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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GENNAIO 2015

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aggiornamento al 25.01.2015

aggiornamento al 13.01.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 25.01.2015

ã

     Ai fini della compatibilità paesaggistica (ex art. 167 dlgs 42/2004) nessun rilievo assume la definizione delle opere abusivamente costruite in termini di volume tecnico, qualificazione rilevante sotto il profilo urbanistico ed edilizio, ma non sotto quello paesaggistico.
    
Il Consiglio di Stato sconfessa il TAR Campania-Salerno e, indirettamente, la circolare 26.06.2009 n. 33 del Segretario generale MIBACT, nel dettare talune linee interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi dell'art. 167 d.lgs. 42/2004, laddove chiarisce che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto”, per poi precisare: “ad esclusione dei volumi tecnici”.
     Ma ciò che stupisce è il fatto che sia stato proprio il MIBACT, ricorrendo in appello, a sostenere la tesi -successivamente fatta propria dal Consiglio di Stato- con la quale, invero, disconosce quanto precedentemente sostenuto con la suddetta circolare n. 33 del 26.06.009.

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 146, comma 4, del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, “fuori dai casi di cui all’ articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
A sua volta, l’art. 167 consente l’accertamento postumo “a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’ articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380″.
Questi sono gli unici interventi dei quali è possibile l’accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia: quelli che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi, e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria.

... per la riforma della sentenza breve del
TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 15.07.2013 n. 1540, resa tra le parti, concernente accertamento postumo di compatibilità paesaggistica per le opere abusivamente realizzate nel comune di Pisciotta.
...
Il Ministero per i beni e le attività culturali chiede la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale amministrativo della Campania ha accolto il ricorso proposto dal signor E.V. avverso il provvedimento in data 19.12.2012, recante parere negativo sull’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica per le opere realizzate nel Comune di Pisciotta in assenza di autorizzazione, e del conseguente diniego comunale del 31.12.2012.
La sentenza impugnata ha rilevato che la valutazione della Soprintendenza si è basata su valutazioni urbanistico-edilizie, e ha trascurato il concreto apprezzamento circa la compatibilità paesaggistica dell’intervento, relativo alla realizzazione di volumi tecnici (per i quali vale una particolare interpretazione dell’art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) in zona gravata da vincolo paesaggistico.
Il Ministero appellante evidenzia che le opere abusivamente costruite risultano di significative dimensioni, costituiscono un corpo edilizio autonomo e comportano un incremento di superfici e di volumi:
ai fini della compatibilità paesaggistica, quindi, nessun rilievo assume la definizione delle stesse in termini di volume tecnico, qualificazione rilevante sotto il profilo urbanistico ed edilizio, ma non sotto quello paesaggistico.
L’appello è fondato.
Va ricordato che, ai sensi dell’art. 146, comma 4, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, “fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”. A sua volta, l’art. 167 consente l’accertamento postumo
   “a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell' articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
” .
Questi, dunque, per quanto qui rileva, sono gli unici interventi dei quali è possibile l’accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia:
quelli che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi, e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Da ciò, per tornare alla fattispecie in esame,
deriva, innanzitutto, l’ininfluenza della definizione, invece enfatizzata dal primo giudice, degli interventi in discorso, realizzati senza titolo, in termini di volumi tecnici, dato che quel che rileva è la creazione di superfici e di volumi, e il carattere non sussumibile degli interventi stessi nella categoria della manutenzione edilizia.
E,
poiché i manufatti in discorso hanno incontestabilmente realizzato superfici utili e volumi, e altrettanto incontestabilmente sfuggono alla definizione di manutenzione edilizia, è evidente che degli stessi non è possibile l’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, come esattamente sostiene l’Amministrazione appellante.
In conclusione, l’appello è fondato e merita accoglimento, con conseguente riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Qui sotto la sentenza del TAR riformata dal CDS:

EDILIZIA PRIVATANell'ambito di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, la Soprintendenza ha illegittimamente sovrapposto il proprio sindacato a quello favorevolmente esercitato dall’autorità comunale, addentrandosi in valutazioni di tipo propriamente urbanistico-edilizio e trascurando un apprezzamento in concreto relativo all’effettiva compatibilità dell’intervento con il vincolo paesaggistico.
---------------
L’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il volume tecnico, rispetto alla nozione di volume edilizio, possa ricevere, in considerazione della peculiare destinazione funzionale, una valutazione differenziata, caso per caso, suscettibile di concludersi con l’autorizzazione paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi; non è un caso che, proprio in tema di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico riceva dallo stesso ministero resistente una considerazione differenziata rispetto alla disciplina generale relativa ai volumi edilizi.
Al riguardo, la circolare del Segretario generale n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi del menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto”, per poi precisare: “ad esclusione dei volumi tecnici”.
Benché la circolare sia espressione di un potere ministeriale di mero indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma e non vincolante per i giudici, essa è tuttavia un chiaro indizio di come la stessa amministrazione competente abbia sposato una soluzione interpretativa della norma in esame che ragionevolmente tiene conto delle peculiari caratteristiche dei volumi tecnici.

... per l'annullamento:
1.- del provvedimento prot. n. 35692 del 19.12.02012 con cui la Soprintendenza ha adottato parere negativo relativamente all'accertamento postumo di compatibilità paesaggistica per le opere realizzate nel Comune di Pisciotta in difetto di autorizzazione paesaggistica;
2.- della determina n. 79 del 31.12.2012, con la quale il comune di Pisciotta determina “di non concedere, per la realizzazione delle opere previste nel progetto anzidetto, il prescritto provvedimento ai sensi e per gli effetti dell’art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. 42/2004, in conformità al parere espresso dalla Soprintendenza per i BAP di Salerno e Avellino”.
...
Considerato che:
   - nel caso in esame, la Soprintendenza, in relazione al tipo d’intervento effettuato, ha sovrapposto il proprio sindacato a quello favorevolmente esercitato dall’autorità comunale, addentrandosi in valutazioni di tipo propriamente urbanistico-edilizio e trascurando un apprezzamento in concreto relativo all’effettiva compatibilità dell’intervento con il vincolo paesaggistico (Tar Campania, Salerno, sez. I, 01.10.2012, n. 1737).
   - L’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il volume tecnico, rispetto alla nozione di volume edilizio, possa ricevere, in considerazione della peculiare destinazione funzionale, una valutazione differenziata, caso per caso, suscettibile di concludersi con l’autorizzazione paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi; non è un caso che, proprio in tema di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico riceva dallo stesso ministero resistente una considerazione differenziata rispetto alla disciplina generale relativa ai volumi edilizi.
   - Al riguardo, la circolare del Segretario generale n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi del menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto”, per poi precisare: “ad esclusione dei volumi tecnici”.
Benché la circolare sia espressione di un potere ministeriale di mero indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma e non vincolante per i giudici, essa è tuttavia un chiaro indizio di come la stessa amministrazione competente abbia sposato una soluzione interpretativa della norma in esame che ragionevolmente tiene conto delle peculiari caratteristiche dei volumi tecnici.
   - Il manufatto contestato realizza in concreto un volume tecnico, di carattere pertinenziale e destinato esclusivamente ad impianti tecnologici (legnaia, serbatoio idrico con connesso autoclave); appare invero irrilevante la circostanza che i locali tecnici ospitanti la non siano immediatamente contigui alla casa di abitazione ma da essa separati; questo dato è tuttavia scarsamente significativo dal punto di vista paesaggistico e, peraltro, non è decisivo per fare venire meno il carattere di pertinenza dell’opera all’abitazione principale.
Per quanto sopra, con rilievo di carattere assorbente, il ricorso merita accoglimento. Ne consegue l’annullamento degli atti della Soprintendenza, sopra impugnati.
Appare comunque equo compensare le spese in relazione alla natura della controversia ed all’incerta esatta interpretazione dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 in merito ai volumi tecnici (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 15.07.2013 n. 1540 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

QUINDI??

     In verità, la questione (menzione) del "volume tecnico" la ritroviamo esclusivamente nella circolare MIBACT di cui sopra e non anche nella norma di legge, laddove l'art. 167, comma 4, del d.lgs. 42/2004 così recita:

Art. 167. Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria

     4. L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.

     Orbene, forse è il caso di ricordarci cosa dispone l'art. 12, comma 1, delle "DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE o disposizioni preliminari al codice civile (preleggi)" e cioè:

Art. 12 Interpretazione della legge

     1. Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

     Allora, vuoi vedere che il Consiglio di Stato -finalmente- sentenzia siccome dispone semplicemente la norma di legge senza appellarsi ad elucubrazioni giuridiche tanto contorte quanto (a volte) incomprensibili e/o incondivisibili??
     Ed il Giudice di 1° grado si dovrà conformare, volenti o nolenti, anche se non sappiamo se lo farà in tempi brevi -o meno- vista anche la recente sentenza (contraria) che riportiamo a seguire ...

25.01.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di utilità del volume può divergere nelle valutazioni urbanistiche e in quelle paesistiche.
Ai fini urbanistici
è utile il volume (o la superficie) che consuma gli indici edificatori. Si tratta quindi di un concetto esclusivamente giuridico, che può talvolta contrastare con la realtà di fatto (ad esempio, un osservatore può percepire un volume fuori terra che per la disciplina urbanistica non esiste, perché accessorio o tecnico, e al contrario non percepisce i volumi interrati, ma questi ultimi, in certi casi, devono essere computati negli indici edificatori).
Ai fini paesistici è invece rilevante la percepibilità dell’opera come volume collocato in uno scenario. In questo senso si esprimono sia le direttive del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (v. parere dell’Ufficio Legislativo prot. n. 16721 del 13.09.2010) sia la giurisprudenza.
L’utilità del volume sotto il profilo paesistico non è quindi definibile solo in via astratta mediante categorie giuridiche, ma richiede anche l’accertamento in concreto di alcuni elementi materiali.
Un contributo interpretativo è fornito dalla circolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33 del 26.06.2009, che qualifica come volume utile un manufatto costituito da parti chiuse, emergente dal terreno o dalla sagoma di un edificio preesistente, e in grado di ospitare qualsiasi destinazione d’uso ad eccezione dei locali tecnici.
La suddetta circolare definisce anche la superficie utile, escludendo da questa categoria le strutture aperte su tre lati (come logge, balconi e portici) quando la superficie non superi il 25% dell’area di sedime del fabbricato a cui le stesse sono collegate. Le due nozioni interagiscono, in quanto la superficie utile costituisce un parametro per stabilire se il manufatto, pur non costituendo volume utile, sia comunque fuori scala rispetto al contesto.
Applicando questi criteri, la tettoia in esame non può essere considerata come volume utile ai fini paesistici per le seguenti ragioni:
   (a) pur avendo le caratteristiche di una nuova costruzione, si presenta aperta, in quanto il lato interamente chiuso coincide con il muro di cinta e quello parzialmente chiuso con un edificio preesistente;
   (b) la prossimità del muro di cinta comporta che l’unica visuale rilevante sia quella interna al giardino;
   (c) da questa visuale non è percepibile alcuna chiusura dello spazio a causa della tettoia;
   (d) l’ingombro della tettoia non è fuori scala, in quanto la sua superficie è pari a circa il 16% del sedime degli edifici di cui è pertinenza.

Relativamente alla tettoia
24. La Soprintendenza nella nota del 18.02.2013 ha ribadito il parere negativo sulla tettoia qualificandola come volume utile ai fini paesistici, anche se non rilevante per la disciplina urbanistica. Questa tesi muove da un presupposto corretto (la distinzione tra le valutazioni urbanistiche e quelle paesistiche), ma non appare condivisibile nelle conclusioni.
25. Per la regolarizzazione di un abuso sotto il profilo urbanistico occorre stabilire se l’opera ricada nelle fattispecie previste dagli art. 36 e 37 del DPR 06.06.2001 n. 380: in caso affermativo si produce un effetto sanante retroattivo. Sotto il profilo paesistico, invece, non basta che l’opera sia urbanisticamente sanabile, ma è necessario che la stessa non costituisca volume o superficie utile ai sensi dell’art. 167, comma 1-a, del Dlgs. 42/2004.
26. Il concetto di utilità del volume può divergere nelle valutazioni urbanistiche e in quelle paesistiche. Ai fini urbanistici è utile il volume (o la superficie) che consuma gli indici edificatori. Si tratta quindi di un concetto esclusivamente giuridico, che può talvolta contrastare con la realtà di fatto (ad esempio, un osservatore può percepire un volume fuori terra che per la disciplina urbanistica non esiste, perché accessorio o tecnico, e al contrario non percepisce i volumi interrati, ma questi ultimi, in certi casi, devono essere computati negli indici edificatori).
Ai fini paesistici è invece rilevante la percepibilità dell’opera come volume collocato in uno scenario. In questo senso si esprimono sia le direttive del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (v. parere dell’Ufficio Legislativo prot. n. 16721 del 13.09.2010) sia la giurisprudenza (v. TAR Brescia Sez. I 15.10.2014 n. 1057; TAR Napoli Sez. VII 10.02.2014 n. 930; TAR Torino Sez. II 17.12.2011 n. 1310). L’utilità del volume sotto il profilo paesistico non è quindi definibile solo in via astratta mediante categorie giuridiche, ma richiede anche l’accertamento in concreto di alcuni elementi materiali.
27. Un contributo interpretativo è fornito dalla circolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33 del 26.06.2009, che qualifica come volume utile un manufatto costituito da parti chiuse, emergente dal terreno o dalla sagoma di un edificio preesistente, e in grado di ospitare qualsiasi destinazione d’uso ad eccezione dei locali tecnici.
La suddetta circolare definisce anche la superficie utile, escludendo da questa categoria le strutture aperte su tre lati (come logge, balconi e portici) quando la superficie non superi il 25% dell’area di sedime del fabbricato a cui le stesse sono collegate. Le due nozioni interagiscono, in quanto la superficie utile costituisce un parametro per stabilire se il manufatto, pur non costituendo volume utile, sia comunque fuori scala rispetto al contesto.
28. Applicando questi criteri, la tettoia in esame non può essere considerata come volume utile ai fini paesistici per le seguenti ragioni:
   (a) pur avendo le caratteristiche di una nuova costruzione, si presenta aperta, in quanto il lato interamente chiuso coincide con il muro di cinta e quello parzialmente chiuso con un edificio preesistente;
   (b) la prossimità del muro di cinta comporta che l’unica visuale rilevante sia quella interna al giardino;
   (c) da questa visuale non è percepibile alcuna chiusura dello spazio a causa della tettoia;
   (d) l’ingombro della tettoia non è fuori scala, in quanto la sua superficie è pari a circa il 16% del sedime degli edifici di cui è pertinenza (v. relazione del geom. Fr.Gh. del 10.12.2012).
Conclusioni
29. I ricorsi riuniti devono quindi essere accolti, con il conseguente annullamento degli atti impugnati.
30. L’effetto conformativo di tale pronuncia comporta la riattivazione del procedimento di rilascio della sanatoria, con le seguenti precisazioni:
   (a) sotto il profilo urbanistico, il Comune dovrà stabilire l’importo della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 36, comma 2, del DPR 380/2001 per l’insieme delle opere realizzate abusivamente;
   (b) sotto il profilo paesistico, il Comune, sentita la Soprintendenza, dovrà stabilire l’importo dovuto a titolo di risarcimento ambientale ex art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004 per l’insieme delle opere realizzate abusivamente;
   (c) la Soprintendenza conserva il potere di indicare gli interventi di mitigazione necessari per ridurre l’impatto paesistico delle suddette opere (di tali interventi si dovrà tenere conto nella graduazione del risarcimento ambientale).
Per la conclusione del procedimento è fissato il termine di 60 giorni dal deposito della presente sentenza (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.01.2015 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

APPALTI: Sulla vexata quaestio circa l'indicazione, a pena di esclusione, degli oneri relativi alla sicurezza in maniera analitica sin dal momento della presentazione delle offerte.
Deve rimettersi all’Adunanza Plenaria la soluzione della questione preliminare relativa all’estensione dell’articolo 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici anche ai contratti relativi a lavori pubblici.

Si chiede all’Adunanza Plenaria di verificare
1) se, in ogni caso, la sanzione dell’esclusione debba essere comminata anche laddove l’obbligo di specificazione degli oneri non sia stato prescritto dalla normativa di gara; e
2) se, ai fini della soluzione, possa avere rilievo la peculiarità della fattispecie, data dalla circostanza che viene in rilievo un appalto integrato, caratterizzato dall’affidamento congiunto della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori sulla scorta di un progetto definitivo predisposto dalla stazione appaltante.

4. Ritiene la Sezione che il presente giudizio imponga l’esame di questioni di diritto che meritano, ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo, di essere deferite all’esame dell’Adunanza Plenaria in ragione dei contrasti interpretativi emersi e dell’importanza dei principi di diritto in rilievo.
4.1. La fondamentale vexata quaestio attiene alla corretta interpretazione del disposto dell’art. 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici, che il Primo Giudice individua come norma da cui discende l’obbligo, per le imprese partecipanti, di indicare, a pena di esclusione, gli oneri relativi alla sicurezza in maniera analitica sin dal momento della presentazione delle offerte.
4.2. E’ in via preliminare necessario specificare che esistono due tipologie di costi relativi alla sicurezza, vale a dire quelli da interferenze e quelli interni o aziendali. La precisazione è fondamentale nella presente fattispecie, dato che l’estromissione dalla gara dell’appellante Cogienne è stata disposta proprio per la mancata indicazione dei costi della seconda categoria.
Volendo tracciare le caratteristiche fondamentali di ciascuna specie di costi, si osserva quanto ai primi, contemplati dagli artt. 26, commi 3-3ter-5, del D.Lgs. n. 81/2008, 86, comma 3-ter, 87, commi 4 e 131 del Codice dei Contratti, che essi:
- servono a eliminare i rischi da interferenza, intesa come contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell’appaltatore, oppure tra il personale di imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti;
- sono quantificati a monte dalla stazione appaltante, nel D.U.V.R.I (documento unico per la valutazione dei rischi da interferenze, art. 26 D.Lgs. n. 81/2008); per gli appalti di lavori nel PSC (piano di sicurezza e coordinamento, art. 100 D.Lgs. n. 81/2008);
- non sono soggetti a ribasso, perché ontologicamente diversi dalle prestazioni stricto sensu oggetto di affidamento
In relazione agli oneri di sicurezza interni o aziendali, invece, si precisa che essi sono quelli propri di ciascuna impresa connessi alla realizzazione dello specifico appalto, sostanzialmente contemplati dal DVR, documento di valutazione dei rischi. Ad essi fanno riferimento l’art. 26, comma 3, quinto periodo, del D.Lgs. n. 81/2008 e gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, secondo periodo, del Codice dei Contratti Pubblici.
Questi ultimi oneri sono soggetti a un duplice obbligo in capo all’amministrazione e all’ impresa concorrente.
Per ciò che concerne la stazione appaltante, gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici si riferiscono necessariamente agli oneri di sicurezza aziendali, visto che prendono in considerazione eventuali anomalie delle offerte e giudizi di congruità incompatibili con i costi di sicurezza da interferenze, fissi e non soggetti a ribasso. Ne deriva che per tali oneri la valutazione che si impone all’amministrazione non è la relativa predeterminazione rigida ma il dovere di stimarne l’incidenza, secondo criteri di ragionevolezza e di attendibilità generale, nella determinazione di quantità e valori su cui calcolare l’importo complessivo dell’appalto.
Quanto alle imprese che partecipano alle gare, invece, esse devono specificamente indicare gli oneri di sicurezza aziendali, dato che trattasi di valutazioni soggettive rimesse alla loro esclusiva sfera valutativa. Tale tipologia di oneri, infatti, varia da un’impresa all’altra ed è influenzata dalla singola organizzazione produttiva e dal tipo di offerta formulata da ciascuna impresa.
4.3. Tanto premesso, occorre verificare se l’articolo 87, comma 4, riferito agli oneri di sicurezza aziendali, sia prescrizione di respiro universale ovvero norma relativa ai soli appalti di servizi e di forniture, cui si riferisce espressamente l’inciso finale con il rinvio “all’entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”. Le criticità che hanno caratterizzato il percorso giurisprudenziale si annidano nella contraddittorietà che, in apparenza, connota la terminologia utilizzata dal Legislatore nel quarto comma dell’art. 87 del Codice degli Appalti. La norma, infatti, recita: “Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 2003, n. 222. Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.
Orbene, dalla lettura della disposizione si ricava che mentre il primo periodo ribadisce per tutti gli appalti che gli oneri della sicurezza non sono soggetti a ribasso d’asta e devono essere conformi al piano di sicurezza e coordinamento, il secondo periodo precisa, facendo riferimento esplicito questa volta solo ai settori dei servizi e delle forniture, che l’indicazione relativa ai costi della sicurezza deve essere sorretta da caratteri di specificità e di congruità ai fini della valutazione dell’anomalia dell’offerta.
4.4. A fronte dell’ambiguità della sopra riportata disposizione sono maturate due differenti opzioni interpretative.
4.4.1.Secondo una prima lettura, di matrice estensiva, la ratio della norma, che impone ai concorrenti di indicare già nell’offerta l’incidenza degli oneri di sicurezza aziendali, risponde a finalità di di tutela della sicurezza dei i lavoratori e, quindi, a valori sociali e di rilievo costituzionale che assumono rilievo anche nel settore dei lavori pubblici. Anzi, proprio in quest’ultimo settore il ripetersi di infortuni gravi, dovuto all’utilizzo di personale non sempre qualificato, porta a ritenere che l’obbligo di indicare sin dall’offerta detti oneri debba valere ed essere apprezzato con particolare rigore. Inoltre, depone in tal senso anche la collocazione sistematica della norma citata, che è appunto inserita nella parte del Codice dedicata ai “Contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” (Cons. Stato, sez. III, 05.10.2011, n. 5421; sez. V, 19.07.2013, n. 3929).
Si è poi osservato (Cons. Stato, sez. III, 03.07.2013, n. 3565) che “tale indicazione costituisce sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture un adempimento imposto dagli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 all'evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di adempiere al suo onere di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei fondamentali interessi dei lavoratori in relazione all'entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura da affidare; stante la natura di obbligo legale rivestita dall'indicazione, è irrilevante la circostanza che la lex specialis di gara non abbia richiesto la medesima indicazione, rendendosi altrimenti scusabile una ignorantia legis; poiché la medesima indicazione riguarda l'offerta, non può ritenersene consentita l'integrazione mediante esercizio del potere/dovere di soccorso da parte della stazione appaltante, ex art. 46 comma 1-bis, cit. d.lgs. n. 163 del 2006, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti”.
4.4.2. Tuttavia, recentemente, la giurisprudenza amministrativa (in particolare Cons. Stato, sez. V, 07.05.2014, n. 2343; 09.10.2013, n. 4964) ha fornito una lettura diversa della norma, ritenendo che l’obbligo di indicare nell’offerta gli oneri di sicurezza aziendali riguardi solo gli appalti di servizi o di forniture in ragione della “speciale disciplina normativa riservata agli appalti di lavori, che appunto si connota per l’analisi preventiva dei costi della sicurezza aziendale, che sua vota si spiega alla luce della maggiore rischiosità insita nella predisposizione di cantieri”. Seguendo questa linea interpretativa, si giunge ad affermare che “l’obbligo di dichiarare, a pena di esclusione, i costi per la sicurezza interna previsto dall’art. 87, comma 4, d.lgs. n. 163/2006 si applica alle sole procedure di affidamento di forniture e di servizi. Per i lavori, al contrario, la quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 d.lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 cod. contratti pubblici”.
Secondo questo approccio ermeneutico non può trascurarsi che è comunque obbligatoria la valutazione, ai fini della congruità dell’offerta, del costo del lavoro e della sicurezza in forza del comma 3 bis dell’art. 86 del Codice secondo cui: “…nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”. In questa disposizione il Legislatore ha espressamente indicato tutte le possibili tipologie di appalti pubblici, compresi i lavori, per cui si deve opinare, a contrario, che, non avendo utilizzato la medesima locuzione estensiva nel comma 4 dell’art. 87, tale ultima norma va riferita ai soli contratti pubblici presi espressamente in considerazione, ossia quelli aventi ad oggetto servizi e forniture.
4.5. Alla luce di tali contrasti
deve quindi rimettersi all’Adunanza Plenaria la soluzione della questione preliminare relativa all’estensione dell’articolo 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici anche ai contratti relativi a lavori pubblici.
Si chiede all’Adunanza Plenaria di verificare se, in ogni caso, la sanzione dell’esclusione debba essere comminata anche laddove l’obbligo di specificazione degli oneri non sia stato prescritto dalla normativa di gara; e se, ai fini della soluzione, possa avere rilievo la peculiarità della fattispecie, data dalla circostanza che viene in rilievo un appalto integrato, caratterizzato dall’affidamento congiunto della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori sulla scorta di un progetto definitivo predisposto dalla stazione appaltante (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 16.01.2015 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che la possibilità prevista dal legislatore che il concessionario si obblighi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione deve essere concordata tra il costruttore e il Comune mediante una convenzione urbanistica che disciplini l’esecuzione di tali opere e le relative garanzie.
L’ambito precipuo della convenzione è quindi costituito dalla disciplina della realizzazione degli oneri a scomputo e del loro valore economico, mentre per la determinazione degli oneri la convenzione ha carattere accertativo degli obblighi legali, mentre è il rilascio del titolo edilizio, che può verificarsi anche a notevole distanza di tempo, ad avere carattere costitutivo dell’obbligazione.
Ne consegue che non può ritenersi che la convenzione comporti un divieto di nuova quantificazione degli oneri edilizi in sede di rilascio del permesso a costruire.
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Per quanto attiene poi all’affermata fungibilità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, occorre rammentare la diversità ontologica e funzionale tra le due categorie: “Le opere di urbanizzazione primaria e secondaria appartengono, in effetti, a tipologie di interventi che hanno funzione differente: le prime sono costituite da quelle opere indispensabili ad assicurare l’edificabilità di un’area sotto il profilo dell’igiene, della viabilità e della sicurezza; le seconde sono costituite da quelle infrastrutture necessarie alla vita civile e comunitaria(…)”.. E ancora: “(…) mentre le prime hanno una funzione sostanzialmente servente rispetto ai singoli organismi edilizi, in quanto ne garantiscono le condizioni minime di fruibilità ed assicurano i servizi indispensabili alla civile convivenza (strade, parcheggi, fognature, etc.), le seconde mirano ad assicurare migliore vivibilità ad un ambito territoriale più vasto di quello oggetto dell’intervento da realizzare e sono a servizio dell’intera comunità (scuole, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese, etc.)".
Diversamente, ovvero allorché si consentisse un trattamento in termini di reciproca fungibilità delle due categorie di opere, si consentirebbe di soddisfare in maniera difforme dalle prescrizioni normative il preminente interesse pubblico a che l’amministrazione comunale usufruisca delle opere di urbanizzazione in ragione della loro diversa funzione.
Ne consegue che la compensazione tra gli oneri economici dovuti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria deve tendenzialmente escludersi, in quanto è insito nell’interesse pubblico che una determinata area sia provvista di tutti i servizi pubblici indispensabili e non solo di quelli che interessano al privato, in quanto più direttamente connessi al valore economico delle opere realizzate.

L'articolo 16, comma 1, del Testo unico sull'edilizia DPR n. 380/2001 prevede che il rilascio del permesso di costruire comporta per il privato "la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione".
La norma stabilisce poi che “a scomputo totale o parziale della quota dovuta, il concessionario può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune”. La giurisprudenza ha chiarito che la possibilità prevista dal legislatore che il concessionario si obblighi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione deve essere concordata tra il costruttore e il Comune mediante una convenzione urbanistica che disciplini l’esecuzione di tali opere e le relative garanzie (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.03.2011 n. 1332).
L’ambito precipuo della convenzione è quindi costituito dalla disciplina della realizzazione degli oneri a scomputo e del loro valore economico, mentre per la determinazione degli oneri la convenzione ha carattere accertativo degli obblighi legali, mentre è il rilascio del titolo edilizio, che può verificarsi anche a notevole distanza di tempo, ad avere carattere costitutivo dell’obbligazione.
Ne consegue che non può ritenersi che la convenzione comporti un divieto di nuova quantificazione degli oneri edilizi in sede di rilascio del permesso a costruire.
Per quanto attiene poi all’affermata fungibilità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, occorre rammentare la diversità ontologica e funzionale tra le due categorie: “Le opere di urbanizzazione primaria e secondaria appartengono, in effetti, a tipologie di interventi che hanno funzione differente: le prime sono costituite da quelle opere indispensabili ad assicurare l’edificabilità di un’area sotto il profilo dell’igiene, della viabilità e della sicurezza; le seconde sono costituite da quelle infrastrutture necessarie alla vita civile e comunitaria(…)”.. E ancora: “(…) mentre le prime hanno una funzione sostanzialmente servente rispetto ai singoli organismi edilizi, in quanto ne garantiscono le condizioni minime di fruibilità ed assicurano i servizi indispensabili alla civile convivenza (strade, parcheggi, fognature, etc.), le seconde mirano ad assicurare migliore vivibilità ad un ambito territoriale più vasto di quello oggetto dell’intervento da realizzare e sono a servizio dell’intera comunità (scuole, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese, etc.)" (cfr. deliberazione 03.05.2012 n. 46 AVCP).
Diversamente, ovvero allorché si consentisse un trattamento in termini di reciproca fungibilità delle due categorie di opere, si consentirebbe di soddisfare in maniera difforme dalle prescrizioni normative il preminente interesse pubblico a che l’amministrazione comunale usufruisca delle opere di urbanizzazione in ragione della loro diversa funzione.
Ne consegue che la compensazione tra gli oneri economici dovuti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria deve tendenzialmente escludersi, in quanto è insito nell’interesse pubblico che una determinata area sia provvista di tutti i servizi pubblici indispensabili e non solo di quelli che interessano al privato, in quanto più direttamente connessi al valore economico delle opere realizzate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2014 n. 3003 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

APPALTI: Convenzioni per la gestione in forma associata di funzioni e attività relative all’acquisizione di lavori, beni e servizi.
L'ufficio lavori pubblici urbanistica edilizia dell'ANCI ha predisposto una "guida" ed uno "schema di convenzione" (gennaio 2015 - tratto da www.segretaricomunalivighenzi.it).

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, gennaio 2015).

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, gennaio 2015).

VARI: BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle Entrate, gennaio 2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

TRIBUTI: G.U. 24.01.2015 n. 19 "Misure urgenti in materia di esenzione IMU" (D.L. 24.01.2015 n. 4).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U. 22.01.2015 n. 17 "Individuazione delle modalità di funzionamento della cabina di regia istituita per il coordinamento degli interventi per l’efficienza energetica degli edifici pubblici" (D.M. 09.01.2015).

APPALTI: G.U. 20.01.2015 n. 15 "Istituzione del tavolo tecnico dei soggetti aggregatori, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, terzo periodo, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, unitamente ai relativi elenchi recanti gli oneri informativi" (D.P.C.M. 14.11.2014).

APPALTI: G.U. 20.01.2015 n. 15 "Requisiti per l’iscrizione nell’elenco dei soggetti aggregatori, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, secondo periodo, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modficazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, insieme con il relativo elenco recante gli oneri informativi" (D.P.C.M. 11.11.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 19.01.2015, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei Tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.12.2014, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 6 agosto 2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 09.01.2015 n. 3).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: G.U. 13.01.2015 n. 9 "Composizione, attribuzioni e funzionamento delle commissioni censuarie, a norma dell’articolo 2, comma 3, lettera a) , della legge 11.03.2014, n. 23" (D.Lgs. 17.12.2014 n. 198).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 14.01.2015, "Primo aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 09.01.2015 n. 18).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

VARI: R. D'Isa, Acquisto dell’eredità - Accettazione espressa o tacita ed accettazione con beneficio dell’inventario (22.01.2015 - tratto da http://renatodisa.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Palazzi, Allegati PEC non leggibili e sentenza TAR Friuli 610 del 03/12/2014 (18.01.2015 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Terre e rocce da scavo, la situazione ingarbugliata ad oggi (15.01.2015 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, FERCEL: la Regione fa un passo avanti e un capitombolo all'indietro (11.01.2015 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale – scadenza del 30.04.2015. Servizio di ANCE Bergamo per la compilazione e presentazione del MUD (Ance di Bergamo, circolare 23.01.2015 n. 31).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Trattenute mensili sugli stipendi dei dipendenti pubblici mediante I'istituto della delegazione convenzionale di pagamento - Nuove istruzioni operative (Ministero dell'Economia e  delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 15.01.2015 n. 2).

EDILIZIA PRIVATA: MODULI EDILIZIA: Ministro, Conferenza Regioni e Province autonome e Anci scrivono a sindaci e presidenti.
La Conferenza Unificata ha sancito il 18.12.2014 l'Accordo tra Governo, Regioni, Comuni, Città metropolitane e Province, concernente l'adozione di moduli unificati e semplificati per la comunicazione di inizio lavori (CIL) e per la comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) per gli interventi di edilizia libera.
E' il primo passo nell'attuazione dell'Agenda per la semplificazione 2015-2017 condivisa tra Governo, Regioni ed autonomie locali, approvata nella Conferenza Unificata del 13 novembre e dal Consiglio dei Ministri del 1° dicembre.
I moduli, adeguati alle ultime novità introdotte dallo "Sblocca Italia", sono stati predisposti (anche con il coinvolgimento delle associazioni imprenditoriali e degli ordini professionali) in modo da assicurare il massimo di semplicità degli adempimenti per cittadini e imprese.
Come è noto, ai sensi dall'articolo 24, comma 4, decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114, i moduli unificati e standardizzati adottati previa intesa in Conferenza costituiscono livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Sulla base di quanto previsto dalla legge e dall'Accordo, quindi, le Regioni adeguano entro 60 giorni (e cioè
entro il 16.02.2015) la modulistica alle specifiche normative regionali e di settore (utilizzando le informazioni individuate come variabili). Entro lo stesso termine, i Comuni adeguano la modulistica in uso.
L'accordo e i moduli sono disponibili sulla relativa pagina del sito del Dipartimento della Funzione pubblica.
L'adeguamento della modulistica da parte delle Regioni e dei Comuni, destinato ad avere un largo impatto su cittadini e imprese, sarà monitorato e pubblicizzato sulle pagine web dei siti: www.funzionepubblica.gov.it - www.regioni.it e www.anci.it.
Per questa ragione vi preghiamo di inviare la notizia dell'adozione dei nuovi moduli e il relativo link alla casella di posta elettronica: agendasemplificazione@governo.it.
Certi della vostra collaborazione nell'assicurare la più tempestiva adozione e diffusione dei moduli al fine di rispondere alle attese dell'opinione pubblica, dei cittadini e delle imprese, vi inviamo cordiali saluti.
Marianna Madia, Ministro per la Semplificazione e Pubblica Amministrazione
Sergio Chiamparino, Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome
Piero Fassino, Presidente dell'ANCI
(nota 12.01.2015 n. 615 di prot. - link a www.funzionepubblica.gov.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali, mediante unioni o convenzioni, da parte dei comuni (Ministero dell'Interno, nota 12.01.2015 n. 323 di prot.).

TRIBUTIOggetto: Entrata in vigore dell'imposta municipale secondaria (IMUS) di cui all'art. 11 del D.Lgs. 14.03.2011, n. 23. Vigenza della tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (TOSAP), del relativo canone, dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni (ICPDPA) e del canone per l'autorizzazione all'installazione dei mezzi pubblicitari (CIMP). Quesito (Ministero dell'Economia e delle Finanze, nota 12.01.2015 n. 281 di prot.).

APPALTI: SPLIT PAYMENT: IN VIGORE DAL 01.01.2015 - Legge di Stabilità 2015 (Fondazione Nazionale dei Commercialisti, nota operativa gennaio 2015).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Corte conti. Per l'Adsl a scuola paga l'ente.
Le spese relative all'installazione e all'utilizzo della rete internet mediante la tecnologia Adsl degli istituti scolastici sono a carico dei comuni. Infatti, come prescrive l'articolo 190 del dlgs n. 297/1994, alle amministrazioni comunali spetta l'onere di fornire alle scuole le utenze e, tra queste, ben può figurare l'onere relativo alla connessione internet, quale fondamentale ausilio al corretto svolgimento dell'attività didattica.

È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la regione Toscana, nel testo del parere 07.01.2015 n. 2, con il quale si è fatta chiarezza sul regime delle spese necessarie al corretto funzionamento di un istituto scolastico.
Interpellata sul punto dal comune di Camaiore (Lu), la magistratura contabile toscana ha inteso rispondere utilizzando la normativa di settore, ovvero il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado (il dlgs n. 297/1994). Infatti, l'articolo 190 in tema di gestione e manutenzione degli edifici scolastici, dispone che i comuni sono tenuti a fornire, oltre ai locali idonei, anche altri beni e servizi, quali l'arredamento, l'acqua, l'illuminazione e il telefono.
In dettaglio, questa norma sancisce l'obbligo per l'amministrazione comunale di provvedere alle spese telefoniche, ovvero alla fornitura del servizio telefonico, nel quale, oggi, va compreso anche l'accesso alla rete internet mediante la tecnologia Adsl.
Una precisazione che il legislatore, poi, rafforza nel testo dell'articolo 3 della successiva legge n. 23/1996 dove introduce una più dettagliata categoria di voci di spesa che corrispondono ai costi ordinari di funzionamento di una scuola. Tra questi, gli oneri concernenti il servizio telefonico come sopra evidenziato, necessario per il corretto svolgimento dell'attività di supporto alla didattica.
Pertanto, le spese per l'installazione e l'esercizio negli uffici degli istituti scolastici della linea Adsl, devono considerarsi a carico degli enti locali, anche se spetta ai dirigenti scolastici la vigilanza sul «corretto uso» dell'accesso alla rete (articolo ItaliaOggi del 16.01.2015).

PATRIMONIO: Comuni, affitti meno pesanti. Retroattivo il taglio del 15% dei canoni di locazione. La Corte dei conti dell'Emilia-Romagna ha risposto a un quesito di un ente locale.
La riduzione ex lege nella misura del 15% dei canoni di locazione corrisposti dagli enti locali per gli immobili ad uso istituzionale si applica anche ai vecchi contratti stipulati prima dell'entrata in vigore dell'obbligo.

Lo ha chiarito la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l'Emilia-Romagna, con il parere 14.01.2015 n. 1.
Dal 01.07.2014, anche gli enti locali (come le altre p.a.) sono soggetti all'obbligo di ridurre del 15% i canoni di locazione passiva dovuti in base a contratti in essere.
L'art. 24, al comma 4, del dl 66/2014 infatti, ha modificato l'art. 3 del dl 95/2012, il quale, a sua volta, al comma 3 dispone, appunto, ai fini del contenimento della spesa pubblica, la riduzione automatica del 15% rispetto alla misura attualmente corrisposta dei canoni relativi ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale.
Prima dell'entrata in vigore del dl 66, tale misura era prevista con decorrenza dal 01.01.2015. Essa, inoltre, si applicava alle sole amministrazioni centrali. La novella, però, ha anticipato la scadenza al 01.07.2014 e soprattutto ha esteso l'obbligo a tutte le amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001, includendo, quindi, anche gli enti locali.
La norma sancisce che la riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'art. 1339 codice civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti. Pertanto, si tratta di un automatismo, a differenza di quanto accade per la riduzione del 5% di fornitura, che rappresenta una mera facoltà per gli enti.
Tale automaticità, secondo i giudici contabili, implica anche la retroattività degli effetti, che si riverberano anche sui vecchi contratti. È comunque fatto salvo il diritto di recesso del locatore.
La misura ridotta del canone, ovviamente, va prevista anche nei contatti di nuova stipulazione o oggetto di rinnovo (articolo ItaliaOggi del 17.01.2015).

PATRIMONIO: Passaggio di consegne, danni condivisi.
In tema di rendicontazione dei beni mobili della p.a., qualora si accerti un passaggio di funzioni tra un soggetto consegnatario uscente e uno entrante, l'eventuale responsabilità amministrativo-contabile dovuta a perdite o a danneggiamenti dei predetti beni si intende ascrivibile a entrambi se vi sia incertezza nel periodo in cui il danno sia prodotto e, quindi, non sia possibile stabilire a quale gestione contabile risalga il danno. Incertezze che, tuttavia, possono essere superate attraverso la presentazione in giudizio di idonei mezzi di prova che sollevino il contabile dall'aver attuato una condotta dolosa o negligente.

La II Sez. d'appello della Corte dei Conti, con la sentenza 01.12.2014 n. 710, chiarisce i limiti entro cui può esercitarsi la responsabilità contabile verso i soggetti che svolgono la funzione di consegnatari di beni mobili all'interno della p.a.
Il caso ha riguardato l'ammanco e il deterioramento di beni conseguente al passaggio di consegne tra due presidi di un istituto scolastico (si veda ItaliaOggi del 13/5/2008). Entrambi condannati in primo grado perché, secondo il collegio, non era stato possibile risalire a quando il danno si fosse concretizzato, ovvero a chi dei due fosse ascrivibile la negligenza per aver permesso l'ammanco e il deterioramento dei beni scolastici.
Nella sentenza d'appello, pertanto, viene riaffermato questo punto fondamentale. Ovvero, che se mancano fonti di prova, la responsabilità viene ascritta a entrambi i consegnatari. Pertanto, come è poi avvenuto nel giudizio di appello, se uno dei soggetti già condannati (nel caso, il consegnatario subentrante) produce documenti che attestino la sua immediata conoscenza degli ammanchi e del deterioramento dei beni, allo stesso non può essere addebitata alcuna colpa sulla vicenda.
Il collegio, pertanto, nel riaffermare la colpa del consegnatario uscente per la perdita dei beni, ha comunque esercitato il potere riduttivo dell'addebito nei suoi confronti, avendo rilevato che la sua condotta non è stata dolosa ma si è concretizzata in una omissione di vigilanza (articolo ItaliaOggi del 21.01.2015).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Sindaco senza ombre. Se professionista non deve avere conflitti. In ogni caso la valutazione dell'incompatibilità spetta al consiglio.
Sussiste un'ipotesi d'incompatibilità di cui all'art. 63,m comma 1, n. 2), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nei confronti di un sindaco che svolge anche la professione di geometra ed è titolare di uno studio professionale che opera nel territorio dell'ente, principalmente nell'ambito dell'edilizia privata?

Secondo la giurisprudenza, le cause d'incompatibilità di cui alla norma citata, ascrivibili al novero delle c.d. incompatibilità d'interessi, hanno la finalità di impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli comunali, soggetti portatori di interessi configgenti con quelli del comune o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità (cfr. Corte costituzionale, sentenza 20.02.1997, n. 44; Id., sentenza 24.06.2003, n. 220).
In particolare l'ipotesi d'incompatibilità prevista dal comma 1, n. 2, del menzionato art. 63, è ravvisabile in presenza di un duplice presupposto: il primo di natura soggettiva ed il secondo di natura oggettiva.
Sul piano soggettivo, è necessario che l'interessato rivesta la qualità di titolare o di amministratore ovvero di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento. L'ampiezza di tale formulazione e la pacifica possibilità di interpretare in senso estensivo le disposizioni che incidono sul diritto di elettorato passivo consentono di ritenere che anche colui che esercita una professione intellettuale possa essere compreso nella nozione di titolare cui fa riferimento la norma in esame.
Dal punto di vista oggettivo, il sindaco, rivestito di una delle predette qualità, in tanto può considerarsi incompatibile, in quanto abbia parte in servizi nell'interesse del comune. L'espressione «avere parte» è qui usata per indicare una situazione di potenziale conflitto del soggetto titolare dell'interesse particolare rispetto all'esercizio imparziale della carica elettiva.
Ciò comporta che sia la nozione di partecipazione sia quella di servizi devono assumere un significato il più possibile esteso e flessibile, al fine di potervi ricomprendere forme di partecipazione eterogenee e attività che l'amministrazione comunale decide di fare proprie o potrà decidere di fare proprie, all'esito di una sua valutazione di merito. In tal senso, è irrilevante la natura, pubblicistica o privatistica, dello strumento prescelto dall'ente locale per la realizzazione delle proprie finalità istituzionali (cfr. Corte di cassazione, sezione I, sentenza 22.12.2011, n. 28504; Id., sentenza 16.01.2004, n. 550; Id., sentenza 17.04.1993, n. 4557).
Pertanto, la fattispecie ostativa all'espletamento del mandato elettorale potrà concretarsi nell'eventualità in cui il primo cittadino, nella sua qualità di professionista, prenda parte ad un servizio al quale il comune è interessato, nell'accezione sopra delineata.
In tal caso, la valutazione della eventuale sussistenza della causa d'incompatibilità è rimessa al consiglio comunale.
Infatti, in conformità al generale principio per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la verifica delle cause ostative all'espletamento del mandato è compiuta con la procedura prevista dall'art. 69 del decreto legislativo n. 267 del 2000, che garantisce il contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa d'incompatibilità contestata (cfr. Corte di cassazione, sezione I, sentenza 10.07.2004, n. 12809: Id., sentenza 12.11.1999, n. 12529) (articolo ItaliaOggi del 23.01.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi, decide il comune. Nello statuto il tetto a interrogazioni e mozioni. La materia è interamente demandata all'autonomia degli enti.
Quale regime deve applicarsi al gruppo consiliare formato da un unico consigliere se dal regolamento comunale non risulta chiaro se al gruppo «unipersonale» debba essere riconosciuto lo stesso trattamento riservato agli altri gruppi, ovvero se al singolo componente possa essere consentito di svolgere un solo atto di sindacato ispettivo per ogni seduta di consiglio?

I singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, sono titolari della competenza a dettare norme statutarie e regolamentari nella materia. Infatti l'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo.
Nella fattispecie in esame il regolamento dell'ente sul funzionamento del consiglio comunale prevede che ciascun consigliere non può presentare più di un atto di sindacato ispettivo per ogni seduta consiliare, mentre a ciascun gruppo consiliare è riconosciuta la possibilità di promuovere al massimo tre interrogazioni o interpellanze. Inoltre, la citata fonte normativa riconosce a ogni singolo consigliere il diritto di presentare una mozione per ogni seduta e ad ogni gruppo la possibilità di presentarne al massimo due.
Secondo una interpretazione letterale della normativa in questione, potrebbe essere riconosciuto al consigliere, unico componente del gruppo, il regime previsto per tutti gli altri gruppi dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, ferma restando la disciplina sul contingentamento dei tempi dei singoli interventi, disposta dalla medesima fonte normativa.
Tuttavia, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è, come evidenziato, interamente demandata allo statuto ed al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale ambito che devono trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative, posto che, diversamente, sarebbero necessarie modifiche ed integrazioni a dette fonti di disciplina locale. Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari che disciplinino anche le ipotesi in argomento (articolo ItaliaOggi del 16.01.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Permessi per il sindaco.
Quali sono i permessi, ai sensi dell'art. 79 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, di cui può usufruire il sindaco che, al contempo riveste la carica di componente della giunta di una Unione di comuni di cui l'ente locale fa parte?

Il comma 4 dell'articolo citato prevede che «i componenti degli organi esecutivi dei comuni __ delle unioni di comuni __ hanno diritto di assentarsi dal posto di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative mensili, elevate a 48 ore per i sindaci».
La norma, introdotta dal legislatore del 1999 con la legge n. 265 e poi recepita nel Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, è volta a rimuovere e/o impedire l'insorgenza di ostacoli che limitino il libero accesso del cittadino alle cariche elettive e politiche amministrative e a tal fine è prevista la possibilità, per il dipendente pubblico o privato destinatario della normativa, di optare per la richiesta dell'aspettativa o di disporre, attraverso i permessi, del tempo necessario per lo svolgimento della funzione amministrativa. All'amministratore in argomento, pertanto, deve essere riconosciuto il diritto di fruire dei suddetti permessi sia per la carica di sindaco che per quella di componente della giunta dell'Unione di cui fa parte.
Inoltre, ai sensi del comma 5 del citato articolo, i lavoratori dipendenti hanno diritto ad ulteriori permessi «non retribuiti», sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili, qualora risultino necessari per l'espletamento del mandato. Risulta fondamentale che le attività svolte dall'amministratore in questione siano correlate esclusivamente alle funzioni amministrative ricoperte, proprio in forza delle cariche rivestite.
Per quanto attiene poi alle modalità di attestazione dei permessi fruiti, di cui al comma 6 del citato art. 79 Tuel, devono essere prontamente e puntualmente documentate e rilasciate dal dirigente competente ai sensi dell'art. 107, comma terzo, lett. h), del dlgs n. 267/2000. Per completezza si richiamano le disposizioni dell'art. 5, commi 7 e 11 del decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122, in materia di riduzione del costo degli apparati politici e amministrativi (articolo ItaliaOggi del 16.01.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Dichiarazioni di voto.
L'istituto della dichiarazione di voto non è espressamente disciplinato dalla legge. Costituendo esso uno degli strumenti utilizzabili dai componenti il consiglio comunale per l'esercizio delle proprie funzioni, si ritiene che la sua previsione e disciplina debba eventualmente essere contenuta nel regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
Il consigliere comunale riferisce che il regolamento del consiglio comunale del Comune presso cui esercita il proprio mandato elettorale prevede che 'prima di ogni votazione ciascun capogruppo, o suo delegato, ha facoltà di chiedere la parola per dichiarazione di voto' e che la stessa 'deve essere contenuta nel limite massimo di 3 minuti' (articolo 49, commi 1 e 3).
A tale riguardo desidera sapere se sia 'possibile, sotto l'aspetto normativo, eliminare la suddetta prerogativa, ovvero togliere la possibilità di un intervento specifico per esprimere una dichiarazione di voto'.
[1] Ciò sul presupposto che una tale previsione debba considerarsi superflua, nonché potenzialmente generatrice di un inutile dispendio di tempo, atteso che il medesimo regolamento prevede, altresì, che i consiglieri che intendono prendere la parola durante lo svolgimento della discussione consiliare possono parlare per non più di due volte per una durata massima di 15 minuti. [2]
In via generale, si osserva che per dichiarazione di voto si intende la dichiarazione resa da un consigliere, dopo la chiusura della discussione e prima della votazione, per esprimere la posizione (favorevole, contraria o di astensione) che intende assumere nella votazione. Nel caso di specie, trattandosi di dichiarazione che può essere resa dal capogruppo consiliare, essa è finalizzata ad esprimere le motivazioni del voto che il gruppo ritiene di adottare su un determinato argomento posto in votazione.
A livello normativo, l'istituto della dichiarazione di voto non è espressamente disciplinato, costituendo esso uno degli strumenti utilizzabili dai componenti il consiglio comunale per l'esercizio delle proprie funzioni. In particolare, si ritiene che la sua eventuale previsione e disciplina rientri nell'autonomia normativa di cui è dotato tale organo. Riferimento normativo si rinviene nell'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 laddove prevede che: 'Il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento, approvato a maggioranza assoluta, che prevede, in particolare, le modalità per la convocazione e per la presentazione e la discussione delle proposte. [...]'.
Segue che è possibile eliminare la previsione dell'istituto della dichiarazione di voto, ed a tal fine è necessario modificare il regolamento del consiglio comunale, estrapolando da esso la norma di cui all'articolo 49.
Non sarebbe, invece, possibile disapplicare lo stesso, mantenendo inalterato l'attuale regolamento del consiglio comunale, sulla scorta della considerazione che il tempo concesso per la discussione potrebbe essere ritenuto sufficiente a ricomprendere anche quello sulla dichiarazione di voto. Da un punto di vista giuridico, infatti, è dato riscontrare una differenza in relazione ai soggetti legittimati ad utilizzare i due istituti: in particolare, mentre il tempo concesso per la discussione sui vari argomenti all'ordine del giorno spetta a ciascun consigliere che ne faccia richiesta, quello per la dichiarazione di voto è di spettanza dei soli capogruppo consiliari. Anche la finalità dei due istituti è differente: il primo è concesso ai soli fini della discussione, il secondo per la sola dichiarazione di voto.
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[1] Si riportano, testualmente, le parole contenute nel quesito.
[2] Recita, in particolare, l'articolo 42 del regolamento del consiglio comunale: 'Chi intende prendere la parola deve chiederlo al Presidente [...]. Nessun Consigliere può parlare più di due volte sullo stesso argomento, salvo particolari casi accertati dal Presidente o per fatto personale. Il primo intervento ha una durata massima di 10 minuti, il secondo è limitato a 5 minuti, per fatto personale 2 minuti [...]'
(09.01.2015 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'uso pubblico della strada privata.
DOMANDA:
Si chiede un parere in merito a dei lavori di installazione di una nuova recinzione che se eseguita impedirà il transito ai veicoli una strada esistente da decenni. Tale strada è indicata sullo strumento urbanistico vigente del comune come "strada esistente". Si presenta come strada bianca, cioè in terra battuta è lunga circa cento metri e collega due strade comunali. Catastalmente risulta essere in proprietà privata.
All'inizio, in ambo le parti, sono stati posti dei segnali di divieto di transito con il panello integrativo con la dicitura "proprietà privata". Il posizionamento dei segnali è stato fatto dal proprietario per tutelarsi in caso di sinistri stradali o richieste danni. Il transito è fatto soprattutto da bici e qualche veicolo nell'arco della giornata.
RISPOSTA:
La problematica esposta nel quesito risulta strettamente connessa all’accertamento o meno, da parte dell’amministrazione, di un eventuale uso pubblico sulla strada in questione. E’ chiaro infatti che, al di là della circostanza che l’area su cui insiste la strada sia catastalmente qualificata come privata, nulla toglie, che in concreto su di essa si eserciti di fatto un uso pubblico o di interesse pubblico.
Al riguardo va ricordato che, come ritenuto in giurisprudenza (cfr. tra le varie CDS sez. V, sentenza n. 728/2012) “poiché un’area privata possa ritenersi sottoposta ad una servitù pubblica di passaggio è necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I, 22.06.1985, n. 3761)..” (cfr. Cons. di Stat. Sez. V, sentenza n. 728 del 14/02/2012).
Il comune potrà dunque verificare al fine di decidere sulla legittimità o meno della richiesta di recinzione, se sussista o meno in concreto, un uso pubblico sulla strada accertando p.es. se essa sia utilizzata per il transito di tutti gli utenti della zona e comunque tenendo conto di altri indici sintomatici di un eventuale uso pubblico come l’ubicazione della strada stessa, l’inclusione nella toponomastica del Comune, l’apposizione della numerazione civica; l’apposizione di segnaletica stradale, la presenza di aree destinate a parcheggio, la presenza di illuminazione pubblica, la manutenzione della sede stradale, la eventuale funzione di raccordo con altre strade e sbocco su pubbliche vie ovvero per l’essere la stessa parte integrante della sede viaria stradale ecc..
In sintesi, dunque, il Comune potrà applicare tali criteri anche nel caso di specie per valutare se la strada privata possa considerarsi assoggettata o meno ad uso pubblico e cioè se la stessa sia oggettivamente idonea o meno all’attuazione di un pubblico interesse ovvero a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di interesse generale (link a http://www.ancirisponde.ancitel.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAL'Ape ha nuovi parametri. Obiettivo: superare le differenze tra le regioni. Un dm presto cambierà il calcolo delle prestazioni energetiche degli edifici.
Pronti i nuovi metodi di calcolo per la misurazione delle prestazioni energetiche degli edifici e per la compilazione della certificazione energetica. I requisiti minimi entreranno in vigore il prossimo 1° luglio 2015 e saranno resi più severi dal 1° gennaio 2019 per gli edifici pubblici e dal 1° gennaio 2021 per gli altri edifici, per realizzare gli «edifici a energia quasi zero». Per gli edifici di nuova costruzione e per quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il rispetto dei requisiti minimi andrà verificato confrontando l'edificio con un edificio di riferimento (identico per geometria, orientamento, ubicazione, destinazione d'uso). Per gli edifici interessati da semplici riqualificazioni energetiche, relative all'involucro edilizio e agli impianti tecnici, sono indicati i requisiti minimi.

Questo è quanto si legge nello schema di dm del ministero dello sviluppo economico (redatto di concerto con il ministero dell'ambiente e delle infrastrutture) che introduce il criterio di calcolo dell'efficienza energetica degli edifici.
Il decreto andrà in conferenza unificata il 28 gennaio prossimo per il prescritto parere. Il decreto è attuativo dell'articolo 5 del decreto legge 04.06.2013 n. 63 (c.d. decreto del Fare) convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2013 n. 90 e ha aggiornato il dlgs n. 192/2005, in recepimento della direttiva edifici a energia quasi zero (2010/31/Ue).
Norme Uni. Il nuovo decreto era da tempo atteso dagli operatori del settore dopo la pubblicazione delle norme Uni/Ts 11300 parte 1 e parte 2 che hanno revisionato le metodologie di calcolo per eseguire la certificazione energetica. L'ente italiano di normazione ha rilasciato gli aggiornamenti relativi alle norme Uni/Ts 11300 parte 1 (determinazione del fabbisogno di energia termica dell'edificio per la climatizzazione estiva e invernale) e parte 2 (determinazione del fabbisogno di energia primaria e dei rendimenti per la climatizzazione invernale e per la produzione di acqua calda sanitaria), e quello relativo al rapporto tecnico Uni/Tr 11552 (abaco delle strutture costituenti l'involucro opaco degli edifici).
I requisiti. Il decreto definisce i nuovi standard minimi di prestazione energetica che gli edifici di nuova costruzione e quelli ristrutturati dovranno raggiungere per rispettare quanto disposto con la direttiva sugli edifici a energia quasi zero. In particolare, per gli edifici nuovi o quelli che subiscono interventi di ristrutturazione c.d. pesante, le nuove prestazioni energetiche dovranno essere in linea con quelle di un «edificio tipo» per posizione, volumi, destinazione d'uso ecc..
Al contrario le prescrizioni per le ristrutturazioni leggere dovranno rispettare solamente degli standard minimi, anch'essi previsti nel nuovo decreto. Il testo conterrà anche la definizione di edificio a energia quasi zero. Inoltre a partire dal 31.12.2020 tutti gli edifici di nuova costruzione dovranno essere a energia quasi zero (articolo ItaliaOggi del 24.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Rc auto dei dipendenti p.a. a rate e sullo stipendio.
A breve, i dipendenti pubblici potranno pagare i premi assicurativi Rc auto in dodici rate e con addebito mensile sul proprio stipendio.

È quanto si ricava dalla lettura della circolare 15.01.2015 n. 2 della Ragioneria generale dello stato, emanata per fare un quadro chiarificatore sulle varie opportunità oggi messe in campo, di utilizzare lo strumento della delegazione di pagamento da parte dei dipendenti pubblici la cui partita di stipendio è attualmente amministrata dal portale NOI PA.
Nel testo della corposa circolare, infatti, un passaggio innovativo è quello dedicato alla possibilità, per i dipendenti pubblici, di pagare il premio assicurativo per la Rc auto, mediante rate mensili e con trattenute sulla propria partita stipendiale. Si sta diffondendo, infatti, tra le compagnie assicurative, la prospettiva di spalmare il pagamento del premio annuale in rate mensili, così da non pesare sulle finanze dell'assicurato. Adesso, la possibilità di pagare il premio rateale direttamente dallo stipendio, potrà ricevere il favore di una notevole platea dei dipendenti pubblici.
Per la Rgs, non sussistono intoppi in tal senso. Depone in tal senso, innanzitutto, il fatto che per tali contratti di assicurazione non è più prevista la clausola di tacito rinnovo, per cui gli stessi estinguono i propri effetti alla scadenza. Occorrerà comunque attendere uno schema-tipo che, a breve, verrà messo a disposizione sul portale NOI PA. La circolare, già da adesso, fornisce alcune indicazioni di massima.
La convenzione regolerà solo gli aspetti generali, rimandando alla libera autonomia delle parti, i contenuti specifici del contratto assicurativo (per esempio, la misura del premio legata al chilometraggio percorso). A ogni modo, si precisa, il pagamento del premio avverrà attraverso una ritenuta stipendiale di dodici rate mensili di pari importo. Nella convenzione, inoltre, dovrà essere precisato che la copertura assicurativa, in deroga alle previsioni del codice civile, decorrerà dalla data indicata nel contratto e non da quella del primo pagamento.
Infatti, stante i tempi tecnici per l'attivazione della delegazione convenzionale di pagamento, la trattenuta sullo stipendio della prima rata da versare a favore della compagnia assicurativa, potrà essere effettuata non prima di un mese. Naturalmente, la compagnia assicuratrice avrà, in via telematica, notizia dell'avvenuta «messa in quota» delle somme trattenute al dipendente (articolo ItaliaOggi del 23.01.2015).

SEGRETARI COMUNALIAboliti i segretari, restano i dg. Ma i primi sono essenziali in funzione anticorruzione. RIFORMA MADIA/ I direttori generali, invece, sono costati tanto e serviti a poco.
Confermata l'abolizione dei segretari comunali, ma introdotta la conferma dei direttori generali.

Gli emendamenti al disegno di legge delega per la riforma della pubblica amministrazione riescono in un piccolo capolavoro: confermano l'abolizione di una figura che svolge funzioni obbligatorie, mentre nello stesso tempo fanno salva una figura solo eventuale, che svolge funzioni a loro volta non obbligatorie.
Uno dei punti di maggiore criticità e delicatezza del ddl è la scelta, del resto annunciata nella famosa lettera di 44 punti inviata dal premier e dal ministro Marianna Madia ai dipendenti pubblici, di eliminare la figura dei segretari e comunali. Decisione quanto meno poco coerente con l'intenzione di potenziare la normativa anticorruzione, della quale i segretari, per legge responsabili anticorruzione e della trasparenza, sono un fulcro fondamentale.
Come, del resto, fondamentale è la loro opera a garanzia del coordinamento dell'attività amministrativa e, soprattutto, della legittimità complessiva dell'operato degli enti locali. Per i segretari comunali la strada segnata è l'abolizione della figura e la confluenza nell'albo dei dirigenti locali in una sezione speciale a esaurimento, in modo che non esista più lo status di segretario comunale: la funzione potrà essere oggetto di incarichi dirigenziali, non necessariamente, per altro, concentrati in un'unica funzione dirigenziale.
Per converso, gli emendamenti intendono perseguire il «mantenimento della figura del direttore generale di cui all'articolo 108 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267». Una scelta oggettivamente difficile da comprendere, dal momento che pare in questo modo configurarsi un dirigente locale non appartenente al ruolo «unico», che non sarebbe più così unico. Gli emendamenti, peraltro, fanno salvo, col mantenimento della figura del direttore generale, uno dei flop più clamorosi delle riforme Bassanini.
I direttori generali nei comuni e negli enti locali sono costati tantissimo e serviti a pochissimo. Difficile vedere una sia pur minima traccia dell'incremento di efficienza ed efficacia che avrebbero dovuto assicurare; non uno solo dei grandi enti andati in default, Roma per prima, ha potuto contare sull'operato taumaturgico dei direttori generali per evitare disservizi e mala gestione.
I direttori generali, nonostante la loro scarsissima utilità, sono costati carissimo: basti ricordare gli esempi di piccolissimi comuni che conferivano incarichi a direttori generali da decine di migliaia di euro l'anno, per soli pochi giorni la settimana, pesantemente censurati in particolare dalla Corte dei conti della Lombardia. Tanto da indurre nel 2009 all'abolizione dei direttori generali nei comuni fino a 100.000 abitanti; una vera e propria certificazione del fallimento di tale istituto (articolo ItaliaOggi del 23.01.2015).

CONSIGLIERI COMUNALII politici non pagheranno per gli atti dei dirigenti.
Le norme «salva Renzi» raddoppiano. Tra gli emendamenti presentati al disegno di legge delega per la riforma della pubblica amministrazione spicca quello ai sensi del quale si prevede il «rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione, e del conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, anche attraverso l'esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l'attività gestionale».

Si deve evidentemente attendere il decreto legislativo che attuerà il principio indicato, Ma fin d'ora si può concludere che se sarà tradotto nel senso piuttosto evidente espresso dalla norma, vi sarà un'area di non imputabilità ex lege degli organi politici per gli atti posti in essere dai dirigenti, nell'ambito della propria funzione gestionale.
Da un lato, questa previsione potrebbe chiarire una volta e per sempre che i dirigenti non possono farsi «scudo» di non meglio precisati «indirizzi politici» per la loro attività, chiarendo meglio, dunque, i livelli di responsabilità.
Dall'altro, la norma però escluderebbe totalmente gli organi di governo da responsabilità per il processo di formazione delle decisioni gestionali, alle quali, sovente, non sono del tutto estranei, in particolare quando si tratta dell'attività gestionale condotta dai dirigenti all'apice dell'organizzazione, chiamati a tradurre in atti gestionali e progetti operativi programmi di natura politico-amministrativa.
Sotto questo aspetto, la disposizione apparirebbe applicabile a un evento piuttosto noto, che può essere considerato paradigmatico: la condanna subita dall'attuale premier per danno erariale, dovuta all'assunzione nel suo staff di presidente della provincia e in quello degli assessori di quattro dipendenti inquadrati come funzionari, pur essendo privi di laurea. Se la stesura del decreto delegato attuativo dell'emendamento confermasse un'area di piena e totale non imputabilità dell'organo di governo per decisioni gestionali, da una vertenza come quella esemplificata, ancora in corso in fase di appello, occorrerebbe estromettere proprio gli organi di governo coinvolti. Lo stesso avverrebbe per molti altri casi.
Si assisterebbe, dunque, a una sorta di replica di una noma «salva premier». Nell'altro spezzone della riforma della pubblica amministrazione, il dl 90/2014, come si ricorderà, c'è un'altra previsione normativa utile al caso della provincia di Firenze: la modifica dell'articolo 90 del dlgs 267/2000, per effetto della quale sarà possibile ai sindaci (non più ai presidenti delle province, perché la legge 190/2014 fa loro divieto di assumere personale in staff ai sensi dell'articolo 90) assumere nei propri staff personale anche non laureato, potendolo retribuire addirittura con stipendi da dirigente, stipendi, ovviamente, irraggiungibili se detto personale non laureato ambisse ad essere assunto per concorso, perché la laurea è essenziale ai fini della stessa ammissibilità della domanda.
Sempre in tema di responsabilità erariale, gli emendamenti introducono un'altra novità. Si escluderà, infatti, la responsabilità amministrativa dei dirigenti nel caso in cui adottino scelte gestionali che comportino il mancato raggiungimento dei risultati previsti dai sistemi di valutazione (scatta la responsabilità «dirigenziale», che può comportare anche il licenziamento), ma che siano configurabili come «in sé legittime».
Sarà, allora, fondamentale che i decreti delegati definiscano in maniera ferrea i confini tra atti e competenze degli organi di governo e simmetrici atti e competenze gestionali, per non ingenerare confusione e ingolfamento dei procedimenti davanti alla magistratura contabile (articolo ItaliaOggi del 23.01.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Spunta la sanatoria per i sindaci. Riforma della pubblica amministrazione.
Inflessibile con i dipendenti «improduttivi», la riforma della Pubblica amministrazione in cottura al Senato potrebbe rivelarsi gentilissima con i politici che sono stati o sono ancora amministratori locali, ai quali sembra promettere una sorta di “salvacondotto” per metterli al riparo dalla Corte dei conti.
La novità spunta tra gli emendamenti presentati al Senato dal relatore della «legge Madia».
Dimensioni ed efficacia della barriera che sarà eretta fra la politica e i magistrati contabili dipendono naturalmente dai decreti attuativi, perché a Palazzo Madama si sta discutendo della legge delega, che fissa i principi generali. Da questo punto di vista la nuova regola, scritta negli emendamenti depositati dal relatore (Giorgio Pagliari, del Pd) e quindi figli di un confronto con il Governo, sembra lasciare margini piuttosto ampi, anche grazie a una formulazione che agli occhi dei tecnici non brilla per chiarezza.
Per leggerla bisogna arrivare al nuovo comma g-quater dell’articolo 13 della legge delega, scritto nell’emendamento 13.500, dove si chiede al Governo di rafforzare «il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione anche attraverso l’esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale». Tradotto, significa che in nome dell’autonomia dei dirigenti, i politici non potrebbero essere chiamati in questi casi a rispondere per danno erariale, e quindi a restituire al bilancio pubblico i soldi persi a causa del danno.
Ma che cos’è davvero «l’attività gestionale», e quali sono i suoi confini? La partita si gioca tutta qui, e non è semplice. È «attività gestionale», per esempio, quella di un assessore al personale che guida la delegazione del Comune nella trattativa sui contratti decentrati e firma accordi in cui si sforano i parametri di legge, come avvenuto in tanti Comuni? Sono «attività gestionale» le nomine fuori regola, le assunzioni illegittime, i ripiani eccessivi delle perdite nelle partecipate?
La risposta a queste domande dovrebbe toccare ai decreti attuativi, ma c’è un problema. Nella giurisprudenza della Corte dei conti è piuttosto costante l’applicazione della «esimente politica», che esclude dalla responsabilità ministri o amministratori locali per scelte che sono il frutto diretto del loro ruolo. In questo senso, dunque, la «separazione» delle responsabilità fra i politici e i dirigenti richiesta dall’emendamento alla delega Madia già esiste. Una nuova norma, quindi, sembra puntare quanto meno ad allargare il raggio d’azione di questa «esimente». Di quanto?
A chiederselo potrebbero essere in tanti, soprattutto fra gli amministratori locali (attuali o ex) che oggi stanno affrontando un processo in Corte dei conti. Tra questi spicca per celebrità il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che il 15 luglio prossimo dovrebbe rispondere ai magistrati toscani della nomina di quattro dirigenti quando era presidente della provincia di Firenze. In questo caso il presunto danno è stimato fra i 200mila e gli 800mila euro, ma davanti alle varie Procure contabili finiscono vicende molto più pesanti: ad Alessandria, per esempio, l’ex giunta di centrodestra è stata condannata a risarcire 7,6 milioni di euro con l’accusa di aver “aggiustato” i bilanci per rispettare sulla carta un Patto di stabilità sforato nella realtà, e la palla è passata all’appello.
Come sempre accade sul terreno penale, la definizione puntuale della nuova regola sarà importante anche per i processi in corso, perché se un reato smette di essere tale cadono anche tutte le partite giudiziarie che lo riguardano
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestioni associate verso il rinvio al 2016. Dl «milleproroghe». Emendamento per i comuni fino a 5mila abitanti.
L’obbligo che dal 1° gennaio scorso avrebbe costretto i Comuni fino a 5mila abitanti (3mila in montagna) ad allearsi per gestire in forma associata tutte le loro funzioni fondamentali è caduto in larga parte nel vuoto, e il Governo si impegna a far slittare tutto al 2016.
L’emendamento, che dovrebbe essere imbarcato nella legge di conversione del «Milleproroghe», è solo l’ultimo di una storia infinita che annaspa ormai da quasi cinque anni.
L’idea delle gestioni associate per dare più efficienza alla spesa degli oltre 5mila «piccoli Comuni» italiani (più del 60% del totale) nasce infatti nel luglio 2010, quando la manovra estiva (articolo 14 del Dl 78/2010) gioca la carta dell’alleanza obbligatoria sulle «funzioni fondamentali: una serie di attività che va dal bilancio ai servizi pubblici e ai servizi sociali, dal Catasto alla pianificazione urbanistica fino alla polizia locale e alla protezione civile, escludendo solo anagrafe e stato civile.
Dopo una girandola di proroghe, i Comuni avrebbero dovuto associarsi in Unioni o convenzioni per gestire tre funzioni entro il 01.01.2013, altre tre entro il 30 giugno scorso e completare la rete dal 1° gennaio scorso, ma nei fatti non è successo quasi nulla. Sulle regole a regime, però, il Viminale ha deciso di avviare i controlli, con una circolare (si veda Il Sole 24 Ore del 15 gennaio) che ha chiesto ai Prefetti di “guidarne” l’applicazione. L’indicazione ministeriale ha però scatenato le proteste dei sindaci, stretti fra problemi applicativi e resistenze politiche, fino alla richiesta dell’ennesimo rinvio accolta ieri dal Governo in Conferenza Stato-Città.
Sempre nella Conferenza di ieri, Governo e Comuni hanno siglato gli accordi sulle modalità di distribuzione dei tagli aggiuntivi prodotti nel 2015 dalle spending review del 2010 (ancora il Dl 78) e 2012 (il Dl 95). In pratica, si tratta di 288 milioni, che seguiranno praticamente le stesse regole utilizzate l’anno scorso, con un’estensione dei “bonus” ai Comuni coinvolti nelle calamità più recenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGOReati contro la p.a. sforbiciati. Perdonati mini abusi d'ufficio e piccole omissioni di atti. Lo schema di dlgs approvato dal governo ora all'esame delle commissioni parlamentari.
Sforbiciati i reati contro la pubblica amministrazione. Saranno perdonati i mini abusi d'ufficio e le piccole omissioni di atti d'ufficio. Anche i pubblici ufficiali potranno sfruttare l'agevolazione prevista dal futuro decreto legislativo sulla non punibilità del fatto tenue e non abituale.

Lo schema di provvedimento è stato approvato dal governo in prima lettura e ora è all'attenzione delle commissioni parlamentari.
Il provvedimento attua la delega conferita al governo con la legge 67/2014. Quest'ultima legge riforma il sistema sanzionatorio penale e vara due tipi di depenalizzazione. La depenalizzazione vera e propria consiste nella programmata trasformazione di molti reati in illeciti amministrativi: questo intervento riguarda tutti i reati puniti con sanzione pecuniaria (tranne alcune materie sensibili, come l'ambiente o la sicurezza sui luoghi di lavoro), e anche alcuni delitti e alcune contravvenzioni.
La legge 67/2014 prevede, poi, una depenalizzazione in concreto e cioè alcuni reati rimangono come previsione astratta nel codice e nelle leggi speciali; però se, nel caso specifico, quel fatto (corrispondente al reato) ha causato una piccola offesa e se il fatto è sporadico (non abituale), allora il colpevole sarà perdonato e non sarà punibile.
Quindi, mentre nel primo caso il reato scompare e non è più punito, nel secondo caso il reato rimane, ma se tenue, ugualmente non è più punito.
La scommessa del legislatore è che questa sia la strada giusta per trovare uno soluzione al problema della giustizia penale che non funziona e delle carceri stracolme.
La tecnica utilizzata è quella dell'applicazione della regola della non punibilità a tutti i reati che stanno sotto una certa soglia di sanzione, ma senza delimitare altrimenti l'ambito di applicazione.
In proposito la relazione illustrativa del provvedimento scrive che l'ambito di applicazione dell'istituto è di «ampio respiro, potenzialmente coprendo l'intera area delle contravvenzioni e parte consistente dei delitti puniti con la pena della reclusione non superiore a cinque anni. In particolare la legge delega e lo schema di decreto legislativo non contengono aprioristiche delimitazioni».
Se non ci sono delimitazioni, allora, sono interessati anche i reati contro la pubblica amministrazione.
Rientra, quindi, nel campo astratto di applicazione anche un abuso d'ufficio. L'articolo 323 del codice penale punisce con la reclusione fino a quattro anni il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, violando la legge intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arreca ad altri un danno ingiusto. Viene, quindi, rispettata la soglia massima di pena. Certo al pubblico ministero e al giudice rimarrà la responsabilità di verificare se si tratta di un fatto tenue (dalla portata offensiva bassa) e non abituale (non inserito in una serializzazione di condotte).
Stesso discorso può farsi per altri reati. Si prenda quello previsto dall'articolo 328 del codice penale: omissione di atti di ufficio. La norma punisce, con la reclusione da sei mesi a due anni, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo. Il medesimo articolo punisce anche il funzionario che, in casi diversi da quelli elencati, non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo (reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032).
In entrambe le ipotesi è rispettato il livello soglia della pena massima non superiore a cinque anni. E se tale limite è in grado di escludere le corruzioni e le concussioni, invece, ci rientrano, per esempio, la malversazione (articolo 316-bis codice penale), l'indebita percezione di erogazioni statali (articolo 316-ter codice penale), il peculato mediante profitto errore altrui (articolo 316 codice penale).
Il catalogo dei reati comprende anche alcuni illeciti contro l'amministrazione della giustizia. Si pensi, al reato di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale (punita con pena pecuniaria) o all'omissione di referto da parte del medico (anche qui è prevista solo la multa fino a 516 euro).
Rientra nell'ambito di applicazione la simulazione di reato (l'articolo 367 del codice penale prevede la reclusione fino a tre anni), mentre ne resta fuori la calunnia (articolo 368 del codice penale, per la quale il massimo della pena è di sei anni) (articolo ItaliaOggi del 22.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità, Madia contro Orlando. La ministra: nei tribunali priorità a dipendenti provinciali. Un tweet della numero uno di palazzo Vidoni smentisce il bando del Mingiustizia.
Madia contro Orlando, Funzione pubblica contro ministero della giustizia. La ragione del contendere è il ricollocamento dei 20 mila dipendenti provinciali in esubero che dovrebbe avere la priorità su tutti i processi di mobilità nella pubblica amministrazione e che invece sembra essere stata ignorata da un bando di via Arenula per oltre mille posti negli uffici giudiziari.
E così il ministro Madia su twitter è stato costretto a metterci una pezza con una risposta che però crea più dubbi che certezze e dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che sulla sorte dei dipendenti delle province l'incertezza regna sovrana. Ma vediamo di chiarire i termini della questione.
Via Arenula dimentica gli esuberi provinciali. Come rilevato su ItaliaOggi di ieri, il ministero della giustizia ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale un bando per 1.031 posti liberi negli uffici giudiziari. Ma, sorprendentemente, mentre dallo stesso governo provengono esortazioni a cogliere l'occasione della messa in soprannumero coatta di circa 20.000 dipendenti provinciali per la «più grande operazione di razionalizzazione della pubblica amministrazione», il bando viene configurato in modo da eludere i vincoli previsti dalla legge di stabilità 2015.
Tale legge, come noto, prevede una serie di vincoli e passaggi, tali da indurre le pubbliche amministrazioni a congelare le proprie assunzioni (salvo quelle dei vincitori di concorsi le cui graduatorie siano vigenti o approvare all'01.01.2015), proprio per acquisire in mobilità i dipendenti provinciali in soprannumero. L'avviso del ministero della giustizia, invece, riserva la «chiamata» alla mobilità a tutti i dipendenti della p.a. e in particolare a quelli dei ministeri. Stabilendo, oltre tutto, che il personale appartenente ad amministrazione diversa dai ministeri dovrà allegare, altresì, una dichiarazione della propria amministrazione, con la quale la stessa si impegna «a procedere al versamento delle risorse corrispondenti al 50% del trattamento economico spettante al personale interessato al trasferimento», secondo le modalità che saranno stabilite con il dpcm previsto dall'art. 30, comma 2.3 del dlgs. 165/2001, in corso di perfezionamento». Previsione piuttosto strana: infatti, il bando, in sostanza, anticipa gli effetti del dpcm al quale è condizionato, e al quale avrebbe dovuto succedere nel tempo.
Non solo: nel pretendere la dichiarazione di disponibilità dell'ente di provenienza, diverso dai ministeri, a coprire il 50% del trattamento economico dei dipendenti, mette in sostanza fuori gioco le province, per due motivi. In primo luogo, perché a causa del versamento coatto di 1,380 miliardi allo stato, le province sono prive di risorse finanziarie; in secondo luogo, perché ai sensi dell'articolo 1, comma 425, della legge 190/2014, le mobilità dei dipendenti provinciali in soprannumero sono proprio esentate dal versamento del 50% del trattamento economico, esattamente allo scopo di incentivare le mobilità dei dipendenti provinciali, per altro con priorità verso gli uffici giudiziari.
Insomma un vero e proprio caos, che ha suscitato l'intervento del presidente dell'Unione province italiane (Upi), Alessandro Pastacci, che in una lettera rivolta al ministro Marianna Madia ha stigmatizzato il fatto che molte amministrazioni, in spregio alla legge 190/2014, stiano avviando mobilità aperte e non riservate ai dipendenti provinciali, portando ad esempio proprio l'avviso di mobilità del ministero della giustizia.
La numero uno di Palazzo Vidoni ha risposto a Pastacci con un tweet tutt'altro che risolutivo: «Mobilità sbloccata: 1.071 dipendenti pubblici verso uffici giudiziari dove c'era carenza personale. Priorità a quelli di province». Un tweet che ha il sapore di una presa di distanza dall'operato del ministero della giustizia: una sorta di invito, sintetico e criptico, a rivedere la decisione adottata, per dare priorità alla mobilità dei dipendenti provinciali.
Sta di fatto che, come facilmente prevedibile, l'attuazione della mobilità prevista dalla legge di stabilità 2015 si rivela da subito molto complessa, per la refrattarietà delle amministrazioni ad accettare i vincoli alle assunzioni imposti e la situazione straordinaria imposta dalla riforma delle province (articolo ItaliaOggi del 22.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni? Con la mobilità. Oltre mille posti sottratti all'uso dei sovrannumerari. Il mingiustizia non ha tenuto conto della ricollocazione dei dipendenti provinciali.
Mille e 31 posti sottratti alla possibile ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero. È questa la conseguenza dell'avviso di mobilità indetto dal Ministero della giustizia e pubblicato il 20 gennaio scorso sulla Gazzetta Ufficiale (4ª Serie speciale - Concorsi ed esami n. 5).
Nei giorni scorsi il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha parlato di acquisire in mobilità almeno 2 mila dipendenti provinciali per fare fronte alle carenze di organico degli uffici giudiziari. Il tutto, in linea sia con l'articolo 30, comma 2.3, del dlgs 165/2001 sia con l'articolo 1, comma 425, della legge 190/2014, ai sensi del quale il dipartimento della funzione pubblica avvia, presso le amministrazioni dello stato una ricognizione dei posti da destinare alla ricollocazione del personale provinciale in sovrannumero interessato ai processi di mobilità, in conseguenza della quale le amministrazioni statali debbono comunicare un numero di posti, soprattutto riferiti alle sedi periferiche, corrispondente, sul piano finanziario, alla disponibilità delle risorse destinate, per gli anni 2015 e 2016, alle assunzioni di personale a tempo indeterminato. Successivamente, Palazzo Vidoni pubblica l'elenco dei posti comunicati nel proprio sito istituzionale, per attivare le procedure di mobilità, procedendo in via prioritaria alla ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero proprio presso gli uffici giudiziari.
Si crea, tuttavia, un vero e proprio cortocircuito normativo. Mentre, infatti, la legge di Stabilità congela le assunzioni, come visto sopra, nel contempo il «milleproroghe» all'articolo 1, commi da 1 a 5, crea spazi alle amministrazioni statali per assumere a valere sulle risorse di turnover del 2013 a condizione che siano già state ottenute le autorizzazioni ad assumere, prorogate appunto dalla legge 192/2014.
Infatti, l'articolo 1, comma 5, del milleproroghe dispone: «Le risorse per le assunzioni prorogate ai sensi del comma 1, lettera b) e del comma 2, per le quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, non è stata presentata alle amministrazioni competenti la relativa richiesta di autorizzazione ad assumere, sono destinate, previa ricognizione da parte della Presidenza del consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica, a realizzare percorsi di mobilità a favore del personale degli enti di area vasta in ragione del riordino delle funzioni».
La sostanziale contraddizione tra legge di Stabilità e decreto milleproroghe porta, dunque, alla situazione paradossale che migliaia di posizioni vacanti del Ministero della giustizia siano oggetto di un avviso di mobilità aperto a tutti: né si attinge a eventuali graduatorie, continuando così a colpire gli «idonei» dei concorsi, fortemente penalizzati dalle norme della legge 190/2014; né si attiva il meccanismo per la ricollocazione dei dipendenti provinciali.
Poiché obiettivo della legge di Stabilità è ricollocare un rilevante numero di dipendenti provinciali in sovrannumero anche presso l'amministrazione della giustizia, occorre chiedersi perché il ministero della giustizia, ancorché autorizzato ad assumere, abbia pubblicato il 20 gennaio sulla Gazzetta Ufficiale, l'avviso. In ogni caso, si giunge al risultato della sottrazione di ben 1031 posti alla futura, difficile ricollocazione di ben 20 mila dipendenti delle province, posti in sovrannumero d'imperio dal legislatore.
Al di là delle previsioni normative, semplici ragioni di coerenza con un impianto molto ampio e complesso avrebbero dovuto consigliare al ministero di meglio ponderare la decisione e considerare se non sarebbe stato più corretto rimettere i 1031 posti (per i quali sono indicati anche profili professionali e sedi) a disposizione della Funzione pubblica, per partire da subito con la mobilità dei dipendenti provinciali. Ai quali, peraltro, non sarà comunque vietato presentare domanda di mobilità. E potrebbe anche darsi che in migliaia cercheranno di trasferirsi, prima ancora che si avviino e concludano le procedure per la loro collocazione in sovrannumero.
È la dimostrazione che la riforma delle province e la legge 190/2014 hanno creato un caos inestricabile, con comportamenti contraddittori dello stesso governo che ha attivato dette norme (articolo ItaliaOggi del 21.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., licenziamenti senza ostacoli. Azioni disciplinari più veloci. Carriere legate al merito. Gli ultimi emendamenti al ddl Madia. Salvi i direttori generali, dirigenti sugli scudi.
Procedimenti disciplinari più veloci e più efficaci per gli statali.

È tutto racchiuso in un emendamento del relatore, Giorgio Pagliari (Pd) al ddl Madia di riforma della pubblica amministrazione, il piano del governo per rafforzare le attuali regole sui licenziamenti.
Regole che già ci sono e sono molto restrittive (come riconosciuto dallo stesso ministro a proposito della legge Brunetta) ma che spesso vengono vanificate da ostacoli di varia natura. Tra i criteri di delega che spetterà ai decreti attuativi tradurre in norme precettive, il governo ha fatto inserire l'«introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto l'esercizio dell'azione disciplinare».
Alla stretta fa da contraltare la semplificazione dei procedimenti di valutazione che dovranno portare a riconoscere e premiare i dipendenti meritevoli. La valutazione sarà decisiva per i dirigenti, le cui carriere saranno legate a doppio filo alle pagelle ricevute e non, come accade ora, agli automatismi di carriera. I curricula dei dirigenti saranno monitorati in una banca dati che sarà gestita dalla Funzione pubblica. In questo data base i manager pubblici dell'era del ruolo-unico dovranno rendere pubblico il proprio profilo professionale e gli esiti della valutazione ricevuta per ciascun incarico.
Nella pubblica amministrazione «licenziare è già possibile, visto che su 6 mila procedimenti, un quarto si è chiuso con una sanzione grave come licenziamento o sospensione, noi adesso inseriamo un criterio di delega che vuole rafforzare la normativa, in modo che non ci siano più blocchi al procedimento disciplinare», ha commentato il ministro Marianna Madia in occasione della presentazione degli ultimi emendamenti in commissione affari costituzionali al senato (il termine per la presentazione dei sub-emendamenti scadrà il 29 gennaio, dopodiché si passerà al voto).
Madia ha tuttavia sottolineato che il governo è «aperto alla discussione» e che l'indicazione del premier Matteo Renzi «è di avere i decreti pronti in contemporanea con la legge delega» intorno ad aprile.
Il numero uno di palazzo Vidoni è anche tornato sul diverso trattamento tra statali e lavoratori privati in materia di licenziamenti disciplinari illegittimi, ribadendo che nel pubblico impiego la regola resta il reintegro (a differenza del Jobs Act che prevede, salvo casi eccezionali, l'indennizzo, si veda ItaliaOggi del 15 gennaio) «anche perché», ha aggiunto, «c'è un rischio di spoils system di tipo politico che in un'azienda privata non c'è».
Dirigenti. Nel ruolo unico della dirigenza pubblica confluiranno anche i dirigenti delle università statali e degli enti pubblici di ricerca equiparati da questo punto di vista ai dirigenti dello stato. Nel ruolo unico dei dirigenti regionali saranno inclusi i dirigenti amministrativi, professionali e tecnici del Servizio sanitario nazionale, mentre restano fuori i dirigenti medici, veterinari e sanitari. La valutazione dei manager pubblici sarà affidata a una commissione, istituita presso la Funzione pubblica, a cui spetterà conferire ed eventualmente revocare gli incarichi. Confermata l'abolizione dei segretari comunali, che confluiranno in un'apposita sezione a esaurimento del ruolo dei dirigenti degli enti locali, si salvano invece i direttori generali, nominabili, ai sensi del Tuel, al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, nei comuni sopra i 15 mila abitanti e nelle province.
La mobilità dei dirigenti dovrà essere «semplificata e ampliata» e non solo nei passaggi da una p.a. all'altra, ma anche tra pubbliche amministrazioni e settore privato. Anzi, si legge, in uno degli emendamenti depositati ieri dal relatore «l'esperienza effettuata nel privato» dovrà essere valorizzata «ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali».
Tra le novità introdotte ex novo dagli emendamenti del relatore si segnala anche «la confluenza della retribuzione di posizione fissa nel trattamento economico fondamentale» e il collegamento, «ove possibile» della retribuzione di risultato sia agli obiettivi di comparto sia a «obiettivi assegnati al singolo dirigente».
Infine, dovrà essere rafforzato il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione, con conseguente incremento dei casi di responsabilità dirigenziale. Solo i manager pubblici saranno soggetti a responsabilità amministrativo-contabile per l'attività gestionale. I politici resteranno dunque al riparo da responsabilità per danno erariale.
Dipendenti. Nei concorsi avranno una corsia preferenziale i precari della p.a. Un emendamento del relatore prevede infatti che nelle procedure concorsuali venga valorizzata «l'esperienza professionale di coloro che hanno avuto rapporti di lavoro flessibile con le amministrazioni pubbliche, incluse le collaborazioni coordinate e continuative». La valutazione dei dipendenti pubblici sarà semplificata e, come per i dirigenti, sarà legata al merito. Dovranno essere sviluppati «sistemi distinti per la misurazione dei risultati raggiunti» dalla singola amministrazione e dal singolo lavoratore.
Arriva infine una stretta sulle assenze per malattia. Un emendamento sempre depositato ieri introduce una riorganizzazione con controlli effettivi e attribuisce le competenze all'Inps.
Enti locali. Infine, una dichiarazione di principio che sicuramente farà piacere agli enti locali. Le comunicazioni di dati e informazioni che gli enti territoriali sono oggi tenuti a trasmettere alle amministrazioni centrali saranno «razionalizzate» e soprattutto «concentrate in ambiti temporali definiti». Non, come accade ora, spalmate nell'arco dell'anno (articolo ItaliaOggi del 21.01.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: «Centrali uniche» realizzabili anche con convenzione. Acquisti. Le istruzioni dell’Anci.
L’acquisizione di lavori, servizi e forniture di beni mediante un modello organizzativo che faccia leva su una centrale unica di committenza può essere realizzata dai Comuni non capoluogo con una convenzione in forma associata, anche utilizzando lo schema predisposto dall’Associazione nazionale comuni italiani.
L’obbligo previsto dal comma 3-bis dell’articolo 33 del Codice dei contratti pubblici è operativo dal 1° gennaio per gli acquisti di beni e servizi, mentre sarà esteso agli affidamenti di lavori a partire dal 1° luglio.

La disposizione del decreto legislativo 163/2006 (riformulata dalla legge 89/2014) individua una serie di soluzioni operative che gli enti possono scegliere, delineando anche la possibilità di un «accordo consortile».
Questa definizione contenuta nella norma (replicante quella esistente nella versione precedente) è stata peraltro interpretata come espressione atecnica, con la quale il legislatore ha voluto genericamente riferirsi alle convenzioni definibili in base all’articolo 30 del decreto legislativo 267/2000, come strumento alternativo all’unione dei Comuni (Corte dei Conti, sezione regionale di controllo Umbria, deliberazione 112/2013/Par del 05.06.2013; sezione regionale di controllo Lazio, delibera 138/2013/Par del 26.06.2013).
La possibilità per i Comuni di avvalersi dei «competenti uffici», sottintende la volontà di non dare vita a un organismo autonomo rispetto agli enti stipulanti.
Inoltre, a fronte dei vincoli previsti dall’articolo 2, comma 28, della legge 244/2007 e dei divieti dettati dall’articolo 2, comma 186, della legge n. 191/2009, le amministrazioni comunali non possono costituire consorzi di funzioni.
Rispetto a questo quadro, quindi, l’accordo consortile è traducibile operativamente come una convenzione per la gestione associata in base all’articolo 30 del decreto legislativo n. 267/2000.
Per sostenere i Comuni nell’organizzazione del modello di centralizzazione degli acquisti in forma aggregata, l’Anci ha elaborato uno schema di convenzione (accompagnato da una guida esplicativa, che ne illustra la natura e alcuni aspetti operativi), che è stato inviato ieri a tutte le amministrazioni.
Lo strumento pattizio è strutturato in base all’assetto previsto dall’articolo 30 del decreto legislativo 267/2000 e presenta una serie di varianti, adattabili dai Comuni che intendono utilizzarlo, riferite alle due soluzioni previste dalla disposizione del Tuel: l’ufficio comune o l’ente capofila.
Il quadro degli elementi principali della convenzione propone anche una possibile distribuzione delle attività tra i singoli Comuni aderenti e la struttura organizzativa configurata come centrale unica di committenza, nella quale saranno chiamate a operare risorse umane qualificate appartenenti ai vari Comuni associati.
Il processo di affidamento è invece poggia invece sul riparto di competenze tra il responsabile del procedimento e il responsabile della “centrale” di acquisto, con una serie di indicazioni di dettaglio che distinguono le parti della procedura di competenza di ciascuno
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.01.2015).

APPALTI: Appalti pubblici, le imprese lanciano l’allarme sull’Iva. Buzzetti (Ance): norma-killer riduce la liquidità di 1,3 miliardi. Split payment. Con la legge di stabilità «salta» il pagamento del 10% da parte della Pa.
È allarme Iva per le imprese che eseguono appalti di lavori pubblici dopo l’inserimento nella legge di stabilità dello split payment, il meccanismo che cancella il versamento dell’importo Iva (pari al 10%) alle imprese appaltatrici da parte della Pa.
«È una norma-killer che metterà in ginocchio centinaia di imprese», dice il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, che ha registrato una protesta durissima della sua base e stima in 1,3 miliardi la perdita di liquidità per le imprese. «Non bastasse il credit crunch e il pagamento con almeno otto mesi di ritardo medio da parte delle pubbliche amministrazioni -continua Buzzetti- ora arriva anche questa norma ad aumentare la pressione sulla già difficilissima situazione finanziaria delle imprese. Vorrei ricordare al governo, che credo abbia sottovalutato l’impatto di questa disposizione sul settore, che nella situazione attuale le imprese stanno chiudendo nella gran parte dei casi proprio per l’aggravamento della situazione finanziaria».
Per le imprese appaltatrici, chiusa la possibilità di compensare l’Iva a debito con quella a credito all’interno dell’appalto, non resterà ora che mettersi in fila agli sportelli del fisco per incassare il credito Iva maturato con l’appalto. A questo proposito l’Ance ricorda che in Italia la tempistica per i rimborsi dell’Iva, già sanzionata con una procedura d’infrazione dall’Unione europea, raggiunge anche i due anni e mezzo medi «rispetto ai 7-10 giorni della Gran Bretagna, a un mese della Francia e a sei mesi della Spagna». E proprio l’Unione europea dovrà comunque autorizzare la deroga al regime Iva imposto con lo split payment, pur avendo il governo inserito nella stessa legge di stabilità una norma-catenaccio che consente comunque l’applicazione della norma dal 1° gennaio 2015 in attesa del parere di Bruxelles.
Non è escluso quindi che le imprese, qualora non abbiano soddisfazione dal governo con una modifica alla norma, possano guardare a Bruxelles anche con qualche azione legale. «Abbiamo parlato -dice Buzzetti- con il ministro Lupi, con il sottosegretario Delrio, con il ministero dell’Economia e ci è stata assicurata un’attenzione al problema ma certamente se non ci fosse una modifica della situazione attuale, qualche azione dovremo pur farla». Tutto questo mentre Matteo Renzi lunedì sera a «Quinta Colonna» ha spiegato con dovizia come almeno la metà dell’occupazione persa negli ultimi 6-7 anni riguardi il settore dell’edilizia e come sia necessario ripartire da lì per creare occupazione.
«Anche noi -dice Buzzetti- registriamo qualche segnale di ripresa, per la verità ancora debole e incerto, dalle compravendite nel settore immobiliare e dai bandi di gara per gli appalti, ma nulla che ancora si traduca in cantieri e lavori. Certo è che questa norma sull’Iva rischia di affossare anche questo barlume di ripresa che le imprese stanno aspettando da tempo»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico, la Via è obbligata. Valutazione ambientale per il solare in parchi e città. Un decreto del ministero dell'ambiente estende l'obbligo di verifica per gli impianti energetici.
Assoggettamento obbligatorio alla valutazione di impatto ambientale per l'installazione di un impianto fotovoltaico in «aree naturali protette». Il rigoroso regime di tutela che impone la Via obbligatoria si applicherà ai progetti ricadenti, anche parzialmente, in tali zone.
La Via dovrà inoltre essere richiesta se l'impianto fotovoltaico sorge in una zona a forte intensità abitativa (> 500 abitanti/kmq) o in una zona a protezione speciale o di interesse storico o se è vicino ad altri impianti. Accanto alle soglie dimensionali, alle quali le regioni potranno applicare riduzioni dal 20 al 50%, ci sarà una serie di criteri sulla base dei quali si deciderà quando un impianto dovrà essere sottoposto a Via.
Queste le indicazioni contenute nello schema di decreto del ministero dell'ambiente contenente le «linee guida sui criteri per sottoporre a verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale dei progetti di competenza delle regioni e province autonome» (art. 20 dlgs n. 152/2006).
Il decreto contenente le linee guida è attuativo dell'articolo 15, 1° comma, lettera c), del decreto competitività (legge 116/2014 di conversione, con modificazioni, del decreto legge n. 91/2014) che ha modificato la disciplina in materia di valutazione di impatto ambientale, introducendo alcuni emendamenti alle disposizioni di cui al dlgs n. 152/2006 parte II, titolo III.
La modifica introdotta nel decreto competitività avveniva in seguito a una procedura di infrazione della commissione europea. Era infatti risultato in contrasto con la normativa europea, in particolare con la direttiva 92 del 2011, il fatto che la taglia di un impianto fosse l'unica discriminante in base alla quale si decideva la procedura autorizzativa. A seguito del via libera della conferenza unificata dell'18 dicembre, in data 8 gennaio, lo schema di decreto contenente le linee guida è stato trasmesso dal ministro dell'ambiente e della tutela del territorio ai presidenti di camera e senato per l'acquisizione del parere delle competenti commissioni parlamentari.
Linee guida. Le linee guida entreranno in vigore entro il quindicesimo giorno dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale del decreto ministeriale. Esse si applicheranno a tutti i procedimenti in corso. Le regioni e le province autonomo potranno individuare e richiedere al ministero dell'ambiente, per specifiche situazioni ambientali e territoriali e per determinate categorie progettuali, deroghe ai contenuti delle linee guida, nel rispetto della normativa comunitaria in materia di valutazione di impatto ambientale. Il ministero dell'ambiente potrà decidere la deroga con un successivo decreto ministeriale.
Le linee guida integrano i criteri tecnico dimensionali e localizzativi utilizzati per la fissazione delle soglie (allegato quarto parte seconda del dlgs n. 152/2006) per le diverse categorie progettuali individuando ulteriori criteri. L'applicazione di ulteriori criteri comporterà una riduzione delle soglie dimensionali con estensione dal campo di applicazione delle disposizioni in materia di Via a progetti potenzialmente in grado di determinare effetti negativi sull'ambiente (articolo ItaliaOggi del 20.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, nuova interfaccia e nuove sanzioni a breve. Cambia l'applicazione. Tra due settimane obbligo d'iscrizione.
A disposizione delle imprese soggette al Sistri una nuova release dell'applicazione di movimentazione e della nuova interfaccia di interoperabilità. La nuova versione dell'interfaccia di interoperabilità, disponibile sin d'ora in ambiente di sperimentazione, verrà rilasciata in ambiente di pre-esercizio (simulatore) alla scadenza del 29.01.2015 e in ambiente di esercizio il 13.02.2015.

