interventi
ambientali in esame da parte del responsabile
dell'inquinamento, ovvero di mancata individuazione dello
stesso -e sempreché non provvedano né il proprietario del
sito, né altri soggetti interessati- le opere di recupero
ambientale sono eseguite dalla P.A. competente, che potrà
rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore
dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non
vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto
dei medesimi interventi (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
10.07.2007, n. 5355; TAR Toscana, Sez. II, 17.09.2009, n.
1448; TAR Toscana, sez. II, 11.05.2010 n. 1397 e 1398).
Nel caso di specie, dalla documentazione in atti non si
evince alcun accertamento istruttorio volto a determinare la
sussistenza dei presupposti soggettivi per l'imposizione, a
carico dell'odierna ricorrente, degli obblighi di messa in
sicurezza; in particolare, né nelle conferenze di servizi
che hanno preceduto l'emanazione degli atti impugnati, né
nei decreti direttoriali impugnati si rinviene alcun
approfondimento istruttorio volto ad accertare un
comportamento dell'odierna ricorrente, che possa aver dato
luogo all'inquinamento dell'area.
7. Per completezza si osserva che l'obbligo di procedere
alla bonifica dell'area non potrebbe neanche essere desunto
dall'applicazione della previsione dell'art. 2051 c.c. (che
regolamenta la responsabilità civile del custode); a
prescindere da ogni considerazione relativa all'aspetto
temporale della problematica (che richiederebbe
l'accertamento della qualità di custode dell'area al momento
dell'inquinamento e non in un periodo di tempo di molto
successivo, come avvenuto nel caso di specie), deve,
infatti, rilevarsi come si tratti di un criterio che si
presenta in contraddizione con i precisi criteri di
imputazione degli obblighi di bonifica previsti dagli artt.
240 e ss. e 252-bis, 2° comma del d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
In buona sostanza, si tratta di una disciplina esaustiva
della problematica che non può certo essere integrata dalla
sovrapposizione di principi (come quello previsto dall'art.
2051 c.c.) desunti da diversa normativa e che
determinerebbero la sostanziale alterazione di un contenuto
normativo improntato a ben diversi principi.
8. A quanto appena rilevato deve, inoltre, aggiungersi che
la giurisprudenza ha sottolineato la necessità del rigoroso
accertamento del nesso di causalità fra il comportamento del
"responsabile" ed il fenomeno dell'inquinamento,
affermando che tale accertamento deve essere fondato su
un’adeguata motivazione e su idonei elementi istruttori
(Cons. di Stato, Sez. VI, 05.09.2005, n. 4525).
Infine, a conferma di quanto fin qui sostenuto occorre
rilevare che anche la giurisprudenza comunitaria si è
orientata nei termini che precedono (Corte di Giustizia,
Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188).
9. Detto principio del "chi inquina paga" consiste,
in definitiva, nell'imputazione dei costi ambientali (ovvero
costi sociali estranei alla contabilità ordinaria
dell'impresa) al soggetto che ha causato la compromissione
ecologica illecita (poiché esiste una compromissione
ecologica lecita data dall'attività di trasformazione
industriale dell'ambiente che non supera gli standard
legali).
Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare
rilevante quanto stabilito dalla Direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio del 21.04.2004, "sulla
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale". Anche tale Direttiva
è conformata dal principio "chi inquina paga", per
cui l'operatore che provoca un danno ambientale o è
all'origine di una minaccia imminente di tale danno,
dovrebbe, di massima, sostenere il costo delle necessarie
misure di prevenzione o di riparazione. Quando l'autorità
competente interviene direttamente o tramite terzi al posto
di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo
da essa sostenuto sia a carico dell'operatore. È inoltre
opportuno che gli operatori sostengano in via definitiva il
costo della valutazione del danno ambientale ed
eventualmente della valutazione della minaccia imminente di
tale danno.
La Direttiva non si applica al danno di carattere diffuso se
non in presenza di un nesso causale tra il danno e
l'attività di singoli operatori.
Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di
effettività della protezione dell'ambiente, che, ferma la
doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con
specifici elementi i responsabili dei fatti di
contaminazione, l'imputabilità dell'inquinamento può
avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive.
In sostanza, la corretta interpretazione della normativa
porta ad escludere che il legislatore abbia voluto
introdurre una sorta di obbligazione "propter rem" di
diritto pubblico (in quanto funzionale al pubblico interesse
e coercibile da parte dell'amministrazione nell'ambito dei
suoi poteri di polizia amministrativa) a carico del
proprietario o del titolare di un diritto reale sul fondo
(ed estesa anche ai titolari di un diritto personale di
godimento, nel caso in cui il contenuto di questo conferisca
al suo titolare i poteri di disposizione necessari per
provvedere alla rimozione), con riferimento all'ipotesi in
cui non sia stato accertato il responsabile del deposito
abusivo di rifiuti, e, cioè, qualora non possa trovare
applicazione la sanzione amministrativa ripristinatoria
prevista.
Ed invero, soltanto nel caso in cui l'obbligazione
ripristinatoria fosse connessa alla mera titolarità del
diritto sul bene (in tal senso "propter rem"), a
prescindere dalla sua responsabilità in ordine alla
formazione di un deposito abusivo attraverso l'abbandono di
rifiuti, si potrebbe pervenire alle conclusioni cui è
pervenuto il Ministero, ma, poiché il legislatore ha
positivamente stabilito l'inserimento della colpa fra gli
elementi costitutivi della fattispecie in discorso, se ne
trae sicura conferma della non condivisibilità dell'esegesi
seguita dallo stesso.
10. Va rilevato che il potere è comunque attivabile anche a
fronte di una situazione di mero pericolo d’inquinamento
come imposto dal principio comunitario di precauzione come
enunciato sin dalla Conferenza di Rio del 2004 (secondo
l'art. 15 del documento conclusivo della Conferenza "in caso
di rischi di danni gravi o irreversibili, l'assenza di
certezze scientifiche non deve servire come pretesto per
rinviare l'adozione di misure efficaci volte a prevenire il
degrado dell'ambiente") e dal principio di doverosa
prevenzione dei danni.
Una significativa applicazione dei suddetti principi e
corollari è stata effettuata dall'Avvocato Generale J.
Kokott nelle conclusioni presentate in data 13.03.2008
relativamente alla causa C-188/07, Comune de Mesquer c.
Total France SA e Total International LTD, relativa ad un
noto caso di inquinamento marino da idrocarburi, con
riguardo all'art. 15 della Direttiva 2006/12/CE.
Dette conclusioni sono state accolte dalla sentenza Corte di
Giustizia, Grande Sezione, del 24.06.2008.
L'Avvocato Generale ha correttamente concluso che «l'addebitamento
a singoli soggetti dei costi dello smaltimento di rifiuti
che essi non hanno prodotto sarebbe incompatibile con il
principio “chi inquina paga”. A fronte di tale richiesta da
parte delle autorità statali gli interessati potrebbero,
pertanto, opporre l'art. 15 della direttiva quadro sui
rifiuti».
L'Avvocato Generale ha argomentato tale conclusione sulla
base di una nota sentenza della Corte di Giustizia (Corte
giust. Ce, 07.09.2004, in causa C-1/2003, Van de Walle et
al.): «La sentenza Van de Walle aveva ad oggetto
idrocarburi fuoriusciti da una stazione di servizio, che
avevano prodotto l'inquinamento del terreno circostante. In
via di principio, la responsabilità di tale evento ricade
sul gestore della stazione di servizio che ha acquistato gli
idrocarburi per le proprie necessità aziendali e pertanto ne
era detentore ed è il soggetto che li aveva in deposito, per
esigenze della sua attività, nel momento in cui sono
divenuti rifiuti ai sensi dell'art. 1, lett. b), della
Direttiva 75/443. Soltanto se il cattivo stato degli
impianti di stoccaggio della stazione di servizio e la
fuoriuscita degli idrocarburi fossero eccezionalmente
imputabili ad una violazione degli obblighi contrattuali
incombenti alla compagnia petrolifera fornitrice della
stazione di servizio, ovvero a diversi comportamenti idonei
a far sorgere la responsabilità della detta compagnia,
quest'ultima sarebbe responsabile. Per effetto della sua
attività, infatti, la compagnia petrolifera avrebbe prodotto
rifiuti ai sensi dell'art. 1, lett. b) , della Direttiva
75/442 ed essa potrebbe dunque essere considerata la
detentrice di tali rifiuti. Secondo la Corte, pertanto, i
costi devono essere sostenuti dal soggetto che ha prodotto i
rifiuti.
I soggetti menzionati nell'art. 15 identificano invece
soltanto l'insieme dei possibili responsabili finanziari,
all'interno del quale, in conformità al principio “chi
inquina paga”, deve essere scelto il soggetto che deve
sostenere i costi. Detta interpretazione del principio “chi
inquina paga” quale principio per la ripartizione dei costi
è conforme ad altre versioni linguistiche che —a differenza
della versione tedesca— non utilizzano il concetto di
causalità, ma affermano che chi inquina paga (Polluter pays,
pollueur-payeur) . [...] Applicato alla normativa
ambientale, ciò consente innanzitutto di concludere che non
è possibile sostenere i costi dello smaltimento di rifiuti
prodotti da altri» (punti 118, 119 e 120).
11. Ed infatti la citata sentenza della Corte giust. Ce,
07.09.2004, in causa C-1/2003, Van de Walle et al., aveva
puntualmente affermato che «dalle disposizioni citate nei
tre punti precedenti risulta che la Direttiva 75/442
distingue la materiale realizzazione delle operazioni di
recupero o smaltimento —che essa pone a carico di ogni
“detentore di rifiuti”, indipendentemente da chi sia il
produttore o il possessore degli stessi— dall'assunzione
dell'onere finanziario relativo alle suddette operazioni,
che la medesima direttiva accolla, in conformità del
principio “chi inquina paga”, ai soggetti che sono
all'origine dei rifiuti, a prescindere se costoro siano
detentori o precedenti detentori dei rifiuti oppure
fabbricanti del prodotto che ha generato i rifiut »
(punto 58).