Questo è quanto si legge sul sito Sistri (www.sistri.it) e aggiornato al 15.01.2015.
Gli aggiornamenti delle nuove applicazioni informatiche avvengono a poco più di due settimane dall'applicazione delle sanzioni per la mancata iscrizione e il mancato versamento del diritto annuale Sistri. Il decreto Milleproroghe (articolo 9 del decreto legge 31.12.2014, n. 192 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31.12.2014 n. 302) ha infatti aggiunto la scadenza del 01.02.2015 come termine a partire dal quale verrà sanzionata la mancata iscrizione al Sistri o il mancato versamento dei contributi.
La stessa Assotrasporti insieme ad Azione nel trasporto italiano, Un.i.cooptrasporti e Cepi-Cci, con un comunicato di ieri ha chiesto al governo «di sospendere la richiesta di versamento dei contributi e delle relative sanzioni sino a quando non si avrà un sistema funzionante, al minor costo possibile per le aziende aderenti».
Sanzioni Sistri. Dal 1° febbraio si applicheranno le sanzioni legate alla mancata iscrizione del sistema della tracciabilità dei rifiuti e l'omesso versamento del contributo Sistri. L'articolo 206-bis (commi 1 e 2) del dlgs n. 152/2006 prevede che per l'omessa iscrizione nei termini previsti si applichi la sanzione amministrativa pecuniaria da 15.500 euro a 93.000 euro nel caso di rifiuti pericolosi. Nel caso di rifiuti non pericolosi si applichi la sanzione amministrativa da 2.660 euro a 15.500 euro. Per l'omesso pagamento, nei termini previsti, del contributo Sistri viene stabilita una sanzione amministrativa pecuniaria da 15.500 euro a 93.000 euro nel caso di rifiuti pericolosi.
Per i rifiuti non pericolosi la sanzione va da 2.660 euro a 15.500 euro. Al contrario non si applicheranno dal 01.01.2015 al 31.12.2015, le sanzioni relative alle omissioni e violazioni in materia di sistri (articoli 260-bis commi da 3 a 9 del dlgs n. 152/2006), e le sanzioni amministrative accessorie (articolo 260-ter del dlgs n. 152/2006) (articolo ItaliaOggi del 20.01.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBuoni pasto esenti fino a 7 euro. L’acquisto da parte delle aziende resta deducibile al 100 per cento. Agevolazioni. Per i ticket elettronici dal 1° luglio aumenta l’importo non imponibile da fisco e previdenza.
Buoni pasto concessi a dipendenti e collaboratori detassati fino all’importo complessivo giornaliero di 7 euro se resi in forma elettronica. La legge di stabilità 2015 ritocca verso l’alto il tetto di esenzione, portandolo da 5,29 a 7 euro ma soltanto per i ticket elettronici.
La disposizione -contenuta nei commi 16 e 17 dell’unico articolo della legge di stabilità (legge 190/2014)- entrerà in vigore dal 01.07.2015 e varrà fino a 200 euro di ulteriori redditi esentasse che da quest’anno andranno nelle tasche dei lavoratori beneficiari, seppure sotto forma di compenso in natura. Dal 2016 in poi, invece, l’agevolazione aumenterà fino a 400 euro annui.
Fino al 30 giugno di quest’anno, il trattamento fiscale in capo al lavoratore dipendente rimane invariato: la non imponibilità delle prestazioni sostitutive delle somministrazioni in mense aziendali, e cioè dei buoni pasto, è fissata nella soglia massima di 5,29 euro al giorno, a prescindere dalla tipologia dei ticket restaurant distribuiti ed utilizzati.
Dal 01.07.2015, l’articolo 51, comma 2, lettera c), del Tuir, prevede, invece, che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente gli importi complessivi giornalieri fino a 5,29 euro nel caso di ticket non elettronici (quindi certamente quelli cartacei), elevati a 7 euro relativamente ai ticket elettronici.
L’agevolazione riguarda sia il regime fiscale, sia gli oneri previdenziali, valendo le stesse esclusioni e limiti dettati dall’articolo 51 del Tuir anche ai fini del calcolo dell’imponibile contributivo.
Il valore da prendere in riferimento è quello nominale, ossia quello facciale indicato sul buono pasto. Peraltro, ove gli importi complessivi giornalieri fossero più alti di quelli appena citati, gli stessi andrebbero tassati in busta paga e assoggettati ai relativi oneri contributivi, ma solo per l’eccedenza.
I limiti sono validi anche per i lavoratori part-time, quindi non si richiede alcun riproporzionamento in base all’orario di lavoro. Anzi, le stesse franchigie sono riconosciute anche nel caso in cui l’articolazione dell’orario di lavoro non prevedesse il diritto alla pausa pranzo (risoluzione agenzia delle Entrate 30.10.2006 n. 118).
Per fruire della detassazione i buoni pasto devono essere rivolti alla generalità dei dipendenti o a categorie omogenee di essi. Come è stato precisato dall’amministrazione finanziaria (circolare 23.12.1997 n. 326/E e circolare 16.07.1998 n. 188/E), per categorie omogenee non devono intendersi solo quelle previste dal codice civile (dirigenti, operai, ecc.), ma anche tutti i dipendenti di un certo tipo, ad esempio tutti i lavoratori con una certa qualifica o di un certo livello. L’interpretazione data dalle Entrate è comunque piuttosto flessibile e volta ad evitare che vi siano concessioni di benefits ad personam. Il responsabile del personale potrà ben ritagliare gruppi omogenei in base alle esigenze aziendali e dei lavoratori.
Ai fini della determinazione del reddito di impresa, l’acquisto dei ticket restaurant è completamente deducibile e pertanto -come confermato dalle Entrate nella circolare n6 del 03.03.2009- non sconta il limite del 75% fissato per le spese di vitto e alloggio dall’articolo 109, comma 5, del Tuir
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2015 - tratto da www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATANel privato Durc a validità breve. Adempimenti. Non è stata confermata la durata di 120 giorni.
Per i lavori edili dei soggetti privati, dal 1° gennaio il documento unico di regolarità contributiva (Durc) è ritornato ad avere 90 giorni di validità, invece di 120.
L’articolo 31, comma 8-sexies, del decreto legge 69/2013 (decreto del Fare) aveva stabilito che «fino al 31.12.2014 la disposizione di cui al comma 5, primo periodo, si applica anche ai lavori edili per i soggetti privati». La novità introdotta dal comma 5 riguardava appunto il Durc, in quanto veniva stabilito che il documento unico di regolarità contribuvia «rilasciato per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha validità di 120 giorni dalla data del rilascio».
Quanto previsto dall’articolo 31, comma 8-sexies, però, aveva validità fino alla fine del 2014. Poiché nel frattempo non vi è stata alcuna proroga, si deve ritenere ripristinata la validità di 90 giorni dalla data del rilascio, fissata in precedenza dall’articolo 39-septies del decreto legge 273/2005 e successivamente richiamato dall’articolo 7 del decreto ministeriale del 24.10.2007 il quale, oltre la durata, stabilisce le modalità di rilascio, i contenuti analitici del Durc, nonché le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale e di tutela delle condizioni di lavoro da non considerare ostative al rilascio del documento medesimo.
L’uniformità della validità del Durc, tra appalti pubblici e privati, era stata determinata proprio dal Dl 69/2013. Infatti mentre l’articolo aveva uniformato la durata a 120 giorni, l’articolo 31, comma 5, ha stabilito (ed è ancora così) che nel pubblico, conformemente a quanto già avveniva nel settore privato, le stazioni appaltanti per tutte le fasi dell’appalto e fino all’attestato di esecuzione, devono chiedere il Durc ogni 120 giorni e non per ogni singola fase, con la sola esclusione del saldo, in occasione del quale è necessario un ulteriore documento di regolarità.
Abbandonato ora inspiegabilmente, da parte del legislatore, l’omogeneo trattamento procedurale relativo alla medesima materia tra appalti pubblici e quelli privati, per questi ultimi da questo mese è tornato in vigore il periodo di 90 giorni di validità dalla data della sua emissione, durante il quale in ogni caso esso conserva tutta la sua efficacia nelle varie fasi dell’appalto cui conseguono anche eventuali pagamenti (per esempio stati di avanzamento, perizie, varianti). Solo al saldo dovrà essere chiesto un apposito Durc.
Poiché la modifica opera soltanto sulla durata di validità del documento, si ritiene che nel caso di riscontrate inadempienze contributive da parte dell’appaltatore nei confronti dell’Inps, dell’Inail o della Cassa edile, questi hanno sempre l’obbligo di invitare il soggetto interessato a regolarizzare la posizione entro 15 giorni, il cui adempimento permetterà la regolare emissione del Durc
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2015).

CONDOMINIOL’amministratore dura un anno. Occorre in ogni caso un passaggio in assemblea alla prima scadenza. Nomine. Una «proroga» dei poteri per la stessa durata è possibile soltanto se manca il quorum.
L’amministratore di condominio resta in carica un anno. A seguito della riforma, la disciplina prevede ora che l’incarico «si intende rinnovato per eguale durata» (articolo 1129, comma 10, del Codice civile). La laconica previsione potrebbe indurre a concludere che si sia dinanzi a una generalizzata ipotesi di rinnovo tacito dell’incarico. In realtà, questa conclusione è da scartare.
Per un verso, anche in occasione del rinnovo dell’incarico l’amministratore è tenuto a comunicare i dati di cui al secondo comma dell’articolo 1129 del Codice civile (dati anagrafici e professionali, codice fiscale, sede legale e denominazione se si tratta di società, locale in cui sono tenuti i registri condominiali, orari in cui è possibile prenderne visione) e a «specificare analiticamente... l’importo dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta» (articolo 1129, comma 14, del Codice civile). Adempimenti, questi, difficilmente conciliabili con un tacito rinnovo.
Per altro verso, l’amministratore è pur sempre obbligato a convocare l’assemblea in prossimità della scadenza del suo incarico affinché si determini in merito alla successiva gestione, tanto che «il ripetuto rifiuto di convocare l’assemblea» per la nomina del nuovo amministratore configura un’espressa ipotesi di “grave irregolarità” (articolo 1129, comma 12, n. 1, del Codice civile) che legittima ciascun condomino ad agire per la revoca giudiziale.
A questo punto, è possibile ipotizzare quattro possibili esiti:
1) l’assemblea nomina un nuovo amministratore;
2) l’assemblea conferma l’amministratore uscente definendo espressamente –con modifiche, aggiornamenti e integrazioni– le condizioni del rapporto e dell’incarico;
3) l’assemblea conferma l’amministratore uscente senza alcuna determinazione in merito al rapporto e all’incarico;
4) l’assemblea, magari riconvocata (per scrupolo del professionista o perché gli sia stato richiesto dai condomini), non raggiunge i quorum richiesti per la sua costituzione e per l’adozione della deliberazione di nomina.
È possibile ritenere che solo nelle due ultime ipotesi operi il rinnovo dell’incarico, a giustificare il quale non è il semplice spirare del termine, ma la circostanza che l’assemblea non abbia voluto o potuto determinarsi su condizioni e termini della conferma o sulla nomina di un nuovo amministratore.
In altri termini, il rinnovo dell’incarico per eguale durata è ipotizzabile solo nell’ipotesi in cui un passaggio assembleare si sia consumato e si sia accertata la sua infruttuosità o l’assenza di determinazioni di segno diverso rispetto alla conferma del rapporto alle medesime condizioni.
Senza questo passaggio procedimentale, la scadenza del termine può determinare solo quella situazione, comunemente indicata, di prorogatio imperii a cui, con la riforma, fa ora espresso riferimento l’articolo 1129, comma 8, del Codice civile: «alla cessazione dell’incarico l’amministratore è tenuto... ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi».
La nuova disciplina, dunque, non tollera manovre dilatorie o evasive da parte dell’amministratore in scadenza, prevedendo, in queste situazioni, precisi effetti: la stringente delimitazione dell’ambito di operatività dei poteri dell’amministratore in regime di prorogatio (solo «attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni») e il mancato riconoscimento di un ulteriore compenso costituiscono chiare indicazioni dirette a dare impulso all’iniziativa dell’amministratore in scadenza, tenuto a convocare l’assemblea per le necessarie determinazioni sulla successiva gestione.
La lettura qui proposta consente di trarre due conclusioni:
a) delinea con maggiore chiarezza la distinzione tra l’ipotesi del rinnovo dell’incarico (articolo 1129, comma 10, del Codice civile) e quella della prorogatio (articolo 1129, comma 8, del Codice civile), con le diverse e significative conseguenze sul piano dei poteri e del compenso riconosciuti all’amministratore;
b) induce a ritenere, anche alla luce del dato letterale della norma, che non vi siano ragioni per confinare la fattispecie del rinnovo solo alla prima scadenza dell’incarico (un anno più un “solo” ulteriore anno), con esclusione di ogni possibilità di rinnovo alle scadenze successive, come pure alcuni commentatori hanno ipotizzato; un tacito rinnovo, dunque, ben può riproporsi, alle condizioni prima richiamate, dopo ogni scadenza, non solo alla prima
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2015).

CONDOMINIOLa delibera dannosa è annullabile per eccesso di potere. In assemblea. Tribunale di Lecco.
Un delibera presa solo nell’interesse di quei pochi condomini, che solitamente in assemblea rappresentano un numero elevato di millesimi, può essere annullata se assunta in eccesso di potere.
Finalmente una buona notizia che mette fine alla “dittatura” condominiale di quei proprietari che si mettono insieme al fine di perseguire un vantaggio personale in contrasto con l’interesse collettivo del condominio.
Questo è quello che rimarca il TRIBUNALE di Lecco con la sentenza n. 701/2014. Pur non essendoci alcuna norma che consente l’annullamento di una delibera condominiale in assenza di un vizio formale, il giudice di merito, basandosi sulla giurisprudenza di legittimità che configura l’eccesso di potere ogni qual volta l’interesse collettivo viene leso unitamente all’interesse del singolo, ha annullato la delibera. In particolare, la delibera impugnata era stata assunta a maggioranza di pochi condomini, che avevano nominato nuovamente un amministratore già giudicato inadeguato perché aveva ingenerato diversi contenzioni giudiziari, esponendo il condominio a continui esborsi legali.
Dopo una parentesi a conduzione giudiziale, il vecchio amministratore, proprietario di casa nel condominio si ricandida e, grazie alla complicità di alcuni condomini amici che rappresentano la maggioranza in termini di millesimi, viene rieletto.
Il sindacato del giudice, in sede di impugnativa di una delibera condominiale, attiene solo alla legittimità della delibera stessa in relazione a una violazione di una legge o del regolamento, essendo precluso l’esame del merito e cioè delle ragioni di opportunità o di convenienza che hanno indotto l’assemblea ad assumere quella decisione.
In un solo caso il merito può essere sindacato da giudice ed è proprio quando l’assemblea ha deliberato con eccesso di potere (Cassazione, sentenze 3177/1978 e, più recentemente, 6853/2001 e 10754/2011).
La nozione di “eccesso di potere” è di natura strettamente amministrativa, appartenendo in particolare al diritto pubblico nell’ambito dei vizi di legittimità dell’atto. La giurisprudenza ha trasfuso questo termine in ambito condominiale, configurandolo come una grave lesione dell’interesse della comunione come dispone l’articolo 1109 del Codice civile, primo comma: «ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può impugnare avanti l’autorità giudiziaria le deliberazioni della maggioranza se la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune».
In conclusione, tutte le volte in cui una delibera assembleare crea un grave pregiudizio all’amministrazione della cosa comune, sussisterà il vizio di eccesso di potere e, dunque, il giudice potrà annullare la decisione viziata
     (articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2015).

CONDOMINIO: Contratto di rendimento senza il fondo obbligatorio. Consumi energetici. Le nuove regole prevedono che ci si debba dotare dell’Ape.
Nel condominio non sempre è obbligatorio raccogliere integralmente i fondi (anche se con i versamenti rateizzati in base al piano dei lavori) prima di effettuare interventi di manutenzione straordinaria o innovazioni. Il decreto legislativo 102/2014 ha infatti dato maggior forza al Contratto di rendimento energetico (o Epc, cioè Energy Performance Contracting) che prevede il pagamento dilazionato negli anni.
Questo strumento, però, è utilizzabile solo qualora l’intervento porti al miglioramento dell’efficienza degli usi finali dell’energia (intesa quest’ultima in tutte le forme di prodotti energetici, combustibili, energia termica, energia rinnovabile, energia elettrica o qualsiasi altra forma di energia). Il contratto può avere a oggetto opere sia sull’edificio (cappotto, coibentazione eccetera) sia sugli impianti (riqualificazione centrale termica, solare termico, fotovoltaico, termoregolazione e contabilizzazione).
Il punto di partenza quindi è il costo annuo (in termini sia di energia sia economici) sostenuto dal condominio. È pertanto necessario ricorrere ad una diagnosi energetica o a un attestato di prestazione energetica (Ape). Si ricordi anche che con uno qualunque di questi due documenti il quorum per deliberare le opere è quello agevolato della maggioranza degli intervenuti e di almeno un terzo dei millesimi. Lo studio individuerà quali interventi effettuare al fine di ottenere un risparmio di energia e, quindi, anche economico. Dovranno altresì essere calcolati i potenziali risparmi (energetici ed economici) successivi agli interventi e il rapporto tra questi ed il costo necessario per ottenerli. Gli investimenti (lavori, forniture o servizi) saranno poi pagati in funzione del livello di miglioramento dell’efficienza energetica stabilito contrattualmente o di altri criteri di prestazione energetica concordati, quali i risparmi finanziari. Contrattualmente, quindi, una volta individuati i costi complessivi ed il risparmio annuo, verrà determinato il periodo contrattuale e l’importo (in relazione ai risparmi effettivamente conseguiti) che verrà pagato ratealmente.
Ad esempio, si ipotizzi in 100 il costo iniziale annuo del riscaldamento per il condominio. Le opere comporteranno una spesa di 120. Successivamente ad esse, il costo annuale per il condominio riferito al riscaldamento a seguito del risparmio energetico, sarà di 60. Il risparmio di 40 verrà utilizzato per pagare l’investimento in 3 anni. Si potrà anche prevedere la restituzione in 6 anni in modo che una parte del risparmio vada subito a vantaggio del condominio.
Lo stesso legislatore prevede che l’effettivo miglioramento dell’efficienza energetica venga verificato e monitorato durante l’intera durata del contratto. Questo dovrà quindi contenere disposizioni chiare e trasparenti per quantificazione e verifica dei risparmi garantiti conseguiti, controlli della qualità e garanzie. Dovranno quindi essere previste disposizioni che chiariscono la procedura per gestire modifiche delle condizioni quadro che incidono sul contenuto e i risultati del contratto (a titolo esemplificativo: modifica dei prezzi dell’energia, intensità d’uso di un impianto). Particolare attenzione dovrà essere prestata per dettagliare gli obblighi di ciascuna delle parti contraenti e le sanzioni in caso di inadempienza
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2015).

CONDOMINIO: Il creditore si può tutelare pignorando le rate ai condòmini. Pagamenti. Una via per aggirare i limiti della riforma.
L’articolo 63, comma 2, delle Disposizioni di attuazione del Codice civile consente al creditore del condominio rimasto insoddisfatto di agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti solo dopo l’escussione degli altri condòmini.
Con la riforma, pertanto, il creditore del condominio solo dopo aver esaurito tutte le azioni esecutive nei confronti dei morosi –subendo le eventuali difficoltà anche economiche connesse con il recupero dei dati nonché i tempi e i costi dei procedimenti espropriativi– potrà rivolgere le proprie istanze verso i virtuosi.
Ma dopo aver ottenuto il titolo giudiziale (cioè il decreto ingiuntivo), che strade può percorrere il creditore per veder coattivamente soddisfatto il proprio credito? Anche alla luce del vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale a livello di Tribunali suscitato dal pignoramento del conto corrente condominiale (Reggio Emilia 16/05/2014; Milano 27/05/2014; Pescara 08/05/2014 e 17/12/2013), volendo ricercare percorsi in grado di tutelare, in modo più rapido e meno costoso, i crediti del fornitore, si potrebbe ipotizzare un pignoramento presso terzi. Nel quale i terzi pignorati siano tutti i singoli condòmini nella loro veste di debitori del condominio per quegli importi dai medesimi dovuti in base alla delibera di approvazione del bilancio.
In questa azione esecutiva soggetto passivo sarebbe sempre e solo il condominio quale debitore del fornitore, posto che, come in ogni procedimento di espropriazione presso terzi, il terzo debitor debitoris (cioè il condòmino) mai riveste il ruolo di parte: il fornitore non andrebbe ad aggredire esecutivamente i singoli condòmini, bensì il credito vantato dal condominio nei confronti di questi ultimi così come risultante dalla delibera di approvazione del bilancio e da corrispondersi alle scadenze in esso individuate.
Il fornitore, pertanto, avrebbe la possibilità, a seguito dell’ordinanza di assegnazione, di “intercettare” a proprio favore le somme dovute dai singoli al condominio a titolo di rate condominiali evitandone così l’accredito sul conto corrente condominiale. In forza del provvedimento di assegnazione il fornitore, così come ogni creditore assegnatario, si andrebbe, infatti, a sostituire al proprio originario debitore (condominio) nella titolarità attiva del credito al medesimo assegnato.
Con l’ordinanza di assegnazione il credito verso il terzo (singoli condomini), nei termini di cui all’assegnazione medesima, si trasferirebbe quindi dal debitore esecutato (condominio) al creditore pignorante (fornitore) con tutte le conseguenze di legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2015).

APPALTISplit payment, iter graduale. Le p.a. possono accantonare l'Iva da versare entro il 16/4. Le anticipazioni sul decreto del Mef sul pagamento dell'Iva a carico del destinatario.
Debutto soft per il meccanismo dello split payment per il pagamento dell'Iva sulle forniture agli enti pubblici. In fase di prima applicazione, le amministrazioni possono limitarsi ad accantonare l'imposta addebitata dai fornitori dal 2015, in attesa di effettuare il versamento all'erario in un momento successivo, ma comunque entro il 16 aprile.
Ma soprattutto è stata scongiurata l'applicazione retroattiva del meccanismo anche alle vecchie fatture non ancora saldate al 01.01.2015: il decreto del ministero dell'economia correggerà, infatti, la legge istitutiva. Facciamo il punto sulle nuove disposizioni introdotte dalla legge n. 190/2014, alla luce delle anticipazioni contenute nel comunicato stampa di venerdì 9 gennaio del Mef.
Le disposizioni sullo split payment. Il nuovo art. 17-ter del dpr n. 633/1972, al comma 1, stabilisce che per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello stato e dei suoi organi, anche dotati di personalità giuridica, degli enti pubblici territoriali e dei loro consorzi, delle camere di commercio, degli istituti universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza, per i quali i suddetti enti non sono debitori d'imposta ai sensi delle disposizioni in materia di Iva, l'imposta è in ogni caso versata dagli enti stessi secondo modalità e termini fissati con decreto del ministro dell'economia.
In caso di omesso o ritardato versamento, si applicano le sanzioni dell'art. 13, dlgs n. 471/1997 e le somme dovute vengono recuperare dal fisco con l'atto di cui all'art. 1, comma 430, della legge n. 311/2004.
Il comma 2 esclude dalle suddette disposizioni i compensi per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla fonte a titolo di imposta sul reddito.
Versamento dell'Iva a carico del destinatario. In sostanza, la particolarità introdotta dall'art. 17-ter consiste nel porre direttamente a carico del cessionario/committente l'obbligo di versare all'erario l'imposta evidenziata dal fornitore nella fattura, in deroga al sistema normale secondo cui l'Iva è riscossa dal fornitore, il quale la versa poi all'erario al netto dell'imposta detraibile sui propri acquisti.
Il meccanismo speciale (che dovrà essere autorizzato dall'Ue perché rappresenta, appunto, una deroga alle disposizioni della direttiva Iva) non interferisce, pertanto, sulle modalità di fatturazione dell'operazione, che rimangono quelle ordinarie, salvo l'esigenza di specificare nella fattura che l'imposta addebitata deve essere versata all'erario dal destinatario, ai sensi dell'art. 17-ter.
In sede di registrazione, invece, si renderanno necessari degli adattamenti. Il fornitore registrerà le fatture nei registri Iva in apposita colonna o con apposita codifica, distintamente secondo l'aliquota applicata, senza computare però il debito d'imposta, mentre dal punto di vista contabile, come rilevato dalla fondazione nazionale commercialisti in una recente nota operativa, stornerà l'imposta dal totale del credito acceso verso il cliente contestualmente alla registrazione o con apposita scrittura di rettifica.
L'ente destinatario registrerà normalmente la fattura ai sensi dell'art. 25 del dpr n. 633/1972 se effettua l'acquisto in veste di soggetto passivo dell'Iva, mentre sotto il profilo contabile dovrà in ogni caso adattare le rilevazioni, anche per tenere memoria del conto Iva a debito verso l'erario. A tal fine, potrebbe tornare utile il registro delle fatture ricevute, che gli enti pubblici sono obbligati a istituire, a decorrere dal 01.07.2014, ai sensi dell'art. 42 del dl 24.04.2014, n. 66.
Modalità di pagamento dell'imposta. Secondo quanto anticipato dal comunicato stampa del Mef, il decreto in arrivo stabilirà che il pagamento dell'imposta può essere effettuato, a scelta dell'amministrazione:
a) con un distinto versamento per ciascuna fattura la cui imposta è divenuta esigibile;
b) in ciascun giorno del mese, con un distinto versamento considerando tutte le fatture per le quali l'imposta è divenuta esigibile in tale giorno;
c) entro il giorno 16 di ciascun mese, con un versamento cumulativo considerando tutte le fatture per le quali l'imposta è divenuta esigibile nel mese precedente.
In attesa di leggere le disposizioni del decreto, che dovrebbe disciplinare anche le modalità di recupero dell'Iva risultante da eventuali note di credito ricevute dai fornitori, si osserva che l'unico termine di versamento esplicitamente menzionato nel comunicato riguarda l'ipotesi sub c).
In via transitoria, inoltre, sarà stabilito che fino all'adeguamento dei sistemi informativi relativi alla gestione amministrativo-contabile delle amministrazioni, ma in ogni caso non oltre il 31.03.2015, le stesse amministrazioni possono accantonare le somme occorrenti per il successivo versamento dell'imposta, che deve comunque essere effettuato entro il 16.04.2015.
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Destinatari, irrilevante lo status di chi acquista i beni o i servizi.
Le operazioni sottoposte al meccanismo speciale sono quelle effettuate nei confronti degli enti menzionati nell'art. 17-ter, la cui elencazione corrisponde a quella fornita dal quinto comma dell'art. 6 del dpr n. 633/1972 in relazione all'esigibilità differita dell'Iva. È da ritenere, quindi, che valgano, in merito all'individuazione degli enti destinatari dello «split payment», i medesimi criteri interpretativi forniti dall'amministrazione con riguardo al citato quinto comma.
Si ricorda, in proposito, che con risoluzione n. 99 del 30.07.2004 è stato precisato che quest'ultima disposizione non si riferisce a qualsiasi ente pubblico, ma soltanto a quelli tassativamente menzionati, essendo peraltro una disposizione di deroga alle regole generali e, come tale, di stretta interpretazione. In materia di esigibilità, il comunicato del Mef anticipa che il decreto stabilisce che sulle operazioni soggette a split payment l'imposta diviene esigibile al momento del pagamento oppure, su opzione dell'amministrazione acquirente, al ricevimento della fattura.
Sempre dal punto di vista dei destinatari, è irrilevante lo status con il quale il soggetto pubblico acquista i beni o i servizi, ossia se nella sua veste istituzionale (o comunque non commerciale), oppure nell'esercizio di un'attività economica rilevante agli effetti dell'Iva, in quanto le disposizioni dell'art. 17-ter non distinguono al riguardo.
Dal punto di vista dei fornitori, invece, l'art. 17-ter non contiene indicazioni di carattere soggettivo, ragion per cui il meccanismo speciale si applica alle cessioni di beni e prestazioni di servizi rese nei confronti dei predetti enti da tutti i soggetti passivi dell'Iva. A rigor di legge, fatte salve eventuali interpretazioni fondate su criteri diversi da quello letterale, lo split payment si applica pertanto anche quando il fornitore che cede il bene o presta il servizio a un ente ricompreso nell'elenco dell'art. 17-ter rientra, a sua volta, nell'elenco stesso.
Passando ai profili di carattere oggettivo, le disposizioni dell'art. 17-ter si applicano a tutte le cessioni di beni e prestazioni di servizi, con le sole eccezioni seguenti, espressamente previste dalle disposizioni stesse:
a) operazioni per le quali il soggetto destinatario riveste lo status di debitore dell'Iva in base alle disposizioni in materia;
b) compensi per prestazioni di servizi assoggettati a ritenuta Irpef.
È logico ritenere, pur in assenza di una specifica previsione normativa, che siano comunque escluse dallo split payment le operazioni alle quali il meccanismo non può concretamente applicarsi, ossia le operazioni per le quali non è prevista, per effetto di regimi d'imposta speciali, la distinta indicazione dell'Iva nella fattura, per esempio le cessioni di beni soggette al regime del margine, le prestazioni delle agenzie di viaggio, le cessioni di prodotti editoriali in regime monofase.
- Operazioni in regime di inversione contabile. L'eccezione normativa di cui alla lettera a) sopra riportata sta a significare che sono escluse dal meccanismo speciale dello split payment le particolari operazioni alle quali, ai sensi degli articoli 17, sesto comma e 74 del dpr n. 633/1972, l'imposta si applica con un altro meccanismo speciale, quello dell'inversione contabile (o reverse charge). Per l'applicazione di quest'ultimo meccanismo, diversamente che per lo split payment, è però richiesto che il cessionario/committente agisca in veste di soggetto passivo dell'Iva.
In definitiva, dunque, quando sussistono i presupposti oggettivi e soggettivi previsti, prevale il meccanismo dell'inversione contabile: per esempio, l'ente pubblico che, nell'esercizio di un'attività economica, fruisce di una prestazione di servizi di pulizia di un edificio, applicherà l'Iva integrando la fattura del fornitore (che in tal caso, naturalmente, non dovrà riportare l'imposta) e registrandola poi:
- nel registro delle fatture emesse al fine di evidenziare il debito del tributo nella liquidazione periodica;
- nel registro degli acquisti al fine di esercitare la detrazione della stessa imposta, se spettante.
Un dubbio si pone per gli acquisti a destinazione promiscua, ossia quando l'ente pubblico acquista un bene o servizio, oggettivamente sottoposto al regime dell'inversione contabile, da utilizzare sia nella sfera istituzionale che in quella commerciale. In tale eventualità, non infrequente soprattutto a motivo dell'inclusione dei servizi di pulizia degli edifici, dal 01.01.2015, tra le operazioni sottoposte a inversione contabile, per esigenze di semplificazione sarebbe opportuno prevedere l'applicazione di un solo meccanismo particolare, indipendentemente dall'incidenza dell'impiego nell'una e nell'altra finalità.
- Decorrenza. Secondo il comma 632 dell'art. 1 della legge n. 190/2014, le disposizioni sullo split payment, nelle more del rilascio dell'autorizzazione del consiglio Ue, si applicano alle «operazioni per le quali l'Iva è esigibile a partire dal 01.01.2015». Questa previsione, che avrebbe attratto nel nuovo meccanismo anche le fatture emesse precedentemente per le quali l'esigibilità non si è realizzata al 31.12.2014, sarà opportunamente corretta dal decreto in arrivo: sarà infatti precisato che le nuove disposizioni si applicano alle fatture emesse dal 01.01.2015, la cui imposta si renda esigibile da tale data, in modo da escludere in ogni caso le fatture emesse fino al 31.12.2014 (articolo ItaliaOggi Sette del 19.01.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento, più controlli. Nuovi adempimenti per gli impianti soggetti ad «Aia». Con il decreto 272/2014 rafforzato il monitoraggio sulla diffusione di sostanze pericolose.
Doppia scadenza per gli impianti sottoposti ad autorizzazione integrata ambientale (c.d. Aia), che dovranno, in base ad attività svolta e sostanze pericolose coinvolte, entro il 07.04.2015 presentare alle Autorità competenti la verifica preliminare delle loro potenzialità di inquinamento ed entro il successivo 07.01.2016, ove prevista, la relazione di riferimento sullo stato di qualità di suolo ed acque sotterranee interessate.

Il calendario è dettato dal nuovo dm Minambiente 13.11.2014 n. 272, provvedimento (ufficializzato con comunicato pubblicato sulla G.U. del 07.01.2015 n. 4, ed immediatamente in vigore dalla stessa data, in quanto atto «non normativo» ex dpr 1092/1985) che in attuazione della nuova disciplina di settore introdotta dal dlgs 46/2014 nel Dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale) reca le modalità di redazione della citata relazione, unitamente ad una ricognizione dei soggetti direttamente obbligati alla stessa e di quelli tenuti, invece, alla preventiva verifica della possibilità di contaminazione, che in caso di esito positivo fa scattare l'altro adempimento.
I nuovi obblighi. Il dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale) stabilisce con il suo articolo 7 la necessità di autorizzazione integrata ambientale (rilasciata solo dietro il rispetto di elevati standard di sicurezza) per l'esercizio delle industrie ad alto potenziale inquinante (individuate dagli allegati VIII e XII alla parte seconda dello stesso Codice) e con il successivo articolo 29-ter e seguenti l'obbligo per gli impianti coinvolti nell'utilizzo di sostanze pericolose di elaborare e presentare anche una relazione sullo stato di qualità dell'ambiente, delegando al MinAmbiente le istruzioni per la sua redazione.
Il nuovo dm 272/2014 declina tale dettato legislativo, prevedendo un doppio binario di adempimenti (dai quali sono a monte escluse le installazioni collocate interamente in mare): secco obbligo di elaborazione e presentazione della relazione di riferimento per la quasi totalità degli impianti elencati nell'allegato XII alla parte 2 del dlgs 152/2006 (ossia, a mente dell'articolo 7 dello stesso Codice ambientale, per quelli sottoposti ad Aia di competenza statale); obbligo di preliminare verifica della potenzialità inquinante, invece, per le installazioni che svolgono attività ex Allegato VIII alla parte 2, dlgs 152/2006 ma che non risultano ricomprese anche nel citato Allegato XII del Codice ambientale (dunque, per gli impianti sottoposti ad Aia di competenza regionale), con annesso obbligo per gli stessi di redigere la citata relazione solo in caso di esito positivo della suddetta valutazione.
La verifica preliminare. La verifica preliminare (all'eventuale relazione) imposta alle installazioni regionali (tra cui quelle di produzione di energia, trasformazione metalli, fabbricazione prodotti chimici, gestione di rifiuti) è diretta a valutare la possibilità di contaminazione del suolo e delle acque sotterranee e dovrà essere effettuata secondo la procedura disciplinata dall'allegato 1 al dm 272/2014, che prevede tre step: individuazione di eventuali sostanze pericolose legate all'attività svolta; misurazione della loro qualità e quantità; in caso di superamento delle soglie previste dallo stesso decreto, effettuazione della valutazione del rischio di contaminazione.
All'esito di tale procedura, in caso di valutazione negativa per il gestore dell'installazione sarà sufficiente dare comunicazione della verifica all'Autorità competente, in caso di valutazione positiva (di sussistenza del rischio di contaminazione ambientale) scatterà invece l'obbligo di redigere e presentare anche la citata relazione.
La relazione di riferimento. Mentre le installazioni sottoposte ad Aia regionale sono dunque tenute alla relazione sulla qualità ambientale solo in caso di esito positivo della verifica preliminare, immediatamente obbligate all'elaborazione e presentazione della stessa relazione sono invece a mente del nuovo dm 272/2014 le installazioni sottoposte ad Aia statale (tra cui raffinerie, acciaierie, grandi impianti chimici), a esclusione di quelle costituite esclusivamente da centrali termiche ed altri impianti di combustione con potenza termica di almeno 300 Mw e alimentate esclusivamente a gas naturale.
La Relazione dovrà contemplare lo stato di qualità del suolo e delle acque sotterranee con esclusivo riferimento alla presenza delle sostanze pericolose pertinenti ex allegato 1, dm 272/2014 e contenere almeno le informazioni previste dall'allegato 2 allo stesso decreto (ad eccezione delle discariche di oltre 10 Mg di rifiuti al giorno o con capacità totale maggiore di 2.500 Mg destinate ad ospitare residui diversi dagli inerti, per le quali si dovranno notiziare gli elementi dettati dal dlgs 36/2003).
Scadenzario. Triplice calendario per i termini finali di presentazione di verifiche e relazioni da parte dei gestori degli stabilimenti. Gli impianti che alla data di entrata in vigore del dm 272/2014 (ossia, al 07.01.2015) sono già in possesso di autorizzazione integrata ambientale dovranno comunicare alle Autorità competenti l'esito della verifica preliminare entro il 07.04.2015 e la relazione entro il 07.01.2016. Invece, le installazioni in attesa di rilascio o rinnovo dell'Aia al 07.01.2015 dovranno integrare la domanda presentata con l'esito negativo della verifica preliminare o, ove dovuta, con la relazione (e questo quanto prima poiché, come sottolineato dallo stesso Minambiente nella circolare 27.10.2014 n. 22295, l'eventuale adempimento comporterà il blocco dell'istanza).
Infine, le altre e nuove installazioni dovranno presentare verifica preliminare e/o relazione direttamente insieme all'istanza di autorizzazione integrata ambientale. Le Autorità cui presentare i citati documenti (unitamente al pagamento della relativa tariffa istruttoria) sono in base all'articolo 7 del Codice ambientale: per gli impianti ex allegato XII, parte 2, dlgs 152/2006 (sottoposti ad Aia di competenza statale, e tenuti direttamente alla relazione), il Ministero dell'ambiente; per gli impianti ex allegato VIII, parte 2, dlgs 152/2006 ma non rientranti nell'allegato VIII dello stesso decreto legislativo (sottoposti ad Aia di competenza regionale, tenuti alla verifica preliminare, e in caso di suo esito positivo alla relazione) è l'Ente individuato da legge regionale o dalla Provincia autonoma (articolo ItaliaOggi Sette del 19.01.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARIBonus su lavori e mobili a scadenza unificata. Con la legge di Stabilità «scalino» unico al 36% dal 2016. Ristrutturazioni. Il punto dopo la proroga delle detrazioni al 50 e 65 per cento.
Scadenza unificata al 31 dicembre per tutti i bonus legati ai lavori in casa. L’articolo 1, commi 47-48 della legge di Stabilità 2015 (legge 190/2014), ha prorogato in misura potenziata al 31.12.2015 tutti i bonus fiscali in scadenza al 31.12.2014, concedendo ancora un anno di tempo per fruire della maggiore detrazione per le ristrutturazioni edilizie, per gli interventi di riqualificazione energetica e per l’acquisto di mobili e elettrodomestici per arredare le case ristrutturate.
Anche nell’ottica della semplificazione si è unificato per tutti i bonus il termine ultimo di applicazione. Dal 01.01.2016, quindi, resterà in vigore solo la vecchia detrazione del 36% sino a 48mila euro di spese, prevista in modo permanente dall’articolo 16 del Tuir (Dpr 917/1986) per gli interventi di ristrutturazione edilizia e di risparmio energetico sugli gli edifici residenziali.
La legge di Stabilità sopprime anche la graduale riduzione della percentuale di detrazione prevista sino al 31.12.2014 e che prevedeva, prima del ritorno alla detrazione nella misura del 36% dal 01.01.2016, l’applicazione dei benefici nella misura del 40% fino a 96mila euro, per le spese di ristrutturazione edilizia sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015 e la riduzione al 50% (dal 65%) per le spese di riqualificazione energetica.
La detrazione al 50%
La legge di Stabilità ha prorogato la detrazione Irpef “potenziata” al 50% per il recupero edilizio delle abitazioni, nel limite massimo di 96mila euro per unità immobiliare, per le spese sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015, relative a:
- interventi di recupero edilizio (manutenzione ordinaria sulle parti comuni, manutenzione straordinaria, restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia), nonché ulteriori interventi agevolabili (ad esempio, eliminazione delle barriere architettoniche, misure volte a prevenire atti illeciti di terzi);
- acquisto di abitazioni all’interno di fabbricati interamente ristrutturati da imprese di costruzione o ristrutturazione immobiliare che provvedono, entro 18 mesi dal termine dei lavori, alla successiva vendita o assegnazione dell’immobile.
Il bonus mobili
La proroga al 31.12.2015 vale anche per la detrazione Irpef del 50% sulle spese sostenute per l’acquisto di mobili ed elettrodomestici, ivi compresi i grandi elettrodomestici dotati di etichetta energetica, di classe non inferiore alla A+ (A per i forni) destinati alle abitazioni ristrutturate, fino a una spesa massima di 10mila euro. Ai fini della detrazione, le spese sostenute per l’acquisto di mobili verranno considerate a prescindere dall’importo delle spese per i lavori di ristrutturazione, come, peraltro, già previsto per le spese sostenute fino al 31.12.2014.
Il risparmio energetico
Prorogata anche la detrazione Irpef/Ires del 65% per la riqualificazione energetica degli edifici esistenti, per le spese sostenute fino al 31.12.2015, anche con riferimento ai lavori su parti comuni condominiali (o su tutte le unità immobiliari che compongono il condominio).
In tale ambito, con riferimento agli adempimenti relativi alla fruibilità della detrazione del 65% per il risparmio energetico, l’articolo 12 del Dlgs 175/2014, ha eliminato l’obbligo di inviare all’agenzia delle Entrate la comunicazione in caso di interventi che si protraggono oltre il periodo d’imposta. Le Entrate, nella circolare n. 31/E del 30.12.2014, hanno chiarito che la soppressione di tale obbligo viene riconosciuta sia per i soggetti beneficiari con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare sia per i soggetti con periodo d'imposta non coincidente con l’anno solare.
Inoltre, in applicazione del principio di favor rei nelle ipotesi di omesso o erroneo invio della comunicazione prima del 13.12.2014 (data di entrata in vigore del Dlgs 175/2014), la sanzione (da 258 euro a 2.065 euro) non è dovuta, a condizione che, alla medesima data, non sia già intervenuto un provvedimento definitivo di applicazione della sanzione.
Prorogata per tutto il 2015 anche la detrazione del 65% per interventi di messa in sicurezza statica delle abitazioni principali e degli immobili a destinazione produttiva.
Per tutti i bonus restano ferme le attuali modalità operative delle detrazioni, che devono essere ripartite in 10 quote annuali di pari importo e recuperate dalla dichiarazione relativa al periodo di imposta in cui vengono eseguiti i lavori.
La ritenuta sui bonifici
Per le imprese esecutrici dei lavori, sempre dal 01.01.2015, incide negativamente sui flussi di cassa l’aumento, dal 4% all’8%, della ritenuta operata dalle banche al momento dell’accredito dei bonifici di pagamento validi per il 50% e per il 65% delle spese agevolate, a titolo di acconto delle imposte sul reddito liquidate definitivamente in sede di dichiarazione dei redditi
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Anticorruzione. Entro il 31 piani aggiornati e dati all’Anac sugli affidamenti.
Gli enti locali devono adeguare entro fine mese i piani anticorruzione e comunicare all’Anac l’avvenuta pubblicazione dei dati sugli affidamenti di lavori, forniture e servizi effettuati nel 2014.

Il 31 gennaio è la scadenza per due importanti adempimenti previsti dalla legge n. 190/2012, dimostrativi della capacità delle amministrazioni di attuare l’articolato complesso di adempimenti definito dalla normativa a garanzia del corretto sviluppo e della trasparenza dell’azione amministrativa.
La definizione delle misure di prevenzione della corruzione deve essere ricondotta al nuovo piano triennale per il periodo 2015-2017, assumendo a riferimento non solo il piano nazionale (anch’esso in fase di revisione), ma anche le criticità rilevate in sede di applicazione e di utilizzo della prima versione dello strumento, sintetizzate da ogni ente nella relazione inviata entro la fine del 2014 all’Anac.
Le amministrazioni locali hanno la possibilità di inserire soluzioni più adeguate per affrontare i fenomeni di corruzione, anche sotto il profilo del contrasto a illeciti non di natura penale, che, tuttavia, possono costituire presupposto per la generazione di situazioni più critiche.
Nel nuovo piano, inoltre, devono essere configurate le misure correlabili ad alcune importanti novità normative intervenute nel frattempo, come ad esempio le comunicazioni obbligatorie all’Autorità per le varianti nelle opere pubbliche (articolo 37 della legge 89/2014) o l’obbligo di procedura selettiva per l’affidamento di servizi a cooperative sociali di tipo b (articolo 1, comma 610 della legge 190/2014), ma anche quelle suggerite dagli orientamenti della stessa Anac (come ad esempio la rotazione degli incarichi in alcuni settori di attività).
Nell’elaborazione resta peraltro fondamentale il confronto, in ciascuna amministrazione, tra il responsabile della prevenzione e i dirigenti o responsabili di servizio, questi ultimi chiamati ad evidenziare criticità e rischi rilevati nell’attività di tutti i giorni.
La definizione del piano anticorruzione deve anche considerare le particolari implicazioni organizzative derivanti dai processi aggregativi tra i Comuni per le funzioni fondamentali e per la gestione associata degli appalti.
Proprio in relazione agli affidamenti di lavori, servizi e beni le amministrazioni locali devono attestare all’Anac entro il 31 gennaio l’avvenuta pubblicazione delle informazioni richieste dal comma 32 dell’articolo 1 della legge anticorruzione.
Le informazioni devono essere prodotte esplicitando non solo la procedura e l’affidatario, ma anche le somme effettivamente corrisposte in base all’affidamento, secondo uno schema di sintesi che deve essere pubblicato sulla sezione amministrazione trasparente del sito internet di ogni ente.
Per ottimizzare il caricamento l’Autorità ha peraltro aggiornato anche alcuni parametri tecnici, restando invece ferme le istruzioni operative approvate nel maggio 2013 dall’allora Avcp.
La comunicazione dell’adempimento deve essere effettuata dagli enti per mezzo di posta elettronica certificata, con allegazione al messaggio di un modulo pdf nel quale devono essere precisate alcune informazioni essenziali
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.01.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Videosorveglianza, per le multe non basta riprendere le violazioni.
Non basta riprendere con le telecamere comunali le violazioni per divieto di sosta o per accesso abusivo alla ztl per inviare le multe al domicilio dei trasgressori. Con questi sistemi non è infatti possibile verificare se a bordo dei veicoli risulta presente il trasgressore con conseguente obbligo di contestazione immediata della violazione.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 17.12.2014 n. 5932 di prot. inoltrato al comune di Ostra.
 L'uso dei sistemi elettronici per il controllo della circolazione stradale non è particolarmente gradito al dipartimento per i trasporti e la navigazione che non manca di evidenziare le sue perplessità alla diffusione incontrastata dei controllori remoti del traffico peraltro ampiamente utilizzati in tutta Europa e legittimati in Italia anche dalla legge 689/1981.
A parere del ministero innanzitutto i casi di contestazione differita dell'infrazione stradale sono solo quelli elencati dall'art. 201/1-bis. O meglio queste sono le ipotesi dove la contestazione immediata che ordinariamente è la regola non è proprio necessaria anche se il codice e la pratica ammettono altre ipotesi di contestazione remota (per esempio in caso di incidente stradale). Tra i casi specificamente esentati dall'obbligo di contestazione, prosegue la nota, emerge il caso dell'assenza del trasgressore al momento dell'accertamento.
Tipico il caso del veicolo in divieto di sosta o abusivamente parcheggiato in una ztl. A parere del ministero dei trasporti i tradizionali sistemi di videosorveglianza non sono idonei a verificare se dentro l'abitacolo del veicolo in divieto è presente il trasgressore e per questo motivo non possono essere impiegati per spedire le multe per posta al proprietario del mezzo (articolo ItaliaOggi del 17.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Ricollocazione dei dipendenti, prime falle. Molte p.a. non tengono conto degli impiegati provinciali in sovrannumero.
Si aprono le prime falle al sistema di ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero, come per altro largamente prevedibile.
Nonostante i vincoli alle assunzioni imposti dall'articolo 1, commi 424 e 425, della legge 190/2014, una breve navigazione in internet o l'accesso al sistema delle Comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro rivela che le amministrazioni pubbliche stanno interpretando in modo piuttosto disinvolto le disposizioni normative.
Per esempio, il comune di Trani ha attivato ben quattro avvisi di mobilità volontaria secondo le modalità ordinarie, previste dall'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001, come se la legge di stabilità non esistesse. Altri avvisi di simile tenore hanno pubblicato i comuni di Pese, Conegliano, Campiglia Marittima, insomma enti locali e di altra natura, un po' in tutta Italia.
L'Agenzia delle dogane e dei monopoli, da parte sua, non sembra aver fatto nulla per fermare la procedura di concorso finalizzata all'assunzione di 49 dirigenti di seconda fascia, avviata nel 2013 e ancora talmente lontana dalla conclusione, che la prova preselettiva è stata rinviata ad un avviso che verrà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, 4ª serie speciale del 20.02.2015.
Insomma, vuoi perché le amministrazioni pubbliche diverse dalle province non si sentono direttamente investite e coinvolte dalla questione e dunque non hanno approfondito a dovere, vuoi perché le disposizioni citate della legge 190/2014 non chiariscono espressamente che le mobilità volontarie sono congelate esattamente come i nuovi concorsi (per quanto questa conclusione sia perfettamente evidente), vuoi ancora perché, proprio in quanto al corrente dei vincoli, cerchino di correre per fare assunzioni in autonomia, in tantissimi stanno bypassando le previsioni della legge 190/2014.
I fatti mettono in evidenza come manchi un'autorità di controllo, chiamata a verificare gli adempimenti ai vincoli. È vero che i commi 424 e 425 della legge di Stabilità sanzionino con la nullità le assunzioni disposte in loro violazione. Tuttavia, pare altrettanto evidente che molte amministrazioni contino sulla circostanza di sfuggire a maglie di controlli in effetti non formalizzati o costituiti, oppure pensano che risulterà difficile far valere le nullità delle assunzioni.
Risulta, dunque, necessario che il Governo intervenga con estrema urgenza per fermare la corsa alle assunzioni al di fuori dei vincoli normativi o, quanto meno, per dettare con chiarezza le modalità operative, istituendo anche un sistema di controllo e rilevazione delle assunzioni nulle, chiarendo che da esse discende comunque responsabilità di natura amministrativa.
In mancanza di questo, al caos già creato dalla riforma delle province e dalla legge 190/2014 rischia di aggiungersi l'anarchia e la corsa degli enti meno attenti ai vincoli alle assunzioni, che finisce per pregiudicare il buon esito di una procedura di ricollocazione gigantesca, rivolta a circa 20 mila lavoratori (articolo ItaliaOggi del 17.01.2015).

EDILIZIA PRIVATADal 1° gennaio. Edilizia, Durc a scadenza anticipata. La durata della regolarità contributiva da 120 giorni scende a 90.
Regolarità contributiva a scadenza anticipata in edilizia. Dal 01.01.2015, infatti, la durata del Durc emesso per i lavori edili tra soggetti privati si è ridotta da 120 a 90 giorni dalla data di emissione. A stabilirlo il comma 8-sexies dell'art. 31 del dl n. 69/2013 convertito dalla legge n. 98/2013.

Per regolarità contributiva s'intende la correntezza di un'impresa in tutti i pagamenti e gli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps, Inail e casse edili per le imprese di tale settore) con riferimento agli obblighi previsti dalla normativa vigente riferiti all'intera situazione aziendale.
Il Durc (Documento unico di regolarità contributiva) è il certificato che attesta tale regolarità: è unico perché rispetto al passato, quando era necessario fare tre richieste e ottenere altrettante certificazioni di regolarità (una per ciascuno degli enti: Inps, Inail e casse edili), con il Durc le imprese (e i consulenti) fanno un'unica richiesta e ottengono un unico certificato, peraltro in versione telematica e in un numero molto limitato di ipotesi.
A che cosa serve. Il Durc deve essere richiesto per: tutti i contratti pubblici (per ogni fase: verifica dichiarazione sostitutiva, aggiudicazione del contratto, stipula contratto, pagamento degli stati d'avanzamento lavori o prestazioni relative a servizi o forniture, certificato collaudo o regolare esecuzione o verifica conformità, attestazione di regolare esecuzione e pagamento del saldo finale e rilascio delle concessioni per la realizzazione di opere pubbliche e gli affidamenti con procedura negoziata); la gestione di servizi e attività pubbliche in convenzione o concessione; i lavori privati soggetti al rilascio della concessione edilizia o alla Denuncia inizio attività (Dia); la fruizione di benefici normativi e contributivi concessi da enti o pubbliche amministrazioni diversi da Inps e Inail; il rilascio dell'attestazione Società organismi di attestazione (Soa); l'iscrizione all'Albo dei fornitori; finanziamenti e sovvenzioni per realizzare investimenti previsti dalla normativa comunitaria o da normative specifiche; la valutazione dei lavori pubblici per i quali il committente non è tenuto all'applicazione del Codice e del Regolamento (lavori pubblici seguiti in proprio e non su committenza e opere pubbliche di edilizia abitativa); l'attestazione di qualificazione dei contraenti generali.
La validità. Dal 02.09.2013, il Durc viene richiesto e recapitato esclusivamente tramite Pec (Posta elettronica certificato) agli indirizzi indicati dagli utenti nel modulo telematico di richiesta (su internet all'indirizzo http://www.sportellounicoprevdenziale.it/).
Dalla stessa data, inoltre, la validità del Durc è fissata a 120 giorni per tutti i tipi di certificati (contratti, appalti, benefici ecc.), con un'unica eccezione: i lavori edili tra soggetti privati. In tal caso, infatti, la validità di 120 giorni è rimasta per i certificati emessi entro il 31.12.2014; per quelli emessi dal 01.01.2015 è scesa invece a 90 giorni (articolo ItaliaOggi del 16.01.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Giro di vite sulle partecipate. Vincoli alle assunzioni, risparmi, premi in base ai risultati. Gli ultimi emendamenti del relatore al ddl Madia. Rinviate le modifiche sul pubblico impiego.
Giro di vite sulle società partecipate. Sono in arrivo paletti alle assunzioni e agli stipendi perché la parola d'ordine sarà «contenere i costi». Ma soprattutto si dovranno individuare «criteri di valutazione oggettivi» per attribuire premi e incentivi che dovranno essere legati ai risultati raggiunti.

Il decreto legislativo per il riordino delle partecipazioni pubbliche nelle società di capitali, attuativo della delega sulla riforma della p.a., fisserà «condizioni e limiti» per costituire, assumere personale e mantenere partecipazioni nelle società.
Le aziende in deficit potranno fare ricorso a piani di rientro, ma anche finire commissariate. Perché i flussi finanziari tra ente pubblico e società partecipate non potranno essere infiniti, visto che si dovrà garantire «la parità di trattamento tra imprese pubbliche e private».
Per le partecipate degli enti locali i criteri per continuare a operare saranno ancora più restrittivi. Le società che gestiscono servizi strumentali e funzioni amministrative dovranno avere precisi requisiti per mantenere l'attuale assetto di partecipazione pubblica al capitale. I parametri da prendere in considerazione saranno il numero dei dipendenti, il fatturato e i risultati di gestione, intesi come raggiungimento degli obiettivi di qualità, efficienza ed economicità.
Chi non vi rientra sarà chiamato a razionalizzare le partecipazioni incentivando processi di aggregazione. Ma in caso di ristrutturazione societaria e/o privatizzazione saranno sempre garantiti i livelli occupazionali.
Per il momento si tratta solo di criteri di delega, quindi tutto dipenderà da come verranno tradotti in norme precettive dai decreti attuativi. Tuttavia il disegno di realizzare «una scure» sulle società partecipate appare evidente dagli emendamenti presentati ieri da Giorgio Pagliari (Pd), relatore della riforma Madia al senato. Mentre è rimandato alla prossima settimana il pacchetto di modifiche in materia di personale, dove dovrebbero trovare posto alcune norme sui licenziamenti degli statali. Nessuna novità in arrivo rispetto alle regole già esistenti (il ministro Marianna Madia ha infatti escluso che nella p.a. serva una stretta sui licenziamenti disciplinari, visto che, a suo dire, «le norme ci sono già e sono severe, basta solo farle applicare», si veda ItaliaOggi di ieri), ma, ha anticipato Pagliari, «si tratterà solo di alcuni aggiustamenti per rendere le norme più efficaci».
Cambio di passo anche per la disciplina dei servizi di interesse economico di carattere locale «con l'abrogazione dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non conformi ai principi di concorrenza». La delega al governo contenuta nel ddl sulla riforma p.a. punta inoltre a incentivare l'aggregazione delle attività, a introdurre una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e la funzione di gestione dei servizi e, tra le altre cose, a revisionare la disciplina dei regimi di proprietà e gestione delle reti e degli impianti e di cessione di beni in caso di subentro.
«Le misure sulle partecipate pubbliche sono volte a ridurle e a farne di meno», ha commentato il sottosegretario Angelo Rughetti, che ha puntato l'attenzione soprattutto sull'estensione alle partecipate della disciplina pubblicistica in materia di assunzioni e approvvigionamenti.
Stretta anche sui tempi per l'autotutela amministrativa. Un ulteriore emendamento del relatore introduce significative modifiche alla legge 241/1990 sul procedimento amministrativo riducendo da 24 a 18 mesi, i termini entro cui un'amministrazione può annullare un provvedimento. Oltre il termine di 18 mesi una p.a. potrà revocare solo i provvedimenti amministrativi conseguiti dai cittadini sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni mendaci per effetto di condotte che costituiscono reato.
Infine, viene confermato lo stralcio dell'art. 8 del ddl delega che conteneva le «definizioni di pubblica amministrazione». In un ordine del giorno, il relatore ha spiegato che la decisione di cancellare la norma va individuata nel fatto che l'art. 8 non consentiva di risolvere «il problema della salvaguardia delle discipline differenziate per soggetti giuridici compresi in una categoria di amministrazioni pubbliche per una specifica funzione, ma aventi sotto tutti gli altri profili natura giuridica privata».
Il compito di circoscrivere l'ambito della pubblica amministrazione «per dare certezze interpretative e applicative alla futura legislazione» spetterà al governo con un futuro provvedimento che il senato ha chiesto all'esecutivo di emanare (articolo ItaliaOggi del 16.01.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGestioni associate, prefetti con le armi spuntate.
Armi spuntate contro i piccoli comuni renitenti ad associarsi per la gestione delle proprie funzioni fondamentali. I commissari prefettizi difficilmente potranno andare oltre un mero ruolo propulsivo.

La procedura di commissariamento è stata disciplinata dal ministero dell'interno in una circolare inviata nei giorni scorsi ai prefetti per provare a trasformare finalmente in realtà il disegno di riordino delle mini municipalità tracciato dalla manovra estiva 2010 (dl 78).
Come noto, l'obiettivo è quello di accorpare le amministrazioni più piccole, ossia tutte quelle con popolazione inferiore a 5.000 abitanti (soglia che scende a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane), che dovrebbero gestire attraverso unioni o convenzioni il proprio «core business».
Quest'ultimo include, oltre alle funzioni di «back office» (amministrazione generale, gestione finanziaria e contabile, controlli), anche quasi tutti compiti di «front office», ossia i servizi da erogare a cittadini e imprese.
Le compagini sovracomunali (unioni, ma dopo le modifiche introdotte dalla legge 56/3014 anche convenzioni) dovrebbero raggruppare almeno 10.000 abitanti (3.000 in montagna), ma alcune regioni hanno previsto (come loro consentito) limiti più bassi.
Il percorso attuativo dell'obbligo è stato caratterizzato da numerose proroghe, a dimostrazione della difficoltà a passare dalla teoria organizzativa alla pratica.
Ora, però, il tempo è scaduto: dal 1° gennaio, infatti, i piccoli comuni dovrebbero aver conferito tutte le dieci funzioni identificate come fondamentali dalla legge statale. Ma sul territorio l'atteggiamento prevalente è ancora l'attendismo: poche, infatti, sono le unioni già operative, mentre in numero maggiore sono le convenzioni (più facili da stipulare), anche se spesso sono solo sulla carta. Un caso a parte sono le ex comunità montane, chiamate a trasformarsi in unioni montane, raggruppando almeno tre comuni (ma questo limite, secondo la legge 56, non si applica alle unioni già costituite).
Per gli inadempienti, a questo punto, dovrebbe scattare l'esercizio del potere sostitutivo statale: la circolare del Viminale prevede, a tal fine, una preventiva diffida con la fissazione di un termine «ponderato» seguita dall'eventuale commissariamento ad acta per le amministrazioni locali che ancora non si siano adeguate.
Tale strada, però, non sembra garantire il risultato, non solo per i numeri dei comuni soggetti all'obbligo: è difficile immaginare che i commissari possano effettivamente sostituirsi agli amministratori. Il loro ruolo al massimo potrà essere propulsivo.
La soluzione, invece, da tempo sollecitata dall'Anci, è quella di introdurre dei correttivi alla normativa vigente, che da un lato non definisce in modo chiaro le funzioni da associare, dall'altro non prevede alcun meccanismo di accompagnamento e di incentivo per la fase transitoria (articolo ItaliaOggi del 16.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGOProvince, mobilità senza freni. Non è condizionata ai posti presso gli uffici giudiziari. La Funzione pubblica vuole subordinare il passaggio agli enti alle decisioni delle p.a. statali.
Il processo di mobilità dei dipendenti delle province in sovrannumero verso regioni e comuni non è subordinato all'individuazione dei posti disponibili presso le amministrazioni statali, in particolare gli uffici giudiziari.
Secondo quanto risulta a ItaliaOggi presso gli uffici della Funzione pubblica si starebbe facendo largo un'interpretazione secondo la quale la mobilità dei circa 20 mila dipendenti provinciali verso gli enti locali resta condizionata all'individuazione dei posti disponibili nei tribunali e altri uffici dell'amministrazione della giustizia.
Con la conseguenza di congelare le assunzioni nelle autonomie fino al completo espletamento della procedura. Tale tesi si fonda sull'articolo 1, comma 425, della legge 190/2014, ove si parla della ricollocazione dei dipendenti provinciali «in via prioritaria» appunto negli uffici giudiziari.
Tuttavia, simile chiave di lettura è da considerare certamente erronea, in quanto basata sull'estrapolazione dell'espressione «in via prioritaria» dal contesto della norma. Dalla lettura della norma, risulta assolutamente chiaro che la priorità dei trasferimenti dei dipendenti provinciali in sovrannumero opera esclusivamente tra le amministrazioni statali: una volta realizzato il monitoraggio previsto dalla norma (ma basterebbe attuare l'articolo 2, comma 13, del dl 95/2012), i dipendenti provinciali destinati alle amministrazioni dello Stato dovrebbero transitare con priorità presso gli uffici statali.
Non è corretto ritenere che tale priorità travalichi i confini delle amministrazioni statali e travolga regioni e comuni, nei confronti dei quali è il comma 424 a regolare le modalità della mobilità dei dipendenti provinciali in sovrannumero, senza subordinazione alcuna ad una preventiva ricollocazione presso le amministrazioni statali.
Del resto, se così fosse, si rischierebbe di tenere inchiodati i comuni per lunghissimi mesi. Non c'è da nascondersi che le amministrazioni statali porterebbero a compimento le rilevazioni richieste dal comma 425 della legge 190/2014 in un arco di tempo di moltissimi mesi.
Se ciò condizionasse l'attivazione delle mobilità, si creerebbero una serie di danni notevolissimi. In primo luogo ai dipendenti provinciali, che vedrebbero sprecati molti dei 24 mesi a disposizione per ricollocarsi. In secondo luogo, per i comuni, che non potendo assumere per concorso, sono costretti ad acquisire per mobilità i dipendenti provinciali in sovrannumero, ma dovrebbero restare in stand by per moltissimo tempo, con danno alla gestione dei servizi.
In terzo luogo, subirebbero un doppio danno le province. Infatti, prima lo Stato le depaupera di 1 miliardo nel 2015 (2 nel 2016 e 3 dal 2017 in poi), ma, se dovesse condizionare l'attivazione delle mobilità all'elefantiaca modalità operativa prevista dal comma 425, costringerebbe le province a tenere in servizio i dipendenti in sovrannumero, accollandosi una spesa di personale che assolutamente non possono più sostenere.
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I comuni hanno fretta di acquisire i lavoratori provinciali. Per i sindaci è l'unica chance per coprire le carenze di organico.
I comuni hanno voglia e fretta di acquisire i dipendenti provinciali in sovrannumero. Le amministrazioni provinciali sono da giorni, ormai, letteralmente prese d'assalto da quesiti, telefonate e interlocuzioni dei sindaci, che mostrano di voler guardare come opportunità da cogliere al volo l'assunzione dei dipendenti provinciali. Si può affermare che presso le amministrazioni locali sia passato il messaggio della legge 190/2014: per gli anni 2015-2016 l'unico sistema di coprire gli organici (al netto della possibilità di immettere in servizio i vincitori dei concorsi tratti da graduatorie vigenti o approvate all'01/01/2015) è reclutare i dipendenti provinciali in sovrannumero.
I sindaci, nonostante i vincoli imposti dalla norma tali da ingabbiare fortemente l'autonomia pur costituzionalmente riconosciuta ai comuni, sono molto interessati alle opportunità comunque offerte. Fanno molto gola, ad esempio, tra i dipendenti provinciali che con molta probabilità potrebbero finire in sovrannumero gli agenti dei corpi di polizia provinciale. Infatti, i sindaci potrebbero rafforzare la dotazione degli agenti potendo andare a colpo sicuro, senza affrontare le fatiche legata alla formazione che richiede un'attività molto specialistica.
Ovviamente, la gran parte dei dipendenti provinciali in sovrannumero avrà profili professionali di carattere amministrativo: tali figure, tuttavia, sono comunque necessarie ai comuni e anche in questo caso i sindaci potrebbero contare sull'esperienza professionale di lavoratori già a conoscenza delle regole generali di funzionamento di una macchina particolare qual è l'ente locale.
Difficilmente, dunque, i sindaci metteranno in piedi pratiche ostruzionistiche alle disposizioni dell'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014. Semmai, al contrario, hanno molta fretta. Dovendo rinunciare ad assunzioni per mobilità volontaria e alla predisposizione di concorsi, hanno tutto l'interesse a che il processo del trasferimento dei dipendenti provinciali sia gestito nel modo più celere possibile, per poter effettuare una programmazione delle assunzioni credibile e seria, ma soprattutto coprire i posti vacanti dei comuni quanto prima.
Sarà, dunque, fondamentale che le province collochino al più presto i propri dipendenti negli elenchi nominativi dei soprannumerari, come richiesto dall'articolo 2, comma 13, del dl 95/2012 e che il ministro della funzione pubblica approvi il decreto previsto dall'articolo 30, comma 2, del dlgs 165/2001, contenente i criteri per i procedimenti di mobilità, così da permettere al sistema degli enti locali di fruire, quanto meno, di una razionalizzazione interna (articolo ItaliaOggi del 16.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGOStatali, c'è sempre il reintegro. Niente indennizzo per i licenziamenti disciplinari illegittimi. Madia: non servono nuove norme nella delega p.a., basta applicare quelle che ci sono.
In caso di licenziamento disciplinare illegittimo nella p.a. la regola generale sarà sempre il reintegro nel posto di lavoro. Il pubblico impiego continuerà dunque ad avere uno status privilegiato rispetto al lavoro privato per cui il dlgs attuativo del Jobs act (legge delega n. 183/2014) prevede di norma il solo indennizzo economico con l'unica eccezione dell'ipotesi in cui il lavoratore riesca a dimostrare in giudizio «l'insussistenza del fatto contestato».
Solo in questo caso nel privato si avrà ancora diritto al reintegro.

Il chiarimento è arrivato ieri direttamente dal ministro della funzione pubblica, Marianna Madia che ha parlato in commissione affari costituzionali del senato dove è in corso l'esame della delega sulla riforma della p.a.
I dipendenti pubblici potranno quindi continuare a beneficiare della cosiddetta «tutela reale» (il reintegro sul posto di lavoro). Anche perché, ha spiegato il ministro, «tra lavoro pubblico e privato ci sono delle differenze oggettive» e gli indennizzi verrebbero pagati «con i soldi di tutti», mentre nel privato i costi sono a carico degli imprenditori.
Il ministro ha quindi confermato la volontà del governo di non introdurre nessuna norma restrittiva in materia di licenziamenti nella legge delega che ha ripreso l'iter in commissione dopo lo stop reso necessario per velocizzare i lavori sulla riforma della legge elettorale. Oggi scade il termine per depositare gli emendamenti che il relatore Giorgio Pagliari (Pd) concorderà col governo. Ma, come annunciato, non ci saranno novità sui licenziamenti. Le norme, infatti, secondo l'esecutivo ci sono già. Basta solo applicarle.
E la via da seguire è come sempre la semplificazione. Dei procedimenti disciplinari, così come di quelli in materia di valutazione. «Nell'ambito dei licenziamenti disciplinari», ha chiarito il numero uno di palazzo Vidoni, «la normativa Brunetta è già dura e prevede lo scarso rendimento come criterio per la licenziabilità».
Il relatore ha confermato la volontà del governo di andare avanti sul ruolo unico della dirigenza pubblica previsto dall'articolo 10 della delega che dunque non dovrebbe subire sconvolgimenti nel suo impianto generale. Novità potrebbero invece arrivare in materia di segretari comunali che la delega punta a eliminare e a far confluire in un'apposita sezione a esaurimento del ruolo dei dirigenti degli enti locali (si veda ItaliaOggi del 9/1/2015) (articolo ItaliaOggi del 15.01.2015).

APPALTI: Trasparenza appalti, invio comunicazioni entro il 31/1.
Entro il 31 gennaio le p.a. dovranno inviare all'Autorità nazionale anti corruzione la comunicazione di avvenuto adempimento degli obblighi di trasparenza sugli appalti; saranno oggetto dell'operazione di trasparenza, che riguarderà anche i soggetti affidatari dei contratti e l'importo dei contratti, tutti gli appalti di lavori, forniture e servizi affidati nel 2014, di qualsiasi importo.

È quanto chiede a tutte le stazioni appaltanti l'Anac, presieduta da Raffaele Cantone, che ha diramato un comunicato relativo agli adempimenti previsti dall'articolo 1, comma 32, della legge 190/2012 (la c.d. legge Severino) per l'anno 2015. Le stazioni appaltanti dovranno quindi materialmente trasmettere all'Autorità, entro il 31.01.2015, esclusivamente mediante Posta elettronica certificata all'indirizzo comunicazioni@pec.avcp.it, un messaggio attestante l'avvenuto adempimento di pubblicazione delle informazioni, con contestuale indicazione in un modulo pdf predisposto dall'Anac, del codice fiscale della stazione appaltante e dell'Url.
Inoltre le stesse stazioni appaltanti dovranno pubblicare sul proprio sito web istituzionale le informazioni sui contratti affidati secondo la struttura e le modalità definite dall'Autorità. Nel comunicato si dà anche conto che l'Anac ha provveduto ad aggiornare le specifiche tecniche per la pubblicazione dei dati, il modulo pdf per la dichiarazione di adempimento e le Faq di tipo tecnico.
Sarà poi l'Anac, a sua volta, a pubblicare le informazioni ricevute nel proprio sito web, in una sezione liberamente consultabile da tutti i cittadini, catalogate in base alla tipologia di stazione appaltante e per regione. Nel merito rimangono invariate le indicazioni operative date in precedenza dall'Avcp nella deliberazione n. 26 del 22.05.2013, nei comunicati del presidente del 22 maggio e del 13.06.2013 e nella documentazione pubblicata sul sito dell'Autorità.
A tale riguardo le stazioni appaltanti devono provvedere a pubblicare nei propri siti web istituzionali i seguenti dati: il Cig (codice identificativo gara), la struttura responsabile del procedimento di scelta del contraente, l'oggetto del bando, la procedura di scelta del contraente, l'elenco degli operatori invitati a presentare offerte; in quest'ultimo caso l'Anac precisa che devono essere indicati i dati di tutti i partecipanti in caso di procedura aperta e di quelli invitati a seguito di procedura ristretta o negoziata.
Inoltre nel sito web devono essere riportate anche le indicazioni relative all'aggiudicatario, all'importo di aggiudicazione, ai tempi di completamento dell'opera, del servizio o della fornitura, nonché all'importo delle somme liquidate.
Entro il 31.01.2015, per quel che riguarda i contratti affidati nel 2014, le informazioni, relativamente all'anno precedente devono essere pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard aperto che consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini statistici, i dati informatici (articolo ItaliaOggi del 15.01.2015).

APPALTI: Opere, iter semplificati e in tempi ridotti.
Semplificazione delle fasi di realizzazione di un'opera pubblica e riduzione dei tempi amministrativi; divieto di deroghe al nuovo codice dei contratti pubblici; superamento del sistema di verifica dell'Avcpass a favore di un accesso diretto alle banche dati; valorizzazione della fase progettuale per contenere le varianti.

Sono queste alcune delle indicazioni espresse dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel parere, reso pubblico in questi ultimi giorni, sul disegno di legge delega in materia di appalti pubblici che dovrà recepire nel nostro ordinamento le nuove direttive appalti n. 23, 24 e 24 del 2014, attualmente all'esame del senato.
Nel parere si esprime «forte apprezzamento per la previsione di un nuovo testo normativo unitario per gli appalti e per le concessioni, che si spera abrogherà le numerose norme extravaganti rispetto all'attuale codice dei contratti pubblici». Per province autonome e regioni, infatti, il settore patisce un quadro normativo in cui molte «norme si sono stratificate nel corso del tempo» finendo per costituire un «fattore di disorientamento e di considerevole complicazione procedimentale».
Il primo principio da seguire viene individuato nella semplificazione della materia, attraverso sia il recepimento delle direttive, sia nella armonizzazione delle restanti norme anche di livello regolamentare vigenti all'interno dell'attuale e complesso quadro normativo. Questa opera di codificazione, in un nuovo testo unico che sostituirà l'attuale dlgs 163/2006, di tutte le norme vigenti in materia «sarà un prezioso fattore di semplificazione, nonché un importante strumento di accelerazione delle procedure per l'affidamento dei contratti e di deflazione del contenzioso giurisdizionale».
Dovrà però trattarsi di un testo unico non soltanto compilativo, ma anche «innovativo», con disposizioni valide sia per i contratti di rilevanza comunitaria, sia per quelli di importo inferiore alla soglia di applicazione delle direttive europee e per queste ultime sarà necessario procedere a una «radicale semplificazione, pur nel rispetto dei principi Ue del Trattato» e a una forte riduzione dei tempi amministrativi. Al di là delle osservazioni di metodo, il parere afferma anche la necessità di modificare e integrare i criteri di delega, ad esempio con riguardo alla fase di verifica dei concorrenti; in questo caso il parere punta il dito contro il sistema Avcpass; in particolare si chiede il superamento dell'attuale sistema di «intermediazione» creato in attuazione delle norme istitutive della Banca dati nazionale dei contratti pubblici, a favore di «strumenti che favoriscano l'accesso telematico diretto alle banche dati».
Per evitare o almeno contenere il fenomeno delle varianti il parere evidenzia l'opportunità di procedere alla «introduzione di misure volte a valorizzare la fase della progettazione».
Infine si esprime anche una preoccupazione rispetto al processo di aggregazione della domanda: occorre tutelare l'accesso alle gare per le piccole e medie imprese anche quando gli importi degli affidamenti saranno necessariamente molto elevati (si tratta del tema della suddivisione in lotti, già affrontato nelle direttive Ue) (articolo ItaliaOggi del 15.01.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSenza gestione associata Comuni da commissariare. Autonomie. Circolare del Viminale sull’obbligo per 6mila enti.
Prima una diffida, con un termine «ponderato», e poi il commissariamento per le amministrazioni locali che non si adeguano. È la procedura che il ministero dell’Interno chiede di adottare a tutte le Prefetture per rendere effettivi i nuovi obblighi di gestione associata delle funzioni fondamentali nei Comuni fino a 5mila abitanti (3mila negli enti che appartengono a Comunità montane), previsti dal lontano 2010 ma più volte ritoccati ed entrati a regime solo il 1° gennaio scorso.
Con la nota 12.01.2015 n. 323 di prot. inviata ai prefetti, il Viminale imprime un salto di qualità ai controlli, finora solo abbozzati a macchia di leopardo sul territorio, sull’obbligo di alleanze fra i circa 6mila Comuni sotto i 3mila o 5mila abitanti per lo svolgimento delle loro attività più importanti. Dal 1° gennaio scorso, infatti, questi enti avrebbero dovuto unirsi fra loro per gestire il bilancio e organizzare i servizi pubblici, per il Catasto e i servizi sociali, per la pianificazione urbanistica e l’edilizia scolastica, per la protezione civile e la polizia locale.
Questo pacchetto, da cui restano esclusi solo l’anagrafe e lo stato civile, dovrebbe essere affidato a Unioni che raggruppino almeno tre Comuni e 10mila abitanti (a meno che la Regione indichi un limite diverso, ma quasi nessuno l’ha fatto), oppure a convenzioni di durata almeno triennale, ma fra le amministrazioni locali le resistenze e i problemi applicativi stanno avendo la meglio, al punto che non più tardi di martedì la Consulta piccoli Comuni dell’Anci ha chiesto al Governo di rivedere le norme perché non funzionano.
Se queste sono le premesse, è ovvio che l’attuazione sul territorio sia tutt’altro che lineare, e ora il ministero prova a evitare il rischio più evidente: quello cioè che gli obblighi di gestione associata, introdotti per ridurre la spesa pubblica e aumentarne l’efficienza, passino sotto silenzio, senza controlli puntuali che ne spingano l’applicazione effettiva. Questo rischio non è teorico, perché si è verificato puntualmente nel corso delle prime scadenze fissate dalle leggi sulla riorganizzazione, che chiedevano ai piccoli Comuni di gestire in forma associata almeno tre funzioni fondamentali entro il 01.01.2013 e altre tre entro il 30 giugno scorso. Con la norma a regime, il quadro però cambia.
I controlli sono necessari, ricorda la circolare del Viminale, anche perché gli obblighi di gestione associata servono ad «assicurare il coordinamento della finanza pubblica», formula che viene usata nelle leggi per rafforzare i tagli ed evitare che cadano nella piena autonomia degli enti territoriali (il coordinamento della finanza pubblica è funzione fondamentale dello Stato secondo l’articolo 117 della Costituzione).
Di qui il doppio passaggio indicato dal Viminale, che chiede prima la diffida e poi l’eventuale commissariamento per chi non si adegua. Tutto chiaro, quindi? Non proprio, perché i problemi organizzativi lamentati dai Comuni non sono campati per aria, e soprattutto perché le stesse norme disegnano un quadro parecchio difficile da controllare. Al di là dei territori ad Autonomia speciale, dove commissari e rappresentanti di Governo devono prima verificare che la Regione abbia scritto le proprie regole sugli obblighi di gestione associata perché la clausola di salvaguardia rende inapplicabili in quei casi le norme nazionali, anche dove lo Statuto è ordinario la verifica non è semplice.
Oltre all’Unione, infatti, i Comuni possono scegliere la via più flessibile della convenzione, che non ha limiti demografici minimi da rispettare (l’unico vincolo è la durata almeno triennale) e soprattutto può essere a geometria variabile. Il Comune A può convenzionarsi con il Comune B per la gestione di una funzione e con il Comune C per lo svolgimento di un’altra funzione, creando un reticolo di alleanze che nessuna Prefettura potrà verificare davvero (
articolo Il Sole 24 Ore del 15.01.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: La p.a. dice addio alla carta. I documenti dovranno essere conservati in formato digitale. In G.U. dpcm che fa partire il conto alla rovescia. Il passaggio definitivo entro settembre 2016.
La pubblica amministrazione si prepara a dire addio alla carta. Partirà, infatti, il prossimo febbraio il conto alla rovescia lungo 18 mesi durante il quale il passaggio al digitale dovrà essere completato. Entro settembre 2016, quindi, la p.a., comprese le società partecipate e i privati, dovranno passare al sistema di gestione informatica dei documenti.

A tracciare la strada e a dare avvio all'ultimo tassello per l'applicazione del Codice dell'amministrazione digitale, il dpcm del 13.11.2014, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 8 del 12.01.2015 recante le regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici nonché di formazione e conservazione dei documenti informatici delle pubbliche amministrazioni.
Nel dettaglio, il dpcm stabilisce le modalità, uguali in tutto il paese, con le quali il sia la p.a. sia le partecipate, sia i privati potranno scrivere, modificare e riprodurre un file con valore legale, un certificato o un qualsiasi altro atto amministrativo. Esigenza che nasce proprio dal Cad, in vigore ora mai da nove anni, «che stabilisce come», ha sottolineato Maria Pia Giovannini, dirigente Agid (Agenzia per l'Italia digitale), «gli atti formati dalle pubbliche amministrazioni con strumenti informatici, nonché i dati e i documenti informatici detenuti dalle stesse, costituiscono informazione primaria ed originale da cui è possibile effettuare, su diversi o identici tipi di supporto, duplicazioni e copie per gli usi consentiti dalla legge».
I passaggi. Affinché un documento informatico possa avere valore legale devono prima essere portati a termine tutti i passaggi dell'operazione previsti dall'art. 3 del dpcm. Primo fra tutti la sua formazione che può avvenire mediante: redazione con apposito software, acquisizione diretta da supporto informatico, registrazioni risultanti da transazioni informatiche, generazione o raggruppamento di informazioni provenienti da più banche dati.
Il passaggio successivo è, poi, l'assunzione della caratteristica di immodificabilità «affinché», si legge nell'art. 3, «ne sia garantita la staticità nella fase di conservazione». Nel corso del terzo passaggio, poi, il documento viene memorizzato nel sistema di gestione informatica dei documenti o di conservazione.
A fare da perno all'intero processo di formazione, la caratteristica di immodificabilità. Nel caso di redazione del documento tramite software la caratteristica di immodificabilità è, infatti, data dal rispetto dei requisiti di: firma digitale, validazione temporale, trasferimento a terzi tramite Pec, memorizzazione su sistemi di gestione documentale che adottino idonee politiche di sicurezza e versamento ad un sistema di conservazione.
In caso di documenti frutto, invece, di registrazioni risultanti da transazioni informatiche o generazione o raggruppamento di informazioni proventi da più banche dati la garanzia di immodificabilità è data dall'applicazione di misure per la protezione dell'integrità delle basi di dati o dalla produzione di una estrazione statica dei dati e il trasferimento della stessa nel sistema di conservazione. Regole tassative, inoltre, anche per la formazione di copia per immagini di documenti. La duplicazione è, infatti, possibile solo mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico abbia contenuto e forma identici a quelli del documento.
Documento amministrativo informatico. A carico della p.a., entro 18 mesi, formare gli originali dei propri documenti. Per arrivare al documento amministrativo informatico completo, però, dovranno essere rispettati tutti i passaggi previsti dall'art. 3 del dpcm.
In questo caso, inoltre, le caratteristiche di immodificabilità e di integrità del documento saranno garantite anche grazie alla sua registrazione nel registro di protocollo, negli ulteriori registri, nei repertori, negli albi, negli elenchi, negli archivi o nelle raccolte dati contenute nel sistema di gestione informatica dei documenti concernente stati, qualità personali e fatti già realizzati dalle amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 14.01.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIPa, addio carta da settembre 2016. Pronte le regole tecniche: definito ogni passaggio fino al documento immodificabile.
Burocrazia e utenti. In Gazzetta il Dpcm che conclude l’iter avviato nove anni fa con il Codice dell’amministrazione digitale.

Sono pronte le regole tecniche sui documenti informatici: con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale n. 8 del 12 gennaio scorso, del decreto del presidente del Consiglio dei ministri datato 13.11.2014, si è infatti completata l’attività normativa necessaria alla completa attuazione del Codice dell’amministrazione digitale. La gestione totalmente dematerializzata dei documenti, compresi quelli delle pubbliche amministrazioni, sin dalla fase della loro generazione, è ora possibile.
Il decreto rappresenta l’ultimo e atteso tassello per garantire lo sviluppo digitale del Paese, sempre più al centro delle attenzioni del Governo sia con i provvedimenti adottati negli ultimi mesi, tra cui i due decreti datati entrambi 03.12.2013 per la conservazione elettronica e il protocollo informatico, ma anche alla luce dell’imminente estensione a tutte le pubbliche amministrazioni, con decorrenza 31.03.2015, dell’obbligo di fatturazione elettronica. Senza dimenticare l’avvio dal prossimo mese di aprile dello Spid, il sistema pubblico di identità digitale, che consentirà l’accesso in sicurezza a tutti i siti web che erogano servizi online.
Ebbene le regole tecniche sul documento informatico assumono un’importanza fondamentale nella prospettiva di dematerializzazione e semplificazione, individuando e disciplinando le caratteristiche e le procedure di formazione e chiusura del documento informatico, compreso quello amministrativo, ai fini del successivo trasferimento nel sistema di conservazione elettronica ove richiesto dalla natura e dalla tipologia dell’atto. Inoltre, sono chiarite le regole per la generazione delle copie per immagine di un documento analogico, per i documenti informatici e per le copie ed estratti informatici di documenti informatici.
Queste ultime disposizioni rilevano anche per la dematerializzazione di documenti e scritture analogici rilevanti a fini tributari e permettono l’attuazione dell’articolo 4 del decreto ministeriale del 17.06.2014. Le regole saranno operative dal prossimo 11 febbraio, e cioè dal trentesimo giorno successivo alla pubblicazione del decreto, mentre le pubbliche amministrazioni dovranno adeguarsi entro e non oltre agosto 2016. Decorso tale termine, le pubbliche amministrazioni sono obbligate a gestire documenti informatici.
Il documento è informatico non solo se redatto e formato con idonei applicativi software ma anche se risulta dall’acquisizione della copia per immagine di un documento analogico o della copia informatica di un documento analogico. La registrazione informatica di transazioni o la presentazione telematica di dati attraverso moduli e formulari così come la generazione o il raggruppamento di un insieme di dati provenienti da una o più basi dati costituiscono ulteriori modalità di formazione del documento informatico. Analogamente il documento è informatico se ricevuto per via telematica o su supporto informatico. Il documento informatico va poi memorizzato in un sistema di gestione informatica dei documenti o di conservazione.
Una volta formato, il documento deve essere chiuso attraverso l’utilizzo di processi o strumenti informatici al fine di renderlo immodificabile durante le fasi di tenuta, accesso e conservazione. L’immodificabilità di un documento informatico redatto digitalmente, e quindi la sua chiusura, viene ottenuta con la sua sottoscrizione con firma digitale o con firma elettronica qualificata da parte dell’autore, l’apposizione di una validazione temporale, il trasferimento a soggetti terzi con posta elettronica certificata con ricevuta completa, la memorizzazione su sistemi di gestione documentale con politiche di sicurezza o il versamento a un sistema di conservazione da parte del gestore.
Per il documento informatico ricevuto telematicamente oppure risultante dall’acquisizione di un analogico la chiusura coincide invece con la memorizzazione, da parte del gestore, nel sistema di gestione informatica dei documenti o nel sistema di conservazione. Mentre per il documento che deriva dalla registrazione di transazioni informatiche o dall’acquisizione telematica di dati, la chiusura si ha al momento della registrazione dell’esito dell’operazione con misure per la protezione dell’integrità delle basi dati e per la produzione e conservazione dei log di sistema.
Alla chiusura del documento informatico deve essere in ogni caso associato un riferimento temporale e i metadati minimi generati durante la formazione quali l’identificativo univoco e persistente, la data di chiusura, l’oggetto, il soggetto che ha formato il documento, l’eventuale destinatario e l’impronta del documento informatico
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2015).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTICatasto, partono le commissioni. Decreto in «Gazzetta»: in vigore dal 28 gennaio le regole per nomine e funzioni.
Delega fiscale. Gli organi devono validare le funzioni statistiche che formeranno i nuovi valori immobiliari ai fini delle imposte.

Ci sono voluti solo due mesi per percorre i circa 12 chilometri che separano Palazzo Chigi dal poligrafico dello Stato. Era il 10 novembre dello scorso anno quando, dopo un estenuante ping pong tra commissioni parlamentari e Governo, veniva finalmente approvato il decreto legislativo che definisce compiti e composizione delle commissioni censuarie, gli organi indispensabili per far la riforma del catasto.
In concreto, dalla prima bozza presentata dal Governo alla mini bicamerale che avrebbe dovuto accelerare i tempi dell’esame parlamentare, all’entrata in vigore del decreto legislativo 198/2014 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale di ieri)?ci sono voluti più di sette mesi. E dieci dall’entrata in vigore della delega fiscale. Un bel risultato, considerando che si trattava di una delle norme di attuazione meno complesse.
Questo primo decreto, l'unico già approvato per la riforma del catasto, ridefinisce le competenze e il funzionamento delle commissioni provinciali e centrale, e ne modifica la composizione. In particolare, tra i sei membri ci saranno due rappresentanti delle Entrate, uno degli enti locali, tre di professionisti, tecnici, docenti qualificati ed esperti di statistica e di econometria, indicati da Ordini e associazioni di categoria.
Le commissioni censuarie avevano funzioni importanti anche prima ma di fatto, a causa del blocco delle nomine che avevano interessato la commissione censuaria centrale, e molte provinciali, da alcuni anni, aveva perso ormai di significato.
Ora, invece, le commissioni, che non a caso sono state oggetto del primo dei decreti legislativi dedicati alla riforma del catasto (uno dei cardini della delega fiscale), torneranno a funzionare. A livello locale, le nomine dei presidenti delle commissioni e dei membri e del presidente delle sezioni passeranno dal presidente del Tribunale locale. I membri, in particolare (effettivi e supplenti), saranno il risultato di una scelta tra i nomi proposti da associazioni di categoria e ordini professionali (e designati dal prefetto), dall’agenzia delle Entrate e dall'Anci. In particolare, i ritardi sono da attribuire proprio ai tentativi del Governo di non garantire la presenza delle associazioni di categoria nelle commissioni locali e centrale, affermata invece con forza dalle commissioni parlamentari e inserita infine nel testo del decreto.
Per la commissione centrale, invece, il presidente sarà nominato con Dpr, su proposta decreto del ministro dell’Economia e previa deliberazione del Consiglio dei ministri.
La nascita delle commissioni, a questo punto, viene subordinata a un decreto d’insediamento formato dal direttore dell’agenzia delle Entrate entro un anno dall’entrata in vigore del decreto, e permetterà, da una parte, di riprendere le attività di gestione delle revisioni dei quadri tariffari estimali (dalle tariffe, che saranno a metro quadrato, dipenderanno le rendite e i valori su cui calcolare le tasse) e, soprattutto, di validazione degli algoritmi che definiranno questi valori e rendite unità per unità. Il decreto, quindi, è legato a doppio filo con quello sulle «funzioni statistiche» in modo che la macchina possa davvero partire.
Di questo secondo decreto (in corso di elaborazione da parte delle Entrate, si veda il Sole 24 Ore del 4 gennaio scorso) i contenuti sono centrati soprattutto sull’algoritmo da applicare alle unità immobiliari, partendo da valori medi che saranno determinati con un’approssimazione territoriale molto ampia. «Auspichiamo ora -aggiunge Sforza Fogliani- che sul secondo decreto legislativo, ormai in fase di emanazione, si apra una consultazione con la rappresentanza dei contribuenti così che non si faccia nuovamente carico al solo Parlamento di garantire il rispetto dei principi di trasparenza e di contraddittorio tra le parti interessate stabiliti dalla legge delega»
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti ad hoc nei mini-enti. Piccoli comuni, si va verso la revisione della centrale unica. Apertura del ministro Lanzetta ai sindaci. L'Iva sul pellet potrebbe tornare al 10%.
Si va verso la revisione, con «deroghe per piccoli comuni», delle norme sull'obbligo di ricorrere alle centrali uniche di committenza (per beni, forniture e gare). E, quanto al rincaro dell'Iva sul pellet (dal 10 al 22%), inserito nella legge di stabilità 2015, il governo «sta studiando una via per il rientro» dal contestato aumento del prezzo del combustibile.
Parola di Maria Carmela Lanzetta, ministro per gli affari regionali, che ha partecipato alla giornata di mobilitazione promossa ieri, a Roma, alla camera dei deputati, dall'intergruppo parlamentare per lo sviluppo della montagna. E ha replicato, con timide aperture e rimandi all'azione di altri dicasteri, alle vivaci sollecitazioni di circa 300 sindaci di amministrazioni situate dalle Alpi agli Appennini, affinché vengano sciolti alcuni nodi delicati.
All'idea di un restyling delle regole sulle centrali uniche degli appalti, finalizzate al contenimento della spesa, la rappresentante dell'esecutivo ha affiancato una valutazione (senza soluzione) in merito al pagamento dell'Imu sui terreni agricoli: «Non vi do risposte», ha dichiarato davanti alla platea di primi cittadini, perché «ci stiamo lavorando, di concerto con il ministero dell'economia e delle finanze, ma sono consapevole che si tratta di un problema enorme che va affrontato in tempi brevi».
Immediata la replica di Enrico Borghi (Pd), alla guida dell'intergruppo che, partendo dal presupposto che sulla tassa si esige, a questo punto, «un provvedimento decisivo», ha evidenziato a ItaliaOggi che imporre l'Imu agricola «è stato un errore, da risolvere il prima possibile con uno stanziamento che sterilizzi quanto dovuto per il 2014». Mentre l'intera questione è giusto venga affrontata «all'interno del dibattito sulla local tax, tenendo ben presenti criteri di omogeneità sul fronte del trattamento fiscale degli immobili»
Lanzetta ha assicurato che c'è «attenzione istituzionale» verso il territorio montano, in particolare per zone che presentano problemi di dissesto idrogeologico: da un lato, pertanto, ha garantito che le iniziative per compensare il balzo al 22% dell'Iva sul pellet sono sul tavolo del dicastero di via XX settembre, dall'altro è entrata nel merito della riduzione della consegna di lettere, pacchi e del pagamento di bollettini (il ridimensionamento del servizio è previsto dal piano industriale di Poste italiane per il prossimo triennio, tuttavia il 22 dicembre l'Aula di Montecitorio ha approvato un ordine del giorno del centrosinistra per chiedere garanzie sull'attività in tutti i comuni, compresi quelli in aree a bassa capacità di utenza, ndr), sostenendo che vi è un «prioritario l'impegno del governo» sulla strada della «riorganizzazione e digitalizzazione».
Sul finire dell'evento, i riflettori si sono indirizzati sulla proposta di legge sui piccoli comuni (C 65), primi firmatari lo stesso Borghi ed Ermete Realacci (Pd), chiamata in causa da Serena Pellegrino (Sel) che ne ha invocato la calendarizzazione in assemblea, e ha chiesto di evitare «il fallimento» delle amministrazioni di minori dimensioni «già strangolate dal patto di stabilità» (articolo ItaliaOggi del 13.01.2015).

APPALTIP.a., i fornitori devono indicare l'Iva in fattura e poi stornarla. Nota della fondazione dei commercialisti sullo split payment.
Per le operazioni fatturate dal 01.01.2015 agli enti pubblici, soggetti al nuovo meccanismo dello split payment, i fornitori dovranno indicare l'Iva nella fattura, registrarla regolarmente nella contabilità e poi stornarla, contestualmente o con apposita scrittura, dal credito verso il cliente.

È quanto spiega nella nota operativa gennaio 2015 sulle nuove disposizioni dell'art. 17-ter del dpr n. 633/1972, diffusa ieri dalla Fondazione nazionale commercialisti, nella quale si dà conto di alcune problematiche e delle soluzioni in arrivo, anticipate dal ministero dell'economia con il comunicato stampa del 09.01.2015 (si veda ItaliaOggi di sabato scorso).
Ambito soggettivo
Il citato articolo 17-ter, introdotto dalla legge n. 190/2014, stabilisce che per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello stato e dei suoi organi, anche dotati di personalità giuridica, degli enti pubblici territoriali e dei loro consorzi, delle camere di commercio, degli istituti universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza, per i quali i suddetti cessionari o committenti non sono debitori d'imposta ai sensi delle disposizioni in materia di Iva, l'imposta è in ogni caso versata dagli stessi cessionari/committenti, secondo modalità e termini da fissare con decreto ministeriale.
Al riguardo, la fondazione si chiede se l'elencazione sia tassativa o sia suscettibile di estensione ad altri soggetti, propendendo per la prima soluzione alla luce dei chiarimenti forniti dall'amministrazione finanziaria in merito all'identica elencazione fornita dall'art. 6, quinto comma, dpr n. 633/1972 ai fini dell'esigibilità differita.
Osserva, inoltre, che il comunicato stampa ha chiarito che il meccanismo si applica indipendentemente dalla veste con la quale l'ente destinatario delle forniture agisce (soggetto passivo o meno), ad eccezione delle operazioni sottoposte al regime dell'inversione contabile.
Intreccio fra meccanismi speciali
A quest'ultimo proposito, va evidenziato che l'applicazione del regime dell'inversione contabile, che rende inapplicabile il meccanismo dello split payment, è subordinata alla circostanza che il destinatario agisca in veste di soggetto passivo dell'Iva, mentre il meccanismo dello split payment, come detto, si applica indipendentemente da tale requisito. Pertanto, nell'ipotesi in cui un ente pubblico titolare di partita Iva (in quanto svolge anche attività economica) riceve, nell'ambito della sfera commerciale, beni o servizi oggettivamente rientranti nel regime dell'inversione contabile, applicherà tale regime; se tali beni o servizi sono invece destinati alla sfera istituzionale, dovrebbe applicare lo split payment.
È dubbio il trattamento degli acquisti di beni e servizi a destinazione promiscua, impiegati cioè indistintamente per la sfera istituzionale che a quella commerciale, per esempio il servizio di pulizia di un ospedale. È necessario chiarire se, in tale ipotesi, l'imposta debba applicarsi con l'inversione contabile o debba essere versata con lo split payment (articolo ItaliaOggi del 13.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla compatibilità paesaggistica (ex art. 167 dlgs 42/2004) dell'abusiva maggiore coibentazione della copertura del tetto nel rispetto di quanto previsto dalla normativa sul risparmio energetico, ovverosia di un maggior pacchetto di coibentazione che aumenta lo spessore della copertura di circa cm. 33 rispetto a quanto previsto nel progetto iniziale, dovuto essenzialmente all’adeguamento normativo in funzione del sistema di riscaldamento adottato.
Osserva il Collegio che l’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 richiede, ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica dei “lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica” che gli stessi “non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimante realizzati”.
Il Comune, negli atti impugnati, ha ritenuto idoneo a integrare la fattispecie preclusiva (data appunto dall’incremento di volume) l’inserimento nella copertura del manufatto di un “pacchetto di coibentazione”, legato ad esigenze di risparmio energetico, che aumenta di una trentina di cm lo spessore della copertura.
Ritiene il Collegio, in accoglimento della censura in esame, che la tesi ricostruttiva dell’Amministrazione non sia convincente e che il rialzamento riscontrato non sia in realtà idoneo a escludere l’accertamento di compatibilità paesaggistica richiesto, non integrando la fattispecie preclusiva correlata all’aumento di volume di cui all’art. 167, comma 4, invocato dall’Amministrazione.
Tale conclusione è raggiunta dal Collegio evidenziando che nella specie, da un lato, non si è in presenza di un aumento di volume alla luce della disciplina urbanistica locale e che, dall’altro lato, il modesto incremento di altezza complessiva della copertura è dovuto ad esigenze tecniche funzionali al soddisfacimento di un rilevante interesse pubblico, com’è quello connesso al risparmio energetico.
Infatti, in primo luogo, deve essere rilevato che, ai sensi dell’art. 104 del Regolamento Edilizio del Comune, “per altezza dei fabbricati si intende la distanza corrente tra il riferimento in sommità e quello alla base dell’edificio”, laddove il riferimento alla sommità è da intendersi, in caso di copertura inclinata, come riferito a “l’incontro dell’intradosso della copertura con il piano della facciata”, mentre nella fattispecie in esame il modesto incremento di altezza si è verificato sopra l’intradosso, per l’inserimento del “cappotto termico”, il che esclude che ciò determini un incremento volumetrico giuridicamente rilevate.
Nel gravato provvedimento di diniego il Comune di Poggibonsi, prendendo specificamente in esame il rilievo inerente l’applicazione dell’art. 104 del R.E, come sottopostogli dall’istante in sede di memoria difensiva, esclude che esso possa avere applicazione oltre l’ambito urbanistico, ritenendo in particolare che dal punto di vista paesaggistico anche l’incremento di altezza realizzato nella specie risulti rilevante. Ciò, tuttavia, non risulta convincente.
Deve essere in particolare evidenziato che l’ulteriore altezza realizzata è stata posta in essere, pacificamente, per realizzare un intervento di “risparmio energetico”; tale tipologia di interventi risulta fortemente incoraggiata dall’ordinamento, realizzando finalità pubblicistiche di sicura rilevanza; lo stesso art. 104 del R.E. del Comune di Poggibonsi menziona il “risparmio energetico”, come finalità da perseguire, ma soprattutto norme di legge statale e regionale perseguono l’obiettivo della realizzazione di edifici che garantiscano un superiore indice di prestazione energetica (art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008, art. 146 della legge regionale n. 1 del 2005).
In tal quadro è da escludere, al fine di evitare che l’ordinamento entri in contraddizione con sé stesso, che un intervento edilizio urbanisticamente conforme a legge (stante il fatto che nella specie l’art. 104 del RE esclude la valenza volumetrica del modesto incremento di altezza realizzato) e per di più ispirato al perseguimento di finalità che sono riconosciute anche di valenza pubblicistica (non essendo contestato che l’intervento in parola è funzionale a perseguire obiettivi di risparmio energetico), possa invece essere ritenuto illegittimo da un punto di vista paesaggistico, dovendo in senso contrario la preclusione di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 essere ritenuta non applicabile in presenza di un intervento che non costituisce aumento di volume alla luce della normativa edilizia applicabile e che è ispirato a finalità di contenimento di risparmio energetico.