Per la giurisprudenza interna, Cons. Stato, Sez. V,
16.06.2009 n. 3885; TAR Toscana, Sez. II, 03.03.2010, n.
594; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 26.07.2007, n. 1254; TAR
Toscana, Firenze, Sez. III, 28.04.2011, n. 746; TAR Puglia,
Lecce, Sez. I, ord. 01.12.2010, che ha dichiarato
l'illegittimità di un’ordinanza con la quale è stata
ordinata al proprietario di una cava la bonifica del sito
per l'inquinamento della falda sottostante, nel caso in cui
non sia possibile desumere una situazione di sicura
imputabilità dell'inquinamento al proprietario della cava).
In sostanza, a carico del proprietario dell'area inquinata
non responsabile della contaminazione non incombe, dunque,
alcun obbligo di porre in essere gli interventi ambientali
in questione, avendo solo la facoltà di eseguirli al fine di
evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato,
per l'appunto, da onere reale, al pari delle spese sostenute
per gli interventi di recupero ambientale assistite anche da
privilegio speciale immobiliare.
Pertanto, il provvedimento impositivo della messa in
sicurezza e bonifica ben può essere notificato al
proprietario al fine di renderlo edotto di tale onere (che
egli ha facoltà di assolvere per liberare l'area dal
relativo vincolo), ma non può imporre misure di bonifica
senza un adeguato accertamento della responsabilità, o
corresponsabilità, del proprietario per l'inquinamento del
sito.
12. Va ricordato, in questo contesto, che gli interventi di
messa in sicurezza sono finalizzati non tanto alla
diminuzione del livello di inquinamento dell'area
interessata (obiettivo questo che va perseguito attraverso
l'attivazione delle opere di bonifica) quanto a scongiurare
che la contaminazione in atto si espanda nel terreno o nella
falda in attesa dell'esecuzione di interventi definitivi di
bonifica del sito.
13. Riassumendo e compendiando: il D.Lgs. n. 152 del 2006
(Codice dell'Ambiente) stabilisce che l'obbligo di bonifica
è in capo al responsabile dell'inquinamento che le autorità
amministrative hanno l'onere di individuare e ricercare
(artt. 192, 242 e 244); che il proprietario dell'area non
responsabile dell'inquinamento o altri soggetti interessati
hanno solo la facoltà di effettuare interventi di bonifica
(art. 245); che nel caso di mancata individuazione del
responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere
di bonifica sono realizzate dalle Amministrazioni competenti
(art. 250) che, a fronte delle spese sostenute, si vedono
riconosciuto un privilegio speciale immobiliare sul fondo
(253).
Ne consegue che, laddove l'Amministrazione non provi che
l'inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile alla
società, a quest’ultima non può essere imposto alcun obbligo
di adottare misure di bonifica in un'ottica di recupero del
sito (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.04.2011, n. 2376).
A quanto appena rilevato deve, inoltre, aggiungersi che la
giurisprudenza ha sottolineato la necessità del rigoroso
accertamento del nesso di causalità fra il comportamento del
"responsabile" ed il fenomeno dell'inquinamento,
affermando che tale accertamento deve essere fondato su una
adeguata motivazione e su idonei elementi istruttori.
Infine, a conferma di quanto fin qui sostenuto occorre
rilevare che anche la giurisprudenza comunitaria si è
orientata nei termini che precedono, ritenendo, anche se per
fattispecie diversa, che l'addebito dei costi dello
smaltimento dei rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti
sarebbe incompatibile con il principio "chi inquina paga"
(Corte di Giustizia, Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188).
14. Volendo schematizzare e riepilogare, dalle disposizioni
contenute nel decreto legislativo n. 152 del 2006 (in
particolare nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi
le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è
tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui
all'art. 240, comma 1, lett.1), ovvero "le iniziative per
contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato
una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa
come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un
danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro
prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi
di tale minaccia";
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul
responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al
quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo,
l'inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda
(e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o
altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero
necessari sono adottati dall'Amministrazione competente
(art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono
essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento
(che giustifichi tra l'altro l'impossibilità di accertare
l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi
l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei
confronti del medesimo soggetto ovvero la loro
infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che
risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito
dell'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma
4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato
di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare
(art. 253, comma 2).
15. Peraltro in tale materia rileva altresì il tredicesimo
considerando della direttiva 2004/35/Ce, in cui si legge: "A
non tutte le forme di danno ambientale può essere posto
rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinché
quest'ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o
più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe essere
concreto e qualificabile e si dovrebbero accertare nessi
causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La
responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per
trattare l'inquinamento a carattere diffuso e generale nei
casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali
negativi ad atti o omissioni di taluni soggetti".
Tale considerando, evidenziando l'insufficienza in materia
ambientale della responsabilità civile (sia pure con
riferimento all'inquinamento a carattere diffuso e generale)
mostra, comunque, l'esigenza di individuare criteri di
imputazione del danno ambientale che prescindano dagli
elementi costitutivi dell'illecito civile e, dunque, non
solo dall'elemento soggettivo, ma anche dal rapporto di
causalità.
16. Ancora, appare importante ai fini che in questa sede
rilevano, il considerando n. 24 della citata direttiva
2004/35/Ce in cui si afferma la necessità di "assicurare
la disponibilità di mezzi di applicazione ed esecuzione
efficaci, garantendo un'adeguata tutela dei legittimi
interessi degli operatori e delle altre parti interessate",
conferendo "alle autorità competenti compiti specifici
che implicano appropriata discrezionalità amministrativa,
ossia il dovere di valutare l'entità del danno e di
determinare le misure di riparazione da prendere".
La discrezionalità amministrativa evocata dalla direttiva
potrebbe, invero, essere letta nel senso di sottintendere
anche il potere per l'autorità competente di individuare il
soggetto che si trova nelle condizioni migliori per adottare
le misure di riparazione, anche a prescindere dal rigoroso
accertamento del nesso eziologico.
17. Significativa, inoltre, è anche la previsione dell'art.
8, n. 3, lett. b), della direttiva 2004/35/Ce, secondo cui i
costi delle azioni di prevenzione e di riparazione non sono
a carico dell'operatore "se egli può provare che il danno
ambientale o la minaccia imminente di tale danno è stato
causato da un terzo o si è verificato nonostante l'esistenza
di opportune misure di sicurezza".
Tale disposizione dà rilievo al rapporto di causalità, ma
non in positivo, bensì in negativo, nel senso che la
presenza del nesso di causalità (e, dunque, la necessità che
esso sia dimostrato dall'autorità competente) non sembra
essere condizione necessaria al fine del sorgere della
responsabilità; è, al contrario, la prova, fornita
dall'operatore, dell'assenza del rapporto di causalità, o
meglio la dimostrazione di un nesso eziologico che permetta
di ricondurre l'evento lesivo ad un soggetto terzo, che lo
esonera dalla responsabilità. Sembrerebbe, quindi,
confermata la possibilità di imporre misure di prevenzione e
di riparazione anche senza rapporto di causalità, ferma
restando la possibilità per l'operatore di recuperare i
costi di tali interventi dimostrando che l'evento lesivo è
eziologicamente imputabile ad un soggetto terzo.
18. Da quanto testé illustrato, emerge che, oltre al
principio "chi inquina paga", vengono poi in rilievo
i principi di precauzione, di prevenzione e di correzione,
in via prioritaria alla fonte, dei danni causati
all'ambiente, anch'essi esplicitamente richiamati dall'art.
191, paragrafo 2, TFUE, come fondamenti della politica
dell'Unione in materia ambientale.
I principi di precauzione e di prevenzione rendono legittimo
un approccio anticipatorio ai problemi ambientali, sulla
base della considerazione che molti danni causati
all'ambiente possono essere di natura irreversibile.
Per prevenire il rischio del verificarsi di tali danni, il
principio di precauzione legittima l'adozione di misure di
prevenzione, riparazione e contrasto ad una fase nella quale
il danno non solo non si è ancora verificato, ma non esiste
neanche la piena certezza scientifica che si verificherà. In
altri termini, la ricerca di livelli di sicurezza sempre più
elevati porta ad un consistente arretramento della soglia
dell'intervento delle Autorità a difesa della salute
dell'uomo e del suo ambiente: la tutela diviene "tutela
anticipata" e oggetto dell'attività di prevenzione e di
riparazione diventano non soltanto i rischi conosciuti, ma
anche quelli di cui semplicemente si sospetta l'esistenza.
Il principio di prevenzione presenta tratti comuni con il
principio di precauzione, in quanto entrambi condividono la
natura anticipatoria rispetto al verificarsi di un danno per
l'ambiente. Il principio di prevenzione si differenzia da
quello di precauzione perché si occupa della prevenzione del
danno rispetto a rischi già conosciuti e scientificamente
provati relativi a comportamenti o prodotti per i quali
esiste la piena certezza circa la loro pericolosità per
l'ambiente.
19. Si può evidenziare che, se la ratio dei principi
di precauzione e di prevenzione è quella di legittimare un
intervento dell'autorità competente anche in condizioni di
incertezza scientifica (sulla stessa esistenza del rischio o
delle sue ulteriori conseguenze), sul presupposto che il
trascorrere del tempo necessario per acquisire informazioni
scientificamente certe o attendibili potrebbe determinare
danni irreversibili all'ambiente, allora non appare
peregrino sostenere che la medesima ratio consenta
l'intervento in via precauzionale o preventiva non solo
quando l'incertezza da dipanare riguardi l'evento di danno,
ma anche quando concerna il nesso causale e, quindi,
l'individuazione del soggetto responsabile di un danno
certo.