... per l'annullamento del Provvedimento del Dirigente del Settore Edilizia ed Urbanistica del Comune di Poggibonsi dello 06.11.2013, prot. n. 26464, pervenuto il 08.11.2013, con il quale è stato disposto il diniego sull'istanza di accertamento di compatibilità ambientale paesaggistica presentata ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. 42/2004 e s.m.i. il 05.07.2013;
...
Con il primo mezzo di cui al ricorso introduttivo del giudizio la ricorrente si duole del provvedimento comunale di diniego di accertamento di compatibilità ambientale e paesaggistica, negando che nella specie vi fossero i presupposti per riconoscere la sussistenza di un aumento volumetrico ostativo alla sanatoria.
La censura è fondata.
In data 05.07.2013 la Polisportiva ricorrente presentava al Comune di Poggibonsi istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica avente ad oggetto la “attestazione di conformità per aumento del pacchetto termoisolante della copertura oltre a modifiche interne e di prospetto al fabbricato con destinazione spogliatoi”.
Nella relazione tecnica allegata all’istanza (doc. 3 dell’Amministrazione resistente) si specifica che i lavori hanno comportato, rispetto allo stato autorizzato, una “maggiore coibentazione della copertura nel rispetto di quanto previsto dalla normativa sul risparmio energetico”, poiché “questo maggiore pacchetto di coibentazione aumenta lo spessore della copertura, di circa cm. 33 rispetto a quanto previsto nel progetto iniziale, dovuto essenzialmente all’adeguamento normativo in funzione del sistema di riscaldamento adottato”, concludendo che “l’aumento della copertura è solo ed esclusivamente tecnico, ciò non comporta aumento di altezza dei sottostanti locali, che sono come previsto nel progetto iniziale”.
Esaminata l’istanza, e preso atto del parere della Soprintendenza che richiedeva di valutare eventuale incrementi di superficie o volume, il Comune di Poggibonsi emanava la comunicazione dei motivi ostativi prot. n. 22756 del 03.10.2013, sul rilevo che “i lavori realizzati in difformità dall’autorizzazione paesaggistica n. 09/A139 del 10.11.2009, non hanno determinato creazione di superfici utili, ma hanno comportato l’aumento di volume, rispetto a quello legittimamente autorizzato, per l’inserimento di pacchetto coibente nella copertura, contrastando, pertanto, con l’art. 167, comma 4, del d.lgs. 42/2004”.
Esaminate poi le osservazioni dell’istante, l’Amministrazione comunale con il provvedimento prot. n. 26464 del 06.11.2013 respingeva l’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica, richiamando l’incremento di volume e il d.lgs. n. 42 del 2004.
Osserva il Collegio che l’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 richiede, ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica dei “lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica” che gli stessi “non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimante realizzati”.
Il Comune di Poggibonsi, negli atti impugnati, ha ritenuto idoneo a integrare la fattispecie preclusiva (data appunto dall’incremento di volume) l’inserimento nella copertura del manufatto di un “pacchetto di coibentazione”, legato ad esigenze di risparmio energetico, che aumenta di una trentina di cm lo spessore della copertura.
Ritiene il Collegio, in accoglimento della censura in esame, che la tesi ricostruttiva dell’Amministrazione non sia convincente e che il rialzamento riscontrato non sia in realtà idoneo a escludere l’accertamento di compatibilità paesaggistica richiesto, non integrando la fattispecie preclusiva correlata all’aumento di volume di cui all’art. 167, comma 4, invocato dall’Amministrazione.
Tale conclusione è raggiunta dal Collegio evidenziando che nella specie, da un lato, non si è in presenza di un aumento di volume alla luce della disciplina urbanistica locale e che, dall’altro lato, il modesto incremento di altezza complessiva della copertura è dovuto ad esigenze tecniche funzionali al soddisfacimento di un rilevante interesse pubblico, com’è quello connesso al risparmio energetico.
Infatti, in primo luogo, deve essere rilevato che, ai sensi dell’art. 104 del Regolamento Edilizio del Comune di Poggibonsi, “per altezza dei fabbricati si intende la distanza corrente tra il riferimento in sommità e quello alla base dell’edificio”, laddove il riferimento alla sommità è da intendersi, in caso di copertura inclinata, come riferito a “l’incontro dell’intradosso della copertura con il piano della facciata”, mentre nella fattispecie in esame il modesto incremento di altezza si è verificato sopra l’intradosso, per l’inserimento del “cappotto termico”, il che esclude che ciò determini un incremento volumetrico giuridicamente rilevate.
Nel gravato provvedimento di diniego il Comune di Poggibonsi, prendendo specificamente in esame il rilievo inerente l’applicazione dell’art. 104 del R.E, come sottopostogli dall’istante in sede di memoria difensiva, esclude che esso possa avere applicazione oltre l’ambito urbanistico, ritenendo in particolare che dal punto di vista paesaggistico anche l’incremento di altezza realizzato nella specie risulti rilevante. Ciò, tuttavia, non risulta convincente.
Deve essere in particolare evidenziato che l’ulteriore altezza realizzata è stata posta in essere, pacificamente, per realizzare un intervento di “risparmio energetico”; tale tipologia di interventi risulta fortemente incoraggiata dall’ordinamento, realizzando finalità pubblicistiche di sicura rilevanza; lo stesso art. 104 del R.E. del Comune di Poggibonsi menziona il “risparmio energetico”, come finalità da perseguire, ma soprattutto norme di legge statale e regionale perseguono l’obiettivo della realizzazione di edifici che garantiscano un superiore indice di prestazione energetica (art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008, art. 146 della legge regionale n. 1 del 2005).
In tal quadro è da escludere, al fine di evitare che l’ordinamento entri in contraddizione con sé stesso, che un intervento edilizio urbanisticamente conforme a legge (stante il fatto che nella specie l’art. 104 del RE esclude la valenza volumetrica del modesto incremento di altezza realizzato) e per di più ispirato al perseguimento di finalità che sono riconosciute anche di valenza pubblicistica (non essendo contestato che l’intervento in parola è funzionale a perseguire obiettivi di risparmio energetico), possa invece essere ritenuto illegittimo da un punto di vista paesaggistico, dovendo in senso contrario la preclusione di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 essere ritenuta non applicabile in presenza di un intervento che non costituisce aumento di volume alla luce della normativa edilizia applicabile e che è ispirato a finalità di contenimento di risparmio energetico (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.01.2015 n. 124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L’elemento che differenzia il rinnovo del contratto dalla proroga sta nella circostanza che mentre il rinnovo presuppone una rinegoziazione delle condizioni, la proroga si riduce soltanto ad un mero differimento temporale.
Di fronte all’approvazione di una proroga di un contratto ritenuta dal privato non corrispondente all’offerta presentata, questi ha piena libertà di rifiutare la prestazione e cessare il servizio, né l’Amministrazione potrebbe avvalersi di strumenti coercitivi per imporgli la prosecuzione, se non il condizionamento, di natura esclusivamente economica, verso la sottoscrizione del nuovo contratto, che, tuttavia, rientra nella dialettica procedimentale tra stazione appaltante e prestatore di servizi, e non si traduce in un vizio di legittimità dell’azione amministrativa.

L’appello è infondato e deve pertanto essere respinto.
Le censure dedotte dalla società appellante non scalfiscono la legittimità del provvedimento impugnato.
Infatti, i profili di censura dedotti sono riconducibili all’affermazione dell’illegittimità di una proroga del contratto parziale e non corrispondente a quanto era stato offerto dalla società.
Il Collegio osserva che l’esistenza di una offerta contrattuale difforme, non impediva alla ASL di disporre un affidamento contrattuale (correttamente, il TAR ha rilevato come l’elemento che differenzia il rinnovo del contratto dalla proroga sta nella circostanza che mentre il rinnovo presuppone una rinegoziazione delle condizioni, la proroga si riduce soltanto ad un mero differimento temporale - cfr. Cons. Stato, III, nn. 2682/2012 e 1687/2012). Semmai, l’affidamento poteva incontrare profili di criticità in relazione alle norme dell’evidenza pubblica (ed alla sussistenza dei presupposti per l’affidamento senza gara), ma tali profili non sono stati minimamente accennati dalla ricorrente.
Di fronte all’approvazione di una “proroga” (ormai, rectius: di un “affidamento”) di un contratto ritenuta non corrispondente all’offerta presentata, la società aveva invece piena libertà di rifiutare la prestazione e cessare il servizio; e la ASL non avrebbe avuto strumenti coercitivi per imporgli la prosecuzione (il richiamo, nell’appello, all’ingiustificata utilizzazione del principio di vincolatività dell’offerta, ex art. 11 del d.lgs. 163/2006, è evidentemente un fuor d’opera).
I fatti dimostrano che vi è stata una rinegoziazione (sia pure, con esito contestato), o quanto meno l’accettazione del contratto, che è stato stipulato, anche se con riserva degli esiti del contenzioso già instaurato: ma ciò significava soltanto la non acquiescenza o non rinuncia alle pretese azionate in giudizio; e che la prestazione è stata eseguita (a quanto sembra, vi sono state poi ulteriori proroghe del servizio, così ridotto nel contenuto; in ogni caso, è della legittimità del provvedimento, e non della successiva esecuzione contrattuale che si discute).
Allo stesso modo, non rileva se l’offerta della società, disattesa, riguardasse esclusivamente la proroga dell’intero servizio, ovvero comprendesse la possibilità di scinderne alcune parti; la questione, sollevata dalla ASL (che ne ha argomentato la corrispondenza tra offerta e provvedimento impugnato), è stata oggetto di replica dell’appellante (replica che sembra fondata, dato che la nota in data 21.12.2010 contenente l’offerta si riferisce alla “proroga del contratto in essere in scadenza”, e solo dopo dettaglia i costi in relazione ai distinti servizi), ma appare irrilevante ai fini della legittimità del provvedimento impugnato.
Il condizionamento (l’aut aut, come lamenta l’appellante) verso la sottoscrizione del nuovo contratto, se c’era (l’appellante, pur affermando che la limitazione delle prestazioni ha fatto saltare l’equilibrio economico, non lo dimostra con riferimenti oggettivi), era di natura esclusivamente economica, ma ciò rientra nella dialettica procedimentale tra stazione appaltante e prestatore di servizi, e non si traduce in un vizio di legittimità dell’azione amministrativa.
Non vi è comunque violazione della buona fede e correttezza negoziale, perché non risulta che la ASL abbia mai suscitato la nascita di un affidamento in ordine alla prosecuzione del contratto a condizioni inalterate, e comunque sussistevano oggettivi ragioni per disporre una continuazione limitata nelle more della definizione di diverse e più razionali modalità di gestione complessiva del servizio.
In sostanza, mentre dapprima il servizio comportava la raccolta delle cartelle cliniche presso i presidi ospedalieri ed il trasporto presso il magazzino/archivio della società, in seguito avrebbe comportato soltanto la conservazione delle cartelle esistenti in archivio e non invece il prelievo di nuove cartelle dai presidi (in quanto ormai destinate ad essere archiviate presso strutture apprestate dalle ASL), né quello di descaffalazione delle cartelle medesime per il trasferimento in una nuova sede (presso le ASL) con fornitura delle scatole (la ASL sottolinea che si riservava di esaminarlo successivamente, una volta attivato il nuovo archivio).
La pretesa risarcitoria cade insieme alla domanda di annullamento del provvedimento impugnato, non trovando nel mero comportamento della ASL alcun autonomo alternativo fondamento. Ciò, a prescindere dalla mancata dimostrazione del danno subito (può peraltro dubitarsi che la continuazione del solo servizio di custodia delle cartelle archiviate presso il proprio magazzino, risulti per la società non remunerativo) (massima tratta da
http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.01.2015, n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropri, accessione invertita contraria alla Convenzione dei diritti dell'uomo.
L'occupazione acquisitiva è contraria alla convenzione europea dei diritti dell'uomo come tutte le forme di espropriazione indiretta elaborate nell'ordinamento italiano anche e soprattutto in sede giurisprudenziale: il fatto che sul terreno sia stata ormai realizzata l'opera pubblica non può fare acquisire il bene all'amministrazione laddove l'acquisizione del diritto di proprietà, ricorda Strasburgo, non può mai conseguire a un illecito.
Non conta che sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità. Ecco allora che il proprietario del terreno deve ottenere la restituzione o il risarcimento del danno e il suo diritto non decorre dalla ormai risalente trasformazione irreversibile del fondo: il termine quinquennale scatta dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente.

Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 19.01.2015 n. 735 che risolve un contrasto di giurisprudenza.
Illecito permanente
Accolto il ricorso degli eredi del de cuius: si riapre una controversia cominciata nel lontano 1953 con l'esproprio di un terreno da parte del Comune che ha realizzato soltanto nel '60 sul fondo espropriato la scuola di cui aveva tanto bisogno.
Trova ingresso la censura secondo cui l'accessione invertita non può essere applicata perché è contraria al principio di legalità affermato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo: il diritto al risarcimento del proprietario, dunque, deriva da un illecito permanente com'è appunto l'occupazione illegittima del terreno da parte di un ente pubblico.
La giurisprudenza di Strasburgo sottolinea che «lo stato dovrebbe, prima di tutto, adottare misure tendenti a prevenire ogni occupazione fuori legge dei terreni, che si tratti d'occupazione senza titolo dall'inizio o di occupazione inizialmente autorizzata e divenuta senza titolo successivamente» (nella specie l'occupazione di urgenza dell'area diventa illegittima perché il decreto di esproprio non interviene entro il biennio successivo).
La contrarietà alla Cedu esclude che l'istituto sopravviva nel nostro ordinamento. Parola al giudice del rinvio (articolo ItaliaOggi del 20.01.2015).

ESPROPRIAZIONE: L’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno.
Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla proprietà del terreno.
Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente.

Il primo motivo è fondato con conseguente assorbimento del secondo motivo.
L’occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa) è, come è noto, istituto di creazione giurisprudenziale risalente nella prima compiuta formulazione alla sentenza Cass. s.u. 26.02.1983, n. 1464, ma con un significativo precedente in Cass. 08.06.1979, n. 3243.
Tale pronunzia -affrontando il caso, non disciplinato dalla legge, di una occupazione protrattasi oltre i previsti termini di occupazione legittima e contrassegnata dalla irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di un’opera dichiarata di pubblica utilità– è stata il frutto della dichiarata ricerca di un punto di equilibrio tra la tutela dell’azione amministrativa (assicurata dall’acquisto a titolo originario in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del suolo illegittimamente occupato e trasformato) e la tutela della proprietà privata (assicurata dall’obbligo dell’amministrazione occupante di risarcire integralmente il danno arrecato, sulla base, almeno sino all’entrata in vigore del comma 7-bis dell’art. 5-bis del d.l. n. 333/1992, del valore venale del bene).
Tale pronunzia, inoltre, ha segnato il superamento del precedente orientamento in base al quale, nel caso in esame, il privato restava proprietario del bene occupato, aveva diritto soltanto al risarcimento del danno determinato dalla perdita di utilità ricavabili dalla cosa e restava soggetto alla tardiva sopravvenienza del decreto di espropriazione, ritenuto idoneo a ricollocare la fattispecie su un piano di legittimità con l’attribuzione al privato soltanto di un indennizzo (all’epoca non commisurato al valore venale del bene) (ex plurimis Cass. 02.06.1977, n. 2234; Cass. 26.09.1978, n. 4323).
La giurisprudenza successiva, dopo la composizione (ad opera di Cass. s.u. 25.11.1992, n. 12546) del contrasto insorto circa il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, si è dovuta confrontare con il problema della compatibilità (o meglio del contrasto) dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte EDU.
In particolare, la Corte di Strasburgo ha censurato le forme di ‘espropriazione indiretta’ elaborate nell’ordinamento italiano anche e soprattutto in sede giurisprudenziale (come nel caso dell’occupazione acquisitiva) e le ha configurate come illecito permanente perpetrato nei confronti di un diritto fondamentale dell’uomo, garantito dall’art. 1 citato, senza che alcuna rilevanza possa assumere in contrario il dato fattuale dell’intervenuta realizzazione di un’opera pubblica sul terreno interessato, affermando che l’acquisizione del diritto di proprietà non può mai conseguire a un illecito (v., tra le tante, le sentenze Carbonara& Ventura c. Italia, 30.05.2000; Scordino c. Italia, 15 e 29.07.2004; Acciardi c. Italia, 19.05.2005; De Angelis c. Italia, 21.12.2006; Pasculli c. Italia, 04.12.2007).
In un’altra sentenza (Scordino c. Italia n. 3, 06.03.2007) la Corte di Strasburgo ha affermato che “lo Stato dovrebbe, prima di tutto, adottare misure tendenti a prevenire ogni occupazione fuori legge dei terreni, che si tratti d’occupazione sine titulo dall’inizio o di occupazione inizialmente autorizzata e divenuta sine titulo successivamente… Inoltre lo Stato convenuto deve scoraggiare le pratiche non conformi alle norme delle espropriazioni lecite, adottando disposizioni dissuasive e ricercando le responsabilità degli autori di tali pratiche. In tutti i casi in cui un terreno è già stato oggetto d’occupazione senza titolo ed è stato trasformato in mancanza di decreto d’espropriazione, la Corte ritiene che lo Stato convenuto dovrebbe eliminare gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del terreno” (il medesimo concetto è espresso nella sentenza Carletta c. Italia, 15.07.2005 “il meccanismo dell’espropriazione indiretta permette in generale all’amministrazione di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, col rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati, che si tratti di un’illegalità dall’inizio o di un’illegalità sopraggiunta in seguito”).
La Corte Europea (v. anche le sentenze Sciarrotta c. Italia, 12.01.2006; Serrao c. Italia, 13.01.2006; Dominici c. Italia, 15.02.2006; Sciselo c. Italia, 20.04.2006; Cerro s.a.s. c. Italia, 23.05.2006) si dice anche “convinta che l’esistenza in quanto tale di una base legale non basti a soddisfare il principio di legalità”, non potendo l’espropriazione indiretta comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione “in buona e dovuta forma”.
La giurisprudenza di questa Corte successiva alle citate pronunzie della Corte EDU si è in larga parte orientata non verso l’abbandono dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, nel frattempo presupposta, come si vedrà meglio in seguito, da alcune disposizioni di legge, ma verso la ricerca del superamento dei punti di criticità della disciplina dell’istituto rispetto ai principi affermati dalla Convenzione EDU.
In questa prospettiva si collocano, anzitutto, le decisioni tese ad affermare la compatibilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con il principio sancito dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo; a tal fine si sottolinea che l’istituto non solo ha una base legale nei principi generali dell’ordinamento, ma ha trovato previsione normativa espressa prima (settoriale) con l’art. 3 della legge n. 458/1988 e, successivamente, con il comma 7-bis dell’art. 5-bis del d.l. n. 333/1992 (introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662/1996) e, quindi, risulta ormai basato su regole sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, ancorate a norme giuridiche che hanno superato il vaglio di costituzionalità ed hanno recepito (confermandoli) principi enucleati dalla costante giurisprudenza (Cass. s.u. 14.04.2003, n. 5902; Cass. s.u. 06.05.2003, n. 6853).
Altre decisioni si sono preoccupate di fissare il dies a quo del termine di prescrizione nel momento dell’emersione certa a livello legislativo dell’istituto e cioè a partire dalla legge n. 458/1988, ritenendo in tal modo soddisfatto il necessario ossequio al principio di legalità affermato in materia dalla Corte EDU (Cass. 28.07.2008, n. 20543; Cass. 05.10.21203; Cass. 22.04.2010, n. 9620; Cass. 26.05.2010, n. 12863; Cass. 26.03.2013, n. 7583; Cass. 18.09.2013, n. 21333).
Nello stesso orientamento conservativo dell’istituto si collocano le decisioni che hanno attribuito rilievo, ai fini dell’interruzione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, all’offerta ed al deposito dell’indennità di espropriazione (Cass. 16.01.2013, n. 923) ovvero alla richiesta di versamento del prezzo di una progettata cessione volontaria del fondo e alla richiesta dell’indennità di occupazione (Cass. 14.02.2008, n. 3700).
Infine, sempre nell’ambito dell’orientamento conservativo, il problema della tutela del privato, rispetto alla incertezza del dies a quo di un termine di prescrizione collegato all’irreversibile trasformazione, è stato definitivamente superato affermando sia che detto termine inizia a decorrere dal momento in cui il trasferimento della proprietà venga o possa essere percepito dal proprietario come danno ingiusto ed irreversibile sia che la relativa prova incombe sull’Amministrazione (Cass. 17.04.2014, n. 8965).
Nel senso del superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva si sono pronunciate Cass. 14.01.2013, n. 705 e Cass. 28.01.2013, n. 1804. Tali decisioni hanno fondato le loro conclusioni non solo sulle pronunzie della Corte di Strasburgo, ma anche sull’art. 42-bis del d.p.r. 08.06.2001, n. 327 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), sostenendo che tale norma sia applicabile anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore e disciplini in modo esclusivo, e perciò incompatibile con l’occupazione acquisitiva, le modalità attraverso le quali, a fronte di un’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblico interesse, è possibile –con l’esercizio di un potere basato su una valutazione degli interessi in conflitto– pervenire ad un’acquisizione non retroattiva della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo di indennizzo.
Si deve escludere che la questione della sopravvivenza o meno dell’istituto dell’occupazione acquisitiva per le fattispecie anteriori all’entrata in vigore del testo unico di cui al d.p.r. n. 327/2001 possa essere decisa, come ritenuto dalle citate Cass. nn. 705/2013 e 1804/2013, l’argomento della retroattività dell’art. 42-bis dello stesso d.p.r.. Al riguardo, si deve rammentare che l’articolo in questione è stato aggiunto dall’articolo 34, comma 1, dei d.l. n. 98/2011, dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 293/2010, aveva dichiarato l’illegittimità, per eccesso di delega, dell’art. 43 del tu., che aveva dettato una prima regolamentazione dell’acquisizione sanante.
In tale contesto deve essere letto il comma 8 dell’art. 42-bis, secondo cui “le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
È vero che la lettera della norma non pone limitazioni di sorta all’applicazione della stessa a fatti anteriori alla sua entrata in vigore. L’interpretazione logica suggerisce, tuttavia, un diverso approdo. Come si è detto, l’art. 42-bis ha sostituito l’art. 43 del testo unico di cui al d.p.r. n. 327/2001, che aveva introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’acquisizione sanante e che era stato espunto per eccesso di delega dalla Corte costituzionale.
È evidente, pertanto, la preoccupazione del legislatore del 2011 di assicurare alla nuova disposizione la stessa applicazione temporale già prevista per quella dettata dall’art. 43, che si inseriva in un sistema organico di norme destinato a superare l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma soltanto dopo il 30.06.2003 (data di entrata in vigore dei testo unico), come confermato dall’assenza in quella norma della previsione di una applicabilità anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore. Tale preoccupazione emerge, in particolare, laddove nel comma ottavo dell’art. 42-bis è stata specificamente prevista e disciplinata l’ipotesi della avvenuta emissione di un provvedimento di acquisizione ai sensi del precedente art. 43.
Distinte considerazioni devono essere fatte per l’art. 55 del t.u. che, con riferimento al periodo anteriore al 30.09.1996 (per quello successivo l’esclusione dal campo di applicazione dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992 era già sufficiente ad assicurare il risarcimento del danno secondo il criterio venale e senza riduzioni), disciplina il risarcimento dei danni per il caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio.
L’art. 55, nell’intenzione del legislatore ed indipendentemente dalla diversa lettura che se ne dovrà dare (v. infra punto n. 6 della motivazione), presupponeva l’applicabilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, che è evidentemente incompatibile con l’istituto dell’acquisizione sanante, poiché questa parte dalla premessa che una acquisizione alla mano pubblica non si sia già verificata. Pertanto, solo con il superamento dell’occupazione acquisitiva, e perciò solo per il periodo successivo all’entrata in vigore del testo unico, poteva trovare applicazione il nuovo istituto, disciplinato prima dall’art. 43 e, poi, dall’art. 42-bis.
È chiaro, tuttavia, che l’originaria incompatibilità, storicamente certa, tra la disciplina dettata dall’art. 42-bis e quella dettata dall’art. 55, è destinata a venire meno con una diversa lettura di quest’ultima disposizione suggerita, come si dirà tra breve, dal contrasto dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU.
Resta però il fatto che l’art. 42-bis non può essere individuato come la causa dell’espunzione dall’ordinamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e si apre, invece, il diverso problema, non rilevante in questa sede, se per effetto dell’espunzione dell’istituto, determinata da una diversa causa, possa ipotizzarsi, alla stregua dei principi in tema di applicazione della legge ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed ai rapporti da tali fatti generati, un ampliamento temporale del campo di applicazione dell’art. 42-bis, che non troverebbe più il limite derivante da situazioni in cui è già avvenuta l’acquisizione alla mano pubblica, ma eventualmente il limite, da verificare, dell’irretroattività della nuova disciplina oltre la decorrenza da essa desumibile e come sopra individuata.
Il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU è sufficiente per escluderne la sopravvivenza nel nostro ordinamento.
La sussistenza di tale contrasto è stata già riconosciuta da queste Sezioni unite con le ordinanze nn. 441 e 442 del 13.01.2014 con cui è stata ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 42 bis in relazione agli artt. 3, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost., anche alla luce dell’art. 6 e dell’art. 1 del protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In tali ordinanze, infatti, questa Corte ha dato atto che la Corte EDU ha dichiarato più volte “in radicale contrasto con la Convenzione il principio dell1espropriazione indiretta, con la quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla p.a. avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa Amministrazione, con l’effetto di convalidarla; di consentire a quest’ultima di trame vantaggio; nonché di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati. E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito… l’ipotesi corrispondente alla c.d. occupazione espropriativa… ritenendo ininfluente che una tale vicenda sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita mediante disposizioni legislative, come è avvenuto con la L. n. 458 del 1988”.
Tale contrasto deve essere qui ribadito, sottolineando che il contrario orientamento conservativo ha eliminato nel tempo i punti di criticità connessi alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno, ma nulla poteva fare rispetto alla esclusione del diritto alla restituzione, portato intrinseco dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, che la Corte di Strasburgo, come sopra riferito (v sopra n. 2), ha ritenuto incompatibile con l’art. 1 della Convenzione EDU, affermando che lo Stato “dovrebbe eliminare gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del terreno” (Scordino c. Italia n. 3, 06.03.2007; Sciarrotta c. Italia, 12.01.2006; Carletta c. Italia, 15.07.2005).
Il contrasto, del resto, è stato affermato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza 08.10.2010, n. 293, rilevando –anche se solo in un obiter dictum, considerato che l’illegittimità dell’art. 43 del d.p.r. n. 327/2001 è stata dichiarata per eccesso di delega– che la Corte di Strasburgo, “sia pure incidentalmente, ha precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da azioni illegali, e ciò sia allorché essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi da una legge –con espresso riferimento all’articolo 43 del t.u. qui censurato-, in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo buona e debita forma (causa Sciarrotta ed altri c. Italia – Terza Sezione – sentenza 12.01.2006 – ricorso n. 14793/02)”.
Le conseguenze della contrarietà dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU devono essere individuate sulla base di quanto stabilito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 e 338 del 2011: le norme interne in contrasto gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU, che il legislatore è tenuto a rispettare in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., non possono essere disapplicate dal giudice nazionale che deve verificare la possibilità di risolvere il problema in via interpretativa, rimettendo, in caso contrario, la questione alla Corte costituzionale.
Orbene, nella specie, come chiarito in precedenza, l’istituto dell’occupazione acquisitiva è stato elaborato dalla giurisprudenza e, successivamente, è stato presupposto da diverse disposizioni di legge. Pertanto, una volta accertata la contrarietà dell’istituto con i principi della Convenzione EDU, occorre stabilire, da un lato, se l’interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze dell’illecita utilizzazione sia o meno la sola consentita dal sistema e, dall’altro, se le norme che hanno dato ‘copertura’ all’istituto possano o meno essere ‘sganciate’ da questo ed essere oggetto di una diversa interpretazione.
Al primo interrogativo si deve dare certamente risposta positiva poiché la c.d. accessione invertita rappresenta una eccezione rispetto alla normale disciplina degli effetti di una occupazione illegittima cui consegue ordinariamente il diritto del soggetto spossessato di richiedere la restituzione. Tale eccezione si fondava sulla esistenza, affermata in via interpretativa, di un principio generale, del quale sarebbero stati espressione gli artt. 936 ss. cod. civ., in base al quale, nel caso di opere fatte da un terzo su un terreno altrui, la proprietà sia del suolo sia della costruzione viene attribuita al soggetto portatore dell’interesse ritenuto prevalente, con la precisazione che il principio opera anche in caso di attività illecita posta in essere dalla P.A. e che quest’ultima deve essere individuata come il soggetto portatore dell’interesse prevalente quando viene realizzata un’opera dichiarata di pubblica utilità.
La giurisprudenza della Corte EDU fa, tuttavia, cadere il presupposto della possibilità di affermare in via interpretativa che da una attività illecita della P.A. possa derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del privato. Caduto tale presupposto, diviene applicabile lo schema generale degli artt. 2043 e 2058 c.c., il quale non solo non consente l’acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato dell’immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione ecc), oltre al consueto risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.: esattamente come sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa (ex plurimis Cass. s.u. 19.05.1982; Cass. s.u. 04.03.1997, n. 1907; Cass. 12.12.2001, n. 15710; Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 15.09.2005, n. 18239; Cass. s.u. 25.06.2009, n. 14886; Cass. 25.01.2012, n. 1080).
Con riferimento al secondo interrogativo si devono prendere in considerazione le seguenti disposizioni:
- art. 3, comma 1, della legge n. 458/1988: “il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene” (disposizione che la Corte costituzionale, con la sentenza 27.12.1991, n. 486, ha esteso al proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica senza che sia stato emesso alcun provvedimento di esproprio);
- art. 11, commi 5 e 7, della legge n. 413/1991 che, ai fini della determinazione della base imponibile per l’imposta sul reddito, prendono in considerazione, rispettivamente, “le plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di soggetti che non esercitano imprese commerciali, di somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime” e il “risarcimento danni da occupazione acquisitiva”;
- art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992: “in caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30.09.1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato” (comma dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte cost. n. 349/2007);
- art. 55, comma 1, del d.p.r. n. 327/2001: “nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30.09.1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene” [comma introdotto dall’art.2, comma 89, lettera e), della legge n. 244/2007 dopo che la Corte costituzionale, con la citata decisione n. 349/2007, presupponendo implicitamente esistente e costituzionalmente legittima la c.d. occupazione acquisitiva, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992, che determinava il risarcimento del danno in misura inferiore al valore venale del bene];
La prima delle menzionate disposizioni, escludendo la retrocessione (da intendersi nel senso di restituzione, come precisato da Cass. 03.04.1990, n. 2712), presuppone evidentemente che alla trasformazione irreversibile dell’area consegua necessariamente l’acquisto della stessa da parte chi ha realizzato le opere. La disposizione, tuttavia, non ha carattere generale, essendo limitata alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata.
La disposizione, inoltre, come chiarito da Cass. s.u. 25.11.1992, n. 12546, si riferisce ad una fattispecie che non può ricondursi all’istituto dell’occupazione acquisitiva, mancando due caratteri fondamentali di questa e cioè sia l’irreversibile destinazione del suolo privato a parte integrante di un’opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale indisponibile) sia l’appartenenza a un soggetto pubblico. Ovviamente, non ci si può nascondere che tale disposizione è stata ritenuta, sinora, il punto di emersione a livello normativo del fenomeno dell’occupazione acquisitiva, del quale il legislatore avrebbe preso atto, estendendone il campo di applicazione.
Tuttavia, nel momento in cui deve essere verificata la possibilità di risolvere in via interpretativa il contrasto tra l’istituto dell’occupazione acquisitiva ed i principi dettati dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, non si può non rilevare che la lettera della disposizione (abrogata dall’art. 58 del d.p.r. 327/2001 a decorrere dall’entrata in vigore dello stesso d.p.r. e, per questo, ancora applicabile alle espropriazioni la cui dichiarazione di pubblica utilità è anteriore al 30.06.2003) si riferisce soltanto alle utilizzazioni per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ipotesi non solo nella specie non ricorrente, ma non rientrante neppure, come si è detto, nell’ambito della figura dell’occupazione acquisitiva elaborata dalla giurisprudenza.
Ne consegue, indipendentemente dalla configurabilità o meno in relazione a dette finalità di una funzione sociale della proprietà da valutare alla luce dell’art. 42 Cost., l’irrilevanza nel caso in esame di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 458/1988, in relazione al disposto dell’art. 117, comma 1, Cost..
Le sopra riportate disposizioni tributarie non disciplinano l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma le conseguenze sul piano fiscale della erogazione del risarcimento. Il che significa che il fisco prende in considerazione soltanto ‘dall’esterno’, come un dato di fatto, le erogazioni derivanti da una occupazione, che solo a fini descrittivi della fattispecie viene qualificata come acquisitiva, senza che le predette disposizioni ne disciplinino gli elementi costitutivi e l’effetto della c.d. accessione invertita. Ne consegue che l’espunzione dell’istituto dall’ordinamento non contrasta con dette disposizioni, che restano applicabili per il solo fatto che, su domanda del danneggiato e con implicita rinunzia al diritto di proprietà, via sia stata l’erogazione del risarcimento.
Per quanto concerne l’art. 55 del d.p.r. n. 327/2001 (non occorre invece considerare l’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992 in quanto, come si è detto, dichiarato costituzionalmente illegittimo, ma per il quale varrebbe lo stesso ragionamento), si deve osservare che tale disposizione, pur avendo storicamente presupposto una occupazione acquisitiva, non richiede necessariamente un contesto nel quale l’occupazione dia luogo all’acquisizione del terreno alla mano pubblica con esclusione restituzione al proprietario.
La norma, infatti, prende in considerazione il risarcimento del danno eventualmente spettante al proprietario in caso di illecita utilizzazione del suo terreno, ma non esclude affatto la possibilità di una restituzione del bene illecitamente utilizzato dall’Amministrazione. In altre parole, la disposizione in esame, sebbene vista in passato come copertura normativa dell’istituto creato dalla giurisprudenza, può e deve essere letta oggi come sganciata dall’occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse presente l’inciso ‘ove non abbia luogo la restituzione’ e non più, secondo la lettura data in precedenza, come se in essa fosse presente l’inciso ‘non essendo possibile la restituzione’.
In conclusione, alla luce della costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell’Amministrazione si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all’Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell’occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell’illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente.
A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi espressi dall’ordinanza di rimessione, si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell’immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814).
La cessazione dell’illecito può aversi, infine, per effetto di un provvedimento di acquisizione reso dall’Amministrazione, ai sensi dell’art. 42-bis del t.u. di cui al d.p.r. n. 327/2001, con l’avvertenza che per le occupazioni anteriori al 30.06.2003 l’applicabilità dell’acquisizione sanante richiede la soluzione positiva della questione, qui non rilevante, sopra indicata al punto n. 4 della motivazione.
Per quanto sinora detto, in accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: “l’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno. Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla proprietà del terreno. Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente” (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 19.01.2015 n. 735 -
link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di opere eseguite in carenza di titolo abilitativo, l’ordine di demolizione è atto dovuto e non necessita, pertanto, di una particolare motivazione.
Osserva il Collegio che, ai fini della decisione della presente controversia, è sufficiente rilevare che la costante giurisprudenza ha affermato che in presenza di opere eseguite in carenza di titolo abilitativo, l’ordine di demolizione è atto dovuto e non necessita, pertanto, di una particolare motivazione (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. II, 16.10.2013, n. 4642) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 16.01.20145 n. 747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi …. impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell´istanza di sanatoria.
Osserva il Collegio che, nonostante la pendenza di un autonomo giudizio avverso la reiezione delle domande di condono relative alle opere oggetto del presente ricorso, questo può essere deciso.
Infatti, con la costante giurisprudenza, questa Sezione ha affermato che: “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi …. impone al Comune competente la sua disamina e l´adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell´abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell´istanza di sanatoria” (ex multis, C.d.S., Sez. V, 28.06.2012, n. 3821; 26.06.2007, n. 3659; 19.02.1997, n. 165; IV, 16.04.2012, n. 2185; VI, 26.03.2010, n. 1750; 07.05.2009, n. 2833; 12.11.2008, n. 5646) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 16.01.2015 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera da costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale di essa ad un uso precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti di un manufatto smontabile e non infisso al suolo.
Ne deriva che il carattere di precarietà non può essere riconosciuto al manufatto adibito stabilmente ad ufficio.

Per costante giurisprudenza –dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi-, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera da costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale di essa ad un uso precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti di un manufatto smontabile e non infisso al suolo (cfr. ex multis, Cass. pen., Sez. III, nn. 4002 del 1999 e 39074 del 2009).
Ne deriva che il carattere di precarietà non può essere riconosciuto al manufatto adibito stabilmente ad ufficio. La destinazione ad ufficio, peraltro, è chiaramente posta in luce nel provvedimento gravato e ne costituisce congrua motivazione, a nulla rilevando, l’intenzione della Società di porre in vendita anche tale manufatto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 16.01.2015 n. 737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza della Suprema Corte è ferma nel ritenere che le ‘pensiline’ e le ‘tettoie’ sono strutture idonee ad aumentare l'abitabilità dell'immobile, non potendo essere, dunque, classificate come mere opere provvisorie e accessorie.
Ne consegue che un intervento è soggetto al permesso di costruire, a differenza dei c.d. ‘pergolati’, costituiti da una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore e destinati solitamente alla produzione di ombra.

Passando al merito del ricorso, deve innanzitutto rilevarsi che non correttamente la fattispecie di causa risulta qualificata come di autotutela, poiché, nella specie, si verte piuttosto in un’ipotesi in cui l’Amministrazione ha ritenuto che mancassero i presupposti per la formazione del titolo abilitativo tramite DIA.
Prendendo congiuntamente in esame i motivi di censura, va rilevato, infatti, che il primo dei provvedimenti impugnati, chiaramente fa menzione della realizzazione delle opere previste dall’art. 3, comma 1, e.5, d.P.R. n. 380 del 2001, che espressamente comprende l’“installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, …. che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Orbene, la giurisprudenza della Suprema Corte è ferma nel ritenere che le ‘pensiline’ e le ‘tettoie’ sono strutture idonee ad aumentare l'abitabilità dell'immobile, non potendo essere, dunque, classificate come mere opere provvisorie e accessorie; ne consegue che un intervento è soggetto al permesso di costruire, a differenza dei c.d. ‘pergolati’, costituiti da una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore e destinati solitamente alla produzione di ombra (ex multis, Cass., n. 1191 del 2012; cfr. anche TAR Brescia, n. 1481 del 2012).
Per quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere respinto, non assumendo alcun significato a tal riguardo l’esito del procedimento penale – come correttamente indicato dall’Amministrazione, stante i diversi profili di responsabilità ed il diverso rilievo assegnato all’elemento soggettivo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 16.01.2015 n. 697 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIPa, niente servizi professionali affidati a società commerciali. Gare pubbliche. Il Consiglio di Stato smentisce il Tar Liguria.
L’affidamento di servizi professionali da parte di un ente pubblico è riservato a professionisti ed a società professionali: non sono ammesse società commerciali, nemmeno se hanno tra i dipendenti almeno un soggetto che ha il requisito dell’iscrizione all’albo.
Lo precisa il Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza 16.01.2015 n. 103), che delinea alcuni princìpi sulle gare che interessano l’esercizio di professioni collegiate.
Il caso deciso riguarda una gara per l’affidamento del servizio di elaborazione buste paga, gestione dei documenti e consulenza in tema di amministrazione del personale di un ente pubblico. Il bando prevedeva che potessero partecipare consulenti del lavoro, avvocati, commercialisti, ragionieri e periti commerciali, nonché le società di professionisti (articolo 10 della legge 183/2011) e le società commerciali con alle dipendenze almeno uno dei soggetti in possesso dei requisiti di iscrizione al rispettivo albo professionale. Un’apertura ritenuta legittima dal Tar Liguria, ma non dal Consiglio di Stato, che ha posto l’accento sulla previsione di attività riservate a professionisti iscritti ad albi.
Solo i professionisti iscritti o le società professionali possono infatti assumere l’incarico. L’articolo 10 della legge 183/2011 ha introdotto nel nostro ordinamento la società professionale. La prestazione può essere affidata ad una società, a condizione che l’esercizio dell’attività sia riservato in via esclusiva ai soci professionisti, che essi esprimano almeno i due terzi nelle deliberazioni degli organi societari, che la designazione del socio professionista incaricato dell’attività sia comunque effettuata dall’utente e che comunque il nome del professionista sia comunicato per iscritto all’utente.
Ciò bilancia l’esigenza di consentire l’esercizio di attività professionali attraverso nuovi moduli organizzativi di natura societaria, con la necessità di salvaguardare la caratteristica propria delle professioni con albi, cioè il carattere personale della prestazione connesso al rapporto di fiducia.
La sentenza 103 definisce poi gli spazi riservati ai soggetti iscritti ad albi professionali: non vi rientrano le attività materiali (operazioni di mero calcolo e di stampa dei cedolini), che possono essere esercitate anche da società commerciali (centri di elaborazione dati), con l’ausilio di un professionista; sono invece “riservate” le attività che presuppongono elaborazioni intellettuali implicanti il possesso di specifiche cognizioni. Nel caso specifico, la gara richiedeva un impegno per adeguare eventuali variazioni retributive e normative del personale, l’assolvimento degli adempimenti presso gli enti pubblici competenti e la consulenza per l’amministrazione del personale. Attività che presuppongono sapere tecnico e specifico riservato a professionisti e che giustificano una limitazione ritenuta proporzionale all’interesse di tutelare qualità e affidabilità.
Da un lato quindi vi sono le attività materiali (strumentali ed accessorie), aperte ad ogni modulo economico gestionale (comprese le società commerciali), dall’altro vi sono attività che per impegno intellettuale, è riservata agli iscritti in albi. In quest’ultimo caso, va rispettata la legge 183/2011, che delinea le modalità di gestione della prestazione professionale. Nella vicenda esaminata, il giudice ha quindi disposto il subentro nel contratto della società professionale al posto della società commerciale che aveva vinto la gara
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Sull'affidamento in subappalto.
L'art. 118, c. 2, del D.Lgs. n. 163/2006, sottopone l'affidamento in subappalto alla condizione, fra le altre, che i concorrenti all'atto dell'offerta abbiano indicato i lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti di servizi e forniture che intendono subappaltare o concedere in cottimo.
La disposizione -che non richiede espressamente l'indicazione preventiva del nominativo del subappaltatore- va peraltro interpretata nel senso che la dichiarazione in questione deve contenere anche l'indicazione del subappaltatore unitamente alla dimostrazione del possesso, in capo a costui, dei requisiti di qualificazione, ogniqualvolta il ricorso al subappalto si renda necessario a cagione del mancato autonomo possesso, da parte del concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione, potendo essere limitata alla mera indicazione della volontà di concludere un subappalto nelle sole ipotesi in cui il concorrente disponga autonomamente delle qualificazioni necessarie per l'esecuzione delle lavorazioni oggetto dell'appalto, ossia nelle sole ipotesi in cui il ricorso al subappalto rappresenti per lui una facoltà, non la via necessitata per partecipare alla gara.
L'affermazione appare pienamente coerente con lo speculare e consolidato indirizzo giurisprudenziale che circoscrive i casi di legittima esclusione del concorrente autore di una incompleta o erronea dichiarazione di subappalto alle sole ipotesi in cui il concorrente stesso risulti sfornito in proprio della qualificazione per le lavorazioni che ha dichiarato di voler subappaltare, mentre negli altri casi gli unici effetti negativi si avrebbero in fase esecutiva, sotto il profilo dell'impossibilità di ricorrere al subappalto come dichiarato.
La ratio di tale orientamento risiede nell'esigenza, ricavabile in via sistematica, che la stazione appaltante sia posta in condizione di valutare sin dall'inizio l'idoneità di un'impresa, la quale dimostri di possedere in proprio, o attraverso l'apporto altrui, le qualificazioni necessarie per l'aggiudicazione del contratto, mentre non può ammettersi che l'aggiudicazione venga disposta 'al buio' in favore di un soggetto pacificamente sprovvisto dei necessari requisiti di qualificazione, al quale dovrebbe accordarsi la possibilità non soltanto di dimostrare, ma addirittura di acquisire i requisiti medesimi a gara conclusa, in violazione del principio della par condicio e con il rischio per l'amministrazione procedente che l'appaltatore così designato non onori l'impegno assunto, rendendo necessaria la ripetizione della gara.
Il subappalto va considerato come strumento negoziale che, pur differenziandosi dall'avvalimento sotto il profilo strutturale, ha tuttavia in comune la funzione di allargare la possibilità di partecipazione alle gare da parte di soggetti sforniti dei requisiti di partecipazione (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 15.01.2015 n. 216 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: E' pur vero che, a fronte di una clausola illegittima della lex specialis di gara, che non sia impeditiva della partecipazione, il concorrente non è ancora titolare di un interesse attuale all'impugnazione, poiché ignora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in un’effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da tale esito può derivare.
Ordinariamente, in presenza di clausola in se non ostativa della partecipazione degli interessati –e che impone, ai fini della partecipazione, oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati e che comportino l'impossibilità, per l'interessato, di accedere alla procedura ed il conseguente arresto procedimentale– la lesione si concretizza con il provvedimento di aggiudicazione, in quanto il soggetto che se ne duole vanta comunque una chance di uscire vittorioso dal confronto comparativo (con conseguente venir meno di ogni interesse a dolersi del bando).
E' altrettanto vero che la giurisprudenza ha chiarito quali siano le clausole che precludono ai partecipanti una corretta e consapevole elaborazione della proposta economica, ossia <<disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente; imposizione di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all’intero importo dell’appalto); gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta; presenza di formule matematiche del tutto errate; atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso”>>.
Nel caso sottoposto all’esame del Collegio, la denunciata arbitrarietà della formula scelta per l’attribuzione del punteggio economico integra in astratto una condizione che rende particolarmente difficoltosa l’elaborazione dell’offerta, e la predetta circostanza rende la clausola contestata immediatamente lesiva.

Considerato:
- che è pur vero che, a fronte di una clausola illegittima della lex specialis di gara, che non sia impeditiva della partecipazione, il concorrente non è ancora titolare di un interesse attuale all'impugnazione, poiché ignora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in un’effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da tale esito può derivare (cfr. Consiglio di Stato, sez. III – 15/09/2014 n. 4698, che richiama sez. V – 25/06/2014 n. 3203 e 08/04/2014 n. 1665);
- che, ordinariamente, in presenza di clausola in se non ostativa della partecipazione degli interessati –e che impone, ai fini della partecipazione, oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati e che comportino l'impossibilità, per l'interessato, di accedere alla procedura ed il conseguente arresto procedimentale– la lesione si concretizza con il provvedimento di aggiudicazione, in quanto il soggetto che se ne duole vanta comunque una chance di uscire vittorioso dal confronto comparativo (con conseguente venir meno di ogni interesse a dolersi del bando);
- che è altrettanto vero (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 06/06/2014 n. 1470 citata da entrambe le parti) che la giurisprudenza ha chiarito quali siano le clausole che precludono ai partecipanti una corretta e consapevole elaborazione della proposta economica, ossia <<disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente; imposizione di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all’intero importo dell’appalto); gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta; presenza di formule matematiche del tutto errate; atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso”>>;
- che, nel caso sottoposto all’esame del Collegio, la denunciata arbitrarietà della formula scelta per l’attribuzione del punteggio economico integra in astratto una condizione che rende particolarmente difficoltosa l’elaborazione dell’offerta, e la predetta circostanza rende la clausola contestata immediatamente lesiva (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 15.01.2015 n. 74 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Rimesse alla C.G.U.E. due questioni di compatibilità con il diritto comunitario di normativa nazionale, in materia di avvalimento frazionato nell'ambito dei servizi e di esclusione dalla procedura di gara a causa della mancata percezione dell'onere di versare di un importo per la partecipazione alla medesima procedura.
Possono dunque formularsi i seguenti quesiti:
1) se gli artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, debbano essere interpretati nel senso che essi ostino a una normativa nazionale, come quella italiana sopra descritta, che consente l’avvalimento frazionato, nei termini sopra indicati, nell’ambito dei servizi;
2) se i principi del diritto dell’Unione europea, e segnatamente quelli di tutela del legittimo affidamento, di certezza del diritto e di proporzionalità, ostino, o no, a una regola dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta di escludere da una procedura di evidenza pubblica un’impresa che non abbia percepito, perché non espressamente indicato dagli atti di gara, un obbligo -il cui inadempimento sia sanzionato con l’esclusione- di provvedere al versamento di un importo per i fini della partecipazione alla predetta procedura e ciò nonostante che l’esistenza di detto obbligo non sia chiaramente desumibile sulla base del tenore letterale della legge vigente nello Stato membro, ma sia tuttavia ricostruibile a seguito di una duplice operazione giuridica, consistente, dapprima, nell’interpretazione estensiva di talune previsioni dell’ordinamento positivo dello stesso Stato membro e, poi, nella integrazione –in conformità agli esiti di tale interpretazione estensiva- del contenuto precettivo degli atti di gara”.
B. - Il diritto nazionale e quello dell’Unione europea.
B1. – Ad avviso del Collegio la controversia intercetta due questioni, rilevanti ai fini della decisione, in relazione alle quali occorre acquisire l’avviso della Corte di Giustizia dell’Unione europea in ordine alla corretta interpretazione del diritto sovranazionale.
B2. – La prima questione concerne la valutazione della legittimità, con riguardo al diritto dell’Unione europea, della possibilità, o no, per un’impresa partecipante a una gara di evidenza pubblica, di ricorrere all’istituto dell’avvalimento anche in forma frazionata, ossia anche per integrare un requisito posseduto solo in parte (come verificatosi nel caso di specie per la CRGT, la quale ebbe a presentare, in luogo di due, una sola dichiarazione di un istituto bancario, avvalendosi, per l’altra dichiarazione, del requisito posseduto dall’impresa ausiliaria).
B3. – La seconda questione concerne il rapporto di compatibilità, o no, tra i principi eurounitari della tutela del legittimo affidamento, della certezza del diritto e della proporzionalità, tutti di valenza generale, da un lato, e, dall’altro lato, con quello della parità di trattamento tra le imprese concorrenti, nelle ipotesi in cui – come quella in esame – la normativa di gara (bando e disciplinare) non abbia prescritto espressamente, ai fini della valida partecipazione a una gara, il possesso di un requisito (sotto forma, nella specie, della prova dell’adempimento di un obbligo di versamento di una somma), ancorché la necessità del requisito in parola possa ricavarsi, attraverso una duplice operazione giuridica di a) interpretazione estensiva del quadro normativo vigente e b) di eterointegrazione degli atti di indizione della procedura.
B4. – Riguardo al tema dell’avvalimento (prima questione), la normativa nazionale è contenuta nell’art. 49 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), con il quale sono stati recepiti in Italia gli artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE e l’art. 54 della direttiva 2004/17/CE (per esigenze di brevità non si riporta il testo dei succitati artt. 47, 48 e 54). L’art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006 non vieta l’avvalimento frazionato, se non per i lavori nell’ipotesi di cui al comma 6 (comma -peraltro, di recente sostituito dall’art. 21, comma 1, della L. 30.10.2014, n. 161- non applicabile al caso di specie ratione temporis).
B5. – Con riferimento alla seconda questione, va osservato che la normativa della gara della quale si controverte incontestabilmente non prevedeva espressamente, a pena di esclusione, l’obbligo per le imprese partecipanti di provvedere al pagamento del contributo dovuto all’AVCP (Autorità indipendente, di recente soppressa dall’art. 19 del D.L. n. 90/2014, in quanto sostituita dall’ANAC); sennonché la sussistenza di tale obbligo è ricavabile, come sopra spiegato, mediante l’interpretazione estensiva dell'art. 1, commi 65 e 67, della legge 23.12.2005, n. 266 (legge finanziaria per il 2006; in particolare, il primo periodo del succitato comma 67 recita: “L'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, cui è riconosciuta autonomia organizzativa e finanziaria, ai fini della copertura dei costi relativi al proprio funzionamento di cui al comma 65 determina annualmente l'ammontare delle contribuzioni ad essa dovute dai soggetti, pubblici e privati, sottoposti alla sua vigilanza, nonché le relative modalità di riscossione, ivi compreso l'obbligo di versamento del contributo da parte degli operatori economici quale condizione di ammissibilità dell'offerta nell'ambito delle procedure finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche.”): invero, sebbene le norme citate si riferiscano testualmente soltanto alla realizzazione delle opere pubbliche, nondimeno, per un verso, la AVCP, nelle sue deliberazioni (deliberazioni del 24.01.2008, del 03.11.2010, del 21.12.2011 e del 05.03.2014), ha ritenuto che il mancato effettivo versamento del contributo comporti, a prescindere dalla tipologia del contratto messo a gara, la legittima esclusione dell’impresa inadempiente dalla selezione ad evidenza pubblica, e, per altro verso, la giurisprudenza amministrativa, anche dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (ad esempio, la recente sentenza n. 9 del 25.02.2014, nella quale si legge che, nel caso di una legge di gara “silente”, come quello di cui alla presente controversia, “la portata imperativa delle norme che prevedono tali adempimenti conduce, ai sensi dell'art. 1339 Cod. civ., alla eterointegrazione del bando e successivamente, in caso di violazione dell'obbligo, all'esclusione del concorrente”), ha affermato che un’impresa possa essere esclusa da una procedura di evidenza pubblica anche per la mancata dimostrazione del possesso di un requisito non richiesto espressamente dalla normativa di gara, allorquando la necessità del requisito sia desumibile per effetto dell’operare del meccanismo di eterointegrazione degli atti amministrativi, meccanismo che, nell’ordinamento italiano, poggia in via generale sull’art. 1339 c.c., secondo cui “Le clausole, i prezzi di beni o di servizi, imposti dalla legge, sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti.”.
La tutela del legittimo affidamento, la certezza del diritto e la proporzionalità sono principi generali del diritto dell’Unione europea, di applicazione trasversale (giurisprudenza pacifica; tra le molte, decisione sul legittimo affidamento, CGUE n. 201 del 10.09.2009; n. 383 del 13.03.2008; n. 217 del 04.10.2007; sulla certezza del diritto, CGUE n. 576 dell’11.07.2013; n. 72 del 16.02.2012; n. 158 del 18.11.2008; sulla proporzionalità, CGUE n. 234 del 18.07.2013; n. 427 del 28.02.2013), e pure del diritto italiano.
C. - Illustrazione dei motivi del rinvio pregiudiziale.
C1. – Con riferimento alla prima questione sopra esposta, il Collegio ritiene che, sulla base della normativa vigente in Italia, l’avvalimento al quale ha fatto ricorso la CRGT, nonostante le modalità in concreto seguite (ossia, in relazione a una soltanto delle referenze bancarie), non fosse vietato, trattandosi di affidamento di servizi. La generale possibilità di ricorrere all’avvalimento consente infatti di farne anche un uso frazionato, come ha affermato la giurisprudenza amministrativa italiana.
Invero il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza n. 5874/2013 (v. anche Cons. Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2200), ha ricordato come la Corte di Giustizia, sez. V, con pronuncia del 10.10.2013 in causa C-94/12, abbia riconosciuto l’ammissibilità del c.d. “avvalimento plurimo o frazionato” e che tale orientamento è vincolante per il giudice nazionale, oltre a risultare conforme a quello già espresso dal medesimo Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza dell’08.02.2011, n. 857. Del resto, se si ammette che un’impresa possa ricorrere all’avvalimento per entrambe le referenze bancarie, a fortiori la logica elementare dovrebbe condurre a concludere che il medesimo istituto possa essere attivato anche per una sola referenza, atteso che il “più” comprende il “meno”.
Sennonché, dal momento che la fattispecie oggetto della controversia è differente da quella esaminata nel citato precedente della Corte di Giustizia dell’Unione europea, il Collegio reputa doveroso richiedere, sul punto, la corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea, anche in considerazione del nuovo quadro normativo riveniente dalla direttiva 2014/24/UE (norme non ancora recepite in Italia, ma comunque applicabili, quanto meno sotto il profilo dell’obbligo, in capo ai giudici nazionali, di selezionare e di prediligere, tra tutte le possibili interpretazioni del diritto interno, soltanto le esegesi conformi alle norme eurounitarie da recepire).
Difatti, sotto certi aspetti, l’art. 63 di detta direttiva sembra aver limitato in parte l’ampio, pregresso favor per l’istituto dell’avvalimento, quanto meno in relazione a due profili, ossia riguardo alla possibilità per l'amministrazione aggiudicatrice di esigere, proprio nel caso di avvalimento dei requisiti di capacità economica e finanziaria (il c.d. “avvalimento di garanzia”), che l'operatore economico ausiliato e i soggetti ausiliari siano solidalmente responsabili dell'esecuzione del contratto e, in secondo luogo, con riferimento alla potestà delle amministrazioni aggiudicatrici (nel caso di appalti di lavori, di appalti di servizi e di operazioni di posa in opera o installazione nel quadro di un appalto di fornitura) di pretendere discrezionalmente che talune prestazioni critiche siano direttamente svolte dall'offerente stesso (quindi, con divieto di avvalimento).
C2. – Con riferimento alla seconda questione, il Collegio muove dalla considerazione che l’ordinamento dell’Unione europea riconosce il principio della tutela del legittimo affidamento. Nella fattispecie detto principio viene in rilievo, dal momento che, come già chiarito, la disciplina della gara al centro del contendere non prevedeva espressamente l’adempimento dell’obbligo di versamento del contributo all’AVCP, per il cui inadempimento la CRGT è stata esclusa dalla gara, e, per di più, tale obbligo, a ben vedere, nemmeno era chiaramente ed espressamente previsto dal diritto positivo italiano (v. il citato art. 1, commi 65 e 67, della L. n. 266/2005) per il settore dei servizi, ma esso si ricavava per via di interpretazione (alla luce di altri atti amministrativi, rappresentati dalle richiamate deliberazioni dell’AVCP) e di eterointegrazione (in forza dell’applicazione dell’art. 1339 c.c.) degli atti di gara.
In altri termini, il Collegio si domanda se il principio della tutela del legittimo affidamento, insieme a quelli della certezza del diritto e della proporzionalità, come riconosciuti nel diritto dell’Unione europea, ostino, o no, a una regola del diritto italiano, come sopra ricostruita (anche sulla base della giurisprudenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato), che consenta di escludere da una procedura di evidenza pubblica un’impresa che abbia fatto affidamento, per l’appunto, sulla completezza degli atti amministrativi con i quali sia stata indetta una gara. Si domanda, in particolare, se il principio del pari trattamento delle imprese partecipanti a una procedura di affidamento di un contratto pubblico debba sempre e comunque prevalere sugli altri principi sopra evocati e, quindi, se il menzionato principio di par condicio, una volta applicato al caso di specie, debba condurre fino al punto di ritenere che il seggio di gara non potesse concedere alla CRGT (ma, in luogo della CRGT, si sarebbe potuta trovare una qualunque altra impresa dell’Unione) la possibilità di effettuare, pur in pendenza del procedimento, il versamento, incolpevolmente omesso in precedenza.
La questione, ovviamente, postula la valutazione dell’effettiva sussistenza di una colpa inescusabile nel comportamento di un’impresa la quale, onde percepire l’esistenza della causa di esclusione, sia tenuta –stante il silenzio degli atti di gara– a compiere una duplice operazione giuridica, consistente, dapprima, nell’estensione oggettiva per via interpretativa dell’obbligo legale di versamento del contributo, previsto espressamente solo per le opere pubbliche, anche al settore dei servizi e, successivamente, di eterointegrazione in tal senso della normativa della specifica procedura.
In altri, più semplici, termini, il Collegio si domanda se la considerazione dei suddetti principi del diritto dell’Unione europea (tutela del legittimo affidamento, proporzionalità, certezza del diritto; può aggiungersi, a ben vedere, anche il principio del favor participationis) non dovessero spingere la stazione appaltante a consentire, più ragionevolmente della scelta di disporre l’esclusione (anche) della CRGT, la regolarizzazione del requisito “occulto” risultato omesso, accordando alla citata impresa un breve termine per provvedere al pagamento del contributo. Si ribadisce che, al posto della CRGT, si sarebbe potuta trovare un’impresa non italiana, la quale, evidentemente, avrebbe verosimilmente incontrato finanche maggiori difficoltà della CRGT nell’acquisire piena conoscenza delle deliberazioni di un’Autorità indipendente e pure nell’apprendere dell’esatta interpretazione giurisprudenziale dell’art. 1339 c.c.
D. - Formulazione dei quesiti.
D1. – Alla stregua di tutto quanto sopra osservato e considerato, possono dunque formularsi i seguenti quesiti:
1) se gli artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, debbano essere interpretati nel senso che essi ostino a una normativa nazionale, come quella italiana sopra descritta, che consente l’avvalimento frazionato, nei termini sopra indicati, nell’ambito dei servizi;
2) se i principi del diritto dell’Unione europea, e segnatamente quelli di tutela del legittimo affidamento, di certezza del diritto e di proporzionalità, ostino, o no, a una regola dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta di escludere da una procedura di evidenza pubblica un’impresa che non abbia percepito, perché non espressamente indicato dagli atti di gara, un obbligo -il cui inadempimento sia sanzionato con l’esclusione- di provvedere al versamento di un importo per i fini della partecipazione alla predetta procedura e ciò nonostante che l’esistenza di detto obbligo non sia chiaramente desumibile sulla base del tenore letterale della legge vigente nello Stato membro, ma sia tuttavia ricostruibile a seguito di una duplice operazione giuridica, consistente, dapprima, nell’interpretazione estensiva di talune previsioni dell’ordinamento positivo dello stesso Stato membro e, poi, nella integrazione –in conformità agli esiti di tale interpretazione estensiva- del contenuto precettivo degli atti di gara
”.
E. - Sospensione del giudizio e disposizioni per la Segreteria.
E1. - In conclusione, si rimettono all’esame della CGUE le sopra esposte questioni di corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea
(C.G.A.R.S., ordinanza 15.01.2015 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'istituto del soccorso istruttorio nelle gare d'appalto.
Per meglio definire il perimetro del "soccorso istruttorio" è necessario distinguere tra i concetti di "regolarizzazione documentale" ed "integrazione documentale": la linea di demarcazione discende naturaliter dalle qualificazioni stabilite ex ante nel bando, nel senso che il principio del "soccorso istruttorio" è inoperante ogni volta che vengano in rilievo omissioni di documenti o inadempimenti procedimentali richiesti a pena di esclusione dalla legge di gara (specie se si è in presenza di una clausola univoca), dato che la sanzione scaturisce automaticamente dalla scelta operata a monte dalla legge, senza che si possa ammettere alcuna possibilità di esercizio del "potere di soccorso"; conseguentemente, l'integrazione non è consentita, risolvendosi in un effettivo vulnus del principio di parità di trattamento; è consentita, invece, la mera regolarizzazione, che attiene a circostanze o elementi estrinseci al contenuto della documentazione e che si traduce, di regola, nella rettifica di errori materiali e refusi.
Il "soccorso istruttorio" consente di completare dichiarazioni o documenti già presentati (ma, non di introdurre documenti nuovi), solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione dell'impresa; esso non può essere mai utilizzato per supplire a carenze dell'offerta sicché non può essere consentita al concorrente negligente la possibilità di completare l'offerta successivamente al termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di errori materiali o refusi.
Inoltre, il "soccorso istruttorio" ricomprende la possibilità di chiedere chiarimenti, purché il possesso del requisito sia comunque individuabile dagli atti depositati e occorra soltanto una delucidazione ovvero un aggiornamento; in tal caso non si sta discutendo della esistenza del requisito ma soltanto di una (consentita) precisazione che non innova e non altera la par condicio e la legalità della gara, avendo ad oggetto un fatto meramente integrativo, da un punto di vista formale, di una situazione sostanzialmente già verificatasi e acquisita (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 14.01.2015 n. 551 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di specie "non si è proceduto all’ampliamento della finestra ma unicamente alla sostituzione dell’originario infisso in legno fatiscente con uno nuovo uguale in alluminio anodizzato bianco, come per gli altri due vani di finestra e balcone……La struttura muraria è stata quindi interessata dai tagli necessari per l’adeguamento dei vecchi abitacoli al telaio del nuovo infisso….altrettanto dicasi per gli architravi in legno che vengono sostituiti con materiale più idoneo, con l’ovvio obbligo di raccordare il tutto con l’intonaco e il colore delle parete coinvolte…”.
Pertanto, come descritto anche nella relazione periziale, l’intervento eseguito dalla ricorrente è consistito nella sostituzione dell’infisso in legno con uno nuovo in alluminio anodizzato, ancorato lo stesso al muro con la putrella, su cui collocare poi l’intonaco.
Ne deriva quindi che, in aderenza all’orientamento della giurisprudenza al riguardo, tale tipologia di intervento di sostituzione o di rinnovamento di serramenti -quali infissi, serrande, finestre e abbaini- rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria (ai sensi dell'art. 31 della l. n. 457 del 1978, all’epoca vigente, ora art. 3, lett. a), t.u. 06.06.2001, n. 380) e, cioè, di attività libera e non soggetta ad alcun tipo di autorizzazione e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento vengano effettuati con materiali diversi, in quanto nel caso le opere non comportano modifiche strutturali e di trasformazione dell’organismo edilizio.

3.1. Con l’ordinanza n. 176/1997 il Sindaco del Comune di Sperlonga ha intimato alla ricorrente la immediata sospensione dei lavori eseguiti nell’immobile sito in Via Nicotera Giovanni n. 29, consistenti nell’“ampliamento di circa 15 cm sia in altezza che in larghezza, di una finestra preesistente……con consolidamento dell’architrave in cemento e putrelle in ferro”, richiamando la normativa in materia di protezione delle bellezze naturali, e con successiva ordinanza n. 187 del 04.12.1996, con il richiamo ai medesimi presupposti, ha ingiunto la demolizione delle opere stesse. In seguito con il verbale 02.04.1997, prot. n. 630 il Corpo di Polizia Municipale del Comune di Sperlonga ha accertato la inottemperanza alla predetta ordinanza di demolizione.
Parte ricorrente lamenta, nella sostanza, di non aver effettuato alcuna modifica della situazione preesistente, ma solo di aver sostituito un infisso in legno fatiscente con altro identico; in particolare, secondo la ricorrente, si tratterebbe di opere di manutenzione ordinaria, senza alcun ampliamento della finestra, circostanza comprovata dalla perizia allegata, posto che la violazione contestata (nella misura di cm. 15 circa) sarebbe riferita alla sostituzione del materiale dell’intonaco e dell’architrave.
3.2. Tali doglianze sono fondate alla luce di quanto rappresentato e documentato in atti, non contestato dall’Amministrazione intimata, e risultante anche dalla perizia di parte secondo cui “non si è proceduto all’ampliamento della finestra richiamata, ma unicamente alla sostituzione dell’originario infisso in legno fatiscente con uno nuovo uguale in alluminio anodizzato bianco, come per gli altri due vani di finestra e balcone……La struttura muraria è stata quindi interessata dai tagli necessari per l’adeguamento dei vecchi abitacoli al telaio del nuovo infisso….altrettanto dicasi per gli architravi in legno che vengono sostituiti con materiale più idoneo, con l’ovvio obbligo di raccordare il tutto con l’intonaco e il colore delle parete coinvolte…”. Pertanto, come descritto anche nella relazione periziale, l’intervento eseguito dalla ricorrente è consistito nella sostituzione dell’infisso in legno con uno nuovo in alluminio anodizzato, ancorato lo stesso al muro con la putrella, su cui collocare poi l’intonaco.
Ne deriva quindi che, in aderenza all’orientamento della giurisprudenza al riguardo, tale tipologia di intervento di sostituzione o di rinnovamento di serramenti -quali infissi, serrande, finestre e abbaini- rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria (ai sensi dell'art. 31 della l. n. 457 del 1978, all’epoca vigente, ora art. 3, lett. a), t.u. 06.06.2001, n. 380) e, cioè, di attività libera e non soggetta ad alcun tipo di autorizzazione e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento vengano effettuati con materiali diversi, in quanto nel caso le opere non comportano modifiche strutturali e di trasformazione dell’organismo edilizio (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II, 09.05.2005, n. 3438; Tar Piemonte, sez. I, 12.04.2010, n. 1761).
Del resto l’Amministrazione non ha dimostrato la rilevante alterazione dell’aspetto esteriore dei luoghi in relazione alla tipologia dell’edificio e alla sua eventuale collocazione paesistico-ambientale, in mancanza di idonee risultanze istruttorie condotte dalla stessa, in disparte la insufficienza dei presupposti giuridici di cui ai meri richiami contenuti nelle ordinanze alla normativa ordinaria, senza la indicazione di specifici regimi vincolistici applicabili effettivamente al caso di specie (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 14.01.2015 n. 528 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOL’organico carente giustifica il ritardo. Magistrati. La Cassazione ha escluso il provvedimento disciplinare se il contesto è disorganizzato.
Il magistrato non può essere punito per il ritardo nel deposito delle sentenze se lavora in un ufficio sotto organico.
La Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, con la sentenza 14.01.2014 n. 470, annulla la decisione del Csm di punire con la censura un magistrato colpevole di aver collezionato ritardi sul 70% delle decisioni depositate.
Una lancia in favore dell’incolpata l’aveva spezzata il procuratore generale della Cassazione, che aveva escluso l’antigiuridicità della condotta chiedendo ai probiviri una marcia indietro, in considerazione delle condizioni di lavoro che esistevano nella sezione in cui il magistrato prestava servizio.
In due anni si erano trasferiti due consiglieri su cinque e il lavoro era stato spalmato sui tre rimasti, che avevano ereditato materie complesse e ampie: dalle locazioni alla responsabilità professionale, dagli appalti al condominio. Il tutto reso più pesante dalle sopravvenienze: un +50% registrato in una tabella approvata dallo stesso Csm.
Motivi che il Pg riteneva sufficienti per escludere l’addebito a differenza del Csm che respinge la richiesta di accogliere il ricorso. Secondo la sentenza impugnata, le condizioni di lavoro e la scopertura dell’organico non avevano inciso sull’elevato numero di ritardi che superavano i 300 giorni e la scarsa produttività era testimoniata dall’esiguo numero di procedimenti depositati e delle udienze tenute. La Cassazione invita però la sezione disciplinare a fare una nuova valutazione esaminando i fatti e le testimonianze dei colleghi in favore dell’incolpata.
Il rispetto dei tempi imposti dalla giurisprudenza comunitaria e dalla Cedu non può prescindere dal ruolo chiave, che la stessa Convenzione affida agli Stati, nell’organizzare gli uffici giudiziari, dotandoli di organico efficiente e strutture adeguate. Prescrizione che nel caso esaminato non sembrava rispettata: i consiglieri in attività avevano segnalato ai presidenti di sezione e di Corte d’appello la grave carenza d’organico della sezione, ma il problema era stato risolto aumentando d’ufficio il carico di lavoro «sottraendo al magistrato la razionale auto-organizzazione e gestione del proprio lavoro».
Da verificare anche il numero dei provvedimenti depositati in tempo, visto il divario nelle affermazioni della difesa e dell’”accusa”: 499 per la prima solo 199 per la seconda, con un ritardo nel 70% dei casi. Il controllo impone il confronto con le sentenze prodotte dai colleghi a parità di condizioni. Altri nodi da sciogliere riguardano l’osservanza del piano di rientro dopo il trasferimento del magistrato ad altra sezione e i successivi pareri favorevoli espressi sulla sua professionalità: va verificata la congruenza tra la valutazione positiva, ai fini della progressione della carriera e il provvedimento disciplinare basato sulla stessa condotta
 (articolo Il Sole 24 Ore del 15.01.2015).

EDILIZIA PRIVATA: È reato installare senza SCIA un condizionatore esterno in area vincolata.
Cassazione: in zona vincolata l'installazione del condizionatore senza il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica comporta il reato previsto dall'art. 181 del d.lgs. n. 42/2004.

Con la sentenza 13.01.2015 n. 952 la III Sez. penale della Corte di Cassazione, richiamando la consolidata giurisprudenza amministrativa, ha ribadito il principio secondo il quale i climatizzatori o i condizionatori costituiscono impianti tecnologici e pertanto se collocati all'esterno dei fabbricati rientrano nel novero degli interventi edilizi definiti dall'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 sicché sono assoggettati alla relativa normativa di settore, con la conseguenza che la loro realizzazione o installazione, seppure non necessitante del permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di inizio di attività (S.C.I.A.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R. n. 380/2001.
Nella vicenda oggetto del pronunciamento della suprema Corte, alla proprietaria di un esercizio commerciale era stata imputata la violazione dell'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 per avere in qualità di committente installato, in un'area sottoposta a vincolo paesaggistico, un condizionatore d'aria in assenza di alcun titolo autorizzativo e senza osservare il regolamento edilizio comunale.
DECRETO SBLOCCA ITALIA. Nella sentenza la Corte di Cassazione ricorda che l'articolo 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380/2001, come modificato dall'art. 17, comma 1 del decreto Sblocca Italia (decreto legge 12.09.2014, n. 133 convertito nella legge 11.11.2014, n. 164) tuttora include tra gli interventi di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”. L'articolo 22, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 richiede, per tali interventi, una SCIA, trattandosi dell'installazione di impianti che si pongano in rapporto di strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti.
Ciò posto, la Cassazione ribadisce che l'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 380/2001 –ora SCIA– allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44 lettera a) del citato d.P.R. n. 380/2001, atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA (ora SCIA), ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello stesso decreto 380/2001.
Nel caso di specie, l'installazione del condizionatore d'aria è stata eseguita in violazione dell'art. 17 del regolamento edilizio comunale e senza la segnalazione certificata di inizio attività, per cui correttamente è stata ritenuta la violazione dell'art. 44 lett. a) d.P.R. n. 380/2001.
LA DISCIPLINA DELL'ATTIVITÀ EDILIZIA LIBERA. L'opera installata dalla ricorrente, quindi, non rientrava tra le attività edilizie libere ossia tra gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo. Anche con riferimento a questi ultimi interventi, la Cassazione ricorda che sono sempre fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e comunque l'attività edilizia c.d. libera deve essere attuata nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo n. 42/2004 (art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380/2001).
AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA. Di conseguenza, poiché l'intervento è stato eseguito in zona nella quale era imposto il vincolo paesaggistico, l'esecuzione dell'opera era condizionata al rilascio del nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art. 181 del d.lgs. n. 42/2004 (commento tratto da www.casaeclima.com.

EDILIZIA PRIVATAE' legittima l'ordinanza di demolizione di opere abusive laddove si faccia meramente rinvio ai verbali di accertamento dei VV.UU., che descrivono i manufatti, richiamati per relationem nelle stesse ordinanze.
Al riguardo va rilevato che il richiamo nell'ordinanza ai verbali di accertamento –con l’indicazione degli estremi ai fini dell’identificazione– corrisponde ad una tecnica motivazionale pienamente ammessa dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990 specie allorquando, come nel caso in esame, i provvedimenti siano preceduti da tali atti istruttori, acquisibili mediante accesso dall’interessato e pertanto non può imputarsi l’illegittimità per difetto di motivazione.
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Circa l'illegittima applicazione della legge n. 47 del 1985 al caso di specie, in quanto dai verbali di ispezione l’impianto trasmittente risulterebbe esistente fin dal 1980 e quindi dovrebbe essere disciplinato dalla legge vigente all’epoca ossia la legge n. 10 del 1977, tale doglianza non può essere condivisa tenuto conto del consolidato orientamento della giurisprudenza riguardo la legittimità del provvedimento amministrativo che va accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del tempus regit actum, con la conseguenza che non può essere invocata, a supporto della legittimità dell’atto emanando, una norma che al momento dell’emanazione dell’atto abbia perso la sua efficacia.
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Con riferimento alla violazione della norma procedimentale per la mancata indicazione dell’Autorità cui ricorrere e del termine, la doglianza non è condivisibile alla luce del costante orientamento della giurisprudenza secondo cui la mancata indicazione nel provvedimento impugnato dei termini e dell'Autorità cui ricorrere concreta unicamente una mera irregolarità, non incidente sulla validità e sull'efficacia del provvedimento stesso in quanto la disposizione dell'art. 3, comma 4, della legge n. 241 del 1990 non influisce sull'individuazione e sulla cura dell'interesse pubblico concreto cui è finalizzato il provvedimento, né sulla riconducibilità dello stesso all'autorità amministrativa, ma tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, con la conseguenza che tale omissione può tutt’al più dar luogo, nel concorso di significative e ulteriori circostanze, alla concessione del beneficio della rimessione in termini.

3.2. Con riferimento alla illegittimità delle ordinanze di demolizione per la mancata individuazione delle opere da rimuovere (secondo mezzo) e il difetto di motivazione ed erronea prospettazione dei fatti (quarto mezzo) si rileva che le doglianze non sono condivisibili: infatti le opere da demolire sono desumibili dall’ordinanza impugnata tenuto conto della espressa indicazione ivi contenuta dell’“impianto di radio diffusione” -che per la tipologia dello stesso è identificabile nella specifica struttura propria di tali impianti (traliccio, basamento, struttura annessa)– nonché chiaramente individuato mediante il rinvio ai verbali di accertamento dei VV.UU., che descrivono i manufatti, richiamati per relationem nelle stesse ordinanze (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.03.2014, n. 1456; Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 26.05.2014, n. 811)
Al riguardo va rilevato che il richiamo nelle ordinanze in questione ai verbali di accertamento –con l’indicazione degli estremi ai fini dell’identificazione– corrisponde ad una tecnica motivazionale pienamente ammessa dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990 specie allorquando, come nel caso in esame, i provvedimenti siano preceduti da tali atti istruttori, acquisibili mediante accesso dall’interessato e pertanto non può imputarsi l’illegittimità per difetto di motivazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.03.2014, n. 1420)
3.3. Parimenti infondato è l’ulteriore vizio denunciato da parte ricorrente riguardo la illegittima applicazione della legge n. 47 del 1985 al caso di specie, in quanto dai verbali di ispezione l’impianto trasmittente risulterebbe esistente fin dal 1980 e quindi dovrebbe essere disciplinato dalla legge vigente all’epoca ossia la legge n. 10 del 1977 (terzo mezzo).
Tale doglianza non può essere condivisa tenuto conto del consolidato orientamento della giurisprudenza riguardo la legittimità del provvedimento amministrativo che va accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del tempus regit actum, con la conseguenza che non può essere invocata, a supporto della legittimità dell’atto emanando, una norma che al momento dell’emanazione dell’atto abbia perso la sua efficacia (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.04.2013, n. 2094; Tar Piemonte, sez. I, 18.04.2014, n. 688)
3.4. Con riferimento alla violazione della norma procedimentale per la mancata indicazione dell’Autorità cui ricorrere e del termine (quinto mezzo), la doglianza non è condivisibile alla luce del costante orientamento della giurisprudenza secondo cui la mancata indicazione nel provvedimento impugnato dei termini e dell'Autorità cui ricorrere concreta unicamente una mera irregolarità, non incidente sulla validità e sull'efficacia del provvedimento stesso in quanto la disposizione dell'art. 3, comma 4, della legge n. 241 del 1990 non influisce sull'individuazione e sulla cura dell'interesse pubblico concreto cui è finalizzato il provvedimento, né sulla riconducibilità dello stesso all'autorità amministrativa, ma tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, con la conseguenza che tale omissione può tutt’al più dar luogo, nel concorso di significative e ulteriori circostanze, alla concessione del beneficio della rimessione in termini (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.04.2012, n. 2139; idem, sez. VI, 05.03.2013, n. 1297; sez. III, 16.04.2014, n. 1920; Tar Lazio, Roma, sez. II, 13.12.2011, n. 9709; Tar Lombardia, Milano, sez. I, 08.05.2014, n. 1199; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 09.05.2014, n. 2589) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 13.01.2015 n. 431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe in astratto l’installazione di un’antenna di un impianto radiofonico non costituisce trasformazione del territorio comunale agli effetti delle leggi urbanistiche, senza la necessità di specifica autorizzazione edilizia, la realizzazione di simili manufatti va però considerata anche in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli impianti, richiedendosi la concessione edilizia in caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni, con annessi altri manufatti accessori.
Al riguardo, va rilevato che i manufatti come accertati sono costituiti da un box in lamiera di m. 4 x 4 circa e da un traliccio di ferro alto circa 25 metri con basamento in calcestruzzo cementizio che costituiscono strutture edilizie che secondo l’orientamento della giurisprudenza, tenuto conto delle rilevanti dimensioni dei tralicci e delle antenne, devono essere valutate come soggette a permesso di costruire, imponendosi la necessità di considerare la natura e la consistenza di tali manufatti.

Infine parimenti infondate sono le doglianze relative alla qualificazione dei manufatti contestati come opere assentibili necessariamente mediante titolo autorizzatorio (sesto e settimo mezzo). A tal proposito occorre rilevare che, come risulta dalla documentazione in atti, gli impianti radiofonici, consistenti in antenne, apparecchiature elettroniche e box di servizio situati nell’area interessata sono stati oggetto di accertamenti da parte del Comando dei Vigili Urbani del Comune nonché di un articolato procedimento giudiziario nei confronti dei soggetti titolari degli impianti medesimi (tra cui il ricorrente).
I successivi provvedimenti demolitori impugnati sono stati preceduti da tali atti istruttori, che ne costituiscono il presupposto di fatto accertandone la consistenza in concreto e l’impatto nell’ambito del territorio interessato.
Orbene, se in astratto l’installazione di un’antenna di un impianto radiofonico non costituisce trasformazione del territorio comunale agli effetti delle leggi urbanistiche, senza la necessità di specifica autorizzazione edilizia, la realizzazione di simili manufatti va però considerata anche in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli impianti, richiedendosi la concessione edilizia in caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni, con annessi altri manufatti accessori (cfr. Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 07.03.2008, n. 310).
Al riguardo, va rilevato che i manufatti come accertati sono costituiti da un box in lamiera di m. 4 x 4 circa e da un traliccio di ferro alto circa 25 metri con basamento in calcestruzzo cementizio -circostanze non smentite dal ricorrente- che costituiscono strutture edilizie che secondo l’orientamento della giurisprudenza, tenuto conto delle rilevanti dimensioni dei tralicci e delle antenne, devono essere valutate come soggette a permesso di costruire, imponendosi la necessità di considerare la natura e la consistenza di tali manufatti (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.10.2008, n. 4910; idem, 17.01.2014, n. 225) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 13.01.2015 n. 431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Al comodatario compete l’obbligo di custodia di cui agli artt. 1804 e 2051 c.c. e che il custode ha l’obbligo di avvertire il proprietario di ogni danno al bene di cui ha la custodia.
4. Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1804 e 2051 c.c. in relazione all’art. 360, 3, c.p.c.”.
Premesso che, come affermato dalla Corte di merito, al comodatario compete l’obbligo di custodia di cui agli artt. 1804 e 2051 c.c. e che il custode ha l’obbligo di avvertire il proprietario di ogni danno al bene di cui ha la custodia, assume il ricorrente principale che, essendo stato l’immobile di cui si discute in causa consegnato al P. in perfette condizioni di manutenzione, incombeva al custode l’obbligo di informarlo di eventuali cedimenti, infiltrazioni, carenze degli impianti elettrici e di ogni altro danno verificatosi nell’immobile custodito cui doveva far fronte il proprietario e rappresenta che, invece, dal momento in cui i Vigili Urbani avevano bloccato l’esecuzione dei lavori nel 1995, il comodatario non aveva mai informato il comodante dei danni che si verificavano sul terreno e sui prefabbricati in questione, rendendo impossibile ogni intervento da parte sua, tenuto conto che il P., anche a seguito della diffida della Regione, aveva impedito l’accesso alla proprietà. Conseguentemente sostiene il C. che il comodatario sarebbe oggettivamente responsabile dei danni verificatisi, essendo venuto meno ai suoi obblighi di custode, non avendo provato né offerto di provare che detti danni dipendevano da fatto fortuito, e che, pertanto, il contratto avrebbe dovuto essere risolto.
5. Con il secondo motivo, rubricato “omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo] per il giudizio; artt. 1455 c.c. in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.”, il ricorrente principale lamenta che la Corte di merito abbia “minimizzato” i danni provocati dal P., liquidandoli in complessivi Euro 12.000,00. Assume il C. che, come emergerebbe dalle risultanze istruttorie, i lavori che il P. avrebbe dovuto eseguire, non si limitavano al “ritombamento del foro abusivamente aperto ma riguardavano espressamente anche il crollo del molo di alaggio”, sicché detti lavori, in base a quanto indicato dalla Corte di merito in sentenza e precisato dal c.t.u., ammonterebbero a complessivi Euro 49.600,00, oltre i costi di manutenzione, cifra di non scarsa entità, con la conseguenza che il ragionamento dei Giudici di secondo grado, per i quali si tratterebbe di abusi non tali da aver alterato significativamente la proprietà del comodante, sarebbe errato e sussisterebbe la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., “per avere la Corte, sulla base di una omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio… omesso di considerare una parte importante della relazione ctu”.
6. Con il terzo motivo si lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1808 e 1576 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”. Ad avviso del C. , errerebbe la Corte di merito nel distinguere fra gli obblighi di manutenzione ordinaria e manutenzione straordinaria in capo al comodatario.
Assume il ricorrente principale che se è vero che i lavori di risistemazione integrale del terreno possono essere considerati di straordinaria manutenzione, occorre tuttavia considerare che l’attuale stato dei luoghi dipende da fatto e colpa del comodatario che/per oltre dieci anni non ha svolto alcun lavoro di manutenzione ordinaria, il che risulterebbe anche dalla relazione del ctu., ed evidenzia che se viene concesso in comodato un terreno in cui vi siano alberi, arbusti e cespugli, “l’ordinaria manutenzione e cioè la pulizia, la potatura e il controllo della crescita delle piante compete al comodatario, che ne è custode e non al comodante”, il quale interviene solo per lavori di straordinaria manutenzione (abbattimento di alberi pericolanti) o in caso di necessità di interventi straordinari, ed evidenzia peraltro che l’art. 1577 c.c. in materia di locazione, prevede che “quando la cosa locata abbisogna di riparazioni che non sono a carico del conduttore, questi è tenuto a darne avviso al locatore”.
Sostiene pertanto il ricorrente principale che si porrebbe in violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. l’affermazione della Corte di merito secondo cui “la manutenzione straordinaria quando dipendente pacificamente da fatto e colpa del comodatario”, “non porta alla conseguenza che vi sia un’inadempienza contrattuale”, la quale dovrebbe comportare, invece, non solo la risoluzione del contratto di comodato ma anche la condanna dell’inadempiente al risarcimento dei danni, come affermato dal Tribunale.
7. Il primo ed il terzo motivo, che essendo strettamente connessi, possono essere congiuntamente esaminati, sono fondati in relazione a quanto appresso evidenziato.
Ed invero, pur se la questione dell’omessa tempestiva segnalazione al proprietario comodante di eventuali cedimenti, infiltrazioni o altro, della carenza degli impianti elettrici e di ogni danno strutturale in relazione ai quali incombeva al proprietario provvedere, è inammissibile per novità della stessa, come eccepito dal P. , non essendo stato precisato quando e in che termini tale questione sia stata proposta in appello, e pur essendo corretto che le opere di manutenzione straordinaria sono a carico del proprietario comodante, non può condividersi l’affermazione della Corte di merito secondo cui anche la cura della vegetazione spontanea “va considerata a carico del comodante”, pur avendo la medesima Corte affermato che il dovere di conservare la cosa comporta l’obbligo di manutenzione ma solo nell’ambito delle spese di ordinaria amministrazione.
Va al riguardo evidenziato che, come si desume dal disposto dell’art. 1808 c.c., mentre spettano al comodante le spese di straordinaria amministrazione e se le stesse sono sostenute dal comodatario questi ha diritto al relativo rimborso solo se necessarie ed urgenti, restano sempre a carico del comodatario le spese sostenute per servirsi della cosa locata e comunque, ai sensi dell’art. 1804 c.c. il comodatario è tenuto a conservare e custodire la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia.
Nella stessa sentenza impugnata (v. p. 17-18) la Corte di merito ha posto in rilievo, in relazione alla omessa manutenzione, che gli accertamenti del ctu hanno evidenziato “un notevole incremento della vegetazione spontanea rispetto alla situazione esistente al tempo della stipula del comodato”.
Tanto premesso, non può condividersi l’affermazione dei giudici di secondo grado secondo cui la cura della vegetazione spontanea va considerata a carico del comodante, atteso che nella specie “la vegetazione spontanea non serviva ad alcun uso né veniva in concreto usata dal P.” (v. sentenza impugnata, p. 18); risulta infatti evidente che la cura ordinaria di tale vegetazione consentiva in concreto l’uso del bene nel suo complesso, e neppure può ritenersi che al riguardo la situazione si sia aggravata nel tempo a causa di omessa manutenzione straordinaria.
Precisato che la manutenzione straordinaria differisce da quella ordinaria in relazione alla normalità dei lavori (nel senso di ordinaria e periodica ricorrenza) ed all’entità della spesa (Cass. 19.10.1982, n. 5452) e risultando dalla sentenza impugnata che la situazione in relazione alla cura della vegetazione spontanea –cui occorre ordinariamente provvedere con periodica ricorrenza e che, ove effettuata in tali termini, non comporta esborsi di rilevante entità– si è aggravata nel tempo, é evidente che al riguardo il P. non ha assolto l’obbligo, posto a suo carico, di custodia e conservazione della cosa con la diligenza del buon padre di famiglia, evidenziandosi che l’obbligo di conservare, in particolare, riguarda il mantenimento del bene nell’originario stato di consistenza, salvo il naturale deterioramento dovuto all’uso e nella specie, come già evidenziato, dalla stessa sentenza risulta –e tanto non è stato oggetto di specifica censura– un notevole incremento della vegetazione spontanea rispetto alla situazione esistente al tempo della stipula del comodato.  (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 13.01.2015 n. 296 -
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APPALTI SERVIZI: Appartiene alla giurisdizione del g.o. la controversia inerente la valutazione di una clausola penale, avente funzione di strumento di commisurazione del danno derivante dall'inadempienza delle prestazioni del gestore della raccolta e del trasporto dei rifiuti.
Il rapporto intercorrente tra una società affidataria della raccolta e del trasporto dei rifiuti urbani ed assimilati, con l'ente comunale va qualificato come appalto di servizio e non come concessione di pubblico servizio come del resto confermato dal tenore dell'art. 30, c. 2, Decr. Leg.vo 163/2006.
Tale rapporto ha fonte negoziale nella stipula di apposito contratto, per cui gli atti adottati dal Comune in materia non presentano carattere autoritativo quando si tratti di rilevazione di fatti costituenti omesso o inesatto adempimento delle prestazioni dovute dall'appaltatore, rispetto alla quale le parti sono poste su un piano paritetico e le rispettive posizioni giuridiche soggettive hanno natura di diritti soggettivi.
Pertanto, nel caso di specie, la controversia avente ad oggetto la valutazione di una clausola penale, avente funzione di strumento di commisurazione del danno derivante dall'inadempimento appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto inerente appunto ai diritti derivanti dal contratto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 12.01.2015 n. 114 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La Commissione di un concorso pubblico nella fase relativa all’adozione di criteri prodromici ed essenziali alla valutazione comparativa di più candidati deve operare come collegio perfetto, in quanto tale attività non può in nessun modo configurarsi quale attività preparatoria o vincolata dell’organo.
La Commissione, pertanto, necessita dell’apporto partecipativo e contestuale di tutti i suoi componenti e la mancata partecipazione anche di uno solo di essi rende la deliberazione invalida, né tale assenza può in alcun modo essere surrogata attraverso alternative e successive forme di partecipazione.

1. Motivo d’appello che deve ricevere esame prioritario è quello con il quale il Comune di Venezia ha dedotto l’infondatezza del mezzo d’impugnativa accolto dal Giudice di prime cure.
1a. In proposito va subito sottolineato che tra le parti esiste concordanza in ordine ai principi giuridici regolatori della materia sulla quale verte il motivo, principi che sono quelli già esposti dal primo Giudice: la divergenza di vedute tra le parti riguarda solo la conformità -o meno- ai relativi canoni dell’azione della Commissione preposta al concorso.
Il Tribunale ha esposto le coordinate di principio di cui si tratta nei seguenti termini: ” … secondo un principio consolidato della giurisprudenza amministrativa, (il collegio) deve operare con il "plenum" dei suoi componenti, e non con la semplice maggioranza (così Cons. St. IV, 05.08.2005, n. 4196; 06.06.2006, n. 3386; 12.05.2008, n. 2188)…È bensì vero che alla luce della giurisprudenza ora richiamata la necessità di operare con il "plenum" si pone essenzialmente nelle fasi in cui la Commissione è chiamata a fare scelte discrezionali, in ordine alle quali v'è l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale, e che invece può consentirsi la deroga al principio della collegialità per le attività preparatorie, istruttorie e vincolate” (cfr. Cons. Stato Sez. III, Sent., 03.03.2011, n. 1368; Cons. St., sez. 1, n. 1286/2011).
Nell'ipotesi di collegio perfetto, come nel caso di specie, la giurisprudenza ha, altresì, precisato, con un insegnamento pacifico e mai revocato che le deliberazioni assunte dal collegio sono valide soltanto se deliberate con la partecipazione di tutti i componenti, di talché non assume giuridica rilevanza la questione relativa alla così detta prova di resistenza, tesa ad accertare, in concreto, la eventuale incidenza dell’assente nel computo dei voti complessivi (Cons. st., sez. VI, 06.04.1987, n. 230).
L’adozione di criteri prodromici ed essenziali alla valutazione comparativa di più candidati non può in nessun modo configurarsi quale attività preparatoria e/o vincolata dell’organo, così che, tale fase comporta ed esige, necessariamente, l’apporto partecipativo di tutti i componenti del seggio in modo contestuale, proprio perché è nella dialettica tra i componenti che si esplica la funzione omogeneizzate delle diverse singolarità del collegio che consente, legittimamente, l’adozione dell’atto finale unico, che non è e non rappresenta la giustapposizione delle diverse opinioni, bensì è l’atto del collegio in senso unitario e non scomponibile.
La mancata partecipazione, al momento della discussione, di alcuni componenti il seggio di gara non può in alcun modo essere surrogata attraverso alternative e successive forme di partecipazione.”
1b. La Sezione, tanto premesso, condivide i principi enunciati dal Tribunale, ma ritiene che di essi sia stata fatta nel caso in esame una non corretta applicazione.
Assume in proposito rilievo decisivo, infatti, la circostanza che, nella vicenda, alle sedute della Commissione nn. nn. 7, 15 e 17, nelle quali sono stati approvati, rispettivamente, i criteri di valutazione dei titoli, nonché i punteggi scaturiti dall’applicazione dei primi alle posizioni dei singoli interessati, abbiano preso parte tutti i componenti della Commissione, laddove nelle sedute non plenarie risultano invece essere state svolte attività solo istruttorie o comunque essenzialmente preparatorie rispetto alle predette deliberazioni.
Da qui la sostanziale correttezza del modus procedendi seguito nel caso concreto.
Il principio del collegio perfetto, e dunque della necessaria presenza di tutti i membri della commissione, concerne, difatti, solo l'attività valutativa e deliberativa vera e propria, e non l'attività istruttoria (Sez. IV, 22.09.2005, n. 4989; cfr. anche V, 28.06.2002, n. 3566); e, d’altra parte, in giurisprudenza è stato già precisato che la collegialità dell’operato delle commissioni esaminatrici non è esclusa da una prima valutazione non collegiale, purché, tuttavia, all’esame preliminare segua comunque il rituale esame collegiale (Sez. VI, 11.10.1989, n. 1336).
1c. Per quanto precede deve concludersi, diversamente da quanto ritenuto dal TAR, nel senso dell’assenza di elementi sufficienti a denotare che la Commissione abbia violato i principi, sopra esposti, discendenti dalla sua natura di collegio perfetto (massima tratta da
http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.01.2015 n. 40 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Integra il reato previsto dal DPR 06.06.2001, n. 380, articolo 44, lettera a), la violazione delle distanze minime previste dalle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18/11/2013, il Tribunale di Pordenone assolveva (OMISSIS) e (OMISSIS) dall’imputazione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, articolo 44, lettera a), perché il fatto non sussiste; la vicenda concerneva la realizzazione di una recinzione in contrasto con lo strumento urbanistico vigente, perché posta a distanza inferiore a 5 m. dall’asse della strada, ed in difformità dalla d.i.a..
2. Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pordenone, denunciando l’erronea applicazione di legge penale, nonché la mancanza, contraddittorietà ed illogicità manifesta della motivazione. Il Tribunale avrebbe errato nel giudicare non operativa la norma tecnica di attuazione (che prevede il limite dei 5 metri) sulla base della ritenuta individuazione certa del confine privato.
Inoltre, il Giudice di prime cure non avrebbe indicato le ragioni per le quali dall’individuazione del medesimo confine privato deriverebbe la “collocazione” di quello pubblico, peraltro accertato con modalità diverse da quelle previste nelle citate norme tecniche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è fondato.
Occorre premettere che, per pacifico indirizzo di questa Corte, integra il reato previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, articolo 44, lettera a), la violazione delle distanze minime previste dalle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale (Sez. 3 , n. 42466 del 24/09/2013, Tacchini, Rv. 257376); quale quella del Comune di Azzano Decimo (Pn), che impone che qualunque intervento sia realizzato a distanza di almeno 5 metri dall’asse della strada.
Ciò premesso, l’impugnata sentenza, dopo aver dato atto che la recinzione de qua era stata eretta in violazione di questo limite, conclude però per l’inoperatività della norma tecnica in oggetto, atteso che l’opera, comunque, era stata realizzata dai ricorrenti all’interno della loro proprietà, il cui confine rispetto alla strada comunale è certo.
Orbene, ritiene la Corte che tale motivazione sia incongrua ed insufficiente, nella misura in cui non evidenzia il percorso logico all’esito del quale il Giudice e’ giunto ad assolvere gli imputati; in particolare, la sentenza non precisa per quali motivi l’aver eseguito l’intervento all’interno della proprietà –il cui confine rispetto alla strada è sicuro– legittimerebbe il mancato rispetto dei termini di cui alla norma tecnica in esame, la cui portata sarebbe diversamente cogente.
Trattasi, infatti, di una considerazione meramente assertiva, priva di ogni richiamo normativo o motivazionale, che impone l’annullamento della pronuncia con rinvio al Tribunale di Pordenone (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.01.2015 n. 60 -
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APPALTI: Il principio di tassatività delle cause di esclusione ex art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, si applica anche alle concessioni di servizi.
Il solo parametro per valutare la legittimità delle ammissioni/esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è dato dall' art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.