20. In quest'ottica, quindi, i principi di precauzione e di
prevenzione potrebbero legittimare l'imposizione, a
prescindere dalla prova circa la sussistenza del nesso di
causalità, in capo al soggetto che, essendo proprietario del
sito contaminato, si trova nelle migliori condizioni per
attuarle, non solo delle misure di prevenzione descritte
dall'art. 240, comma 1, lett. i), decreto legislativo n. 152
del 2006, (già previste a suo carico dall'art. 245, comma 2,
decreto legislativo n. 152 del 2006), ma anche di misure di
sicurezza di emergenza. Anche queste misure, infatti, hanno
una finalità precauzionale ed una connotazione di urgenza,
essendo dirette a contenere la diffusione delle sorgenti
primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre
matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di
ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza
operativa o permanente.
21. Infine, viene in rilievo il principio della correzione,
in via prioritaria alla fonte, dei danni causati. Tale
principio, infatti, dispone che i danni causati all'ambiente
vengano contrastati in una fase il più possibile vicino alla
fonte, per evitare che i loro effetti si amplifichino e si
ingigantiscano. Nelle situazioni d’impossibilità di
individuare il responsabile, o d’impossibilità di evitare da
questi le misure correttive, la "fonte" cui il
principio fa riferimento sembra potere essere
ragionevolmente individuata nel soggetto attualmente
proprietario del fondo, che, proprio per la sua posizione di
proprietario, è quello meglio in grado di controllare la
fonte di pericolo rappresentata dal sito contaminato (su
tali questioni si veda Adunanza Plenaria n 13 del 2013).
In sostanza, riprendendo la questione di diritto
fondamentale sottesa alla controversia, il principio
comunitario che accolla al colpevole dell’inquinamento
l’onere di porvi rimedio, sia con misure di bonifica sia di
messa in sicurezza, non può essere inteso come assoluto ma
va contemperato con gli altri principi di precauzione,
prevenzione e tutela dell’ambiente, per cui al proprietario
ancorché non responsabile della situazione di inquinamento
illecito si possono accollare limitati e definiti oneri di
realizzazione di misure precauzionali, soprattutto in
occasione di interventi gestionali e manutentivi sulla zona,
e ovviamente previa congrua istruttoria e motivazione
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Friuli Venezia
Giulia, Sez. I,
sentenza 05.05.2014 n. 184 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
Va osservato che l’art. 16 del RD 11.02.1929 n.
274 attribuisce alla competenza del geometra la
progettazione direzione, sorveglianza e liquidazione di
costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie
agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria,
comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato,
che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che
per la loro destinazione non possono comunque implicare
pericolo per la incolumità delle persone.
Nel caso in esame si tratta di un tradizionale capannone a
pianta rettangolare (con dimensioni di ml. 20x25 circa), con
struttura prefabbricata (articolata in pilastri con
interasse ml. 6,33 su un lato e ml. 9,45 massimi sull’altro,
che reggono la struttura di copertura), e che non presenta
alcun elemento architettonico di rilievo o comunque
complesso.
Va inoltre osservato che i progetti versati in atti (sulla
base dei quali venivano poi rilasciate le varie concessioni
edilizie per l’opera in esame) non rappresentano la versione
esecutiva (che include la risoluzione dei problemi tecnici
di dettaglio e i calcoli strutturali), ma la versione di
massima (che riguarda essenzialmente il profilo
architettonico dell’immobile), per cui il Collegio non
intravede (perlomeno nell’odierna fase
amministrativo-concessoria) particolari difficoltà tecniche
implicanti complesse operazioni di calcolo, fuori dalla
professionalità del geometra, al fine di evitare pericoli
per la pubblica incolumità (che attengono, invece, alla fase
di cantierabilità ed esecuzione dei lavori).
Dagli atti risulta, inoltre, che il progettista e il
direttore dei lavori strutturali è stato l’Ing. ….. e che
l’opera è stata regolarmente collaudata (sotto il profilo
statico) dall’Ing. …..; circostanze che rafforzano la
conclusione che il Geom. …… abbia operato entro i limiti
della propria competenza professionale.
Trova pertanto applicazione anche l’orientamento
giurisprudenziale, già condiviso da questo Tribunale,
secondo cui la presenza dell'ingegnere progettista delle
opere strutturali assorbe per intero quella parte che poteva
esorbitare dalla competenza professionale del geometra. Di
conseguenza la contestazione circa l'inidoneità del geometra
a sottoscrivere il progetto esaminato dal comune viene a
cadere e, quindi, tale aspetto della vicenda non è
suscettibile di incidere negativamente sulla legittimità
dell'impugnata concessione edilizia.
Al riguardo il Collegio non ignora che esistono anche
indirizzi giurisprudenziali di contrario avviso, adottati
sul rilievo che non sarebbe possibile enucleare e
distinguere un’autonoma attività, per la parte di tali
lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, il
che (prosegue la citata giurisprudenza) apparirebbe
senz’altro esatto, in quanto chi non è abilitato a delineare
l’ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare
forma al corpo che deve esserne sorretto.