Il principio di tassatività delle cause di esclusione, disposto dall'art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006 (introdotto dall'art. 4, c. 2, lett. d), n. 2), D.L. 13.05.2011, n. 70, conv., con modif., dalla L. 12.07.2011, n. 106), si applica anche alle concessioni di servizi di cui all'art. 30 Codice Appalti, quale principio fondamentale generale relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione dei principi di massima partecipazione e di proporzionalità, talché la sua estensione alla materia delle concessioni trova esplicito fondamento nell'art. 30, c. 3, del D.Lgs. n. 163/2006.
Diversamente opinando, si giungerebbe ad un'ingiustificata divaricazione del regime da seguire nella gare per l'affidamento di appalti ed in quelle per l'affidamento di concessioni di servizi.
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La giurisprudenza ha chiarito che l'art. 46, c. 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006 "ha previsto la tassatività delle cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione". La stessa disposizione normativa, poi, stabilisce, altresì, che (inciso finale) "Dette prescrizioni sono, comunque, nulle".
Inoltre, è principio giurisprudenziale altrettanto pacifico che "le norme che disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche vanno interpretate nel rispetto dei principi di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione. Questo orientamento ha recentemente trovato una puntuale traduzione normativa con il nuovo c. 1-bis, dell'art. 46 d.lgs. 12.04.2006. n. 163, introdotto dall'art. 4 del d.l. 13.05.2011, n. 70". Pertanto, il solo parametro per valutare la legittimità delle ammissioni/esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è dato dal citato art. 46, c. 1-bis, risultando l'esclusione legittima solo se ivi rinvenga copertura.
Conseguentemente, da un lato, in tanto l'esclusione è legittima (e doverosa), in quanto trovi copertura nell'art. 46, c. 1-bis, citato (e anche quando la legge di gara si spinga, illegittimamente, a negare espressis verbis la conseguenza espulsiva); dall'altro, tutte le volte in cui non trovi fondamento nel menzionato paradigma normativo, l'esclusione è illegittima anche quando (illegittimamente) prevista nella lex specialis, affetta sul punto da nullità testuale (art. 46, c. 1-bis, inciso finale) e parziale (in applicazione analogica dell'art. 1419, c. 2, del codice civile) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.01.2015 n. 18 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'inosservanza dell'obbligo dichiarativo di assenza di pregiudizi penali in capo alla società cedente art. 38 del d.lgs. n. 163/2006.
L'omessa dichiarazione di assenza di pregiudizi penali in capo alla società cedente ex art. 38 del d.lvo n. 163/2006, comporta automaticamente l'esclusione dalla gara solo se espressamente prevista nel bando o se, in ogni caso, vi sia la prova che gli amministratori (anche cessati nel triennio, ora nell'anno antecedente la presentazione della dichiarazione) per i quali sia stata omessa la dichiarazione hanno in concreto riportato pregiudizi penali non dichiarati nella presentazione dell'offerta.
Con il d.l. 24.06.2014, n. 90 (recante Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), conv. in l., con modif., dall'art. 1, c. 1, della l. 11.08.2014, n. 114, il legislatore sembra addirittura superare espressamente l'interpretazione giurisprudenziale più rigorista che riteneva legittima l'esclusione a fronte dell'omessa allegazione della documentazione sul possesso dei requisiti di idoneità morale; l'art. 39 del decreto sopra citato, aggiungendo il c. 2-bis all'art. 38 del d.lgs. cit., infatti, prevede che, in caso di incompletezza delle dichiarazioni, vi sia soltanto una penale in favore della stazione appaltante, la quale assegna al concorrente un termine, che non deve essere superiore ai dieci giorni, affinché siano integrate le dichiarazioni necessarie.
Nel caso in cui, invece, le irregolarità non siano essenziali, la stazione appaltante non ne deve richiedere nemmeno la regolarizzazione. Pertanto, anche secondo le scelte del legislatore più recente sembra confermato il venir meno del principio dell'esclusione automatica dalla gara.
Rimane, dunque, applicabile il principio ormai consolidato in giurisprudenza secondo cui l'inosservanza dell'obbligo dichiarativo di cui all'art. 38 del d.lgs. cit. sugli amministratori dell'impresa dalla quale si è ottenuto la disponibilità dell'azienda (in particolare nel caso in cui si tratti di affitto d'azienda), può portare all'esclusione del concorrente dalla gara solo se così prevede il bando ovvero, in caso contrario, se risultino in concreto pregiudizi penali a carico degli amministratori della società locatrice (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 18 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAE' sufficiente la semplice vicinitas per ritenere sussistere le condizioni dell’azione per lamentare la violazione di norme edilizie, ambientali o paesaggistiche, sia pure sussistendo una strada nel mezzo e trattandosi di distanza (tredici metri o dieci metri, non rileva a tal limitato fine) non tale, comunque, da escludere un reale interesse alla tutela giurisdizionale.
Va respinto anche il motivo di appello incidentale (in realtà non condizionato, se non all’ammissibilità dell’appello principale) con il quale si ripropone la eccezione di inammissibilità dell’appello perché si tratta di costruzione tra edifici distanti, essendo sufficiente la semplice vicinitas, per ritenere sussistere le condizioni dell’azione per lamentare la violazione di norme edilizie, ambientali o paesaggistiche, sia pure sussistendo una strada nel mezzo e trattandosi di distanza (tredici metri o dieci metri, non rileva a tal limitato fine) non tale, comunque, da escludere un reale interesse alla tutela giurisdizionale (tra varie, si veda Cons. Stato, IV, 17.09.2012, n. 4926)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio consolidato, in materia di decorrenza del termine per impugnare una costruzione, che sia onere della parte che deduce la tardività del ricorso la dimostrazione della effettiva conoscenza ad un determinato momento e a tal fine non costituisce prova piena né la pubblicità nella specie all’albo comunale, né la mera affissione di cartelli di cantiere.
Va respinto anche il motivo di appello incidentale con il quale si ripropone la eccezione di tardività, sostenendo che la parte appellante sarebbe venuta a conoscenza dei permessi di costruire mediante tabella informativa apposta sul cantiere e dalla pubblicità nell’albo pretorio comunale e in ogni caso la conoscenza si evincerebbe dagli esposti menzionati nei verbali della polizia municipale.
Costituisce infatti principio consolidato in materia di decorrenza del termine per impugnare una costruzione, che sia onere della parte che deduce la tardività del ricorso la dimostrazione della effettiva conoscenza ad un determinato momento e a tal fine non costituisce prova piena né la pubblicità nella specie all’albo comunale (tra varie, Cons. Stato, V, 11.11.2010, n. 8017), né la mera affissione di cartelli di cantiere; il Collegio osserva che, in ogni caso, si può prescindere dall’ulteriore esame della eccezione di tardività, in quanto l’appello principale è infondato e come tale da respingere
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che in materia di distanze tra costruzioni costituisce disposizione inderogabile e ha natura di ordine pubblico la regola (art. 9 D.M. 1444 del 02.04.1968) che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il Collegio osserva che il balcone aggettante, avente funzione architettonica o decorativa, può essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano di preveda, al di là del richiamo che il regolamento comunale effettua agli “aggetti”, differenziandoli dalle “sporgenze”.
Il motivo è infondato.
Se è vero che in materia di distanze tra costruzioni costituisce disposizione inderogabile e ha natura di ordine pubblico la regola (art. 9 D.M. 1444 del 02.04.1968) che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il Collegio osserva che il balcone aggettante, avente funzione architettonica o decorativa, come correttamente ha ritenuto l’amministrazione pubblica nel caso di specie, può essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano di preveda (tra varie, Cons. Stato, IV, 07.07.2008, n. 3381), al di là del richiamo che il regolamento comunale effettua agli “aggetti”, differenziandoli dalle “sporgenze
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTITurbativa d’asta per tutti gli atti equivalenti alla gara. È illecita la condotta, anche precedente al bando, che inquina l’iter. Cassazione penale. Interpretazione estensiva del reato introdotto nel 2010.
Turbativa d’asta ad ampio raggio. La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 02.01.2015 n. 1, chiarisce la portata applicativa della riforma del 2010 che ha introdotto nel Codice penale l’articolo 353 bis. Per la Corte, nell’area della condotta sanzionabile penalmente rientrano tutti gli atti che condizionano il «procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente».
La disposizione, quindi, per contrastare con maggiore efficacia il fenomeno della turbativa d’asta, che in realtà può comprendere anche il procedimento di formazione del bando di gara, condizionandone il contenuto in modo tale che un determinato soggetto può essere favorito nell’aggiudicazione ancora prima dell’apertura, «ha introdotto un nuovo reato di pericolo che, affiancando l’originario modello tipizzato dall’articolo 353 Codice penale, tende a reprimere le condotte di turbativa poste in essere antecedentemente alla pubblicazione del bando». Condotte che in precedenza non avevano specifica rilevanza penale. La logica dell’intervento sta nel punire comportamenti che sono in grado di compromettere il buon andamento della pubblica amministrazione e, nello stesso tempo, la libera concorrenza tra i partecipanti alla gara.
Così, con l’obiettivo di estendere la tutela penale alla fase dei pubblici incanti anteriore alla pubblicazione del bando, la nuova norma penale punisce chiunque con atti precisi (violenza, minaccia, doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti) condiziona il buon andamento del procedimento amministrativo. Il fine dell’azione illegale è allora l’inquinamento del contenuto del bando e il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine stesso.
Per integrare il delitto non è necessario, pertanto, che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in maniera tale da determinare la scelta del contraente. È sufficiente, invece, che sia stato posto in essere un turbamento del processo amministrativo, che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo, con la presenza di un dolo specifico che si traduce nella finalità di condizionare le modalità di scelta da parte della pubblica amministrazione.
Detto ciò, la sentenza si sofferma sulla nozione di «atto equipollente» contenuta nella nuova norma del Codice penale. Nella nozione rientra, nella lettura della Cassazione, allora, qualsiasi provvedimento alternativo al bando di gara adottato per la scelta del contraente. Compresi quelli che stabiliscono l’affidamento diretto.
«Ne discende -scrivono i giudici della Sesta sezione- che l’ambito di applicazione della nuova disposizioni si estende a qualsiasi forma di aggiudicazione che prescinda dalla celebrazione di una gara e alla stessa fase di selezione dello strumento di aggiudicazione, oltre che a tutte quelle situazioni in cui l’attività illecita si risolva nella stessa elusione del rispetto di una regola procedura concorrenziale».
Quanto allora all’attribuzione di responsabilità, la valutazione da parte dell’autorità giudiziaria non può che comprendere anche i margini di discrezionalità a disposizione di chi è accusato della turbativa. Nel caso esaminato era in discussione il condizionamento del procedimento di scelta del contraente da parte di un’Asl. All’esame della Cassazione sulla posizione del direttore generale era emerso in realtà come la sua discrezionalità nell’influenzare l’iter fosse fortemente limitata e dall’esistenza di condizioni che dovevano essere piuttosto valutate dagli uffici amministrativi con pochi margini di un suo intervento
 (articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2015).

TRIBUTI: Canoni concessori, sulle telecom batosta dal Consiglio di Stato. Tributi. Il cambio di rotta.
Il canone concessorio previsto dal Codice della strada si applica anche alle occupazioni dei sottoservizi telefonici e delle altre reti di telecomunicazione.
È quanto affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 31.12.2014 n. 6459, diffusa nei giorni scorsi, che rimette in discussione l’unico punto certo di approdo della giurisprudenza amministrativa.
La pronuncia riguarda il canone per l’uso o l’occupazione delle strade, che trova la propria disciplina fondamentale nell’articolo 27 del Codice della strada (Dlgs 285/92) e si configura quale entrata patrimoniale gravante sui soggetti titolari di concessione che utilizzano il suolo e il sottosuolo pubblico.
Si tratta di un canone non ricognitorio (cioè non connesso a prestazioni di servizi) che si aggiunge alla tassa o al canone sull’occupazione del suolo pubblico, ma che nei progetti governativi sulla local tax era destinato ad essere accorpato in un unico prelievo.
Negli ultimi anni sono aumentati gli enti locali che hanno introdotto il canone in questione, tramite l’adozione di appositi regolamenti, molti dei quali sono stati impugnati dai gestori dei servizi a rete, alimentando un cospicuo contenzioso che ha impegnato diversi Tribunali amministrativi regionali. In particolare quello di Milano ha discusso lo scorso 26 novembre ben tredici ricorsi, tutti ancora in attesa di sentenza.
Tra le diverse questioni esaminate, c’è chi ha negato la propria giurisdizione in favore di quella ordinaria (Tar Lazio 9772/2014), chi ha fornito alcuni criteri di determinazione (Tar Brescia 156/2014) e chi ha addirittura ritenuto illegittima l’introduzione del prelievo (Tar Milano 345/2014 e 1366/2014). Su tutte queste questioni la giurisprudenza è apparsa oscillante, ma si è mostrata invece compatta sull’inapplicabilità del canone alle reti per le comunicazioni elettroniche (si vedano per esempio Tar Milano 665/2014 e 1242/2014, Tar Torino 448/2012).
Il Consiglio di Stato ha tuttavia ribaltato l’orientamento dei Tar, secondo i quali l’articolo 93 del Dlgs 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche) escluderebbe la possibilità di imporre oneri o canoni nell’ipotesi di utilizzo del suolo o del sottosuolo pubblico per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di telecomunicazione.
I giudici di Palazzo Spada evidenziano però che l’articolo 93 fa espressamente salva l’applicazione di altre disposizioni di legge che stabiliscono altri canoni o oneri per l’impianto di reti o per l’esercizio di servizi di comunicazione elettronica.
Pertanto il presupposto della pretesa non si rinviene nel regolamento comunale, ma nelle fonti legislative che consentono l’introduzione del canone di occupazione, tra cui l’articolo 27 del Dlgs 285/1992. La disposizione contenuta nell’articolo 93 non può essere quindi considerata speciale rispetto alla disciplina di cui all’articolo 27 del Dlgs 285/1992.
La sentenza del Consiglio di Stato ha rilevanti conseguenze sulle imprese interessate (società di telefonia o di altre reti di telecomunicazione) e sugli enti locali. Per le prime si tratta nei fatti di una batosta, perché non potranno più invocare l’esonero ma dovranno soccombere alle ingenti pretese di molti enti locali: questi potranno invece fare cassa (con maggiori possibilità di quadrare i bilanci) e coltivare con successo i ricorsi pendenti, anche perché la decisione del Consiglio di Stato finisce per conferire al canone in questione la patente di legittimità
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.01.2015).

APPALTI: Nella gara non cambiano i soggetti. Tar Milano. Revocato l’affidamento comunale del supporto su accertamento e riscossione.
Per garantire trasparenza, par condicio e continuità dell’appalto pubblico, prima dell’aggiudicazione della gara l’impresa contraente non può modificare i requisiti oggettivi e soggettivi presentati in sede di offerta né sostituire con altra azienda l’ausiliaria nel frattempo fallita.
Lo ha stabilito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con la sentenza 29.12.2014 n. 3212.
I giudici hanno dato ragione a un Comune che aveva revocato a una società per azioni l’appalto per il servizio di supporto al proprio ufficio Tributi nell’attività di accertamento e riscossione. La revoca era stata decisa una volta verificato il fallimento dell’impresa ausiliaria dei cui requisiti tecnico-economici la società si era avvalsa per partecipare al bando tramite l’istituto dell’avvalimento, disciplinato dal Codice degli appalti (articolo 49 del decreto legislativo 163/2006).
Secondo l’aggiudicataria, al contrario, i requisiti di partecipazione non erano venuti meno, poiché in tali casi lo stesso Codice degli appalti (comma 19 dell’articolo 37) consente un’eccezione, cioè la sostituzione dell’azienda fallita, nonché mandante nei raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di imprese, con un’altra che sia in possesso dei requisiti richiesti.
A giudizio del Tar, «l’immodificabilità soggettiva dei partecipanti durante la gara è indispensabile per una valutazione obbiettiva sia dell’offerta sia dell’affidabilità del contraente e costituisce il presupposto necessario per un sano e trasparente confronto concorrenziale tra le imprese partecipanti. Per tali ragioni, la mancanza o la perdita dei requisiti di gara in questa fase costituisce causa di esclusione dalle gare e non semplice motivo di sanatoria».
Tali princìpi, afferma la sentenza, «si estendono anche all’impresa ausiliaria, in quanto il contratto di avvalimento costituisce elemento che integra i requisiti di partecipazione alla gara» e anche nel caso, come nella fattispecie, sia fallita «occorre rammentare che tra i requisiti di partecipazione sussiste non solo quello della mancanza di fallimento, ma anche quello che non sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni (liquidazione coatta e concordato preventivo, secondo l’articolo 38 del Codice degli appalti, ndr)»
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.01.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla sussistenza -o meno-  su di una strada (privata) della servitù ad uso pubblico.
E’  controversa la sussistenza sulla predetta via di una servitù ad uso pubblico.
Si tratta di una circostanza la cui prova, ai sensi dell’art. 64, comma 1, c.p.a., spettava al Comune.
La predetta norma, infatti, diversamente dall’art. 2697 c.c., non ripartisce l’onere della prova solo in base al criterio che il fatto controverso sia stato posto a fondamento di una domanda o di una eccezione ma anche sulla scorta del parametro della disponibilità della prova. Per cui il ricorrente che affermi o contesti un fatto che può essere dimostrato attraverso la produzione di atti o documenti che sono nella esclusiva disponibilità della p.a. non ha anche l’onere di provarlo, dovendo essere questa ad offrire al giudice gli elementi atti a confermare o a smentire le affermazioni contenute nel ricorso.
Al mancato assolvimento dell’onere probatorio posto a carico della p.a. non può, peraltro, sopperire il potere di istruzione officiosa, conseguendo, invece, ad esso l’applicazione la regola di giudizio di cui al secondo comma dell’art. 64 c.p.a. secondo il quale la mancata prova di un fatto contestato che si aveva l’onere di provare determina l’impossibilità per il giudice di tener conto dello stesso.
Il potere acquisitivo del giudice, che nella vigenza dell’art. 44 del RD 1054 del 1923 aveva una connotazione ampiamente discrezionale, oggi deve essere, infatti, esercitato “fermo restando l’onere della prova a carico delle parti” (art. 63, comma, 1 c.p.a.) ed assume, quindi, un carattere residuale, potendo il giudice intervenire autonomamente nei soli casi in cui la parte che ne era onerata senza sua colpa non sia riuscita ad a raggiungere la prova completa dei fatti che avrebbe dovuto dimostrare e dovendosi, invece, applicare nelle situazioni ordinarie le regole di giudizio e di riparto dell’onere della prova contemplate nell’art. 64 c.p.a.
La nuova impostazione seguita dal codice deriva peraltro dall’esigenza di adeguare il rito processuale amministrativo ai principi del giusto processo sanciti dall’art. 111 della Costituzione non essendo con essi compatibile un sistema che consentisse al giudice di sopperire alla inerzia istruttoria di una delle parti anche qualora gli elementi di prova fossero nella sua disponibilità o che attribuisse al giudice una incontrollata discrezionalità nel ripartire i carichi probatori attraverso l’esercizio de potere acquisitivo.
Al fine di dare la prova relativa alla sussistenza di una servitù di uso pubblico il Comune avrebbe, quindi, dovuto produrre un estratto del registro delle strade a uso pubblico (idoneo a creare quantomeno una presunzione della sussistenza del diritto affermato) o produrre il titolo di acquisito della affermata servitù.

Nel merito il ricorso è fondato.
Non è in contestazione la proprietà privata della via che il Comune di Campi Bisenzio assume essere abusivamente occupata. Tale fatto risulta implicitamente ammesso dalle stesse ordinanze impugnate laddove esse affermano che si tratterebbe di strada “ad uso pubblico”, ed è espressamente ammesso nella nota del Sindaco del Comune di campi Bisenzio in data 28.04.2010 nella quale si dichiara che il tratto di strada di Via S. Martino dal civico 1 al civico 9 risulta essere privato ad uso pubblico.
E’, invece, controversa la sussistenza sulla predetta via di una servitù ad uso pubblico.
Si tratta di una circostanza la cui prova, ai sensi dell’art. 64, comma 1, c.p.a., spettava al Comune di campi Bisenzio.
La predetta norma, infatti, diversamente dall’art. 2697 c.c., non ripartisce l’onere della prova solo in base al criterio che il fatto controverso sia stato posto a fondamento di una domanda o di una eccezione ma anche sulla scorta del parametro della disponibilità della prova. Per cui il ricorrente che affermi o contesti un fatto che può essere dimostrato attraverso la produzione di atti o documenti che sono nella esclusiva disponibilità della p.a. non ha anche l’onere di provarlo, dovendo essere questa ad offrire al giudice gli elementi atti a confermare o a smentire le affermazioni contenute nel ricorso.
Al mancato assolvimento dell’onere probatorio posto a carico della p.a. non può, peraltro, sopperire il potere di istruzione officiosa, conseguendo, invece, ad esso l’applicazione la regola di giudizio di cui al secondo comma dell’art. 64 c.p.a. secondo il quale la mancata prova di un fatto contestato che si aveva l’onere di provare determina l’impossibilità per il giudice di tener conto dello stesso.
Il potere acquisitivo del giudice, che nella vigenza dell’art. 44 del RD 1054 del 1923 aveva una connotazione ampiamente discrezionale, oggi deve essere, infatti, esercitato “fermo restando l’onere della prova a carico delle parti” (art. 63, comma, 1 c.p.a.) ed assume, quindi, un carattere residuale, potendo il giudice intervenire autonomamente nei soli casi in cui la parte che ne era onerata senza sua colpa non sia riuscita ad a raggiungere la prova completa dei fatti che avrebbe dovuto dimostrare e dovendosi, invece, applicare nelle situazioni ordinarie le regole di giudizio e di riparto dell’onere della prova contemplate nell’art. 64 c.p.a.
La nuova impostazione seguita dal codice deriva peraltro dall’esigenza di adeguare il rito processuale amministrativo ai principi del giusto processo sanciti dall’art. 111 della Costituzione non essendo con essi compatibile un sistema che consentisse al giudice di sopperire alla inerzia istruttoria di una delle parti anche qualora gli elementi di prova fossero nella sua disponibilità o che attribuisse al giudice una incontrollata discrezionalità nel ripartire i carichi probatori attraverso l’esercizio de potere acquisitivo.
Al fine di dare la prova relativa alla sussistenza di una servitù di uso pubblico il Comune di Campi Bisenzio avrebbe, quindi, dovuto produrre un estratto del registro delle strade a uso pubblico (idoneo a creare quantomeno una presunzione della sussistenza del diritto affermato) o produrre il titolo di acquisito della affermata servitù.
Ciò, tuttavia, non è stato fatto.
Nei verbali sulla base dei quali è stata adottata l’ordinanza impugnata si afferma in modo apodittico la sussistenza di un diritto di uso pubblico sulla via S. Mauro ma non viene indicato il titolo in forza del quale tale diritto sarebbe insorto.
In giudizio il Comune si è difeso affermando che il resede sarebbe urbanisticamente destinato a viabilità e su di esso sarebbe stata apposta la segnaletica stradale.
Nessuna delle predette circostanze, tuttavia, può comprovare la sussistenza di una servitù di uso pubblico: la destinazione impressa dal PRG non è idonea a costituire immediatamente un diritto reale su cosa altrui e l’apposizione della segnaletica è una circostanza di mero fatto che non incide sul regime dominicale del suolo.
In mancanza della prova del fatto che giustifica l’esercizio del potere esercitato, il provvedimento impugnato deve, quindi, essere annullato (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.12.2014 n. 2149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La sostituzione dell’antenna posta sul lastrico solare con una che per consistenza e dimensioni riduca la possibilità di uso comune del terrazzo condominale è illegittima ed espone il proprietario al risarcimento del danno.
2.1. – In ogni caso, le censure con tali motivi articolati non colgono nel segno.
Quanto al primo motivo, perché la Corte d’appello ha ben spiegato, con una motivazione logicamente coerente, che l’atteggiamento di mera tolleranza in passato tenuto dal Condominio non è idoneo a far sorgere in capo all’appellante alcun diritto a perpetuare, in presenza del chiaro dissenso dai condomini, una situazione che si pone in violazione dell’articolo 1102 c.c. e la censura rivolta ad ottenere il riconoscimento della avvenuta costituzione di un diritto personale di godimento in favore di (OMISSIS) tende, in realtà, ad una (non ammissibile in sede di legittimità) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito.
In relazione al secondo mezzo, perché esso attiene ad una circostanza non decisiva: la preesistenza al contratto di locazione di (OMISSIS) di un basamento con originaria antenna è privo di significatività, atteso che l’originaria antenna è stata sostituita con altra più alta e la Corte d’appello ha, con congruo e motivato apprezzamento, rilevato che l’antenna di proprietà di (OMISSIS), per le dimensioni e le caratteristiche, necessita di molteplici cavi tiranti di bloccaggio ed attrae una parte considerevole della cosa comune nella disponibilità della stessa società, così impedendo agli altri condomini di farne parimenti uso.
Quanto al terzo ed al quarto motivo, perché la Corte d’appello ha supportato la propria valutazione dell’apprezzabile compromissione del pari uso del lastrico solare con una logica motivazione, ancorata a precisi e circostanziati dati di fatto: l’antenna si sviluppa su un traliccio metallico di circa 18 metri installato su un basamento in cemento delle dimensioni di m. 1,30 x m. 1,30 x m. 0,40 ed inoltre il traliccio è vincolato al lastrico solare (della superficie di mq. 243) mediante ben sette tiranti imperniati nella pavimentazione, che attraversano l’intero lastrico solare condominiale e raggiungono tutti i lati dell’edificio, e vi sono ulteriori cavi.
La ricorrente sollecita al riguardo questa Corte ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto si come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza processuale, quanto ancora le opinioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa potessero ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità.
3. – Il quinto motivo –con cui si denuncia violazione dell’articolo 1102 c.c.– è infondato.
La Corte d’appello ha ritenuto, sulla base di un logico e motivato apprezzamento, che l’installazione dell’antenna trasmittente della (OMISSIS), in considerazione della sua consistenza e delle sue dimensioni in rapporto alla superficie del lastrico, si risolve in una sottrazione alla possibilità di uso comune di una parte considerevole della superficie del lastrico solare, e quindi in una compromissione apprezzabile dell’uso paritetico del bene.
Stante l’accertata situazione di fatto, correttamente la Corte d’appello ha giudicato l’installazione non consentita ai sensi dell’articolo 1102 c.c., in quanto costituente, in concreto, una modificazione delle modalità di uso e di godimento della cosa comune, che interferisce sul pari uso della stessa spettante agli altri condomini (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 22.12.2014 n. 27167 -
link a http://renatodisa.com).

CONDOMINIO: Ponteggi, responsabilità ampia. Chiamati a risarcire in caso di furti condominio e ditta. La Cassazione: dall’illuminazione alla sicurezza, servono tutte le cautele necessarie.
Nel caso in cui i ladri utilizzino i ponteggi montati attorno all’edificio condominiale per introdursi più agevolmente nell’appartamento di un condomino, sia l’impresa incaricata dei lavori di ristrutturazione sia il condominio possono essere chiamati a risarcire il danno subito, qualora non abbiano adottato tutte le necessarie cautele per evitare il verificarsi di tale circostanza.
In particolare, l’impresa edile dovrà fare in modo che le impalcature siano illuminate e sorvegliate durante la notte, mentre il condominio non potrà limitarsi a inserire nel contratto di appalto delle clausole nelle quali si obblighi l’appaltatrice ad adottare tutte le necessarie misure di prevenzione senza poi sorvegliare a sua volta l’effettiva esecuzione di tali adempimenti.

Lo ha chiarito la III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 19.12.2014 n. 26900.
Nel caso in questione i ladri avevano utilizzato i ponteggi montati dall’impresa appaltatrice per svaligiare un appartamento e portarsi via preziosi per un valore di oltre 50 mila euro. Il tribunale aveva quindi condannato la stessa, in solido con il condominio, al risarcimento dei danni nei confronti del condomino derubato, ritenendo che l’apposizione delle impalcature e la mancata sorveglianza delle stesse avessero agevolato il furto, incidendo quindi causalmente sulla produzione dell’evento pregiudizievole.
La sentenza era quindi stata confermata in appello ed entrambe le parti condannate avevano presentato ricorso in Cassazione. La Suprema corte, nel confermare a propria volta la sentenza impugnata, ha in primo luogo respinto l’eccezione per cui la responsabilità dell’impresa appaltatrice in caso di furto agevolato dai ponteggi sussista soltanto nel caso in cui sia stato provato uno specifico inadempimento di un obbligo di fare, essendo viceversa sufficiente l’aver trascurato le ordinarie norme di diligenza e l’aver omesso di adottare le cautele idonee a evitare l’utilizzo anomalo dell’impalcatura da parte di terzi.
Ancora più interessanti le considerazioni svolte dai giudici di legittimità relativamente alla responsabilità concorrente del condominio che abbia appaltato i lavori. Non basta, infatti, inserire nel contratto di appalto una clausola, per quanto specifica, che obblighi l’impresa a porre in essere tutte le misure necessarie a evitare l’utilizzo indebito dei ponteggi. Certamente è necessario inserire nel contratto tale previsione, ma questo semplice adempimento formale non mette al riparo il condominio dalla responsabilità concorrente per gli eventuali danni che siano derivati ai condomini dall’inadempimento dell’impresa.
Il condominio, infatti, nella persona dell’amministratore condominiale, deve comunque vigilare attivamente sul rispetto da parte dell’impresa delle obbligazioni assunte nel contratto di appalto. Se, quindi, per fare un esempio, i condomini abbiano avvertito l’amministratore della mancata illuminazione notturna dei ponteggi e quest’ultimo non si sia prontamente attivato per fare in modo che l’appaltatrice provvedesse subito a tale adempimento, il condominio, al di là del fatto che tale obbligo fosse contenuto nel contratto, risponderà per danni nei confronti del comproprietario che abbia subito il furto agevolato dalle impalcature (ferma restando la possibilità che i condomini richiedano a loro volta il risarcimento dei danni all’amministratore per inadempimento al proprio contratto di mandato).
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Non vanno trascurate le più elementari norme di diligenza e perizia.
Nel corso dei lavori di ristrutturazione del caseggiato, che comportano l’utilizzo di ponteggi, non è raro che malintenzionati si introducano nell’appartamento di qualche condomino per derubarlo. In tal caso è da escludere una responsabilità dell’impresa per il solo fatto di aver installato il ponteggio.
Del resto il condomino non può pretendere che la ditta incaricata della ristrutturazione ricorra a misure di sicurezza ulteriori rispetto a quelle solitamente in uso nei cantieri. Certo questo non significa che l’impresa non debba adottare quelle minime cautele volte a tutelare la collettività condominiale.
- Furto tramite ponteggi: la responsabilità dell’impresa. La responsabilità dell’impresa è inevitabile qualora quest’ultima, trascurando le più elementari norme di diligenza e perizia e la doverosa adozione delle cautele idonee a impedire l’uso anomalo delle impalcature, abbia colposamente creato un agevole accesso ai ladri, ponendo così in essere le condizioni del verificarsi del danno. Così se il proprietario di un appartamento viene derubato da ladri che hanno scalato i ponteggi ne risponde l’impresa che, nel sospendere i lavori, abbia abbandonato il cantiere (lasciandolo privo di custode e illuminazione), limitandosi a recintarlo con pannelli metallici.
E, ancora, si deve ritenere colpevole l’impresa se il furto sia stato agevolato dalla mancata installazione di un’illuminazione notturna del ponteggio e dalla mancata rimozione, al termine della giornata lavorativa, delle scale di collegamento tra i diversi piani del ponteggio. Questo significa che se l’impresa ha agevolato l’accesso ai ladri, non può avere rilevanza il fatto che i malintenzionati avrebbero potuto servirsi anche di altri passaggi o la mancanza di un cancello a chiusura dell’accesso al cortile nel quale si trovano le impalcature, trattandosi di circostanze che potrebbero, se dimostrate, costituire semplici cause concorrenti, tali cioè da non interrompere il nesso tra l’uso delle impalcature e il reato.
Non rileva, poi, quale causa di esclusione della responsabilità, la circostanza che il ponteggio, sebbene sfornito di antifurto e illuminazione, possa comunque considerarsi sicuro perché collocato all’interno di un cortile ben illuminato e magari dotato di un alto muro di cinta. Naturalmente nei casi sopra detti l’impresa può sempre evitare gli addebiti dimostrando che, in realtà, i ladri sono entrati nell’appartamento tramite un diverso passaggio e non utilizzando i ponteggi.
Tale dimostrazione deve comunque accompagnarsi a quella tendente a dar prova dell’effettiva adozione da parte dell’impresa di tutte le cautele atte a impedire che i ponteggi costituiscano un agevole accesso ai piani superiori.
- La responsabilità del condominio. Secondo i giudici è possibile che, oltre alla responsabilità dell’impresa incaricata dei lavori, vi sia una concorrente responsabilità del condominio nel caso in cui quest’ultimo abbia assunto contrattualmente l’obbligo di adottare sistemi antifurto, quali l’illuminazione dei ponteggi, senza poi adempiervi.
La concorrente responsabilità del condominio viene poi ricollegata al mantenimento della struttura, operato per specifica richiesta del direttore dei lavori nominato dai condomini, dopo il termine dei lavori, al solo fine di consentire un più facile collaudo dell’opera: in tal caso sorge un obbligo di custodia a carico dei condomini che hanno richiesto il mantenimento della struttura. Di conseguenza il condominio che richieda il mantenimento dei ponteggi anche dopo il completamento delle opere di ristrutturazione, in considerazione dell’assenza di addetti ai lavori deve adottare idonee forma di vigilanza, anche se le impalcature sono collocate all’interno di un giardino recintato.
In ogni caso, se l’assemblea delibera sulla scelta dell’impresa appaltatrice, sarà bene verificare che la stessa adotti ogni precauzione necessaria e, nell’ipotesi contraria, sarà bene che l’amministratore solleciti l’azienda a dotare il cantiere di adeguate difese per impedire l’accesso ai ponteggi (senza contare l’importanza di dotarsi di una specifica polizza assicurativa che garantisca dal rischio che, attraverso i ponteggi, dei ladri possano introdursi negli appartamenti).
- Concorso di colpa. Occorre poi considerare che ove la vittima del furto abbia favorito l’azione dei ladri (ad esempio lasciando la chiave della cassaforte sul tavolo di una scrivania), la stessa ne sarà tenuta a rispondere nella misura che verrà stabilita dall’autorità giudiziaria e, di conseguenza, verrà proporzionalmente ridotto l’ammontare del complessivo risarcimento economico spettante.
- Un caso particolare. Infine merita di essere ricordato che la Cassazione ha negato il risarcimento a un condomino derubato il quale aveva partecipato all’assemblea e aderito espressamente alla delibera con la quale il condominio, nonostante la sollecitazione dell’impresa, aveva deciso di non installare l’impianto antifurto per il suo rilevante costo: in un caso del genere, quindi, secondo i supremi giudici si deve escludere ogni responsabilità, non solo dell’impresa esecutrice dei lavori, ma anche del condominio (articolo ItaliaOggi Sette del 19.01.2015).
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MASSIMA
Condominio, appaltatore, impalcatura, furto, responsabilità.
La responsabilità dell'imprenditore che si sia avvalso di impalcature per l'espletamento di lavori sugli edifici è ravvisabile ai sensi dell'art. 2043 c.c., ove siano state trascurate le ordinarie norme di diligenza e non siano state adottate le cautele idonee ad impedire l'uso anomalo del ponteggio.
In tal caso è configurabile la concorrente responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c., atteso l'obbligo di vigilanza e di custodia gravante sul soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura.
L'eventuale clausola inserita nel contratto di appalto a discarico della responsabilità è vincolante ed efficace nei rapporti fra le parti del contratto di appalto (nella specie, fra il Condominio e l'appaltatore), ed ha indubbiamente l'effetto di consentire al committente di rivalersi sull'appaltatore per gli eventuali danni di cui sia chiamato a rispondere per effetto del comportamento di lui, ma non è invece opponibile ai terzi danneggiati e non vale ad esonerare il Condominio dall'obbligo di rispondere nei loro confronti.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Le immissioni rumorose protratte per lungo tempo ledono diversi diritti, a prescindere dalla prova specifica, il diritto al riposo notturno, alla serenità e all’equilibrio della mente, ed alla vivibilità delle loro case.
1.- Con il primo motivo le ricorrenti denunciano violazione degli art. 2043 e 2059 cod. civ., sul rilievo che la Corte di appello le ha condannate al risarcimento dei danni sulla base del solo accertamento dell’effettiva sussistenza di immissioni intollerabili, senza previamente accertare se da tali immissioni siano effettivamente derivati alle intimate danni risarcibili, così ravvisando sostanzialmente i danni non patrimoniali in re ipsa, in contrasto con il consolidato principio giurisprudenziale per cui anche i danni morali ed esistenziali debbono rigorosamente essere dimostrati nella loro consistenza ed entità, per dare diritto al risarcimento.
Con il secondo motivo denunciano omessa motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, cioè sulla circostanza da esse dedotta nelle difese che è stata liquidata ad ognuno dei danneggiati una somma uguale, senza tenere conto della disparità di situazioni ad essi facenti capo, trattandosi di quattro donne e due uomini, di età diverse e con diversa vita lavorativa o pensionistica e diverse peculiarità caratteriali, esistenziali e relazionali (abitudini, orari, sensibilità, ecc.). Al contrario avrebbero dovuto essere dimostrate dalle parti, ed accertate dai giudicanti, le effettive ripercussioni esistenziali delle immissioni di rumore.
2.- I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati perché connessi, non sono fondati.
2.1.- La sentenza impugnata ha accertato l’esistenza dei danni sulla base di elementi presuntivi.
Ha cioè ritenuto che le immissioni sonore “clamorosamente eccedenti la normale tollerabilità (come accertato dalla ASL e successivamente tramite CTU)” si sono prodotte per almeno tre anni nelle abitazioni degli attori, in ore serali e notturne, determinando “una significativa lesione degli interessi della persona umana costituzionalmente garantiti quali in particolare il diritto al riposo notturno, inevitabilmente pregiudicato (se non addirittura impedito) dalla musica ad alto volume e dagli schiamazzi…” (sentenza impugnata, p. 7-8).
La Corte ha accertato altresì –con valutazione in fatto, non suscettibile di riesame in questa sede– che l’entità del danno non è da ritenere futile, né è consistita “in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita o alla felicità”, così uniformandosi ai principi più volte enunciati da questa Corte in materia (cfr. fra tutte, Cass. civ. S.U. 11.11.2008 n. 26972; Cass. civ. Sez. 3, n. 20684/2009).
La giurisprudenza citata in contrario dalle ricorrenti (Cass. civ. Sez. 3, 10.12.2009 n. 25820) circa la necessità di fornire la prova specifica del danno da immissioni sonore, non è in termini poiché si riferisce ai casi in cui il danneggiato faccia valere un vero e proprio danno alla salute, cioè un danno biologico, calcolabile in punti di invalidità e risarcibile in termini particolarmente rigorosi, sulla base di specifiche tabelle.
Nella specie i danneggiati non hanno dedotto di avere subìto un tal tipo di danno.
Hanno invece dedotto l’indebito, grave pregiudizio arrecato per almeno tre anni al riposo notturno, alla serenità e all’equilibrio della mente, ed alla vivibilità delle loro case, condizioni tutte che il rumore e il frastuono protraentisi per ore mettono seriamente e ingiustamente a repentaglio e di cui può ritenersi acquisita la prova anche per presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza.
2.2.- Quanto all’omessa considerazione delle situazioni personali, la valutazione equitativa della Corte di merito ha avuto palesemente riguardo al danno minimo ipotizzabile per ciascuno dei danneggiati, considerato che la sofferenza e l’insonnia provocati dalla musica a tutto volume possono ritenersi comuni a tutti (salvo a coloro che siano affetti da sordità).
Ma la predetta patologia, così come le peculiari situazioni od insensibilità personali idonee a giustificare la diminuzione del risarcimento, avrebbero dovuto essere dimostrati dai danneggianti, trattandosi di circostanze che vengono invocate al fine di dimostrare l’insussistenza totale o parziale del danno (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.12.2014 n. 26899 -
link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la realizzata traslazione (40 anni or sono) di un nuovo fabbricato rispetto a quanto assentito dal comune la stessa deve essere qualificata come variazione essenziale (nel caso di specie la variazione alle distanze, per quanto effettivamente di minima entità, è pur tuttavia superiore al 2%).
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E' illegittima l'ordinanza di demolizione di un abuso edilizio commesso 40 anni or sono tenuto conto:
● che non è stata comunque valutata (dal comune) la possibilità di una regolarizzazione eccezionale, prospettata dallo stesso legale dell'amministrazione, in considerazione della prassi comunale (tenuto conto del fatto che in ogni caso il sedime dell’edificio risulta parzialmente coincidente con quello previsto in progetto);
della lunga preesistenza dell’opera nell’assetto attuale (che non ha evidentemente dato luogo in tutto questo tempo a problemi di carattere igienico-sanitario);
all’incolpevole affidamento ingenerato nell’attuale proprietaria anche dal pregresso comportamento del Comune, che non ha riscontrato le irregolarità nella realizzazione neanche all’atto del rilascio del certificato di agibilità nel 1974, con la conseguente impossibilità per lei di rendersene conto all’atto dell’acquisto, sulla base degli ordinari controlli, nonché della buona fede dimostrata anche con il suo comportamento con il Comune.

La ricorrente ha acquistato nel 2013 un fabbricato edificato nel 1971 sulla base di regolare licenza edilizia n. 111/1970 ed assistito da regolare certificato di agibilità; in occasione di alcuni rilievi eseguiti per predisporre la pratica relativa a lavori di ristrutturazione è emerso che l’edificio è stato realizzato ab origine con una lieve traslazione dell’area di sedime, per cui la ricorrente ha richiesto al Comune parere preventivo circa la possibilità di ottenere la sanatoria.
Il comune, dopo aver acquisito un parere legale in merito all’esatto inquadramento della fattispecie di illecito edilizio eseguito ed alla conseguente sanabilità e o regolarizzazione degli interventi eseguiti in difformità della licenza, ha adottato l’atto oggetto della presente impugnativa, ordinando la demolizione delle opere difformi dalla licenza edilizia numero 111 del 1970 che risultano in contrasto con la vigente normativa in merito alla distanza minima tra superfici finestrate, alla distanza tra fabbricati e alla distanza dal confine di proprietà.
È incontroverso che l’edificio di cui trattasi sia stato realizzato, in difformità dalla licenza edilizia, ad una distanza rispetto alle proprietà confinanti variabile tra metri 3,75 e m 3,90 circa, ad una distanza di metri, rispettivamente, 9,90 e 8 rispetto ai due fabbricati siti all’interno di dette proprietà e ad una distanza, rispetto ai manufatti insistenti sul confine ed adibiti ad autorimesse, che risulta pari a metri 7 rispetto ad un fabbricato condonato nel 1989, a metri 5 rispetto ad altro manufatto non assentito e a metri 9,20 rispetto al terzo.
Risulta pertanto non rispettato l’articolo 14 delle norme tecniche di attuazione del piano degli interventi per quanto riguarda la distanza dai confini di proprietà e tra fabbricati e l’articolo 9 del DM 1444/1968 per la distanza tra pareti finestrate.
In considerazione di quanto sopra il parere legale concludeva per l’ascrizione della traslazione parziale dell’edificio al novero delle variazioni essenziali, che l’articolo 31 del d.p.r. 380/2001 sanziona con ordine di demolizione; veniva peraltro rimarcato anche che, data la prassi comunale di qualificare (e sanzionare) la traslazione come parziale difformità quando vi fosse una sovrapposizione tra la localizzazione assentita e quella effettiva, il carattere remoto dell’abuso nonché l’affidamento incolpevole dell’attuale proprietario dell’edificio, il comune avrebbe anche potuto ritenere che il pregiudizio arrecato dalla traslazione alle esigenze pubblicistiche di carattere igienico sanitario e di ordinato assetto e sviluppo del territorio non richiedesse necessariamente la demolizione integrale dell’edificio.
Ciò premesso il collegio ritiene fondate le censure di ricorso con riferimento al difetto di motivazione, reso particolarmente evidente dal contrasto con la decisione precedente di avvalersi di un parere legale, il cui contenuto non risulta poi essere stato fino in fondo valutato e preso in considerazione ai fini della decisione che ordina la demolizione; in tale sede non viene infatti chiarito perché, a prescindere dall’incontestabilità della qualificazione della traslazione effettuata come variazione essenziale (punto su cui il collegio concorda perché la variazione alle distanze, per quanto effettivamente di minima entità, è pur tuttavia superiore al 2%), non è stata comunque valutata la possibilità di una regolarizzazione eccezionale, prospettata dallo stesso legale, in considerazione della prassi comunale (tenuto conto del fatto che in ogni caso il sedime dell’edificio risulta parzialmente coincidente con quello previsto in progetto), della lunga preesistenza dell’opera nell’assetto attuale (che non ha evidentemente dato luogo in tutto questo tempo a problemi di carattere igienico-sanitario), all’incolpevole affidamento ingenerato nell’attuale proprietaria anche dal pregresso comportamento del Comune, che non ha riscontrato le irregolarità nella realizzazione neanche all’atto del rilascio del certificato di agibilità nel 1974, con la conseguente impossibilità per lei di rendersene conto all’atto dell’acquisto, sulla base degli ordinari controlli, nonché della buona fede dimostrata anche con il suo comportamento con il Comune; in considerazione di tutto quanto sopra ricordato il Comune avrebbe anche dovuto precisare esattamente l’entità delle demolizioni ritenute necessarie.
Per tutte le considerazioni che precedono il ricorso è fondato e deve essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.12.2014 n. 1542 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di una veranda-gazebo, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non ha natura precari, né costituisce intervento di manutenzione straordinaria o di restauro, ma è opera di ristrutturazione soggetta a concessione edilizia (oggi a permesso di costruire).
II – Il ricorso e i motivi aggiunti sono infondati.
III – La ricorrente società, titolare di un esercizio di ristorazione a Isernia, con la concessione edilizia in data 01.04.1997, ha realizzato lavori di rifacimento di una struttura protettiva (tipo veranda) collocata all’esterno dell’esercizio. Sennonché, il territorio del Comune di Isernia è classificato come zona sismica (con R.D. 22.11.1937) e, dall’esame degli atti d’ufficio, non risulta depositato il progetto strutturale dell’opera, che –a quanto consta– non è un tettoia, bensì una struttura chiusa, con vetrate installate su montanti metallici e travi in legno in copertura, ancorato con staffe metalliche all’antistante fabbricato in muratura, priva com’è di fondazioni e realizzata con un sistema costruttivo non consentito dalle vigenti norme tecniche anti-sismiche.
Il Servizio tecnico del Comune, avendo rilevato una violazione di tipo sostanziale –in quanto l’opera è in contrasto con i punti C1 e seguenti del D.M. 16.01.1996, recante “norme tecniche per la costruzione in zona sismica”- ha ordinato la riduzione in pristino, nonché l’adeguamento della struttura, tutt’altro che provvisoria, realizzata in difformità dalla concessione edilizia del 01.04.1996; ha inoltre emesso, in via cautelare, l’ordine di sospensione dei lavori.
Tra le altre cose, il Comune ha contestato alla ricorrente anche il mancato rispetto delle prescrizioni imposte dalla Soprintendenza per il beni archeologici e culturali di Campobasso, con la nota prot. n. 12085 datata 22.06.1996.
La realizzazione di una veranda-gazebo, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non ha natura precaria (cfr.: Tar Toscana Firenze III, 30.01.2014 n. 185), né costituisce intervento di manutenzione straordinaria o di restauro, ma è opera di ristrutturazione soggetta a concessione edilizia (oggi a permesso di costruire).
Non a caso, la ricorrente si è munita di tale titolo: sennonché, ha realizzato in parziale difformità, non ha rispettato le prescrizioni paesaggistiche e non ha provato il rispetto delle norme di prevenzione sismica. Ciò è sufficiente per ingiungere la sospensione dei lavori e la remissione in pristino, senza che occorra una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico, che deve ritenersi “in re ipsa”, trattandosi di misura finalizzata a garantire la sicurezza degli edifici e l'ordinato, armonico sviluppo edilizio del territorio (cfr.: Tar Molise I, 21.10.2011 n. 624).
IV - I motivi del ricorso e i motivi aggiunti sono, dunque, destituiti di fondamento.
La tettoia, assentita con la concessione edilizia del 1997, è in realtà un locale chiuso. Trattandosi di struttura ancorata alla muratura dell’edificio, essa non può sottrarsi alle verifiche antisismiche, di guisa che la mancanza del deposito strutturale è valida motivazione per sospendere i lavori e ordinare il ripristino. Non risulta assolto l’onere di depositare il progetto esecutivo alla Sezione “Comuni sismici” della Regione Molise – previsto dall’art. 7 della L.R. n. 20/1996 per tutti i lavori di costruzione (e questo è un lavoro di costruzione!) e persino per le semplici riparazioni.
Invero, la legge n. 64/1974, in materia di particolari prescrizioni per costruzioni in zone sismiche, non si riferisce al concetto di nuova costruzione, ma a quello di realizzazione di una qualsiasi opera in zona sismica, risultando, detto concetto, del tutto indifferente e autonomo rispetto ad altre classificazioni valevoli nella disciplina edilizia, tale da essere tendenzialmente omnicomprensivo di tutte le vicende in cui venga in questione la realizzazione di una costruzione (cfr.: Cons. Stato IV, 12.06.2009 n. 3706).
Inoltre, le prescrizioni della Soprintendenza –di cui alla nota del 22.06.1996- condizionano l’assenso edilizio alla sostituzione del materiale cementizio con componenti in legno, sennonché i pilastri della tettoia poggiano ancora su vistosi basamenti in cemento. Tale elemento di sostanziale difformità sarebbe, di per sé, sufficiente a giustificare la misura ripristinatoria, di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 (cfr.: Cons. Stato VI, 30.04.2014 n. 2821).
Il mancato preavviso procedimentale non costituisce vizio di legittimità, atteso che, in ragione del carattere vincolato dell'atto, non occorre alcun avviso di avvio del procedimento per gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione della costruzione abusiva; non vi è, nella specie, la violazione dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990 (cfr.: Cons. Stato VI, 01.10.2014 n. 4878) (TAR Molise, sentenza 18.12.2014 n. 711 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADISTANZE LEGALI/ Senza un parapetto non c’è la «veduta».
Non comporta alcuna violazione delle distanze legali trasformare il solaio in un terrazzo senza parapetto poiché l’opera non costituisce «nuova veduta».

Questo il principio applicato dalla Corte di Cassazione, sentenza 10.12.2014 n. 26049, con la quale ha accolto parzialmente il ricorso dei proprietari di un immobile (una villetta dove era stata realizzata l’opera), parte di un più ampio complesso edilizio, ribaltando la sentenza della Corte d’Appello la quale aveva ritenuto che la semplice trasformazione di un solaio impraticabile in terrazzo, fosse di per sé sufficiente a integrare una veduta sulla proprietà del vicino, considerando irrilevanti sia la mancanza del parapetto sul lato a confine con il fondo, sia la presenza, sullo stesso lato, di una recinzione o siepe removibile in qualsiasi momento.
La Cassazione, invece, ha applicato il principio generale secondo il quale affinché possano configurarsi gli estremi di una veduta è necessaria la possibilità di affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente e lateralmente, grazie alla presenza di un parapetto «che consenta l’esercizio di tali facoltà in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza» (articolo Il Sole 24 Ore del 13.01.2015).

EDILIZIA PRIVATA: SCIA in via telematica, senza leale collaborazione rigetto illegittimo. Il destinatario della pec deve informare il mittente incolpevole della difficoltà di aprire e visionare il file.
A fronte di una SCIA (Segnalazione certificata di inizio attività) presentata in via telematica, l’Amministrazione procedente è tenuta al rispetto delle regole che ordinariamente informano i rapporti con i privati, e, prima di tutte, del principio di leale collaborazione.
Infatti la posta elettronica certificata (Pec), “quale tecnologia telematica, è strumento con il quale i privati possono relazionarsi con la pubblica Amministrazione (articolo 3 D.Lgs. n. 82/2005); la trasmissione a mezzo pec equivale a notificazione a mezzo posta (articolo 48 D.Lgs. n. 82/2005); se rispondenti ai requisiti formali normativamente fissati, le istanze e dichiarazioni inviate alla pubblica Amministrazione in via telematica equivalgono a quelle presentate su supporto cartaceo con sottoscrizione autografa (articolo 65 D.Lgs. n. 82/2005)”.

Lo ha evidenziato il TAR Friuli Venezia Giulia con la sentenza 03.12.2014 n. 610.
LA VICENDA. Nel caso affrontato dai giudici amministrativi del Friuli, la società Telecom Italia aveva presentato a mezzo pec una SCIA per la modifica di un proprio impianto fisso per la telefonia mobile nel Comune di Pocenia.
È però intervenuto il divieto comunale di prosecuzione dell’attività oggetto di SCIA, disposto per una serie di ragioni, tra le quali il fatto che uno dei file digitali contenenti la documentazione allegata alla segnalazione non risultava apribile e quindi visionabile.
IL DESTINATARIO DELLA PEC DEVE INFORMARE IL MITTENTE DELLA DIFFICOLTÀ DI VISIONARE IL FILE. Nella sentenza, il Tar Friuli osserva che “Nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della pec e di consegna della stessa nella casella del destinatario si determina una presunzione di conoscenza della comunicazione da parte del destinatario analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall’articolo 1335 Cod. civ.. Spetta la destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all’utilizzo dello strumento telematico, pure ammesso dalla legge”.
Nel caso esaminato, “il Comune non ha nemmeno prospettato che la mancata apertura dei file contenenti la documentazione allegati alla SCIA dipendesse da una scelta deliberata delle segnalanti: ne consegue che era suo dovere rappresentare agli interessati la circostanza, fissando un termine per ovviare al problema, con l’avvertimento che il mancato tempestivo adempimento dell’incombente avrebbe determinato l’esercizio dei poteri inibitori nel termine di cui all’articolo 87-bis D.Lgs. n. 259/2003. A ben guardare –concludono i giudici amministrativi- non si trattava nemmeno di chiedere un’integrazione documentale, perché nel caso di specie il documento era stato inviato, ma di sollecitare, nell’interesse delle stesse segnalanti, una riproduzione dello stesso in un formato visionabile dall’Amministrazione
(commento tratto da www.casaeclima.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'abusiva realizzazione di un torrino di ascensore (funzionale a consentire il prolungamento della corsa sino all’ultimo piano) in zona paesaggisticamente vincolata acquisisce la qualifica di un vano tecnico sicché lo stesso rientra tra quelli suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica ai sensi dell’art. 167, comma 4, lettera a).
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Non può essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione, che addebita ancora alla sentenza del TAR la pretesa di riscontrare la corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica sulla base della fallace nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione alcuna.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991; art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili, quali sono in genere gli accessori e per l’appunto la colonna ascensore.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di Stato, “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità del vano corsa dell’ascensore: per modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle reali dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato.
... per la riforma della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZIONE VII n. 1748/2009, resa tra le parti, concernente accertamento compatibilità paesistica di opere realizzate in difformità dal permesso di costruire.
...
1.- Risulta dalla sentenza appellata che la Soprintendenza dichiarò improcedibile l’istanza della signora S.R., ricorrente originaria, volta all’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica della realizzazione, in difformità dal permesso di costruire rilasciato per l’installazione dell’ascensore condominiale, di un torrino, funzionale a consentire il prolungamento della corsa sino all’ultimo piano.
Il provvedimento è fondato sulla motivazione che le opere “hanno comportato anche la realizzazione di volume ex novo, con conseguente incremento di volumetria legittima…in contrasto con il citato art. 167, lettere a) e c)” del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli ha accolto il ricorso dell’interessata, rilevando nel realizzato torrino di ascensore la qualifica di un vano tecnico sicché erroneamente la Soprintendenza avrebbe ritenuto che l’intervento non rientra tra quelli suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica ai sensi dell’art. 167, comma 4, lettera a).
Con l’atto di appello, strutturato su un unico motivo di gravame, l’Amministrazione critica la sentenza per l’asserita natura nell’opera di volume tecnico, per l’interpretazione teleologica in assimilazione di nozioni urbanistiche nel diverso contesto dei valori paesaggistici, per la differenza sostanziale tra impatto urbanistico e impatto paesaggistico, per la violazione della discrezionalità propria della Soprintendenza nella valutazione della richiesta di compatibilità paesaggistica in sanatoria.
L’appellata resiste e con la memoria di costituzione richiama altra fattispecie (aumento esterno della falda di 25 cm) dove la stessa Soprintendenza aveva sostenuto che, in quanto volume tecnico, esulasse dal limite alla sanabilità ex post introdotto dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 (Tar Napoli, sentenza n. 9328 del 2007).
All’udienza del 10.06.2014 la causa è stata introitata per la decisione.
2.- L’appello va respinto perché infondato e la sentenza va confermata.
In linea preliminare occorre muovere dalla rilevazione del contenuto dell’art. 167 (Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria) d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il cui comma 4 prevede che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei casi indicati (per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380); il comma 5 consente al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 di presentare apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi che, qualora venga accertata, comporta il pagamento di una indennità pecuniaria equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.
Come ben considerato dal primo giudice, la Soprintendenza ha indebitamente dichiarato improcedibile l'istanza di accertamento della compatibilità paesistica, evidenziando in motivazione che le opere non rientrano nella casistica prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c), del decreto legislativo n. 42 del 2004, perché: "hanno comportato anche la realizzazione di volume ex novo, con conseguente incremento della volumetria legittima".
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il il linguaggio e i parametri che, seppure incongruamente rispetto al contesto, usa l’art. 167– il torrino di cui si verte sia un volume tecnico, perché servente all’ascensore.
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua valutazione in concreto e postuma di compatibilità paesaggistica (in quanto, al contrario, rientrantevi perché accessivo a quelle stesse categorie). Sarebbe stato cioè necessario, data la natura di volume tecnico, procedere a un concreto accertamento di compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e concreta rispetto ai valori tutelati.
3.- Non può dunque essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione, che addebita ancora alla sentenza la pretesa di riscontrare la corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica sulla base della fallace nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione alcuna.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991; art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili, quali sono in genere gli accessori e per l’appunto la colonna ascensore.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità del vano corsa dell’ascensore: per modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle reali dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato.
4.- In conclusione, l’appello va respinto, con conferma della sentenza gravata, risultando la criticata valutazione della Soprintendenza illegittima (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.12.2014 n. 5932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’iter pre-gara non è pubblico. Consiglio di Stato. Va tutelato il segreto sui concorrenti ammessi.
L’intera fase di prequalifica della procedura di gara che serve ad aprire ed esaminare le domande di partecipazione delle ditte concorrenti e la documentazione amministrativa relativa ai loro requisiti di partecipazione non può avvenire in seduta pubblica. Con le operazioni aperte, infatti, ogni candidato verrebbe a conoscenza degli ammessi violando così il principio di segretezza dei concorrenti.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 24.11.2014 n. 5789.
I giudici hanno dato ragione a una federazione sovrazionale deputata da una Regione alla gestione del Servizio sanitario regionale che, per conto di cinque aziende sanitarie locali, aveva affidato un servizio di ossigenazione domiciliare con una procedura ristretta che si era tenuta in forma riservata durante le operazioni di apertura delle buste come prescritto dal Codice degli appalti (Dlgs 163/2006).
Secondo il collegio, la gara è regolare e non vi è stata alcuna violazione dei principi di pubblicità, trasparenza, imparzialità e parità di trattamento in quanto nelle procedure ristrette -sistema di selezione utilizzato quando il contratto non ha per oggetto la sola esecuzione o il criterio di aggiudicazione è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa come nel caso di specie- tale fase «non deve essere assistita da pubblicità, restando, invero, differito l’accesso documentale all’elenco delle ditte che hanno segnalato l’interesse a partecipare al concorso fino alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte» (articolo 13, comma 2, lettera b, del Codice).
In particolare «ogni precedente conoscenza degli atti di gara e, in particolare dell’elenco dei concorrenti ammessi a presentare offerta, vanificherebbe la norma garante del corretto dispiegarsi del confronto concorrenziale, esponendo inoltre i responsabili del procedimento a sanzione».
Esclusi i casi di appalti segretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, la regola del diritto d’accesso differito fissata dal Codice è valida anche per le procedure negoziate e ogni ipotesi di gara informale per l’elenco dei soggetti invitati a presentare offerte, di coloro che le hanno presentate o hanno fatto richiesta di invito, oltre a chi vi ha mostrato interesse.
Inoltre, sempre a detta dei giudici, con un bando che, come quello in esame, ha previsto di procedere in forma accelerata per scegliere il contraente anche la «verifica del possesso in capo ai ricorrenti dei requisiti di ordine generale, di capacità tecnica, economica/finanziaria ed altro, non trova sostegno nella disciplina di gara ispirata ai principi di economicità, efficacia e tempestività» (articolo 2, comma 1, del Codice)
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.01.2015).

EDILIZIA PRIVATAAffinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su di una strada realizzata in area privata occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della Pubblica amministrazione.
Del resto, è noto che l'adibizione ad uso pubblico di una strada (o comunque di un'area) può anche avvenire mediante la c.d. dicatio ad patriam, per effetto del comportamento del proprietario che metta il bene a disposizione dei cittadini, oppure con l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata protratto per lungo tempo, di guisa che il bene stesso venga ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale.

4. Né può rilevare il fatto che la strada di proprietà privata di accesso alla c.da S. Antonio sia senza uscita, atteso che anche un mero cortile (cfr. Tar Sicilia, Palermo, sent. n. 2700 del 12.11.2003), se aperto al pubblico ed al traffico automobilistico indifferenziato dà luogo ad un "uso pubblico" (art. 2 cod. str.) tale da giustificare l'intervento dell'Amministrazione; e nella fattispecie, come già detto, sussiste la prova, ex art. 2700 cod. civ., che detta strada: è stata asfaltata dal Comune; immette in un tratto viario che a sua volta incrocia, dopo qualche decina di metri, una "via comunale"; è manutenzionata dal Comune medesimo ed è servita di tutti i servizi pubblici necessari per l'abitabilità e/o agibilità degli immobili prospicienti.
Peraltro la collocazione della numerazione civica, risulta già in una attestazione del Sindaco di Messina datata 19.03.1990 e resa in relazione alla costruzione di un fabbrica da parte di tale C.F. (cfr. all. 6 della produzione del controinteressato cit.); verosimilmente il medesimo ricorrente di cui alla sent. della Corte di Cassaz. n. 7573/2012 cit..
Di rilievo appare, poi, la circostanza che i ricorrenti non deducono, né tanto meno provano, che il libero accesso alla strada/cortile de qua, mediante autovetture, sia in effetti impedito (mediante apposti accorgimenti: quali cancelli, recinzioni, barre di accesso, servizio di guardiania … ecc.); e quindi sia consentito ai soli proprietari degli immobili prospicienti sulla strada stessa.
E' da ritenere, quindi, alla stregua degli atti di causa, che qualsiasi cittadino possa di fatto accedere liberamente alla strada/cortile in argomento, a piedi o con automezzi, e che parimenti possa uscirne per immettersi nella viabilità comunale ("via Comunale" o "via Paolo la Badessa"); in un'area, peraltro, caratterizzata da una forte pendenza, nei pressi del ripido ed ampio torrente S. Filippo. E ciò è sufficiente per ritenere che il tratto viario per cui è causa abbia in effetti una funzione di libero collegamento dell'area in questione con le pubbliche vie circostanti e sia destinato al transito di un numero indifferenziato di persone uti cives, e non uti singuli.
Come da tempo enunciato dalla giurisprudenza amministrativa affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su di una strada realizzata in area privata occorre che essa: a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della Pubblica amministrazione (cfr. tra le tante Cons. Stato Sez. VI sent. n. 2544 del 10.05.2013 che conferma TAR Toscana, 29.07.2008 n. 1834).
Del resto, è noto che l'adibizione ad uso pubblico di una strada (o comunque di un'area) può anche avvenire mediante la c.d. dicatio ad patriam, per effetto del comportamento del proprietario che metta il bene a disposizione dei cittadini, oppure con l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata protratto per lungo tempo, di guisa che il bene stesso venga ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (cfr. Cons. Stato Sez. IV sent. n. 3531 del 15.06.2012, che annulla TAR Lazio, 06.08.2009 n. 7932; Cons. di Stato, Sez. I, parere n. 4361 dell'11.07.2011) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 06.11.2014 n. 2912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Sulla possibilità di fallimento delle società pubbliche.
E' di interpretazione autentica la norma di cui al D.L. n. 95/2012, conv. in L. 135/2012, che ha dettato in materia di società a partecipazione pubblica una disposizione di generale rinvio alla disciplina codicistica delle società di capitali.

Il fallimento delle società pubbliche, cui sia affidata l'erogazione di servizi pubblici, non presenta alcuna interferenza con la titolarità del servizio, perché, anche quando la società partecipata gestisce un servizio pubblico, non è mai titolare di quel servizio, ma semplice affidataria ad opera dell'ente pubblico socio affidante e, pertanto, l'applicazione dello statuto dell'imprenditore, ivi compresa la dichiarazione di fallimento, non determina alcuna ingerenza dell'autorità giudiziaria nell'attività della pubblica amministrazione né impedisce l'esecuzione di un servizio necessario alla collettività.
Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica.
Ciò che rileva nel nostro ordinamento, ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale, non è il tipo di attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato, cui sia affidata la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale, sarebbero esentate dal fallimento". Insomma, la società a partecipazione pubblica è una (delle) modalità di gestione del servizio pubblico, pur non essendone titolare.
E', infatti, compito dell'ente pubblico titolare degli interessi pubblici, nell'ipotesi di decozione, trovare una soluzione alternativa al loro soddisfacimento, mediante gestione del servizio in altra forma o riassegnazione ad altro soggetto, mentre agli organi del fallimento spetta la liquidazione delle attività fallimentari, nel rispetto dei limiti generalmente stabiliti dalla legge, al fine di assicurare la continuità del servizio pubblico.
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Il D.L. n. 95/2012, convertito in L. 135/2012, ha dettato, in materia di società a partecipazione pubblica, una norma di generale rinvio alla disciplina codicistica delle società di capitali, precisando che: "Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali" (art. 4, c. 13).
Dalla lettura del Dossier del Servizio Studi del Senato, n. 32 del luglio 2012 n. 39 e del parere del Comitato per la legislazione del Senato sul disegno di legge n. 5389, si ricava la volontà del legislatore di attribuire alla norma in questione natura di norma di interpretazione autentica, "al fine di imprimere un indirizzo di cautela verso un processo di progressiva entificazione pubblica di tali società, valorizzando la forma privata societaria e la disciplina comune dell'attività rispetto alla sostanza pubblica del soggetto e della funzione" (TRIBUNALE di Palermo, Sez. fallimentare, sentenza 24.10.2014 n. 187 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.01.2015

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Niente ennesima proroga: dal 1° gennaio 2015 (anche) l'Ufficio Tecnico Comunale deve essere gestito in forma associata!!

     Già con l'AGGIORNAMENTO AL 17.11.2014 davamo risalto alla notizia che verosimilmente non ci sarebbe stata l'ennesima proroga del termine (31.12.2014) entro cui, appunto, gestire in forma associata anche l'U.T.C. ... e così è stato. Infatti, nel tradizionale D.L. di fine anno c.d. "milleproroghe", non v'è traccia.

QUINDI??

     Quindi, i comuni aventi meno di 5.000 abitanti (tranne le poche eccezioni di legge) che non abbiano provveduto per tempo (entro il 31.12.2014) a completare gli atti per lo svolgimento associato di tutte le funzioni obbligatorie si vedranno recapitare, a breve, la diffida del Prefetto che assegna agli stessi un termine perentorio per l'ottemperanza, decorso il quale opera l'azione sostitutiva del Governo, ai sensi dell'art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. legge la loggia).
     Invero, la norma di riferimento (art. 14, commi 31-ter e 31-quater, della Legge 30.07.2010 n. 122) così recita:


31-ter. I comuni interessati assicurano l’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo:
(comma introdotto dall'art. 19, comma 1, lettera e), legge n. 135 del 2012)

a) entro il 1° gennaio 2013 con riguardo ad almeno tre delle funzioni fondamentali di cui al comma 28;
b) entro il 30 settembre 2014, con riguardo ad ulteriori tre delle funzioni fondamentali di cui al comma 27;
(termine differito dall'art. 23, comma 1-quinquies, legge n. 114 del 2014)

b-bis) entro il 31 dicembre 2014, con riguardo alle restanti funzioni fondamentali di cui al comma 27.
(lettera b) così sostituita e lettera b-bis, così introdotta dall'art. 1, comma 530, legge n. 147 del 2013)

31-quater. In caso di decorso dei termini di cui al comma 31-ter, il prefetto assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso inutilmente detto termine, trova applicazione l'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131.
(comma introdotto dall'art. 19, comma 1, lettera e), legge n. 135 del 2012)
 

     Al di là di riproporre qui gli interrogativi già posti nel suddetto precedente aggiornamento ce n'è un altro ben più di sostanza: se dal 1° gennaio 2015 relativamente all'U.T.C. (per esempio) ci sono ancora tre P.O. (cui è attribuita la retribuzione di posizione) in tre comuni di 4.500 abitanti ciascuno (anziché solamente una ... il minimo da raggiungere è pari a 10.000 abitanti, salva diversa disposizione regionale), e costatata la colposa e/o dolosa inerzia nell'ottemperare ad un precetto di legge, chi sarà chiamato a rispondere di danno erariale?? La Procura regionale della Corte dei Conti già pregusta, da lontano, l'inebriante "profumo di carne abbrustolita" ...
13.01.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATANell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica il parere vincolante della Soprintendenza deve essere puntualmente e congruamente motivato e, in caso esso sia negativo, deve esplicitare le effettive ragioni di contrasto tra l’intervento progettato ed i valori paesaggistici dei luoghi compendiati nel decreto di vincolo.
Il parere deve inoltre indicare quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe fare conseguire all’interessato l’autorizzazione paesaggistica, in quanto la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio.
Nella ipotesi in cui la sicurezza dei luoghi renda inevitabile, per la stessa Sovrintendenza, interventi costosi di contenimento, ai quali normalmente non può un comune proprietario farsi carico, tale attività collaborativa è maggiormente doverosa, al fine di perseguire l’obiettivo di un progetto che, nel rispetto dei valori estetici e storici, consenta al proprietario di intervenire realizzando un progetto che consenta la utilizzazione migliore e più fruttuosa del bene vincolato.
Se quindi è evidente che in ogni vicenda analoga i rapporti tra il privato la cui titolarità sia limitata dal vincolo e la Soprintendenza, che valuta l’interesse pubblico e della collettività alla tutela e fruizione del bene vincolato, debbano essere ispirati a canoni di comportamento di correttezza e lealtà procedimentale, tali obblighi sono ispessiti quando la situazione di ammaloramento del bene richieda interventi, come nella specie, di grande rilevanza economica, ai quali la parte privata, normalmente, non possa fare fronte senza ricorrere a progetti che consentano una valorizzazione economica del bene stesso.

Nel merito, è fondato l’appello proposto dall’amministrazione.
E’ vero che nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica il parere vincolante della Soprintendenza deve essere puntualmente e congruamente motivato e, in caso esso sia negativo, deve esplicitare le effettive ragioni di contrasto tra l’intervento progettato ed i valori paesaggistici dei luoghi compendiati nel decreto di vincolo.
Il parere deve inoltre indicare quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe fare conseguire all’interessato l’autorizzazione paesaggistica, in quanto la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio (così, tra varie, Cons. Stato, VI, 24.03.2014, n. 1418).
Nella ipotesi in cui la sicurezza dei luoghi renda inevitabile, per la stessa Sovrintendenza, interventi costosi di contenimento, ai quali normalmente non può un comune proprietario farsi carico, tale attività collaborativa è maggiormente doverosa, al fine di perseguire l’obiettivo di un progetto che, nel rispetto dei valori estetici e storici, consenta al proprietario di intervenire realizzando un progetto che consenta la utilizzazione migliore e più fruttuosa del bene vincolato.
Se quindi è evidente che in ogni vicenda analoga i rapporti tra il privato la cui titolarità sia limitata dal vincolo e la Soprintendenza, che valuta l’interesse pubblico e della collettività alla tutela e fruizione del bene vincolato, debbano essere ispirati a canoni di comportamento di correttezza e lealtà procedimentale, tali obblighi sono ispessiti quando la situazione di ammaloramento del bene richieda interventi, come nella specie, di grande rilevanza economica, ai quali la parte privata, normalmente, non possa fare fronte senza ricorrere a progetti che consentano una valorizzazione economica del bene stesso.
Se quindi può pensarsi ad uno speciale dovere di motivazione (su tale dovere speciale, da ultimo, Cons. Stato, VI, 24.03.2014, n. 1418), attesa la particolarità della fattispecie, va valutato se in concreto tale obbligo sia stato rispettato.
Le ragioni del diniego, evincibili in sostanza dall’atto del 14.02.2012 e dalla relazione del 22.05.2012 erano, evitando di riportare i passaggi di ricostruzione storico-descrittiva del bene vincolato, i seguenti:
a) la realizzazione del parcheggio “manometterebbe l’area di sedime del giardino vincolato contiguo al fabbricato”; giardino che “qualora fosse interessato dalle operazioni di scavo, sarebbe irrimediabilmente compromesso venendo alterate anche le caratteristiche idrologiche e fisico-chimiche dello strato di terreno posto sotto il substrato, comunque connesso alle piante”;
b) la futura effettuazione di ulteriori scavi archeologici, “comporterebbe gravi alterazioni non compatibili con la conservazione delle valenze paesaggistiche del bene sottoposto a vincolo”;
c) la realizzazione del parcheggio necessiterebbe di “opere di così evidente impatto sul sistema strutturale, a stretto contatto con le opere di fondazione del Casino che potrebbe, durante l’esecuzione di perforazioni e scavi, per quanto eseguiti con tecnologie avanzate, compromettere l’equilibrio dell’edificio e di tutti i suoi aspetti decorativi”;
d) “l’indispensabile progetto di consolidamento del Casino, per quanto ne garantisca la conservazione, ne snaturerebbe completamente i contenuti incidendo sulle tecniche e materiali originari e quindi non compatibile con la tutela dell’immobile sottoposto a vincolo monumentale”;
e) la “destinazione a parcheggio, con le sue relative conseguenze di uso, andrebbe a configurarsi come elemento avulso rispetto alle valenze naturalistiche proprie del sito con modificazioni nella natura e sedimentazione del sottosuolo creando una cesura nella continuità della stratificazione dei luoghi con conseguente modifica della consistenza del soprassuolo non più insistente sulla superficie naturale ma irreversibilmente separato dal substrato che ne ha generato e caratterizzato per secoli la configurazione”; essa “snaturerebbe l’equilibrato rapporto tra la residenza con giardino e l’area attualmente destinata a pertinenza-servizio (garage): si determinerebbe infatti un rovesciamento di tale rapporto, trasformando il bene preminentemente in un’area di parcheggio con annessa residenza”;
f) sarebbe “non compatibile con i criteri della tutela monumentale la modifica proposta nel prospetto delle mura ottocentesche della villa, sulla via Ludovisi, là dove sarebbe previsto l’accesso al parcheggio; la stessa valutazione valga per l’inserimento delle griglie di areazione, in quanto esse altererebbero l’armonia di un unicum storico e architettonico esistente da più di due secoli e sottoposto integralmente a vincolo”;
g) il progetto proposto “non sembra poter risolvere i problemi statici che interessano il Casino dell’Aurora, poiché la palificata perimetrale proposta potrebbe solo isolare l’area di sedime della Villa dal grande scavo del sottosuolo, senza arrecare adeguati benefici alla consistenza del terreno e dunque senza assicurare l’opera di consolidamento della struttura, ritenuta necessaria dalla Scrivente”.
In sintesi, il diniego motiva sulla base delle seguenti e numerose ragioni che si contrappongono, per esigenze di tutela, alla trasformazione proposta del bene vincolato:
a) compromissione idrogeologica e fisico-chimica che deriverebbe al terreno sottostante le piante a seguito degli scavi;
b) compromissione del bene vincolato che deriverebbe da futuri scavi archeologici;
c) impatto del parcheggio sul sistema strutturale a stretto contatto con le opere di fondazione del Casino dell’Aurora, con possibile compromissione della parte decorativa a seguito di scavi e perforazioni;
d) il proposto progetto (che naturalmente contiene insito il necessario, d’altro canto, consolidamento) snaturerebbe, per tecniche e materiali, la natura originaria e sarebbe incompatibile con il vincolo monumentale;
e) la destinazione a parcheggio e il suo uso sarebbero avulsi dal contesto, snaturerebbero il sottosuolo, modificando la configurazione che esiste da secoli (il rapporto tra soprassuolo e substrato);
f) verrebbe snaturato l’equilibrio tra residenza a giardino e area già ora destinata a pertinenza-garage, trasformandola quest’ultima in area preminente;
g) incompatibilità della trasformazione delle mura ottocentesche sulla via Ludovisi, laddove si prevederebbe l’accesso al parcheggio;
h) incompatibilità delle griglie di areazione (che, tuttavia, sostiene la parte appellata, potrebbero scomparire)alterando l’unicum storico ed architettonico esistente da più di due secoli;
i) non risoluzione dei problemi statica che interessano il Casino dell’Aurora.
Pertanto, in disparte la loro limitata sindacabilità, se, nell’ambito dell’esaminato procedimento, il parere negativo deve essere puntualmente motivato (in tal senso, da ultimo, tra varie, Cons. Stato, VI, 24.03.2014, n. 1418) esplicitando le effettive ragioni di contrasto tra l’intervento progettato ed i valori paesaggistici dei luoghi vincolati, non può ritenersi che, nella specie, tale puntuale motivazione faccia difetto.
In più, rispetto alla asserita contraddittorietà che il primo giudice aveva ravvisato tra il diniego e la riconosciuta (da tutte le parti) esigenza di consolidamento statico dell’edificio, va rilevato come invece il diniego abbia espresso puntuali considerazioni sull’opera di consolidamento (necessaria), che tuttavia il progetto proposto non risolverebbe nel modo adeguato (si veda l’ultimo punto, sub f) sopra richiamato) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.12.2014 n. 6149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' da escludere che le motivazioni addotte dalla soprintendenza a sostegno dell’avversato parere negativo possano sfuggire al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, laddove le stesse risultino inficiate dalla violazione dell'obbligo di motivazione di cui all'art. 3 della legge n. 241 del 1990, attesa la natura soltanto apparente della motivazione del parere negativo, reso peraltro in esito ad integrazioni e chiarimenti della parte proponente l’intervento, funzionali al superamento delle criticità evidenziate dalla stessa soprintendenza.
Nel merito, anche questo Collegio è persuaso che il parere (negativo) conclusivo espresso dalla competente soprintendenza appaia per più profili apodittico nella misura in cui lo stesso non esplicita le effettive ragioni di contrasto tra l’intervento di recupero del vecchio fabbricato (preesistente alla imposizione del vincolo ed oggi in cattivo stato manutentivo) ed i valori paesaggistici dei luoghi compendiati nel decreto di vincolo.

--------------
Ciò che dal parere negativo della soprintendenza non si ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all’interessata l’autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l’area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l’intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio.
6.- Osserva il Collegio che la tesi difensiva della amministrazione appellante non appare condivisibile.
Anzitutto è da escludere che le motivazioni addotte dalla soprintendenza a sostegno dell’avversato parere negativo possano sfuggire al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, laddove le stesse risultino inficiate, come dedotto in ricorso, dalla violazione dell'obbligo di motivazione di cui all'art. 3 della legge n. 241 del 1990, attesa la natura soltanto apparente della motivazione del parere negativo, reso peraltro in esito ad integrazioni e chiarimenti della parte proponente l’intervento, funzionali al superamento delle criticità evidenziate dalla stessa soprintendenza.
Nel merito, anche questo Collegio è persuaso che il parere conclusivo espresso dalla competente soprintendenza appaia per più profili apodittico nella misura in cui lo stesso non esplicita le effettive ragioni di contrasto tra l’intervento di recupero del vecchio fabbricato (preesistente alla imposizione del vincolo ed oggi in cattivo stato manutentivo) ed i valori paesaggistici dei luoghi compendiati nel decreto di vincolo.
Vi si legge, ad esempio, che l’intervento produce pregiudizio e compromissione agli elementi specifici del paesaggio tutelato e dichiarato con decreto del 26.03.1955, ma non si indicano in concreto quali profili del progettato intervento arrechino pregiudizio agli specifici valori dei luoghi oggetto di tutela paesaggistica.
Del pari sfuggente appare il riferimento, contenuto nel parere del Soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici del 20.12.2012, alla asserita alterazione della percezione consolidata dell’immobile e alle sue caratteristiche intrinseche, posto che la riconversione di una vecchia casa colonica a finalità turistico-ricettive, ove consentita dalla disciplina urbanistica, non può che comportare una naturale alterazione delle caratteristiche intrinseche del fabbricato (senza con ciò che ne risulti necessariamente compromessa la sua “percezione consolidata”).
Tuttavia, non dovrebbe essere questo, nel caso qui dato, il valore presidiato dal decreto di vincolo, né questa l’area riservata alle valutazioni dell’autorità preposta alla tutela paesaggistica, dovendo piuttosto l’esame appuntarsi sui tratti esteriori dell’edificio per verificare se e come, all’esito dell’intervento di recupero, il fabbricato possa risultare adeguatamente inserito nella cornice ambientale circostante, e tanto anche in comparazione –come correttamente rilevato dal giudice di primo grado- alla percezione estetica che dello stesso possa trarsi nell’attualità, nelle condizioni di degrado in cui versa l’immobile.
Ciò che dal parere negativo della soprintendenza marchigiana non si ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all’interessata l’autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l’area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l’intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio.
Dalla lettura degli atti recanti il parere negativo in primo grado impugnato non si evince da ultimo se le attuali ragioni ostative possano essere superate con la ripresentazione di un progetto che, ferme restando le connotazioni plano-volumetriche attuali dell’immobile ed escluso lo sbancamento del sottosuolo per la realizzazione dei locali interrati, valorizzi l’uso di materiali della tradizione locale, come ad esempio il rifacimento dell’intonaco esterno nelle tinte naturali con malte di natura non cementizia, ovvero l’apposizione di infissi in legno o l’uso dei coppi in terra cotta per la copertura dei tetti; sono, infatti, proprio tali accorgimenti tecnici esteriori, che ben potrebbe la competente soprintendenza prescrivere con maggior competenza e compiutezza di quanto non possa farsi in questa sede, che incidono più di ogni altra cosa sulla percezione esteriore di un immobile e ne determinano il suo corretto inserimento nel contesto paesaggistico circostante.
7.- In definitiva, il Collegio è persuaso che il parere negativo espresso dalla soprintendenza territoriale sul progetto di recupero edilizio proposto dalla odierna parte appellata non possa ritenersi immune dal dedotto vizio motivazionale, correttamente ritenuto sussistente dal Tar; né detto vizio può ritenersi emendato, stante la inconfigurabilità di una motivazione postuma del provvedimento, dalle pur pregnanti considerazioni contenute negli atti difensivi dalla appellante amministrazione e dagli enti intervenuti ad adiuvandum a proposito della incompatibilità dell’intervento edilizio proposto con i valori paesaggistici espressi dai luoghi contemplati dal Leopardi.
Per concludere, in esecuzione della presente sentenza, la competente soprintendenza provvederà a riattivare, in collaborazione con il Comune di Recanati e con spirito di leale interlocuzione con la parte privata, il procedimento funzionale alla formulazione del prescritto parere, facendo in modo di ben evidenziare l’iter logico della sua definitiva espressione di volontà in ordine all’intervento, nei limiti delle sue attribuzioni e con l’esplicita e dettagliata indicazione delle condizioni alla cui ricorrenza il parere di compatibilità paesaggistica potrà essere rilasciato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.03.2014 n. 1418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

VARI: FISCO E CASA: ACQUISTO E VENDITA (Agenzia delle Entrate, dicembre 2014).

VARI: FISCO E CASA: LE LOCAZIONI (Agenzia delle Entrate, novembre 2014).

GURI - GUEE - BURL (e anteprima)

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: G.U. 12.01.2015 n. 8 "Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici nonché di formazione e conservazione dei documenti informatici delle pubbliche amministrazioni ai sensi degli articoli 20, 22, 23-bis, 23-ter, 40, comma 1, 41, e 71, comma 1, del Codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005" (D.P.C.M. 13.11.2014).

ENTI LOCALI: G.U. 08.01.2015 n. 5 "Regolamento recante modalità di attuazione e di funzionamento dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente (ANPR) e di definizione del piano per il graduale subentro dell’ANPR alle anagrafi della popolazione residente" (D.P.C.M. 10.11.2014 n. 194).

APPALTI: G.U. 07.01.2015 n. 4 "Regolamento recante disposizioni concernenti le modalità di funzionamento, accesso, consultazione e collegamento con il CED, di cui all’articolo 8 della legge 01.04.1981, n. 121, della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, istituita ai sensi dell’articolo 96 del decreto legislativo 06.09.2011, n. 159" (D.P.C.M. 30.10.2014 n. 193).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 31.12.2014 n. 302 "Proroga di termini previsti da disposizioni legislative" (D.L. 31.12.2014 n. 192).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 30.12.2014 n. 301 "Adeguamento dei requisiti di accesso al pensionamento agli incrementi della speranza di vita" (Ragioneria Generale dello Stato, decreto 16.12.2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Gavioli, Milleproroghe 2015: novità in materia di appalti pubblici (07.01.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Nozione di consumo di suolo e linee di indirizzo della pianificazione comunale nella L.R. Lombardia n. 31/2014 (04.01.2015 - link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, L.R. Lombardia 28.11.2014, n. 31: tabella degli adempimenti (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato) (02.01.2015 - link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: Iva – Semplificazioni edilizie DL 133/2014 (Decreto Sblocca Italia) - Vendita di fabbricato oggetto di intervento edilizio di frazionamento e di modifica di destinazione d’uso: Iva o Registro? (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 13-14.11.2014 n. 851-2014/T).
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Sommario: Introduzione 1. Il decreto Sblocca Italia: le novità in materia edilizia di rilevanza fiscale; 1.1. Considerazioni di sintesi; 2. Le soluzioni sul piano fiscale; 2.1. Modifica di destinazione d’uso; 2.1.1. Disciplina fiscale; 2.2. Frazionamento; 2.2.1. I casi ancora dubbi; Conclusioni.

INCARICHI PROFESSIONALI: Iscritti agli albi: prestazioni occasionali senza limiti di tempo e compenso e senza obbligo di partita IVA.
E’ stato pubblicato oggi sul sito del Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri un importante documento dal titolo “Professionisti iscritti ad albi e prestazioni occasionali”. La nota offre una serie di chiarimenti su un aspetto molto importante dell’attività degli iscritti agli albi: la possibilità di svolgere prestazioni occasionali in concomitanza con un rapporto di lavoro dipendente.
Secondo l’analisi svolta dal Centro Studi, per i liberi professionisti iscritti all’albo che intendano espletare un lavoro occasionale, non sussiste il limite temporale entro cui effettuare la prestazione, il limite del compenso e l’obbligo della partita IVA previsto dalla legge. Si tratta di un’eccezione espressamente indicata dalla normativa che regola il lavoro occasionale oltre che un’interpretazione autentica fornita dal legislatore.
Sulla base di quanto stabilito dalla normativa vigente (in particolare il decreto legislativo 276/2003, art. 61) la “collaborazione occasionale” non deve avere durata superiore a 30 giorni e deve prevedere un compenso entro 5.000 euro. Ma la stessa normativa, poco oltre (al comma 3), chiarisce che i limiti imposti allo svolgimento della collaborazione occasionale, predisposti per evitare un abuso di tale forma contrattuale, vengono meno per i professionisti iscritti ad un albo professionale, poiché il rischio di abuso in questo caso non sussiste.
Il Centro Studi CNI, inoltre, riprendendo la normativa sottolinea come l’iscrizione ad un albo professionale non sia da considerarsi come elemento sufficiente a configurare la professione abituale di un’attività, assoggettabile quindi a regime Iva e non sottoponibile a regime di collaborazione occasionale (che, al contrario, non prevede l’apertura di partita Iva). Di conseguenza, l’iscritto all’albo che non esercita attività di lavoro autonomo (si tratterà pertanto di un iscritto che svolge lavoro dipendente), potrà effettuare attività di lavoro occasionale (cioè un lavoro svolto in proprio, senza vincolo di subordinazione con il committente) senza i limiti di tempo e di remunerazione imposti dalla normativa, oltre che senza disporre di partita Iva.
Il Centro Studi del CNI, infine, segnala l’importanza di questa semplificazione. Essa, infatti, risponde a dei criteri di ragionevolezza e, per molti versi, incentiva il lavoro. Da questo punto di vista e per la particolare fattispecie dei professionisti iscritti ad un albo, la normativa è molto chiara ed esplicita. Particolarmente rilevante è la possibilità di non disporre di partita IVA, purché ovviamente le attività svolte siano realmente occasionali ovvero abbiano il carattere dell’eventualità, della secondarietà e dell’episodicità. Resta fermo il principio che per lo svolgimento di lavoro occasionale con compensi superiori a 5.000 euro, i professionisti dovranno iscriversi alla gestione separata Inps per il relativo versamento dei contributi previdenziali (novembre 2014 - link a www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Sacchi, La gestione associata delle funzioni fondamentali dei comuni dopo la Legge Delrio (n. 56/2014) e il D.L. 90/2014 (tratto da www.gianlucabertagna.it - www.publika.it n. 59 - ottobre 2014).

EDILIZIA PRIVATA: Vendita forzata e attestato di prestazione energetica (alla luce delle recenti modifiche al D.Lgs. 192/2005 di cui al D.L. 04.06.2013, n. 63, convertito con L. 03.08.2013, n. 90 e di cui al D.L. 23.12.2013, n. 145 convertito in L. 21.02.2014, n. 9) (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 19-20.06.2014 n. 263-2014/C).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Rinnovo delle RSU. Elezioni del 03-05.03.2015. Chiarimenti circa lo svolgimento delle elezioni (ARAN, circolare 12.01.2015 n. 1/2015).

PUBBLICO IMPIEGO: La "lotta" alla corruzione e la figura del whisteblowing (CGIL-FP di Bergamo, nota 12.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Province: dipendenti in sovrannumero e blocco delle assunzioni nel pubblico impiego (CGIL-FP di Bergamo, nota 29.12.2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

VARI: Oggetto: Trasporto conto terzi: abolizione dell’obbligo di compilazione della scheda di trasporto (ANCE Bergamo, circolare 09.01.2015 n. 11).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: proroga dell’entrata in vigore delle sanzioni (ANCE Bergamo, circolare 09.01.2015 n. 9).

VARI: Oggetto: Canoni delle concessioni di acqua pubblica – ANNO 2015 (ANCE Bergamo, circolare 09.01.2015 n. 8).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Denuncia scarichi industriali in fognatura (ANCE Bergamo, circolare 09.01.2015 n. 7).

EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVOROOggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta a quesito relativo ai chiarimenti in merito all'applicazione del decreto interministeriale 18.04.2014 cosiddetto "decreto capannoni" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 31.12.2014 n. 26/2014).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Imposte sui redditi - Spese sostenute per la redazione di un atto di vincolo unilaterale - Art. 16-bis del TUIR - Istanza di interpello ex art. 11 della L. 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate, risoluzione 30.12.2014 n. 118/E).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - VARI: OGGETTO: Commento alle novità fiscali - Decreto legislativo 21.11.2014, n. 175. Primi chiarimenti (Agenzia delle Entrate, circolare 30.12.2014 n. 31/E).

SICUREZZA LAVOROOggetto: Istruzioni operative tecnico-organizzative per l'allestimento e la gestione delle opere temporanee e delle attrezzature da impiegare nella produzione e realizzazione di spettacoli musicali, cinematografici, teatrali e di manifestazioni fieristiche, alla luce del D.I. 22.07.2014 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 24.12.2014 n. 35).
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Decreto "Palchi": come garantire la sicurezza negli spettacoli.
Dettate dal Ministero del lavoro le istruzioni operative tecnico-organizzative per l'allestimento e la gestione delle opere temporanee e delle attrezzature da impiegare nella produzione e realizzazione di spettacoli musicali, cinematografici, teatrali e di manifestazioni fieristiche, alla luce del Decreto Interministeriale 22.07.2014, noto anche come "Decreto Palchi".
Sulla base di quanto previsto dal Decreto Interministeriale 22.07.2014 -cd. Decreto Palchi- il Ministero del lavoro ha rilasciato le istruzioni operative tecnico-organizzative per l'allestimento e la gestione delle opere temporanee e delle attrezzature da impiegare nella produzione e realizzazione di spettacoli musicali, cinematografici, teatrali e di manifestazioni fieristiche.
Per ciascuno dei settori indicati, il Ministero, passo dopo passo, individua e precisa il campo di applicazione del menzionato decreto mettendo in risalto gli specifici obblighi posti, in particolare, a carico del committente, proprietario/gestore del luogo per quanto concerne le misure di sicurezza) da garantire in occasione degli eventi indicati (ad es. per l'allestimento di palchi, tendaggi, tendistrutture, opere temporanee, lavori in quota etc.), la formazione specifica in materia di gestione degli impianti, situazioni di emergenza e di rischio e la redazione dei piani della sicurezza (individuazione dei contenuti minimi)
(commento tratto da www.ispoa.it).

ENTI LOCALI - VARI: OGGETTO: Consulenza giuridica – L’obbligo di tracciabilità previsto dall’articolo 25, comma 5, della legge 13.05.1999, n. 133, trova applicazione anche nei confronti delle associazioni senza fini di lucro e delle associazioni pro-loco (Agenzia delle Entrate, risoluzione 19.11.2014 n. 102/E).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Sul risarcimento al danno di immagine alla p.a. da parte di dipendenti assenteisti.
Il diritto al risarcimento del danno, nei giudizi di competenza della Corte dei Conti, è disciplinato dall’art. 1, c. 2, della legge n. 20 del 1994, in base al quale lo stesso “si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”.
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La giurisprudenza della Corte dei conti, pur avendo chiarito da tempo che l’occultamento non può coincidere, puramente e semplicemente, con la commissione (dolosa) del fatto dannoso, ma richiede un'ulteriore condotta indirizzata specificamente ad impedirne la conoscenza, ha tuttavia precisato che in talune fattispecie criminose, quale quella dedotta in cui i convenuti hanno posto in essere condotte finalizzate a dare una falsa rappresentazione della realtà –presenza in servizio-, la volontà di occultare il danno deve ritenersi in re ipsa, cioè insita nelle concrete modalità di svolgimento dei fatti, le quali implicano un obiettivo impedimento ad agire -di carattere giuridico e non di mero fatto-.
In tali casi l’inizio del termine di prescrizione è stato pacificamente individuato, non nel momento in cui il fatto viene meramente scoperto, ma allorché il danno stesso viene accertato in tutte le sue componenti, a seguito del provvedimento di rinvio a giudizio in sede penale, senza che alcun rilievo abbia la mera notizia del fatto.
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Non può revocarsi in dubbio che tutti i convenuti abbiano tenuto le contestate condotte assenteiste come pure il fatto che, nell’assentarsi arbitrariamente dal lavoro, gli stessi abbiano violato il fondamentale obbligo di servizio, rappresentato dal dovere di fornire la prestazione di lavoro secondo le condizioni previste dal rapporto di impiego intrattenuto con la propria amministrazione, cagionando alle pubbliche finanze un danno pari ai compensi da questa indebitamente erogati senza ricevere in cambio la corrispondente attività lavorativa.
Dette condotte risultano certamente caratterizzate dall’elemento soggettivo del dolo, atteso che l’abitualità e le descritte modalità con cui sono state poste in essere non possono non presupporre la piena consapevolezza e volontà di violare i propri doveri d’ufficio.
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In ordine alla voce di danno richiesta dalla Procura per la grave lesione all’immagine subita dall'Amministrazione in conseguenza dell’accertata fraudolenta condotta assenteista tenuta dai convenuti, la Sezione osserva anzitutto che il requirente ha posto a fondamento della propria pretesa risarcitoria l’art. 55-quinquies, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall’art. 69 del D.Lgs. 27.10.2009, n. 150, il quale statuisce che “Il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente,……….. ferme le responsabilità penali e disciplinari e le relative sanzioni è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno all'immagine subiti dall'amministrazione”.
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Nel vigente ordinamento il “danno all’immagine” ed “al prestigio” della Pubblica Amministrazione –riconducibile alla categoria del danno “non patrimoniale”, ex art. 2059 cod. civ.- consiste nella diminuita reputazione dell’ente presso i consociati, o presso una certa platea di consociati, conseguente alla lesione di diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione all’art. 2 e all’art. 97 per la “Pubblica Amministrazione” nel suo complesso.
La giurisprudenza della Corte di cassazione, a conclusione di un complesso percorso interpretativo, ha superato la concezione che individuava tale danno nella lesione dell’immagine in sé (danno evento), pervenendo ad una configurazione dello stesso come conseguenza della predetta lesione, rappresentata dalla diminuita considerazione che l’ente ha presso i consociati (danno conseguenza).
Tale danno risulta risarcibile “indipendentemente dal fatto che l’incidenza negativa sull’agire delle persone fisiche che rappresentano gli organi dell’ente abbia determinato un danno in senso economico, cioè un danno patrimoniale”; ed infatti, l’agire dell’ente con la consapevolezza di dover superare la negatività connessa alla lesione dell’immagine non potrà non risentirne in termini di efficacia, “onde -a prescindere da eventuali riflessi economici- tale conseguenza integra di per sé un danno non patrimoniale” .
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni di appello della Corte dei conti e del surriferito più recente orientamento della Corte di cassazione, le Sezioni Riunite di questa Corte hanno rivisitato tale figura di danno erariale, precisando che <<il danno all’immagine della Pubblica amministrazione …….. coincide non già con il fatto lesivo (in ipotesi di condotta di corruzione), ma con la lesione (perdita di prestigio), che costituisce una “conseguenza” (art. 1223 c.c.) del fatto lesivo>>.
In proposito osserva, tuttavia, la Sezione che, indipendentemente dalla configurazione del danno all’immagine -come danno-evento o come danno-conseguenza– attenendo tale pregiudizio ad un bene immateriale, la prova è, in ogni caso, eminentemente presuntiva, potendo costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, mentre la sua quantificazione va disposta in considerazione della concreta dimensione della lesione stessa, da valutare in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non essendo possibile l’esatta determinazione dell’ammontare di un danno di tale natura.
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In via pregiudiziale, deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione sollevata dal G. relativamente ai fatti dannosi verificatisi anteriormente al 03/04/2009, ossia al quinquennio precedente la notifica dell'invito a dedurre effettuata in data 03.04.2014.
L’eccezione è infondata.
In proposito si osserva che il diritto al risarcimento del danno, nei giudizi di competenza della Corte dei Conti, è disciplinato dall’art. 1, c. 2, della legge n. 20 del 1994, in base al quale lo stesso “si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”.
Ciò premesso, la Sezione ritiene che nella specie ricorra l’ipotesi del doloso occultamento in relazione alla quale il Legislatore con la norma suindicata ha espressamente sancito il principio per cui la prescrizione decorre dalla data della sua scoperta.
A tale riguardo, la giurisprudenza della Corte dei conti, pur avendo chiarito da tempo che l’occultamento non può coincidere, puramente e semplicemente, con la commissione (dolosa) del fatto dannoso, ma richiede un'ulteriore condotta indirizzata specificamente ad impedirne la conoscenza, ha tuttavia precisato che in talune fattispecie criminose, quale quella dedotta in cui i convenuti hanno posto in essere condotte finalizzate a dare una falsa rappresentazione della realtà –presenza in servizio-, la volontà di occultare il danno deve ritenersi in re ipsa, cioè insita nelle concrete modalità di svolgimento dei fatti, le quali implicano un obiettivo impedimento ad agire -di carattere giuridico e non di mero fatto-. In tali casi l’inizio del termine di prescrizione è stato pacificamente individuato, non nel momento in cui il fatto viene meramente scoperto, ma allorché il danno stesso viene accertato in tutte le sue componenti, a seguito del provvedimento di rinvio a giudizio in sede penale, senza che alcun rilievo abbia la mera notizia del fatto (cfr., ex plurimis, SS.RR.; sentenza 25.10.1996, n. 63; Sezione Prima, nn. 712 e 1115 del 2014; Sezione Seconda, n. 296 del 2007; Sezione Terza, n. 10 del 2002 e n. 311 del 2011; Sezione App. Sicilia, n. 66 del 2004).
Acclarato, dunque, che nella specie ricorre un’ipotesi di doloso occultamento del danno erariale, ai fini dell’individuazione del dies a quo, dal quale far decorrere la prescrizione quinquennale, deve aversi riguardo alla data dell’11.09.2013, allorché è stata depositata la richiesta di rinvio a giudizio innanzi al Tribunale di La Spezia. Per cui nella data in cui è stato notificato al G. l’invito a dedurre (03.04.2014) il termine quinquennale di prescrizione era ancora quasi interamente da decorrere.
Sempre in via preliminare, deve respingersi l’eccezione, sollevata da tutti i convenuti costituiti, di inutilizzabilità delle prove acquisite nel processo penale (tabulati telefonici, riprese video attraverso l'installazione di viodeocamere......), in quanto frutto di attività di indagine gravemente viziata per violazione della Convenzione di Budapest del 2001, nonché di decisione della Corte di Giustizia Europea del 2004.
Al riguardo questa Sezione ha già avuto occasione di affermare con la sentenza n. 269/2011 (cfr., sent. n. 219/2013), in sintonia con la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che l’adozione di più stringenti limitazioni, in materia di acquisizione delle prove, riguarda esclusivamente il processo penale, in cui viene posta a rischio la libertà personale dell’imputato o dell’indagato (Cass. SS.UU. n. 12717 del 2009, n. 15314 del 2010; Cass. Sez. Trib. n. 4306 del 2010).
Sarebbe, pertanto, arbitrario estendere l'efficacia di una norma processuale penale (art. 191 c.p.p.), posta a garanzia dei diritti della difesa in quella sede, ad un ambito processuale diverso, come quello contabile, munito di regole proprie ispirate all’accertamento della verità, nel quale le risultanze degli atti compiuti dall'A.G. in un precedente processo entrano non come prove in senso tecnico, ma come elementi da valutare ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., che concorrono ex art. 116 c.p.c. alla formazione del libero convincimento del giudice (Corte conti, Sez. Liguria, n. 269/2011, cit.; Sez. Prima d’appello n. 3 del 2011 e n. 133 del 2004; Sez. Terza d’appello nn. 75 e 371 del 2005).
In tal caso il rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa è assicurato dalla possibilità riconosciuta alle parti di svolgere proprie osservazioni critiche e di dedurre altre prove sui medesimi fatti.
Passando ad esaminare il merito in senso stretto, oggetto del presente giudizio è la domanda risarcitoria promossa dalla Procura nei confronti dei convenuti per i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti dal Ministero dell’economia e delle finanze in conseguenza di numerose assenze ingiustificate dal servizio.
Al riguardo, il Collegio osserva anzitutto che, sulla base dei numerosi elementi probatori versati nel giudizio, stante la loro gravità, precisione e concordanza, ex art. 2729 c.c., la condotta assenteistica dei convenuti risulta incontrovertibilmente accertata.
Ed invero, premesso che il sistema di rilevamento delle presenze in ufficio presso la Commissione Tributaria Provinciale di La Spezia veniva effettuato, ai sensi dell'art. 23, comma 3, lett. a) ed e) del C.C.N.L. del 1995, attraverso timbrature giornaliere in entrata e in uscita, le quali venivano salvate dal programma installato nel lettore (SIGMA e dal 2010 SIAP-SPRING), è stato accertato che in numerose giornate dal 2005 al 2010 il G. (il solo per il quale il controllo delle presenze è stato esteso a ritroso sino al 2005) e da gennaio a settembre 2010 i restanti convenuti avevano omesso di timbrare il proprio cartellino, mediante la “strisciatura” del “badge” personale, sia in entrata che in uscita o solo in entrata o in uscita, mentre gli orari di presenza erano stati fatti risultare da inserimenti manuali effettuati a posteriori, sulla base di autodichiarazioni degli interessati, comportanti eccedenze di orario rispetto alle registrazioni del rilevatore automatico degli accessi e delle uscite.
Con riferimento alla dedotta inattendibilità dei tabulati relativi alle timbrature in entrata e in uscita effettuate dai convenuti mediante “strisciata” del badge, deve rilevarsi che le stesse, contrariamente all’avviso espresso dai difensori, risultano essere state regolarmente acquisite dal programma installato sul lettore ottico ed è di queste che si è tenuto conto per verificare l’effettiva presenza in servizio dei dipendenti. I problemi lamentati dalla Dirigente della Commissione, cui fanno riferimento i difensori, riguardavano il fatto che le timbrature regolarmente salvate dal programma dei “files day”, non venivano acquisiti dal programma che avrebbe dovuto elaborarli (sulla base dell’orario di lavoro ordinario, delle cause di interruzione o assenza, dei recuperi fatti……), ai fini della validazione da effettuarsi ad opera del funzionario responsabile, per cui la Dirigente ha provveduto manualmente alla loro validazione mensile, previa estrazione delle registrazioni effettuate sul programma del lettore, accorgendosi in tale circostanza che per alcuni dipendenti (i convenuti), tra cui il direttore dell’epoca (il G.), le timbrature di diverse giornate mancavano del tutto o erano incomplete (era stata timbrata solo l’entrata o solo l’uscita), donde la necessità di richiedere a questi ultimi di autocertificare l’orario di servizio osservato per poter procedere alla validazione.
Al fine di dimostrare l’inattendibilità del sistema automatico di rilevazione dei dati delle presenze, i difensori del G. hanno prodotto diversi atti della Commissione Tributaria, a sua firma, protocollati nelle giornate in cui lo stesso, secondo l’accusa, avrebbe fatto risultare falsamente la propria presenza sul luogo di lavoro.
Al riguardo, premesso che molti di detti documenti risultano firmati in giorni per i quali non è stata contestata l’assenza per l’intera giornata lavorativa (in via meramente esemplificativa, seguendo l’ordine di produzione, si evidenziano i documenti protocollati 02.03.2006, 09.06.2006, 19.06.2006, 12.07.2006, 08.11.2006, 30.11.2006, 21.12.2006), il collegio ritiene, in ogni caso, fondata l’obiezione del Pubblico Ministero in ordine alla inidoneità di tali documenti a provare la presenza in ufficio del G. nella data in cui sono stati protocollati, essendo noto che non vi è necessariamente coincidenza tra la data in cui un atto viene firmato e quella in cui viene protocollato.
Tanto considerato circa la piena attendibilità dei tabulati presi in considerazione per la determinazione dei periodi di assenza ingiustificata dal servizio, va rilevato che le condotte dolosamente assenteiste dei convenuti risultanti dalle discordanze tra le presenze registrate mediante la strisciata elettronica del badge e gli inserimenti manuali hanno trovato conferma nel confronto tra gli orari di ingresso ed uscita dall'ufficio e le cellule telefoniche agganciate dai dipendenti nei periodi in cui gli stessi risultavano essere sul luogo di lavoro.
Dai tabulati telefonici acquisiti agli atti è risultato, infatti, che le utenze dei convenuti G., B. I., M. e B. durante l'orario in cui figuravano essere in ufficio agganciavano celle telefoniche distanti chilometri dallo stesso.
I difensori eccepiscono l'irrilevanza di tale elemento di prova, stante che lo stesso proverebbe la presenza in un luogo distante dall'Ufficio dell’utenza telefonica, ma non del suo titolare, che avrebbe potuto darla in uso ad altri.
L'assunto è infondato. Ed invero, le indagini hanno anche evidenziato che nei nove mesi in cui è stato sottoposto a controllo il traffico telefonico delle utenze dei convenuti queste hanno spesso comunicato tra loro –fino a circa 250 volte B. e G. e B. e I.- sì che, essendo detto accertamento agli atti del processo, e quindi noto ai difensori, appare all'evidenza pretestuoso ipotizzare che fosse un parente o un amico del titolare l’utilizzatore delle utenze predette.
Ulteriore elemento atto a riscontrare in modo irrefutabile le dolose condotte assenteiste dei convenuti I., M. e B. è dato dalle riprese delle telecamere poste negli uffici della Commissione Tributaria, regolarmente autorizzate con decreto del giudice.
Da dette registrazioni video-fotografiche risulta che I., M. e B. erano soliti scambiarsi reciprocamente i cartellini di rilevamento delle presenze (badge), strisciarli sull'apposito apparato elettronico, sostituendosi reciprocamente al titolare.
Sulla base della rilevanza e concordanza dei numerosi elementi probatori versati nel giudizio dall'accusa, non può dunque revocarsi in dubbio che tutti i convenuti abbiano tenuto le contestate condotte assenteiste come pure il fatto che, nell’assentarsi arbitrariamente dal lavoro, gli stessi abbiano violato il fondamentale obbligo di servizio, rappresentato dal dovere di fornire la prestazione di lavoro secondo le condizioni previste dal rapporto di impiego intrattenuto con la propria amministrazione, cagionando alle pubbliche finanze un danno pari ai compensi da questa indebitamente erogati senza ricevere in cambio la corrispondente attività lavorativa.
Dette condotte risultano certamente caratterizzate dall’elemento soggettivo del dolo, atteso che l’abitualità e le descritte modalità con cui sono state poste in essere non possono non presupporre la piena consapevolezza e volontà di violare i propri doveri d’ufficio.
La Sezione non ha, però, trovato riscontri probatori al vincolo di solidarietà apoditticamente prospettato dalla Procura tra tutti i convenuti.
A tale riguardo va considerato che il danno contestato dalla Procura è relativo ai periodi lavorativi in cui gli interessati sono risultati falsamente presenti in ufficio a seguito del raffronto tra l’orario inserito a sistema manualmente sulla base di autocertificazioni e quello risultante dalle timbrature in entrata e in uscita effettuate dagli interessati con la strisciatura del proprio badge.
Orbene, con riferimento a tale danno, non vi è prova del fatto che ciascuno dei convenuti abbia concorso con la propria condotta a porre in essere gli illeciti riguardanti gli altri convenuti, che nella prospettazione attorea, giova ripeterlo, sono rappresentati dall’inserimento manuale di orari di servizio maggiori di quelli risultanti dalle timbrature effettuate con il badge.
Né, a tal fine, può soccorrere l’acquisita prova videofotografica dello scambio reciproco dei badge tra i convenuti I., M. e B.: detti comportamenti fraudolenti, sopra valutati quali indizi della condotta assenteista dei predetti convenuti, sono estranei allo specifico danno oggetto di contestazione, il quale scaturisce unicamente dall’inserimento manuale di un falso orario di lavoro e non dalla timbratura fatta dal collega.
Quanto alla somma per cui deve essere pronunciata condanna in relazione al danno patrimoniale inferto da ciascuno dei convenuti all'Amministrazione di appartenenza, la Sezione ritiene corretta la quantificazione fatta dalla Procura, e pertanto gli stessi debbono essere condannati a rimborsare le somme indebitamente percepite nella misura seguente:
G.P. euro 26.645,10;
B.D. euro 7.965;
I.P. euro 1.038,58;
M.M. euro 825,00;
B.S. euro 380,00.
Dette somme dovranno essere rivalutate a decorrere dall’11.09.2013, data del rinvio a giudizio dei medesimi.
Passando all’esame dell’altra voce di danno richiesta dalla Procura per la grave lesione all’immagine subita dall'Amministrazione finanziaria in conseguenza dell’accertata fraudolenta condotta assenteista tenuta dai convenuti, la Sezione osserva anzitutto che il requirente ha posto a fondamento della propria pretesa risarcitoria l’art. 55-quinquies, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall’art. 69 del D.Lgs. 27.10.2009, n. 150, il quale statuisce che “Il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente,……….. ferme le responsabilità penali e disciplinari e le relative sanzioni è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno all'immagine subiti dall'amministrazione”.
La predetta disposizione, nel prevedere al comma 2 l’obbligo specifico di risarcire il danno connesso all’assenteismo realizzato nel pubblico impiego con modalità fraudolente, ha nel contempo configurato tale condotta assenteista come una specifica ipotesi di responsabilità per danno all’immagine dal carattere innovativo rispetto al previgente quadro normativo e svincolata dalle condizioni e dai limiti posti dal legislatore con l’art. 17, comma 30-ter, del D.L. n. 78/2009, convertito dalla L. n. 102/2009.
La specialità di detta disposizione permette di superare l’eccezione di inammissibilità dell’azione sollevata dai difensori dei convenuti per mancanza di sentenza irrevocabile di condanna (cfr. Sez. Toscana n. 46 del 2013 e Sez. Abruzzo n. 414 del 2012).
Il fatto, poi, che l’art. 55-quinquies, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 configuri un’ipotesi di danno all’immagine nuova comporta l’irretroattività della disposizione e, quindi, l’applicabilità della stessa ai soli comportamenti posti in essere successivamente alla sua entrata in vigore, per effetto del principio generale ricavabile dall’art. 11 delle Preleggi, secondo cui la Legge non dispone che per l’avvenire (Sez. Piemonte, n. 54 del 2013; Sez. Trentino-Alto Adige n. 12 del 2012; Sez. Basilicata, n. 54 del 2013; Sez. Toscana n. 169 del 2013).
Ciò premesso, passando ad esaminare il merito di tale pretesa, si osserva che nel vigente ordinamento il “danno all’immagine” ed “al prestigio” della Pubblica Amministrazione –riconducibile alla categoria del danno “non patrimoniale”, ex art. 2059 cod. civ.- consiste nella diminuita reputazione dell’ente presso i consociati, o presso una certa platea di consociati, conseguente alla lesione di diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione all’art. 2 e all’art. 97 per la “Pubblica Amministrazione” nel suo complesso (Corte conti, Sez. III, n. 335 del 2009; Cass. sentenze nn. 8827, 8828 del 2003, n.12929 del 2007, n. 26972 del 2008).
La giurisprudenza della Corte di cassazione, a conclusione di un complesso percorso interpretativo, ha superato la concezione che individuava tale danno nella lesione dell’immagine in sé (danno evento), pervenendo ad una configurazione dello stesso come conseguenza della predetta lesione, rappresentata dalla diminuita considerazione che l’ente ha presso i consociati (danno conseguenza). Tale danno, secondo quanto affermato nella sopra citata sentenza della Corte di cassazione n. 12929 del 2007, risulta risarcibile “indipendentemente dal fatto che l’incidenza negativa sull’agire delle persone fisiche che rappresentano gli organi dell’ente abbia determinato un danno in senso economico, cioè un danno patrimoniale”; ed infatti, l’agire dell’ente con la consapevolezza di dover superare la negatività connessa alla lesione dell’immagine non potrà non risentirne in termini di efficacia, “onde -a prescindere da eventuali riflessi economici- tale conseguenza integra di per sé un danno non patrimoniale” .
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni di appello della Corte dei conti (ex plurimis, Sez. III, n. 143/2009; Sez. II n. 106/2008) e del surriferito più recente orientamento della Corte di cassazione (successivo a SS.RR. n. 10/QM/2003), le Sezioni Riunite di questa Corte hanno rivisitato tale figura di danno erariale, precisando che <<il danno all’immagine della Pubblica amministrazione …….. coincide non già con il fatto lesivo (in ipotesi di condotta di corruzione), ma con la lesione (perdita di prestigio), che costituisce una “conseguenza” (art. 1223 c.c.) del fatto lesivo>> (Corte conti, SS.RR. sent n. 1/2011/QM; cfr., Sezione Prima sent. n. 316 del 2011).
In proposito osserva, tuttavia, la Sezione che, indipendentemente dalla configurazione del danno all’immagine -come danno-evento o come danno-conseguenza– attenendo tale pregiudizio ad un bene immateriale, la prova è, in ogni caso, eminentemente presuntiva, potendo costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice (Cass. sent. n. 26972 del 2008), mentre la sua quantificazione va disposta in considerazione della concreta dimensione della lesione stessa, da valutare in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non essendo possibile l’esatta determinazione dell’ammontare di un danno di tale natura (Corte conti, Sez. III, sent. n. 143/2009, cit.; Cfr. Sez. Liguria, sent. n. 184 del 2012).
Tanto rappresentato, nel caso di specie, non può dubitarsi che l’abituale condotta assenteista realizzata con modalità fraudolente dai convenuti abbia arrecato pregiudizio all’immagine del Ministero dell’economia e delle finanze, ingenerando presso l’opinione pubblica un notevole discredito nei riguardi dell’attività istituzionale propria della Commissione Tributaria.
Passando alla quantificazione di detto danno, la Sezione ritiene di dovervi procedere in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., tenendo conto dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte dei conti, e, in special modo, dalle Sezioni Riunite nella sentenza n. 10/QM/2003.
In particolare, nella specie, vengono in considerazione:
- la rilevanza del servizio prestato dagli interessati in quanto dipendenti di un Ufficio preposto alla gestione del contenzioso in materia fiscale, nonché per il G. la posizione rivestita di Direttore della Commissione Tributaria;
- la reiterazione di comportamenti socialmente riprovevoli e penalmente rilevanti posti in essere in assenza di qualsiasi giustificazione;
- la propalazione della notitia criminis a livello esclusivamente locale, i fatti essendo stati riportati, come documentato dall’accusa, dalla stampa locale (“Il Secolo XIX”, “La Nazione”, “La Gazzetta della Spezia”).
Infine, con riguardo al G., cui è stato contestato il danno all’immagine, oltre che per le assenze ingiustificate relative al 2010, anche per quelle degli anni precedenti (dal 2005), osserva il collegio che nella determinazione del danno non patrimoniale deve tenersi conto esclusivamente dei comportamenti assenteisti tenuti dallo stesso successivamente al 15.11.2009, data di entrata in vigore dell’art. 55–quinquies del d.lgs. n. 161/2001, disposizione che per i motivi suesposti non può avere efficacia retroattiva.
Ciò posto, in applicazione degli elementi sopra considerati, il collegio ritiene di dovere ridimensionare la quantificazione di tale voce di danno operata dalla Procura, che ha chiesto la condanna, in via solidale, dei convenuti per la somma complessiva di euro 40,000,00. Ne consegue che per il danno all’immagine inferto all’Amministrazione di appartenenza debbono essere condannati G.P. ad euro 10.000,00, B.D. ad euro 2.000,00, I.P., M.M. e B.S. ad euro 500,00 ciascuno. Tutti senza vincolo di solidarietà per i motivi già esposti.
Conclusivamente, alla luce delle osservazioni che precedono, i convenuti debbono essere condannati in favore del Ministero dell'economia e delle finanze, a titolo di dolo, ma senza vincolo di solidarietà, al pagamento delle somme seguenti:
- G.P. euro 26.645,10 (ventiseimilaseicentoquarantacinque/10) per danno patrimoniale ed euro 10.000,00 (diecimila/00) per danno all'immagine;
- B.D. euro 7.965,00 (settemilanovecentosessantacinque/00) per danno patrimoniale ed euro 2.000 (duemila/00) per danno all'immagine;
- I.P. euro 1.038,58 (milletrentotto/58) per danno patrimoniale ed euro 500,00 (cinquecento/00) per danno all'immagine;
-M.M. euro 825,00 (ottocentoventicinque/00) per danno patrimoniale ed euro 500,00 (cinquecento/00) per danno all'immagine;
- B.S. di euro 380,00 (trecentoottanta/00) per danno patrimoniale ed euro 500,00 (cinquecento/00) per danno all'immagine.
Le somme predette dovranno essere rivalutate, secondo gli indici ISTAT, a decorrere dal’1 gennaio 2013 fino al deposito della presente sentenza; da quest’ultima data le somme risultanti dovranno essere maggiorate degli interessi legali fino all’integrale pagamento.
Le spese seguono la soccombenza e sono poste a carico dei convenuti in parti uguali
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Liguria, sentenza 30.12.2014 n. 153).

INCARICHI PROFESSIONALI: Tutti i provvedimenti che comportano spesa vanno adottati previa assunzione del relativo <impegno contabile ed attestazione della (relativa) copertura finanziaria>, ex art. 191 TUEL, ivi compresi i provvedimenti con i quali il Comune conferisce apposito incarico legale ad un avvocato per la tutela delle ragioni del Comune stesso.
Qualora vengano in essere obbligazioni giuridiche al di fuori della descritta procedura ordinaria, l’ordinamento giuscontabile prevede, comunque, la possibilità di ricondurle nella contabilità ordinaria dell’ente, purché si tratti di obbligazioni rientranti nelle fattispecie dettagliatamente elencate nell’art. 191 TUEL e purché venga adottato un atto di riconoscimento del debito da parte dell’organo consiliare..
Nel caso, dunque, di mancanza dell’impegno contabile relativo al conferimento degli incarichi legali de quibus, si verte in una fattispecie di acquisizione di servizi in violazione del citato art. 191 del d.lgs. n° 267 del 2000, con possibilità di riconduzione, a sanatoria, nel sistema di contabilità dell’Ente, solo mediante attivazione del procedimento per l’eventuale riconoscimento di debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del d.lgs. n° 267 del 2000 cit., con tutte le condizioni e le limitazioni previste al riguardo, anche con riferimento –per quanto concerne la specifica fattispecie qui in esame- alla necessità della sussistenza dei requisiti oggettivi indicati al comma 1, lett. e) del menzionato art. 194 relativamente a beni e servizi acquisiti in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191 (“nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”, ex art. 194 cit.).
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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco interpellante, facendo riferimento ad incarichi di patrocinio legale dell’Ente affidati, nel passato, con deliberazioni della Giunta comunale ovvero con determinazioni dirigenziali, a svariati legali, e premesso che i predetti provvedimenti di conferimento “recavano assunzione di impegno contabile ex art. 183 T.U.E.L. per importi a volte simbolici, a volte comunque insufficienti a coprire l’ammontare del compenso finale”, mentre “alcune delibere, risalenti agli anni ’90, sono del tutto prive di impegno contabile”, rappresenta il contrasto emerso, in sede di regolazione delle competenze finali ritenute spettanti ai predetti legali, tra l’orientamento espresso dal Responsabile del Settore Legale dell’Ente e la Dirigente dell’Area economico-finanziaria.
In particolare –come precisato nella richiesta di parere in argomento- il primo, facendo riferimento alla deliberazione della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, n. 256 del 25.07.2013, sostiene che la fattispecie “andrebbe affrontata con una semplice integrazione dell’impegno contabile originariamente assunto integrando l’atto di impegno di spesa originario nell’esercizio corrente (anche se diverso da quello di conclusione del giudizio ed anche se esso comporta la decuplicazione dell’impegno originario)”, mentre la suddetta Dirigente dell’Area economico finanziaria, facendo anch’essa riferimento a precedenti giurisprudenziali della Corte dei conti (deliberazioni della Sezione regionale di controllo per la Campania n. 9 del 2007 e n. 8 del 2009, nonché della Sezione regionale di controllo per la Sardegna n. 2 del 2007 e della Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo n. 360 del 2008), “sostiene che la rilevantissima differenza fra l’impegno originariamente assunto e la spesa finale evidenzi con chiarezza che ci si trovi di fronte a spese assunte, pur all’interno delle categorie di utilità ed arricchimento per l’ente nell’esercizio di pubbliche funzioni e servizi di competenza, ma certamente al di fuori delle prescrizioni di cui all’art. 191 T.U.E.L., e quindi nella fattispecie tipica dei debiti fuori bilancio”.
Analogo contrasto –espone il Sindaco interpellante– si è verificato, con riferimento ad una proposta di delibera dell’Ente sottoposta al parere del Collegio dei revisori -all’interno di detto Organo “nel quale uno dei componenti propende per la riconoscibilità del debito fuori bilancio e due componenti ritengono che debba seguirsi la procedura della integrazione di impegno contabile a competenza”.
Conseguentemente, al fine di poter consentire agli Organi deliberanti del Comune, con l’ausilio consultivo di questa Sezione, di portare a soluzione le questioni di che trattasi, il Sindaco dell’Ente chiede parere in subiecta materia ex art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003 n. 131.
...
La richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Marano di Napoli trae origine, in realtà, da due distinte fattispecie, che rientrano nella materia della contabilità pubblica, ciascuna delle quali ha generato perplessità ritenute abbisognevoli di un supporto consultivo di questa Sezione.
Da un lato, invero, viene rappresentato, dall’Ente interpellante, il conferimento di incarichi –conferiti a “diversi legali”- di rappresentanza e di difesa in giudizio del Comune, con “assunzione di impegno contabile ex art. 183 T.U.E.L. per importi a volte simbolici, a volte comunque insufficienti a coprire l’ammontare del compenso finale”, e, dall’altro, l’Ente medesimo fa riferimento al conferimento di analoghi incarichi, con “alcune delibere […] del tutto prive di impegno contabile”.
Ciò premesso, va osservato che, con riferimento alla prima delle suesposte tipologie di provvedimenti (conferimento di incarichi con assunzione di impegni ex art. 183 del d.lgs. n. 267 del 2000, poi rivelatisi insufficienti), viene documentata in atti l’esistenza di una “proposta di deliberazione” di riconoscimento di debito fuori bilancio ex art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n° 267 del 2000, trasmessa al Collegio dei revisori dei conti dell’Ente ai sensi dell’art. 239 del menzionato d.lgs. n. 267 del 2000, dal Dirigente A.E.F., relativa all’ammontare delle competenze professionali di un avvocato, eccedenti l’importo inizialmente impegnato, quale successivamente integrato con ulteriore impegno a titolo di acconto.
Su tale proposta si è già espresso l’interpellato Collegio, come da verbale del 15.07.2014, acquisito agli atti.
Da quanto è dato evincere dal contenuto del menzionato verbale, tra i componenti del Collegio dei revisori è insorto un contrasto interpretativo, in quanto il Presidente di tale Collegio ha ritenuto che, nella fattispecie, dovesse essere formulato, così come richiesto, specifico parere in ordine al riconoscimento di debito fuori bilancio, mentre gli altri due componenti si sono mostrati favorevoli all’applicazione di una procedura di adeguamento dello stanziamento iniziale “integrando l’originario impegno di spesa per soddisfare integralmente la pretesa creditoria del professionista al fine di evitare maggiori oneri derivanti da eventuali procedure di esecuzione con addebito a carico del responsabile del servizio per le ulteriori somme riconosciute rispetto alla pretesa iniziale”.
Conclusivamente, il predetto Collegio, a maggioranza, ha ritenuto “di non dover esprimere alcun parere limitandosi a ritrasmettere l’intero fascicolo al Responsabile proponente per l’esatto adempimento” (p.v. citato, pag. 5).
Dunque, risulta che, relativamente alla suindicata fattispecie di effettiva esistenza di uno stanziamento iniziale (ancorché poi rivelatosi insufficiente) relativo all’ammontare della spesa per il conferimento di incarichi legali, presso l’Ente non solo sono già stati esplicitati precisi, quanto contrastanti, convincimenti da parte dei competenti Dirigenti (cfr. richiesta di parere in esame, pag. 2), ma è già stata avviata e conclusa una procedura consultiva, all’esito della quale è emerso un chiaro (ancorché non unanime) orientamento dell’interpellato Collegio dei revisori.
Da ciò consegue, in parte qua, l’inammissibilità della richiesta di parere in argomento, non essendo consentito alla Sezione né di ingerirsi, con proprie valutazioni e secondo propri orientamenti, nelle scelte discrezionali di esclusiva competenza dell’Ente, né, comunque, di finalizzare la funzione consultiva svolta ex art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003 n. 131, alla composizione di contrasti interpretativi -insorti e formalizzati all’interno dell’Ente interpellante– già, peraltro, motivatamente sottoposti all’esame dell’Organo di revisione. Invero, in tal caso, “il parere richiesto implicherebbe un giudizio della Sezione su valutazioni già compiute e su posizioni già assunte da Organi dell’Ente, con l’effetto di trasformare, di fatto, la funzione consultiva in una sorta di funzione di controllo sulla conformità a legge di atti, valutazioni e/o comportamenti posti in essere da Organi comunali, o di dirimere conflitti fra detti Organi: funzioni che, invero, sono precluse alla Corte dei conti nella presente sede” (così Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione n. 239/2012 del 27.09.2012).
Circa l’altra fattispecie contemplata nel quesito posta alla Sezione (ipotesi di assoluta mancanza, ab origine, di previo impegno di spesa), non appare sussistere la suddetta preclusione alla trattazione di merito in questa sede consultiva, sicché la richiesta di parere in argomento risulta, relativamente alla già descritta, ulteriore, fattispecie, ammissibile anche sotto il profilo oggettivo.
Al riguardo, va anzitutto affermato, in adesione alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, che “
tutti i provvedimenti che comportano spesa vanno adottati previa assunzione del relativo <impegno contabile ed attestazione della (relativa) copertura finanziaria>, ex art. 191 TUEL, ivi compresi i provvedimenti con i quali il Comune conferisce apposito incarico legale ad un avvocato per la tutela delle ragioni del Comune stesso” (così, condivisibilmente, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo, deliberazione n. 360/2008 del 14-18.07.2008).
Il rispetto delle procedure previste dalla legge nel caso di assunzione di obbligazioni giuridiche nei confronti di terzi (in particolare: artt. 182-185 e 191 del d.lgs. n° 267 del 2000) garantisce, invero, il soddisfacimento dell’obbligo della copertura finanziaria degli atti da cui derivano impegni di spesa, e consente di evitare la formazione di debiti originati in sede extracontabile (in terminis, cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, deliberazione n° 256/2013 del 25.07.2013).
A ciò va aggiunto che “
qualora vengano in essere obbligazioni giuridiche al di fuori della descritta procedura ordinaria, l’ordinamento giuscontabile prevede, comunque, la possibilità di ricondurle nella contabilità ordinaria dell’ente, purché si tratti di obbligazioni rientranti nelle fattispecie dettagliatamente elencate nell’art. 191 TUEL e purché venga adottato un atto di riconoscimento del debito da parte dell’organo consiliare” (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, deliberazione n° 256/2013 cit.; cfr. anche Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n° 55/2013 dell’11-17.06.2013, con particolare riferimento alla necessità di valutazione dell’utilità della prestazione).
Nel caso, dunque, di mancanza dell’impegno contabile relativo al conferimento degli incarichi legali de quibus, si verte in una fattispecie di acquisizione di servizi in violazione del citato art. 191 del d.lgs. n° 267 del 2000, con possibilità di riconduzione, a sanatoria, nel sistema di contabilità dell’Ente, solo mediante attivazione del procedimento per l’eventuale riconoscimento di debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del d.lgs. n° 267 del 2000 cit., con tutte le condizioni e le limitazioni previste al riguardo, anche con riferimento –per quanto concerne la specifica fattispecie qui in esame- alla necessità della sussistenza dei requisiti oggettivi indicati al comma 1, lett. e) del menzionato art. 194 relativamente a beni e servizi acquisiti in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191 (“nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”, ex art. 194 cit.).
Questa Corte, peraltro, ha già più volte esaminato la normativa relativa al riconoscimento dei debiti fuori bilancio, pronunciandosi esaustivamente in ordine alla natura e alle caratteristiche di tale procedura (ex plurimis, cfr. Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, deliberazione n° 311/2012 del 26.07.2012); in questa sede, dunque, attese le finalità della richiesta di parere in esame, non può, al riguardo, che essere ribadita la necessità che –anche nella fattispecie de qua– venga data puntuale, motivata e razionale osservanza alle disposizioni di legge che disciplinano la materia
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 29.12.2014 n. 261).

APPALTI SERVIZIPrestazioni artistiche, promosso l'affido diretto under 40 mila. La Corte dei conti toglie le castagne dal fuoco a molte amministrazioni locali.
Legittimi gli affidamenti diretti di prestazioni artistiche, sotto la soglia dei 40 mila euro.

La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Liguria col
parere 10.11.2014 n. 64, toglie le castagne dal fuoco per tutti i comuni che da sempre si arrovellano sulle modalità da seguire per assicurarsi le prestazione di artisti di vario genere, da mettere sotto contratto per assicurare la realizzazione delle tante manifestazioni turistiche o di intrattenimento da essi curate.
La Sezione Liguria ha risposto al quesito posto dal comune di Loano in merito alla possibilità di affidare direttamente, mediante procedura negoziata senza preventiva pubblicazione di bando, l'attività artistica, nell'ipotesi in cui un comune intenda organizzare un evento con un «determinato artista curato in esclusiva da un'agenzia di spettacoli non iscritta al Mepa».
Il parere della Sezione fa un excursus normativo, non pienamente coerente, sulla possibilità che le prestazioni contrattuali dei comuni siano ancora affidabili senza fare ricorso al Mepa, se di valore inferiore alla soglia comunitaria e, ulteriormente, se sotto la soglia dei 40 mila euro che, ai sensi dell'articolo 125 del dlgs 163/2006 consente l'affidamento diretto per cottimo fiduciario. In sostanza, la posizione della Sezione Liguria è favorevole. Nello specifico si può osservare che se nel Mepa non sono presenti prestazioni di servizi di una certa categoria, ovviamente il servizio può essere affidato mediante gli ordinari sistemi di gara.
Più specificamente, la Sezione ritiene comunque possibile affidare direttamente, senza gara, le prestazioni artistiche per due ordini di motivi.
In primo luogo, perché, secondo la Corte dei conti la prestazione artistica non rientra «di per sé nella materia dell'appalto di servizi, costituendo una prestazione di opera professionale disciplinata dall'art. 2229 c.c. Non sussistono pertanto, ab origine, le ragioni per l'applicazione del codice dei contratti pubblici alla fattispecie in esame».
Tale conclusione, tuttavia, appare fuorviante e non corretta. Le prestazioni artistiche, infatti, nel codice dei contratti, sono espressamente considerate come servizi. Lo dispone il punto 26 dell'Allegato IIB «Servizi ricreativi, culturali e sportivi» e il vocabolario comune degli appalti, che contempla una serie molto ampia di «servizi artistici».
La Sezione Liguria si ostina a ritenere applicabile alla fattispecie degli appalti la particolarità tutta italiana della prestazione d'opera professionale, come fosse cosa diversa dalle prestazioni di servizi, ignorando, come troppi altri giudici, l'articolo 3, comma 19, del dlgs 163/2006, norma di derivazione europea che travolge il diritto commerciale italiano e considera operatore economico anche la persona fisica, purché offra servizi sul mercato.
Infatti, la Sezione Liguria, in parziale contraddizione, in secondo luogo non esclude, indirettamente, che la prestazione artistica sia un appalto di servizi. Infatti, il parere afferma: «Quand'anche si dovesse ritenere che la medesima possa rientrare tra gli appalti di servizi, essa deve essere ricompresa nell'ambito di applicazione dell'art. 57, comma 2, dlgs 163/2006 che consente la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara ''qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica... il contratto possa essere affidato unicamente a un operatore economico determinato''».
In effetti, come visto prima, le prestazioni artistiche sono certamente appalti di servizi, sottratti, comunque, alla piena applicazione del dlgs 163/2006, rientrando nell'allegato IIB al Codice. Il che significa che in ogni caso esse possono essere affidate con le procedure semplificate previste dall'articolo 27 del codice.
Tuttavia, la Sezione Liguria evidenzia correttamente «l'infungibilità della prestazione artistica», caratteristica tale da renderla inidonea a procedure comparative, siano esse elettroniche o tradizionali.
Dunque, anche il confronto semplificato tra 5 offerenti, previsto dall'articolo 27 del codice dei contratti, non sarebbe utile, nel caso di specie, vista l'inconfrontabilità concorrenziale della performance del singolo artista.
Occorre aggiungere che diverse conclusioni sarebbero da trarre se il comune intendesse acquisire il servizio di organizzazione della manifestazione. In questo caso, non si può dubitare che si tratti di un appalto di servizi vero e proprio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.01.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla gestione associata delle funzioni comunali.
Il recente D.L. 06.07.2012, n. 95 (convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 07.08.2012, n. 135) all’art. 19 ha variato la normativa diretta al contenimento delle spese per l'esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni, apportando modificazioni alla disciplina di cui ai commi 25 e seguenti dell’art. 14 del D.L. 31.05.2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122).
Il predetto articolo 14 –dopo aver premesso che le disposizioni dettate dai commi da 26 a 31 sono dirette ad assicurare il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle spese per l'esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni– ha stabilito (comma 26) che “L'esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni è obbligatorio per l'ente titolare”. Tali sono, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, le funzioni indicate al comma 27.
Tuttavia, l’obbligatorietà della funzione non legittima e non giustifica, di per sé, alcuna deroga sia al divieto di assunzione, sopra esaminato, sia all’obbligo di riduzione della spesa di personale dell’Ente locale.
In altre parole, qualora l’Ente non disponga e non possa assumere risorse lavorative sufficienti o idonee all’assolvimento (di tutte o di parte) delle funzioni fondamentali indicate, deve avvalersi della possibilità di aderire a un diverso assetto organizzativo per il loro svolgimento che, per gli enti di più piccole dimensioni diventa obbligo.
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Quello che qui conta mettere in evidenza è che
le prescrizioni sopra indicate hanno una finalità ben più ampia di quella meramente riduttiva della spesa, in quanto esigono che le funzioni siano svolte “secondo i principi di efficacia, economicità, di efficienza e di riduzione delle spese”.
In altre parole, il fenomeno associativo che doverosamente e progressivamente interesserà tutte le funzioni fondamentali dei comuni rientranti nella fascia demografica di cui trattasi comporta che ad esso ci si rivolge non solo per tamponare una momentanea e transitoria carenza di risorse, finanziarie o umane, da destinare alla funzione da assolvere, ma assume i caratteri di un assetto organizzativo stabile. Tale assetto organizzativo deve essere necessariamente in grado di programmare e coordinare la gestione del servizio e di misurarne i risultati, secondo indicatori che ne attestino l’efficacia e l’efficienza.

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In definitiva, il legislatore chiede di spostare l’angolo di attenzione dal livello di spesa di ogni singolo comune al livello di spesa per il servizio associato, commisurandolo alla efficacia e alla maggiore efficienza dello stesso rispetto a quanto singolarmente assicurato da ciascun ente in precedenza. In questa ottica si tratta di un significativo mutamento di prospettiva: la gestione di un servizio associato non può più essere rappresentata sotto il profilo dei meri risultati contabili che rifluiscono sui conti del singolo Ente, ma deve essere considerata nel suo complesso e valutata con riferimento al raggiungimento di risultati gestionali predeterminati.

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3.6 – Tanto chiarito, la questione da affrontare può riassumersi nei seguenti termini: posto un Comune che non abbia nei propri ruoli personale idoneo da adibire allo svolgimento di una funzione fondamentale ed essenziale, né possa procedere ad assunzioni avendo superato la soglia massima del rapporto spesa di personale/spesa corrente, ci si chiede se possa ugualmente assicurare detta funzione aderendo a una Convenzione che ne regoli l’esercizio in comune, assumendo a carico del proprio bilancio la spesa occorrente alla remunerazione (pro quota) di personale alle dipendenze di altro Ente ma adibito al servizio associato.
4.1 – Al quesito può darsi risposta affermativa, con le precisazioni che seguono.
4.2 - L’obiettivo di ridurre o, quanto meno, contenere, l’incidenza delle spese di personale negli enti locali è ritenuto, da sempre, obiettivo prioritario di finanza pubblica. Ad esso, nel tempo, si sono ispirate diverse norme finalizzate, prima di tutto, a razionalizzare e riordinare le strutture organizzative degli Enti e, ove necessario, a imporre limiti e vincoli di spesa.
A tale ultima categoria appartiene la disposizione contenuta nell’art. 76, comma 7, D.L. n. 112/2008 (come oggi vigente per effetto di successive modifiche), sopra citata, che fa appunto divieto agli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale (comprese le spese sostenute anche dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale, né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica) è pari o superiore al 50 per cento delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale.
Gli enti che non hanno superato detta soglia possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente, fatta eccezione per le assunzioni del personale destinato allo svolgimento delle funzioni in materia di polizia locale (oltre che di istruzione pubblica e del settore sociale) per i quali è calcolato, ai fini assunzionali, l’onere nella misura ridotta del 50 per cento. In ogni caso, le predette assunzioni continuano a rilevare per intero ai fini del calcolo delle spese di personale come sopra previsto (primo periodo del comma 7).
Per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o inferiore al 35 per cento delle spese correnti sono ammesse, in deroga al limite del 40 per cento, le assunzioni per turn-over che consentano l'esercizio delle funzioni fondamentali previste dall'articolo 21, comma 3, lettera b), della legge 05.05.2009, n. 42. Dette assunzioni, comunque, sono ammesse nel rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e fermo restando i limiti di contenimento complessivi delle spese di personale.
4.3 - La disposizione sopra riportata va collocata come necessario completamento di quelle, più risalenti, contenute ai commi 557 e 562 dell’articolo unico della legge n. 296/2006, che da tempo hanno chiamato le autonomie regionali e locali (siano esse soggette o meno al patto di stabilità) a concorrere al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica mediante il contenimento del costo del personale. Contenimento da raggiungere riducendo l'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti, attraverso la parziale reintegrazione dei cessati e contenendo la spesa per il lavoro flessibile; la razionalizzazione e lo snellimento delle strutture burocratico-amministrative, e l’accorpamento di uffici; il contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa.
Solo laddove queste misure non siano state sufficienti a raggiungere i risultati-obiettivo e fino a quando non si saranno liberati spazi assunzionali, l’estrema soluzione adottata dal legislatore è stata individuata, come sopra detto, nel vietare le assunzioni e, per quelle ammesse, limitare comunque l’incidenza delle spese.
4.4 – Di recente l’attenzione del legislatore è tornata a occuparsi di modalità organizzative per l’erogazione dei servizi e delle funzioni intestate agli Enti Locali, soprattutto con riferimento a quelli di più piccole dimensioni, al fine di superare l’estrema polverizzazione degli Enti in comunità di pochi abitanti nei confronti dei quali l’assolvimento dei compiti fondamentali deve essere adeguato e differenziato anche in relazione alla capacità finanziaria dell’Ente medesimo.
4.5 -
Il recente D.L. 06.07.2012, n. 95 (convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 07.08.2012, n. 135), contenente “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”, all’art. 19 ha variato la normativa diretta al contenimento delle spese per l'esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni, apportando modificazioni alla disciplina di cui ai commi 25 e seguenti dell’art. 14 del D.L. 31.05.2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122).
Il predetto articolo 14 –dopo aver premesso che le disposizioni dettate dai commi da 26 a 31 sono dirette ad assicurare il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle spese per l'esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni– ha stabilito (comma 26) che “L'esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni è obbligatorio per l'ente titolare”. Tali sono, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, le funzioni indicate al comma 27, tra cui (lett. i), quella di polizia municipale o di polizia amministrativa locale.
4.6 -
Tuttavia, l’obbligatorietà della funzione non legittima e non giustifica, di per sé, alcuna deroga sia al divieto di assunzione, sopra esaminato, sia all’obbligo di riduzione della spesa di personale dell’Ente locale.
In altre parole, qualora l’Ente non disponga e non possa assumere risorse lavorative sufficienti o idonee all’assolvimento (di tutte o di parte) delle funzioni fondamentali indicate, deve avvalersi della possibilità di aderire a un diverso assetto organizzativo per il loro svolgimento che, per gli enti di più piccole dimensioni, come nel caso del Comune di Cirigliano, diventa obbligo.
A questo riguardo la disciplina in esame (comma 28) ha stabilito che i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, sono obbligati a esercitare in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad esclusione della funzione di tenuta dei registri dello stato civile, della funzione anagrafica ed elettorale. Ai comuni è precluso di svolgere singolarmente le funzioni fondamentali svolte in forma associata e la medesima funzione non può essere svolta da più di una forma associativa.
La normativa statale in argomento impone anche termini rigorosi entro i quali procedere. I comuni interessati devono assicurare, infatti, l'attuazione delle disposizioni di cui sopra: a) entro il 01.01.2013 con riguardo ad almeno tre delle funzioni fondamentali; b) entro il 01.01.2014 con riguardo alle restanti funzioni fondamentali.
4.7 - Quello che qui conta mettere in evidenza è che
le prescrizioni sopra indicate hanno una finalità ben più ampia di quella meramente riduttiva della spesa, in quanto esigono che le funzioni siano svolte “secondo i principi di efficacia, economicità, di efficienza e di riduzione delle spese”.
In altre parole, il fenomeno associativo che doverosamente e progressivamente interesserà tutte le funzioni fondamentali dei comuni rientranti nella fascia demografica di cui trattasi comporta che ad esso ci si rivolge non solo per tamponare una momentanea e transitoria carenza di risorse, finanziarie o umane, da destinare alla funzione da assolvere, ma assume i caratteri di un assetto organizzativo stabile. Tale assetto organizzativo deve essere necessariamente in grado di programmare e coordinare la gestione del servizio e di misurarne i risultati, secondo indicatori che ne attestino l’efficacia e l’efficienza.

Ed infatti, posto che l’esercizio in forma associata delle funzioni si fonda su convenzioni della durata almeno triennale, “ove alla scadenza del predetto periodo, non sia comprovato, da parte dei comuni aderenti, il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, secondo modalità stabilite con decreto del Ministro dell'interno, da adottare entro sei mesi, sentita la Conferenza Stato-Città e autonomie locali, i comuni interessati sono obbligati ad esercitare le funzioni fondamentali esclusivamente mediante unione di comuni” (comma 31-bis).
Ciò è vero sia con riferimento alle forme associative che sorgono nell’ambito della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica individuata dalla Regione (comma 30), con un limite demografico comunque non inferiore a 10.000 abitanti, sia con riferimento a ogni altra forma associativa che sorga nelle more dell’intervento regionale ma in attuazione delle prescrizioni di legge.
In definitiva, il legislatore chiede di spostare l’angolo di attenzione dal livello di spesa di ogni singolo comune al livello di spesa per il servizio associato, commisurandolo alla efficacia e alla maggiore efficienza dello stesso rispetto a quanto singolarmente assicurato da ciascun ente in precedenza. In questa ottica si tratta di un significativo mutamento di prospettiva: la gestione di un servizio associato non può più essere rappresentata sotto il profilo dei meri risultati contabili che rifluiscono sui conti del singolo Ente, ma deve essere considerata nel suo complesso e valutata con riferimento al raggiungimento di risultati gestionali predeterminati.
4.8 - Da quanto sopra argomentato se ne ricava che, sul piano del rispetto della normativa vincolistica in materia di assunzioni di personale, il Comune di Cirigliano ben può usufruire del servizio di polizia locale reso dall’Associazione dei Comuni alla quale partecipa senza dover assumere proprio personale. Peraltro, sul piano della contabilità dell’Ente neppure rileva come spesa di personale, da porre in rapporto alla spesa corrente, il pagamento della quota parte della spesa complessiva del servizio associato, dal momento che la spesa del personale impiegato è contabilizzata per intero da ciascun Ente al quale detto personale è legato da rapporto organico di lavoro.
A tal proposito si dovrebbe prendere in considerazione la opportunità che, simmetricamente, la spesa sostenuta a titolo di rimborso a favore del servizio reso dalla gestione associata debba essere neutralizzata ai soli fini del calcolo del rapporto spesa di personale/spesa corrente. Diversamente, tale rapporto verrebbe ad essere alterato due volte: una prima volta, per la mancata iscrizione al numeratore (spesa di personale) degli oneri corrisposti per il servizio; una seconda volta, per il mantenimento al denominatore (spesa corrente) dei medesimi oneri.
In ogni caso è possibile che, per il Comune di Cirigliano, il rapporto spesa di personale/spesa corrente torni ad essere, nel 2013, inferiore al 50%, così da aprire, a partire dal 2014, nuovi spazi assunzionali mentre, a parità di tutte le altre condizioni, rimarrebbe costante la rigidità della spesa di personale per gli Enti associati che abbiano fornito il personale necessario all’assolvimento del servizio.
Tale opportunità deve, tuttavia, conciliarsi con quanto osservato da questa stessa Sezione in occasione della citata delibera n. 51/2013/PAR che sul punto così si esprime: “Si consideri, infatti, preliminarmente che, salvo che un ente non sia animato (avendone la possibilità) da spirito oblativo, le convenzioni –che, come si è visto, per dettato normativo hanno ad oggetto “funzioni e servizi determinati”– normalmente non saranno unidirezionali, e quindi ciascuno dei vari enti convenzionati potrà fornire il personale necessario per l’esercizio delle singole funzioni da associare, e quindi assumerne la delega o distaccare le risorse umane necessarie all’ufficio comune. Conseguentemente, gli enti locali che accettino di rinunciare a parte della prestazione lavorativa di un proprio dipendente in favore di altri enti convenzionati, pur dovendo computarne integralmente la spesa ai fini della predetta norma, riceveranno beneficio dal mancato conteggio della quota necessaria a retribuire la prestazione svolta in favore dei propri cittadini dal personale di altri enti”.
Ciò per significare che
in un contesto associativo, che pure non ha ancora assunto quegli elementi di spiccata personalità propria dell’Unione, l’analisi dei fabbisogni di personale e la conseguente programmazione deve necessariamente essere orientata verso un orizzonte più ampio di quello del singolo comune, che tenga conto, cioè, dell’ambito associativo e abbia come obiettivo il conseguimento dei risultati della gestione, di cui si è detto (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 18.09.2013 n. 113).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: OSSERVATORIO VIMINALE/ P.a., una casa di vetro. L'accesso trova limiti solo nella privacy. Le norme del Tuel non sono soggette alle limitazioni della legge 241/1990.
Il diritto di accesso agli atti, esercitato da un cittadino–elettore, può essere richiesto per atti concernenti le posizioni organizzative, le schede di valutazione, la relazione metodologica sull'attività di valutazione, la relazione del Nucleo di valutazione e le indennità corrisposte per ciascuna posizione organizzativa di un ente locale?

L'articolo 10 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina il diritto di accesso e informazione, dispone che tutti gli atti dell'amministrazione comunale sono pubblici, rafforzando il diritto alla trasparenza dell'azione amministrativa locale per il cittadino-elettore.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, tale norma non intende, comunque, radicare in capo a quest'ultimo un interesse generico alla legittimità dell'azione amministrativa attraverso un controllo generalizzato degli atti, che soggiacerebbe alla disciplina dettata dalla legge n. 241/1990.
Invero la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, ha precisato, che ai sensi del richiamato disposto normativo è consentito al cittadino residente di accedere agli atti amministrativi dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta, dovendosi cautelare la sola segretezza degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge o da esigenze di tutela della riservatezza dei terzi.
Al fine di una completa disamina della problematica occorre tenere conto delle vigenti disposizioni che impongono gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, come dettate in particolare dagli articoli 5 e 9 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che prevedono, tra l'altro, il diritto di chiunque di richiedere documenti, informazioni o dati.
Pertanto, la specifica norma sull'accesso agli atti degli enti locali, contenuta nel decreto legislativo n. 267/2000, non è soggetta alle limitazioni previste dalla legge n. 241/1990 che impongono la dimostrazione di un effettivo interesse alla conoscenza di un provvedimento emesso e detenuto dalla pubblica amministrazione.
A supporto di tale orientamento soccorre la decisione del 17.01.2013 resa dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, secondo la quale le disposizioni di cui alla legge n. 241/1990 recedono di fronte alla norma di cui all'art. 10 del Tuel che, in quanto norma speciale, prevale rispetto alla disciplina generale.
Il diritto di accesso, tuttavia, ha sempre trovato un contemperamento con le esigenze di tutela dei dati personali anche secondo quanto ritenuto dal Garante per la protezione dei dati personali che, in materia di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico afferma il diritto delle organizzazioni sindacali di conoscere i dati attinenti alla prestazione lavorativa, primariamente in forma aggregata. Analoga limitazione, si ritiene, debba porsi nei confronti del cittadino che chiede di accedere ai dati relativi al rapporto di lavoro dei dipendenti comunali.
Assume, pertanto, specifico rilievo il comma 3-bis dell'articolo 19 del decreto legislativo n. 196 del 30.06.2003, come modificato dall'art. 14 della legge 04.11.2010, n. 183, il quale ha, tra l'altro, stabilito che «le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall'amministrazione di appartenenza. Non sono invece ostensibili, se non nei casi previsti dalla legge, le notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l'astensione dal lavoro, nonché le componenti della valutazione o le notizie concernenti il rapporto di lavoro tra il predetto dipendente e l'amministrazione, idonee a rivelare taluna delle informazioni di cui all'articolo 4, comma 1, lettera d)».
Ciò posto, tale completa apertura in ordine alla pubblicità delle prestazioni rese dai dipendenti è riferibile a quegli atti adottati dall'entrata in vigore dell'art. 14 della legge n. 183 del 04.11.2010, fermo restando il diritto all'accesso a tutti gli altri provvedimenti dell'amministrazione non classificati come «segreti» o contenenti dati sensibili, che potranno essere consegnati ai richiedenti sulla base e con le modalità dettate dalle specifiche norme regolamentari di cui gli enti sono tenuti a dotarsi (articolo ItaliaOggi del 09.01.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Potere sostitutivo limitato. Inapplicabile al diritto d'accesso dei consiglieri. Gli amministratori locali godono tuttavia di prerogative assai ampie
È applicabile l'art. 2, commi 9-bis e seguenti della legge n. 241/1990, come modificato dall'art. 1 del dl n. 5/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 35/2012 nel caso di un consigliere comunale che, a fronte dell'inutile decorso del termine di trenta giorni dalla presentazione di una richiesta di accesso agli atti del comune, ha prodotto un'istanza di intervento sostitutivo alla luce della sopra citata normativa? L'istanza di accesso prodotta dal consigliere comunale potrebbe comportare l'adozione di un provvedimento?
Il diritto d'accesso dei consiglieri comunali e provinciali agli atti amministrativi dell'ente locale è disciplinato espressamente dall'art. 43, comma 2, del Tuel del 18.08.2000, n. 267, il quale prevede in capo agli stessi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del loro mandato.
Dal contenuto di tale norma emerge chiaramente che i consiglieri comunali hanno diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del proprio mandato, senza alcuna limitazione, essendo estraneo all'ampiezza di tale diritto qualunque divieto di «ottenere notizie e informazioni» su atti o documenti che possano essere qualificati «segreti» e come tali sottratti alla sua visione o estrazione di copia (cfr. Commissione di accesso ai documenti amministrativi - determinazione del Plenum in data 06.04.2011).
Nel caso di specie, lo statuto del comune prevede che i consiglieri comunali, ai fini dell'esercizio delle funzioni consiliari, hanno diritto di accesso, con le modalità previste dal regolamento, ai documenti e agli atti dei procedimenti del comune utili all'espletamento del proprio mandato, ivi compresi quelli riservati.
Il regolamento comunale disciplina la materia prevedendo, in particolare, che il diritto di informazione e di accesso agli atti amministrativi si esercita mediante richiesta al segretario comunale o ad altro dipendente da questi designato.
La libera consultazione degli atti è fissata per due giorni alla settimana come individuati direttamente dal segretario, mentre per il rilascio di copie da parte del responsabile del servizio competente in materia, il regolamento prevede il termine massimo di trenta giorni successivi a quello della richiesta.
Entro lo stesso termine, il segretario comunale, qualora rilevi la sussistenza di divieti o impedimenti al rilascio della copia richiesta, informa il consigliere interessato, con comunicazione scritta nella quale sono illustrati i motivi che non ne consentano la consegna.
Le norme interne all'ente, dunque, non prevedono l'istituto del silenzio diniego, stabilito, invece, dall'art. 25, comma 4, della legge n. 241/1990 esclusivamente nei confronti dei cittadini che intendono accedere agli atti della pubblica amministrazione, i quali possono poi utilizzare i rimedi giurisdizionali e paragiurisdizionali previsti dalla stessa disposizione, al fine di fare valere il diritto negato. Ferma restando la possibilità di utilizzare i predetti rimedi giurisdizionali, il diritto di accesso dei consiglieri è diversamente qualificato dal nostro ordinamento, in quanto è strettamente connesso all'esercizio del mandato elettorale, attenendo a finalità diverse rispetto a quelle che trovano specifica disciplina nel Capo V (artt. 22-28) della legge n. 241/1990.
L'art. 2 della citata legge n. 241/1990 disciplina le procedure da adottare per la «conclusione del procedimento», pertanto il comma 9-bis non si applica alle ipotesi di accesso del consigliere, previste, invece, dall'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Tale assunto trova conferma dalla lettura del successivo comma 9-ter dell'art. 2, laddove è prevista la facoltà, al «privato» che ha titolo alla conclusione del procedimento, di rivolgersi al responsabile di cui al comma 9-bis.
Tuttavia, la non applicabilità delle richiamate disposizioni, non può condurre alla conclusione di una minore tutela del diritto di accesso del consigliere, il quale gode delle più vaste garanzie connesse al proprio status, così come stabilito dall'articolo 43 del Tuel (articolo ItaliaOggi del 02.01.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità degli amministratori locali presidenti di associazioni locali.
Per i consiglieri comunali che rivestono, altresì, la carica di Presidenti di associazioni locali che ricevono contributi in denaro da parte dell'amministrazione comunale potrebbe sussistere la causa di incompatibilità prevista dall'art. 63, c. 1, n. 1) del D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
A tal fine, devono ricorrere cumulativamente i tre requisiti previsti dalla norma e cioè che la sovvenzione erogata dal Comune abbia i caratteri della continuità, della facoltatività e della notevole consistenza.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all'esistenza di una causa di incompatibilità per due consiglieri comunali che sono, altresì, presidenti di due associazioni locali che ricevono contributi in denaro da parte dell'amministrazione comunale.
In via preliminare, si rileva che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Ciò premesso, con riferimento alla fattispecie in esame potrebbe venire in rilievo la causa di incompatibilità prevista dall'articolo 63, comma 1, numero 1), seconda parte, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, il quale prevede che non può ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina,
[1] il termine 'ente' deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione [2] che ha inteso comprendere nella nozione di ente sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le associazioni non riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Per quanto riguarda la specificazione del concetto di sovvenzione, secondo la dottrina e la giurisprudenza,
[3] essa deve consistere in un'erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all'ente sovvenzionato di raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito.
In definitiva, affinché si verifichi la situazione di incompatibilità in questione, la succitata norma prescrive che tale sovvenzione debba possedere, cumulativamente, tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte facoltativo, tenuto conto di quanto in appresso precisato;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle entrate annuali dell'ente sovvenzionato.
Con riferimento alla fattispecie in esame l'Ente dovrà, pertanto, valutare se sussistano tutti i tre requisiti sopra indicati.
In particolare, mentre pare non sorgano dubbi interpretativi circa il significato da dare al requisito della continuità ed a quello della notevole consistenza, si ritiene invece opportuno fornire alcune considerazioni circa il modo di intendere il concetto di facoltatività.
Al riguardo si rileva come, in passato, la tesi dottrinaria prevalente affermava che per determinare l'incompatibilità la sovvenzione non deve avere il carattere dell'obbligatorietà, nel senso che 'non deve essere conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un contratto bilaterale, ma deve rientrare nella discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo gratuito o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera determinazione dell'Ente che la accorda'.
[4] Corre l'obbligo di rilevare che più di recente ha ottenuto l'avallo del Ministero dell'Interno la tesi secondo la quale la sovvenzione è facoltativa 'nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge'. [5] Trattasi di impostazione più rigorosa che circoscrive il concetto dell'obbligatorietà a quelle sole elargizioni per le quali manchi qualsiasi facoltà discrezionale dell'Ente locale nel concederle. [6]
Alla luce di un tanto, l'Ente valuti se ricorrono, in relazione alla fattispecie concreta, i requisiti sopra indicati, l'esistenza dei quali porterebbe all'insorgenza dell'indicata causa di incompatibilità.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la causa di incompatibilità prevista dall'articolo 63, comma 1, num. 2), del D.Lgs. 267/2000 il quale sancisce l'incompatibilità dell'amministratore locale che, in qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento abbia parte, direttamente o indirettamente, in servizi nell'interesse del comune.
Nel termine servizi si suole ricomprendere 'qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia in grado di determinare conflitto di interessi.'
[7] La giurisprudenza ha, altresì, specificato che l'ampia espressione di 'servizi nell'interesse del comune' si riferisce 'a tutte quelle attività che l'ente locale, nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante l'esercizio dei poteri normativi ed amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie [...]'. [8]
Spetta all'Ente valutare se le associazioni in oggetto svolgono o meno dei 'servizi' nell'interesse dell'amministrazione comunale.
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[1] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 3, ed. Giuffré, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O. Di Stilo - E. Maggiora, Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985, pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Corte di Cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[3] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.05.1972, n. 1479.
[4] Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore, 1982, pag. 140. Nello stesso senso, Enrico Maggiora, 'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV., 'L'ordinamento comunale', Giuffrè editore, 2005, pag. 138. Tale filone interpretativo è, tutt'ora, seguito dall'ANCI il quale ha affermato, anche di recente, che la facoltatività della sovvenzione richiede che 'l'intervento finanziario dell'ente locale non deve derivare da un obbligo di legge o da un obbligo convenzionale' (così pareri del 17.09.2014 e del 28.04.2014).
[5] Ministero dell'Interno, parere del 30.12.2010 (prot. n. 15900/TU/63). In dottrina, si veda, F. Pinto e S. D'Alfonso, 'Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità e status degli amministratori locali', Maggioli editore, 2003, pag. 196.
[6] Si veda, anche, il parere dell'08.03.2002 espresso sull'argomento dalla Regione Val d'Aosta, ove si afferma che: 'La sovvenzione si intende facoltativa nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge. Non si sottrae dal concetto di sovvenzione facoltativa un contributo dovuto sulla base di un regolamento comunale, laddove la determinazione del regolamento sia riconducibile ad una scelta discrezionale dell'ente'.
[7] Saporito, Pisciotta, Albanese, 'Elezioni regionali ed amministrative', Bologna, 1990, pag. 115.
[8] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550
(31.12.2014 - link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Gruppo comunale dei volontari della protezione civile - spese - responsabilità.
Nell'ipotesi in cui il volontario di protezione civile provochi dei danni (ad esempio, per errori di manovra nell'utilizzo dell'attrezzatura in dotazione), si configura, a carico del medesimo, un'ipotesi di responsabilità civile extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c..
Mentre dal punto di vista penale la responsabilità è personale e non può estendersi in capo al Comune per il quale il volontario ha operato, dal punto di vista civilistico potrebbe sussistere anche la responsabilità dell'ente locale ai sensi dell'articolo 2049 c.c..

È formulata una richiesta di parere in merito alla gestione del gruppo comunale dei volontari di protezione civile ed, in particolare, sulle eventuali responsabilità che possono insorgere in capo ai dipendenti dell'ente locale che agiscono a supporto del gruppo medesimo.
Più nello specifico, sul presupposto che le strutture comunali non incidono sulle scelte e sulle attività dei volontari e, di conseguenza, sulle spese a favore del gruppo stesso e che esistono dei capitoli per impegni e liquidazioni (aventi ad oggetto carburante, mezzi, vestiario, illuminazione, riscaldamento della sede, eccetera), suddivisi tra l'ufficio ragioneria e l'ufficio tecnico, l'ente domanda:
a) quali responsabilità ricadono sugli uffici e sul personale in merito agli esborsi sostenuti dal gruppo comunale dei volontari;
b) se è facoltà degli uffici opporsi a determinate spese qualora le relative scelte non siano di competenza di questi ultimi
[1];
c) quale sia il soggetto competente ad effettuare tutte le verifiche nell'ipotesi di acquisto di beni e servizi
[2];
d) quale sia il soggetto che autorizza l'utilizzo delle macchine comunali a favore del gruppo dei volontari e quali responsabilità ricadono e su chi in merito all'eventuale uso non conforme alle regole dei mezzi stessi o da un volontario privo dei requisiti necessari per condurre il veicolo;
e) quale soggetto risponde dal punto di vista civile e penale nell'ipotesi di danni a vetture, persone e cose durante le attività dei volontari.
Si svolgono, al riguardo, le seguenti considerazioni di carattere generale, al fine di fornire al Comune instante alcuni elementi di riflessione, così da porre l'ente nella condizione di affrontare e risolvere in autonomia le problematiche sopra evidenziate.
Si rammenta, anzitutto, che quella di protezione civile è una delle competenze più delicate ed importanti del Comune a tutela degli interessi diffusi.
È necessario, inoltre, prendere in considerazione alcuni principi generali in merito ai poteri e al riparto di competenze -all'interno dell'ente Comune- tra sindaco e responsabili degli uffici.
Si sottolinea, al riguardo, che la protezione civile intesa come competenza amministrativa spetta al Comune in quanto luogo privilegiato di tutela degli interessi esposti della popolazione. Ai sensi dell'articolo 15 della legge 24.02.1992, n. 225 - Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile, il sindaco è l'autorità comunale di protezione civile. A questo fa capo una responsabilità diretta e personale nel garantire la tutela immediata della incolumità dei cittadini qualora messa a rischio
[3].
A livello comunale, il responsabile della protezione civile è, dunque, il sindaco, che nomina, tra i volontari, un coordinatore: quest'ultimo si occupa della gestione operativa del gruppo, dell'utilizzo e manutenzione delle attrezzature in dotazione, della concreta realizzazione, in accordo con il sindaco, di tutte le attività svolte dai volontari
[4].
Si rammenta, poi, che, ai sensi dell'articolo 50, commi 1 e 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel), sulle competenze sindacali, il sindaco è l'organo responsabile dell'amministrazione del Comune, rappresentando l'ente e sovrintendendo al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti.
Dovendo coordinare tale previsione con le prescrizioni dell'articolo 107 del Tuel (Funzioni e responsabilità della dirigenza)
[5], ne risulta che il sindaco sovrintende al lavoro dei dipendenti ed, in generale, a tutte le attività che sono fondamentalmente assegnate alla struttura comunale e ai responsabili dei servizi [6].
Alla struttura amministrativa e burocratica spetta, pertanto, l'attività di 'gestione' che si concretizza in atti amministrativi, come le determinazioni, con le quali -ad esempio- si acquistano beni e servizi, anche per motivi e finalità di protezione civile, atti amministrativi per i quali i dirigenti sono responsabili.
Alla luce di tali brevi riflessioni e dei principi generali sopra richiamati, è possibile fornire una risposta ai primi tre interrogativi formulati dall'Ente. Così, mentre resta fermo, in capo agli organi di governo del Comune, il compito di formulare gli indirizzi generali dell'azione dell'ente (anche in particolare attraverso il bilancio di previsione che ha natura autorizzatoria), compete ai responsabili degli uffici, in linea con gli obiettivi individuati dai soggetti che governano l'amministrazione locale, ogni aspetto gestionale ed operativo compresa l'adozione degli atti di spesa e l'incombenza delle gare d'appalto, con i relativi controlli e con le conseguenti responsabilità.
Così, pare allo scrivente che, se una spesa facente capo al gruppo dei volontari della protezione civile è in linea con gli indirizzi generali dell'azione del Comune e trova copertura autorizzatoria nel relativo capitolo del bilancio di previsione dell'ente, il necessario controllo da parte del responsabile dell'ufficio -lungi dal potersi opporre alla stessa- si limiterà alla regolarità amministrativa contabile, mentre il responsabile dell'ufficio ragioneria apporrà il visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria ex articoli 151, comma 4, e 153, comma 5, decreto legislativo 267/2000.
Tali indicazioni permettono anche di circoscrivere la responsabilità degli uffici ai controlli sopra delineati sulla rispondenza degli atti di gestione agli atti di indirizzo. L'acquisto di beni e servizi deve, inoltre, avvenire conformemente alle disposizioni legislative in materia anche per quanto attiene la scelta del prodotto e dell'operatore economico al quale rivolgersi (decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - codice dei contratti pubblici). La relativa responsabilità ricade sull'ufficio contratti se istituito ovvero sull'ufficio al quale di volta in volta fa capo -e che, quindi, gestisce- l'acquisto del bene o servizio (ad esempio l'ufficio patrimonio).
Per quanto concerne l'utilizzazione di mezzi e macchine di proprietà comunale, occorre verificare l'esistenza di un regolamento comunale in materia di uso e gestione dei veicoli. Risulta, infatti, opportuno disciplinare in sede regolamentare l'utilizzo (temporaneo e non) delle macchine comunali da parte di altri soggetti (come ad esempio i volontari), individuando le modalità generali -assicurazione, responsabilità- di uso dei mezzi stessi. Il regolamento deve, poi, rimandare a provvedimenti specifici (determinazioni di autorizzazione all'utilizzazione dei veicoli), da emanare da parte del responsabile del servizio nelle cui competenze rientra la gestione del parco mezzi dell'ente (ad esempio ufficio patrimonio)
[7].
Per quanto attiene ai profili di responsabilità nell'utilizzo dei mezzi comunali non conforme alle regole o da parte di chi non ha i requisiti per l'utilizzo del veicolo
[8], oltre alla personale responsabilità del volontario secondo i principi generali che saranno approfonditi in seguito, si rammenta che, in base alla previsione dell'articolo 6 del regolamento comunale di protezione civile, è il coordinatore del gruppo che sceglie l'attrezzatura e i volontari necessari per l'intervento. Potrebbe, pertanto, profilarsi anche la responsabilità del coordinatore nell'ipotesi in cui indichi e scelga quale volontario per la conduzione di un mezzo comunale un soggetto privo dei requisiti e delle indispensabili abilitazioni (culpa in eligendo).
Si affronta ora il quesito la cui trattazione richiede considerazioni più ampie ed estese, essendo necessario confrontarsi con i profili attinenti alla responsabilità dei volontari di protezione civile, nell'ipotesi in cui durante le attività di questi ultimi si verifichino delle fattispecie di danno a mezzi, persone e/o cose. Come richiesto dal soggetto instante, è, infatti, bene esaminare i principali lineamenti della responsabilità giuridica nella quale possono incorrere i volontari della protezione civile nell'esercizio delle loro mansioni. Anche il volontario è, invero, investito nel corso della sua attività da responsabilità ed è chiamato a rispondere nell'ipotesi di violazione -colposa o dolosa- di un obbligo giuridico
[9].
Per quanto attiene ai profili di responsabilità civile, il volontario potrebbe incorrere in quella forma di responsabilità denominata extracontrattuale, per la quale qualunque fatto (doloso o colposo) che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno (articolo 2043 c.c.)
[10]. La responsabilità in cui il volontario può incorrere sarà più probabilmente di tipo colposo [11] ovverosia dovuta a negligenza, imprudenza o imperizia del soggetto [12].
Nell'ipotesi in cui il singolo volontario -precedentemente addestrato- provochi dei danni (ad esempio, per errori di manovra nell'utilizzo dell'attrezzatura in dotazione), determinati da colpa per non aver seguito le regole cautelari o di condotta assimilate durante la formazione, si configura, quindi, un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale a carico del medesimo. Così, nel caso in cui, per mancato utilizzo di idonee misure cautelari, sia arrecato un danno a terzi, si appalesa una responsabilità extracontrattuale gravante sul volontario
[13].
È, ora, doveroso evidenziare che, mentre dal punto di vista penale, la responsabilità è personale e non può estendersi in capo al Comune per il quale il volontario ha operato, dal punto di vista civilistico, potrebbe sussistere anche la responsabilità dell'ente locale ai sensi dell'articolo 2049 c.c.
[14]. Ed, invero, l'articolo citato contiene una norma ritenuta applicabile anche alla pubblica amministrazione [15].
Per i risvolti che può assumere in relazione all'attività svolta dal volontario di protezione civile, sembra, dunque, potersi richiamare quel tipo di responsabilità 'oggettiva', denominata 'Responsabilità dei padroni e dei committenti', estensibile a tutte le ipotesi di responsabilità del preponente per i danni arrecati dal fatto illecito dei propri preposti e disciplinata dall'articolo 2049 del codice civile. Per l'articolo ora menzionato, del fatto dannoso compiuto da un preposto, da un commesso o da un dipendente, rispondono anche, rispettivamente, il preponente, il committente, il datore di lavoro, ovverosia coloro che si sono avvalsi, per l'espletamento di un'opera o di un servizio, di un altro soggetto, assumendo su di sé il rischio derivante dall'inserimento di quel lavoratore nell'ambito della propria organizzazione
[16].
Ai sensi di tale disposizione, a cagione del fatto commesso dai propri preposti, ne deriverebbe, per l'ente pubblico, il dovere giuridico di risarcire il danno arrecato al privato, in violazione del generale precetto -sancito dall'articolo 2043 c.c.- di non recare danno ingiusto a nessuno.
Si rammenta che i volontari della protezione civile operano, all'interno di una organizzazione/gruppo comunale, a favore della pubblica amministrazione ed espletano, per questa, funzioni istituzionali. Ai fini della responsabilità indiretta prevista dall'articolo 2049 c.c., non è richiesta l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, mentre è condizione necessaria e sufficiente la sussistenza di un incarico di esecuzione di opere/servizi, anche di carattere occasionale e temporaneo, che importi un vincolo di dipendenza, vigilanza e sorveglianza tra preponente e preposto, in relazione alle mansioni a questo affidate
[17]. Ciò che conta, ai fini del sorgere della responsabilità ex articolo 2049 c.c., è, dunque, la natura subordinata dell'attività del preposto, la quale deriva non dal carattere precario o stabile della mansione, né dal fatto che essa sia retribuita o meno (né dalle modalità di detta retribuzione), ma dall'inserimento dell'attività stessa nella struttura organizzativa e funzionale dell'ente che la utilizza [18].
Si evidenzia, inoltre, che la presunzione di responsabilità, sancita dall'articolo 2049 c.c., postula un collegamento tra il fatto dannoso, commesso dal preposto ed il lavoro da costui disimpegnato. A tal fine, non si richiede un vero e proprio nesso di causalità, ma è sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che l'incombenza svolta dal preposto abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso
[19].
Le regole qui esposte trovano applicazione soltanto se il danno è cagionato nell'espletamento di funzioni affidate, non se il volontario agisce in autonomia. Ed, invero, il preponente può essere esonerato dalla responsabilità del preposto qualora dimostri che il comportamento di quest'ultimo e le conseguenze che ne sono dipese presentino i caratteri dell'abnormità e dell'eccezionalità rispetto alle funzioni ed alle imposizioni organizzative ricevute o che questo abbia agito nell'ambito della propria privata autonomia ed attività. La riferibilità dell'atto alla pubblica amministrazione (cosiddetta responsabilità per fatto altrui ex articolo 2049 c.c.) deve, pertanto, essere esclusa quando l'azione del preposto costituisce un atto personale del medesimo, posto in essere al di fuori dell'esplicazione delle funzioni amministrative e per fini del tutto personali e cioè al di fuori di quelli istituzionali dell'ente.
Tutti i principi sopra evidenziati valgono anche con riferimento al volontario della protezione civile. In tal caso, per il danneggiato, sarà sufficiente provare l'esistenza di un 'rapporto di subordinazione' tra il soggetto agente (volontario) e il soggetto ritenuto formalmente responsabile (Comune), oltre al fatto che il primo abbia agito nell'ambito delle incombenze cui è adibito
[20]. L'ente pubblico si assume, pertanto, il rischio dei danni che possono derivare dall'aver preposto un volontario a svolgere i propri compiti ed è, quindi, responsabile del danno (anche se la prestazione è solo occasionale).
Preponente e preposto -nella fattispecie prospettata dal soggetto instante, rispettivamente, Comune e volontario- sono chiamati a rispondere in solido nei confronti del terzo danneggiato: il primo a titolo di responsabilità oggettiva per fatto altrui ex articolo 2049 c.c. (responsabilità indiretta); il secondo a titolo di responsabilità per fatto proprio ex articolo 2043 c.c. (responsabilità diretta). Il titolo della responsabilità per i due soggetti è, quindi, diverso. In ogni caso, l'unicità del fatto illecito, dannoso per i terzi, determina la solidarietà tra i vari soggetti (nel caso in esame, pubblica amministrazione e volontario) obbligati verso il danneggiato
[21].
Così, per la giurisprudenza, la sussistenza di specifici elementi di colpa addebitabili al preposto, autore del comportamento dannoso e la propagazione della responsabilità ex articolo 2049 al committente, legittimano il danneggiato alla domanda di risarcimento del danno nei confronti di entrambi, restando del tutto indifferente, a tal fine, la diversa normativa che configura le responsabilità di questi
[22].
Si precisa, infine, che il preponente (Comune), che risarcisce il danno patito dal terzo, ha azione di regresso nei confronti del preposto (volontario) che quel danno ha causato
[23]. Ed, invero, l'art. 2049 c.c. prospetta una ipotesi di responsabilità oggettiva per fatto altrui, a garanzia della pretesa risarcitoria dei terzi danneggiati, salvo l'esercizio dell'azione di regresso nei confronti dell'autore del danno.
Per quanto attiene, invece, ai profili di responsabilità penale, si evidenzia il principio fondamentale in materia, esplicitato nell'articolo 27 della Costituzione: 'La responsabilità penale è personale'. Non può esistere, pertanto, una responsabilità penale della pubblica amministrazione poiché tale forma di responsabilità ha natura personale, per cui solo gli individui possono esserne investiti
[24].
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[1] Ad esempio, le spese sostenute per attività autorizzate dal sindaco a supporto di manifestazioni, spese di riscaldamento e illuminazione della sede per tempi e modi individuati dai volontari.
[2] Se l'acquisto sia necessario, quale tipo di prodotto, le ditte cui rivolgersi.
[3] Letto il regolamento comunale di protezione civile dell'ente instante, si rammenta che, ai sensi dell'articolo 3 di quest'ultimo, il sindaco è responsabile unico del gruppo e ai sensi dell'articolo 13 è garante del rispetto e dell'osservanza del regolamento medesimo.
[4] Anche l'articolo 3 del regolamento comunale di protezione civile dell'ente instante contempla la nomina, da parte del sindaco, di un coordinatore -individuato tra i volontari- al quale compete l'organizzazione e la responsabilità operativa di tutte le attività svolte dal gruppo. Ai sensi dell'articolo 6 del citato regolamento, spetta, così, al coordinatore, su ordine del sindaco, la scelta dell'attrezzatura e dei volontari da impiegare, al fine di garantire la tempestività e la idoneità tecnica degli interventi di protezione civile.
[5] L'articolo dispone: '1. Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. 2. Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario ... . 3. Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente: a) la presidenza delle commissioni di gara ...; b) la responsabilità delle procedure d'appalto ...; c) la stipulazione dei contratti; d) gli atti di gestione finanziaria, ivi compresa l'assunzione di impegni di spesa; ... i ) gli atti ad essi attribuiti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal sindaco. 4. Le attribuzioni dei dirigenti ... possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. 5. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III (n.d.r.: consiglio, giunta, sindaco) l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti ... . 6. I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell'ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione'.
[6] Si legga L. Alessandrini, 'Ruolo e funzioni del Comune e del sindaco in protezione civile', DPCinforma (periodico informativo del Dipartimento della Protezione Civile), supplemento al n. 32, gennaio 2001.
[7] Si veda, in tal senso, il parere dell'Anci datato 13.02.2008.
[8] Ad esempio, per quanto riguarda la tipologia di patente necessaria per la conduzione del veicolo, occorre fare riferimento alla specifica normativa vigente in materia, contenuta nel codice della strada (decreto legislativo 30.04.1992, n. 285).
[9] Il volontario, come qualunque cittadino, è responsabile civilmente e penalmente; quindi è tenuto a risarcire il danno che cagiona ad un terzo durante la sua attività e a subire anche l'applicazione delle sanzioni previste dall'ordinamento giuridico penale, qualora la condotta mantenuta sia rilevante penalmente.
[10] La responsabilità extracontrattuale scaturisce dalla violazione di norme di condotta che regolano la vita sociale ed impongono doveri di rispetto degli interessi altrui.
[11] Nell'attività di volontariato, dato il fine di solidarietà e collaborazione sociale dell'azione prestata, la responsabilità si configura di norma come colposa, cioè priva della volontà di creare il danno. Si legga G. Galli 'I profili di responsabilità giuridica del volontario di Protezione Civile';
[12] Quale criterio di valutazione del comportamento tenuto dal volontario, la diligenza è quella dovuta secondo le circostanze e non la 'diligenza media'. Data l'utilità collettiva del comportamento, si ritiene socialmente tollerabile un rischio di danno maggiore, in circostanze qualificate come possono essere quelle di un intervento di protezione civile. Si legga ancora G. Galli 'I profili di responsabilità giuridica del volontario di Protezione Civile', cit.. La negligenza consiste in un difetto di attenzione volta alla salvaguardia altrui e rappresenta l'antitesi tra il comportamento tenuto dal soggetto agente e le regole universali che indicano quali sono le condotte diligenti. L'imprudenza consiste nel difetto delle misure di cautela dirette a prevenire e ad evitare il verificarsi del danno. Tali norme di cautela possono essere imposte contrattualmente a chi svolge particolari attività e l'inosservanza di tali norme è sufficiente a connotare il carattere colposo del fatto. L'imperizia consiste nell'inosservanza delle regole tecniche proprie di una determinata professione; essa può derivare o dalla carenza di preparazione del soggetto che agisce o dalla carenza di mezzi tecnici.
[13] Il danneggiato potrebbe adire le vie giudiziarie instaurando un procedimento civile al fine di ottenere il ristoro dei danni subiti.
È opportuno, qui, ricordare che, ai sensi della legge regionale 31.12.1986, n. 64 (Organizzazione delle strutture ed interventi di competenza regionale in materia di protezione civile), articolo 10, comma 1, lettera f), l'amministrazione regionale è autorizzata a sostenere gli oneri relativi a coperture assicurative, a favore degli operatori della protezione civile, siano essi dipendenti degli enti o volontari, per l'ipotesi di infortuni e malattia e per danni a terzi (responsabilità civile verso terzi) al fine di manlevare i volontari dal dovere di risarcire i danni causati a terzi soggetti, laddove essi abbiano agito nell'ambito dell'espletamento delle mansioni affidate dal gruppo di appartenenza in attività di protezione civile (addestramento, esercitazione, prevenzione, emergenza ...).
[14] L'articolo statuisce: 'I padroni e di committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti'.
[15] Si legga S. Baggio, 'La responsabilità della struttura sanitaria', Giuffrè, 2008, 512.
[16] Il principio che sta alla base di tale responsabilità è quello che mira ad agevolare il danneggiato permettendogli di ottenere ristoro del danno subito mediante l'immediata imputazione della responsabilità dell'evento dannoso in capo al datore di lavoro per il fatto commesso dal dipendente.
[17] Cassazione Civile, sentenza n. 2732/1970.
[18] Cassazione Civile, sentenze 27.07.1998, n. 7336 e 05.05.1980, n. 2957. Per Cassazione Civile, sentenze nn. 15362/2004 e 3616/1988, è sufficiente che le persone siano inserite, anche se temporaneamente o occasionalmente, nell'organizzazione aziendale ed abbiano agito, in questo contesto, per conto e sotto la vigilanza dell'imprenditore. Si legga ancora S. Baggio, 'La responsabilità della struttura sanitaria', cit., 527.
[19] Così, Cassazione Civile, sentenze nn. 4951/2002 e 6341/98. È, poi, doveroso segnalare quanto precisato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, in alcune occasioni, ha rimarcato come la responsabilità del preponente ex articolo 2049 c.c. non è esclusa neppure nell'ipotesi in cui il soggetto della cui attività egli si sia avvalso abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze o persino trasgredendo gli ordini ricevuti (Cassazione Civile, sentenza n. 2574/1999) o addirittura agendo con dolo (Cassazione Civile, sentenza n. 89/2002). Si scorra, al riguardo anche S. Baggio, 'La responsabilità della struttura sanitaria', cit., 512.
Ai fini dell'insorgenza della responsabilità di cui all'articolo 2049 c.c. è sufficiente che il preposto agisca nell'ambito dell'incarico affidatogli, così da non configurare una condotta del tutto estranea rispetto al rapporto con il preponente (Cassazione Civile, sentenze nn. 6506/95 e 14096/01), in modo che il comportamento produttivo di danno sia comunque tenuto per finalità coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni gli furono affidate e non per finalità proprie alle quali il committente non sia, neppure, mediatamente interessato o compartecipe (così, Cassazione Civile, sentenza n. 12417/98). Si scorrano anche Cassazione Civile, sez. lav., sentenza del 03.04.1991, n. 3442, nonché Cassazione Civile, sentenze nn. 2734/94, 7760/1992 e 4927/1988.
[20] Come già evidenziato, la giurisprudenza ha, al riguardo, in particolare, chiarito che tale rapporto potrà consistere anche in un vincolo di mera occasionalità tra il committente e colui che esegue l'incarico. 'La responsabilità del committente per fatto proprio dell'ausiliario di cui all'articolo 2049 c.c. sussiste non solo in presenza di un rapporto contrattuale ma anche in presenza di un rapporto effettuale che leghi due soggetti, dei quali uno esplichi, in posizione di subordinazione, un'attività per conto dell'altro, il quale conservi un potere di direzione e sorveglianza sulla condotta del primo'. Così, Cassazione Civile, sentenza del 09.08.1991, n. 8668. È la possibilità di controllare l'operato del soggetto che determina la posizione di determinazione e, quindi, la responsabilità ex articolo 2049 c.c.
[21] Si veda Cassazione Civile, sentenza n. 1343/1972.
[22] Cassazione Civile, sez. III, sentenza 06.01.1983, n. 75.
[23] Si veda Tribunale penale di Milano, sez. I, sentenza 19 dicembre 2005. In dottrina, si legga M. Rodolfi, 'La responsabilità civile', Il Giudice di Pace Quaderni, Ipsoa, 2007, n. 9.
[24] È, inoltre, sempre personale anche la responsabilità connessa a una violazione amministrativa (ad esempio, per infrazione al codice della strada commessa con mezzi comunali - violazioni per eccesso di velocità, per attraversamento di incrocio con semaforo rosso, per divieto di sosta, eccetera). Si veda il parere Anci datato 09.01.200
6
(29.12.2014 - link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Concessione di contributi e vantaggi economici all'associazionismo locale.
La disciplina della concessione di contributi e di vantaggi economici, ai sensi dell'art. 12 della L. 241/1990, ricade nell'ambito dell'autonomia regolamentare del comune, al quale spetta l'interpretazione del proprio regolamento nonché, eventualmente, stabilire, con disposizione espressa, il divieto di cumulo di provvidenze diverse. In assenza di una tale previsione la cumulabilità dovrebbe ritenersi consentita.
Il Comune, dopo aver premesso che il proprio regolamento per la concessione di contributi, vantaggi economici, patrocinio e premi di rappresentanza -distintamente disciplinati- contempla, tra le tipologie di vantaggio economico, tariffe agevolate
[1] o ridotte [2] per l'uso di immobili comunali, chiede di conoscere se un'associazione locale, che già fruisca di tale beneficio nello svolgimento di una determinata attività, possa presentare domanda di contributo per la realizzazione della medesima iniziativa ed, in ipotesi positiva, se risulti ammissibile 'concedere il contributo ammettendo qualsiasi pezza giustificativa della spesa sostenuta oppure concedere il contributo richiedendo espressamente la documentazione di spese diverse dal pagamento parziale della concessione di utilizzo del bene per il quale si è già avuto il vantaggio economico'.
Sentito il Servizio finanza locale si formulano le seguenti considerazioni.
Anzitutto, si rileva che sulla problematica oggetto di quesito non si rinvengono indicazioni normative o interpretative, né pronunce giurisprudenziali.
Si segnala poi, in termini generali, che l'argomento in esame ricade nell'ambito dell'autonomia regolamentare del Comune, al quale spetta l'interpretazione del proprio regolamento vigente nonché, eventualmente, stabilire, con disposizione espressa, il divieto di cumulo delle due provvidenze. In assenza di una tale previsione la cumulabilità dovrebbe ritenersi consentita.
Quanto alla specifica fattispecie, si osserva che l'attuale regolamento comunale disciplina separatamente i contributi (Capo I: artt. 5-15) e i vantaggi economici (Capo II: artt. 16-17). In tale contesto non sembra rinvenirsi alcuna disposizione che possa apparire ostativa al cumulo dei due benefici.
Ciò posto - ferma restando la piena discrezionalità del Comune nel sancire, in via regolamentare, un divieto di cumulo o prevedere l'estromissione, dalle spese ammissibili a contributo, di quanto pagato a titolo di tariffa agevolata/ridotta - si ritiene di poter segnalare che l'ammissibilità a contributo della spesa per l'uso di immobili comunali rimasta effettivamente a carico dell'associazione sembrerebbe potersi ritenere coerente con la previsione dell'art. 10 del regolamento, il quale stabilisce che l'Amministrazione comunale può concedere contributi «a copertura» degli oneri relativi, tra gli altri, alle spese per «[...] conduzione dei locali sede dell'iniziativa» e per «l'affitto e noleggio locali».
Quanto al quesito concernente la dimostrazione della spesa sostenuta dall'associa-zione, la disciplina sembra potersi rinvenire nell'art. 13, secondo comma, del regolamento, il quale dispone che, in sede di rendicontazione, i soggetti beneficiari dei contributi devono produrre una sintetica relazione sull'avvenuto svolgimento della manifestazione o dell'iniziativa, «corredata dall'elenco analitico dei giustificativi di spesa (fatture, notule, ricevute, ecc.), indicando anche eventuali entrate proprie, contributi pubblici, privati e sponsorizzazioni ottenuti per la stessa, la cui sommatoria, aggiunta al contributo comunale erogato, non deve complessivamente superare l'ammontare dei costi rimasti effettivamente a carico del beneficiario».
L'art. 15, primo comma, lett. c), dello stesso regolamento prevede, infatti, che «Comporta la revoca del contributo concesso e, ove questo sia già stato liquidato, la restituzione del medesimo: [...] c) il saldo attivo dell'iniziativa o attività derivante dal contributo concesso rispetto ai costi sostenuti dal beneficiario, per la parte concorrente al saldo».
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[1] Previste in favore di enti ed associazioni privi di scopo di lucro.
[2] Contemplate per le associazioni iscritte all'Albo comunale dell'associazionismo
(23.12.2014 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIA: Mud 2015, operazione restyling. Più informazioni sui rifiuti da comunicare entro il 30/4. Il Dpcm 17.12.2014 detta le istruzioni per la nuova dichiarazione verde.
Descrizione più analitica su stato fisico e destinazione finale dei rifiuti.
Questa una delle novità formali previste dal Dpcm 17.12.2014 recante la nuova modulistica per la dichiarazione ambientale «Mud» da effettuare entro il prossimo 30.04.2015 alle competenti Camere di commercio in relazione ai residui prodotti o gestiti nell'anno precedente.
Dal punto di vista dei soggetti obbligati e delle categorie dei materiali da dichiarare il nuovo Dpcm (adottato in attuazione della legge 70/1994, istitutiva del «740 verde», e pubblicato sul Supplemento ordinario n. 97 alla G.U. del 27/12/2014 n. 299) conferma invece quanto già previsto per la comunicazione dello scorso anno, limitandosi a recepire alcuni mutamenti normativi come l'avvicendarsi, in tema di «Raee», del nuovo dlgs 49/2014 al pregresso dlgs 151/2005 e la sospensione della piena operatività del Sistri che ha interessato l'intero 2014.
Cosa comunicare. Il Dpcm 17.12.2014 conferma innanzitutto le sei categorie di beni oggetto di comunicazione: «rifiuti», «veicoli fuori uso», «imballaggi», «Raee», «rifiuti urbani», «Aee». La modulistica da compilare in relazione alla «comunicazione rifiuti» impone però di fornire alla p.a. maggiori informazioni rispetto a quelle richieste dal pregresso Dpcm 12.12.2013 (relativo al «Mud» 2014), prevedendo una più articolata descrizione dello «stato fisico» dei rifiuti prodotti o gestiti (con la comparsa della nuova e aggiuntiva voce «vischioso e sciropposo») e una duplice declinazione dei quantitativi dei rifiuti ancora in giacenza presso l'azienda (da dichiarare separatamente in base alla destinazione finale: recupero o smaltimento).
Permane la «Scheda materiali» già prevista dal Dpcm 12.12.2013 per dichiarare le eventuali quantità di «materiali secondari» generati ex articolo 184-ter del dlgs 152/2006, quali beni che hanno cessato di essere rifiuti all'esito delle procedure tecniche e burocratiche di recupero previste dalle regole sull'end of waste.
Chi è obbligato alla dichiarazione. Obbligati alla «comunicazione rifiuti» sono i produttori e i gestori di rifiuti individuati dagli articoli 189 (nella sua versione 2pre Sistri», ossia precedente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010) e 220 del dlgs 152/2006 (salvo l'obbligo di effettuare, per quanto di competenza, anche la diversa «comunicazione imballaggi»), nonché i gestori di rifiuti portuali individuati dall'articolo 4, comma 6 del dlgs 182/2003. Obbligati alla «comunicazione veicoli fuori uso» sono invece i soggetti che gestiscono i rifiuti di categoria individuati dal dlgs 209/2003 (mentre quelli rientranti nel dlgs 152/2006, seppur analoghi, vanno dichiarati nella citata «comunicazione rifiuti»).
La «comunicazione imballaggi» continua a interessare Consorzi e gestori di impianti di rifiuti di imballaggio individuati dall'articolo 220 e seguenti dello stesso «Codice ambientale». La platea dei soggetti interessati alle comunicazioni «Raee» (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) e «Aee» (apparecchiature elettriche ed elettroniche) sono invece quelli rispettivamente previsti dagli articoli 19, comma 6 e 29, comma 6, del nuovo dlgs 49/2014, il provvedimento che dal 12.04.2014 ha sostituito quasi integralmente il pregresso dlgs 151/2005. La comunicazione «Rifiuti urbani, assimilati e raccolti in convenzione» resta appannaggio dei soggetti istituzionali responsabili dei servizi di gestione integrata rifiuti, che devono ivi comunicare anche i Raee raccolti tramite gli appositi «centri».
Termini e modalità della comunicazione. La deadline per la presentazione è, come accennato, quella del 30 aprile 2015. Sostanzialmente invariate rispetto allo scorso anno sono anche modalità di compilazione del modello e di presentazione della dichiarazione.
La compilazione dovrà essere effettuata su supporto informatico secondo le istruzioni del Dpcm 17.12.2014, con la possibilità per i piccoli produttori iniziali di rifiuti (non più di sette tipologie di rifiuti per unità locale, con utilizzo fino a 3 trasportatori e fino a 3 destinatari finali) di scegliere una modalità «semplificata» che prevede l'utilizzo di modulistica cartacea.
Parallelamente, la presentazione della dichiarazione alle camere di commercio territorialmente competenti dovrà essere fatta entro il citato termine per via telematica nel primo caso, tramite inoltro della modulistica cartacea nel secondo caso.
Mud e Sistri. La dichiarazione «Mud» interesserà nel 2015 come nel 2016 anche i produttori e gestori dei rifiuti che operano in Sistri. In relazione al 2015 l'obbligo scaturisce dal dl 101/2013, provvedimento che ha sospeso per l'anno 2014 tutte le sanzioni relative alle violazioni degli obblighi di tracciamento telematico dei rifiuti, imponendo però ai soggetti interessati di tenere (dietro minaccia delle relative pene) le tradizionali scritture ambientali (registri di carico/scarico, formulario di trasporto, dichiarazione ambientale).
In relazione al 2016, l'obbligo deriva invece dal dl 192/2014 (c.d. «Milleproroghe», pubblicato sulla G.U. del 31.12.2014, n. 302, dunque successivamente al Dpcm 17.12.2014) che impone agli «operatori Sistri» di continuare a effettuare il tracciamento tradizionale dei rifiuti (dunque, «Mud» compreso) anche per tutto il 2015, questa volta sospendendo però (lo ricordiamo) fino al 31 dicembre dell'anno in corso solo le sanzioni relative alle violazioni delle regole operative del tracciamento telematico (tenuta delle schede informatiche, radio controllo del trasporto rifiuti, videosorveglianza discariche) e prevedendo invece la sanzionabilità dal 01.02.2015 dell'omessa iscrizione al nuovo Sistema telematico e del mancato pagamento del relativo contributo anno (si veda ItaliaOggi Sette del 05/01/2015) (articolo ItaliaOggi Sette del 12.01.2015).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Acquisti, incognita risorse per le «alleanze» fra enti. Consip e centrali regionali non soddisfano tutti i bisogni. Comuni non capoluogo. Le strade per acquisire il codice identificativo della gara.
Negli acquisti di beni e servizi, dal 1° gennaio i Comuni non capoluogo possono ottenere il codice identificativo gara dall’Anac solo se dichiarano che stanno operando nel rispetto delle nuove disposizioni sulle centrali di committenza. Questi Comuni devono effettuare i loro acquisti facendo riferimento alle soluzioni previste dall’articolo 33, comma 3-bis del Codice dei contratti, e dal 1° luglio dovranno attenersi a questi moduli anche per l’affidamento degli appalti di lavori.
L’Anac ha recepito l’obbligo normativo e dall’inizio dell’anno ha inserito nella procedura per l’acquisizione del Cig una schermata specifica, nella quale il Rup deve rendere una dichiarazione sostitutiva sul fatto che sta operando secondo uno dei moduli di acquisizione previsti dalla disposizione del Codice riformulata dalla legge 89/2014. Questa dichiarazione è correlata all’obbligo, per l’Autorità, di non concedere il Cig ai Comuni non capoluogo che operino singolarmente.
Il nuovo quadro presenta ancora numerose criticità. Il primo modello individuato dalla norma, quello delle Unioni di comuni, ha una diffusione molto disomogenea e solo in pochi casi è stato individuato anche come soggetto a cui affidare la gestione delle procedure. Se l’Unione esiste, i Comuni aderenti devono farvi ricorso come centrale di committenza.
Il novero dei soggetti aggregatori non è ancora definito, pertanto per gli enti è possibile prendere in considerazione su questo versante solo la Consip e le centrali di committenza regionali (soggetti per i quali il Dpcm attuativo dell’articolo 9, comma 2, della legge 89/2014 prevede l’iscrizione obbligatoria nell’elenco). Peraltro la Consip e le centrali regionali non soddisfano tutti i potenziali fabbisogni delle amministrazioni, per cui queste devono fare ricorso ad una delle altre soluzioni indicate nella norma. In questa prospettiva l’accordo con altri Comuni non capoluogo si presenta come il modello più facilmente gestibile, dato che in molte province non sono ancora state attivate le stazioni uniche appaltanti (Sua).
L’impostazione delle convenzioni (in base all’articolo 30 del Tuel) presenta però vari problemi: dalla scelta tra la costituzione di un ufficio comune e l’individuazione di un ente capofila (al quale delegare lo svolgimento delle procedure), all’individuazione delle risorse umane che per ciascun Comune opereranno presso il nuovo soggetto.
Per i singoli enti ci sono ancora molte difficoltà interpretative sulla gestione dei lavori di urgenza e di estrema urgenza, previsti dagli articoli 175 e 176 del Dpr 207/2010, in quanto difficilmente riconducibili alle mini-centrali di committenza proprio per i loro presupposti (che possono comportare l’affidamento direttamente da parte del tecnico comunale che interviene sul posto).
Le amministrazioni devono invece riportare senza alcun dubbio al modello di acquisizione prescelto le procedure di acquisto di beni o servizi con ricorso a cooperative sociali di tipo B, e quelle di affidamento di attività ad associazioni sportive e organismi di volontariato, quando queste comportino l’acquisizione del Cig e non possano rientrare nelle soluzioni derogatorie previste dalla normativa (Mepa, piattaforme elettroniche, affidamenti tradizionali entro 40mila euro).
Per aiutare le amministrazioni ad affrontare tali problematiche, l’Anci sta predisponendo una guida con modelli e schemi di atti, che verrà resa disponibile a breve
 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.01.2015).

ENTI LOCALI: Per le gestioni associate convenzioni più flessibili. Piccoli enti. Unico vincolo la durata triennale.
Le gestioni associate delle funzioni fondamentali devono essere definite e attivate dai Comuni fino a 5mila abitanti.
Il Dl 192/2014 non prevede al momento proroghe ulteriori, e gli enti che non l’abbiano ancora fatto devono individuare il modulo organizzativo per tutte le funzioni fondamentali e attivarlo. Tra novembre e dicembre molti Prefetti hanno inviato ai Comuni interessati e ancora inadempienti lettere di diffida, indicando nella prima metà di gennaio il termine per far pervenire una comunicazione riassuntiva degli atti adottati.
Per operare, pur in tempi così stretti, i Comuni possono scegliere tra l’Unione (articolo 32 del Tuel), potendo aderire solo a una, e quello più flessibile delle convenzioni (articolo 30), per le quali è prevista una durata almeno triennale.
Per le Unioni la normativa prevede anche un dimensionamento minimo, stabilito in 10mila abitanti, salvo diversa scelta regionale. I Comuni possono invece stipulare più convenzioni, non avendo, al di là del dato temporale, ulteriori limiti particolari (nemmeno in ordine al dimensionamento minimo).
La scelta della soluzione più idonea si riflette anche sull’esercizio in forma associata di molti servizi, tra i quali i servizi sociali, il trasporto pubblico e la gestione dei rifiuti.
Nella prospettiva di organizzazione di area vasta, i Comuni devono procedere entro il 28 febbraio all’adesione agli enti di governo degli ambiti e dei bacini territoriali ottimali individuati dalle Regioni per i servizi pubblici locali a rete (con rilevanza economica), secondo quanto previsto dalla legge di stabilità 2015 (comma 609).
Se le regioni non hanno ancora istituito o designato l’ente di governo dell’Ato, il termine è stabilito in 60 giorni dal momento in cui l’organismo sarà individuato. La mancata adesione comporta la diffida e, in caso di ulteriore inadempienza dopo 30 giorni, l’esercizio del potere sostitutivo da parte del presidente della Regione.
Il quadro normativo rafforzato dalle disposizioni della legge di stabilità impedisce ai singoli Comuni di affidare servizi pubblici locali a rete e con rilevanza economica, qualora sia stato già costituito l’ente di governo (come nel caso dell’Emilia-Romagna con l’agenzia Atersir o del Veneto con i consigli di bacino)
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti a contratto, assunzioni bloccate.
Gli enti locali non potranno assumere dirigenti a contratto, ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2001, in combinazione con l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001.