A giudizio del Collegio appare invece possibile, sulla base
di comuni esperienze di fatto, scindere dette attività
progettuali, poiché definita l’ossatura (o, meglio, la
struttura portante di un edificio, dimensionata per reggere
tutte le sollecitazioni, statiche e dinamiche, verticali e
orizzontali, cui esso è o potrebbe essere sottoposto) da
parte del tecnico a ciò abilitato, l’ulteriore attività
progettuale si risolve nella definizione di elementi di
chiusura della stessa, mediante opere di tamponamento
interno ed esterno di natura essenzialmente architettonica;
opere volte a delimitare gli spazi in cui si svolge
l’attività umana e che non richiedono il possesso di
specifiche competenze strutturali (attività che, spesso,
viene svolta dai tecnici specializzati nei soli componenti
d’arredo)….”.
Passando quindi al ricorso principale, va anzitutto
rigettato il primo motivo, per le ragioni che di seguito si
espongono.
Pur consapevole dell’esistenza di orientamenti
giurisprudenziali molto diversificati sul punto, il
Tribunale ritiene di confermare quanto già statuito in
sentenze recenti relative a vicende analoghe.
In particolare, nella sentenza n. 355/2011 (nonché nella
coeva decisione n. 356/2011), il Tribunale ha statuito che “….Al
riguardo va osservato che l’art. 16 del RD 11.02.1929 n. 274
attribuisce alla competenza del geometra la progettazione
direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali
e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata
importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole
costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono
particolari operazioni di calcolo e che per la loro
destinazione non possono comunque implicare pericolo per la
incolumità delle persone.
Nel caso in esame si tratta di un tradizionale capannone a
pianta rettangolare (con dimensioni di ml. 20x25 circa), con
struttura prefabbricata (articolata in pilastri con
interasse ml. 6,33 su un lato e ml. 9,45 massimi sull’altro,
che reggono la struttura di copertura), e che non presenta
alcun elemento architettonico di rilievo o comunque
complesso.
Va inoltre osservato che i progetti versati in atti (sulla
base dei quali venivano poi rilasciate le varie concessioni
edilizie per l’opera in esame) non rappresentano la versione
esecutiva (che include la risoluzione dei problemi tecnici
di dettaglio e i calcoli strutturali), ma la versione di
massima (che riguarda essenzialmente il profilo
architettonico dell’immobile), per cui il Collegio non
intravede (perlomeno nell’odierna fase
amministrativo-concessoria) particolari difficoltà tecniche
implicanti complesse operazioni di calcolo, fuori dalla
professionalità del geometra, al fine di evitare pericoli
per la pubblica incolumità (che attengono, invece, alla fase
di cantierabilità ed esecuzione dei lavori).
Dagli atti risulta, inoltre, che il progettista e il
direttore dei lavori strutturali è stato l’Ing. ….. e che
l’opera è stata regolarmente collaudata (sotto il profilo
statico) dall’Ing. …..; circostanze che rafforzano la
conclusione che il Geom. …… abbia operato entro i limiti
della propria competenza professionale.
Trova pertanto applicazione anche l’orientamento
giurisprudenziale, già condiviso da questo Tribunale (cfr.
TAR Marche 13.03.2008 n. 194; 23.11.2001 n. 1220), secondo
cui la presenza dell'ingegnere progettista delle opere
strutturali assorbe per intero quella parte che poteva
esorbitare dalla competenza professionale del geometra. Di
conseguenza la contestazione circa l'inidoneità del geometra
a sottoscrivere il progetto esaminato dal comune viene a
cadere e, quindi, tale aspetto della vicenda non è
suscettibile di incidere negativamente sulla legittimità
dell'impugnata concessione edilizia (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 04.06.2003 n. 3068; v. anche Cons. Stato, Sez. V
03.10.2002 n. 5208 riguardante edifici analoghi).
Al riguardo il Collegio non ignora che esistono anche
indirizzi giurisprudenziali di contrario avviso (cfr. da
ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 28.04.2011 n. 253), adottati
sul rilievo che non sarebbe possibile enucleare e
distinguere un’autonoma attività, per la parte di tali
lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, il
che (prosegue la citata giurisprudenza) apparirebbe
senz’altro esatto, in quanto chi non è abilitato a delineare
l’ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare
forma al corpo che deve esserne sorretto.
A giudizio del Collegio appare invece possibile, sulla base
di comuni esperienze di fatto, scindere dette attività
progettuali, poiché definita l’ossatura (o, meglio, la
struttura portante di un edificio, dimensionata per reggere
tutte le sollecitazioni, statiche e dinamiche, verticali e
orizzontali, cui esso è o potrebbe essere sottoposto) da
parte del tecnico a ciò abilitato, l’ulteriore attività
progettuale si risolve nella definizione di elementi di
chiusura della stessa, mediante opere di tamponamento
interno ed esterno di natura essenzialmente architettonica;
opere volte a delimitare gli spazi in cui si svolge
l’attività umana e che non richiedono il possesso di
specifiche competenze strutturali (attività che, spesso,
viene svolta dai tecnici specializzati nei soli componenti
d’arredo)….”.
Come si vede, tali principi sono perfettamente applicabili
al caso di specie, visto che il geom. M. ha curato la
progettazione solo dal punto di vista architettonico e con
riguardo ad impianti che rientrano sicuramente nelle sue
competenze professionali. Viceversa tutti i manufatti in
cemento armato sono stati progettati e collaudati da
ingegneri, i quali non si sono limitati a controfirmare il
progetto del geom. M., ma hanno sottoscritto in proprio i
rispettivi elaborati.