È l'effetto del congelamento biennale delle assunzioni, per gli anni 2015 e 2016, imposto dall'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014.
Nonostante la norma sia espressamente riferita solo al divieto di effettuare assunzioni a tempo indeterminato, se non per i vincitori dei concorsi inseriti in graduatorie vigenti o approvate al 31/12/2014 o per i dipendenti delle province in sovrannumero, i suoi effetti si estendono anche alle assunzioni dei dirigenti a contratto.
Soccorre allo scopo la sia pure poco persuasiva deliberazione della sezione autonomie della Corte dei conti 12.06.2012. In risposta al quesito se la spesa per le assunzioni dei dirigenti a tempo determinato ex articolo 110 del dlgs 267/2000 rientrasse o meno nei vincoli stabiliti dall'articolo 9, comma 28, del dl 70/2010 e, dunque, nel 50% della spesa sostenuta per lavoro flessibile nel 2009, la sezione ha ritenuto che le assunzioni di dirigenti a contratto fossero sottratte a detto vincolo.
Secondo la sezione, i primi due periodi dell'articolo 19, comma 6-quater, del dlgs 165/2001 vigente prima della modifica operata col dl 90/2014 «sottraggono gli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato, conferibili dagli enti locali ex art. 110, comma 1 del Tuel, ai vincoli assunzionali previsti dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010 nonché al vincolo assunzionale, già previsto dall'art. 76, comma 7, primo periodo, seconda parte (entro il limite del 40% della spesa per cessazioni dell'anno precedente)».
La sezione autonomie ha ritenuto, sulla base dell'interpretazione letterale del testo allora vigente dell'articolo 19, comma 6-quater, emergesse l'intento del legislatore di sottoporre il conferimento degli incarichi dirigenziali a tempo determinato ex articolo 110, comma 1, «ai soli vincoli di spesa e assunzionali ai quali è soggetto l'ente per il tempo indeterminato. Ciò, al fine di svincolare l'amministrazione territoriale da ulteriori restrizioni assunzionali riservate a determinate categorie di personale, occupandosi quindi di bilanciare gli effetti occupazionali conseguenti alla disciplina di contenimento degli incarichi dirigenziali a contratto con quella per il lavoro a tempo indeterminato e non anche con quella che regola i rapporti di lavoro a tempo determinato o flessibile».
In sostanza, la Corte dei conti considera che poiché l'articolo 110, comma 1, del Tuel consente assunzioni a tempo determinato di dirigenti ma su fabbisogni stabili della dotazione organica, unica ipotesi ammessa, dunque, di contratti flessibili come alternativa a quelli a tempo indeterminato, detti contratti debbano rispettare non il tetto di spesa al lavoro flessibile, bensì i tetti di spesa per il turnover dei dipendenti a tempo indeterminato.
In effetti, al di là del supporto ermeneutico fornito dalla magistratura contabile, se un ente locale decidesse nel biennio 2015-2016 di coprire, sia pure solo a tempo determinato, un posto della dotazione organica dirigenziale «consumando» così la spesa del turnover a propria disposizione, impedirebbe a dirigenti delle province o vincitori di concorsi per qualifica dirigenziale aventi i requisiti stabiliti dalla legge 190/2014 di essere ricollocati o ottenere la immissione in servizio.
Dunque, il ricorso alle assunzioni di dirigenti a contratto vanificherebbe la ricollocazione dei circa 750 dirigenti provinciali che si troveranno in sovrannumero da qui al 31 marzo prossimo, in attuazione della legge di Stabilità 2015. Conseguentemente, le assunzioni di dirigenti a chiamata dovranno considerarsi nulle (articolo ItaliaOggi del 10.01.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Riparazione pecuniaria per delitti contro la p.a.. In aggiunta al risarcimento danni.
Arriva la riparazione pecuniaria per i delitti contro la pubblica amministrazione. Oltre al risarcimento del danno, i soggetti condannati saranno tenuti all'integrale restituzione, alla p.a. stessa, dell'ammontare di quanto indebitamente ottenuto. Non solo. Al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio sarà concesso di fare richiesta per lo sconto o la conversione delle pena solo nel caso in cui abbiano integralmente restituito il prezzo o il profitto del reato.
Queste alcune delle misure contenute nel ddl 19 (voto di scambio, falso in bilancio) al vaglio della commissione giustizia del senato a cui il governo, nella tarda serata di mercoledì, ha presentato alcune proposte di modifica con l'obiettivo di trasporre nel testo il contenuto del ddl anticorruzione varato nel corso del Consiglio dei ministri del 12 dicembre scorso (si veda ItaliaOggi di ieri).
Un pacchetto di misure, quello che sta prendendo forma all'interno del ddl 19, suddiviso in tre comparti normativi: anticorruzione, reati economici e antimafia. Il testo, però, resta suscettibile di modifiche. E stata, infatti, fissata il 19 gennaio la scadenza per la presentazione dei subemendamenti alle proposte di modifica del governo. E, proprio in sede di votazione degli emendamenti (compresi quelli giacenti in commissione da giugno scorso) la commissione, di concerto con l'esecutivo, dovrà decidere se mantenere due testi separati (anticorruzione e reati economici da una parte e norme antimafia dall'altra) o se far confluire tutto all'interno del ddl 19 così come suggerito dall'esecutivo nel corso della riunione della commissione di mercoledì sera.
Da un punto di vista normativo, però, l'impianto più solido (le modifiche proposte sono, infatti, solo in aggiunta e non di modifica) sembra essere quello del contrasto alla corruzione. E la a strada scelta è quella dell'inasprimento delle pene sia sul fronte della reclusione sia sul fronte economico.
Per quanto attiene la reclusione sono aumentate da 8 a 10 anni e da 3 a 5 anni tutte le pene edittali previste per i reati contro la p.a. Sul fronte pecuniario, invece, il ddl 19 prevede l'introduzione dell'art. 322-quater del codice penale rubricato riparazione pecuniaria. In base al nuovo disposto della norma i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio condannati per uno dei reati contro la p.a. oltre al risarcimento del danno saranno tenuti alla restituzione in termini monetari, verso l'amministrazione di riferimento, di quanto indebitamente ricevuto.
A ciò si aggiunge la modifica voluta dall'esecutivo, in base alla quale gli stessi soggetti per chiedere uno sconto o la conversione della pena in base all'art. 444 cpp., dovranno restituire integralmente il prezzo o il profitto del reato.
Infine, sempre in base a una proposta del governo, è stabilito che quando il pm esercita l'azione penale relativamente a reati contro la p.a. è tenuto a informare il presidente dell'Anac dando notizia delle imputazione (articolo ItaliaOggi del 09.01.2015).

ENTI LOCALIAnagrafe centralizzata. In Gazzetta il Dpcm con le regole per il passaggio del testimone.
L'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) subentrerà gradualmente alle anagrafi tenute dai comuni. Nell'Anpr saranno contenuti i dati del cittadino, della famiglia anagrafica e della convivenza, i dati dei cittadini italiani residenti all'estero, nonché il domicilio digitale, di cui all'articolo 3-bis, del dlgs 07.03.2005, n. 82.

Lo prevede il decreto del presidente del consiglio dei ministri 10.11.2014, n. 194, intitolato «Regolamento recante modalità di attuazione e di funzionamento dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) e di definizione del piano per il graduale subentro dell'Anpr alle anagrafi della popolazione residente», che è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 5 di ieri e in vigore dal 23 gennaio prossimo.
Diverse le prescrizioni previste per la nuova Anagrafe. Essa, ad esempio, conserva le variazioni anagrafiche e i dati relativi alle situazioni anagrafiche pregresse e, in una distinta sezione, le schede anagrafiche relative alle persone cancellate.
Il cittadino registrato nell'Anagrafe nazionale della popolazione residente potrà esercitare il diritto di accesso ai propri dati personali presso gli uffici anagrafici, anche consolari, ovvero tramite sito web dell'Anpr, in modalità diretta e sicura, e previa identificazione informatica e trasmissione dei dati in modalità protetta.
La durata delle procedure di subentro per ogni comune è dal decreto 194 del 2014 stimata in due settimane, di cui la prima è dedicata agli invii e la seconda al completamento delle elaborazioni (articolo ItaliaOggi del 09.01.2015).

INCARICHI PROFESSIONALIPrestazioni senza vincoli. Nota del Centro studi degli ingegneri.
Prestazioni occasionali senza limiti di tempo e compenso e senza obbligo di partita Iva per i professionisti iscritti agli albi.

Lo afferma il centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri, attraverso la pubblicazione di un documento dal titolo «Professionisti iscritti ad albi e prestazioni occasionali».
La nota, infatti, offre una serie di chiarimenti sulla possibilità, per i professionisti, di svolgere prestazioni occasionali in concomitanza con un rapporto di lavoro dipendente. Secondo l'analisi svolta dal centro studi del Cni, non sussiste il limite temporale entro cui effettuare la prestazione, il limite del compenso e l'obbligo della partita Iva previsto dalla legge. Questo perché si tratterebbe di una eccezione «espressamente indicata dalla normativa che regola il lavoro occasionale».
Sulla base di quanto stabilito dalla normativa vigente (in particolare il dlgs 276/2003, art. 61), si legge nella nota diffusa dal centro studi del Cni, la «collaborazione occasionale» non deve avere durata superiore a 30 giorni e deve prevedere un compenso entro 5.000 euro. La stessa normativa chiarisce, però, che «i limiti imposti allo svolgimento della collaborazione occasionale, predisposti per evitare un abuso di tale forma contrattuale, vengono meno per i professionisti iscritti ad un albo professionale, poiché il rischio di abuso in questo caso non sussiste».
Il centro studi Cni, inoltre, sottolinea come «l'iscrizione ad un albo professionale non sia da considerarsi come elemento sufficiente a configurare la professione abituale di un'attività, assoggettabile quindi a regime Iva e non sottoponibile a regime di collaborazione occasionale». Di conseguenza, l'iscritto all'albo che non esercita attività di lavoro autonomo «potrà effettuare attività di lavoro occasionale (cioè un lavoro svolto in proprio, senza vincolo di subordinazione con il committente) senza i limiti di tempo e di remunerazione imposti dalla normativa, oltre che senza disporre di partita Iva».
Resta fermo il principio, conclude il centro studi, che per lo svolgimento di lavoro occasionale con compensi superiori a 5.000 euro, i professionisti dovranno iscriversi alla gestione separata Inps (articolo ItaliaOggi del 09.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIP.a., procedimenti più veloci. Rappresentante statale unico in conferenza di servizi. Ripartono al senato i lavori sulla delega. Il relatore: sui licenziamenti le norme ci sono già.
Niente più traccheggiamenti in Conferenza di servizi. Vi parteciperà un unico rappresentante delle amministrazioni statali, designato dagli Uffici territoriali dello stato che sostituiranno le attuali prefetture e svolgeranno il ruolo di raccordo con i cittadini. Le amministrazioni che non partecipano alla conferenza di servizi, o non rilasciano il parere nei termini, non potranno agire in autotutela, e quindi revocare o annullare d'ufficio il provvedimento.
La nuova conferenza di servizi deciderà a maggioranza per «assicurare la celerità dei lavori». Spetterà al decreto legislativo di riordino disciplinare il calcolo delle presenze e dei quorum necessari per evitare che i procedimenti amministrativi rimangano incagliati in attesa di un nulla osta. E per garantire ai cittadini e alle imprese il diritto di accedere a documenti, dati e servizi della p.a. in modalità digitale, verranno definiti i livelli qualitativi minimi dei servizi online che le p.a. dovranno garantire. Chi non si adeguerà agli standard verrà sanzionato, mentre saranno previsti incentivi per le amministrazioni virtuose. Tutti gli uffici pubblici, infine, dovranno essere dotati di connettività a banda larga e dovranno garantire l'accesso ad internet.

Ripartono da qui, con il pacchetto di emendamenti presentati ieri dal relatore Giorgio Pagliari (Pd), i lavori del disegno di legge delega sulla riforma della p.a. che entrerà nel vivo la prossima settimana in commissione affari costituzionali del senato. Il termine per la presentazione degli emendamenti è fissato per giovedì prossimo alle 13 e c'è grande attesa per le modifiche che governo e relatore decideranno di introdurre alle norme in materia di personale. All'interno delle quali però sembra escluso che possano trovare posto nuove regole sui licenziamenti nel pubblico impiego (alla luce dell'approvazione del nuovo jobs act).
Secondo Pagliari, la delega non è la sede adatta per riforme di questo tipo. «Occorre dare maggiore puntualità, laddove necessario, alla disciplina dei doveri dei dipendenti pubblici, ma in una logica di equilibrio senza passare a un giustizialismo privo di senso», ha osservato. «La delega non è la riforma della pubblica amministrazione», ha dichiarato a ItaliaOggi, «e anche qualora lo fosse, non si può far partire una riforma dalla disciplina del licenziamento, ossia dalla patologia del rapporto di lavoro. Una patologia che può dipendere da diversi fattori, individuali, certo, ma anche di sistema». «Io credo che la disciplina in materia di licenziamenti sia completa», ha aggiunto, «il problema è di valutare i termini della concreta attuazione delle norme e individuare i modi per renderle più efficaci».
Il relatore ha confermato la volontà del governo di andare avanti sul ruolo unico della dirigenza pubblica previsto dall'articolo 10 della delega che dunque non dovrebbe subire sconvolgimenti nel suo impianto generale. Novità potrebbero invece arrivare in materia di segretari comunali che la delega punta a eliminare e a far confluire in un'apposita sezione a esaurimento del ruolo dei dirigenti degli enti locali.
Mentre sulla grana dell'esercito di idonei (84 mila secondo i dati ufficiali della Funzione pubblica, più del doppio secondo fonti ufficiose) messi in stand by senza alcuna possibilità di assunzione nel prossimo biennio a causa della necessità di ricollocare i 20 mila esuberi delle province (si veda ItaliaOggi del 03/01/2015), Pagliari ha escluso che la delega possa essere la sede giusta. «È un problema reale che coinvolge migliaia di persone, ma affrontarlo in una delega significherebbe tentare di risolverlo con armi spuntate» (articolo ItaliaOggi del 09.01.201).

APPALTICantone (Anac): negli appalti albo unico dei commissari di gara.
Istituire un albo nazionale dei commissari di gara per limitare la discrezionalità delle stazioni appaltanti; vietare le deroghe al codice appalti, rafforzare i controlli e premiare l'affidabilità delle imprese che consegnano i lavori in tempo e non chiedono riserve o varianti.

Sono queste alcune delle indicazioni fornite dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, nel suo intervento di ieri presso la commissione lavori pubblici del senato.
Cantone ha messo l'accento sulla necessità di ridurre la discrezionalità delle stazioni appaltanti e ha citato l'esperienza di Expo 2015 dove «tutti gli appalti oggetto dell'inchiesta sono stati affidati con l'offerta più vantaggiosa», un meccanismo più discrezionale del prezzo più basso. La soluzione per evitare la discrezionalità delle stazioni appaltanti passa, ad avviso del presidente Anac, per l'istituzione di «un albo nazionale dei commissari di gara, ben controllato»; sarebbe un meccanismo per provare a rendere meno permeabile a fenomeni distorsivi la fase di scelta dell'appaltatore.
Sul nuovo codice che recepirà le direttive europee sugli appalti Cantone ritiene che debba essere molto snello, con poche regole di carattere generale e per il resto si debba puntare sulla cosiddetta soft regulation, cioè sulle linee guida e sui bandi-tipo dall'Anac, cui dovrebbe però accompagnarsi un rafforzamento dei poteri sanzionatori per chi non si adegua. Sui meccanismi derogatori, utilizzati nelle emergenze e nei grandi eventi, Cantone è stato netto: «non c'e' grande opera che non preveda una deroga e il nuovo codice le dovrà impedire, oppure dovrà prevedere un regolamento a monte».
Secondo Cantone, infine, bisogna qualificare l'offerta mettendo in atto un sistema premiante per le imprese, non più attraverso un controllo esclusivamente formale ma attraverso «un meccanismo che tenga conto dei comportamenti tenuti dalle imprese vincitrici di un appalto in precedenti appalti: quindi puntualità nei lavori, il fatto che abbiano fatto il meno possibile ricorso ai premi di accelerazione eccetera. Insomma una serie di indici accanto a quelli tradizionali che non possono essere solo quelli del certificati penali o dei carichi pendenti. Serve un sistema nuovo che richieda qualcosa in più» (articolo ItaliaOggi del 09.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALINelle unioni di comuni non c'è un tetto al numero di assessori.
La legge nazionale non prevede alcun limite numerico alla composizione dell'organo esecutivo delle unioni di comuni.

Lo ha chiarito l'Anci, rispondendo al quesito posto da alcuni comuni piemontesi. La nota ricostruisce l'evoluzione del quadro normativo in materia, partendo dall'art. 19, comma 3, del dl 95/2012. Tale norma aveva previsto un tetto al numero dei componenti dei consigli unionali, disponendo che esso non dovesse essere superiore a quello previsto per i comuni con popolazione pari a quella complessiva dell'ente. In tal modo, venivano indirettamente limitate anche le dimensioni delle giunte, a mente dell'art. 47 del Tuel, che le rapporta a quelle degli organi consiliari.
Inoltre, per le c.d. unioni «speciali» (ossia quelle riservate ai comuni con meno di 1.000 abitanti e deputate allo svolgimento della totalità delle funzioni e dei servizi municipali), era previsto esplicitamente che la giunta fosse composta dal presidente e dagli assessori in numero non superiore a quello previsto per i comuni di pari popolazione. L'art. 19, tuttavia, è stato abrogato dalla legge 56/2014 (c.d. legge Delrio), che ha anche eliminato il modello dell'unione speciale.
Nella disciplina vigente, non sono più previsti per le unioni limiti al numero dei seggi consiliari e, di conseguenza, ai posti dal assessore, anche perché si tratta di cariche assolutamente gratuite, non potendo essere attribuiti ai titolari retribuzioni, gettoni e indennità o emolumenti in qualsiasi forma percepiti. Anzi, il comma dell'art. 32 del Tuel, come riscritto dalla stessa legge 56, espressamente dispone che «il consiglio (dell'unione) è composto da un numero di consiglieri definito nello statuto, eletti dai singoli consigli dei comuni associati tra i propri componenti, garantendo la rappresentanza delle minoranze e assicurando la rappresentanza di ogni comune».
Probabilmente l'equivoco è nato dalla lr piemontese n. 11/2012, la quale, all'art. 4, comma 5, lett. f) (mutuando la disciplina relativa alle giunte delle comunità montane), prevede che il numero dei componenti dell'organo esecutivo non superi il numero dei componenti previsto per l'organo esecutivo dei comuni con popolazione pari a quella complessiva dell'unione. Ma, sottolinea la nota, si tratta di una norma illegittima in quanto inerente a una materia di competenza legislativa statale esclusiva (ex art. 117, comma 2, lett. p), Cost.) (articolo ItaliaOggi del 09.01.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Conferenza servizi ultra-semplificata. Delega Pa. Gli emendamenti del relatore Pagliari.
Nelle conferenze di servizi semplificate che usciranno dalla riforma della Pa ci sarà un solo rappresentante dello Stato e varrà la regola del silenzio-assenso per le amministrazioni che non esprimono un proprio parere nel corso del processo decisionale.
È quanto prevede uno degli emendamenti presentati ieri dal relatore del disegno di legge delega di riforma della Pa, Giorgio Pagliari, che la prossima settimana dovrebbe presentare nuove modifiche al testo (16 articoli per 10 deleghe) in attesa che la Commissione Bilancio completi i suoi pareri.
I procedimenti amministrativi che vedono coinvolti più enti dovrebbero così diventare così più veloci e, soprattutto, in grado di arrivare a conclusione, mentre verrebbe superata la possibilità per una singola amministrazione di eliminare ex post parte delle determinazioni assunte in sua assenza.
Per il testo della delega, ancora all’esame della Commissione Affari costituzionali dopo la lunga pausa determinata dalla scelta di anticipare la lettura dell’Italicum, la discussione è dunque ripartita.
La presidente della Commissione, Anna Finocchiaro, ha deciso la non riapertura dei termini per la presentazione di nuovi emendamenti, chiesta tra gli altri da Scelta civica. Si procederà dunque da dove il confronto s’era fermato con la volontà espressa dal Governo di determinare, sulla base della discussione parlamentare, eventuali nuove correzioni al testo anche sui temi più delicati del licenziamenti disciplinari e della riorganizzazione della dirigenza. Ieri il ministro Marianna Madia ha confermato l’obiettivo di un’approvazione della delega Pa entro primavera, mentre a palazzo Vidoni si sta già lavorando ai decreti attuativi.
Sul pubblico impiego la volontà resta per la stesura di un testo unico che aggiorni e riordini la normativa cumulata dal 2001 in poi con l’obiettivo, in particolare, di passare da assetti organizzativi basati sulle vecchie «piante organiche» a più misurabili «fabbisogni» cui legare le procedure di mobilità (banco di prova resta l’attuazione della riforma delle province), mentre sulla valutazione delle performance, lo scarso rendimento e le sanzioni delle responsabilità disciplinari l’idea di fondo è quella di una semplificazione delle norme Brunetta, finora rimaste inapplicate.
Ma il Governo, come detto, si rimetterà alle indicazioni parlamentari e se serviranno misure più specifiche le valuterà. Sulle assenze per malattia è confermato, poi, l’obiettivo di affidare i controlli solo all’Inps. Il relatore sul nodo dei licenziamenti disciplinari nel pubblico impiego tiene comunque a chiarire: «nessuna debolezza nei confronti dei lavativi» ma senza «giustizialismi».
Tra gli emendamenti del relatore anche la riformulazione dell’articolo 1 della delega, sulla «Carta della cittadinanza digitale» per garantire la disponibilità di connettività a banda larga e l’accesso alla rete in ogni ambito amministrativo, dalle scuole alle Asl fino agli enti più periferici
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIGuida all’acquisto. L’Ape non annulla la vendita.
Prevista una sanzione da 3 a 18mila euro per chi non allega al rogito una copia dell’attestato energetico.

È il documento che informa il potenziale acquirente sul grado di efficienza dell’immobile e rappresenta un ulteriore strumento di valutazione e confronto, che serve a orientare il mercato verso gli edifici a miglior rendimento. L’attestato di prestazione energetica (Ape) ha sostituito dal 06.06.2013, integrandolo, il precedente attestato di certificazione energetica (Ace): rilasciato da esperti qualificati e indipendenti, fotografa il fabbisogno annuo di energia necessaria ai servizi di climatizzazione invernale e estiva in relazione all’uso standard, secondo la destinazione urbanistica, attribuisce una classe energetica (con lettere da A+ a G) e contiene raccomandazioni per il miglioramento dell’efficienza stessa.
Il decreto interministeriale, previsto dal Dl 63/2013 (convertito nella legge 90/2013) per rivisitare le metodologie di calcolo delle prestazioni, non è però ancora arrivato: per la redazione dell’attestato si fa quindi riferimento a modulistica e linee guida previgenti (e alla normativa regionale). Alle diverse modifiche intervenute nel corso degli anni sulla disciplina dell’attestato energetico e gli obblighi imposti, si è aggiunta in ultimo quella del decreto sulle Semplificazioni fiscali (Dlgs 175/2014) che sposta dall’agenzia delle Entrate al ministero dello Sviluppo economico l’accertamento e l’attuazione del procedimento sanzionatorio.
Gli obblighi nelle compravendite
Ma quali sono le regole da rispettare? Il Dlgs 192/2005 (art.6, comma 2) stabilisce che «nel caso di vendita, di trasferimento di immobili a titolo gratuito o di nuova locazione di edifici o unità immobiliari, ove l'edificio o l'unità non ne sia già dotato, il proprietario è tenuto a produrre l’attestato di prestazione energetica».
Nelle compravendite, l’Ape va dunque allegato ai contratti e l’acquirente deve dichiarare in un’apposita clausola di aver ricevuto dal venditore la documentazione comprensiva dell’attestato. «C’è un obbligo di dotazione, di allegazione e di consegna –riassume Sveva Dalmasso del Consiglio notarile di Milano– e il principio vale per tutti gli atti traslativi a titolo oneroso: per quelli a titolo gratuito come la donazione non c’è invece bisogno di allegare».
Se le parti non consegnano l’attestato da allegare, il notaio –che esercita un controllo formale (non tecnico) del documento– non può in teoria rifiutarsi di ricevere l’atto, ma deve informare delle conseguenze civilistiche e delle sanzioni previste. La mancata allegazione, infatti, per legge comporta non la nullità del contratto ma una sanzione amministrativa da 3mila a 18mila euro, che le parti devono pagare in solido. Stessa sanzione è prevista in caso di omessa dichiarazione nel contratto.
Le regole per i compromessi
Il proprietario deve rendere disponibile l’Ape al potenziale acquirente nel momento stesso in cui decide di metter in vendita l’immobile, ricorrendo o meno ad annunci commerciali. L’attestato deve essere dunque già presente all’avvio delle trattative e va consegnato alla loro chiusura: al più tardi alla stipula del “compromesso”.
«Non corre invece alcun obbligo di allegare l'attestato al preliminare – commenta il notaio Dalmasso – e d’altra parte non sono previste sanzioni. La disciplina si applica infatti agli atti traslativi, non ai contratti preliminari che hanno solo effetti “obbligataori”».
La validità dell'attestato
L’attestato, come spiega il Dlgs 192/2005 (art. 6, comma 5), «ha una validità temporale massima di dieci anni a partire dal suo rilascio ed è aggiornato a ogni intervento di ristrutturazione o riqualificazione che modifichi la classe energetica dell’edificio o dell'unità immobiliare». La validità è subordinata al rispetto delle prescrizioni per le operazioni di controllo/adeguamento degli impianti.
Gli Ace rilasciati entro il 5 giugno (e ancora validi) possono essere perciò utilizzati anche per gli atti stipulati in futuro, sempre che non vengano effettuati interventi di ristrutturazione che incidano sulla classe energetica dell’edificio (anche questa validità è subordinata al rispetto delle regole di controllo/adeguamento degli impianti). Oltre a un presupposto di carattere contrattuale, legato al trasferimento dell’immobile, ce n’è perciò uno di carattere oggettivo: a prescindere da un loro “passaggio” devono dotarsi di Ape i nuovi edifici e quelli ristrutturati (soggetti cioè a manutenzione ordinaria, straordinaria, ristrutturazione, risanamento conservativo).
L'intreccio con le norme regionali
Tornando alle compravendite, il nodo principale riguarda l'intreccio tra legislazione nazionale e regionale. Le regioni, oltre a propri sistemi locali per il rilascio dell’attestato, prevedono in molti casi proprie regole per esclusioni e sanzioni.
Quali norme vanno applicate? «La questione –osserva il notaio Dalmasso- è dibattuta e soggetta a diverse interpretazioni. Ci sono regioni come la Lombardia che ritengono prevalere il proprio sistema sanzionatorio particolareggiato (ad esempio da 500 a 2mila euro per attestato non conforme, da 5mila a 20mila euro per cessione a titolo oneroso senza Ape, eccetera). Su questi temi, e in relazione ai casi specifici regionali, affidarsi al notaio è comunque il miglior modo per sgombrare il campo da dubbi residui»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti locali, precari in standby. Stoppate le possibili assunzioni a tempo indeterminato. Gli ostacoli posti dalla legge di Stabilità 2015 alla stabilizzazione del personale.
Stabilizzazioni del personale degli enti locali al palo negli anni 2015 e 2016. La legge di Stabilità 2015 (legge 190/2014), con le sue previsioni sulla mobilità dei dipendenti delle province, non solo blocca per almeno due anni la possibilità di scorrere le graduatorie dei concorsi e permettere di reclutare gli idonei, ma impedirà di assumere a tempo indeterminato i precari, con i requisiti previsti dalla legge.
Si tratta di tre categorie di soggetti: quelli previsti dall'art. 1, commi 519 e 558, della legge 296/2006, quelli indicati dall'art. 3, comma 90, della legge 244/2007, nonché coloro che alla data di entrata in vigore del dl 101/2013 (il cosiddetto decreto D'Alia) avessero maturato, negli ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato alle dipendenze dell'amministrazione che emana il bando.
Di fatto, quindi, la legge di Stabilità 2015 oltre a incidere pesantemente sull'attuazione del dl 90/2014, messo sostanzialmente al palo per l'impossibilità di dare corso alla staffetta generazionale, pone nel nulla anche la terza ondata di stabilizzazioni, attivata dall'allora governo Letta. Infatti, l'art. 4, comma 6, del dl 101/2013, convertito in legge 125/2013, stabilisce che le procedure di stabilizzazioni sono possibili «solo a valere sulle risorse assunzionali relative agli anni 2013, 2014, 2015 e 2016 anche complessivamente considerate, in misura non superiore al 50%, in alternativa a quelle di cui all'art. 35, comma 3-bis, del dlgs 30.03.2001, n. 165. Le graduatorie definite in esito alle medesime procedure sono utilizzabili per assunzioni nel triennio 2013-2016 a valere sulle predette risorse».
Ma la legge di Stabilità 2015 riserva l'utilizzo delle risorse assunzionali per gli anni 2015 e 2016 esclusivamente alle assunzioni dei vincitori dei concorsi, in base a graduatorie vigenti o approvate alla data dell'01.01.2015, nonché alle mobilità del personale provinciale in sovrannumero, l'ondata di circa 20 mila lavoratori creata dalla legge di stabilità. Dunque, le stabilizzazioni sono possibili al ricorrere di ristrette condizioni.
L'esistenza o l'approvazione di una graduatoria alla data del 31.12.2014; oppure, l'attivazione in base alle sole risorse per l'anno 2013. La legge 190, dunque, modifica implicitamente il dl D'Alia, sottraendo alle amministrazioni pubbliche la possibilità di destinare risorse degli anni 2014 e 2015 alle stabilizzazioni. Occorre ricordare che a complicare il già caotico sistema creato dalla combinazione tra legge Delrio e legge di Stabilità 2015, si è messo anche il decreto Milleproroghe: il dl 192/2014, infatti, proroga per le amministrazioni statali il termine per effettuare le assunzioni a valere sulle risorse liberatesi nel 2013, alla data del 31.01.2015.
Dunque, nel corso del 2015, alle assunzioni dei vincitori dei concorsi e dei dipendenti delle province, si sommeranno anche le assunzioni per nuovi concorsi, purché finanziate entro i tetti di spesa del 2013. Questa indicazione valevole in modo espresso per le amministrazioni statali per effetto del dl 192/2014, vale anche per regioni ed enti locali, dal momento che la legge di stabilità in ogni caso riserva ai vincitori dei concorsi e ai dipendenti provinciali, come detto, le risorse destinate ad assunzioni degli anni 2014 e 2015.
Sempre il dl 192/2014 ha anche allungato i termini previsti dall'articolo 4, comma 9, del dl 101/2013, consentendo alle province di prorogare i contratti col personale precario fino al 31.12.2015. Per quanto tale proroga sia stata sbandierata come una soluzione al problema dei precari provinciali, a ben vedere essa resterà, tuttavia, sostanzialmente inapplicabile. Infatti, lo stesso art. 4, comma 9, del dl subordina tali proroghe al «rispetto dei vincoli finanziari di cui al presente comma, del patto di stabilità interno e della vigente normativa di contenimento della spesa complessiva di personale».
Ma, visto che la totalità delle province non potrà rispettare il patto di stabilità e, soprattutto, la vigente normativa in tema di contenimento della spesa di personale, visto che devono tagliare il 50% del costo della dotazione organica (il 30% le città metropolitane e le province montane), nessuna provincia potrà disporre legittimamente la proroga ai precari (articolo ItaliaOggi del 06.01.2015).

PUBBLICO IMPIEGOProvince, personale in esubero in cerca di ricollocazione. In ballo circa 20 mila dipendenti per effetto del taglio lineare alla spese delle dotazioni organiche.
Per i dipendenti in esubero delle province, la legge di Stabilità non propone nessuna garanzia di ricollocazione. Contrariamente a quanto asserito dal governo, il testo della legge 190/2014 non mette affatto al sicuro i circa 20 mila dipendenti interessati dagli esuberi creati dalla legge, per effetto del taglio lineare alle spese delle dotazioni organiche di province e città metropolitane.
L'esecutivo, infatti, insiste col sottolineare che regioni e comuni, con priorità, e amministrazioni statali, in subordine, saranno obbligati ad assumere, dopo aver chiamato in servizio i vincitori dei concorsi le cui graduatorie siano valide alla data di entrata in vigore della legge di stabilità, i dipendenti provinciali, mediante i trasferimenti per mobilità.
La legge di Stabilità 2015 punta, in particolare, a spingere regioni e comuni a effettuare le assunzioni, stabilendo che «le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario».
Questo significa che regioni ed enti locali negli anni 2015 e 2016 debbono destinare le risorse per le assunzioni a tempo determinato, pari al 60% (o anche 80% per gli enti particolarmente virtuosi) del costo delle cessazioni dell'anno precedente, alla chiamata in ruolo dei vincitori dei concorsi.
Ciò che residua del 60% alla mobilità dei dipendenti provinciali; tuttavia, in deroga ai limiti di spesa previsti dalla legge, regioni e comuni potranno destinare il 40% residuo del costo delle cessazioni dei dipendenti (avvenute nel 2014 e 2015) integralmente all'assunzione per mobilità dei dipendenti provinciali. Tuttavia, quello che apparentemente è un obbligo che garantirebbe la continuità del lavoro per i dipendenti provinciali, è una semplice esortazione perfettamente aggirabile. Infatti, regioni ed enti locali non sono obbligati ad assumere. Le assunzioni le effettueranno solo se lo riterranno. Allora, in quel caso, dovranno rispettare le indicazioni della legge di Stabilità.
Nulla, per come è scritta la norma, vieta a regioni e comuni di non effettuare alcuna assunzione a tempo indeterminato negli anni 2015 e 2016, e di coprire eventuali fabbisogni con contratti a tempo determinato di 24 mesi (dunque al di sotto della soglia limite di 36 mesi), aspettando che scadano i vincoli imposti dalla legge finanziaria e tornare ad assumere chi vogliono a partire dall'01/01/2017, lasciando, così, inattuato il piano del governo per ricollocare i 20 mila dipendenti provinciali. Si pensi, in particolare, alla dirigenza: la legge 190 non esclude affatto che una regione o un ente locale assuma dirigenti a contratto a tempo determinato (quelli chiamati senza concorsi, per fiducia con gli organi politici), invece che acquisire in mobilità i dirigenti provinciali.
Le tutele, dunque, di cui parla il governo sono solo teoriche e lasciate alla buona volontà di regioni, enti locali e amministrazioni statali che davvero intendano effettuare assunzioni a tempo indeterminato. Perché il meccanismo funzioni e consenta realmente il trasferimento dei dipendenti provinciali verso regioni, comuni o amministrazioni statali, occorrerebbe prevedere l'obbligo nei loro confronti di assumere i dipendenti delle province in sovrannumero, vincolando a tale scopo le risorse disponibili per gli anni 2015 e 2016, vietando ogni assunzione a tempo determinato, con l'eccezione di sostituzioni di ferie e maternità o di settori e servizi come il sociale o le scuole, finalizzata allo scopo di eludere la norma, nonché di vietare almeno fino al 31.12.2016 le assunzioni della dirigenza a contratto.
Intanto, è trascorsa con un nulla di fatto la data del 02.01.2015, quando, a dire del sottosegretario alla Funzione pubblica, Angelo Rughetti, si sarebbe dovuto approvare un decreto per imporre alle regioni di acquisire personale e funzioni provinciali o attribuirlo ai comuni (articolo ItaliaOggi del 06.01.2015 ).

APPALTIAppalti a codice cogente. La nuova normativa applicabile da subito. Il centro studi del senato per il varo contestuale del regolamento attuativo.
Il nuovo codice sui contratti pubblici che recepirà le direttive appalti pubblici dovrà essere adottato contestualmente al suo regolamento attuativo; la contestuale adozione del codice e del regolamento è necessaria per evitare che, come accadde con il codice De Lise, passino quattro anni prima della emanazione del dpr 207 del 2010.
È quanto suggeriscono i tecnici del servizio studi del senato nella analisi del disegno di legge n. 1678 che reca la delega per il recepimento nel nostro ordinamento delle nuove direttive appalti e concessioni pubbliche (n. 23, 24 e 25 del 2014).
Il disegno di legge delega, che il governo avrebbe voluto vedere approvato entro il 2014, dovrebbe iniziare a breve l'iter parlamentare presso la ottava commissione del senato, dopo che il 4 dicembre scorso è stato a essa assegnato, anche se non risulta a oggi ancora calendarizzato. Al di là del ritardo sulla tabella di marcia che il viceministro per le infrastrutture Riccardo Nencini aveva voluto imprimere al testo fin dalla scorsa estate, emerge adesso un nuovo elemento messo in evidenza dai tecnici del senato che hanno rilevato come sia forse meglio riformare complessivamente la normativa sugli appalti pubblici e non limitarsi, invece, alla sola adozione di un nuovo codice unificato.
Il disegno di legge delega prevede infatti la messa a punto di un nuovo codice nel quale verranno recepite le norme comunitarie e adeguate e semplificate le restanti norme nazionali non toccate dalle direttive Ue; si chiarisce inoltre che questo nuovo codice entrerà in vigore gradualmente con una opportuna norma transitoria e che il tutto dovrà concludersi entro il 18.02.2016, due mesi prima del termine previsto dalle direttive per il recepimento da parte dei diversi stati membri.
I tecnici del senato notano però che «nulla si dice sul regolamento del codice» e affermano che «potrebbe essere opportuno valutare la possibilità e l'opportunità di prevedere forme e procedure per addivenire alla contestuale adozione di codice e regolamento». Nel dossier sul disegno di legge il Servizio Studi evidenzia infatti che sarebbe opportuno evitare quanto accaduto dopo il varo del vigente codice dei contratti pubblici (il cosiddetto codice De Lise del 2006) quando passarono quattro anni prima che venisse adottato il regolamento attuativo, il dpr 207 del 2010.
Si tratta di un rilievo di particolare rilevanza che potrebbe richiedere, laddove recepito nel corso dell'esame parlamentare, un notevole allungamento dei tempi di predisposizione dei testi e che, soprattutto, sembra mettere in dubbio la possibilità che a valle del codice si possano dettare norme attuative attraverso meccanismi di «soft law» che prescindano dal regolamento, cioè da un dpr.
Il dossier del Senato, dopo avere ricordato la tempistica successiva al varo della legge delega, che prevede pareri della conferenza unificata (30 giorni), del Consiglio di stato (sempre in 30 giorni) e delle commissioni parlamentari (in 40 giorni), rileva anche che andrebbe meglio disciplinato il meccanismo di consultazione pubblica delle categorie interessate, definendo metodologia e modalità operative delle stesse.
Infine si suggerisce al governo di valutare la possibilità di introdurre nella delega procedimenti amministrativi in grado di superare gli ostacoli derivanti dalla necessità di procedere a eventuali modifiche legislative che potrebbero rendere problematico l'esercizio della discrezionalità amministrativa dell'esecutivo (articolo ItaliaOggi del 06.01.2015).

EDILIZIA PRIVATAImpiantistica. Climatizzatori. Così cambia il libretto.
A disposizione delle imprese una nuova versione compilabile del libretto d'impianto per la climatizzazione invernale e/o estiva unitamente a numerosi allegati e rapporti di controllo.

Nella sezione libretto di impianto del sito del comitato termotecnico italiano (http://www.cti2000.it/) sono stati pubblicati i file pdf compilabili del libretto e dei rapporti di controllo di efficienza energetica in varie configurazioni, nonché gli esempi applicativi del dm sviluppo economico del 10.02.2014.
Il primo è un file unico e completo con campi compilabili che consente di avere sul proprio pc il file completo del libretto di impianto e i quattro file dei rapporti di controllo. Il secondo file costituito da singole pagine con campi compilabili consente di stampare eventuali pagine integrative e costruire un libretto a misura del proprio impianto. In quest'ultimo caso però va detto che il campo «codice catasto» deve essere compilato per ogni nuova pagina. Si tratta di un file zippato costituito da tanti file singoli quante sono le schede del libretto.
Ricordiamo che con il decreto del ministero dello sviluppo economico 10.02.2014 è stato disciplinato il nuovo modello di libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica .
Il libretto è disponibile in forma cartacea o elettronica. Nel primo caso viene conservato dal responsabile dell'impianto o eventuale terzo responsabile, che ne cura l'aggiornamento dove previsto o mettendolo a disposizione degli operatori di volta in volta interessati. Il libretto di impianto elettronico è conservato presso il catasto informatico dell'autorità competente o presso altro catasto accessibile all'autorità competente, e viene aggiornato di volta in volta dagli operatori interessati, che possono accedere mediante una password personale al libretto.
Il libretto di impianto è obbligatorio per tutti gli impianti di climatizzazione invernale e/o estiva, indipendentemente dalla loro potenza termica, sia esistenti che di nuova installazione (articolo ItaliaOggi del 06.01.2015).

APPALTICommittenti, stop alle sanzioni. Niente penalità per il passato a seguito dell’applicazione della responsabilità solidale. Semplificazioni. La circolare dell’agenzia delle Entrate precisa le modalità di applicazione del principio del «favor rei».
L’abrogazione della responsabilità tributaria in tema di appalti, a opera dell’articolo 28 del decreto legislativo 175/2014, ha effetto anche sulle violazioni già commesse, ma solo per le sanzioni applicabili al committente. L’appaltatore, infatti continua a rispondere (solidalmente con il subappaltatore) per il passato, non beneficiando del cosiddetto favor rei.
Con questa affermazione riportata nella
circolare 30.12.2014 n. 31/E, l’agenzia delle Entrate applica in maniera letterale (e restrittiva) il principio dell’articolo 3, comma 2 del decreto legislativo 472/1997 alle conseguenze negative innescate dal non aver ottemperato agli adempimenti prescritti dall’articolo 35, commi da 28 a 28-ter del decreto legge 223/2006, eliminati dal 13 dicembre scorso.
L’Agenzia ricorda che l’abrogazione riguarda le sole conseguenze circa le omissioni (intervenute nella “filiera”) attinenti alle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente, poiché già l’articolo 50, comma 1 del Dl 69/2013 aveva escluso i versamenti Iva dall’ambito oggettivo di applicazione della disciplina.
È indicativo che la stessa circolare affermi (come più volte sostenuto su queste pagine) che le disposizioni ora abrogate abbiano previsto in capo ai destinatari «adempimenti complessi, con rischi reali di blocco dei pagamenti tra i soggetti coinvolti nella filiera», in netto contrasto «con le finalità della Direttiva europea n. 7/2011 contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 192 del 2012».
Rimaneva, tuttavia, il dubbio sull’applicabilità delle disposizioni ora abrogate alle violazioni commesse all’epoca della loro vigenza, ossia:
- gli omessi (o infedeli) versamenti Iva ad opera dell’appaltatore o del subappaltatore commessi in pendenza dei pagamenti operati dal committente e dall’appaltatore (in assenza delle opportune verifiche) a partire dall’11.10.2012 e sino al 22.06.2013;
- gli omessi (o infedeli) versamenti di ritenute sui redditi di lavoro dipendente ad opera dei medesimi soggetti con riferimento ai pagamenti operati dai committenti e dagli appaltatori (in assenza delle opportune verifiche) dall’11.10.2012 al 13.12.2014.
Il tutto con riferimento ai contratti di appalto e subappalto (anche verbali) stipulati (o rinnovati) a decorrere dal 12.08.2012.
L’eliminazione delle norme ha un effetto liberatorio per il committente anche per le infrazioni (non definitivamente sanzionate) commesse in passato, poiché il favor rei si applica senza dubbio alcuno alla sanzione pecuniaria (da 5.000 a 200.000 euro) che era posta a suo carico.
Il medesimo principio, sempre secondo le Entrate, non troverebbe applicazione in relazione alla responsabilità solidale prevista in capo all’appaltatore, non trattandosi, tecnicamente, di una “sanzione”. Si è già rilevato (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 novembre) che la responsabilità in parola ha una evidente (e sostanziale) natura “punitiva”, quale penalizzazione che si è voluto attribuire all’appaltatore per la mancata verifica documentale anteriore al pagamento. Anche la Circolare Confindustria del 12 dicembre scorso riconosce a essa una natura “parasanzionatoria”, per cui non è detto che l’orientamento delle Entrate trovi concorde la giurisprudenza.
Al di là dell’abolizione dei “controlli cartacei” imposti dalle disposizioni ora non più vigenti, va sempre sottolineato che per evitare problemi occorre dotarsi di quanti più documenti e informazioni possibile attestanti la regolare «esistenza civilistica e fiscale» del subappaltatore, l’adempimento corretto da parte sua degli obblighi previdenziali, oltre a tutto quanto riguarda più direttamente il rapporto in essere con il committente.
La circolare 31/E ricorda, peraltro, come l’abrogazione della solidarietà tributaria non riguarda quella retributiva e contributiva prevista dall’articolo 29 del decreto legislativo. 276/2003 (nonché dall’articolo 1676 del Codice civile). Anzi, proprio il decreto semplificazioni ha previsto che il committente, chiamato a rispondere, ha l’obbligo di assolvere, ove previsto, tutti gli adempimenti del sostituto d’imposta. La previsione ha natura confermativa di un principio di carattere generale, già affermato in precedenza (risoluzione n. 481/E/2008)
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2015).

VARIMulte, ricorsi anche via Pec ma con modalità incerte. Codice della strada. Nota dell’Interno.
Le Prefetture devono garantire che i ricorsi contro le multe stradali possano essere presentati anche via Pec e quelle che ancora non lo fanno devono adeguarsi. Ma le modalità di utilizzo della posta elettronica certificata restano controverse.
In teoria, dovrebbe essere tutto già chiaro: la norma che introduce la possibilità di usare Pec per tutte le comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una di consegna risale a dieci anni fa (Dlgs 82/2005, articolo 48).
Ma alcune Prefetture, nei loro siti internet istituzionali, non facevano riferimento a questa possibilità. Di fronte alle segnalazioni di cittadini che facevano notare questa mancanza, il ministero dell’Interno ha confermato l’obbligo di ricevere i ricorsi anche via Pec (nota 11.11.2014 n. 17666 di prot. del dipartimento Affari interni e territoriali). Ma questa precisazione ha anche creato dubbi sulla “veste” che il ricorso “telematico” deve avere.
Infatti, spiega che la Pec è ammessa se sottoscritta «con firma digitale autenticata della persona legittimata». In alternativa, prevede un messaggio di posta certificata che abbia in allegato un documento pdf in cui sia contenuto il testo del ricorso, con la firma dell’interessato.
Un’alternativa che lascia perplessi, perché è tra una prima modalità “iperprotetta” e un’altra che lascia invece spazio a possibili abusi. Infatti, da un lato, nei ricorsi cartacei non è necessaria alcuna autenticazione della firma, dall’altro lato, consentire che possa essere allegato un pdf lascia spazio all’invio di un testo la cui provenienza non è dimostrata pienamente: in questo caso, è certo solo che il messaggio Pec è stato inviato dall’interessato, ma nulla è garantito riguardo all’allegato.
A questo punto, è prevedibile che al ministero arrivino richieste di ulteriori chiarimenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2015).

EDILIZIA PRIVATADetrazioni al 50% per il 2015. Sale dal 4% all’8% la ritenuta operata sui bonifici a titolo d’acconto dalle banche. Recupero edilizio. Le regole per il bonus Irpef sulle parti comuni condominiali dopo la legge di Stabilità.
Cambiano ancora le regole per la detrazione dall’Irpef delle spese per recupero edilizio o risparmio energetico sostenute dal condominio. La legge di stabilità, entrata in vigore il 01.01.2015, ha stabilito che le spese legate al settore dell’edilizia e del risparmio energetico ora vengano rese detraibili seguendo questo schema:
- detrazione Irpef del 50% per il recupero edilizio delle parti comuni condominiali, nel limite massimo di 96mila euro per unità immobiliare, per le spese sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015; dal 01.01.2016, l’agevolazione continuerà a operare nella misura ordinaria del 36% (articolo 16-bis del Dpr 917/1986);
- proroga, per le spese sostenute dal 1° gennaio al 31.12.2015, della detrazione Irpef del 50% per l’acquisto di mobili ed elettrodomestici -compresi i grandi elettrodomestici dotati di etichetta energetica, di classe non inferiore alla A+ (A per i forni)- destinati alle abitazioni ristrutturate (la portineria o altre parti comuni abitativi), fino a un massimo di 10mila euro e indipendentemente dalle spese per opere di recupero o risparmio energetico;
- proroga della detrazione Irpef/Ires del 65% per la riqualificazione energetica degli edifici esistenti, per le spese sostenute dal 1° gennaio al 31.12.2015, su parti comuni condominiali (o su tutte le unità che compongono il condominio). Inoltre, l’ambito applicativo del bonus viene esteso, per le spese sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015, a ulteriori tipologie di interventi agevolabili, quali: l’acquisto e la posa in opera di schermature solari, nel limite di detrazione di 60mila euro; l’acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili, nel limite di detrazione pari a 30mila euro.
- proroga, dal 1° gennaio al 31.12.2015, del “bonus antisismica”, ossia della detrazione del 65% nel limite massimo di spesa di 96mila euro, per interventi di messa in sicurezza statica delle “abitazioni principali” e degli immobili a destinazione produttiva, situati nelle zone sismiche ad alta pericolosità.
Infine, per le spese sostenute dal 01.01.2015, agevolabili con le detrazioni per il recupero edilizio e la riqualificazione energetica, è previsto, sempre dal 01.01.2015, l’aumento, dal 4% all’8%, della ritenuta operata dalle banche al momento dell’accredito dei bonifici di pagamento delle spese agevolate, a titolo di acconto delle imposte sul reddito dovute dall’impresa esecutrice.
Sparisce, quindi, la possibilità di ottenere la detrazione per il risparmio energetico, anche se ridotta al 50%, per il periodo dal 1° gennaio al 30.06.2016 (l’ampliamento era previsto dal Dl 63/2013).
Insomma, ci sono sei mesi di tempo in meno per programmare ed eseguire questi interventi con detrazione al 50% ma ci sono sei mesi in più per poter fare spese detraibili al 65 per cento
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, lo slittamento è parziale. Nel 2015 niente sanzioni per violazioni a regole operative. Lo prevede il dl Milleproroghe: dall'01/02/2015 punibile chi non s'iscrive o non paga il contributo.
Dal 1° febbraio acquistano piena efficacia le norme che sanzionano mancata iscrizione e omesso pagamento del contributo Sistri, mentre restano sospese per tutto il 2015 quelle che puniscono l'inosservanza delle regole operative del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti (tenuta delle schede informatiche, trasporto con documentazione di rito e monitoraggio del percorso, videosorveglianza delle discariche).

A conferire (seppur parziale) operatività al Sistri è il decreto legge 31.12.2014, n. 192 (meglio noto come «Milleproroghe», pubblicato sulla G.U. del 31/12/2014, n. 302), provvedimento che invece di riproporre, come in passato, lo slittamento di 12 mesi dell'operatività di tutto il sistema sanzionatorio Sistri ex dlgs 152/2006 ha rinnovato la proroga (scaduta lo scorso 31.12.2014) solo a alcune delle disposizioni in materia.
Le novità del «Milleproroghe». Il dl 192/2014 dispone attraverso la novella del dl 101/2013 (il precedente provvedimento di proroga in materia) la disapplicazione fino al 31.12.2015 dell'intero articolo 260-ter del «Codice ambientale» (recante le sanzioni accessorie per le violazioni del Sistri) insieme alla sospensione fino alla stessa data dei soli commi dal 3 al 9 dell'articolo 260-bis del dlgs 152/2006 (sanzioni per il mancato tracciamento telematico dei rifiuti) stabilendo espressamente la piena efficacia dal 01.02.2015 delle norme previste dai commi 1 (sanzioni per omessa iscrizione) e 2 (sanzioni per mancato pagamento del contributo) dello stesso articolo.
Secondo il tenore letterale del «Milleproroghe» lo slittamento dell'operatività del Sistri è dettato «al fine di consentire la tenuta in modalità elettronica dei registri di carico e scarico e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati nonché l'applicazione delle altre semplificazioni e le opportune modifiche normative». Locuzione, questa, che farebbe pensare a una prossima e radicale rivisitazione dell'attuale e complessa architettura del sistema, per avvicinarla a una versione evoluta dello storico sistema di tracciamento cartaceo dei rifiuti.
In materia, si ricorda infatti che già l'articolo 14 del dl 91/2014 aveva affidato al Minambiente l'adozione (entro il termine del 24.08.2014, inutilmente spirato) di regolamenti finalizzati a garantire «l'applicazione dell'interoperabilità» (ossia l'interazione tra il sistema telematico e software terzi) e «la sostituzione dei dispositivi token usb» previsti dal Sistri.
Le ricadute sul sistema. Ciò che deriva dall'intervento legislativo «d'urgenza» è un rinnovato sistema transitorio, in base al quale (secondo la nuova formulazione dell'articolo 11, comma 3-bis del citato dl 101/2013) fino al 31.12.2015 i soggetti obbligati al Sistri godono di una sospensione delle sanzioni per le sole violazioni relative allo stretto tracciamento telematico dei rifiuti ma devono al contempo (dietro minaccia delle relative sanzioni) sia provvedere a formalizzare l'iscrizione al sistema pagando il relativo contributo sia continuare a osservare (come previsto dallo stesso dl del 2013) anche le attuali e tradizionali regole di tracciamento costituite da registri di carico/scarico, formulario di trasporto, dichiarazione ambientale «Mud» (proprio in questi gironi rinnovata dal Dpcm 17.12.2014, pubblicato sul S.o. n. 97 alla G.U. del 27/12/2014 n. 299) previste dagli articoli 188, 189, 190 e 193 del dlgs 152/2006 nella versione precedente alle modifiche introdotte dal Dlgs 205/2010 (il provvedimento che ha adeguato il «Codice ambientale» alla disciplina sul tracciamento telematico dei rifiuti).
A rendere meno grevi le minacce, a partire dal febbraio 2015, delle sanzioni (amministrative pecuniarie fino a 93 mila euro) per omessa iscrizione e mancato pagamento del contributo Sistri saranno gli istituti del «cumulo giuridico» e «ravvedimento operoso» previsti dai commi 9-bis e 9-ter dell'articolo 260-bis, dlgs 152/2006, che (già dal 01.01.2015, non essendo oggetto di proroga alcuna) garantiscono, rispettivamente: per più violazioni, l'applicazione della sola sanzione più grave aumentata fino al triplo; l'immunità dalle sanzioni in caso di adempimento entro 30 giorni dalla commissione dell'illecito, la riduzione delle stesse ad in caso di definizione della controversia entro 60 giorni dalla contestazione.
I soggetti obbligati al Sistri. In base al quadro normativo di riferimento (risultante dal combinato disposto di dlgs 152/2006, dl 101/2013 e dm 24.04.2014) il Sistri è attualmente obbligatorio per: enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi (a eccezione, se non stoccano i propri rifiuti, delle aziende agricole che li conferiscono a propri sistemi di raccolta e delle piccole strutture individuate dal decreto ministeriale del 2014); enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale, di trattamento, recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi produttori di rifiuti pericolosi; operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi; Comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della Regione Campania.
Corte Ue e Sistri. Sebbene il tracciamento telematico dei rifiuti non sia imposto dall'Ue, le reiterate proroghe della piena operatività del Sistri rischiano di costare all'Italia una procedura d'infrazione proprio per mancato adeguamento alle norme ambientali comunitarie. Il pericolo nasce dall'aver il legislatore nazionale (come più sopra accennato) agganciato alla sospensione delle norme sanzionatorie quella dell'efficacia dei «nuovi» articoli 188, 189, 190 e 193 del dlgs 152/2006, alcuni dei quali recanti le disposizioni necessarie per attuare l'ultima direttiva in materia di rifiuti, la 2008/98/Ue.
Circostanza, quest'ultima, che non è sfuggita alla Corte Ue, la quale pronunciandosi con sentenza dello scorso 18.12.2014 (causa C-551/13) su un ricorso sollecitato da un'impresa italiana rivendicante il «diritto al trattamento in proprio dei rifiuti prodotti» previsto dall'articolo 15 della direttiva in parola ha ritenuto ingiustificata la mancata trasposizione di detta disposizione sul piano nazionale entro il termine del 12.12.2010 previsto dallo stesso provvedimento Ue e spirato il 12 dicembre 2010 (articolo ItaliaOggi Sette del 05.01.2015).

EDILIZIA PRIVATASconto sui contributi a rischio corto circuito. Ristrutturazioni agevolate ma cresce il costo delle varianti. Gli importi del costruire. Gli incentivi del decreto Sblocca Italia per la riqualificazione.
La spinta per la riqualificazione dell’esistente a scapito del consumo di suolo passa anche per la leva economica. Il decreto sblocca-Italia ne è solo l’ultimo esempio. Il Dl 133/2014 ha modificato le previsioni sull’onerosità dei titoli edilizi, premiando appunto con uno sconto sui costi di costruzione le ristrutturazioni . Tuttavia, le misure inserite nel Testo unico dell’edilizia sono sì significative, ma anche contraddittorie.
Il sistema dell’onerosità dei titoli edilizi è ormai consolidato dal 1977 (legge Bucalossi) ed è confluito nell’articolo 16 del Dpr 380/2001 (Testo unico dell’edilizia):? il rilascio del permesso di costruire (o la formazione di Dia e Scia onerose) comporta un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione.
Il contributo si divide così in due voci distinte:
- la prima è relativa al costo di costruzione degli edifici (determinato in via parametrica dalle Regioni per le nuove costruzioni e dai Comuni in particolare per i progetti di ristrutturazione) e variabile dal 5% al 20% di questo costo;
- la seconda è afferente agli oneri di urbanizzazione (si veda l’articolo a fianco).
In questo contesto si è appunto inserito il Dl 133 con tre distinte previsioni per cui, nel determinare l’entità degli oneri, i Comuni:
- devono differenziare gli interventi al fine di incentivare, soprattutto nelle aree a maggiore densità del costruito, quelli di ristrutturazione edilizia, anziché la nuova costruzione;
possono deliberare che i costi di costruzione sulle ristrutturazioni siano inferiori ai valori per le nuove costruzioni;
- devono ridurre il contributo di costruzione in misura non inferiore al 20% rispetto a quello previsto per le nuove costruzioni nei casi non interessati da varianti urbanistiche, deroghe o cambi di destinazione d’uso comportanti maggior valore rispetto alla destinazione originaria.
Il favor per incentivare la rigenerazione del patrimonio edilizio esistente non potrebbe essere più evidente. Ma quasi a compensare gli sconti concessi, lo sblocca-Italia contestualmente inasprisce il contributo per gli interventi edilizi che si accompagnano a modifiche della disciplina urbanistica incrementando il valore delle aree o degli edifici oggetto di intervento.
Nel determinare l’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, infatti, i Comuni devono ora tenere conto «del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso».
Il maggior valore dovrà essere «suddiviso in misura non inferiore al 50% tra il Comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al Comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario». Le somme sono vincolate alla realizzazione di opere pubbliche nell’area.
La disposizione è piuttosto complicata ma, nella sostanza, vuole dividere tra il proprietario e la collettività il maggior valore commerciale derivante dalla modifica della disciplina urbanistica che, ad esempio, muti un’area da agricola ad edificabile-residenziale.
Del resto previsioni simili esistono già in diverse disposizioni regionali e nella prassi dei piani regolatori di tanti comuni (Roma su tutti) che infatti la norma in commento fa espressamente salve.
La disposizione si presta però ad alcune considerazioni critiche. In primo luogo, va detto che le varianti di Prg che incrementano il valore fondiario in termini evidenti come nell’esempio appena portato sono normalmente attuate mediante l’approvazione di piani urbanistici di dettaglio sulle poche aree ancora libere, all’interno dei quali si sviluppa la negoziazione tra privato e Comune volta a redistribuire l’incremento del valore di mercato.
La disposizione si manifesta dunque principalmente rivolta alle varianti di Prg interessanti il patrimonio edilizio esistente, spesso degradato e bisognoso di interventi, anche di bonifica ambientale, sicuramente più onerosi di quelli necessari per la trasformazione dei cosiddetti greenfield (spazi non costruiti).
Il sistema va così in corto circuito perché si rischia di appesantire l’intervento dei privati con regole stabilite a priori e disancorate dalle specifiche realtà locali, in contraddizione con il favore per gli interventi di rigenerazione urbana e riqualificazione edilizia che le disposizioni dello sblocca-Italia sopra considerate vogliono incentivare
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Cambia ogni 5 anni la quota degli oneri di urbanizzazione. Le procedure. Aggiornamento affidato ai Comuni.
Il contributo di costruzione si compone anche della voce afferente alle opere di urbanizzazione primaria (quali strade, parcheggi, servizi a rete) e secondaria (quali parchi, scuole, ospedali, servizi sociali, sportivi e culturali) che i Comuni devono realizzare e manutenere per garantire l’ordinato sviluppo del territorio.
L’incidenza degli oneri di urbanizzazione è stabilita con deliberazione del Consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la Regione definisce per classi di Comuni.
Ogni cinque anni i Comuni provvedono ad aggiornare gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, in conformità alle relative disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale.
Negli interventi più rilevanti, la legge consente che le opere di urbanizzazione siano realizzate direttamente dal costruttore, a scomputo degli oneri dovuti.
Prevede infatti l’articolo 16 del Dpr 380/2001 che la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione, se non corrisposta al Comune all’atto del rilascio del permesso di costruire o rateizzata, possa essere assolta mediante l’impegno a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dall’amministrazione e con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del Comune.
Il comma 2-bis della norma citata chiarisce quindi che nell’ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati, nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria di cui all’articolo 28, comma 1, lettera c), del Dlgs 12.04.2006, n. 163, funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire (o altro titolo edilizio equipollente) e non trova applicazione il Dlgs 12.04.2006, n. 163. Va precisato che fino al 2016 la soglia europea per i lavori che obbliga alla gara ammonta a 5,186 milioni di euro. Al di sopra di questo importo, trova attuazione il Codice dei contratti pubblici che impone, appunto, di selezionare gli appaltatori delle opere con gare pubbliche.
Nel silenzio della legge, la prassi amministrativa conosce anche la possibilità di realizzare opere di urbanizzazione al posto del pagamento del contributo commisurato al costo di costruzione. Non si tratta dello scomputo previsto dal Testo unico dell’edilizia, ma di una compensazione economica che le parti possono concordare nelle convenzioni urbanistiche (Tar Pescara n. 1142 del 2010)
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTILe p.a. versano l'Iva all'erario (ma con un'eccezione). L'impatto delle disposizioni sullo split payment in vigore dal 1° dicembre scorso.
Le pubbliche amministrazioni non possono più pagare l'Iva sugli acquisti di beni e servizi ai loro fornitori, ma devono versarla direttamente all'erario. Anche sulle vecchie fatture non ancora saldate.

Questo per effetto delle disposizioni contenute nell'art. 17-ter del dpr n. 633/72, aggiunto dalla legge n. 190 del 23.12.2014 (di Stabilità 2015), pubblicata nella G.U. n. 300 del 29.12.2014, S.O. n. 99), che hanno introdotto il particolare meccanismo c.d. dello «split payment» per la riscossione dell'Iva sulle forniture agli enti pubblici.
Dovrebbero fare eccezione, pur nel silenzio della norma, le fatture senza evidenza dell'imposta, ad esempio per operazioni sottoposte al regime del margine. Il meccanismo, derogando alle disposizioni della direttiva, dovrà essere autorizzato dall'Ue; la legge prevede tuttavia che è comunque applicabile alle operazioni la cui imposta diviene esigibile dal 01.01.2015 (anche se fatturate precedentemente).
Le nuove disposizioni
L'art. 17-ter, comma 1, stabilisce che per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello stato e dei suoi organi, anche dotati di personalità giuridica, degli enti pubblici territoriali e dei loro consorzi, delle camere di commercio, degli istituti universitari, delle asl, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza, per i quali i suddetti enti non sono debitori d'imposta ai sensi delle disposizioni in materia di Iva, l'imposta è in ogni caso versata dagli enti stessi secondo modalità e termini fissati con decreto del ministro dell'economia. In caso di omesso o ritardato versamento, si applicheranno le sanzioni dell'art. 13, dlgs n. 471/1997.
Il comma 2 esclude dalle suddette disposizioni i compensi per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla fonte a titolo di imposta sul reddito.
In pratica, i fornitori emetteranno normalmente le fatture, indicandovi l'Iva; gli enti destinatari, però, pagheranno loro soltanto l'imponibile (e le altre somme diverse dall'Iva), mentre corrisponderanno l'imposta all'erario con le modalità e nei termini che dovranno essere stabiliti con apposito decreto.
È da ritenere, come accennato, che il meccanismo non possa trovare applicazione nei casi in cui, per effetto di speciali regimi, l'Iva non sia evidenziata nella fattura: per esempio, cessioni di beni usati e prestazioni delle agenzie di viaggio soggette ai regimi del margine (per le quali, peraltro, la relativa imposta viene calcolata con procedimenti particolari), cessioni di prodotti editoriali in regime monofase art. 74, dpr 633/1972.
Per espressa previsione di legge, il meccanismo non si applica nei casi in cui l'ente cessionario o committente assume la veste di debitore dell'Iva, ad esempio operazioni sottoposte al regime dell'inversione contabile di cui agli artt. 17 e 74 del dpr 633/1972, acquisti intracomunitari: in tali casi, quindi, l'ente deve continuare a liquidare e contabilizzare l'Iva dovuta come previsto da dette disposizioni (integrazione della fattura del fornitore, registrazione dell'imposta a debito ecc.).
Decorrenza
Il comma 632 dell'art. 1 della legge n. 190/2014 prevede che le suddette disposizioni, nelle more del rilascio dell'autorizzazione da parte del Consiglio Ue ai sensi dell'art. 395 della direttiva Iva, trovano comunque applicazione per le operazioni per le quali l'Iva è esigibile a partire dal 01.01.2015. Poiché l'Iva relativa alle operazioni effettuate nei confronti dei suddetti enti diviene esigibile non al momento di effettuazione dell'operazione, ma all'atto del pagamento del corrispettivo ai sensi dell'art. 6, quinto comma, dpr 633/1972, il nuovo meccanismo si applica ai pagamenti di forniture effettuati dal 01.01.2015, anche se la fattura sia stata emessa precedentemente (salvo che, al momento dell'emissione della fattura, il fornitore si sia avvalso della facoltà di rinunciare all'esigibilità differita). In proposito, è da osservare che il meccanismo dello split payment è incompatibile con la facoltà dei fornitori di rinunciare all'esigibilità differita, che pertanto dovrebbe ora ritenersi implicitamente preclusa. Misure compensatorie per i fornitori.
Per attenuare i riflessi negativi a danno dei fornitori, è previsto che le operazioni sottoposte a split payment si computano ai fini del presupposto del rimborso del credito Iva basato sull'aliquota media. È altresì previsto che con lo stesso decreto che fisserà le modalità e i termini di pagamento, i fornitori saranno inclusi fra i soggetti aventi diritto ai rimborsi Iva prioritari, limitatamente al credito rimborsabile relativo alle operazioni dell'art. 17-ter (articolo ItaliaOggi del 03.01.2015).

EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVOROPer i capannoni la notifica è doppia. Sicurezza. Interpello del ministero.
La comunicazione relativa alla costruzione e realizzazione di edifici o locali da adibire ad attività industriali è cosa ben diversa dalla notifica preliminare che incombe sul committente per la realizzazione di una opera edile, per cui l’una non sostituisce l’altra. È tale il parere espresso dalla Commissione per gli interpelli, istituita presso il ministero del Lavoro.
Con l’interpello 31.12.2014 n. 26/2014 è stato chiesto se, nel caso in cui un cantiere temporaneo abbia per oggetto la costruzione, ovvero l’ampliamento o la ristrutturazione di edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, la notifica prevista dall’articolo 67 del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute sicurezza sui luoghi di lavoro), i cui contenuti sono stati individuati con il decreto interministeriale del 18.04.2014, debba ritenersi sostituita dalla notifica preliminare che il committente o il responsabile dei lavori, ai sensi dell’articolo 99 del Testo unico, deve trasmettere prima dell’inizio dell’attività alla Asl e alla direzione territoriale del Lavoro (Dtl).
L’interpello, dopo aver chiarito che la comunicazione all’organo di vigilanza (Asl competente per territorio) deve contenere la descrizione dell’oggetto delle lavorazioni e delle principali modalità di esecuzione delle stesse, nonché la descrizione dei locali e degli impianti, ha rilevato che l’obiettivo di questa notifica, a carico del datore di lavoro, è informare l’Asl al fine di consentire di dare preventivamente indicazioni tecniche (strutturali, impiantistiche, di igiene industriale) atte a migliorare le condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
La notifica ex articolo 99, invece, individua un diverso soggetto obbligato (committente o responsabile dei lavori) e ha l’obiettivo di rendere noti i dati del cantiere all’organo di vigilanza perché possa effettuare una corretta programmazione degli interventi di controllo nel comparto delle costruzioni, interessato da un numero elevato di infortuni.
Inoltre con l’interpello 20/2014 la Commissione ha ribadito che, ai sensi dell’articolo 47 del Testo unico l’eleggibilità del rappresentante, tra i lavoratori non appartenenti alla Rsa, opera esclusivamente quando non sia presente in azienda una rappresentanza sindacale ex articolo 19 della legge 300/1970.
Con l’interpello 27/2014 viene invece confermato che il datore di lavoro può stipulare una convenzione con la Asl, per lo svolgimento della sorveglianza sanitaria, se e quando il medico, interessato alla convenzione, ai sensi dell’articolo 39, comma 3, del Testo unico non sia assegnato al servizio di vigilanza.
Infine con l’interpello 28/2014 è stato precisato che la subordinazione gerarchica di un medico competente incardinato nella stessa struttura ove opera il direttore che ne è anche responsabile del servizio di prevenzione protezione, può riguardare i soli aspetti che esulano dallo specifico incarico di medico competente, stante la condizione di piena autonomia organizzativa e funzionale che gli deve essere garantita dal datore di lavoro per lo svolgimento delle proprie funzioni, peraltro penalmente sanzionate
 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.01.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni, inizio anno col botto. Gestione associata delle funzioni, acquisti centralizzati. Per i mini-enti è giunta l'ora di mettersi insieme. Pronte le lettere di messa in mora dei prefetti.
Inizio anno con il botto per gli uffici dei comuni. Da ieri, infatti, sono entrate in vigore alcune riforme destinate a rivoluzionare l'assetto della p.a. locale. Il cambiamento più profondo è quello che interessa i mini-enti, ossia quelli al di sotto dei 5.000 abitanti (limite che scende a 3.000 in montagna), che dal 1° gennaio sono obbligati a gestire in forma associata tutte le proprie funzioni fondamentali individuate dal legislatore statale, con la sola eccezione di quelle riguardanti anagrafe, stato civile e servizi elettorali.
L'obbligo risale addirittura alla manovra estiva del 2010 (dl 78), ma l'iter applicativo è stato scandito da continue proroghe. Le funzioni già devolute a unioni o convenzioni (che rappresentano le due uniche modalità organizzative ammesse) o erano già gestite in forma associata (ad esempio, servizi sociali) o sono piuttosto «leggere» (ad esempio, protezione civile o catasto).
Il vero core business, che include le funzioni «pesanti» (come, ad esempio, amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici locali, pianificazione urbanistica; si veda la tabella), è ancora tutto da trasferire.
Ecco perché fino all'ultimo molti si aspettavano un nuovo rinvio, che però non ha trovato posto nel Milleproroghe. Ovviamente, non ci sono ancora monitoraggi precisi sul grado di compliance delle amministrazioni interessate, anche se la sensazione è che molte siano ancora impreparata a questo passaggio, complice anche la recente tornata elettorale e le numerose novità introdotte in materia dalla recente legge 56/2014 (legge Delrio).
Anche quelli che sono partiti, nella maggior parte dei casi, hanno solo agito a un livello normativo «alto», rinviando l'effettiva riorganizzazione dei servizi a successivi regolamenti attuativi.
Di ciò è consapevole la stessa Anci, che per voce del suo presidente, Piero Fassino, ha puntato il dito contro l'attuale quadro legislativo, «che non incoraggia lo sviluppo delle gestioni associate e delle unioni di comuni». Basti pensare al fatto che la maggior parte dei tributi e delle risorse perequative sono intestate ai singoli comuni, anche se servono a finanziare attività da gestire a livello sovraccomunale. Secondo Anci, «la battaglia da fare per rilanciare le gestioni associate è quella di arrivare a un nuovo strumento normativo che renda più semplice e più vantaggioso ai comuni associarsi».
Nel frattempo, però, gli obblighi rimangono e molte prefetture hanno pronte le lettere di messa in mora dei sindaci: il mancato adempimento, infatti, è sanzionato con il possibile esercizio del potere sostitutivo del governo attraverso il commissariamento degli enti che non si adeguano. Invero, si tratta di una minaccia relativa, dal momento che difficilmente i commissari potrebbero andare effettivamente sostituirsi agli amministratori inadempienti. Alcune regioni hanno anche previsto l'inserimento coercitivo dei comuni renitenti nelle forme associative ritenute più idonee. Ma anche in tal caso è difficile pensare che si arrivi a un conflitto fra governatori e sindaci, specie mentre i primi sono già impegnati nella difficile partita sulla distribuzione delle funzioni finora gestite dalla province.
Sempre dal 1° gennaio è operativo anche l'obbligo di acquisti centralizzati per i beni e servizi previsto dal dl 66/2014, che in teoria avrebbe dovuto scattare già dallo scorso 1° luglio e che era stato rinviato di sei mesi (un anno per i lavori) dal successivo dl 90. In tal caso, sono soggetti tutti i comuni non capoluogo, indipendentemente dalla dimensione demografica, che possono avvalersi, oltre che di unioni e convenzioni, anche delle province e di un soggetto aggregatore. Qui la sanzione, al contrario del caso precedente, è molto efficace: per chi non si adegua, niente cig, visto che l'Anac non potrà più rilasciarlo ai singoli enti, con conseguente blocco delle procedure. Esattamente quello che è successo sei mesi fa, rendendo inevitabile la proroga. Dopo la pausa natalizia si vedrà se nel frattempo qualcosa è cambiato (articolo ItaliaOggi del 02.01.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, prorogati i contratti a termine.
Prorogati al 31.12.2015 i contratti a termine dei lavoratori provinciali.

Il decreto legge Milleproroghe, nella sua versione definitiva (dl n. 192/2014, pubblicato sulla G.U. n. 302 del 31/12/2014), si è arricchito di numerose disposizioni sugli enti di area vasta. A cominciare proprio dallo slittamento «per le strette necessità connesse alle esigenze di continuità dei servizi» dei contratti a tempo determinato. Inoltre, le province che non abbiano approvato il bilancio di previsione 2014 al 31 dicembre guadagnano due mesi in più (fino al 28/02/2015).
Per incentivare il trasferimento dei dipendenti provinciali, a seguito del riordino previsto dalla legge Delrio, si stabilisce che le risorse stanziate per la proroga delle assunzioni e rimaste inutilizzate siano destinate ai processi di mobilità. Sono fatte salve, in ogni caso, le assunzioni in favore dei vincitori di concorso (articolo ItaliaOggi del 02.01.2015t).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti locali, assunzioni vincolate. Comuni e regioni devono assorbire gli esuberi provinciali. LEGGE DI STABILITÀ/ Dopo i vincitori di concorso, priorità al personale in sovrannumero.
Nuovi vincoli per le assunzioni di comuni e regioni. La legge di Stabilità 2015 (legge n. 190/2014) estende indirettamente anche agli altri enti territoriali le conseguenze della «guerra santa» contro le province, limitando fortemente le assunzioni negli anni 2015-2016.
La legge regola in modo piuttosto confuso e lacunoso l'iter che regioni e comuni (e gli altri enti locali diversi dalle province) dovranno rispettare, per assumere personale.
Il primo passaggio sarà, come sempre, la programmazione triennale delle assunzioni, che per il primo biennio risulterà fortemente limitata dalle disposizioni della legge finanziaria.
Contestualmente, regioni e comuni dovranno determinare le risorse disponibili per effettuare assunzioni a tempo indeterminato in ciascuno degli anni 2015 e 2016. Nel 2015 tali risorse sono pari al 60% del costo delle cessazioni del 2014 (cumulabili con resti non utilizzati degli anni 2012 e 2013); nel 2016, la percentuale di copertura del turnover salirà all'80%.
Le risorse così individuate dovranno essere riservate in primo luogo all'immissione in ruolo dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della legge di stabilità; in subordine, alla ricollocazione nei propri ruoli del personale provinciale dichiarato in sovrannumero e destinato ai trasferimenti in mobilità.
Tuttavia, in deroga ai limiti percentuali al costo del turnover, allo scopo di agevolare la ricollocazione del personale provinciale mediante la mobilità le regioni e gli enti locali potranno destinare la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015. Ciò significa che nel 2015, il 40% del costo delle cessazioni, e nel 2016, il 20% del costo delle cessazioni dell'anno precedente serviranno per coprire i costi dell'acquisizione in mobilità del personale provinciale in sovrannumero.
La spesa incontrata per acquisire in mobilità il personale delle province non si computerà nel tetto alle spese di personale, imposto dall'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006.
Determinata così la spesa consentita per le assunzioni, regioni ed enti locali nel 2015-16 avranno modo anche di stabilire quanto personale assumere e in quali profili e qualifica.
Regioni ed enti locali, dunque, dovranno comunicare al ministro per gli affari regionali e le autonomie, al ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al ministro dell'economia e delle finanze due dati: sia il numero del personale «ricollocabile», corrispondente ai posti resi disponibili per turnover secondo quando indicato sopra; sia il numero di personale «ricollocato», quello cioè effettivamente assunto mediante mobilità.
La legge di Stabilità, tuttavia, non chiarisce né come, né quando regioni ed enti locali dovranno effettuare queste comunicazioni.
Manca del tutto, poi, la precisazione di un obbligo di pubblicare i posti disponibili per la ricollocazione, anche se detto obbligo pare possa ricavarsi implicitamente dall'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001, che regola le procedure di mobilità, per quanto la mobilità imposta dalla legge di stabilità assuma toni di straordinarietà.
Manca, ancora, qualsiasi indicazione su come regioni ed enti locali dovranno selezionare i dipendenti provinciali che risponderanno agli avvisi pubblici. Anche in questo caso si può colmare la lacuna con quanto prevede l'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001, che impone alle amministrazioni intenzionate (nel caso di specie, indotte) ad assumere per mobilità di definire preventivamente i requisiti professionali richiesti. Ovviamente, regioni e comuni non potranno richiedere requisiti tali da rendere impossibile o inefficace il processo di ricollocazione.
Altrettanto ovvio è che ai fini della mobilità «speciale» prevista dalla legge di stabilità 2015, i dipendenti delle province non avranno bisogno del «preventivo assenso» dell'amministrazione di appartenenza, che, di fatto, sarà sostituito dall'adempimento all'obbligo di determinare entro 90 giorni dalla vigenza della legge di stabilità nomi e cognomi dei dipendenti in sovrannumero, destinati al trasferimento verso altri enti.
Regioni ed enti locali dovranno rispettare puntualmente le indicazioni operative desumibili dalla legge di stabilità. Qualsiasi assunzione effettuata violando gli adempimenti ricordati sarà nulla.
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Entro il 2016 c'è il rischio che i posti non bastino.
Presso regioni e comuni i posti disponibili per i dipendenti provinciali in sovrannumero non saranno sufficienti al riassorbimento entro il 2016. Il processo di mobilità dei dipendenti delle province immaginato dalla legge di Stabilità 2015 alla prova dei fatti risulterà molto più complicato di quanto non risulti dalle dichiarazioni tranquillizzanti del governo.
Al di là della circostanza, documentata dal Conto annuale del personale, che il comparto regioni-enti locali ogni anno non effettua mediamente più di 4.500 assunzioni, sicché la ricollocazione dei 20 mila dipendenti provinciali interessati risulta estremamente difficile, occorre anche tenere presente che non tutti i posti possano considerarsi «disponibili» per le professionalità delle province. Questo, sia per ragioni logistiche, sia per esigenze dei fabbisogni.
Sul piano logistico, è chiaro che le possibilità di ricollocazione presso le regioni è estremamente bassa e limitata sostanzialmente alle province che abbiano sede nei capoluoghi di regione. Solo in quel caso, infatti, sarà possibile rispettare il limite territoriale dei 50 chilometri per i trasferimenti di personale. Le sedi delle regioni decentrate in altre province sono pochissime, sicché di fatto il contributo regionale alle ricollocazioni risulterà molto limitato.
Per quanto riguarda i comuni, è noto che essi abbiano una rilevante serie di scoperture per profili che nelle province risultano assenti o indisponibili. Si pensi agli assistenti sociali, o agli educatori degli asili nido e scuole materne: sono fabbisogni tipici delle amministrazioni comunali, irreperibili nelle province. Oppure, si pensi al rilevante fabbisogno di figure professionali tecniche: ingegneri, architetti, geometri. Nelle province esistono, ma è evidente che non saranno facilmente oggetto di mobilità verso i comuni, in quanto la gran parte di loro sarà addetto alle funzioni fondamentali residuate alle province, come edilizia scolastica, manutenzione delle strade e pianificazione urbanistica.
Dunque, non solo i numeri potenziali dei posti disponibili presso regioni ed è enti locali di per sé sono bassi, come attesta il Conto annuale, ma vi è una forte possibilità di mismatching tra i profili professionali di cui hanno bisogno in particolare i comuni e le professionalità in uscita dalle province.
Se, dunque, non vi sarà un rilevante intervento delle amministrazioni statali nella ricollocazione dei 20 mila dipendenti provinciali interessati, al primo gennaio 2017 potrebbero essere davvero in molti a dover entrare in quella sorta di particolare cassa integrazione che è, nel lavoro pubblico, la collocazione nelle liste di disponibilità con l'80% dello stipendio (articolo ItaliaOggi del 02.01.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Multe, anche la Pec per il ricorso al prefetto.
Chi intende presentare ricorso al prefetto contro una multa stradale d'ora in poi potrà tranquillamente utilizzare anche la posta elettronica certificata magari allegando in formato pdf il gravame regolarmente sottoscritto. Ovvero firmando digitalmente la doglianza da inoltrare tempestivamente all'ufficio territoriale del governo.

Lo ha chiarito il Ministero dell'interno con la circolare 11.11.2014 n. 17166 di prot. indirizzata a tutte le prefetture nel mese di novembre ma solo ora resa nota. Sul fronte delle notifiche digitali delle multe al momento tutto resta invariato.
Non si può infatti ancora procedere alla spedizione elettronica delle sanzioni perché manca il decreto interministeriale necessario al via libera dell'attesa riforma. Eppure il risparmio connesso a questo via libera sarebbe molto rilevante.
Ma la semplificazione digitale tarda a decollare anche in materia di contenzioso stradale laddove la Pec dovrà inevitabilmente diventare lo strumento ordinario di gestione e scambio delle pratiche. Siccome numerosi cittadini hanno reclamato circa le contraddittorie informazioni disponibili sui siti informativi delle prefetture il Viminale ha deciso di chiarire meglio alcuni aspetti relativi alla semplice presentazione del ricorso al prefetto. L'invio delle doglianze non potrà di certo avvenire con posta elettronica ordinaria, specifica la nota ministeriale. L'articolo 203 del codice stradale specifica che il ricorso al prefetto può essere presentato con lettera raccomandata.
L'art. 48 del dlgs 82/2005, prosegue il Viminale, ammette però la trasmissione telematica delle comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una di consegna. In buona sostanza secondo questo dlgs la trasmissione via Pec del ricorso è parificata a tutti gli effetti alla notifica con raccomandata. Per questo motivo, conclude il parere centrale, poiché l'articolo 203 cds non dispone espressamente il contrario, il ricorso al prefetto contro una multa può essere presentato anche via Pec. Purché la doglianza sia sottoscritta con firma digitale del soggetto legittimato ovvero alla Pec sia allegato, in formato pdf, il testo del gravame firmato dall'interessato (articolo ItaliaOggi del 31.12.20).

EDILIZIA PRIVATA: Notaio detraibile. Ristrutturazioni, sconto del 50%. L'Agenzia delle entrate sugli atti legati al bonus.
Ristrutturazioni edilizie, spese notarili detraibili al 50%. Nel caso in cui sia necessario recarsi dal notaio per fare in modo che una determinata parte dell'edificio oggetto di ristrutturazione sia qualificabile come pertinenza dell'unità immobiliare (vincolo pertinenziale) le spese sostenute possono essere detratte al 50%. L'atto del notaio, infatti, è necessario alla determinazione del contributo complessivo da corrispondere essendo finalizzato all'integrazione della pertinenza nell'unità immobiliare principale.

A chiarirlo, ieri, l'Agenzia delle entrate, tramite la risoluzione 30.12.2014 n. 118/E, in risposta a un interpello avente ad oggetto l'ambito di applicazione dell'art. 16-bis del Tuir.
Nel dettaglio, il contribuente si è rivolto all'amministrazione finanziaria per avere un chiarimento circa la possibilità di portare in detrazione, nell'ambito di una ristrutturazione edilizia, le spese sostenute per ottenere dal notaio la redazione dell'atto di costituzione del vincolo pertinenziale rispetto all'immobile principale. Atto resosi necessario per ottenere dal comune di residenza il permesso di costruzione.
A tal proposito l'amministrazione finanziaria ha ricordato come «tra gli oneri che danno diritto alla detrazione del 50% rientrano, tra gli altri, le spese per l'Iva, l'imposta di bollo e i diritti pagati per le concessioni, le autorizzazioni e le denuncie di inizio lavori, nonché gli oneri di urbanizzazione e altri eventuali costi strettamente inerenti la realizzazione degli interventi», aggiungendo, poi che, «in base alla legge regionale del Piemonte 21/1998, gli interventi edilizi diretti al recupero del sottotetto a fini abitativi sono classificati come interventi di ristrutturazione o risanamento conservativo rientrando, quindi tra quei lavori che possono usufruire della detrazione al 50%».
Fatte queste premesse l'Agenzia ha poi chiarito che, in realtà, l'atto notarile non è elemento essenziale alla realizzazione degli interventi edilizi, ma è, bensì, «un atto avente la finalità di rendere la parte di sottotetto esiste pertinenza dell'unità immobiliare principale con la conseguenza di essere, quindi, funzionale alla riduzione del contributo da corrispondere».
Essendo, quindi, strettamente legato all'immobile, «il costo sostenuto per la redazione dell'atto notarile di costituzione del vincolo pertinenziale, in quanto rilevante per la determinazione dell'importo detraibile, deve seguire lo stesso regime fiscale ed essere ammesso in detrazione» (articolo ItaliaOggi del 31.12.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: P.a., c'è già il licenziamento dei fannulloni.
Il licenziamento per scarso rendimento nella pubblica amministrazione esiste già da molto tempo. Non occorre aspettare che entri in vigore la «riforma Madia» della pubblica amministrazione per introdurlo, né rimandare alla contrattazione nazionale collettiva.

È esattamente dalla prima tornata contrattuale successiva alla «privatizzazione» del rapporto di lavoro pubblico (dovuta al dlgs 29/1993, poi trasfuso nel dlgs 165/2001) che il licenziamento con preavviso per scarso rendimento è regolato dai contratti nazionali collettivi. Nel comparto regioni enti locali, fu disciplinato dal Ccnl 06.07.1995, all'articolo 25, comma 6, lettera e), nell'ambito del «codice disciplinare» integrato in quel contratto.
Oggi, la medesima fattispecie del licenziamento disciplinare con preavviso per scarso rendimento è regolata dal Ccnl 11.04.2008, all'articolo 3, comma 7, lettera e), ai sensi del quale costituisce causa di licenziamento la «continuità, nel biennio, dei comportamenti rilevati attestanti il perdurare di una situazione di insufficiente rendimento o fatti, dolosi o colposi, che dimostrino grave incapacità ad adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio». L'insufficiente rendimento è, in ogni caso, fonte dell'applicazione delle sanzioni disciplinari fino alla multa o alla sospensione dal lavoro con privazione della retribuzione, se di minore gravità.
Non bastasse la vigenza quasi ventennale della disciplina contrattuale dello scarso rendimento, la riforma Brunetta, il dlgs 150/2009 ha reso anche norma di legge il licenziamento dovuto all'accertamento di insufficiente produttività e capacità del lavoratore pubblico, introducendo nel dlgs 165/2001, l'articolo 55-quater, comma 2.
Tale disposizione prevede che «
il licenziamento in sede disciplinare è disposto, altresì, nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l'amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo è dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all'articolo 54».
È, dunque, da considerare priva di qualsiasi fondamento la teoria, proposta in questi giorni anche dai sindacati, secondo la quale nella pubblica amministrazione non si possa licenziare i dipendenti “fannulloni” e che allo scopo occorra attendere una norma di legge ad hoc, oppure attendere che la norma introdotta dalla riforma Brunetta sia attuata dai contratti collettivi.
Si è visto che la contrattazione collettiva vigente prima ancora del dlgs 150/2009 disciplina, e da tempo, il licenziamento per scarso rendimento. Il dlgs 150/2009 ha precisato che esso può essere cagionato in particolare dalla ripetuta insufficiente valutazione, secondo i sistemi previsti dalla normativa vigente. La contrattazione collettiva non è assolutamente condizione per l'applicazione del licenziamento, ma solo una delle fonti dalle quali è possibile ricavare le obbligazioni lavorative violate, poste a fondamento del licenziamento del dipendente.
Trattandosi di licenziamento disciplinare, non si vede la ragione per la quale ad esso non dovrebbero applicarsi le modifiche alla disciplina di tutela dai licenziamenti illegittimi, posto che il Jobs Act lascia la reintegra nel posto di lavoro come rimedio proprio ai licenziamenti disciplinari. Non sarebbe comprensibile, del resto, perché per i lavoratori del privato vigerebbe l'inversione dell'onere della prova dell'insussistenza del fatto, mentre per i lavoratori pubblici (se non si applicasse la riforma, come sostengono alcuni) no (articolo ItaliaOggi del 31.12.2014).

ENTI LOCALI: In Lombardia. Province, competenze confermate.
Confermate le competenze attribuite alle province lombarde con alcune eccezioni: agricoltura, foreste, caccia e pesca vengono ritrasferite alla regione Lombardia. Ma con due eccezioni: la Città metropolitana di Milano e la provincia di Sondrio che avranno una maggiore autonomia.
Lo prevede il progetto di legge di riforma del sistema delle autonomie approvato dalla giunta lombarda in attuazione della legge Delrio.

Il progetto di legge, ha sottolineato il presidente della regione Roberto Maroni, «tiene conto della specificità dei territori».
«La Città metropolitana di Milano», ha spiegato, «esercita tutte le funzioni già conferite alla provincia di Milano (comprese quelle in agricoltura, foreste, caccia e pesca) e ulteriori funzioni rispetto a quelle fondamentali previste dalla legge Delrio, perché questo nuovo ente è qualcosa di molto diverso dalle nuove province».
L'altra eccezione riguarda la provincia di Sondrio che godrà di «forme particolari di autonomia» e di un aumento progressivo della disponibilità finanziaria» (articolo ItaliaOggi del 31.12.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Pertinenze, bonus 50% per le spese notarili. Fisco e immobili/2. Le indicazioni della risoluzione n. 118/E.
Anche la fattura del notaio relativa a un atto con il quale il sottotetto recuperato è asservito al sottostante appartamento rientra tra i costi di cui il contribuente può domandare la detrazione dall’Irpef conseguente all’effettuazione degli interventi di recupero del patrimonio edilizio.
Lo afferma la risoluzione 30.12.2014 n. 118/E dell’agenzia delle Entrate.
Come noto, sono detraibili dall’Irpef lorda, in particolare, i costi sostenuti per interventi realizzati su singole unità immobiliari residenziali qualificabili come opere di “manutenzione straordinaria”, di “restauro e risanamento conservativo” e di “ristrutturazione edilizia”.
Il caso da cui la risoluzione 118/E origina era un intervento di recupero di un sottotetto a fini abitativi realizzato in Piemonte la quale prevede, da un lato, che «il rilascio della concessione edilizia» occorrente per l'effettuazione dell’intervento di recupero del sottotetto «comporta la corresponsione del contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione»; e, d'altro lato, che detto contributo è ridotto alla metà «qualora il richiedente la concessione provveda, contestualmente al rilascio della concessione, a registrare ed a trascrivere, presso la competente conservatoria dei registri immobiliari, dichiarazione notarile con la quale le parti rese abitabili costituiscano pertinenza dell’unità immobiliare principale».
Con questo atto di destinazione pertinenziale, in sostanza, il soggetto che effettua l’intervento di recupero del sottotetto si vincola a utilizzare il sottotetto recuperato come pertinenza della propria abitazione principale: la norma ha l’evidente fine di agevolare coloro che migliorano la vivibilità della propria abitazione rispetto a coloro che recuperano il sottotetto per finalità speculative (ad esempio, per venderlo o per concederlo in locazione) o che comunque svolgono lavori finalizzati a incrementare il valore di un edificio diverso dalla loro casa di abitazione.
Ebbene, con la risoluzione in esame, l’agenzia delle Entrate ammette alla detrazione il costo di questo atto recante il vincolo di pertinenzialità, in quanto atto occorrente per ottenere (con oneri ridotti) il rilascio del titolo abilitativo comunale necessario per poter procedere all’esecuzione dei lavori di recupero del sottotetto.
Il recupero a fini abitativi del sottotetto di un edificio è senz’altro, infatti, un intervento rientrante in una delle categorie degli interventi di recupero ammesse a detrazione (manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia); ed è principio consolidato che, tra i costi detraibili relativi a tali interventi, siano comprendibili non solo quelli direttamente relativi alle opere edilizie, ma anche quelli inerenti le occorrenti formalità burocratiche; ad esempio, con le circolari 57/E/98 e 121/E/98 è stato precisato che tra gli oneri che danno diritto alla detrazione rientrano, tra gli altri: le spese per l'imposta sul valore aggiunto, per l'imposta di bollo e per i diritti pagati per le concessioni, le autorizzazioni, le denunzie di inizio lavori nonché per gli oneri di urbanizzazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2014).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Dal 2016 serviranno quattro mesi in più per andare in pensione. Previdenza. In Gazzetta il decreto sullo slittamento.
Come previsto dalle stime della riforma delle pensioni Fornero, dal 2016 per ottenere la pensione occorrerà aspettare 4 mesi in più. È la conseguenza del miglioramento della speranza di vita, certificata dalla Ragioneria dello Stato, con la conseguenza di requisiti più severi per l’accesso alla pensione.
Il decreto del ministero dell’Economia 16.12.2014 è stato pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 30 dicembre, senza ritardi rispetto al ruolino di marcia fissato dal Dl 201/2011, convertito nella legge 2014/2011.
Dal 2016, dunque, scatterà il secondo aumento dei requisiti anagrafici e contributivi dopo l’adeguamento avvenuto nel 2013. In particolare, per le pensioni anticipate saranno necessari, per gli uomini, 42 anni e dieci mesi di contributi; per le donne 41 anni e dieci mesi di contributi.
Per la pensione di vecchiaia i requisiti sono differenti per le donne del settore privato rispetto agli uomini e alle donne del settore pubblico. Gli uomini, dipendenti o lavoratori autonomi, dovranno raggiungere i 66 anni e sette mesi di età. Lo stesso requisito è fissato per le donne del pubblico impiego.
Per le lavoratrici del settore privato l’aumento della speranza di vita si combina con l’innalzamento dei minimi fissati dalla riforma previdenziale per arrivare a parificare i requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia. Per le dipendenti del settore privato occorreranno 65 anni e sette mesi, per le autonome 66 anni e un mese. In parallelo si innalzeranno i requisiti di età per le pensioni calcolate con il contributivo puri (63 anni e sette mesi).
Anche per coloro a cui si applica ancora il sistema delle quote, primi fra tutti i lavoratori occupati in attività usuranti, la somma tra contributi ed età anagrafica si innalzerà di altri quattro mesi e così pure l’età minima per accedere al trattamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2014).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIAL’obbligo di adottare le misure, tanto urgenti, quanto definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe solo sul soggetto responsabile dell’inquinamento medesimo, che sia individuato come tale per avervi dato causa.
Le norme citate individuano nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la fonte dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza, cui aderisce il Tribunale, deduce che l’obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza un sito non grava automaticamente sul soggetto incolpevole, che ha avuto la gestione dell’area risultata poi inquinata, o sul proprietario parimenti incolpevole, fermo restando che quest’ultimo può spontaneamente intraprendere le operazioni di ripristino, secondo il richiamato meccanismo dell’art. 245 del d.l.vo 2006 n. 152.
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento ai privati che non hanno responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato e che vengono individuati solo in quanto proprietari del bene o soggetti che ne hanno avuto la disponibilità, come nel caso in esame, per effetto di rapporti contrattuali o di altro tipo.
L'enunciato è d'altronde conforme al principio cui si ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a colui che con la sua attività genera un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata o di chi ne abbia la disponibilità ma non sia responsabile della contaminazione non grava alcun obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in argomento, ma solo la facoltà di eseguirli, al fine di evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato da onere reale per le spese sostenute per gli interventi di recupero ambientale, assistite da privilegio speciale immobiliare ex art. 253 del d.l.vo n. 152/2006.
La normativa citata prevede, infatti, che, in caso di mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale vanno eseguite dall'amministrazione competente, la quale potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei suddetti interventi.
Insomma, l’amministrazione non può imporre a chi ha la disponibilità di un’area inquinata o al proprietario dell’area stessa, che non sia anche l'autore dell'inquinamento, l'obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui al d.l.vo n. 152/2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dal successivo art. 253 in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare.
Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del d.lgs. n. 152/2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione.

Le censure sono fondate.
In ordine alle procedure di bonifica dei siti inquinati, l’art. 242 del d.l.vo n. 152/2006, ai primi tre commi, dispone che: “1. Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione.
2. Il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione. L'autocertificazione conclude il procedimento di notifica di cui al presente articolo, ferme restando le attività di verifica e di controllo da parte dell'autorità competente da effettuarsi nei successivi quindici giorni. Nel caso in cui l'inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i parametri da valutare devono essere individuati, caso per caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi svolte nel tempo.
3. Qualora l'indagine preliminare di cui al comma 2 accerti l'avvenuto superamento delle CSC anche per un solo parametro, il responsabile dell'inquinamento ne dà immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate. Nei successivi trenta giorni, presenta alle predette amministrazioni, nonché alla regione territorialmente competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all'Allegato 2 alla parte quarta del presente decreto. Entro i trenta giorni successivi la regione, convocata la conferenza di servizi, autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative. L'autorizzazione regionale costituisce assenso per tutte le opere connesse alla caratterizzazione, sostituendosi ad ogni altra autorizzazione, concessione, concerto, intesa, nulla osta da parte della pubblica amministrazione
”.
Il successivo art. 250 precisa, inoltre, che "qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all'articolo 242 sono realizzati d'ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l'ordine di priorità fissato dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le regioni possono istituire appositi fondi nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio”.
Del resto, l’art. 192 del medesimo d.l.vo, nel disciplinare il divieto di abbandono di rifiuti, precisa che “1. L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.
4. Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni
”.
In argomento il Tribunale ha già chiarito che il combinato disposto delle disposizioni appena citate rende evidente che l’obbligo di adottare le misure, tanto urgenti, quanto definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe solo sul soggetto responsabile dell’inquinamento medesimo, che sia individuato come tale per avervi dato causa (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV, 26.08.2014, n. 2253; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 08.07.2014, n. 1768; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 30.05.2014, n. 1373; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 13.01.2014, n. 108; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 31.01.2012, n. 332).
Le norme citate individuano nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la fonte dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza, cui aderisce il Tribunale, deduce che l’obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza un sito non grava automaticamente sul soggetto incolpevole, che ha avuto la gestione dell’area risultata poi inquinata, o sul proprietario parimenti incolpevole, fermo restando che quest’ultimo può spontaneamente intraprendere le operazioni di ripristino, secondo il richiamato meccanismo dell’art. 245 del d.l.vo 2006 n. 152 (cfr., oltre alla giurisprudenza già richiamata, anche TAR Toscana, sez. II, 06.05.2009, n. 762).
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento ai privati che non hanno responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato e che vengono individuati solo in quanto proprietari del bene o soggetti che ne hanno avuto la disponibilità, come nel caso in esame, per effetto di rapporti contrattuali o di altro tipo.
L'enunciato è d'altronde conforme al principio cui si ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a colui che con la sua attività genera un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata o di chi ne abbia la disponibilità ma non sia responsabile della contaminazione non grava alcun obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in argomento, ma solo la facoltà di eseguirli, al fine di evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato da onere reale per le spese sostenute per gli interventi di recupero ambientale, assistite da privilegio speciale immobiliare ex art. 253 del d.l.vo n. 152/2006.
La normativa citata prevede, infatti, che, in caso di mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale vanno eseguite dall'amministrazione competente, la quale potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei suddetti interventi.
Insomma, l’amministrazione non può imporre a chi ha la disponibilità di un’area inquinata o al proprietario dell’area stessa, che non sia anche l'autore dell'inquinamento, l'obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui al d.l.vo n. 152/2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dal successivo art. 253 in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare.
Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del d.lgs. n. 152/2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 13.11.2013, n. 25 e Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, ordinanza, 25.09.2013, n. 21) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.01.2015 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOLa scala di accesso al tetto resta comune. Condominio. Occorre un titolo valido per poter «inglobare» gli spazi dell’ultimo piano.
La scala per raggiungere il tetto del condominio non si tocca. Anche se gli spazi comuni usati per l’accesso sono ormai in uso esclusivo a un condòmino.
Il caso è abbastanza frequente, soprattutto in città: la fame di terrazzi e sottotetti ha portato in molti casi all’acquisto di quelli che erano beni comuni, o alla loro concessione in uso esclusivo a chi possiede l’appartamento dell’ultimo piano.
In molte situazioni, però, l’accesso al tetto è assicurato da una scala che, partendo dall’ultimo piano (di regola dal pianerottolo) esce sul tetto o sbuca su un terrazzo comune da cui si accede al tetto con un’ulteriore scala. Quando il terrazzo o il lastrico solare vengono però ceduti in esclusiva, spesso l’idea che questi accessi vengano usati impropriamente dai condòmini, attraversando uno spazio che ormai si considera di proprietà, spinge i concessionari del diritto a rendere difficile o addirittura impossibile l’accesso. Si tratta, ovviamente, di un comportamento illegittimo, di cui la Corte di Cassazione, Sez. II civile, si è occupata da ultimo con la sentenza 08.01.2015 n. 40.
Nel caso affrontato dalla Corte la proprietaria dell’unità immobiliare all’ultimo piano aveva anche un terrazzo in uso esclusivo e la mansarda con una servitù di accesso a favore del condominio per la manutenzione del tetto. Al terrazzo si accedeva con una scala condominiale. La condòmina, però, inglobava il volume scala nel suo appartamento, installando una scaletta verticale disagevole e pericolosa.
Il condominio inziava un contenzioso che lo vedeva vittorioso in primo e secondo grado ma la condòmina non si arrendeva. La Cassazione le ha dato a sua volta torto, affermando che i motivi da lei dedotti sono infondati: «poiché nella specie l’area in contestazione riguarda parte del vano scala e gli ultimi tre gradini della originaria scala in legno che collegava, assieme al pianerottolo, il vano alla porta d’accesso al terrazzo condominale, vale, ai fini della prova della proprietà comune in capo ai condòmini, la norma dell’articolo 1117 del Codice civile, relativa alle parti dell’edificio che, in difetto di prova contraria (da fornirsi a opera del condòmino) debbono presumersi comuni».
E dato che dai titoli non era emerso un diritto ma al contrario l’inglobamento era solo una «mera circostanza di fatto», la Cassazione ha confermato la condanna della condòmina a ripristinare a sue spese la «situazione dei luoghi quale esistente prima dei lavori di ristrutturazione entro 120 giorni»; in mancanza, veniva autorizzato il condominio a provvedere e ad addebitare i costi alla condòmina inadempiente
 (articolo Il Sole 24 Ore del 09.01.2015).

TRIBUTI: Tares sul garage anche se non lo si usa.
Il contribuente paga la Tares sul garage anche se non lo utilizza. Il prelievo fiscale scatta per il solo fatto che il comune mette a disposizione il servizio.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con sentenza 07.01.2015 n. 33, ha accolto il ricorso del comune di Catania. Insomma, per la VI Sez. civile - T la difesa del contribuente che puntava sul mancato utilizzo del garage non ha come conseguenza una riduzione o addirittura l'esenzione dall'imposta.
Gli Ermellini hanno spiegato che in virtù degli artt. 62 e 64 del dlgs 507/1993, la tassa è dovuta indipendentemente dal fatto che l'utente utilizzi il servizio, salva l'autorizzazione dell'ente impositore allo smaltimento dei rifiuti secondo altre modalità, purché il servizio sia istituito, e sussista la possibilità della utilizzazione, ma ciò non significa che, per ogni esercizio di imposizione annuale, la tassa è dovuta solo se il servizio sia stato esercitato dall'ente impositore in modo regolare, così da consentire al singolo utente di usufruirne pienamente.
Infatti, il presupposto impositivo è costituito dal solo fatto oggettivo dell'occupazione o della destinazione del locale, a qualsiasi uso adibiti, e prescinde, quindi, del tutto dal titolo in base al quale gli immobili sono occupati o detenuti (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2015).

APPALTI: Il principio di tassatività delle cause di esclusione ex art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, si applica anche alle concessioni di servizi.
Il solo parametro per valutare la legittimità delle ammissioni/esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è dato dall' art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.

Il principio di tassatività delle cause di esclusione, disposto dall'art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006 (introdotto dall'art. 4, c. 2, lett. d), n. 2), D.L. 13.05.2011, n. 70, conv., con modif., dalla L. 12.07.2011, n. 106), si applica anche alle concessioni di servizi di cui all'art. 30 Codice Appalti, quale principio fondamentale generale relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione dei principi di massima partecipazione e di proporzionalità, talché la sua estensione alla materia delle concessioni trova esplicito fondamento nell'art. 30, c. 3, del D.Lgs. n. 163/2006.
Diversamente opinando, si giungerebbe ad un'ingiustificata divaricazione del regime da seguire nella gare per l'affidamento di appalti ed in quelle per l'affidamento di concessioni di servizi.
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La giurisprudenza ha chiarito che l'art. 46, c. 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006 "ha previsto la tassatività delle cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione".
La stessa disposizione normativa, poi, stabilisce, altresì, che (inciso finale) "Dette prescrizioni sono, comunque, nulle". Inoltre, è principio giurisprudenziale altrettanto pacifico che "le norme che disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche vanno interpretate nel rispetto dei principi di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione. Questo orientamento ha recentemente trovato una puntuale traduzione normativa con il nuovo c. 1-bis dell'art. 46 d.lgs. 12.04.2006. n. 163, introdotto dall'art. 4 del d.l. 13.05.2011, n. 70".
Pertanto, il solo parametro per valutare la legittimità delle ammissioni/esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è dato dal citato art. 46, c. 1-bis, risultando l'esclusione legittima solo se ivi rinvenga copertura. Conseguentemente, da un lato, in tanto l'esclusione è legittima (e doverosa), in quanto trovi copertura nell'art. 46, c. 1-bis citato (e anche quando la legge di gara si spinga, illegittimamente, a negare espressis verbis la conseguenza espulsiva); dall'altro, tutte le volte in cui non trovi fondamento nel menzionato paradigma normativo, l'esclusione è illegittima anche quando (illegittimamente) prevista nella lex specialis, affetta sul punto da nullità testuale (art. 46, c. 1-bis, inciso finale) e parziale (in applicazione analogica dell'art. 1419 c.2 del codice civile) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.01.2015 n. 18 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICAStabilisce l’art. 30, primo comma, del d.P.R. 06.06.2001, n. 30 che “si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
Quella descritta dalla norma appena illustrata è la cd. “lottizzazione abusiva materiale” che si caratterizza per la presenza di opere finalizzate alla trasformazione dei suoli; e che si differenzia dalla cd. “lottizzazione abusiva negoziale” (sempre definita dall’art. 30, comma primo, del d.P.R. n. 380 del 2001) la quale si realizza allorché il proprietario, senza realizzare opere, dopo averlo frazionato, alieni il terreno in lotti di dimensioni tali da denotare inequivocabilmente la volontà di destinarli a scopi edificatori.
La giurisprudenza ha chiarito che affinché si concretizzi l’illecito della lottizzazione abusiva materiale è sufficiente la realizzazione di qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standard. La ratio della norma è invero quella di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione, al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Peraltro, la stessa giurisprudenza ha altresì chiarito che -proprio perché lo scopo del legislatore è quello di evitare la trasformazione urbanistica complessiva di un’area in assenza di un’adeguata programmazione che renda urbanisticamente sostenibile tale trasformazione- l’illecito è integrato anche nel caso in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il titolo edilizio.

12. Stabilisce l’art. 30, primo comma, del d.P.R. 06.06.2001, n. 30 che “si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
13. Quella descritta dalla norma appena illustrata è la cd. “lottizzazione abusiva materiale” che si caratterizza per la presenza di opere finalizzate alla trasformazione dei suoli; e che si differenzia dalla cd. “lottizzazione abusiva negoziale” (sempre definita dall’art. 30, comma primo, del d.P.R. n. 380 del 2001) la quale si realizza allorché il proprietario, senza realizzare opere, dopo averlo frazionato, alieni il terreno in lotti di dimensioni tali da denotare inequivocabilmente la volontà di destinarli a scopi edificatori.
14. La giurisprudenza ha chiarito che affinché si concretizzi l’illecito della lottizzazione abusiva materiale è sufficiente la realizzazione di qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standard. La ratio della norma è invero quella di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione, al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibile con le esigenze di finanza pubblica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.06.2012, n. 3381).
15. Peraltro, la stessa giurisprudenza ha altresì chiarito che -proprio perché lo scopo del legislatore è quello di evitare la trasformazione urbanistica complessiva di un’area in assenza di un’adeguata programmazione che renda urbanisticamente sostenibile tale trasformazione- l’illecito è integrato anche nel caso in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il titolo edilizio (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.03.1996, n. 301) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.01.2015 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGara valida anche senza una «carta». Appalti. Sentenza del Consiglio di Stato.
Minori formalità e meno esclusioni automatiche nelle gare di appalto, con l’entrata in vigore delle norme dell’estate 2014 che rendono obbligatorio e non più facoltativo il soccorso istruttorio.
Lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 05.01.2015 n. 18, che applica il principio del soccorso istruttorio ampliato dal 25 giugno scorso con il Dl 90/2014, convertito dalla legge 114 (articolo 39).
La norma consente una più vasta ammissione alle gare per le imprese che omettano documenti necessari per partecipare. Per di più, sottolinea Consiglio di Stato, l’innovazione esprime una generale volontà del legislatore di superare le cause di esclusione meramente formali. L’incompletezza delle dichiarazioni dei concorrenti genera infatti solo una sanzione economica a favore della stazione appaltante.
Nel caso deciso con la sentenza 18/2015, un concorrente aveva partecipato alla gara in associazione temporanea con altre imprese, una delle quali aveva in affitto un ramo di azienda: gli amministratori e i tecnici della società che aveva ceduto in affitto il ramo di azienda avrebbero dovuto dichiarare l’assenza di pregiudizi penali. Pur mancando tali dichiarazioni, il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima la partecipazione dell’associazione temporanea, perché la mancanza della dichiarazione degli amministratori dell’azienda ceduta in locazione è stata ritenuta un “peccato veniale”, applicando il generale principio della più ampia partecipazione.
Un principio che la norma del Dl 90/2014 applica distinguendo tra «incompletezza delle dichiarazioni» e «irregolarità non essenziali». L’incompletezza delle dichiarazioni genera una penale a favore della stazione appaltante, la quale assegna al concorrente termini, non superiore a 10 giorni, affinché siano integrate le dichiarazioni necessarie, mentre le irregolarità non essenziali non generano, da parte della stazione appaltante, nemmeno la richiesta di regolarizzazione.
Esercitare il potere di soccorso istruttorio diventa quindi doveroso per ogni ipotesi di mancanza o irregolarità di dichiarazioni e l’esclusione dalla gara è una sanzione che scatta solo quando vi è una omessa produzione, integrazione o regolarizzazione delle dichiarazioni carenti entro il termine assegnato dalla stazione appaltante.
L’intero meccanismo non è completamente indolore, perché le irregolarità che vengono sanate devono essere accompagnate dal pagamento di una sanzione pecuniaria in misura non inferiore all’uno per mille, non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro.
È quindi prevedibile una diminuzione del contenzioso o, al più (Tar Milano, ordinanza 1604/2014, confermata dal Consiglio di Stato 5809/2014) uno spostamento delle liti, che non avranno più ad oggetto le esclusioni bensì l’entità della sanzione pecuniaria, impugnata dal concorrente che ritenga di aver dichiarato tutto il necessario
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Sull'inosservanza dell'obbligo dichiarativo di assenza di pregiudizi penali in capo alla società cedente art. 38 del d.lgs. n. 163/2006.
L'omessa dichiarazione di assenza di pregiudizi penali in capo alla società cedente ex art. 38 del d.lvo n. 163/2006, comporta automaticamente l'esclusione dalla gara solo se espressamente prevista nel bando o se, in ogni caso, vi sia la prova che gli amministratori (anche cessati nel triennio, ora nell'anno antecedente la presentazione della dichiarazione) per i quali sia stata omessa la dichiarazione hanno in concreto riportato pregiudizi penali non dichiarati nella presentazione dell'offerta.
Con il d.l. 24.06.2014, n. 90 (recante Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), conv. in l., con modif., dall'art. 1, c. 1, della l. 11.08.2014, n. 114, il legislatore sembra addirittura superare espressamente l'interpretazione giurisprudenziale più rigorista che riteneva legittima l'esclusione a fronte dell'omessa allegazione della documentazione sul possesso dei requisiti di idoneità morale; l'art. 39 del decreto sopra citato, aggiungendo il c. 2-bis all'art. 38 del d.lgs. cit., infatti, prevede che, in caso di incompletezza delle dichiarazioni, vi sia soltanto una penale in favore della stazione appaltante, la quale assegna al concorrente un termine, che non deve essere superiore ai dieci giorni, affinché siano integrate le dichiarazioni necessarie.
Nel caso in cui, invece, le irregolarità non siano essenziali, la stazione appaltante non ne deve richiedere nemmeno la regolarizzazione. Pertanto, anche secondo le scelte del legislatore più recente sembra confermato il venir meno del principio dell'esclusione automatica dalla gara.
Rimane, dunque, applicabile il principio ormai consolidato in giurisprudenza secondo cui l'inosservanza dell'obbligo dichiarativo di cui all'art. 38 del d.lgs. cit. sugli amministratori dell'impresa dalla quale si è ottenuto la disponibilità dell'azienda (in particolare nel caso in cui si tratti di affitto d'azienda), può portare all'esclusione del concorrente dalla gara solo se così prevede il bando ovvero, in caso contrario, se risultino in concreto pregiudizi penali a carico degli amministratori della società locatrice (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 18 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Grava sul privato l’onere della prova circa il possesso del titolo edilizio abilitativo o delle ragioni per le quali, nel caso particolare, un titolo edilizio non era necessario.
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La repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della commissione dell’abuso.
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L’illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso è “in re ipsa”. L’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico all’osservanza della normativa urbanistico–edilizia e al corretto governo del territorio. Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore “contra legem”. Non può ammettersi cioè un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile.
D’altra parte, ammettere la sostanziale “estinzione” di un abuso per il decorso del tempo vorrebbe dire accettare una sorta di sanatoria “extra ordinem”, di fatto, che opererebbe anche quando l’interessato non ha ritenuto di avvalersi del corrispondente istituto previsto e disciplinato dalla normativa di sanatoria di cui alle leggi nn. 47/1985, 724/1994 e 326/2003; senza neanche pagare le somme dovute a titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata, il che non sarebbe conforme a principi basilari di ragionevolezza e parità di trattamento nell’esercizio del potere amministrativo.
Invero, l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (conf. CdS, IV, n. 4403/2011, secondo cui l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto della p.a., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo).

Il motivo è infondato e va respinto.
In via preliminare e in termini generali va rammentato che:
- grava sul privato l’onere della prova circa il possesso del titolo edilizio abilitativo o delle ragioni per le quali, nel caso particolare, un titolo edilizio non era necessario;
- la repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della commissione dell’abuso;
- l’illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso è “in re ipsa”. L’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico all’osservanza della normativa urbanistico–edilizia e al corretto governo del territorio. Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore “contra legem”. Non può ammettersi cioè un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile (v. “ex plurimis”, Cons. St., IV, 3182/2013, VI, 6072/2012 e IV, 4403 /2011, 79/2011, 5509/2009 e 2529/2004);
- d’altra parte, ammettere la sostanziale “estinzione” di un abuso per il decorso del tempo vorrebbe dire accettare una sorta di sanatoria “extra ordinem”, di fatto, che opererebbe anche quando l’interessato non ha ritenuto di avvalersi del corrispondente istituto previsto e disciplinato dalla normativa di sanatoria di cui alle leggi nn. 47/1985, 724/1994 e 326/2003; senza neanche pagare le somme dovute a titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata, il che non sarebbe conforme a principi basilari di ragionevolezza e parità di trattamento nell’esercizio del potere amministrativo;
- il collegio non ignora che per un diverso orientamento, più sensibile alle esigenze del privato, su cui v. Cons. St., sez. V, nn. 883/2008 e 3270/2006, “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento in capo al privato, rispetto al quale graverebbe sul Comune un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Si ritiene, tuttavia, di non condividere l’orientamento suddetto. Va invece accolta la tesi per cui, come si è già visto (v. , “ex multis”, Cons. St., IV, n. 79/2011 e, ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali aggiuntivi), “l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (conf. CdS, IV, n. 4403/2011, secondo cui l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto della p.a., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In primo luogo, e in termini generali, va ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della P. A., con la conseguenza che ai fini dell’adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
In secondo luogo, il motivo di gravame non potrebbe comunque trovare accoglimento atteso che, dovendo la disciplina sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo essere esaminata da un’angolazione “antiformalistica”, andrebbe considerato il fatto che l’ordinanza di demolizione ha, quale presupposto, in larga misura, il precedente provvedimento n. 770/09 di annullamento delle dia presentate dal 2006, sicché ben potrebbe parlarsi –se non di una partecipazione in senso proprio-, quantomeno di una conoscenza del procedimento “de quo” da parte della società, in grado di far pervenire proprie osservazioni.
Ma, soprattutto, va considerata l'innovazione apportata dalla l. n. 15 del 2005 che, nel modificare la l. n. 241/1990, ha introdotto l'art. 21-octies che, al comma 2, prescrive che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
Il citato art. 21-octies, comma 2, ha introdotto il principio della “dequotazione” dei vizi formali del procedimento non incidenti sul contenuto sostanziale del provvedimento finale, specie se avente natura vincolata, di tal che, sussistendone i presupposti, va escluso che la violazione della regola procedimentale suindicata possa assurgere a vizio in sé idoneo ad annullare il provvedimento impugnato in primo grado.
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Sulla questione se costituisce requisito essenziale dell’ingiunzione a demolire anche l’indicazione dell’area soggetta ad acquisizione gratuita e di diritto, per il caso di mancata demolizione e ripristino dello stato dei luoghi entro i 90 giorni dall’ingiunzione, è stato affermato che “l’omessa o imprecisa indicazione di un'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione… mentre con il contenuto dispositivo di quest'ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l'indicazione dell'area costituisce presupposto accertativo ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria”.
Persiste infatti, nonostante la parzialmente diversa formulazione dell’art. 31, comma 2, del t. u. n. 380/2001 –che contiene la locuzione aggiuntiva “indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”, mancante nell’art. 7, comma 2, della l. n. 47/1985- la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
Va quindi mantenuto il principio in base al quale l'individuazione dell'area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all'acquisizione del bene.
L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.

3.2. E’ infondato e va respinto anche il motivo sub. 2), articolato nei profili 2.1. e 2.2., con cui si denuncia l’erroneità della sentenza riproponendo, in sostanza, le censure mosse in primo grado relativamente alla omessa individuazione –nell’ordinanza 140/12- dell’area di sedime che, nel caso di mancato ripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni, formerà oggetto di acquisizione gratuita e di diritto al patrimonio del Comune ex art. 31, commi 2 e 3, del t. u. n. 380/2001, e alla violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990.
3.2.1. Per quanto attiene a quest’ultima violazione procedimentale, in primo luogo, e in termini generali, va ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della P. A., con la conseguenza che ai fini dell’adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (v., “ex multis”, Cons. St., sez. V, nn. 3337/2012 e 4764/2011; più di recente v. Cons. St., sez. IV, n. 734/2014, con indicazioni giurisprudenziali ulteriori).
In secondo luogo, anche a voler seguire, per un momento, l’impostazione argomentativa dell’appellante, il motivo di gravame non potrebbe comunque trovare accoglimento -con il conseguente accoglimento dell’appello e l’annullamento “in toto” dell’ordinanza n. 140/12, salvi però i provvedimenti ulteriori dell’autorità amministrativa, atteso che, dovendo la disciplina sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo essere esaminata da un’angolazione “antiformalistica”, andrebbe considerato il fatto che l’ordinanza di demolizione ha, quale presupposto, in larga misura, il precedente provvedimento n. 770/09 di annullamento delle dia presentate dal 2006 (atto impugnato senza successo da Immobilsud dinanzi al giudice amministrativo), sicché ben potrebbe parlarsi –se non di una partecipazione in senso proprio-, quantomeno di una conoscenza del procedimento “de quo” da parte della società, in grado di far pervenire proprie osservazioni.
Ma, soprattutto, va considerata l'innovazione apportata dalla l. n. 15 del 2005 che, nel modificare la l. n. 241/1990, ha introdotto l'art. 21-octies che, al comma 2, prescrive che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato" (in tema di applicazione dell’art. 21-octies cit., comma 2, alle ingiunzione di demolizione v. Cons. St., nn. 1208/2014, 3471/2013 e 4403/2011).
Il citato art. 21-octies, comma 2, ha introdotto il principio della “dequotazione” dei vizi formali del procedimento non incidenti sul contenuto sostanziale del provvedimento finale, specie se avente natura vincolata, di tal che, sussistendone i presupposti, va escluso che la violazione della regola procedimentale suindicata possa assurgere a vizio in sé idoneo ad annullare il provvedimento impugnato in primo grado.
Nel caso in esame, dalle considerazioni in diritto svolte sopra e da quelle che si esporranno in appresso a confutazione dei motivi d’appello di natura “sostanziale” dedotti emerge che, anche in presenza di un formale avviso di avvio del procedimento destinato a concludersi con l’ordinanza di demolizione n. 140/12 contestata avanti al Tar, il contenuto finale dell’ordinanza emanata non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto (fatta salva quella parte dell’ordinanza di demolizione di cui è stata accertata giudizialmente l’illegittimità).
Va perciò condivisa l’asserzione della sentenza appellata secondo la quale, per le ragioni per le quali vanno respinti i motivi di ricorso diversi da quelli posti a base dell’accoglimento (parziale) del ricorso limitatamente alle opere di cui ai punti 4, 15, 16, 19 e 20 della determina 140/12, trova applicazione il disposto di cui all’art. 21–octies, comma 2, della l. n. 241/1990, la cui “ratio” è diretta a “far prevalere gli aspetti sostanziali su quelli formali nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a causa della mancanza di un potere concreto di scelta da parte dell'Amministrazione”.
3.2.2. Per quanto riguarda, poi, l’omessa individuazione, direttamente nell’ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi, dell’area di sedime che in caso di mancata demolizione e riduzione dei luoghi nel pristino stato entro 90 giorni formerà oggetto di acquisizione gratuita e di diritto al patrimonio del Comune, va rammentato in via preliminare che l’art. 31, comma 2, del t. u. n. 380/2001 prevede che il dirigente o funzionario comunale competente, “accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”; e che il comma 3 dello stesso art. 31 dispone che “se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune…”.
Va rammentato inoltre che in base a quanto dispone(va) l’art. 7, commi 2 e 3, della l. n. 47/1985, “il sindaco, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione, in totale difformità dalla medesima ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi del successivo articolo 8, ingiunge la demolizione. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune…”; e che la giurisprudenza formatasi nella vigenza del citato art. 7 ha affermato più volte (v. , “ex plurimis”, Cons. St. , sez. V. n. 3438 del 2014, sez. IV, n. 4659 del 2008 e sez. VI, n. 1998 del 2004) che “la funzione dell'ingiunzione di demolizione è quella di provocare il tempestivo abbattimento del manufatto abusivo ad opera del responsabile, rendendogli noto che il mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose della semplice demolizione. A tale scopo è quindi sufficiente che l'atto indichi il tipo di sanzioni che la legge collega all'abuso, senza puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel patrimonio comunale. L'interessato, infatti, può così compiere le proprie valutazioni, le quali non possono essere influenzate dalla semplice non conoscenza delle aree di cui il comune disporrà concretamente l'acquisizione. La l. n. 47 del 1985 ha distinto, nell'ambito dell'art. 7, i due atti, di ingiunzione e acquisitivo, basando il primo sul presupposto dell'abuso, con il contenuto proprio della contestazione della trasgressione e dell'ordine di demolizione, e il secondo sulla verifica di inottemperanza al primo. Requisiti dell'ingiunzione di demolizione sono perciò l'esistenza della condizione che la rende vincolata, cioè l'accertata esecuzione di opere abusive, e il conseguente ordine di demolizione e non anche la specificazione puntuale della portata delle sanzioni, richiamate nell'atto quanto alla tipologia preordinata dalla legge, ma recate con successivo, eventuale provvedimento”.
Ciò posto, questo collegio ritiene che anche nella vigenza del t.u. n. 380/2001 il principio sopra trascritto non muti.
Ai fini della reiezione del profilo di censura il collegio non ha che da fare richiamo a un precedente specifico di questo Consiglio (sez. IV, 25.11.2013, n. 5593, con riferimento all’impugnazione di un’ingiunzione di demolizione emanata nel 2004) col quale, sulla questione se costituisse requisito essenziale dell’ingiunzione a demolire impugnata anche l’indicazione dell’area soggetta ad acquisizione gratuita e di diritto, per il caso di mancata demolizione e ripristino dello stato dei luoghi entro i 90 giorni dall’ingiunzione, è stato affermato che “l’omessa o imprecisa indicazione di un'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione… mentre con il contenuto dispositivo di quest'ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l'indicazione dell'area costituisce presupposto accertativo ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria”.
Persiste infatti, nonostante la parzialmente diversa formulazione dell’art. 31, comma 2, del t. u. n. 380/2001 –che contiene la locuzione aggiuntiva “indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”, mancante nell’art. 7, comma 2, della l. n. 47/1985- la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
Va quindi mantenuto il principio in base al quale l'individuazione dell'area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all'acquisizione del bene. L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
Di qui, la correttezza di quanto si legge in sentenza, ossia che il contenuto essenziale dell’ingiunzione di demolizione consiste nel “prescrivere la rimozione delle opere abusive”, cosicché ai fini della legittimità dell’ingiunzione basta che vi sia l’analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate ma non occorre che vi sia anche l’esatta individuazione dell’area destinata ad essere acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un intervento qualificabile come ristrutturazione edilizia presuppone un immobile preesistente, sul quale le opere intervengano, costruito in modo legittimo, e non un fabbricato privo di titolo edilizio, ossia abusivo. La regolarità, sotto il profilo urbanistico–edilizio, dell’immobile preesistente, interessato da diverse tipologie d’interventi, che non siano quelli di nuova edificazione, costituisce presupposto imprescindibile per l’ammissibilità degli interventi in questione.
Ex art. 10/c) del t. u. n. 380/2001 gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti modifiche di volume, sagome, prospetti e superfici sono soggetti a permesso di costruire, con la conseguente demolizione delle opere eseguite in assenza di permesso in totale difformità da esso, fatta salva l’applicazione della sanzione (soltanto) pecuniaria qualora ricorra la condizione di cui all’art. 33, comma 2, t. u. cit..

In via preliminare e in termini generali va rammentato che:
- l’area in questione è classificata dalla variante generale al PRG come zona G –insediamenti urbani integrati ed è disciplinata dagli articoli 54 e 138 delle NTA, con particolare riguardo alla subordinazione dell’attività edilizia all’approvazione di strumento urbanistico esecutivo,
- un intervento qualificabile come ristrutturazione edilizia presuppone un immobile preesistente, sul quale le opere intervengano, costruito in modo legittimo, e non un fabbricato privo di titolo edilizio, ossia abusivo. La regolarità, sotto il profilo urbanistico–edilizio, dell’immobile preesistente, interessato da diverse tipologie d’interventi, che non siano quelli di nuova edificazione, costituisce presupposto imprescindibile per l’ammissibilità degli interventi in questione.
Ex art. 10/c) del t. u. n. 380/2001 gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti modifiche di volume, sagome, prospetti e superfici sono soggetti a permesso di costruire, con la conseguente demolizione delle opere eseguite in assenza di permesso in totale difformità da esso, fatta salva l’applicazione della sanzione (soltanto) pecuniaria qualora ricorra la condizione di cui all’art. 33, comma 2, t. u. cit.
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda la nozione di pertinenza, l’art. 817 cod. civ. definisce pertinenze “le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”. La nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza amministrativa è però meno ampia di quella civilistica.
La giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che gli elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l’assetto del territorio; dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente incapacità per le medesime di essere utilizzate separatamente ed autonomamente. Un’opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e della funzione dell'insieme.
Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la disponibilità di entrambe.
In materia edilizia “è qualificabile pertinenza qualsiasi manufatto strumentale rispetto ad uno principale e di dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo; più in particolare la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce; inoltre, a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato pertinenza quando non solo è preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un c.d. carico urbanistico.
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La più favorevole disciplina in materia di pertinenze, realizzabili mediante dia, con il conseguente assoggettamento, nel caso di opere eseguite in assenza o in difformità dalla dia, a sanzione soltanto pecuniaria ex art. 37 del t. u. n. 380/2001, è applicabile esclusivamente agli interventi che afferiscano a immobili edificati in modo legittimo e non trova, viceversa, applicazione nel caso di interventi pertinenziali a immobili abusivi.

In via preliminare e in termini generali va rammentato che:
- per quanto riguarda la nozione di pertinenza, l’art. 817 cod. civ. definisce pertinenze “le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”. La nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza amministrativa è però meno ampia di quella civilistica. La giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che gli elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l’assetto del territorio; dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente incapacità per le medesime di essere utilizzate separatamente ed autonomamente. Un’opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e della funzione dell'insieme.
Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la disponibilità di entrambe. In materia edilizia “è qualificabile pertinenza qualsiasi manufatto strumentale rispetto ad uno principale e di dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo; più in particolare la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce; inoltre, a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato pertinenza quando non solo è preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un c.d. carico urbanistico (cfr. Cons. St., nn. 3952/2014, 3074/2014, 2196/2014 e altre);
- la più favorevole disciplina in materia di pertinenze, realizzabili mediante dia, con il conseguente assoggettamento, nel caso di opere eseguite in assenza o in difformità dalla dia, a sanzione soltanto pecuniaria ex art. 37 del t. u. n. 380/2001, è applicabile esclusivamente agli interventi che afferiscano a immobili edificati in modo legittimo e non trova, viceversa, applicazione nel caso di interventi pertinenziali a immobili abusivi;
- nella specie, come emerge dagli atti (e, “in primis”, dalle premesse dell’ord. n. 140/12), con riferimento alla maggior parte degli interventi le dia presentate da Immobilsud sono state -legittimamente: v. Cons. St. , IV, n. 5704/2013- annullate dal Comune
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In via preliminare, la generale necessità, “ex lege”, della licenza edilizia per l’esercizio dello “jus aedificandi” va fatta risalire al 1942 per i soli centri abitati (v. art. 31 della l. n. 1150/1942) e, per l’intero territorio comunale, al 1967 (v. art. 10 della l. n. 765/1967; si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985 a conferma della possibilità, anche prima della l. n. 765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non solo per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei centri abitati).
I rilievi di parte appellante non persuadono il collegio.
In contrario, a conferma della sostanziale correttezza delle conclusioni alle quali si è giunti in sentenza, vale osservare –e comunque ribadire- quanto segue:
- in via preliminare, la generale necessità, “ex lege”, della licenza edilizia per l’esercizio dello “jus aedificandi” va fatta risalire al 1942 per i soli centri abitati (v. art. 31 della l. n. 1150/1942) e, per l’intero territorio comunale, al 1967 (v. art. 10 della l. n. 765/1967; si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985 a conferma della possibilità, anche prima della l. n. 765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non solo per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei centri abitati)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'ordinanza di demolizione di un fabbricato, integralmente abusivo, dopo quasi 30 anni.
Non può ritenersi che il potere sanzionatorio dell’Amministrazione venga meno o possa essere esercitato solo in presenza di un rafforzato corredo motivazionale quando sia decorso un notevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso, come sostengono i ricorrenti nel primo motivo di ricorso.
In proposito appare sufficiente richiamare la copiosa giurisprudenza, in primo luogo del Consiglio di Stato, che univocamente afferma che tutte le volte in cui risulti realizzato un manufatto abusivo, nonostante il decorso del tempo l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di avere riscontrato opere abusive e che il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
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Circa la mancata indicazione dell’area da acquisire al patrimonio comunale in caso di mancata demolizione, ci si limita ad osservare che tale omissione non è idonea ad inficiare da sola la legittimità dell’ordinanza di demolizione, potendo e dovendo tale indicazione essere effettuata nel successivo eventuale provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale.

... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 11/09 del 06.10.2009;
...
Espongono in particolare i ricorrenti di essere proprietari, in qualità di eredi di S.M.A., originaria ricorrente defunta dopo la proposizione del ricorso, di un’area sita nel Comune di Martano in Catasto a fgl. 1 p.lla 117 su cui, fin dal 1980 era stato realizzato un edificio di due piani e che, con l’ordinanza impugnata, l’A.C. a distanza di ben trent’anni dalla realizzazione delle opere ne aveva ingiunto la demolizione sul presupposto della relativa abusività.
Tanto premesso il ricorso è infondato e va pertanto rigettato.
Ed invero, risulta in fatto incontestato che il manufatto insistente sul suolo di proprietà dei ricorrenti sia stato realizzato a suo tempo in assenza di qualsivoglia titolo abitativo e che, proprio in ragione del carattere abusivo dell’opera, ne sia stata ingiunta la demolizione.
Al riguardo, non può ritenersi che il potere sanzionatorio dell’Amministrazione venga meno o possa essere esercitato solo in presenza di un rafforzato corredo motivazionale quando sia decorso un notevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso, come sostengono i ricorrenti nel primo motivo di ricorso; in proposito appare sufficiente richiamare la copiosa giurisprudenza, in primo luogo del Consiglio di Stato, che univocamente afferma che tutte le volte in cui risulti realizzato un manufatto abusivo, nonostante il decorso del tempo l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di avere riscontrato opere abusive e che il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV n. 395572010, Consiglio di Stato sez. V, n. 4892/2014, n. 3568/2014, n. 3281/2014).
Parimenti infondati si palesano il secondo ed il terzo motivo di ricorso secondo cui l’ordinanza sarebbe illegittima perché non conterrebbe alcuna qualificazione giuridica dell’abuso realizzato, non recando alcuna specifica indicazione della norma violata ed ingiungendo aprioristicamente la demolizione delle opere, peraltro senza neanche contenere l’indicazione dell’area che verrebbe acquisita al patrimonio comunale.
Al riguardo osserva il Collegio che l’ordinanza impugnata richiama espressamente l’articolo 27 del del d.p.r. 380/2001 che prevede proprio il potere di demolizione da parte del responsabile dell’ UTC nell’esercizio del potere di vigilanza e la medesima ordinanza, pur non individuando esplicitamente la norma applicata, afferma espressamente che “nessun titolo autorizzativo è stato richiesto e/o rilasciato per l’esecuzione delle opere suddette” con ciò pertanto legittimando l’applicazione della disciplina di cui all’articolo 31 d.p.r. citato e quindi l’ingiunta demolizione; quanto poi alla mancata indicazione dell’area da acquisire al patrimonio comunale in caso di mancata demolizione, ci si limita ad osservare che tale omissione non è idonea ad inficiare da sola la legittimità dell’ordinanza di demolizione, potendo e dovendo tale indicazione essere effettuata nel successivo eventuale provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale.
Quanto poi all’ultimo motivo di ricorso, osserva il collegio che il potere dovere di repressione degli abusi edilizi, riconosciuto dagli articoli 27 e 31 d.p.r. 380/2001 al responsabile dell’UTC, non può essere inibito dalla disciplina dettata in materia di amianto invocata dai ricorrenti, trattandosi nel caso che ci occupa di opere in eternit realizzate in assenza di qualsivoglia titolo abitativo; ragionando a contrario infatti dovrebbe pervenirsi alla paradossale conclusione per cui la realizzazione di opere in amianto in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo, dunque nella situazione di potenziale massima lesività per l’ordinato assetto del territorio, farebbe comunque venir meno il potere dovere dell’organo competente alla repressione degli abusi edilizi di espletare i propri compiti.
Conclusivamente il ricorso va rigettato (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 05.01.2015 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'appartenenza di una strada ad un ente pubblico territoriale può essere desunta da una serie di elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c., non potendo reputarsi, a tal fine elemento da solo sufficiente l'inclusione o meno della strada stessa nel relativo elenco, già previsto dall'art. 8 della legge n. 126 del 1958, avente natura dichiarativa e non costitutiva, ed avendo carattere relativo la presunzione di demanialità di cui all'art. 22 della legge n. 2248 del 1865, all. F.
Per essere riconosciuta ed accertata la servitù pubblica di un passaggio necessitano di tre presupposti:
a) il sentiero deve essere posto al servizio di una collettività indeterminata di cittadini portatori di un interesse generale,
b) il sentiero deve essere oggettivamente idoneo a soddisfare le esigenze di interesse generale,
c) deve sussistere un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico che, nella maggior parte dei casi, si identifica con la dimostrazione dell'uso da tempo immemorabile da parte della collettività pubblica.

Ed invero, è noto come secondo la giurisprudenza "l'appartenenza di una strada ad un ente pubblico territoriale può essere desunta da una serie di elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c., non potendo reputarsi, a tal fine elemento da solo sufficiente l'inclusione o meno della strada stessa nel relativo elenco, già previsto dall'art. 8 della legge n. 126 del 1958, avente natura dichiarativa e non costitutiva, ed avendo carattere relativo la presunzione di demanialità di cui all'art. 22 della legge n. 2248 del 1865, all. F" (cfr. Cass. Civ., Sez. 11, 09.11.2009, n. 23705) e che “per essere riconosciuta ed accertata la servitù pubblica di un passaggio necessitano di tre presupposti: a) il sentiero deve essere posto al servizio di una collettività indeterminata di cittadini portatori di un interesse generale, b) il sentiero deve essere oggettivamente idoneo a soddisfare le esigenze di interesse generale, c) deve sussistere un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico che, nella maggior parte dei casi, si identifica con la dimostrazione dell'uso da tempo immemorabile da parte della collettività pubblica” (TAR Bolzano 16/01/2013 n. 14 o ancora in termini cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 10.06.2008, n. 643) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 05.01.2015 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Compensi illegittimi, l'obbligo del recupero non deve incidere sul tenore di vita dei dipendenti beneficiati.
Il Collegio propende per l’applicazione, largamente seguita in giurisprudenza, secondo cui il recupero di somme indebitamente corrisposte dalla P.A. a propri dipendenti ha natura di atto dovuto non rinunciabile perché espressione di funzione vincolata.
Di qui la ritenuta natura paritetica e non autoritativa del rapporto in concreto intercorso e la consistenza del diritto soggettivo dell’amministrazione di ripetere la somma a fronte dell’obbligo specifico di restituzione della stessa da parte dei chi l’ha indebitamente percepita, con conseguente mancanza dell’obbligo dell’Amministrazione di motivare sull’interesse pubblico sotteso al disposto recupero.
Ne consegue che, ferma restando la normale ripetibilità delle somme indebitamente pagate, la buona fede di regola invocata dal debitore in subiecta materia, rileva elusivamente in ordine alle modalità del recupero, al fine di non incidere in modo eccessivamente oneroso sulle esigenze di vita del dipendente.

Venendo allo scrutinio delle dedotte doglianze conviene ricordare che sul recupero delle somme erroneamente corrisposte dall’Amministrazione ai propri dipendenti questo Tribunale (cfr. TAR Campania sez VII 12.12.2007 n. 16222) ha talvolta sostenuto che il recupero de quo non avrebbe natura di atto vincolato perché configurantesi come atto di autotutela ex art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241/1990 , di natura discrezionale dipendente dal “Peso” del recupero sulla situazione concreta, dell’affidamento ingenerato nel dipendente nonché sullo stato di buona fede dello stesso dipendente.
Nella fattispecie concreta il Collegio propende tuttavia per l’applicazione, largamente seguita in giurisprudenza, secondo cui il recupero di somme indebitamente corrisposte dalla P.A. a propri dipendenti ha natura di atto dovuto non rinunciabile perché espressione di funzione vincolata (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez IV, 24.05.2007).
Di qui la ritenuta natura paritetica e non autoritativa del rapporto in concreto intercorso e la consistenza del diritto soggettivo dell’amministrazione di ripetere la somma a fronte dell’obbligo specifico di restituzione della stessa da parte dei chi l’ha indebitamente percepita, con conseguente mancanza dell’obbligo dell’Amministrazione di motivare sull’interesse pubblico sotteso al disposto recupero.
Ne consegue che, ferma restando la normale ripetibilità delle somme indebitamente pagate, la buona fede di regola invocata dal debitore in subiecta materia, rileva elusivamente in ordine alle modalità del recupero, al fine di non incidere in modo eccessivamente oneroso sulle esigenze di vita del dipendente (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 02.01.2015 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'istituto della clausola sociale.
La clausola sociale -anche nota come clausola di "protezione" o di "salvaguardia" sociale o "clausola sociale di assorbimento"- è un istituto previsto dalla contrattazione collettiva e da specifiche disposizioni legislative statali (art. 69, d.lgs. n. 163/2006, l'art. 63, c. 4, d.lgs. n. 112/1999, l'art. 29, c. 3, d.lgs. n. 276/2003), che opera nelle ipotesi di cessazione di un appalto e di subentro di altre imprese o società appaltatrici e risponde all'esigenza di assicurare la continuità del servizio e dell'occupazione, nel caso di discontinuità dell'affidatario.
Relativamente alla legittimità di tale clausola sociale di "riassorbimento" la giurisprudenza, ormai prevalente -nel disattendere la tesi per la quale dall'inosservanza della clausola discenderebbe un effetto automaticamente e rigidamente escludente dalla gara- si è oggi consolidata nel senso di ritenere legittima tale clausola, la quale però deve essere interpretata nel senso che l'appaltatore subentrante deve prioritariamente assumere gli stessi addetti che operavano alle dipendenze dell'appaltatore uscente, ma solo a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante, sulla base del presupposto che l'iniziativa economica privata è sì libera, ma deve avere riguardo anche all'utilità sociale.
Con la conseguenza che tale clausola, ove richiamata dal bando, ha sì portata cogente, ma nel senso che l'offerente non può ridurre ad libitum il numero di unità da impiegare nell'appalto (potendo, peraltro, impugnare la clausola del bando ove il numero di unità fino a quel momento adibito al servizio sia incongruo e sovrabbondante, senza, però, che tale clausola comporti l'obbligo per l'impresa aggiudicataria di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata tutto il personale già utilizzato dalla precedente impresa affidataria del servizio (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 02.01.2015 n. 6 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il termine previsto dall’art. 2 l. n. 241/1990 per l’adozione di provvedimenti amministrativi ha natura ordinatoria e non perentoria: pertanto, l’inosservanza da parte dell’amministrazione non esaurisce il potere di provvedere né determina di per sé l’illegittimità dell’atto adottato fuori termine.
- Ritenuta destituita di fondamento anche la seconda censura articolata nel ricorso con il quale il ricorrente deduce la violazione del termine di conclusione del procedimento da parte dell’Amministrazione che, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della L. 241/1990 dovrebbe intendersi fissato in trenta giorni, termine ampiamente disatteso: risultano invero non conducenti i contributi giurisprudenziali offerti all’esame del Collegio - dal momento che nel caso in esame un provvedimento espresso è stato invece adottato (ed impugnato); il Collegio rileva che “il termine previsto dall’art. 2 l. n. 241/1990 per l’adozione di provvedimenti amministrativi ha natura ordinatoria e non perentoria: pertanto, l’inosservanza da parte dell’amministrazione non esaurisce il potere di provvedere né determina di per sé l’illegittimità dell’atto adottato fuori termine” (Consiglio di Stato sez. IV 10.06.2014 n. 2964) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 31.12.2014 n. 3483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZINelle gare legittimo il livello retributivo dei contratti «gialli». Appalti. Chiarimento del Tar di Brescia.
Nell’appalto di servizi, il costo del lavoro può essere calcolato ed offerto sulla base di un contratto collettivo del gruppo associativo Cnai, depositato presso il Cnel.
Lo sottolinea il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, nella sentenza 31.12.2014 n. 1470, che ha deciso una lite sulla gestione per sei anni del servizio di front office (prenotazioni telefoniche, accettazioni, cassa) di un’azienda ospedaliera.
Al termine della gara, il concorrente secondo classificato si era rivolto al tribunale amministrativo regionale invocando l’applicazione dell'articolo 86 del Dlgs 163/2006 (codice appalti) che esclude, dopo adeguata verifica, le offerte che appaiano basse in modo anomalo.
L’impresa seconda classificata sosteneva in particolare che il costo del lavoro offerto dall’impresa aggiudicataria era anomalo, perché inferiore del 15% rispetto ai livelli retributivi desumibili da tabelle ministeriali. Inoltre, il contratto collettivo Cnai, che l’aggiudicataria intendeva applicare, non esprimeva, secondo l’impresa contestatrice, un accordo stipulato da un sindacato rappresentativo e quindi non poteva giustificare la voce “costo del lavoro” dell’offerta risultata aggiudicataria.
Il Tar ha deciso la questione confermando l’aggiudicazione, partendo dal presupposto che il bando non può imporre ai concorrenti di modificare il contratto collettivo nazionale di lavoro che le imprese intendano applicare (tesi già espressa dal Tar Piemonte 1392/2004, su un sevizio di mediazione culturale). In ogni caso, i costi del lavoro offerti dalle imprese concorrenti potrebbero essere ritenuti bassi in modo anomalo (causando l’esclusione dell'impresa) utilizzando come parametro di valutazione i valori del costo del lavoro risultanti da tabelle ministeriali.
Tuttavia, anche tali tabelle non pongono limiti inderogabili, bensì sono semplici parametri di valutazione di congruità. Quindi, l’offerta di un concorrente si può discostare da tali tabelle, purché il divario non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva (Tar Brescia 1300/2014). Ciò significa che l’imprenditore può presentare offerte in cui il costo del lavoro corrisponda ad un contratto collettivo nazionale, giustificandone gli importi se inferiori a tabelle ministeriali.
Il Tar Brescia si è occupato anche della delicata posizione di imprenditori che formulino offerte fortemente competitive, basate su trattamenti economici molto bassi, condivisi da specifiche associazioni sindacali. Senza mezzi termini, nel corso della lite si è quindi contestata la legittimità dell’impiego dei cosiddetti contratti collettivi “gialli”, conclusi da rappresentanze sindacali con uno scarsissimo livello di rappresentatività dei lavoratori. In presenza di tali contratti “pirata”, che generano “dumping sociale”, le imprese che rischiano di essere escluse a causa dei maggiori costi per retribuzioni sarebbero costrette ad iscriversi all’associazione datoriale a cui ha aderito l'impresa che ha formulato l’offerta più bassa sulla voce “retribuzione”.
Questa distorsione è un rischio concreto quando si sia in presenza di una pluralità di contratti collettivi nazionali per la medesima categoria (come nel caso deciso dal Tar, in cui si contrapponevano i contratti di settore Cnai e Confcommercio). Nella sentenza del Tar di Brescia il problema è stato risolto allineandosi agli orientamenti della Cassazione (7383/1996; 4074/1999), sottolineando che, per determinare la “giusta retribuzione”, non è possibile scegliere un cosiddetto “contratto leader” quale indice di commisurazione del trattamento economico complessivo proporzionato ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione.
Applicando quindi principi di libertà sindacale delle imprese concorrenti, si è escluso che il bando di gara possa imporre agli imprenditori l’applicazione di un contratto piuttosto che un altro: la gara è quindi stata giudicata all’offerta che, senza risultare anomala, è risultata più conveniente nella voce costo del lavoro
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2015).

APPALTI: Per giurisprudenza pacifica, il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta.
Il giudice amministrativo può, quindi, sindacare le valutazioni compiute dalla Stazione appaltante sotto il profilo della logicità, ragionevolezza e adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria dell’Amministrazione.
In sede di verifica delle offerte anomale, anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’Amministrazione.
In sede di verifica delle offerte anomale, il giudizio di anomalia va riferito all’offerta nella sua globalità e non già a singole voci, con la conseguenza che il giudizio di anomalia non può fondarsi esclusivamente sulla ravvisata incongruità dei costi del lavoro e sulla sostanziale inaffidabilità, solo sotto questo profilo, dell’offerta.
Quel che rileva, facendo applicazione dei principi che si sono ricordati, è che, a giudizio dell’Amministrazione, l’offerta risulti nel suo complesso affidabile e conveniente, al momento dell’aggiudicazione, e che a tale momento l’aggiudicatario dia garanzia di una seria esecuzione del contratto.

6.5. La pronuncia n. 5196/2014 del Consiglio di Stato da ultimo citata ha ribadito (capi 8.1. e 8.2, 10 e 11) anche consolidati principi in subiecta materia, quali quelli per cui:
- per giurisprudenza pacifica, il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta (Consiglio di Stato, Sez. III n. 1487 del 27.03.2014; Sez. V, n. 3737 del 26.06.2012);
- il giudice amministrativo può, quindi, sindacare le valutazioni compiute dalla Stazione appaltante sotto il profilo della logicità, ragionevolezza e adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, sez. V, n. 974 del 18.02.2013);
- in sede di verifica delle offerte anomale, anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, sez. V, n. 3340 del 06.06.2012);
- in sede di verifica delle offerte anomale, il giudizio di anomalia va riferito all’offerta nella sua globalità e non già a singole voci, con la conseguenza che il giudizio di anomalia non può fondarsi esclusivamente sulla ravvisata incongruità dei costi del lavoro e sulla sostanziale inaffidabilità, solo sotto questo profilo, dell’offerta (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014).
- quel che rileva, facendo applicazione dei principi che si sono ricordati, è che, a giudizio dell’Amministrazione, l’offerta risulti nel suo complesso affidabile e conveniente, al momento dell’aggiudicazione, e che a tale momento l’aggiudicatario dia garanzia di una seria esecuzione del contratto (in termini, ancora Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014).
6.6. Tenuto conto di tutto quanto precede, della dirimente circostanza che le giustificazioni di ATI SDS trovano un obiettivo ancoraggio al CCNL CNAI dalla stessa applicabile e applicato, della valutazione globale dell’offerta e non di singole sue voci che occorre effettuare, devono essere disattese le contestazioni di fondo e su singole voci (lavoratori svantaggiati, ore non lavorate per maternità, malattia e infortuni) mosse in contrario nei primi due motivi di ricorso, nonché le correlate censure di difetto di istruttoria e di motivazione ivi dedotte (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 31.12.2014 n. 1470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla base dell'art. 17, comma 3, l. 55/1990 è stato emanato il d.p.c.m. 11.05.1997, n. 187, il cui art. 1, comma 1, ha posto un obbligo informativo a carico delle società aggiudicatarie di opere pubbliche, ivi comprese le concessionarie e le subappaltatrici, da assolvere prima della stipulazione del contratto, concernente le intestazioni fiduciarie, collegato all'onere stabilito dal successivo art. 4, comma 1, di far cessare entro 90 giorni l'intestazione fiduciaria, al fine di poter legalmente contrarre con la pubblica amministrazione.
In seguito, l'art. 9, comma 63, della legge n. 415 del 1998 ha articolato diversamente il divieto originario, rendendo autonoma la posizione delle fiduciarie autorizzate ai sensi della legge n. 1966 del 1939, atteso che, in tale caso, permane il solo obbligo di comunicare l'identità del socio fiduciario entro 30 giorni dalla richiesta a tal fine formulata dall'amministrazione;
In giurisprudenza si è perciò già rilevato che, allo stato, l'art. 17, comma 3, prevede due differenti situazioni: da un lato, un divieto assoluto di intestazione fiduciaria, che comporta l'immediata esclusione dalla gara, dall'altro, un mero obbligo comunicativo, susseguente all'aggiudicazione e da assolversi, pertanto, a seguito di essa e prima della stipula del contratto, pur nel rispetto del termine di legge.
In altre parole, il coordinamento tra l'art. 38, lett. d), del d.l.vo n. 163 del 2006 e il combinato disposto delle norme poste dall'art. 17, comma 3, della legge n. 55/1990 e dall'art. 1, comma primo, del d.p.c.m. n. 187/1991, conduce a ritenere che la dichiarazione riguardante la partecipazione azionaria da parte di società fiduciarie, autorizzate ai sensi della legge n. 1966/39, non deve essere effettuata dal concorrente in sede di presentazione dell'offerta, ma dal concorrente che abbia conseguito l'aggiudicazione e a seguito di richiesta della stazione appaltante in sede di controllo dei requisiti.
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A) la "ratio" del divieto di intestazione fiduciaria di cui all'art. 17, co. 3, della legge n. 55/1990 è -da un lato- quella di impedire in assoluto la partecipazione alle pubbliche gare di società fiduciarie che non siano autorizzate ai sensi della legge n. 1966 del 1939; dall'altro lato, quella di imporre a tali società fiduciarie comunque autorizzate l'obbligo di comunicare all'Amministrazione committente o concedente prima della stipula del contratto o della convenzione la propria composizione societaria (il tutto, ben s'intende, per evidenti esigenze di trasparenza e soprattutto di prevenzione di fenomeni criminosi legati anche all'utilizzo di siffatte società);
B) proprio con riferimento a detta "ratio", il divieto in questione deve dunque ritenersi in ogni caso violato e considerato come causa di esclusione automatica solo quando nel contesto di una pubblica gara venga ammessa a partecipare una singola società o un consorzio costituito da più società direttamente posseduti da una società fiduciaria non autorizzata;
C) nel caso di società o di consorzi partecipati da società fiduciarie autorizzate, tale divieto deve ritenersi violato ed essere altresì considerato come causa automatica di esclusione dalla gara solo quando la società o il consorzio partecipante alla gara abbia poi omesso la comunicazione di cui al predetto D.P.C.M. n. 187 del 1991.

7. Ancora sulla scorta del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, parimenti infondato si rivela il quarto e ultimo di ricorso, con cui si denuncia la violazione dell’art. 17 legge 55/1990 e dell’art. 38 comma 2 lett. d) Cod. contr.
Invero, TAR Lombardia, sez. III, 03/12/2013 n. 2681 ha evidenziato al capo 4.2 che:
- sulla base del citato art. 17, comma 3, è stato emanato il d.p.c.m. 11.05.1997, n. 187, il cui art. 1, comma 1, ha posto un obbligo informativo a carico delle società aggiudicatarie di opere pubbliche, ivi comprese le concessionarie e le subappaltatrici, da assolvere prima della stipulazione del contratto, concernente le intestazioni fiduciarie, collegato all'onere stabilito dal successivo art. 4, comma 1, di far cessare entro 90 giorni l'intestazione fiduciaria, al fine di poter legalmente contrarre con la pubblica amministrazione;
- in seguito, l'art. 9, comma 63, della legge n. 415 del 1998 ha articolato diversamente il divieto originario, rendendo autonoma la posizione delle fiduciarie autorizzate ai sensi della legge n. 1966 del 1939 (come quella presente nel capitale sociale di SDS), atteso che, in tale caso, permane il solo obbligo di comunicare l'identità del socio fiduciario entro 30 giorni dalla richiesta a tal fine formulata dall'amministrazione;
- in giurisprudenza si è perciò già rilevato che, allo stato, l'art. 17, comma 3, prevede due differenti situazioni: da un lato, un divieto assoluto di intestazione fiduciaria, che comporta l'immediata esclusione dalla gara, dall'altro, un mero obbligo comunicativo, susseguente all'aggiudicazione e da assolversi, pertanto, a seguito di essa e prima della stipula del contratto, pur nel rispetto del termine di legge (così già espressamente TAR Lombardia Milano, sez. I, 18.11.2011, n. 2797, che richiama Consiglio di Stato, sez. V, n. 4010 del 2002);
- in altre parole, il coordinamento tra l'art. 38, lett. d), del d.l.vo n. 163 del 2006 e il combinato disposto delle norme poste dall'art. 17, comma 3, della legge n. 55/1990 e dall'art. 1, comma primo, del d.p.c.m. n. 187/1991, conduce a ritenere che la dichiarazione riguardante la partecipazione azionaria da parte di società fiduciarie, autorizzate ai sensi della legge n. 1966/39, non deve essere effettuata dal concorrente in sede di presentazione dell'offerta, ma dal concorrente che abbia conseguito l'aggiudicazione e a seguito di richiesta della stazione appaltante in sede di controllo dei requisiti.
A sua volta, TAR Friuli-Venezia Giulia 14/06/2013, n. 343 ha dichiarato di condividere l'analisi della normativa sopra ricordata che ha condotto il Consiglio di Stato, con la sentenza della V Sezione n. 264/2011, a confermare la sentenza di quel TAR n 360/2010, affermando:
   A) che la "ratio" del divieto di intestazione fiduciaria di cui all'art. 17, co. 3, della legge n. 55/1990 è -da un lato- quella di impedire in assoluto la partecipazione alle pubbliche gare di società fiduciarie che non siano autorizzate ai sensi della legge n. 1966 del 1939; dall'altro lato, quella di imporre a tali società fiduciarie comunque autorizzate l'obbligo di comunicare all'Amministrazione committente o concedente prima della stipula del contratto o della convenzione la propria composizione societaria (il tutto, ben s'intende, per evidenti esigenze di trasparenza e soprattutto di prevenzione di fenomeni criminosi legati anche all'utilizzo di siffatte società);
   B) che, proprio con riferimento a detta "ratio", il divieto in questione deve dunque ritenersi in ogni caso violato e considerato come causa di esclusione automatica solo quando nel contesto di una pubblica gara venga ammessa a partecipare una singola società o un consorzio costituito da più società direttamente posseduti da una società fiduciaria non autorizzata;
   C) che, nel caso di società o di consorzi partecipati da società fiduciarie autorizzate, tale divieto deve ritenersi violato ed essere altresì considerato come causa automatica di esclusione dalla gara solo quando la società o il consorzio partecipante alla gara abbia poi omesso la comunicazione di cui al predetto D.P.C.M. n. 187 del 1991.
E nel caso qui all’esame la stazione appaltante ha espressamente dichiarato (memoria 01.12.2014) che richiederà, in sede di controllo dei requisiti prodromici alla sottoscrizione contrattuale, la dichiarazione riguardante la partecipazione azionaria di società fiduciarie (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 31.12.2014 n. 1470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Costituisce diritto vivente il principio per cui in sede di gara d’appalto i concorrenti non possono operare alcun filtro in sede di dichiarazioni rilasciate ai sensi dell’art. 38 codice dei contratti pubblici, relativamente alla indicazione delle condanne penali subite ed alla loro rilevanza sulla moralità professionale che è riservata in via esclusiva alla stazione appaltante.
Costituisce parimenti diritto vivente il principio per cui la riabilitazione del condannato e l’estinzione del reato, per essere rilevanti in sede di gara d’appalto, devono essere formalizzate in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione o dal giudice che ha emesso la condanna (secondo quanto stabilito dal codice previgente), ma comunque sempre in una pronuncia espressa.
Costituisce, infine, diritto vivente il principio per cui nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il <potere di soccorso> sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice -sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione appaltante di acquisire elementi estrinseci relativi a documenti o dichiarazioni già esistenti, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti- non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la regolarizzazione della forma omessa, ove tali adempimenti, siano previsti a pena di esclusione.
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L’avere corredato l’offerta di un’attestazione falsa o comunque non conforme al modello imposto dalle norme di gara, determina legittimamente l’esclusione dalla gara, posto che la mancata dichiarazione incide non già sugli effetti delle condanne taciute quanto piuttosto sulla situazione di infedeltà, reticenza o inaffidabilità della ditta stessa.
Inoltre, è irrilevante che gli illeciti penali non dichiarati siano eventualmente inidonei ad incidere sulla moralità professionale della concorrente, in quanto, l’esistenza di false dichiarazioni circa i precedenti penali si configura come causa autonoma di esclusione, mentre le valutazioni in ordine alla gravità delle condanne e alla loro incidenza sulla moralità professionale spettano esclusivamente alla stazione appaltante e non già al concorrente, il quale è pertanto obbligato ad indicare tutte le condanne riportate, senza poterne autonomamente operare una selezione sulla base di meri criteri personali.

7) Il ricorso non è fondato.
8) Il Collegio, oltre a rilevare preliminarmente che il d.lgs. n. 163/2006 non distingue, nel genus delle fattispecie penalmente rilevanti, le species riconducibili ad una branca (codice penale) piuttosto che ad un’altra (codice penale militare di pace), osserva, invero, che, per pacifico e condivisibile orientamento giurisprudenziale (ex multis C.d.S., V, 27.01.2014, n. 400), “…costituisce diritto vivente il principio per cui in sede di gara d’appalto i concorrenti non possono operare alcun filtro in sede di dichiarazioni rilasciate ai sensi dell’art. 38 codice dei contratti pubblici, relativamente alla indicazione delle condanne penali subite ed alla loro rilevanza sulla moralità professionale che è riservata in via esclusiva alla stazione appaltante (cfr. da ultimo; Cons. St, sez. V, n. 1378 del 2013; Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, determinazione n. 1 del 2010)”; “costituisce parimenti diritto vivente il principio per cui la riabilitazione del condannato e l’estinzione del reato, per essere rilevanti in sede di gara d’appalto, devono essere formalizzate in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione (cfr. fra le tante Autorità di vigilanza, parere 21.05.2008, n. 162; determinazione n. 1 del 2010; Cons. St., sez. VI, n. 4019 del 2010)” o –aggiunge il Collegio– dal giudice che ha emesso la condanna (secondo quanto stabilito dal codice previgente), ma comunque sempre in una pronuncia espressa. “Costituisce, infine, diritto vivente il principio per cui nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il <potere di soccorso> sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice -sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione appaltante di acquisire elementi estrinseci relativi a documenti o dichiarazioni già esistenti, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti- non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la regolarizzazione della forma omessa, ove tali adempimenti, siano previsti a pena di esclusione (cfr. fra le tante Cons. St., sez. V, 3077 del 2011)”.
8.1) In giurisprudenza è stato anche chiarito che ”l’avere corredato l’offerta di un’attestazione falsa o comunque non conforme al modello imposto dalle norme di gara, determina legittimamente l’esclusione dalla gara, posto che la mancata dichiarazione incide non già sugli effetti delle condanne taciute quanto piuttosto sulla situazione di infedeltà, reticenza o inaffidabilità della ditta stessa. Inoltre, è irrilevante che gli illeciti penali non dichiarati siano eventualmente inidonei ad incidere sulla moralità professionale della concorrente, in quanto, l’esistenza di false dichiarazioni circa i precedenti penali si configura come causa autonoma di esclusione, mentre le valutazioni in ordine alla gravità delle condanne e alla loro incidenza sulla moralità professionale spettano esclusivamente alla stazione appaltante e non già al concorrente, il quale è pertanto obbligato ad indicare tutte le condanne riportate, senza poterne autonomamente operare una selezione sulla base di meri criteri personali” (TAR Emilia Romagna-Parma, sez. I, sentenza 13.11.2013, n. 341) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 31.12.2014 n. 678 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Canone commisurato alla gravità del danno. Tar Lazio sull'occupazione di alloggi di servizio della p.a..
È legittimo commisurare l'importo del canone di occupazione degli alloggi di servizio della p.a. alla durata della violazione dell'obbligo di rilascio e quindi alla gravità del danno prodotto ai legittimi aspiranti all'assegnazione del medesimo alloggio.

Lo dice la Sez. I-bis del TAR Lazio-Roma con sentenza 30.12.2014 n. 13339.
L'importo del canone deve essere, altresì, commisurato all'ingiustificato arricchimento degli occupanti sine titolo, che in alcuni casi proprio grazie al beneficio del canone agevolato hanno potuto acquistare una casa di proprietà.
Secondo i giudici, poi, non può ravvisarsi alcuna ingiustizia, né alcuna irragionevolezza o contraddittorietà con il criterio del reddito dell'occupante, in quanto si tratta di parametri atti, per motivi diversi, a commisurare l'occupazione alla gravità dell'elemento soggettivo (persistere nella sottrazione ai legittimi assegnatari di un immobile di servizio finalizzata a risparmiare sul costo dell'affitto di un immobile di mercato pur avendo la possibilità di reperirne uno) e alla gravità del danno prodotto (che aumenta con il protrarsi dell'occupazione).
Il Tar ha, quindi, sottolineato come la finalità perseguita sia quella di improntare la gestione dei beni di proprietà pubblica a criteri di economicità e redditività, riservando la finalità sociale alle sole categorie deboli, categorie svantaggiate, per le quali la legge prevede che la rideterminazione del canone non faccia riferimento al criterio dei prezzi di mercato, ma segua più articolati e favorevoli parametri.
E inoltre, da un punto di vista strettamente tecnico, l'eventuale mancanza della cosiddetta relazione esplicativa, che seppure non allegata al provvedimento è comunque acquisibile esercitando il diritto di accesso, secondo i giudici laziali «rileva al solo fine della individuazione del dies a quo dal quale far decorrere i termini decadenziali per la proposizione dei motivi aggiunti, in quanto essa costituisce un'integrazione della motivazione del provvedimento finale, ma non consente di ritenere illegittimo per difetto di motivazione l'atto impugnato in quanto la procedura della determinazione del canone in questione, gli elementi di valutazione e i criteri di valutazione sono puntualmente disciplinati dall'allegato A del dm del 16.03.2011». Tale decreto, infatti, indica espressamente i criteri per l'individuazione del prezzo presumibile di mercato, dato dalla media delle quotazioni Omi, per la zona in cui è collocato l'immobile.
Si aggiunge, poi, che la validità, sul piano sostanziale, delle operazioni di rilievo e di attribuzione dei coefficienti effettuate dai tecnici ministeriali può essere messa in discussione soltanto evidenziando errori di fatto sulle misurazioni o di «errori palesi di apprezzamento» della qualità delle finiture (o di altri elementi la cui valutazione è affidata alla «sensibilità peritale») mediante una perizia «giurata» di parte (articolo ItaliaOggi Sette del 12.01.2015).

COMPETENZE PROGETTUALI: Il criterio per accertare se la progettazione di una costruzione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16 lett. m) r.d. 11.02.1929 n. 274, consiste, infatti, nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle.
La delimitazione della competenza dei geometri e geometri laureati in tale materia va effettuata anche in base al criterio economico e tecnico-qualitativo della modestia o tenuità dell'opera, cosicché agli stessi è preclusa la realizzazione di un complesso di opere che richieda una visione di insieme, che ponga problemi di carattere programmatorio, che imponga una valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui soluzione, sotto il profilo tecnico, può incontrare difficoltà non facilmente superabili con la competenza professionale dei medesimi professionisti.
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L’inserimento dell’opera o dei lavori nel programma (o elenco annuale) non dà luogo, per ciò stesso, alla complessità nell’accezione di cui all’art. 16 del r.d. n. 274 del 1929, per la semplice ragione che ben può venire in evidenza la presenza di opere di importo elevato (con obbligo, pertanto, di inserimento nel programma o nell’elenco) ma di modesta difficoltà quale può essere, di regola, una semplice manutenzione anche straordinaria.
D’altronde, se da un lato è vero che l’obbligo per il consiglio comunale di inserire i lavori nel programma triennale o nell’elenco annuale assuma attualità qualora l’opera superi l’importo di centomila euro, è pur vero -ciò che smentisce ancor di più la necessaria correlazione tra detto importo e complessità dell’intervento- che siffatto valore altro non costituisce che la somma delle voci dell’intero quadro economico di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 207 del 2010 (comprese, ad esempio, le somme a disposizione dell’amministrazione, non del tutto irrilevanti, inidonee in qualche modo a connotare le caratteristiche dell’opera).

... per l'annullamento dell'avviso per l'espletamento di un’indagine di mercato per l'affidamento di servizi tecnici, di cui all'articolo 91 del d.lgs 12.04.2006 n. 163 relativi ad edifici scolastici indetto dall'Area gestione del territorio del Comune di Palermo, nella parte in cui agli artt. 1 e 4 esclude la partecipazione dei geometri e dei geometri laureati;
...
5.- Il ricorso, poiché fondato nei termini di seguito specificati, deve essere accolto.
6.- La scelta del Comune di Palermo, che, come s’è detto, ha escluso i geometri ed i geometri laureati dal novero dei soggetti ammessi ad esprimere la propria manifestazione d’interesse sul potenziale conferimento «dei servizi tecnici di cui all’art. 91» del d. lgs. n. 163 del 2006, si mostra errata nel metodo e nel merito.
7.- La natura e la tipologia degli incarichi da conferirsi, in assenza di una puntuale dimostrazione che, in effetti, tutti gli interventi diano luogo a quella particolare complessità dalla quale far discendere l’impossibilità di affidarli ai geometri e geometri laureati, obiettivamente non giustifica, quantomeno per le modalità con cui è stata pensata, sul piano delle regole di concorrenza e di parità di trattamento, l’esclusione di siffatta categoria di professionisti dalla possibilità di manifestare il relativo interesse alla procedura.
Al di là della non proprio perspicua indicazione dell’avviso sull’oggetto delle prestazioni, il quale (vedasi l’oggetto e l’art. 2, comma 1), da un lato, mira a sollecitare la manifestazione di disponibilità per il conferimento di futuri incarichi «di servizi tecnici di cui all’art. 91 del d.lgs. n. 163 del 2006» (e non già di soli incarichi di progettazione, come invece ritenuto dalla difesa del Comune, cfr. pag. 3, par. 5, della memoria) e, per altro verso, richiama interventi di «carattere edilizio, impiantistico e strutturale» (art. 1), va osservato che l’importo della prestazione professionale (recte: del servizio) non può costituire sinonimo di complessità (o non complessità) degli interventi che della stessa costituiscono oggetto, da cui deriverebbe l’ipotetica delimitazione, sul versante soggettivo, delle categorie professionali ammesse.
Nel caso di specie, il tenore dell’avviso induce a ritenere che i lavori non siano esclusivamente caratterizzati da interventi strutturali per i quali, in taluni casi (e non sempre) potrebbe ipotizzarsi un’assenza di competenze dei geometri: l’avviso fa, invero, riferimento anche a lavori di manutenzione straordinaria e di edilizia per i quali detta competenza non può astrattamente escludersi, a meno che la concreta connotazione dell’intervento non lo imponga.
Il criterio per accertare se la progettazione di una costruzione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16 lett. m) r.d. 11.02.1929 n. 274, consiste, infatti, nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle. La delimitazione della competenza dei geometri e geometri laureati in tale materia va effettuata anche in base al criterio economico e tecnico-qualitativo della modestia o tenuità dell'opera, cosicché agli stessi è preclusa la realizzazione di un complesso di opere che richieda una visione di insieme, che ponga problemi di carattere programmatorio, che imponga una valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui soluzione, sotto il profilo tecnico, può incontrare difficoltà non facilmente superabili con la competenza professionale dei medesimi professionisti.
Il Comune, benché abbia esattamente individuato gli interventi da rendere oggetto dei servizi di che trattasi (considerato che gli stessi sarebbero stati inseriti negli strumenti di programmazione), non ha affatto offerto elementi idonei a giustificare l’esclusione dei geometri e geometri laureati dalla procedura.
In tal senso, la scelta della civica amministrazione deve essere giudicata non conforme a canoni di buona amministrazione considerato, peraltro, che ove fosse venuto in rilievo un intervento escluso dalla «competenza» dei geometri, gli uffici ben avrebbero potuto disporre, in ipotesi, successivamente, l’espulsione di siffatti professionisti dal novero dei soggetti da ammettere (non già alla manifestazione di interesse ma) al sorteggio previsto dallo stesso avviso. Esclusione, questa, che, ovviamente, non avrebbe potuto prescindere dalla valutazione delle specifiche e concrete caratteristiche dell’intervento da realizzare, senza precludere, ab origine ed in via del tutto astratta, l’ammissione dei predetti soggetti alla predetta fase di manifestazione di interesse.
A diverse conclusioni non può condurre l’affermazione della difesa comunale, avente valore meramente assertivo poiché non supportata da nessun elemento idoneo a smentire le affermazioni di parte ricorrente, secondo cui tutti gli interventi di progettazione contemplerebbero l’adeguamento antisismico degli edifici: un espresso, esclusivo e specifico riferimento a tale categoria di interventi non è dato rinvenirsi né nell’avviso pubblico (il quale si limita genericamente a richiamare, tra gli altri, gli interventi «strutturali» che, peraltro, non necessariamente ricomprendono misure antisismiche) né nel novero dell’esperienza curriculare richiesta ai professionisti, che, per il vero, punta l’attenzione, tra le altre, sulle esperienze di tema di adeguamento alla normativa di igiene, sicurezza ex d.lgs. n. 81 del 2008 ed agibilità di edifici scolastici.
Sotto altro profilo, lo stesso asserito inserimento delle opere nel programma triennale dei lavori pubblici, circostanza alla quale la difesa del Comune di Palermo correla la complessità delle stesse e la (necessaria) susseguente impossibilità per i geometri e geometri laureati di essere chiamati allo svolgimento delle attività di cui trattasi, non infirma quanto finora detto. L’inserimento dell’opera o dei lavori nel predetto programma (o elenco annuale) non dà luogo, per ciò stesso, alla complessità nell’accezione di cui all’art. 16 del r.d. n. 274 del 1929, per la semplice ragione che ben può venire in evidenza la presenza di opere di importo elevato (con obbligo, pertanto, di inserimento nel programma o nell’elenco) ma di modesta difficoltà quale può essere, di regola, una semplice manutenzione anche straordinaria (cfr. TAR Piemonte, sentenza n. 852 del 2007).
D’altronde, se da un lato è vero che l’obbligo per il consiglio comunale di inserire i lavori nel programma triennale o nell’elenco annuale assuma attualità qualora l’opera superi l’importo di centomila euro, è pur vero -ciò che smentisce ancor di più la necessaria correlazione tra detto importo e complessità dell’intervento- che siffatto valore altro non costituisce che la somma delle voci dell’intero quadro economico di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 207 del 2010 (comprese, ad esempio, le somme a disposizione dell’amministrazione, non del tutto irrilevanti, inidonee in qualche modo a connotare le caratteristiche dell’opera), così come previsto dall’art. 6 della l.r. n. 12 del 2011 nonché dal decreto dell’Assessorato alle infrastrutture e mobilità della Regione Siciliana n. 14/OSS del 10.08.2012 (ad oggetto «procedura e schemi-tipo per la redazione del programma triennale […] ai sensi dell'articolo 128 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 […] e degli articoli 13 e 271 del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207»).
8.- L’esclusione dei geometri e dei geometri laureati, alla luce di quanto sopra esposto, siccome censurata dalla parte ricorrente e nei termini in cui è stato voluto dal Comune di Palermo, si pone in contrasto con i parametri normativi di riferimento, sicché il ricorso va accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato nei limiti della domanda, ossia nella parte in cui l’impugnato avviso preclude a siffatta categoria di professionisti di accedere alla fase preliminare della procedura per cui è causa (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 22.12.2014 n. 3422 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl diritto di proprietà può subire limitazioni, per ragioni di interesse generale, nei limiti fissati dalla legge, ex art. 42 Cost., tra le quali vanno ricomprese quelle di natura urbanistica.
Il correlativo esercizio del potere di pianificazione non può infatti essere inteso, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma deve essere ricostruito come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo del medesimo, avendo la disciplina urbanistica lo scopo di conformare l'esercizio delle facoltà inerenti i diritti reali, con gli interessi pubblici implicati.

I.1) Una prima questione, di carattere generale, attiene al rapporto tra le disposizioni che consentono la chiusura del fondo, nell’ambito delle facoltà riconosciute dal diritto di proprietà e dalla disciplina venatoria, e quelle contenute nel P.T.C. del Parco, che vietano invece, sulle aree di che trattasi, la realizzazione di recinzioni.
In particolare, secondo i ricorrenti (terzo e sesto motivo ricorso R.G. n. 1916/11, secondo motivo ricorso R.G. n. 2857/11), il combinato disposto degli artt. 841, 842, c.c., 15 L. n. 157/1992 e 37 c. 5 L.R. n. 26/1993, che consentono al proprietario di chiudere il proprio fondo, dovrebbe prevalere sulle disposizioni del Piano Territoriale di Coordinamento del Parco, poste a fondamento dei provvedimenti impugnati, che invece inibiscono l’esercizio di tale facoltà (art. 15.3, lett. n, per la zona ZB, naturalistica parziale zoologica biogenergetiva, art. 9.G.10 per la zona G2, pianura irrigua a preminente vocazione agricola, art. 8.C.10 per la zona C2, agricola forestale a prevalente interesse paesaggistico), sia in ragione del criterio di specialità che del principio di gerarchia.
Ritiene il proposito il Collegio che, in linea generale, come correttamente ricordato dalla difesa del Parco, il diritto di proprietà può subire limitazioni, per ragioni di interesse generale, nei limiti fissati dalla legge, ex art. 42 Cost., tra le quali vanno ricomprese quelle di natura urbanistica. Il correlativo esercizio del potere di pianificazione non può infatti essere inteso, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma deve essere ricostruito come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo del medesimo (C.S., Sez. IV, 22.09.2014 n. 4731), avendo la disciplina urbanistica lo scopo di conformare l'esercizio delle facoltà inerenti i diritti reali, con gli interessi pubblici implicati (C.S., Sez. V, 21.06.2013 n. 3429).
Con riferimento alla fattispecie per cui è causa, ritiene il Collegio che le citate norme del Piano Territoriale, in quanto espressione della predetta potestà urbanistica, sono idonee a conformare il diritto di proprietà, in applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati. Il Piano Territoriale di Coordinamento del Parco si pone infatti quale atto di pianificazione territoriale regionale a carattere generale, avente natura normativa, nella parte in cui contiene direttive per gli Enti competenti ad altri livelli di pianificazione, comportando invece immediatamente e direttamente vincoli e limiti anche per i privati laddove, come nel caso si specie, si spinge alla puntuale indicazione di prescrizioni volte alla tutela di uno specifico interesse di settore (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.04.2004 n. 1477, Corte Costituzionale, 11.06.1999 n. 225) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.12.2014 n. 3157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAl fine della decorrenza del termine di impugnazione di un provvedimento, non basta la mera notizia della sua esistenza e del suo carattere sfavorevole per il destinatario, occorrendo conoscerne il contenuto, per poter valutare se l'atto è illegittimo o meno. Ne consegue che laddove l'amministrazione comunichi l'esistenza di un provvedimento sfavorevole, senza la motivazione posta a corredo, il destinatario ha una mera facoltà e non un onere, di impugnare subito l'atto per poi proporre i motivi aggiunti, ma ben può attendere di conoscere la motivazione dell'atto per poter, una volta avuta conoscenza del contenuto dell'atto, e quindi dell'effetto lesivo, valutare se impugnarlo o meno.
La piena conoscenza del provvedimento richiede infatti una conoscenza estesa a tutti gli elementi dell'atto qualificabili come essenziali e individuabili tramite la sua motivazione.
Nel caso in cui ancora non si conosca l'effettiva motivazione del provvedimento, non è infatti configurabile per l'interessato l'onere di una doppia impugnazione, prima con il ricorso introduttivo e poi con i motivi aggiunti, e ciò in quanto, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 241/1990, la motivazione non ha carattere opzionale, ma è obbligatoria, sicché la mera notizia che esista un provvedimento lesivo non può essere equiparata alla piena conoscenza del provvedimento medesimo.

Alla luce di quanto precede, l’eccezione va respinta, a prescindere dall’applicabilità al caso di specie del D.Lgs. n. 163/2006, ed in particolare degli artt. 79, c. 5, e 120, c. 2, contestata dalla stazione appaltante e dalla controinteressata atteso che, in ogni caso, anche in base alla giurisprudenza antecedente all’entrata in vigore di dette disposizioni, “al fine della decorrenza del termine di impugnazione di un provvedimento, non basta la mera notizia della sua esistenza e del suo carattere sfavorevole per il destinatario, occorrendo conoscerne il contenuto, per poter valutare se l'atto è illegittimo o meno. Ne consegue che laddove l'amministrazione comunichi l'esistenza di un provvedimento sfavorevole, senza la motivazione posta a corredo, il destinatario ha una mera facoltà e non un onere, di impugnare subito l'atto per poi proporre i motivi aggiunti, ma ben può attendere di conoscere la motivazione dell'atto per poter, una volta avuta conoscenza del contenuto dell'atto, e quindi dell'effetto lesivo, valutare se impugnarlo o meno” (C.S. Sez. IV 08.2.2007 n. 522). La piena conoscenza del provvedimento richiede infatti una conoscenza estesa a tutti gli elementi dell'atto qualificabili come essenziali e individuabili tramite la sua motivazione.
Nel caso in cui ancora non si conosca l'effettiva motivazione del provvedimento, non è infatti configurabile per l'interessato l'onere di una doppia impugnazione, prima con il ricorso introduttivo e poi con i motivi aggiunti, e ciò in quanto, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 241/1990, la motivazione non ha carattere opzionale, ma è obbligatoria, sicché la mera notizia che esista un provvedimento lesivo non può essere equiparata alla piena conoscenza del provvedimento medesimo (TAR Sardegna, 05.11.2009 n. 1607, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 05.05.2009 n. 2360, TAR Campania, Salerno, Sez. I 21.01.2009 n. 114) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.12.2014 n. 3147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A termini dell’art. 145, comma 1, c.p.a., “la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere la notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”.
In proposito, la giurisprudenza di vertice ha precisato che il disciplinare le modalità di ricezione degli atti, in maniera che essi siano consegnati ad una persona fisica all’uopo incaricata, costituisce preciso onere del legale rappresentante della persona giuridica ed esplicazione dei poteri auto-organizzativi di questa che deve esercitarli non con disposizioni meramente interne, ma con modalità tali da richiamare in modo chiaro e immediato l’attenzione dell’ufficiale giudiziario.
Ne consegue che la legittimazione alla ricezione della persona che riceve l’atto deve presumersi sulla base della presenza del soggetto presso la sede legale, incombendo sul destinatario dell’atto l’onere della prova contraria, e comunque colui che esegue la notifica non ha alcun obbligo di ricercare in primo luogo il rappresentante e solo successivamente l’incaricato, presumendosi che la persona che, senza contestazioni, si riceva l’atto, sia incaricata di detta ricezione, anche sulla scorta di un incarico provvisorio o precario; quindi, se dalla relazione dell’ufficiale giudiziario o postale risulti la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede stessa, è da presumere che tale persona fosse (in quel momento) addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, onde la società per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere suo dipendente, non era addetta neppure alla sede per non averne mai ricevuto incarico alcuno.

III. Va pure preliminarmente disattesa l’eccezione di nullità della notifica del ricorso (e, conseguentemente, della disposta C.T.U.), in ragione della circostanza che il ricorso medesimo sarebbe stato notificato non a mani di soggetto legittimato alla ricezione e, precisamente, non a mani del legale rappresentante della società, ovvero di soggetto da questi delegato, ma a mani del socio, signor C.C., e peraltro neppure (apparentemente) presso la sede legale della società.
III.1) Osserva il Collegio che, a termini dell’art. 145, comma 1, c.p.a., “la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere la notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”.
In proposito, la giurisprudenza di vertice ha precisato che il disciplinare le modalità di ricezione degli atti, in maniera che essi siano consegnati ad una persona fisica all’uopo incaricata, costituisce preciso onere del legale rappresentante della persona giuridica ed esplicazione dei poteri auto-organizzativi di questa che deve esercitarli non con disposizioni meramente interne, ma con modalità tali da richiamare in modo chiaro e immediato l’attenzione dell’ufficiale giudiziario (cfr. Cass. n.16103/2007).
Ne consegue che la legittimazione alla ricezione della persona che riceve l’atto deve presumersi sulla base della presenza del soggetto presso la sede legale, incombendo sul destinatario dell’atto l’onere della prova contraria (cfr. Cass., nn. 10134/2002 e 5304/1998, ex pluris), e comunque colui che esegue la notifica non ha alcun obbligo di ricercare in primo luogo il rappresentante e solo successivamente l’incaricato, presumendosi che la persona che, senza contestazioni, si riceva l’atto, sia incaricata di detta ricezione, anche sulla scorta di un incarico provvisorio o precario; quindi, se dalla relazione dell’ufficiale giudiziario o postale risulti la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede stessa, è da presumere che tale persona fosse (in quel momento) addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, onde la società per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere suo dipendente, non era addetta neppure alla sede per non averne mai ricevuto incarico alcuno (cfr., ex pluris, Cass. n. 12754/2005)
(TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 20.12.2014 n. 955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la questione relativa al computo nelle distanze dei balconi e dei vani tecnici, va osservato in linea generale che le parti aggettanti di un fabbricato rientrano certamente tra gli elementi che costituiscono gli edifici da assoggettare al regime delle distanze in edilizia di cui all’articolo 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (“Limiti inderogabili di distanze tra i fabbricati”) per assicurare le note condizioni di salubrità sotto il profilo igienico-sanitario, mediante l’eliminazione di perniciose intercapedini.
E’ invero noto che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate ed edifici antistanti, prevista dall’art 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, come argomentato correttamente dalla difesa di parte ricorrente, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuole distanziare, sono solo i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle pareti con funzione decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari (e significative) dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo.
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In considerazione di tali inderogabili esigenze, ancora di recente si è espressa la IV Sezione del Consiglio di Stato, in fattispecie relativa al distacco di una scala, ritenendo che il vano scale e, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta, pur non incidendo sulla volumetria, trattandosi di volume tecnico, può assumere diversa rilevanza sul piano della normativa dettata per le distanze dai confini, concludendo che deve ritenersi non tollerabile la presenza di una parte, sia pure di modesta entità, di un opus edilizio che vada ad insistere in maniera permanente su uno spazio territoriale che deve rimanere libero da qualsiasi ingombro.
Analoga conclusione ha tratto il Consiglio di Stato con riferimento espresso ai balconi, distinguendo, ai fini della determinazione del volume dell’edificio, i balconi aggettanti che sporgono dalla facciata dell’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, senza svolgere alcuna funzione di sostegno né di copertura, dalle terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio, il che ha consentito di argomentarne, invero non proprio pianamente, la sostanziale “irrilevanza” (o, al contrario, la rilevanza) anche ai fini del computo delle distanze “solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò”.
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E’ tuttavia certo che la eventuale norma di piano che, sul presupposto (e a condizione) della loro minima invadenza strutturale, escludesse i “balconi” dal computo delle distanze, o che ne individuasse le condizioni di esclusione, costituirebbe in ogni caso norma eccezionale e di favore, in quanto integrativa e “derogativa” della norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del D.M. più volte richiamato.

IV.4) Il Collegio ritiene di dover disattendere le contestazioni mosse e di dover al contrario assumere a proprie le conclusioni cui è pervenuto il consulente tecnico.
Quanto, anzitutto, al profilo relativo alla possibilità di deroghe delle distanze minime previste, va osservato che il provvedimento impugnato è il rilascio di un permesso di costruire e non già di una lottizzazione convenzionata ovvero di un piano particolareggiato che preveda espressamente distanze inferiori in deroga; la mera possibilità di deroga contenuta nel PRE, in definitiva, non importa ex se deroga alle distanze ed impone, al contrario, il rispetto delle stesse ogniqualvolta l’intervento si atteggi, come nel caso, come individuo.
La ratio della invocata disposizione è peraltro ben individuabile proprio nella natura unitaria di un intervento plurimo in tale consistenza autorizzato, che ben consentirebbe una diversa disposizione reciproca dei fabbricati edificandi, ove essa fosse, ben vero, convenzionalmente pattuita (in caso di intervento convenzionato) ovvero autoritariamente imposta (nel caso di piano particolareggiato), e nessuno dei due casi ricorre nella specie.
Quanto alla questione relativa al computo nelle distanze dei balconi e dei vani tecnici, va osservato in linea generale che le parti aggettanti di un fabbricato rientrano certamente tra gli elementi che costituiscono gli edifici da assoggettare al regime delle distanze in edilizia di cui all’articolo 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (“Limiti inderogabili di distanze tra i fabbricati”) per assicurare le note condizioni di salubrità sotto il profilo igienico-sanitario, mediante l’eliminazione di perniciose intercapedini.
E’ invero noto che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate ed edifici antistanti, prevista dall’art 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, come argomentato correttamente dalla difesa di parte ricorrente, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuole distanziare, sono solo i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle pareti con funzione decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari (e significative) dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 6909/2005).
IV.5) In considerazione di tali inderogabili esigenze, ancora di recente si è espressa la IV Sezione del Consiglio di Stato (con sentenza 04.03.2014, n. 1000), in fattispecie relativa al distacco di una scala, ritenendo che il vano scale e, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta, pur non incidendo sulla volumetria, trattandosi di volume tecnico, può assumere diversa rilevanza sul piano della normativa dettata per le distanze dai confini, concludendo che deve ritenersi non tollerabile la presenza di una parte, sia pure di modesta entità, di un opus edilizio che vada ad insistere in maniera permanente su uno spazio territoriale che deve rimanere libero da qualsiasi ingombro.
Analoga conclusione ha tratto il Consiglio di Stato con riferimento espresso ai balconi, distinguendo, ai fini della determinazione del volume dell’edificio, i balconi aggettanti che sporgono dalla facciata dell’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, senza svolgere alcuna funzione di sostegno né di copertura, dalle terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio (cfr. Cons. di Stato, n. 3381/2008), il che ha consentito di argomentarne, invero non proprio pianamente, la sostanziale “irrilevanza” (o, al contrario, la rilevanza) anche ai fini del computo delle distanze “solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò” (cfr. TAR Lazio, n. 5319/2010; TAR Liguria, n. 1736/2009).
E’ tuttavia certo che la eventuale norma di piano che, sul presupposto (e a condizione) della loro minima invadenza strutturale, escludesse i “balconi” dal computo delle distanze, o che ne individuasse le condizioni di esclusione, costituirebbe in ogni caso norma eccezionale e di favore, in quanto integrativa e “derogativa” della norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del D.M. più volte richiamato (cfr. Cons. di Stato, n. 5557/2013)
(TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 20.12.2014 n. 955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La nullità derivante dall’adozione d’una delibera di conferimento dell’incarico professionale non accompagnata dall’attestazione della necessaria copertura finanziaria può essere sanata attraverso la ricognizione postuma di debito da parte dell’ente locale, ai sensi dell’art. 24 del decreto-legge 02.03.1989, n. 66 (convertito, con modificazioni, nella legge 24.04.1989, n. 144), poi seguito dal d.lgs. n. 267 del 2000 (art. 191 e 194); tale dichiarazione, per contro, non rileva e non può avere alcuna efficacia sanante ove il contratto stipulato dalla P.A. sia privo della forma scritta.
Il credito di chi ha fornito la prestazione od il servizio nei confronti della p.a. sussiste dunque direttamente nei confronti del funzionario. Questi, ove manchino i necessari adempimenti formali per la validità dell’impegno di spesa assunto dalla p.a., ne risponderà in proprio verso il privato fornitore.
L’insorgenza del rapporto obbligatorio direttamente tra il fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione comporta l’impossibilità di esperire nei confronti del Comune l’azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà.
Pertanto, dopo l’introduzione della normativa di cui agli artt. 191 e 194 del D.Lgs. n. 267/2000, la questione del riconoscimento dell’utilità della prestazione può porsi di regola solo allorché siano il funzionario o l’amministratore responsabili verso il privato a proporre l’azione di cui all’art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A..

1.2. Tutti i motivi possono essere esaminati congiuntamente, e vanno dichiarati infondati per due ragioni assorbenti e preliminari.
1.3. La prima ragione è che il contratto stipulato dal ricorrente col Comune di Roccarainola è nullo per difetto di forma scritta, e tale nullità non può essere sanata dal riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte della p.a..
1.4. E’ stato, infatti, lo stesso ricorrente ad ammettere che il contratto da lui stipulato col Comune di Roccarainola non aveva forma scritta.
La stipula con la pubblica amministrazione di un qualsiasi contratto privo della forma scritta è nulla, e tale nullità non può essere sanata attraverso il riconoscimento, da parte della amministrazione committente, dell’utilità della prestazione ricevuta.
Questa Corte, al riguardo, con orientamento ormai consolidato ha già stabilito che “il riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 37 del d.lgs. 25.02.1995, n. 77, costituisce un procedimento discrezionale che consente all’ente locale di far salvi, nel proprio interesse, gli impegni di spesa in precedenza assunti tramite specifica obbligazione, ancorché sprovvista di copertura contabile, ma non ha la funzione di introdurre una sanatoria per i contratti nulli o, comunque, invalidi –come quelli conclusi senza il rispetto della forma scritta ‘ad substantiam’– né apportare una deroga al regime di inammissibilità dell’azione di indebito arricchimento di cui all’art. 23 del d.l. 02.03.1989, n. 66, convertito, con modificazioni, nella legge 24.04.1989 n. 144” (Sez. 1, Sentenza n. 25373 del 12/11/2013, Rv. 629076).
Da ciò consegue che mentre la nullità derivante dall’adozione d’una delibera di conferimento dell’incarico professionale non accompagnata dall’attestazione della necessaria copertura finanziaria può essere sanata attraverso la ricognizione postuma di debito da parte dell’ente locale, ai sensi dell’art. 24 del decreto-legge 02.03.1989, n. 66 (convertito, con modificazioni, nella legge 24.04.1989, n. 144), poi seguito dal d.lgs. n. 267 del 2000 (art. 191 e 194), tale dichiarazione, per contro, non rileva e non può avere alcuna efficacia sanante ove il contratto stipulato dalla P.A. sia privo della forma scritta (Sez. 3, Sentenza n. 27406 del 18/11/2008, Rv. 605528).
1.5. Nel caso di specie, pertanto, la nullità del contratto stipulato tra l’ing. P.G.A. ed il Comune di Roccarainola, in quanto privo di forma scritta, non può essere in alcun modo sanata dal riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte della amministrazione comunale: sicché resta irrilevante nel presente giudizio se la Corte d’appello abbia o meno correttamente escluso la sussistenza della prova di tale riconoscimento.
1.6. La seconda ragione preliminare ed assorbente di infondatezza del ricorso è che l’azione di ingiustificato arricchimento è una azione residuale, accordata dall’orientamento quando l’impoverito non disponga di alcun strumento giuridico a tutela della propria pretesa.
Tale presupposto non sussiste nel caso di spese fuori bilancio dei Comuni (e, più in generale, degli enti locali).
1.7. Giova ricordare, a tal fine, come il legislatore, per porre limite ad una preoccupante crescita delle spese degli enti locali, nel 1989 stabilì che “nel caso in cui vi sia stata l’acquisizione [da parte dell’ente locale] di beni o servizi in violazione dell’obbligo indicato nel comma 3 [e cioè senza la deliberazione autorizzativa né l’impegno contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di previsione], il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il privato fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura. Detto effetto si estende per le esecuzioni reiterate o continuative a tutti coloro che abbiano reso possibili le singole prestazioni” (art. 23, comma 4, d.l. 02.03.1989 n. 66, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 24.04.1989, n. 144).
Successivamente, tale norma venne abrogata dall’art. 123, comma 1, lettera (n), d.Lgs. 25.02.1995, n. 77 (recante “Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali”), e sostituita dall’art. 35, comma 4, dello stesso decreto, il quale ha introdotto in subiecta materia una importante novità, vale a dire la possibilità per l’ente locale di riconoscere, con deliberazione consiliare, la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da acquisizioni di beni o servizi non autorizzate, “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
La legge è passata quindi da un sistema di “irresponsabilità assoluta” della p.a., nel caso di assunzione di beni o servizi non regolarmente deliberate, ad un sistema di “irresponsabilità relativa”, nel quale a determinate condizioni la p.a. poteva decidere di “riconoscere” il debito fuori bilancio.
L’ultima tappa dell’evoluzione normativa in subiecta materia è rappresentata dall’approvazione del testo unico sugli enti locali (d.lgs. 18.08.2000 n. 267), il cui art. 191 ha stabilito che “nel caso in cui vi è stata l’acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3 [e cioè in assenza dell’impegno contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di previsione e l’attestazione della copertura finanziaria], il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell’articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni”.
Il successivo art. 194, comma 1, lettera (e), stabilisce poi che gli enti locali, con apposita deliberazione, possono riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da “acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
Il credito di chi ha fornito la prestazione od il servizio nei confronti della p.a. sussiste dunque direttamente nei confronti del funzionario. Questi, ove manchino i necessari adempimenti formali per la validità dell’impegno di spesa assunto dalla p.a., ne risponderà in proprio verso il privato fornitore. L’insorgenza del rapporto obbligatorio direttamente tra il fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione comporta l’impossibilità di esperire nei confronti del Comune l’azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà.
Pertanto, dopo l’introduzione della normativa sopra riassunta, la questione del riconoscimento dell’utilità della prestazione può porsi di regola solo allorché siano il funzionario o l’amministratore responsabili verso il privato a proporre l’azione di cui all’art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. (così, testualmente, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 1391 dei 23/01/2014, Rv. 629726; nello stesso senso, ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 12880 del 26/05/2010, Rv. 613213) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 19.12.2014 n. 26911 -
link a http://renatodisa.com).