Non si comprende poi l’eccezione riferita al fatto che il
deposito degli elaborati progettuali presso la Provincia di
Ancona non sanerebbe l’illegittimità. Il ricorrente non
tiene conto infatti della disciplina di cui agli artt. 65 e
93 del T.U. n. 380/2001, i quali prevedono espressamente che
il deposito degli elaborati presso il Genio Civile deve
precedere l’inizio dei lavori, il che vuol dire che tali
elaborati non debbono necessariamente essere prodotti in
sede autorizzatoria. Fra l’altro, avendo la Provincia
partecipato alla conferenza di servizi, sarebbe stato
agevole per essa rilevare l’omissione e sollecitare la ditta
proponente a produrre i calcoli strutturali, mentre nessuna
obiezione è stata mossa al riguardo in seno alla conferenza
di servizi (TAR Marche,
sentenza 11.07.2013 n. 559 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
No alla variante urbanistica (mediante procedimento SUAP) se
mancano i presupposti di legge.
Si deve ricordare in linea generale che:
- il potere di pianificazione urbanistica si pone su di un
piano di prevalenza rispetto agli atti di gestione attinenti
la materia commerciale;
- l'art. 6, d.lgs. 31.03.1998 n. 114, è comunque finalizzato
ad assicurare l'integrazione tra la pianificazione
territoriale ed urbanistica e la programmazione commerciale,
in quanto pone la stretta correlazione tra titoli edilizi e
autorizzazioni all'esercizio, nel novero dei criteri di
programmazione riferiti al settore commerciale;
- le prescrizioni e le disposizioni del piano urbanistico
sono sempre prevalenti su quelle del piano commerciale, in
quanto rispondono all'esigenza di assicurare un ordinato
assetto del territorio, e le relative disposizioni possono
legittimamente porre limiti alla libertà di iniziativa
economica.
Ciò premesso, il D.P.R. (oggi abrogato) 20.10.1998 n. 447,
in coerenza con il predetto impianto, all’art. 5 disponeva
tra l’altro che ”Qualora il progetto presentato sia in
contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda
una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta
l'istanza.”.
In via subordinata nel caso in cui “…il progetto sia
conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria
e di sicurezza del lavoro …“ ma “…lo strumento urbanistico
non individui aree destinate all'insediamento di impianti
produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al
progetto presentato, il responsabile del procedimento può,
motivatamente, convocare una conferenza di servizi,
disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n.
241".
I predetti presupposti di operatività dell'art. 5 del D.P.R.
n. 447/1998 costituivano condizione minima necessaria,
seppure non sufficiente, per poter consentire la
realizzazione dell'intervento edilizio.
La giurisprudenza ha sempre interpretato in senso rigoroso
l’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447, sottolineando come
lo strumento “de quo” avesse natura eccezionale e comunque
non poteva costituire in alcun modo uno strumento di
modifica dell'assetto urbanistico azionabile in base alle
soggettive preferenze e convenienze dell'imprenditore.
Pertanto, nei casi in cui invece dovessero risultare
disponibili nel Piano degli insediamenti Produttivi aree per
l’allocazione dell’intervento commerciale, non potevano
ritenersi sussistenti le esigenze promozionali che sono la
ragione logica e giuridica per far luogo all’applicazione
della disciplina derogatoria ex D.P.R. n. 447 cit..
E ciò per assicurare che gli assetti territoriali non
seguano la casualità della proprietà delle aree o le
relative speculazioni in danno delle aree agricole (che sono
notoriamente meno costose di quelle industriali e
commerciali). In tali ambiti non può infatti trascurarsi che
le pressioni degli operatori, motivate da interessi di
natura meramente speculativa, hanno spesso effetti
assolutamente deleteri sul buon andamento e
sull’imparzialità dell’azione delle Amministrazioni
Comunali.
La necessità di rispettare la funzionalità e la coerenza
delle scelte urbanistiche e di pianificazione globale del
territorio ha anche il fine di evitare che una realizzazione
atomistica e dispersa sul territorio delle infrastrutture
urbanistiche faccia ricadere sulla collettività i relativi
ulteriori oneri finanziari.
---------------
Il carattere eccezionale del procedimento di variante dello
strumento urbanistico finalizzato all’individuazione di aree
da destinare all'insediamento di impianti produttivi
presuppone la condizione ineluttabile che lo strumento
urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi, ovvero tali aree siano spazialmente
insufficienti in relazione al progetto presentato.
Pertanto, costituiscono condizioni imprescindibili per
l'avvio di convocazione della conferenza di cui all’art. 5
del D.P.R. 20.10.1998, n. 447:
- la conformità del progetto alle norme vigenti in materia
ambientale, sanitaria e della sicurezza del lavoro;
- l'impossibilità giuridica, e spaziale, di reperire nello
strumento esistente, aree idonee e sufficienti
all'iniziativa.
Si deve ricordare in
linea generale che:
- il potere di pianificazione urbanistica si pone su di un
piano di prevalenza rispetto agli atti di gestione attinenti
la materia commerciale (cfr. Consiglio Stato sez. V
12.07.2004 n. 5057);
- l'art. 6, d.lgs. 31.03.1998 n. 114, è comunque finalizzato
ad assicurare l'integrazione tra la pianificazione
territoriale ed urbanistica e la programmazione commerciale,
in quanto pone la stretta correlazione tra titoli edilizi e
autorizzazioni all'esercizio, nel novero dei criteri di
programmazione riferiti al settore commerciale (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV 08.06.2007 n. 3027);
- le prescrizioni e le disposizioni del piano urbanistico
sono sempre prevalenti su quelle del piano commerciale, in
quanto rispondono all'esigenza di assicurare un ordinato
assetto del territorio, e le relative disposizioni possono
legittimamente porre limiti alla libertà di iniziativa
economica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI 10.04.2012 n.
2060).
Ciò premesso, il D.P.R. (oggi abrogato) 20.10.1998 n. 447,
in coerenza con il predetto impianto, all’art. 5 disponeva
tra l’altro che ”Qualora il progetto presentato sia in
contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda
una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta
l'istanza.”.
In via subordinata nel caso in cui “…il progetto sia
conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria
e di sicurezza del lavoro …“ ma “…lo strumento
urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in
relazione al progetto presentato, il responsabile del
procedimento può, motivatamente, convocare una conferenza di
servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge
07.08.1990, n. 241".
I predetti presupposti di operatività dell'art. 5 del D.P.R.
n. 447/1998 costituivano condizione minima necessaria,
seppure non sufficiente, per poter consentire la
realizzazione dell'intervento edilizio (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 19.10.2007 n. 5471).
La giurisprudenza ha sempre interpretato in senso rigoroso
l’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447, sottolineando come
lo strumento “de quo” avesse natura eccezionale e
comunque non poteva costituire in alcun modo uno strumento
di modifica dell'assetto urbanistico azionabile in base alle
soggettive preferenze e convenienze dell'imprenditore (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, sent. 03.03.2006 n. 1038).
Pertanto, nei casi in cui invece dovessero risultare
disponibili nel Piano degli insediamenti Produttivi aree per
l’allocazione dell’intervento commerciale, non potevano
ritenersi sussistenti le esigenze promozionali che sono la
ragione logica e giuridica per far luogo all’applicazione
della disciplina derogatoria ex D.P.R. n. 447 cit. (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI 27.07.2011 n. 4498).
E ciò per assicurare che gli assetti territoriali non
seguano la casualità della proprietà delle aree o le
relative speculazioni in danno delle aree agricole (che sono
notoriamente meno costose di quelle industriali e
commerciali). In tali ambiti non può infatti trascurarsi che
le pressioni degli operatori, motivate da interessi di
natura meramente speculativa, hanno spesso effetti
assolutamente deleteri sul buon andamento e
sull’imparzialità dell’azione delle Amministrazioni
Comunali.
La necessità di rispettare la funzionalità e la coerenza
delle scelte urbanistiche e di pianificazione globale del
territorio ha anche il fine di evitare che una realizzazione
atomistica e dispersa sul territorio delle infrastrutture
urbanistiche faccia ricadere sulla collettività i relativi
ulteriori oneri finanziari.
In tale scia esattamente la Regione ricorda che, ai sensi
del primo dell’art. 12 della Legge Regionale Puglia n.
11/2003 il Comune doveva individuare “… le aree idonee
all'insediamento di strutture commerciali attraverso i
propri strumenti urbanistici, in conformità degli indirizzi
generali di cui all'articolo 3, con particolare con
riferimento al dimensionamento della funzione commerciale
nelle diverse articolazioni previste all'articolo 5”.
Il secondo comma consentiva poi “… L'insediamento di
grandi strutture di vendita e di medie strutture di vendita
di tipo M3 … solo in aree idonee sotto il profilo
urbanistico e oggetto di piani urbanistici attuativi anche
al fine di prevedere le opere di mitigazione ambientale, di
miglioramento dell'accessibilità e/o di riduzione
dell'impatto socio economico, ritenute necessarie”.
Il carattere eccezionale del procedimento di variante dello
strumento urbanistico finalizzato all’individuazione di aree
da destinare all'insediamento di impianti produttivi
presuppone la condizione ineluttabile che lo strumento
urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi, ovvero tali aree siano spazialmente
insufficienti in relazione al progetto presentato (cfr.
Cons. Stato, sez. IV 04.12.2007 n. 6157; Cons. Sez. IV,
11.04.2007 n. 1644; Consiglio di Stato sez. IV 20.07.2011 n.
4413).
Pertanto, costituiscono condizioni imprescindibili per
l'avvio di convocazione della conferenza di cui all’art. 5
del D.P.R. 20.10.1998, n. 447:
- la conformità del progetto alle norme vigenti in materia
ambientale, sanitaria e della sicurezza del lavoro;
- l'impossibilità giuridica, e spaziale, di reperire nello
strumento esistente, aree idonee e sufficienti
all'iniziativa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.02.2013 n. 1202 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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