ATTI AMMINISTRATIVICostituisce principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui non è accoglibile la domanda di risarcimento del danno formulata nel processo amministrativo in modo del tutto generico, senza che il ricorrente fornisca il minimo principio di prova e, prima ancora, senza neanche allegare precisamente i fatti sui quali la domanda si fonda.
Ritiene il Collegio che, per le ragioni di seguito esposte, la domanda risarcitoria sia infondata.
Costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui non è accoglibile la domanda di risarcimento del danno formulata nel processo amministrativo in modo del tutto generico, senza che il ricorrente fornisca il minimo principio di prova e, prima ancora, senza neanche allegare precisamente i fatti sui quali la domanda si fonda (TAR Liguria, sez. II, 15.10.2010, n. 9501; TAR Campania Napoli, sez. III, 10.05.2010, n. 3367).
Nel caso concreto non si può non rilevare come la domanda risarcitoria proposta dal ricorrente sia del tutto generica in quanto formulata senza la benché minima prospettazione dei fatti costituitivi del diritto vantato e, a maggior ragione, senza che sia stata fornita alcuna prova a supporto degli stessi.
Va pertanto ribadita l’infondatezza di tale domanda (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.12.2014 n. 3119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere/dovere di repressione degli abusi edilizi -configuranti a loro volta un illecito permanente- non è soggetto a decadenza, costituendo invece attività vincolata, senza che l’Amministrazione debba fornire una specifica o analitica motivazione con riguardo al decorso del tempo.
Neppure assume rilevanza, come vorrebbe invece parte ricorrente, il presunto decorso del tempo dalla realizzazione dell’abuso.
In primo luogo, infatti, appare provato che le strutture abusive risalgono ad epoca successiva al 1989 –allorché risulta un primo sopralluogo dell’Amministrazione nel 1998– sicché non è certo decorso un lungo tempo fra l’edificazione e la reazione repressiva da parte del Comune.
In ogni modo, il Collegio ritiene di aderire al prevalente indirizzo giurisprudenziale, per il quale il potere/dovere di repressione degli abusi edilizi -configuranti a loro volta un illecito permanente- non è soggetto a decadenza, costituendo invece attività vincolata, senza che l’Amministrazione debba fornire una specifica o analitica motivazione con riguardo al decorso del tempo (così, fra le più recenti: Consiglio di Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2196 e TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 21.11.2014, n. 1282).
Tale indirizzo giurisprudenziale merita di essere condiviso nel caso di specie, nel quale l’abuso appare di notevole rilevanza, oltre che posto in essere in zona boschiva (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.12.2014 n. 3095 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: La valutazione che la P.A. in prima battuta e, quindi, il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, sono chiamati a compiere va effettuata in astratto e, per dir così, “ab externo”, senza che nell’esercizio di quest’ultima funzione vi sia spazio per compiere apprezzamenti diretti (e indebiti) sulla documentazione richiesta quale strumento di prova diretta, o di mancata prova, della lesione sofferta dalla parte in sede di giudizio civile e sulla fondatezza della domanda giudiziale civile, ossia della pretesa sottostante.
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Fatta salva la disciplina prevista dal presente codice per gli appalti segretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, sono esclusi il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione in relazione:
a) alle informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali;
b) a eventuali ulteriori aspetti riservati delle offerte, da individuarsi in sede di regolamento;
c) ai pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all'applicazione del presente codice, per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici;
d) alle relazioni riservate del direttore dei lavori e dell'organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto.
In relazione all'ipotesi di cui al comma 5, lettere a) e b), è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso”.
Come già osservato da condivisa giurisprudenza il rapporto tra la normativa generale in tema di accesso e quella particolare, sopra riportata, dettata in materia di contratti pubblici, non va posto in termini di accentuata differenziazione, ma piuttosto di complementarietà, nel senso che le disposizioni (di carattere generale e speciale) contenute nella disciplina della legge n. 241 del 1990 devono trovare applicazione tutte le volte in cui non si rinvengono disposizioni derogatorie (e quindi dotate di una specialità ancor più elevata in ragione della materia) nel Codice dei contratti, le quali trovano la propria ratio nel particolare regime giuridico di tale settore dell’ordinamento.
In tal senso la disciplina dettata dall’art. 13 del Codice dei contratti pubblici, essendo destinata a regolare in modo completo tutti gli aspetti relativi alla conoscibilità degli atti e dei documenti rilevanti nelle diverse fasi di formazione ed esecuzione dei contratti medesimi, costituisce una sorta di microsistema normativo, collegato all’idea della peculiarità del settore considerato, pur all’interno delle coordinate generali dell’accesso tracciate dalla l. n. 241 del 1990.
Nel codice dei contratti l’accesso è strettamente collegato alla sola esigenza di una difesa in giudizio con una previsione, quindi, molto più restrittiva di quella contenuta nell’art. 24 l. n. 241 cit., la quale contempla un ventaglio più ampio di possibilità, consentendo l’accesso ove necessario per la tutela della posizione giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione processuale.
... per l'annullamento del provvedimento Prot. CBA-00I9990-P dell'11.06.2014 con cui l'ANAS S.p.A., Compartimento della Viabilità della Puglia, ha comunicato la reiezione dell'istanza di accesso avanzata dal ricorrente in data 06.05.2014 relativamente agli atti della gara informale volta all'affidamento per il completamento dei lavori di messa in sicurezza delle SS. SS. 16-16 VAR-89-90-271-655-693, in esito alla risoluzione del contratto d'appalto rep. n. 35230 sottoscritto tra le parti in data 08.01.2013;
...
Il ricorso merita accoglimento nei limiti di seguito precisati.
Diversamente da quanto opinato dall’ANAS nel gravato diniego, sussiste in capo alla parte ricorrente l’“interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”, atto a giustificare la richiesta ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241 del 1990. Al fine di valutare la sussistenza di tale interesse occorre avere riguardo alle finalità che l’istante dichiara di perseguire, richiedendo la norma in parola un “legame tra finalità dichiarata ed il documento richiesto”. Nel caso in esame, la ricorrente ha espressamente dichiarato che la documentazione richiesta:
1) è finalizzata alla produzione nel giudizio civile pendente instaurato dall’IMPRESA MOTTOLA ed avente ad oggetto la risoluzione del contratto in danno disposta dall’ANAS;
2) è necessaria ai fini della determinazione dell’importo della fideiussione di cui, eventualmente, l’ANAS potrà beneficiare.
L'interesse enunciato dalla ricorrente –e rappresentato fin dalla prima istanza- appare idoneo a supportare adeguatamente la pretesa dell'istante, in relazione alla difesa dei suoi interessi giuridici (ex art. 24, co. 7, l. 241/1990); sotto tale profilo, va ricordato che la valutazione che la P.A. in prima battuta e, quindi, il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva sono chiamati a compiere va effettuata in astratto e, per dir così, “ab externo”, senza che nell’esercizio di quest’ultima funzione vi sia spazio per compiere apprezzamenti diretti (e indebiti) sulla documentazione richiesta quale strumento di prova diretta, o di mancata prova, della lesione sofferta dalla parte in sede di giudizio civile e sulla fondatezza della domanda giudiziale civile, ossia della pretesa sottostante (CGARS sent. 07.05.2014 n. 310).
Va in definitiva consentito alla ricorrente l’accesso richiesto, non senza evidenziare -tuttavia- che la richiesta dell’IMPRESA MOTTOLA è riferita, genericamente, a tutti gli atti della procedura negoziata che ha fatto seguito alla risoluzione del contratto intercorso tra le parti del presente giudizio.
Orbene, la circostanza della mancata partecipazione della ricorrente alla gara (puntualmente evidenziata dall’ANAS nella nota gravata) incide, non sulla sussistenza dell’interesse all’accesso (come sostenuto dalla resistente), bensì sulla individuazione degli atti ostensibili.
Ed invero, l’art. 13, co. 1, d.l.vo n. 163/2006 recita: “Salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dalla legge 07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni”.
Ai sensi dei successivi commi 5 e 6, poi “Fatta salva la disciplina prevista dal presente codice per gli appalti segretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, sono esclusi il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione in relazione:
a) alle informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali;
b) a eventuali ulteriori aspetti riservati delle offerte, da individuarsi in sede di regolamento;
c) ai pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all'applicazione del presente codice, per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici;
d) alle relazioni riservate del direttore dei lavori e dell'organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto.
In relazione all'ipotesi di cui al comma 5, lettere a) e b), è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso
”.
Come già osservato da condivisa giurisprudenza il rapporto tra la normativa generale in tema di accesso e quella particolare, sopra riportata, dettata in materia di contratti pubblici, non va posto in termini di accentuata differenziazione, ma piuttosto di complementarietà, nel senso che le disposizioni (di carattere generale e speciale) contenute nella disciplina della legge n. 241 del 1990 devono trovare applicazione tutte le volte in cui non si rinvengono disposizioni derogatorie (e quindi dotate di una specialità ancor più elevata in ragione della materia) nel Codice dei contratti, le quali trovano la propria ratio nel particolare regime giuridico di tale settore dell’ordinamento.
In tal senso la disciplina dettata dall’art. 13 del Codice dei contratti pubblici, essendo destinata a regolare in modo completo tutti gli aspetti relativi alla conoscibilità degli atti e dei documenti rilevanti nelle diverse fasi di formazione ed esecuzione dei contratti medesimi, costituisce una sorta di microsistema normativo, collegato all’idea della peculiarità del settore considerato, pur all’interno delle coordinate generali dell’accesso tracciate dalla l. n. 241 del 1990. Nel codice dei contratti l’accesso è strettamente collegato alla sola esigenza di una difesa in giudizio con una previsione, quindi, molto più restrittiva di quella contenuta nell’art. 24 l. n. 241 cit., la quale contempla un ventaglio più ampio di possibilità, consentendo l’accesso ove necessario per la tutela della posizione giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione processuale (Consiglio di Stato n. 6121-2008)
” – cfr. TAR Campania, Napoli, sez. 6, sent. 11/07/2014 n. 3880/2014.
Alla luce del suesposto quadro normativo, può osservarsi che alla ricorrente è precluso del tutto l’accesso agli atti di cui al precedente co. 5 e, nonostante l’interesse difensivo di cui è portatrice, anche a quelli sub a) e b), siccome l’impresa non ha concorso alla procedura cui si riferisce la richiesta di accesso.
Nel rispetto dei predetti limiti, l’ANAS dovrà consentire l’accesso agli atti della procedura negoziata.
In conclusione, il ricorso va accolto, con il conseguente ordine a Anas s.p.a., in persona del leg. rapp.te p.t., di esibire alla ricorrente i documenti di cui all’istanza del 06/05/2014 entro il termine di 30 giorni, decorrenti dalla notificazione della presente sentenza ad opera della ricorrente o dalla sua comunicazione in via amministrativa (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 19.12.2014 n. 1603 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l’ordinanza di demolizione che non risulta preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, previsto dall’art. 7 della legge 241 del 1990, senza che vengano esplicitate eventuali ragioni di urgenza.
Infatti, l'art. 7, della legge n. 241 del 1990, per i procedimenti non a istanza di parte, e l'art. 10-bis, stessa legge per i procedimenti a istanza di parte, sono due punti particolari di codificazione dei principi di correttezza e buon andamento che impongono all'amministrazione di creare il contraddittorio con i destinatari degli effetti dei provvedimenti sia al fine di consentire il diritto di difesa sia per acquisire ogni utile elemento in modo da ridurre il rischio di motivazioni inadeguate.
Invero, l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti, previsto dall'art. 7, della legge 07.08.1990 n. 241 allo scopo di realizzare un vero e proprio contraddittorio all'interno del procedimento amministrativo, ha valenza di carattere generale; pertanto esso si applica a tutti i procedimenti amministrativi, salve le eccezioni previste dalla legge.
La necessità di comunicazione dell'avvio del procedimento ai destinatari dell'atto finale è stata prevista in generale dall'art. 7, della legge n. 241 del 1990 non soltanto per i procedimenti complessi che si articolano in più fasi (preparatoria, costitutiva ed integrativa dell'efficacia), ma anche per i procedimenti semplici che si esauriscono direttamente con l'adozione dell'atto finale, i quali comunque comportano una fase istruttoria da parte della stessa autorità emanante.
La portata generale del principio è confermata dal fatto che il legislatore stesso (art. 7, comma 1, ed art. 13, della legge n. 241 del 1990) si è premurato di apportare delle specifiche deroghe (speciali esigenze di celerità, atti normativi, atti generali, atti di pianificazione e di programmazione, procedimenti tributari) all'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, con la conseguenza che negli altri casi deve in linea di massima garantirsi tale comunicazione, salvo che non venga accertata in giudizio la sua superfluità in quanto il provvedimento adottato non avrebbe potuto essere diverso, anche se fosse stata osservata la relativa formalità.

... per l'annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, dell’ordinanza di demolizione n. 8/2014 Prot. N. 3260 dell’08.07.2014 firma del Sindaco Responsabile dell’Area Tecnica, con la quale è stata accertata l'avvenuta esecuzione di opere in assenza delle prescritte autorizzazioni, consistenti nella realizzazione di una tenda scorrevole elettrica e pavimentazione in c.a. addossata al fabbricato esistente sito in via Case Sparse Borgobello n. 1 ad uso agriturismo denominato "I Benandanti" di proprietà della ricorrente;
...
Oggetto del presente ricorso è l'ordinanza di demolizione datata 08.07.2014 del Sindaco che ha ordinato alla ricorrente di sospendere i lavori di una copertura antistante l’agriturismo di proprietà.
Va da subito evidenziato come il ricorso risulti fondato.
Innanzitutto manca l'avviso di avvio del procedimento, necessario ai sensi della legge 241 del 1990, salvo le ipotesi di urgenza non riscontrabili nel caso in esame.
Tale avviso costituisce un vero e proprio obbligo per l’amministrazione emanante l’atto e consente all’interessato di far valere nella fase prodromica all’emanazione dell’atto le sue eventuali ragioni.
Infatti, l'art. 7, della legge n. 241 del 1990, per i procedimenti non a istanza di parte, e l'art. 10-bis, stessa legge per i procedimenti a istanza di parte, sono due punti particolari di codificazione dei principi di correttezza e buon andamento che impongono all'amministrazione di creare il contraddittorio con i destinatari degli effetti dei provvedimenti sia al fine di consentire il diritto di difesa sia per acquisire ogni utile elemento in modo da ridurre il rischio di motivazioni inadeguate (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 09.06.2009, n. 1190).
Invero, l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti, previsto dall'art. 7, della legge 07.08.1990 n. 241 allo scopo di realizzare un vero e proprio contraddittorio all'interno del procedimento amministrativo, ha valenza di carattere generale; pertanto esso si applica a tutti i procedimenti amministrativi, salve le eccezioni previste dalla legge (Consiglio di Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3861).
La necessità di comunicazione dell'avvio del procedimento ai destinatari dell'atto finale è stata prevista in generale dall'art. 7, della legge n. 241 del 1990 non soltanto per i procedimenti complessi che si articolano in più fasi (preparatoria, costitutiva ed integrativa dell'efficacia), ma anche per i procedimenti semplici che si esauriscono direttamente con l'adozione dell'atto finale, i quali comunque comportano una fase istruttoria da parte della stessa autorità emanante.
La portata generale del principio è confermata dal fatto che il legislatore stesso (art. 7 comma 1 ed art. 13, della legge n. 241 del 1990) si è premurato di apportare delle specifiche deroghe (speciali esigenze di celerità, atti normativi, atti generali, atti di pianificazione e di programmazione, procedimenti tributari) all'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, con la conseguenza che negli altri casi deve in linea di massima garantirsi tale comunicazione, salvo che non venga accertata in giudizio la sua superfluità in quanto il provvedimento adottato non avrebbe potuto essere diverso, anche se fosse stata osservata la relativa formalità (Consiglio di Stato, sez. VI, 23.03.2009, n. 1724).
Invero l’ordinanza gravata non risulta preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, previsto dall’art. 7 della legge 241 del 1990, senza che vengano esplicitate eventuali ragioni di urgenza.
Inoltre la struttura di cui si ordina la demolizione risulta, dalla documentazione in atti, del tutto provvisoria, aperta da tutti i lati, adibita a copertura stagionale dalla pioggia e dal sole e comunque non in grado di creare volumetria; sulla base della legge regionale n. 19 del 2009 si tratta di edilizia cosiddetta libera non soggetta ad alcuna preventiva autorizzazione.
La fondatezza del ricorso comporta l'annullamento del provvedimento impugnato laddove le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 19.12.2014 n. 658 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Così come avviene nel processo, infatti, anche in fase istruttoria del procedimento amministrativo, una volta che la parte privata abbia dettagliatamente e documentalmente cercato di provare le proprie ragioni, sta alla parte pubblica motivare in ordine alle motivazioni ostative all’accoglimento dell’istanza, confutando le affermazioni della parte interessata. Ciò è necessario al fine del rispetto dell’art. 10-bis della l. 241/1990, norma che altrimenti sarebbe del tutto priva di utilità nel nostro sistema, e che rappresenta l’esplicitazione del principio costituzionale di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, che pure si assume –a ragione– violato.
Infatti, come pure puntualmente illustrato da questo Tar, il principio di buon andamento della p.a. di cui all'art. 97 Cost. assume nel procedimento amministrativo un ruolo fondamentale e innovativo poiché offre una maggiore tutelabilità degli interessi del privato; in quanto in applicazione dello stesso, il mezzo utilizzato dalla p.a. deve al contempo essere idoneo ed efficace allo scopo perseguito. Lo stesso è già presente nel nostro ordinamento come una delle manifestazioni del principio di ragionevolezza, nel quale confluiscono i principi di uguaglianza, di imparzialità e buon andamento.
In tale prospettiva, il principio di proporzionalità, richiamando una valutazione che incide sulla misura dell'esercizio del potere, impone alla p.a. di valutare attentamente le esigenze dei soggetti titolari di interessi coinvolti nell'azione amministrativa, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio per gli interessi stessi.
Ne discende che la motivazione del provvedimento amministrativo –che è intesa a consentire al cittadino la ricostruzione del percorso logico e giuridico mediante il quale l'Amministrazione si è determinata ad adottare un dato provvedimento, controllando il corretto esercizio del potere ad esso conferito dalla legge– è insufficiente laddove nel provvedimento definitivo non sia dia conto delle motivazioni in risposta alle argomentate osservazioni proposte dal privato a seguito dell'avviso dato ai sensi dell'art. 10-bis l. n. 241 del 1990.

Tanto premesso, si osserva che “Così come avviene nel processo, infatti, anche in fase istruttoria del procedimento amministrativo, una volta che la parte privata abbia dettagliatamente e documentalmente cercato di provare le proprie ragioni, sta alla parte pubblica motivare in ordine alle motivazioni ostative all’accoglimento dell’istanza, confutando le affermazioni della parte interessata. Ciò è necessario al fine del rispetto dell’art. 10-bis della l. 241/1990, norma che altrimenti sarebbe del tutto priva di utilità nel nostro sistema, e che rappresenta l’esplicitazione del principio costituzionale di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, che pure si assume –a ragione– violato.
Infatti, come pure puntualmente illustrato da questo Tar (sez. VII, 06.09.2012 n. 3764), il principio di buon andamento della p.a. di cui all'art. 97 Cost. assume nel procedimento amministrativo un ruolo fondamentale e innovativo poiché offre una maggiore tutelabilità degli interessi del privato; in quanto in applicazione dello stesso, il mezzo utilizzato dalla p.a. deve al contempo essere idoneo ed efficace allo scopo perseguito. Lo stesso è già presente nel nostro ordinamento come una delle manifestazioni del principio di ragionevolezza, nel quale confluiscono i principi di uguaglianza, di imparzialità e buon andamento.
In tale prospettiva, il principio di proporzionalità, richiamando una valutazione che incide sulla misura dell'esercizio del potere, impone alla p.a. di valutare attentamente le esigenze dei soggetti titolari di interessi coinvolti nell'azione amministrativa, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio per gli interessi stessi.
Ne discende che la motivazione del provvedimento amministrativo –che è intesa a consentire al cittadino la ricostruzione del percorso logico e giuridico mediante il quale l'Amministrazione si è determinata ad adottare un dato provvedimento, controllando il corretto esercizio del potere ad esso conferito dalla legge– è insufficiente laddove nel provvedimento definitivo non sia dia conto delle motivazioni in risposta alle argomentate osservazioni proposte dal privato a seguito dell'avviso dato ai sensi dell'art. 10-bis l. n. 241 del 1990
” (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. 4, sent. 12/06/2014 n. 3249) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 18.12.2014 n. 1598 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la prevalente e condivisibile giurisprudenza, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
Passando al merito del ricorso, va respinto il primo motivo di censura, con cui si lamenta la mancata comunicazione di avvio del procedimento, in quanto -secondo la prevalente e condivisibile giurisprudenza- gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (TAR Puglia, sez. III, 17/12/2013 sent. n. 1689, nonché ex multis TAR Lazio, sez. I-quater, 09/09/2014 sent. n. 9525, TAR Molise, 07.02.2013, n. 85; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 06/02/2013, n. 737, TAR Napoli Sez. 2, 16/10/2013 n. 4642) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 18.12.2014 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La demolizione deve ritenersi atto dovuto sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata irregolarità dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel tempo- senza necessità di una specifica comparazione con gli interessi privati coinvolti o sacrificati.
L'ordinanza di demolizione è, infatti, espressione di potere autoritativo non soggetto a prescrizione o decadenza, posta la prevalenza dell'aspettativa della collettività a vedere rispettate le norme in materia edilizia ed urbanistica, rispetto all'affidamento del contravventore a vedere conservata l'opera abusiva.

Deve, inoltre, osservarsi che la demolizione deve ritenersi atto dovuto sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata irregolarità dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel tempo- senza necessità di una specifica comparazione con gli interessi privati coinvolti o sacrificati. L'ordinanza di demolizione è, infatti, espressione di potere autoritativo non soggetto a prescrizione o decadenza, posta la prevalenza dell'aspettativa della collettività a vedere rispettate le norme in materia edilizia ed urbanistica, rispetto all'affidamento del contravventore a vedere conservata l'opera abusiva (TAR Lazio, sez. I-quater, 09/09/2014 sent. n. 9525) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 18.12.2014 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può dubitarsi che, a seguito della presentazione della denuncia d’inizio attività, il decorso del tempo determini il consolidarsi del titolo con conseguente necessità della sua preventiva rimozione, in vista dell’assunzione di iniziative sanzionatorie.
Questo principio trova, però, applicazione sul presupposto della corrispondenza di quanto dichiarato alla situazione di fatto e di diritto esistente, e con esclusivo riguardo alla tipologia di intervento che l’istante dichiara di voler realizzare. Ciò in ragione della ratio stessa dell’istituto della denuncia d’inizio attività, la quale consente una semplificazione procedimentale sulla base di una diretta assunzione di responsabilità da parte del cittadino.
Deve escludersi, pertanto, che la presentazione della denuncia possa produrre un effetto legittimante alla realizzazione di opere edilizie laddove essa rechi dichiarazioni incomplete o addirittura non conformi alla situazione di fatto e di diritto esistente.
Inoltre, come detto, l’efficacia abilitante non può che prodursi con riferimento alla qualificazione dell’intervento dichiarata dallo stesso istante nella propria denuncia e nei limiti di tale qualificazione, dovendo parimenti negarsi che dalla d.i.a. possano discendere effetti diversi e ulteriori rispetto a quanto in essa dichiarato.

Erra, inoltre, parte ricorrente quando lamenta la violazione dei principi in tema di autotutela, per non avere il Comune instaurato alcun procedimento di secondo grado: ed invero, il manufatto per il quale è causa non coincide con quello oggetto delle d.i.a. (circostanza, si ripete, non smentita dal ricorrente) per cui non può ritenersi applicabile la disciplina di cui all’articolo 23 del d.P.R. 380/2001, in quanto nessun titolo implicito si sarebbe formato rispetto alle opere in contestazione e nessun affidamento del privato da “tutelare” viene in evidenza con la conseguenza che l’amministrazione non era, quindi, tenuta ad agire preliminarmente in autotutela (in termini, TAR Campania, sez. VI, 08/05/2014 sent. n. 2525).
Va inoltre osservato, che “non può dubitarsi che, a seguito della presentazione della denuncia d’inizio attività, il decorso del tempo determini il consolidarsi del titolo con conseguente necessità della sua preventiva rimozione, in vista dell’assunzione di iniziative sanzionatorie. Questo principio trova, però, applicazione sul presupposto della corrispondenza di quanto dichiarato alla situazione di fatto e di diritto esistente, e con esclusivo riguardo alla tipologia di intervento che l’istante dichiara di voler realizzare. Ciò in ragione della ratio stessa dell’istituto della denuncia d’inizio attività, la quale consente una semplificazione procedimentale sulla base di una diretta assunzione di responsabilità da parte del cittadino…. Deve escludersi, pertanto, che la presentazione della denuncia possa produrre un effetto legittimante alla realizzazione di opere edilizie laddove essa rechi dichiarazioni incomplete o addirittura non conformi alla situazione di fatto e di diritto esistente. Inoltre, come detto, l’efficacia abilitante non può che prodursi con riferimento alla qualificazione dell’intervento dichiarata dallo stesso istante nella propria denuncia e nei limiti di tale qualificazione, dovendo parimenti negarsi che dalla d.i.a. possano discendere effetti diversi e ulteriori rispetto a quanto in essa dichiarato” (Tar Lombardia, Milano, sez. II, sent. 18/06/2014 n. 1406)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 18.12.2014 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La tesi giurisprudenziale, secondo cui vi è l’obbligo dell’Amministrazione di motivare circa le ragioni di pubblico interesse alla demolizione se, per il lungo lasso di tempo trascorso, si sia formato nel privato contravventore, a causa dell’inerzia mantenuta dai pubblici poteri, un affidamento sulla legittimità dell’opera, non è confortata dalla sussistenza di alcuna espressa previsione normativa in tale senso.
Al contrario, a siffatta interpretazione sembrano ostare la natura rigidamente vincolata del potere sanzionatorio–repressivo degli abusi edilizi, nonché il dato giuridico per cui la sanzione demolitoria, più che a punire il responsabile dell’abuso, è volta a ripristinare la situazione antecedente alla violazione, ponendo un rimedio ai fenomeni di compromissione del territorio. Ne discende che il mero decorso del tempo non è sufficiente a far insorgere un affidamento sulla legittimità dell’opera o, comunque, sul consolidamento dell’interesse del privato alla sua conservazione, né, per conseguenza, ad imporre la necessità di una specifica motivazione in ordine all’esistenza di un interesse pubblico prevalente.
Infatti, l’unico interesse, la cui tutela è rimessa dal legislatore alla sanzione demolitoria, è l’interesse al ripristino dell’assetto del territorio preesistente all’abuso, tipizzato come prevalente dallo stesso legislatore. In definitiva, il potere di irrogare delle sanzioni in materia edilizia ed urbanistica può essere esercitato in ogni tempo, posto che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione, né di decadenza, e che riguarda una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra ius.
Esso, inoltre, non necessita di specifica motivazione in relazione alla sussistenza dell’interesse pubblico ad irrogare la sanzione, neppure quando l’abuso sia stato commesso parecchi anni prima, non essendo configurabile nessun legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che, in disparte l’idoneità o meno del tempo a consolidarla, rimane contra ius.

Quanto, infine, alla doglianza relativa al lasso temporale intercorso tra la presentazione della d.i.a. e l’impugnata ordinanza, va osservato che “La tesi giurisprudenziale, secondo cui vi è l’obbligo dell’Amministrazione di motivare circa le ragioni di pubblico interesse alla demolizione se, per il lungo lasso di tempo trascorso, si sia formato nel privato contravventore, a causa dell’inerzia mantenuta dai pubblici poteri, un affidamento sulla legittimità dell’opera, non è confortata dalla sussistenza di alcuna espressa previsione normativa in tale senso.
Al contrario, a siffatta interpretazione sembrano ostare la natura rigidamente vincolata del potere sanzionatorio–repressivo degli abusi edilizi, nonché il dato giuridico per cui la sanzione demolitoria, più che a punire il responsabile dell’abuso, è volta a ripristinare la situazione antecedente alla violazione, ponendo un rimedio ai fenomeni di compromissione del territorio. Ne discende che il mero decorso del tempo non è sufficiente a far insorgere un affidamento sulla legittimità dell’opera o, comunque, sul consolidamento dell’interesse del privato alla sua conservazione, né, per conseguenza, ad imporre la necessità di una specifica motivazione in ordine all’esistenza di un interesse pubblico prevalente.
Infatti, l’unico interesse, la cui tutela è rimessa dal legislatore alla sanzione demolitoria, è l’interesse al ripristino dell’assetto del territorio preesistente all’abuso, tipizzato come prevalente dallo stesso legislatore. In definitiva, il potere di irrogare delle sanzioni in materia edilizia ed urbanistica può essere esercitato in ogni tempo, posto che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione, né di decadenza, e che riguarda una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra ius.
Esso, inoltre, non necessita di specifica motivazione in relazione alla sussistenza dell’interesse pubblico ad irrogare la sanzione, neppure quando l’abuso sia stato commesso parecchi anni prima, non essendo configurabile nessun legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che, in disparte l’idoneità o meno del tempo a consolidarla, rimane contra ius
” (così TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 08.11.2007, sentenza n. 6200, nonché ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 24/07/2013 sent. n. 3810, Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV, 04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII, 05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.03.2011, n. 432)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 18.12.2014 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario di un fondo urbanisticamente unitario, fatti salvi i limiti in materia di distanze dai confini e altezze massime degli edifici, può localizzare l’intervento edilizio ove ritiene più opportuno poiché il carico urbanistico rappresentato dalla volumetria realizzabile su un determinato fondo nel rispetto degli indici di piano, non altera la densità territoriale della zona, o comparto, ovunque sia collocata l’opera all’interno del fondo considerato.
Lo stesso principio trova applicazione nel caso di asservimento o accorpamento della capacità edificatoria di un fondo a favore di un altro che ne assorbe la volumetria, accrescendo così la propria potenzialità edilizia; quindi, ai fini della verifica del rapporto fra superficie fondiaria e volumetria realizzata (indice di fabbricabilità fondiaria), si dovrà tener conto anche della superficie del fondo asservito che avrà, per questo, esaurito al sua potenzialità edificatoria.
Vale pertanto anche per l'asservimento il principio della libera allocazione dei volumi poiché la materiale collocazione dei fabbricati, se avviene nel rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria quale rapporto fra la cubatura realizzata e la superficie impiegata, non incide per definizione sulla densità edilizia territoriale che esprime la sommatoria dei volumi attribuiti ai lotti edificabili di una zona o comparto comprensiva degli spazi pubblici e di servizio comuni.
Da quanto detto si ricava che l'accorpamento o asservimento di un’area, per lo sfruttamento della volumetria che essa esprime sul suolo di un’altra con aumento della capacità edificatoria propria di quest’ultima, trova un limite insuperabile nell'omogeneità dell'area da asservire rispetto a quella destinata all'edificazione, onde prevenire l'elusione dei limiti di densità territoriale posti dallo strumento urbanistico.
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E' ius receptum che un’aerea non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico, di modo che qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo o condonata, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
E ancora, un'area edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione, solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.

Ciò detto, occorre preliminarmente richiamare il principio secondo il quale il proprietario di un fondo urbanisticamente unitario, fatti salvi i limiti in materia di distanze dai confini e altezze massime degli edifici, può localizzare l’intervento edilizio ove ritiene più opportuno poiché il carico urbanistico rappresentato dalla volumetria realizzabile su un determinato fondo nel rispetto degli indici di piano, non altera la densità territoriale della zona, o comparto, ovunque sia collocata l’opera all’interno del fondo considerato.
Lo stesso principio trova applicazione nel caso di asservimento o accorpamento della capacità edificatoria di un fondo a favore di un altro che ne assorbe la volumetria, accrescendo così la propria potenzialità edilizia; quindi, ai fini della verifica del rapporto fra superficie fondiaria e volumetria realizzata (indice di fabbricabilità fondiaria), si dovrà tener conto anche della superficie del fondo asservito che avrà, per questo, esaurito al sua potenzialità edificatoria.
Vale pertanto anche per l'asservimento il principio della libera allocazione dei volumi poiché la materiale collocazione dei fabbricati, se avviene nel rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria quale rapporto fra la cubatura realizzata e la superficie impiegata, non incide per definizione sulla densità edilizia territoriale che esprime la sommatoria dei volumi attribuiti ai lotti edificabili di una zona o comparto comprensiva degli spazi pubblici e di servizio comuni.
Da quanto detto si ricava, come stabilito da costante giurisprudenza (Consiglio di Stato sez. IV, 04.05.1979, n. 302, sez. V, 03.03.2003, n. 1172; 10.06.2005, n. 3052; 22.10.2007, n. 5496; sez. IV, 30.09.2008, n. 4708), che l'accorpamento o asservimento di un’area, per lo sfruttamento della volumetria che essa esprime sul suolo di un’altra con aumento della capacità edificatoria propria di quest’ultima, trova un limite insuperabile nell'omogeneità dell'area da asservire rispetto a quella destinata all'edificazione, onde prevenire l'elusione dei limiti di densità territoriale posti dallo strumento urbanistico.
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Nondimeno è ius receptum che un’aerea non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico, di modo che qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo o condonata, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 25/11/2011, n. 1629).
E ancora, un'area edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione, solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (Consiglio di Stato, sez. V, 28/05/2012, n. 3120)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 18.12.2014 n. 1588 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In ordine alla sussistenza dell’obbligo da parte dell’amministrazione di provvedere a fronte di una domanda di autotutela avanzata dal privato, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che nessun obbligo di provvedere sussista in capo all’ente in relazione all’esercizio del potere di riesame.
Infatti, in tali ipotesi l’obbligo di provvedere si porrebbe in contrasto, sia con il principio generale di certezza delle situazioni giuridiche a cui si collega l’inoppugnabilità del provvedimento oltre il termine decadenziale previsto dalla legge, sia con la previsione normativa di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 che rimette alla P.A. la scelta discrezionale di utilizzare o meno il potere di autotutela.
Detto in altri termini, “i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile; pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli garantisce, o per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo sollecitare l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, quest’ultima, a fronte della domanda di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere”.
Conseguentemente “non sussiste la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell’Amministrazione all’autotutela; tale divieto trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza. Siffatto escamotage presuppone, in definitiva, una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento non impugnato, e l’intrapresa della procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta all’Amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere in capo all’Amministrazione stessa alcun obbligo di provvedere”.

La E.I.T. srl ha agito in giudizio chiedendo in via principale l'accertamento dell'obbligo del Comune di Fasano di rispondere sulla sua istanza di annullamento in autotutela della concessione demaniale n. 11 del 14.08.2013 rilasciata in favore di G.G.; in via subordinata la ricorrente ha impugnato la nota 20.08.2014 del Comune di Fasano, laddove interpretata dal collegio come atto a contenuto provvedimentale conclusivo del procedimento di autotutela, nonché in ogni caso la concessione demaniale n. 11 del 2013 rilasciata in favore di Giovanni Gallo.
Il Comune di Fasano si è costituito in giudizio eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per silenzio non esistendo nessun obbligo in capo all’amministrazione di procedere di fronte ad un’istanza di annullamento in autotutela di un proprio precedente atto, trattandosi di decisione ampiamente discrezionale, esercitabile d’ufficio e non coercibile dall’esterno; nel merito l’ente locale ha contestato in ogni caso la fondatezza del ricorso, anche per quanto attiene alle censure svolte avverso la concessione demaniale 11 del 2013 rilasciata in favore di G.G..
All’esito del giudizio, sull’istanza svolta dalla ricorrente in via principale (accertamento dell’obbligo del Comune di provvedere in autotutela), va dichiarata l’inammissibilità del ricorso.
Invero, in ordine alla sussistenza dell’obbligo da parte dell’amministrazione di provvedere a fronte di una domanda di autotutela avanzata dal privato, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che nessun obbligo di provvedere sussista in capo all’ente in relazione all’esercizio del potere di riesame.
Infatti, in tali ipotesi l’obbligo di provvedere si porrebbe in contrasto, sia con il principio generale di certezza delle situazioni giuridiche a cui si collega l’inoppugnabilità del provvedimento oltre il termine decadenziale previsto dalla legge, sia con la previsione normativa di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 che rimette alla P.A. la scelta discrezionale di utilizzare o meno il potere di autotutela (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 03.10.2012 n. 5199).
Detto in altri termini, “i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile; pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli garantisce, o per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo sollecitare l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, quest’ultima, a fronte della domanda di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere”.
Conseguentemente “non sussiste la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell’Amministrazione all’autotutela; tale divieto trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza. Siffatto escamotage presuppone, in definitiva, una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento non impugnato, e l’intrapresa della procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta all’Amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere in capo all’Amministrazione stessa alcun obbligo di provvedere” (Consiglio di Stato, n. 2549 del 2012).
Pertanto, sulla base di tali principi, il ricorso per silenzio va dichiarato inammissibile (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 17.12.2014 n. 3112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare pubbliche i chiarimenti della stazione appaltante sono ammissibili se contribuiscono, con un’operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio di una disposizione del bando, ma non quando, proprio mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire alla disposizione un significato ed una portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della “lex specialis”, posto a garanzia dei principi di cui all’art. 97 cost..
Ora, a prescindere dal fatto che l’impiego dell’espressione “di norma” sembra di per sé avvalorare la tesi dell’appellante del valore soltanto orientativo del chiarimento, va anzitutto rammentato che in tema di gare d’appalto le uniche fonti della procedura di gara sono costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali allegati.
Nessuna interferenza può essere ascritta alle informazioni rilasciate dall'Amministrazione in sede di richiesta di chiarimenti.
I chiarimenti auto interpretativi della stazione appaltante non possono né modificare il bando, né integrarlo, né rappresentarne un’inammissibile interpretazione autentica poiché il bando, in quanto “lex specialis” predeterminata, dev’essere interpretato e applicato per quello che oggettivamente prescrive, senza che possano acquisire rilevanza preclusiva atti interpretativi postumi della stazione appaltante.
Tornando al caso di specie appare dunque improprio attribuire alla “lex specialis”, come pretenderebbe di fare ASLA, un significato e una portata diversi da quelli che risultano dal testo letterale della stessa.
Del resto, “nelle gare pubbliche i chiarimenti della stazione appaltante sono ammissibili se contribuiscono, con un'operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio di una disposizione del bando, ma non quando, proprio mediante l'attività interpretativa, si giunga ad attribuire alla disposizione un significato ed una portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della "lex specialis", posto a garanzia dei principi di cui all'art. 97 cost.“ (Cons. St. , V, n. 5570/2012).
Inoltre, se si considera che il chiarimento è stato soltanto pubblicato sul sito Internet dell’Università e che la “lex specialis” non imponeva alle concorrenti di consultare il sito web dell’Ateneo per verificare l’eventuale avvenuta pubblicazione di chiarimenti vincolanti dati dalla stessa stazione appaltante, se ne deve dedurre che la risposta n. 8 non poteva assumere valore di vincolo per l’appellante, l’offerta economica del quale doveva pertanto essere valutata dalla stazione appaltante in base alle sole prescrizioni di bando, disciplinare di gara e capitolato speciale
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.12.2014 n. 6154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare pubbliche, ove l'Amministrazione consideri congrua l'offerta sulla base delle spiegazioni fornite dal concorrente in sede di verifica dell'anomalia, la sua valutazione deve ritenersi sufficientemente motivata con richiamo “per relationem” ai chiarimenti ricevuti, tanto più che la verifica delle offerte anomale non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando invece ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e, dunque, se dia o non serio affidamento circa la corretta esecuzione.
Il giudizio di anomalia dell'offerta richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo mentre, in caso positivo, non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa “per relationem” alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate.
Va però specificato, in aggiunta, che l’ammissibilità della motivazione “per relationem” del giudizio di congruità non esime la stazione appaltante da un obbligo di valutazione complessiva di tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del sub procedimento. Saranno le giustificazioni fornite dalla concorrente sottoposta a valutazione ex articoli 86 e seguenti del codice dei contratti pubblici a fungere da parametro di riferimento sul quale misurare, “per relationem”, la legittimità del giudizio finale di congruità.
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Sul versante dell’ampiezza –o della ristrettezza- dell’ambito della verifica giurisdizionale sul potere tecnico–discrezionale esercitato dalla stazione appaltante in sede di valutazione dell’anomalia delle offerte appare opportuno rammentare che questo Consiglio ha osservato che “le valutazioni compiute dalla stazione appaltante in sede di riscontro delle anomalie delle offerte presentate sono considerate espressione di un ampio potere tecnico–discrezionale, insindacabile in sede giurisdizionale salva l’ipotesi in cui esse siano palesemente illogiche, irrazionali o fondate su una insufficiente motivazione o su errori di fatto”.

Va premesso in via generale che, in primo luogo, come rilevato in numerose occasioni da questo Consiglio (v. , “ex plurimis”, sez. V, nn. 5703, 4785 e 3563 del 2012, 4450 del 2011 e 7266 del 2010), “nelle gare pubbliche, ove l'Amministrazione consideri congrua l'offerta sulla base delle spiegazioni fornite dal concorrente in sede di verifica dell'anomalia, la sua valutazione deve ritenersi sufficientemente motivata con richiamo “per relationem” ai chiarimenti ricevuti, tanto più che la verifica delle offerte anomale non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando invece ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e, dunque, se dia o non serio affidamento circa la corretta esecuzione” (così, testualmente, Cons. St. , V, n. 4450/2011 cit.).
Il giudizio di anomalia dell'offerta richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo mentre, in caso positivo, non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa “per relationem” alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate” (Cons. St. , V, n. 4785/2012 cit.).
Va però specificato, in aggiunta, che l’ammissibilità della motivazione “per relationem” del giudizio di congruità non esime la stazione appaltante da un obbligo di valutazione complessiva di tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del sub procedimento. Saranno le giustificazioni fornite dalla concorrente sottoposta a valutazione ex articoli 86 e seguenti del codice dei contratti pubblici a fungere da parametro di riferimento sul quale misurare, “per relationem”, la legittimità del giudizio finale di congruità.
In secondo luogo, sul versante dell’ampiezza –o della ristrettezza- dell’ambito della verifica giurisdizionale sul potere tecnico–discrezionale esercitato dalla stazione appaltante in sede di valutazione dell’anomalia delle offerte appare opportuno rammentare che questo Consiglio (v., “ex multis”, sez. III, n. 5781/2013 e V, n. 1925/2011 e n. 741/2010) ha osservato che “le valutazioni compiute dalla stazione appaltante in sede di riscontro delle anomalie delle offerte presentate sono considerate espressione di un ampio potere tecnico–discrezionale, insindacabile in sede giurisdizionale salva l’ipotesi in cui esse siano palesemente illogiche, irrazionali o fondate su una insufficiente motivazione o su errori di fatto”.
Calando i principi su esposti nel caso di specie, per quanto riguarda l’aspetto strettamente e formalmente motivazionale della valutazione di congruità compiuta dalla stazione appaltante, a voler seguire la tesi del Tar, un giudizio positivo di congruità dell’offerta –che di per sé ha natura globale e sintetica sulla serietà dell’offerta nel suo insieme, dal che deriva, nel caso di valutazione positiva di congruità, la sufficienza –con le specificazioni di cui sopra- della motivazione “per relationem” alle giustificazioni date dall’impresa offerente (Cons. St., III, n. 4322/2011)- esigerebbe un’articolata motivazione sostanzialmente ripetitiva delle medesime giustificazioni considerate accettabili e attendibili dalla stazione appaltante, con un’alquanto dubbia compatibilità con i princìpi di economicità dell’attività amministrativa sanciti dalla l. n. 241/1990.
In realtà, è lo stesso art. 88, comma 3, del codice dei contratti pubblici a imporre che la verifica delle offerte ritenute anormalmente basse avvenga attraverso l’esame degli elementi costitutivi dell’offerta tenendo conto delle precisazioni fornite dalla concorrente (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.12.2014 n. 6154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Onorari, opposizione segnata. Sentenza o ordinanza: conta la forma scelta dai giudici. La parcella dell'avvocato al centro di una decisione della Corte di cassazione.
Per quanto riguarda gli onorari che sono dovuti all'avvocato, al fine di individuare il regime impugnatorio del provvedimento di opposizione al decreto ingiuntivo (sentenza oppure ordinanza), assume rilevanza la forma adottata dal giudice.

Questo principio hanno sottolineato i giudici della Corte di Cassazione con la sentenza 12.12.2014 n. 26163 su un caso in cui un avvocato notificava a un suo cliente decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo con precetto, emesso dal giudice di pace per un importo a titolo di onorario e competenze relative all'attività professionale svolta.
Il cliente con atto di citazione si opponeva sostenendo di aver già provveduto a saldare il conto. Il gdp dichiarava l'improcedibilità dell'opposizione. Il tribunale dichiarava inammissibile l'appello del cliente, per avere la sentenza impugnata natura sostanziale di ordinanza, come tale inappellabile.
La Cassazione osserva che già le sezioni unite hanno, con una sentenza del 2011 (n. 390), affermato il principio di diritto secondo il quale: «In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, per onorari e altre spettanze professionali dovute dal cliente al proprio difensore, ai fini dell'individuazione del regime impugnatorio del provvedimento, sentenza oppure ordinanza legge n. 794 del 1942, ex art. 30, che ha deciso la controversia, assume rilevanza la forma adottata dal giudice, ove la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il relativo procedimento». E inoltre, anche nel caso in cui il patrono si fosse avvalso del procedimento di ingiunzione, l'opposizione deve svolgersi, obbligatoriamente, nelle forme dello speciale procedimento ex artt. 29 e 30 legge 794/1942.
Il provvedimento conclusivo, a prescindere dalla forma adottata, ha natura sostanziale di ordinanza soggetta esclusivamente al ricorso per cassazione ex art. 111 e non all'appello. Tale principio, però, non può trovare applicazione quando la controversia non abbia a oggetto solo la determinazione della misura del compenso, ma si estende ad altri oggetti di accertamento e decisione (articolo ItaliaOggi Sette del 12.01.2015).

APPALTI: I criteri di individuazione del presidente di commissione di gara nelle centrali di committenza.
Le centrali di committenza, quali nuove formule organizzatorie, implicano un disallineamento tra l'amministrazione alla quale saranno imputati gli effetti del contratto e quella che gestisce la procedura.
Orbene, in presenza di tali schemi amministrativi, l'esegesi dell'art. 84, comma 3, del Codice dei contratti pubblici, dev'essere condotta in ossequio a criteri ermeneutici teleologici, più che letterali.
Quindi, l'uso di un criterio finalistico impone una diversa lettura della disposizione, secondo la quale il presidente della commissione può essere scelto anche (meglio: deve essere scelto) tra i dirigenti o tra i funzionari della diversa (rispetto a quella che gestisce la gara) amministrazione in favore della quale sarà resa la prestazione contrattuale dovuta dall'impresa selezionata e nell'interesse della quale la centrale di committenza ha amministrato la gara.
L’opzione ermeneutica appena preferita si rivela, infatti, esattamente coerente con la ratio della disposizione di riferimento, che, là dove impone la nomina, come Presidente della Commissione giudicatrice, di un dirigente o di un funzionario della stazione appaltante, intende realizzare una duplice finalità: il contenimento della spesa pubblica e la trasparenza nel governo della procedura.
Il legislatore ha, evidentemente, inteso, con l’introduzione della misura in commento, realizzare, per un verso, un effetto di risparmio e assicurare, per un altro, una gestione imparziale della gara.
Orbene, l’esegesi che riconosce il rispetto del precetto in questione anche nell’ipotesi in cui il Presidente della Commissione di gara venga scelto tra i dirigenti o tra i funzionari dell’amministrazione sostanzialmente beneficiaria degli effetti negoziali del contratto, ancorché formalmente diversa da quella che gestisce la procedura, risulta coerente con entrambe le finalità sopra segnalate.
Il Presidente della Commissione così selezionato, infatti, garantisce sia l’effetto di risparmio (non avendo titolo ad alcun compenso per quell’attività), sia quello di trasparenza (in quanto incardinato nell’amministrazione beneficiaria finale della prestazione dovuta dall’impresa selezionata e, quindi, si presume, esclusivamente portatore dell’interesse pubblico alla corretta gestione della procedura competitiva).

3.- L’appello è fondato, alla stregua delle considerazioni che seguono, e dev’essere accolto.
3.-1 Prima di scrutinare la questione della sussistenza della violazione del precetto consacrato all’art. 84, comma 3, d.lgs. cit., appare, tuttavia, utile precisare le funzioni del CRAS.
Si deve, al riguardo, rilevare che la Giunta Regionale del Veneto, con delibera n. 2370 del 29.12.2011, ha istituito il Coordinamento Regionale Acquisti per la Sanità, quale centrale di committenza regionale ascrivibile alla fattispecie definita dall’art. 3, comma 34, d.lgs. cit., e ha stabilito di affidare la gestione economico-finanziaria di tale organismo all’Azienda Ospedaliera di Padova.
Si tratta, a ben vedere, di una deliberazione che assegna al predetto organismo il compito di gestire le procedure di selezione dei contraenti in materia sanitaria, nell’interesse e per conto delle Aziende sanitarie e ospedaliere della Regione (come si ricava chiaramente dall’esame delle univoche premesse della suddetta delibera), di guisa che gli effetti dei provvedimenti di aggiudicazione adottati dal CRAS si producono direttamente nella sfera di attribuzioni di queste ultime (restando del tutto irrilevante la mancata stipula di una convenzione, siccome del tutto inutile per la produzione dei predetti effetti, tra il CRAS e le Aziende del Veneto).
3.2- Così chiariti i compiti del CRAS, occorre procedere a una corretta e coerente esegesi del paradigma legale di riferimento (che tenga anche conto della ratio del relativo precetto), onde verificarne il rispetto (o la violazione) nella procedura controversa.
La norma, che vincola alla nomina come Presidente della Commissione di un dirigente o di un funzionario con funzioni apicali della stazione appaltante, è concepita e formulata con riferimento a uno schema organizzativo semplice della gestione della gara e, cioè, a un modello in cui l’amministrazione appaltante gestisce anche la procedura.
La disposizione, viceversa, per come strutturata, non si adatta a moduli organizzativi, sempre più diffusi e avvertiti come ineludibili, nei quali le procedure vengono centralizzate presso organismi formalmente incardinati presso amministrazioni diverse da quelle contraenti e, nei confronti delle quali, operano come centrali di committenza, secondo il meccanismo rappresentativo descritto all’art. 3, comma 34, d.lgs. cit..
Si tratta di formule organizzatorie che si stanno imponendo in tutti i livelli di governo e che assolvono la precipua funzione di ridurre il rischio di fenomeni corruttivi e di standardizzare le procedure comuni a una molteplicità di amministrazioni.
La scelta di tali modelli organizzativi implica un disallineamento tra l’amministrazione alla quale saranno imputati gli effetti del contratto e quella che gestisce la procedura.
Orbene, in presenza di tali schemi amministrativi, l’esegesi dell’art. 84, comma 3, d.lgs. cit., dev’essere condotta in ossequio a criteri ermeneutici teleologici, più che letterali.
L’utilizzo esclusivo di un parametro interpretativo che valorizzi il significato lessicale delle parole imporrebbe di leggere la disposizione nel senso che il Presidente della Commissione dev’essere scelto tra i dirigenti o tra i funzionari dell’amministrazione che gestisce la procedura, anziché di quella alla quale vengono sostanzialmente imputati gli effetti del contratto oggetto della gara.
L’uso di un criterio finalistico, invece, impone la diversa lettura secondo la quale il Presidente della Commissione può essere scelto anche (meglio: deve essere scelto) tra i dirigenti o tra i funzionari della diversa (rispetto a quella che gestisce la gara) amministrazione in favore della quale sarà resa la prestazione contrattuale dovuta dall’impresa selezionata e nell’interesse della quale la centrale di committenza ha amministrato la gara (come già ritenuto per la centrale di committenza della Regione Lazio da Cons. St., sez. III, 28.03.2014, n. 1498).
L’opzione ermeneutica appena preferita si rivela, infatti, esattamente coerente con la ratio della disposizione di riferimento, che, là dove impone la nomina, come Presidente della Commissione giudicatrice, di un dirigente o di un funzionario della stazione appaltante, intende realizzare una duplice finalità: il contenimento della spesa pubblica e la trasparenza nel governo della procedura.
Il legislatore ha, evidentemente, inteso, con l’introduzione della misura in commento, realizzare, per un verso, un effetto di risparmio e assicurare, per un altro, una gestione imparziale della gara.
Orbene, l’esegesi che riconosce il rispetto del precetto in questione anche nell’ipotesi in cui il Presidente della Commissione di gara venga scelto tra i dirigenti o tra i funzionari dell’amministrazione sostanzialmente beneficiaria degli effetti negoziali del contratto, ancorché formalmente diversa da quella che gestisce la procedura, risulta coerente con entrambe le finalità sopra segnalate.
Il Presidente della Commissione così selezionato, infatti, garantisce sia l’effetto di risparmio (non avendo titolo ad alcun compenso per quell’attività), sia quello di trasparenza (in quanto incardinato nell’amministrazione beneficiaria finale della prestazione dovuta dall’impresa selezionata e, quindi, si presume, esclusivamente portatore dell’interesse pubblico alla corretta gestione della procedura competitiva)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.12.2014 n. 6139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: I giudizi di merito delle offerte tecniche, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogici, irrazionali, arbitrari o fondati su un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti.
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Il giudizio di anomalia costituisce (anch’esso) espressione di discrezionalità tecnica e, come tale, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale, con la conseguenza che al giudice amministrativo, al di fuori di tali ipotesi, resta precluso formulare un’autonoma verifica della congruità delle offerte, che si risolverebbe in un’inammissibile invasione della sfera valutativa riservata all’Amministrazione.

4.2- Con il secondo motivo si insiste nel sostenere l’illogicità e l’erroneità dei punteggi attribuiti dalla Commissione di gara all’offerta tecnica, sia della Acilia che della Biotronik.
Per disattendere tale censura, è sufficiente richiamare i principi affermati dall’indirizzo giurisprudenziale univoco e consolidato (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 26.03.2014, n. 1468) secondo il quale i giudizi di merito delle offerte tecniche, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogici, irrazionali, arbitrari o fondati su un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti.
Orbene, in coerenza con la regola di giudizio appena enunciata, deve rilevarsi che, nella fattispecie scrutinata, non è dato rilevare, ma, a ben vedere, non è stata neanche dedotta (si veda pag. 26 dell’appello incidentale), la sussistenza, a carico delle valutazioni contestate, di quei vizi macroscopici che, soli, ne autorizzano il sindacato di legittimità nella specie invocato.
4.3- Anche il terzo e ultimo motivo dell’appello incidentale, con cui si ribadisce l’erroneità del giudizio di congruità dell’offerta di Biotronik (formulato in esito alla valutazione della sua anomalia), dev’essere respinto.
Come, infatti, costantemente affermato da un indirizzo giurisprudenziale dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi (cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 21.10.2014, n. 5196), il giudizio di anomalia costituisce (anch’esso) espressione di discrezionalità tecnica e, come tale, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale, con la conseguenza che al giudice amministrativo, al di fuori di tali ipotesi, resta precluso formulare un’autonoma verifica della congruità delle offerte, che si risolverebbe in un’inammissibile invasione della sfera valutativa riservata all’Amministrazione.
Orbene, una volta riscontrata l’adeguatezza dell’istruttoria, la completezza delle giustificazioni trasmesse da Biotronik e la valutazione della loro congruità da parte dell’Amministrazione (per mezzo di una motivazione sufficiente, in quanto correttamente strutturata per relationem alle giustificazioni fornite), risulta impedito un sindacato del merito del relativo giudizio, in mancanza di carenze o di errori (nella specie insussistenti) che rivelino ictu oculi il carattere non remunerativo dell’offerta e, quindi, la sua inattendibilità
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.12.2014 n. 6139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalto annullato in anticipo. Non aggiudicazione legittima pure prima della sentenza. Corte di giustizia UE/ Una decisione scaturita da un rinvio del Tar Lombardia.
È legittimo non aggiudicare un appalto e annullare la gara anche prima della sentenza definitiva a carico dell'aggiudicatario.

È quanto afferma la Corte di giustizia europea con la
sentenza 11.12.2014 causa C-440/13, su rinvio pregiudiziale del Tar Lombardia.
Nel caso esaminato l'Amministrazione, oltre ad avere ritenuto anomala l'offerta, si era disposta a non aggiudicare dal momento che nei confronti dell'aggiudicatario erano state avviate indagini penali preliminari nei confronti del legale rappresentante della ditta aggiudicataria per reati di truffa e di falsità ideologica. La mancata aggiudicazione veniva quindi motivata con evidenti ragioni di opportunità e motivi legati ai principi di buona amministrazione.
L'aggiudicatario (poi rinviato a giudizio per turbata libertà degli incanti) impugnava l'atto di annullamento della gara e chiedeva i danni. Il Tar Lombardia procedeva invece al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per sapere se fosse legittimo il provvedimento di annullamento della gara in assenza di una sentenza definitiva, passata in giudicato
La Corte europea chiarisce che le cause di esclusione previste all'articolo 45, paragrafo 2, lettere d) e g) della direttiva 2004/18 conferiscono alle amministrazioni aggiudicatrici il potere di escludere chi nell'esercizio della propria attività professionale abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall'amministrazione aggiudicatrice, o che si sia reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel fornire le informazioni che possono essere richieste ai fini della selezione qualitativa delle offerte, oppure che non abbia fornito dette informazioni, senza che sia necessario attendere una sentenza di condanna passata in giudicato.
Pertanto in base al diritto comunitario è legittima la decisione di revoca per ragioni correlate alla valutazione dell'opportunità, dal punto di vista dell'interesse pubblico, di condurre a termine una procedura di aggiudicazione, tenuto conto, fra l'altro, dell'eventuale modifica del contesto economico o delle circostanze di fatto o, ancora, delle esigenze dell'amministrazione aggiudicatrice interessata (articolo ItaliaOggi Sette del 05.01.2015).

EDILIZIA PRIVATAAntenne tv, il comune non può negare sanatorie.
L'antenna resta dov'è: il comune non può negare all'impianto la sanatoria motivando il rigetto con questioni squisitamente privatistiche e non per violazioni di norme urbanistiche o ambientali.

È quanto emerge dalla sentenza 10.12.2014 n. 3050, pubblicata dalla II Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Annullato il provvedimento dell'amministrazione che dice no al titolo abilitativo. Il punto è che manca la prova che il trasmettitore della radio installato sul tetto dell'edificio impedisca agli altri condomini di utilizzare il lastrico solare o di installarvi a loro volta impianti.
Il giudice amministrativo ricorda le regole del codice civile: né l'assemblea dei condomini né il regolamento da questa approvato possono vietare l'installazione di singole antenne ricetrasmittenti, in quanto in tale modo non sono disciplinate le modalità di uso della cosa comune, ma viene a essere menomato il diritto di ciascun condomino all'uso del tetto di copertura, incidendo sul diritto di proprietà comune.
In particolare bisogna tenere presente la disposizione ex articolo 1102 Cc: ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, a patto che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Nella specie manca la dimostrazione che l'impianto della discordia pregiudichi l'uso e il godimento del lastrico solare da parte degli altri condomini o impedisca loro di installare antenne o impianti simili. Spese compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 10.01.2015).

EDILIZIA PRIVATAPaesaggio, meno limiti sul solare. Falla normativa per il Tar Piemonte.
Non è sempre necessario il parere positivo della soprintendenza per installare il fotovoltaico su tetto in aree sottoposte a vincolo paesaggistico. Al contrario è necessaria per il solare termico in aree vincolate. Per installare il fotovoltaico su tetto in aree sottoposte a vincolo paesaggistico l'autorizzazione della soprintendenza è necessaria solo in alcuni casi, come negli immobili di pregio o nei centri storici. Ma soprattutto: la normativa è talmente contorta e stratificata che la volontà del legislatore risulta di difficile interpretazione. Urge un intervento chiarificatore.

Questo è quanto si legge nella
sentenza 10.12.2014 n. 1946 del TAR Piemonte, Sez. I..
Oggetto del ricorso è l'installazione di un impianto fotovoltaico aderente al tetto in area sottoposta a vincolo. Il ricorrente chiedeva l'annullamento dell'atto con cui il comune comunicava la sussistenza del vincolo paesaggistico. Alla luce di ciò i lavori potevano iniziare solo dopo l'acquisizione del parere della soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici.
I giudici del Tar Piemonte accolgono il ricorso del ricorrente sostenendo che «pur non essendo condivisibile in toto l'assunto della difesa di parte ricorrente, secondo cui, in materia, deve trovare sempre applicazione la procedura semplificata di comunicazione preventiva al comune, senza necessità alcuna di tutela dei vincoli ambientali e paesaggistici, neppure lo è la tesi della difesa erariale secondo cui, in presenza di qualsivoglia vincolo ex dlgs n. 42/2004, risulta sempre imprescindibile il parere della sovrintendenza.
Per il fotovoltaico, si legge nella sentenza, anche se si è in area vincolata (come le aree del piano paesistico, le fasce di rispetto di 150 metri dai corsi d'acqua o le aree sottoposte a vincolo ambientale generalizzato) non serve il parere della soprintendenza, a meno che non si tratti delle «ville, i giardini e i parchi che si distinguono per la loro non comune bellezza» e «i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri e i nuclei storici» (articolo ItaliaOggi del 09.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze violate, demolizione anche se si è in buona fede. Balconi. Tutti i condòmini sono legittimati ad agire.
I balconi troppo vicini non evitano la demolizione, anche se nel frattempo l’orientamento delle sentenze sul calcolo delle distanze è cambiato.
Nella sentenza 02.12.2014 n. 25501 la II Sez. civile della Corte di Cassazione ha deciso sulla causa nata dalla domanda dei proprietari di un immobile, i quali avevano chiesto la demolizione di alcuni manufatti presenti in un edificio confinante, denunciando la violazione delle distanze legali tra costruzioni.
Questa domanda era stata proposta sia nei confronti della società costruttrice del fabbricato, sia nei confronti di coloro che si erano poi resi acquirenti dei singoli appartamenti del costituito condominio. Il tribunale di Sassari e la Corte d’appello di Cagliari avevano dato ragione a chi aveva promosso la causa, condannando ad arretrare, fino al rispetto della distanza dal confine stabilita dal vigente Piano regolatore comunale, l’ingresso del vano scala condominiale, i balconi e le canne fumarie.
Fra i diversi motivi del ricorso per cassazione, rigettato dalla Suprema Corte, il compratore di uno degli appartamenti oggetto della parziale demolizione aveva opposto il proprio legittimo affidamento e la propria buona fede, stante la regolarità urbanistica dell’edificio, dotato di regolare concessione edilizia, e tenuto conto che al momento dell’acquisto la giurisprudenza non considerava i balconi aperti ai fini del computo delle distanze.
Ma è ormai pacifico che, mentre non vanno calcolate come riferimento per le distanze le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, costituiscono invece «corpo di fabbrica» i balconi, anche se scoperti, che siano di apprezzabile profondità e ampiezza.
Il fatto che decenni orsono questa conclusione fosse controversa nelle aule dei tribunali non vale a fondare oggi l’affidamento incolpevole di chi avesse comprato all’epoca un immobile provvisto di balconi troppo vicini alla proprietà confinante: come spiega ora la Cassazione, infatti, perché si possa pretendere che un mutamento interpretativo non sia retroattivo (ovvero, perché si instauri la cosiddetta tutela da “prospective overruling”), si deve essere in presenza di un imprevedibile ribaltamento della giurisprudenza su di una regola del processo, e non su norme di carattere sostanziale, quali quelle attinenti ai limiti della proprietà.
È invece altrettanto evidente che, qualora l’immobile venduto risulti costruito in violazione delle distanze legali, in favore del compratore opera verso il venditore la garanzia per evizione, ai sensi degli articoli 1483 e 1484 del Codice civile, o la garanzia prevista dall’articolo 1489.
Quanto ai rapporti tra edifici condominiali e proprietà confinanti, si consideri come la domanda di arretramento di un fabbricato in condominio per violazione delle distanze legali deve essere proposta necessariamente nei confronti di tutti i condòmini, e non invece nei confronti dell’amministratore del condominio.
Così come tutti i condòmini, e non soltanto quelli che siano proprietari degli appartamenti direttamente prospettanti verso le costruzioni limitrofe che violano le distanze legali, sono legittimati ad agire per far valere il rispetto delle relative disposizioni.
Le norme sulle distanze sono poi applicabili anche nei rapporti tra i condòmini di uno stesso edificio condominiale, purché compatibili, però, con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime.
Pertanto, se il giudice accerti che non sia alterata la destinazione delle parti condominiali e non sia impedito il pari uso agli altri partecipanti, riterrà legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra le proprietà contigue. Né possono operare le norme del Codice civile in tema di distanze, nell’ipotesi dell’installazione di impianti indispensabili ai fini di una reale abitabilità delle singole unità immobiliari
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALo sportello unico (SUAP) realizza il principio della semplificazione amministrativa in relazione allo svolgimento delle attività di impresa inserendo in un unico centro organizzativo tutte le vicende riguardanti l’attività produttiva.
Tuttavia, dalle competenze dello sportello unico esula tutto ciò che attiene, tra l’altro, alla regolarità edilizia dei beni strumentali all’attività di impresa.

1.– Il Comune di Pescasseroli, con ordinanza del 27.12.2011, n. 7350, ha accertato la realizzazione da parte del sig. F.D.P. di taluni interventi edilizi, nell’ambito del «Camping Sant’Andrea», privi di titolo autorizzativo, disponendone la demolizione. In particolare, è stata rilevata la costruzione abusiva di: a) «centoquarantaquattro manufatti provvisti di rete idrica, fognante, elettrica e gas, collegati tra loro da dieci strade carrabili e pedonali»; b)
«un’area adibita ad area giochi ed area camper (…)»; c) «un ponticello in acciaio». Nell’ordinanza vengono elencati (numeri 1-144) i suddetti manufatti con indicazione della destinazione e delle dimensioni.
...
4.– Con il primo motivo l’appellante deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto la legittimità di tutti i manufatti in ragione del fatto che gli stessi erano stati indicati nella procedura avviata con la segnalazione certificata di inizio attività presentata, in data 03.07.2011, presso lo Sportello unico delle attività produttive (SUAP) del patto territoriale e conclusasi positivamente nel dicembre 2011. In particolare, si afferma che, in tale sede, l’amministrazione avrebbe positivamente valutato anche gli aspetti di rilevanza edilizia.
Il motivo non è fondato.
In ambito statale l’art. 38, la cui rubrica reca «impresa in un giorno», del decreto-legge 25.06.2008 n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 13, dispone, per quanto interessa in questa sede, che con regolamento statale di delegificazione si dia attuazione al principio secondo cui «lo sportello unico costituisce l’unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti la sua attività produttiva e fornisce, altresì, una risposta unica e tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni comunque coinvolte nel procedimento
».
In attuazione del suddetto decreto-legge è stato adottato il decreto del Presidente della Repubblica 07.09.2010, n. 160 (Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell'articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 13), il quale ha disposto, tra l’altro, che il SUAP sia l’«unico soggetto pubblico di riferimento territoriale per tutti i procedimenti che abbiano ad oggetto l'esercizio di attività produttive e di prestazione di servizi, e quelli relativi alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o trasferimento, nonché cessazione o riattivazione delle suddette attività». Tale decreto prevede un procedimento automatizzato per le attività sottoposte a segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) e un procedimento ordinario per le altre attività (artt. 5-8).
In ambito regionale la legge della Regione Abruzzo 23.10.2003, n. 16 (Disciplina delle strutture ricettive all'aria aperta) prevede che:
a) l’apertura, il trasferimento e le modifiche concernenti l’operatività delle strutture turistico ricettive all’aria aperta sono soggetti a SCIA (comma 1);
b) la SCIA è corredata dalle autocertificazioni e dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà comprovanti il possesso dei requisiti di legge, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, unitamente agli elaborati tecnici necessari, «fermo restando il rispetto delle norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, urbanistiche, edilizie, ambientali, paesaggistiche, culturali, di pubblica sicurezza, igienico sanitarie, sulla prevenzione incendi e sull’accessibilità».
Dall’analisi complessiva della normativa statale e regionale sopra riporta emerge chiaramente come lo sportello unico realizzi il principio della semplificazione amministrativa in relazione allo svolgimento delle attività di impresa inserendo in un unico centro organizzativo tutte le vicende riguardanti l’attività produttiva. Dalle competenze dello sportello unico esula tutto ciò che attiene, tra l’altro, alla regolarità edilizia dei beni strumentali all’attività di impresa (in questo senso, sia pure con riferimento ad una diversa normativa regionale, si veda Corte costituzionale, sentenza 28.10.2013, n. 251).
Ne consegue che, nella fattispecie in esame, non è possibile desumere la legittimità degli interventi realizzati soltanto perché gli stessi erano indicati in una segnalazione certificata di inizio attività avente ad oggetto, per espressa disposizione di legge, esclusivamente profili di rilevanza amministrativa afferenti allo svolgimento dell’attività di impresa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.11.2014 n. 5777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIGare pubbliche aperte alle università. Consiglio di Stato. Il sostegno statale non falsa il principio di concorrenza.
Le università degli studi sono a tutti gli effetti operatori economici che possono partecipare alle gare pubbliche e non violano la concorrenza per il solo fatto di beneficiare di finanziamenti o altre agevolazioni dallo Stato.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 21.11.2014 n. 5767.
I giudici hanno accolto il ricorso di una università che, in qualità di capogruppo di un raggruppamento temporaneo di imprese, aveva vinto la gara a procedura aperta bandita dalla Regione per la redazione dei piani di gestione dei siti compresi nella rete europea Natura 2000, ma poi annullata in primo grado per la contestazione di un’impresa del settore in merito in particolare al diritto di tali enti ad assumere la veste di appaltatori di servizi.
A parere del collegio, il Tar ha mal interpretato quanto chiarito dalla Corte di giustizia europea (sentenza n. 305/2009) che al contrario, sulla base della direttiva comunitaria 2004/18 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi (recepita in Italia dal Codice degli appalti, legge n. 163/2006), ha sancito il «principio della massima apertura al mercato a tutti gli operatori pubblici e privati, prediligendo un’interpretazione estensiva della nozione di “ente pubblico”».
Per la Corte Ue, quest’ultima apre gli appalti pubblici di servizi «a soggetti che non perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un’impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato, quali le università e gli istituti di ricerca nonché i raggruppamenti costituiti da università e amministrazioni pubbliche». Secondo la sentenza di Palazzo Spada, la concorrenza non è falsata quando, come nel caso in esame, non c’è in particolare «alcuna prova di connessione tra il sostegno pubblico e la partecipazione e l’aggiudicazione di una gara d’appalto» in quanto per le università questi affidamenti «qualificabili più propriamente “attività commerciali” anziché “lucrative” generano utili che sono imputati ai capitoli di gestione inerenti le finalità istituzionali di didattica e ricerca».
Par condicio salva poi, hanno spiegato i giudici, anche quando una delle mandanti del gruppo sia, come nella fattispecie, una società di capitali che agisce per fini di lucro dato che «il limite funzionale previsto per l’università è connesso alla funzione principale della ricerca e dell’insegnamento» e che tali enti, con la nascita del ministero dell’Università (legge n.168/1989), incassano in prevalenza «contributi volontari, proventi di attività, rendite, frutti e alienazioni del patrimonio, atti di liberalità e corrispettivi di contratti e convenzioni»
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il danno ingiusto, cagionato dalla Pubblica amministrazione in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa dei tempi di definizione del procedimento amministrativo, ha come presupposto la considerazione per cui, per il cittadino, il tempo è un bene della vita, la cui perdita ha un costo che è suscettibile di ristoro patrimoniale in presenza dei dovuti presupposti.
In linea di principio la pretesa al danno da ritardo può essere formulata rispettivamente:
- in termini di indennizzo da “mero ritardo” di cui all’art. 2-bis secondo comma della legge n. 241/1990 che concerne l’ipotesi del ristoro per la mancata emissione di un provvedimento finale al momento della scadenza del termine assegnato. Il superamento del termine finale di un procedimento amministrativo non comporta l’illegittimità dell'atto tardivo ma resta sul piano della responsabilità civile dell’Amministrazione e non include come conseguenza giuridica del ritardo l’illegittimità dell'atto tardivamente adottato.
Il decorso del “...termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte… per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi…” implica la corresponsione di un indennizzo da liquidare con le modalità di un emanando regolamento ministeriale (al momento supplito dalla Direttiva 09.01.2014 - Dipartimento Funzione Pubblica 09.01.2014).
Come è evidente dalla sua qualificazione in termini di “indennizzo", in tal caso il ristoro è configurabile per il solo decorso del termine anche in casi di situazioni fortuite, di forza maggiore, errore scusabile, ecc. e prescinde anche dall’elemento della “colpa”;
- nella richiesta di un risarcimento vero e proprio, previsto dall’art. 2-bis, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241. Tale fattispecie –che può concorrere con l’indennizzo di cui sopra- deve essere ricondotto relativamente all’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità all’alveo proprio dell’art. 2043 c.c. .
In conseguenza il danno da ritardo risarcibile non può essere presunto iuris et de jure in collegamento al semplice passaggio del tempo, ma è necessaria la verifica della sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), nonché quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante).
Come la Sezione ha già avuto modo di puntualizzare, in tale ipotesi, la valutazione dell’elemento della colpa non può dunque essere limitata al meccanico procrastinarsi dell’adozione del provvedimento finale, bensì alla dimostrazione che la Pubblica amministrazione abbia agito con dolo o colpa grave.
La domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex art. 2043 c.c., può essere accolta dal giudice solo se l’istante dimostri che il provvedimento favorevole avrebbe potuto, o dovuto, essergli rilasciato già ab origine e che sussistono tutti i requisiti costitutivi dell’illecito aquiliano, tra i quali elementi univoci indicativi della sussistenza della colpa in capo alla pubblica amministrazione.

Il motivo va respinto.
Il danno ingiusto, cagionato dalla Pubblica amministrazione in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa dei tempi di definizione del procedimento amministrativo, ha come presupposto la considerazione per cui, per il cittadino, il tempo è un bene della vita, la cui perdita ha un costo che è suscettibile di ristoro patrimoniale in presenza dei dovuti presupposti.
In linea di principio la pretesa al danno da ritardo può essere formulata rispettivamente:
- in termini di indennizzo da “mero ritardo” di cui all’art. 2-bis secondo comma della legge n. 241/1990 che concerne l’ipotesi del ristoro per la mancata emissione di un provvedimento finale al momento della scadenza del termine assegnato. Il superamento del termine finale di un procedimento amministrativo non comporta l’illegittimità dell'atto tardivo ma resta sul piano della responsabilità civile dell’Amministrazione e non include come conseguenza giuridica del ritardo l’illegittimità dell'atto tardivamente adottato (Cons. di Stato Sez. VI, 06.04.2010 n. 1913). Il decorso del “...termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte… per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi…” implica la corresponsione di un indennizzo da liquidare con le modalità di un emanando regolamento ministeriale (al momento supplito dalla Direttiva 09.01.2014 - Dipartimento Funzione Pubblica 09.01.2014). Come è evidente dalla sua qualificazione in termini di “indennizzo", in tal caso il ristoro è configurabile per il solo decorso del termine anche in casi di situazioni fortuite, di forza maggiore, errore scusabile, ecc. e prescinde anche dall’elemento della “colpa” (Consiglio di Stato sez. IV 22/05/2014 n. 2638);
- nella richiesta di un risarcimento vero e proprio, previsto dall’art. 2-bis, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241. Tale fattispecie –che può concorrere con l’indennizzo di cui sopra- deve essere ricondotto relativamente all’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità all’alveo proprio dell’art. 2043 c.c. .
In conseguenza il danno da ritardo risarcibile non può essere presunto iuris et de jure in collegamento al semplice passaggio del tempo, ma è necessaria la verifica della sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), nonché quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante).
Come la Sezione ha già avuto modo di puntualizzare, in tale ipotesi, la valutazione dell’elemento della colpa non può dunque essere limitata al meccanico procrastinarsi dell’adozione del provvedimento finale, bensì alla dimostrazione che la Pubblica amministrazione abbia agito con dolo o colpa grave (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 20/05/2014 n. 2543).
La domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex art. 2043 c.c., può essere accolta dal giudice solo se l’istante dimostri che il provvedimento favorevole avrebbe potuto, o dovuto, essergli rilasciato già ab origine e che sussistono tutti i requisiti costitutivi dell’illecito aquiliano, tra i quali elementi univoci indicativi della sussistenza della colpa in capo alla pubblica amministrazione.
Risultano pertanto inconferenti non solo i richiami giurisprudenziali effettuati da parte appellante, ma anche l’asserita possibilità per il danneggiato, nel giudizio risarcitorio di provare la colpa dell’amministrazione “anche solo in via indiziaria” (p. 11 appello): al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che “in relazione ai danni da mancato tempestivo esercizio dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del pregiudizio, specie perché ha natura patrimoniale, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo in quanto surroga l’onere di allegazione dei fatti; e se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici per fornire la prova dell’esistenza del danno e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise e, quando il soggetto onerato di tale allegazione non vi adempie, non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno a norma dell’art. 1226 c.c. perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato” (Cons. Stato, sez. V, 21.06.2013 n. 3405) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2014 n. 5663 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine di configurare l’interesse al ricorso, così come previsto dall’art. 100 c.p.c..
In presenza del suddetto requisito “non è necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si considerano i consistenti oneri economici collegati al contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile diminuzione della qualità panoramica, ambientale, paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul mercato".
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione necessaria e sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al ricorso

Secondo un orientamento costante di questo Collegio, dal quale non v’è motivo per discostarsi, la c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine di configurare l’interesse al ricorso, così come previsto dall’art. 100 c.p.c. (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.01.2013 n. 361; id. 17.09.2012 n. 4926; id. 29.08.2012 n. 4643; id. 10.07.2012 n. 4088; C.G.A. della Regione Siciliana 04.06.2013 n. 553).
In presenza del suddetto requisito “non è necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si considerano i consistenti oneri economici collegati al contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile diminuzione della qualità panoramica, ambientale, paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul mercato
" (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 18.04.2014 n. 1995).
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione necessaria e sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10.06.2014 n. 2965; id. 13.03.2014 n. 1210; id. 13.11.2012 n. 5715; id. 17.09.2012, n. 4924)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2014 n. 5662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal citato articolo si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il vincolo di rispetto cimiteriale pertanto preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo.
Sul carattere assoluto del vincolo di inedificabilità nascente dalla fascia di rispetto cimiteriale non incide neppure la circostanza della preesistenza o meno del vincolo all'esecuzione delle opere.
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Con riferimento alle fasce di rispetto cimiteriale, l’art. 28 della l. 166/2002 ha parzialmente riscritto l’art. 338 del RD 1265/1934, prevedendo che, fermo restando il divieto di costruire nuovi edifici all’interno della fascia di rispetto cimiteriale, all’interno di quest’ultima, “per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c), e d) del primo comma dell’art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457” (ovvero manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia).
La giurisprudenza all’interno delle c.d. “zone di rispetto” ha sempre negato ogni tipo di attività edilizia “costruttiva”, ferme restando i soli corpi di fabbrica già esistenti all’interno di detta fascia.
La normativa citata, però, ha sollevato il dibattito giurisprudenziale concernente la portata dell’art. 338, c. 5, del R.D. n. 1265/1934 ove si prevede che: “Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell’area, autorizzando l’ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
Parte della giurisprudenza, infatti, ritiene che l’espressione “intervento urbanistico” si riferisca solamente alle opere pubbliche o di pubblica utilità al fine di non snaturare la ratio stessa della legge.
Al contrario, altra parte della giurisprudenza ricomprende in questa espressione anche le opere realizzate dai privati.
Il Collegio aderisce alla prima opzione interpretativa, in quanto si tratta di materia disciplinata direttamente dalla legge e non suscettibile, pertanto, di deroghe, da parte di altra disposizione normativa se non di pari o superiore rango ed in base alle seguenti considerazioni.
Con le modifiche apportate dall’art. 28 della legge n. 188 cit. il limite all’edificabilità privata è stato comunque fissato in 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, posto che il primo comma dell’art. 338 r.d. m. 1265 cit. nella nuova formulazione stabilisce espressamente che “È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
Dalla lettura di siffatta norma si ricava, in primo luogo, che il limite all’edificabilità privata non è più ancorato alla “fascia di rispetto” (che può variare in relazione alle determinazioni adottate dall’Autorità Comunale), ma è legislativamente fissata in ogni caso entro il limite di 200 metri da calcolarsi dal perimetro dell’impianto cimiteriale.
Il regime vincolistico così delineato con riferimento all’attività edilizia dei privati appare più che in linea con la ratio delle deroghe ed eccezioni al limite dei 200 metri previste dalla legge medesima che sono ammesse in funzione dell’ampliamento dei cimiteri esistenti o della costruzione di nuovi cimiteri (comma 4), nonché nei casi in cui l’amministrazione comunale debba dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico. Trattasi in entrambi i casi di eccezioni giustificate da esigenze pubblicistiche correlate alla stessa edilizia cimiteriale, oppure ad altri interventi pubblici purché compatibili con le concorrenti ragioni di tutela della zona (comma 5). Sulla chiara limitazione della deroga in oggetto alle sole “opere pubbliche e di interesse pubblico” indicate dall’art. 28, comma 5, legge cit. si è espresso altresì di recente il Consiglio di Stato con la sentenza sez. V 29.03.2006 n. 1593.
Pertanto non vi è motivo di dubitare della ragionevolezza di una interpretazione che svincola l’ambito di operatività del vincolo cimiteriale di inedificabilità dalla delimitazione “in concreto” delle fasce di rispetto da parte del Comune, avuto proprio riguardo al rilievo preminente di carattere igienico-sanitario del vincolo di tutela cimiteriale che può ammettere deroghe solo in presenza di concorrenti ragioni pubblicistiche, sempre compatibilmente con le esigenze sottese all’esistenza del vincolo.

Al riguardo, la giurisprudenza, ormai consolidata, ha affermato che "in materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal citato articolo si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale” (ex multis C.d.S., V, 14.09.2010, n. 6671; C.d.S., IV 12.03.2007, n. 1185, TAR Sicilia, Palermo, III, 18.01.2012, n. 77; TAR Campania, Napoli, IV, 29.11.2007, n. 15615; Tar Lombardia-Milano, 11.07.1997, n. 1253).
Il vincolo di rispetto cimiteriale pertanto preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo (cfr. C.d.S., V, 03.05.2007, n. 1933 e del 12.11.1999, n. 1871).
Sulla preesistenza del manufatto rispetto al vincolo, le tesi di parte ricorrente non hanno trovato riscontro probatorio, atteso che, contrariamente a quanto asserito in ricorso, il vincolo in questione non è stato imposto per la prima volta con la delibera di CC del 2005, che ha solo ridotta a 50 metri l’estensione della relativa zona di rispetto, peraltro ad altri fini, come si chiarirà in seguito. L'individuazione di fasce di rispetto intorno ai cimiteri, infatti risale,prim'ancora che alla legge n. 166/2002, all'art.338 del testo unico delle leggi sanitarie n. 1265/1934, ed è fatto notorio che il cimitero di Fuorigrotta sia di impianto ottocentesco.
Sul carattere assoluto del vincolo di inedificabilità nascente dalla fascia di rispetto cimiteriale non incide neppure la circostanza della preesistenza o meno del vincolo all'esecuzione delle opere (TAR Campania Napoli, sez. III, 04/04/2012, n. 1621).
Va da ultimo esaminata l’eccezione difensiva che fa leva sulla avvenuta riduzione della estensione della fascia di rispetto cimiteriale a 50 mt. giusta il disposto dell’art. 27 del piano cimiteriale comunale.
Osserva il Collegio che, con riferimento alle fasce di rispetto cimiteriale, l’art. 28 della l. 166/2002 ha parzialmente riscritto l’art. 338 del RD 1265/1934, prevedendo che, fermo restando il divieto di costruire nuovi edifici all’interno della fascia di rispetto cimiteriale, all’interno di quest’ultima, “per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c), e d) del primo comma dell’art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457” (ovvero manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia).
La giurisprudenza all’interno delle c.d. “zone di rispetto” ha sempre negato ogni tipo di attività edilizia “costruttiva”, ferme restando i soli corpi di fabbrica già esistenti all’interno di detta fascia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 476 e Consiglio di Stato, sez. V, 12.11.1999, n. 1871).
La normativa citata, però, ha sollevato il dibattito giurisprudenziale concernente la portata dell’art. 338, c. 5, del R.D. n. 1265/1934 ove si prevede che: “Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell’area, autorizzando l’ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
Parte della giurisprudenza, infatti, ritiene che l’espressione “intervento urbanistico” si riferisca solamente alle opere pubbliche o di pubblica utilità al fine di non snaturare la ratio stessa della legge (Consiglio di Stato, sez. V, 29.03.2006 n. 1593; Id., 03.05.2007, n. 1934).
Al contrario, altra parte della giurisprudenza ricomprende in questa espressione anche le opere realizzate dai privati (cfr. in tal senso TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 22.02.2007, n. 189, ma si veda anche TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 20.03.3009, n. 322; Id., 18.05.2007, n. 973; Id., 26.06.2007, n. 1348. Lo stesso TAR Veneto, sez. II, nella sentenza del 27.07.2009 n. 2226).
Il Collegio aderisce alla prima opzione interpretativa, in quanto si tratta di materia disciplinata direttamente dalla legge e non suscettibile, pertanto, di deroghe, da parte di altra disposizione normativa se non di pari o superiore rango ed in base alle seguenti considerazioni.
Con le modifiche apportate dall’art. 28 della legge n. 188 cit. il limite all’edificabilità privata è stato comunque fissato in 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, posto che il primo comma dell’art. 338 r.d. m. 1265 cit. nella nuova formulazione stabilisce espressamente che “È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
Dalla lettura di siffatta norma si ricava, in primo luogo, che il limite all’edificabilità privata non è più ancorato alla “fascia di rispetto” (che può variare in relazione alle determinazioni adottate dall’Autorità Comunale), ma è legislativamente fissata in ogni caso entro il limite di 200 metri da calcolarsi dal perimetro dell’impianto cimiteriale.
Il regime vincolistico così delineato con riferimento all’attività edilizia dei privati appare più che in linea con la ratio delle deroghe ed eccezioni al limite dei 200 metri previste dalla legge medesima che sono ammesse in funzione dell’ampliamento dei cimiteri esistenti o della costruzione di nuovi cimiteri (comma 4), nonché nei casi in cui l’amministrazione comunale debba dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico. Trattasi in entrambi i casi di eccezioni giustificate da esigenze pubblicistiche correlate alla stessa edilizia cimiteriale, oppure ad altri interventi pubblici purché compatibili con le concorrenti ragioni di tutela della zona (comma 5). Sulla chiara limitazione della deroga in oggetto alle sole “opere pubbliche e di interesse pubblico” indicate dall’art. 28, comma 5, legge cit. si è espresso altresì di recente il Consiglio di Stato con la sentenza sez. V 29.03.2006 n. 1593.
Pertanto non vi è motivo di dubitare della ragionevolezza di una interpretazione che svincola l’ambito di operatività del vincolo cimiteriale di inedificabilità dalla delimitazione “in concreto” delle fasce di rispetto da parte del Comune, avuto proprio riguardo al rilievo preminente di carattere igienico-sanitario del vincolo di tutela cimiteriale che può ammettere deroghe solo in presenza di concorrenti ragioni pubblicistiche, sempre compatibilmente con le esigenze sottese all’esistenza del vincolo.
Non può accogliersi neppure l’ulteriore censura con cui parte ricorrente ritiene assentibile l’intervento, in quanto configurabile quale mero ampliamento o manutenzione dell’edificato esistente. Assume il ricorrente che il divieto ad edificare, come previsto dall’art. 28 della legge n. 188 cit., riguarda solo i nuovi edifici e non anche quelli preesistenti, rispetto ai quali la norma pone una specifica normativa di dettaglio, contenuta nell’ultimo comma della stessa norma.
Tuttavia, ad avviso del Collegio, non può censurarsi la qualificazione operata dall’amministrazione quale intervento di “nuova edificazione”, posto che si tratta di sopraelevazione di un terzo piano, nonché realizzazione di ulteriore vano sul lastrico solare, e quindi di manufatti suscettibili di autonoma utilizzazione e costituenti incremento del carico residenziale (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.11.2014 n. 5942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa l. 06.08.1967 n. 765, come noto, ha esteso all’intero territorio comunale l’obbligo di munirsi di titolo abilitativo ad edificare, con ciò innovando l’art. 31 della L. 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica) che, in precedenza, circoscriveva tale obbligo esclusivamente agli immobili situati nei centri urbani.
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Le risultanze delle mappe catastali non sono idonee a comprovare l’epoca di realizzazione dei manufatti, occorrendo, evidentemente, idonea visura catastale riportante gli immobili o altra prova documentale sufficiente al conseguimento di siffatta prova (ad esempio, un contratto notarile che faccia menzione delle opere, indicandone una data certa di preesistenza e fornendone una adeguata descrizione, un contratto agrario debitamente registrato che menzioni i manufatti, etc.).
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Nessuna valenza probatoria può essere attribuita all’affermazione del ricorrente, resa nella forma della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, trattandosi di dichiarazione testimoniale proveniente dalla stessa parte che intenderebbe giovarsi delle sue risultanze e quindi in contrasto col tradizionale principio processuale nemo testis in causa propria cui si ispira l'art. 246 c.p.c..
Né d'altra parte sarebbe consentito al Collegio di porre a fondamento della decisione le dichiarazioni sostitutive rese.
Ciò in quanto la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà non è utilizzabile nel processo amministrativo, trattandosi in sostanza di un mezzo surrettizio per introdurre in quest'ultimo una prova testimoniale atipica: essa quindi non ha alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione.
Invero, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione di un’opera edilizia ai fini dell’ottenimento del condono o dell’esenzione ratione temporis della necessità di un titolo edilizio grava sul privato richiedente e comporta che anche la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è sufficiente a tale fine, essendo necessari ulteriori riscontri documentali, eventualmente anche indiziari, purché altamente probanti. Tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto soltanto quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli od unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova, seppure presuntiva, sull’epoca di realizzazione dell’abuso.

La censura è destituita di giuridico fondamento.
In punto di fatto, è priva di riscontro probatorio la pretesta vetustà dei manufatti e, in specie, la loro risalenza al periodo antecedente all’entrata in vigore della L. 06.08.1967 n. 765 che, come noto, ha esteso all’intero territorio comunale l’obbligo di munirsi di titolo abilitativo ad edificare, con ciò innovando l’art. 31 della L. 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica) che, in precedenza, circoscriveva tale obbligo esclusivamente agli immobili situati nei centri urbani.
E’ chiaro che parte ricorrente sostiene tale posizione al fine di contestare la natura abusiva dell’opera, ritenendo che il manufatto non richiedesse il previo rilascio del titolo concessorio: tuttavia, trattasi di asserzione contestata dalla difesa dell’amministrazione e non sufficientemente comprovata dal ricorrente.
Né tale conclusione appare smentita delle conclusioni rese nella relazione tecnica di parte.
Sotto un primo profilo, le risultanze delle mappe catastali non sono idonee a comprovare l’epoca di realizzazione dei manufatti, occorrendo, evidentemente, idonea visura catastale riportante gli immobili o altra prova documentale sufficiente al conseguimento di siffatta prova (ad esempio, un contratto notarile che faccia menzione delle opere, indicandone una data certa di preesistenza e fornendone una adeguata descrizione, un contratto agrario debitamente registrato che menzioni i manufatti, etc.). Viceversa, la produzione documentale esibita in giudizio non è idonea a conseguire lo scopo probatorio perseguito da parte ricorrente in quanto inidonea a dare certezza sulla preesistenza del manufatto rispetto al 1967 e in ordine alla reale consistenza e caratteristica costruttiva del bene.
Si aggiunga che nelle mappe catastali in questione vi è riportato un unico manufatto mentre nel caso in esame si discorre di due distinte costruzioni, con la conseguenza che, in mancanza di ulteriori elementi probatori, non è possibile appurare la presunta vetustà di entrambe le opere delle quali, pertanto, va ribadita la natura abusiva.
Quanto poi alle dichiarazioni sostitutive valgano le seguenti considerazioni.
Nessuna valenza probatoria può essere attribuita all’affermazione del ricorrente, resa nella forma della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, trattandosi di dichiarazione testimoniale proveniente dalla stessa parte che intenderebbe giovarsi delle sue risultanze e quindi in contrasto col tradizionale principio processuale nemo testis in causa propria cui si ispira l'art. 246 c.p.c., (TAR Lecce, 07.02.2007 n. 328).
Né d'altra parte sarebbe consentito al Collegio di porre a fondamento della decisione le dichiarazioni sostitutive rese dai Sig.ri A.F. e E.C..
Ciò in quanto la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà non è utilizzabile nel processo amministrativo, trattandosi in sostanza di un mezzo surrettizio per introdurre in quest'ultimo una prova testimoniale atipica: essa quindi non ha alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.08.2012 n. 4527; Sez. IV, 03.05.2005 n. 2094; TAR Puglia, Lecce, 10.10.2013 n. 2116).
Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione di un’opera edilizia ai fini dell’ottenimento del condono o dell’esenzione ratione temporis della necessità di un titolo edilizio grava sul privato richiedente e comporta che anche la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è sufficiente a tale fine, essendo necessari ulteriori riscontri documentali, eventualmente anche indiziari, purché altamente probanti. Tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto soltanto quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli od unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova, seppure presuntiva, sull’epoca di realizzazione dell’abuso (TAR Umbria, 30.08.2013 n. 462; TAR Liguria, Sez. I, 04.12.2012 n. 1565; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 18.01.2011 n. 280)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.11.2014 n. 5894 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia urbanistica il presupposto per l'adozione dell'ingiunzione di demolizione delle opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità della concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera.
Il potere di reprimere abusi edilizi non è soggetto né a prescrizione, né a decadenza stante il carattere permanentemente illegale dell'abuso edilizio medesimo, per cui non è configurabile alcun possibile affidamento del privato sulla legittimità di opere edilizie abusive.

Con un ulteriore motivo di gravame il ricorrente lamenta la mancata specificazione delle ragioni di interesse pubblico per le quali, nonostante il tempo decorso dalla realizzazione dei manufatti, l’amministrazione ha ritenuto di dover comminare la sanzione demolitoria.
La censura non coglie nel segno.
In materia urbanistica difatti il presupposto per l'adozione dell'ingiunzione di demolizione delle opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità della concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera.
Il potere di reprimere abusi edilizi non è soggetto né a prescrizione, né a decadenza stante il carattere permanentemente illegale dell'abuso edilizio medesimo, per cui non è configurabile alcun possibile affidamento del privato sulla legittimità di opere edilizie abusive.
Le considerazioni illustrate conducono al rigetto del ricorso introduttivo avverso l’ordine di demolizione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.11.2014 n. 5894 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata specificazione dell’area di sedime e della sua esatta estensione non inficiano la legittimità del gravato atto acquisitivo, così come la circostanza che, come si legge nei motivi aggiunti, il ricorrente non sia proprietario dell’area di sedime (benché nel ricorso introduttivo si sia dichiarato titolare del fondo).
Ciò in quanto, con specifico riferimento a detta area di sedime, il provvedimento in questione non può produrre effetto nei confronti del ricorrente; viceversa il proprietario del suolo pretermesso potrà poi autonomamente gravarsi nei confronti del provvedimento sanzionatorio per quanto attiene sia alla omessa notifica del provvedimento sia alla mancata specificazione della porzione immobiliare, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell’atto acquisitivo.

Parimenti infondati si appalesano i rilievi che attengono al successivo provvedimento acquisitivo disposto dal Comune ai sensi dell’art. 31, terzo comma, del D.P.R. 380/2001.
In particolare, è inaccoglibile la censura con cui è stata dedotta la violazione dell'art. 7 della L. n. 241/1990 per omessa comunicazione di avvio del procedimento culminato con l'adozione del provvedimento impugnato. Difatti, come previsto dall'art. 21-octies della L. 241/1990, l'annullamento giurisdizionale dell'atto impugnato è precluso dalla correttezza sostanziale dello stesso. Nel caso specifico l'acquisizione al patrimonio comunale appare legittima alla luce dell'incontestata inottemperanza all’ordine di demolizione citato nel provvedimento impugnato e della natura vincolata del provvedimento (TAR Lazio, Roma, 30.06.2009 n. 6326).
La mancata specificazione dell’area di sedime e della sua esatta estensione non inficiano la legittimità del gravato atto acquisitivo, così come la circostanza che, come si legge nei motivi aggiunti, il ricorrente non sia proprietario dell’area di sedime (benché nel ricorso introduttivo si sia dichiarato titolare del fondo).
Ciò in quanto, con specifico riferimento a detta area di sedime, il provvedimento in questione non può produrre effetto nei confronti del ricorrente; viceversa il proprietario del suolo pretermesso potrà poi autonomamente gravarsi nei confronti del provvedimento sanzionatorio per quanto attiene sia alla omessa notifica del provvedimento sia alla mancata specificazione della porzione immobiliare, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell’atto acquisitivo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.11.2014 n. 5894 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOSi è dell’avviso di aderire al prevalente orientamento giurisprudenziale che ritiene comunque legittimo il recupero delle somme (indebitamente erogate) non tenendo conto della buona fede del percipiente, considerando il recupero come un atto dovuto non rinunziabile espressione di una funzione pubblica vincolata.
In capo all’Amministrazione che abbia effettuato un pagamento indebitamente dovuto ad un proprio dipendente si riconosce, perciò, una posizione soggettiva che deve essere qualificata come diritto soggettivo alla restituzione, alla quale si contrappone, avendo gli atti che si riferiscono ad un credito derivante da un rapporto di impiego natura paritetica e non autoritativa, una correlativa obbligazione del dipendente; qualora l'Amministrazione intenda recuperare le somme indebitamente corrisposte, non deve annullare l'atto di corresponsione delle stesse in quanto l'indebito si configura come tale per l'obiettivo contrasto con una norma, con la conseguenza che non vi è obbligo di motivare circa l'interesse pubblico che induce ad effettuare il recupero patrimoniale.
In definitiva la Sezione, come già in precedenti perfettamente identici alla fattispecie in esame, ritiene di fare proprio il principio della normale ripetibilità di tali crediti da parte della P.A., soprattutto nel caso di somme di lieve entità, ciò perché il recupero delle somme indebitamente corrisposte ai dipendenti pubblici ha natura di atto dovuto ex art. 2033 c.c., con la conseguenza che la buona fede del percettore rileva ai soli fini delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle esigenze di vita del dipendente. Pertanto lo stato psicologico del debitore, in ipotesi in buona fede, di per sé non preclude l'attività di recupero dell'indebito, ma impone l'obbligo di una più approfondita valutazione degli interessi implicati, in particolare sotto il profilo del grado di lesione di quello del dipendente.
Ne consegue che, nel caso come in trattazione in cui il sacrificio imposto con il recupero è di lieve entità, l'interesse del dipendente a trattenere gli emolumenti percepiti non può prevalere su quello pubblico alla ripetizione delle somme erogate indebitamente, che è di per sé sempre attuale e concreto.

2. Il Collegio ritiene, con riguardo alla problematica del recupero delle somme erroneamente corrisposte dall'Amministrazione, di non ignorare come proprio questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, VII, 12.12.2007, n. 16222) abbia talvolta sostenuto che siffatto recupero non costituirebbe un atto assolutamente vincolato, trattandosi, nella sostanza, di un atto di autotutela che dovrebbe, pertanto, tener conto del "peso" del recupero sulla situazione concreta, dell'affidamento ingenerato nel dipendente, nonché dello stato di buona fede dello stesso (Cons. Stato, VI, 28.06.2007, n. 3773; V, 13.07.2006, n. 4413; 15.10.2003, n. 6291), attesa la natura discrezionale puntualizzata dallo stesso art.21-nonies, comma 1, della Legge n. 241/1990.
3. Tuttavia, nella fattispecie, si è dell’avviso di aderire al prevalente orientamento giurisprudenziale che ritiene comunque legittimo il recupero delle somme non tenendo conto della buona fede del percipiente, considerando il recupero come un atto dovuto non rinunziabile espressione di una funzione pubblica vincolata (ex multis, Cons. Stato, IV, 24.05.2007, n. 2651; 12.05.2006, n. 2679; 22.9.2005, nn. 4964 e n. 4983; TAR Toscana, I, 08.11.2004, n. 5465; TAR Sicilia, Catania, II, 12.08.2003, n. 1272; TAR Lazio, Latina, 11.02.1993, n. 143).
In capo all’Amministrazione che abbia effettuato un pagamento indebitamente dovuto ad un proprio dipendente si riconosce, perciò, una posizione soggettiva che deve essere qualificata come diritto soggettivo alla restituzione, alla quale si contrappone, avendo gli atti che si riferiscono ad un credito derivante da un rapporto di impiego natura paritetica e non autoritativa, una correlativa obbligazione del dipendente; qualora l'Amministrazione intenda recuperare le somme indebitamente corrisposte, non deve annullare l'atto di corresponsione delle stesse in quanto l'indebito si configura come tale per l'obiettivo contrasto con una norma, con la conseguenza che non vi è obbligo di motivare circa l'interesse pubblico che induce ad effettuare il recupero patrimoniale (TAR Campania, Napoli, IV, 25.02.1998, n. 681).
3.1 In definitiva la Sezione, come già in precedenti perfettamente identici alla fattispecie in esame (ex plurimis, 02.12.2009, nn. 8285 e 8264), ritiene di fare proprio il principio della normale ripetibilità di tali crediti da parte della P.A., soprattutto nel caso di somme di lieve entità, ciò perché il recupero delle somme indebitamente corrisposte ai dipendenti pubblici ha natura di atto dovuto ex art. 2033 c.c., con la conseguenza che la buona fede del percettore rileva ai soli fini delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle esigenze di vita del dipendente. Pertanto lo stato psicologico del debitore, in ipotesi in buona fede, di per sé non preclude l'attività di recupero dell'indebito, ma impone l'obbligo di una più approfondita valutazione degli interessi implicati, in particolare sotto il profilo del grado di lesione di quello del dipendente.
Ne consegue che, nel caso come in trattazione in cui il sacrificio imposto con il recupero è di lieve entità, l'interesse del dipendente a trattenere gli emolumenti percepiti non può prevalere su quello pubblico alla ripetizione delle somme erogate indebitamente, che è di per sé sempre attuale e concreto (Cons. Stato, IV, 08.06.2009, n. 3516; V, 23.03.2004, n. 1535; TAR Veneto, III, 02.04.2009, n. 1072; TAR Lazio, Roma, I-ter, 08.06.2009, n. 5466; I, 01.04.2008, n. 2764; TAR Campania, Salerno, I, 07.03.2006, n. 237).
Nonostante il richiamo ad un precedente della Sezione (n. 4391 del 2007) che si era limitato a denunciare l’insufficienza della motivazione, per le ragioni dianzi esposte non appaiono, dunque, meritevoli di accoglimento neanche le censure dedotte in sede ricorsuale in ordine all’obbligo per l'Amministrazione di fornire una specifica motivazione delle ragioni del recupero, anche perché l'obbligo ex lege di recupero preclude la facoltà di rinunciare agli effetti favorevoli del decorso del tempo (Cons. Stato, IV, 11.12.2001, n. 6197) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 12.11.2014 n. 5835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAi sensi dell'art. 83, comma 5, d.lgs. 12.04.2006, n. 163:
- deve intendersi rimessa alla stazione appaltante la facoltà di determinare i criteri di valutazione delle offerte, che vanno però prefissati nella lex specialis, e ciò al fine di consentire a tutti i partecipanti alla procedura di avere sin dall'inizio contezza di tutti gli elementi che incidono sulla partecipazione, sulla valutazione delle offerte e, quindi, in ultima analisi sull'aggiudicazione; rientra quindi nella discrezionalità della stazione appaltante predeterminare l'incidenza del prezzo, in rapporto alla qualità della proposta, nella valutazione dell'offerta e la relativa determinazione;
- l'esercizio di tale discrezionalità non può essere oggetto di censura del giudice, a meno che non venga rilevato l'eccesso di potere per irragionevolezza e arbitrarietà.

V.1.1. La censura è priva di pregio.
V.1.2. Contrariamente all’assunto di parte, i criteri di valutazione possiedono un livello di dettaglio che consente di orientare in maniera oggettiva l’attribuzione delle preferenze e la formulazione di un’offerta consapevole anche alla luce delle prestazioni oggetto del servizio puntualmente descritte.
V.1.3. Invero, secondo orientamento giurisprudenziale condiviso, nelle gare pubbliche, ai sensi dell'art. 83, comma 5, d.lgs. 12.04.2006, n. 163:
- “deve intendersi rimessa alla stazione appaltante la facoltà di determinare i criteri di valutazione delle offerte, che vanno però prefissati nella lex specialis, e ciò al fine di consentire a tutti i partecipanti alla procedura di avere sin dall'inizio contezza di tutti gli elementi che incidono sulla partecipazione, sulla valutazione delle offerte e, quindi, in ultima analisi sull'aggiudicazione; rientra quindi nella discrezionalità della stazione appaltante predeterminare l'incidenza del prezzo, in rapporto alla qualità della proposta, nella valutazione dell'offerta e la relativa determinazione” (Cons. di St., sez. V, 17.07.2014, n. 3769);
- “l'esercizio di tale discrezionalità non può essere oggetto di censura del giudice, a meno che non venga rilevato l'eccesso di potere per irragionevolezza e arbitrarietà” (Cons. di St., sez. VI, 17.06.2014, n. 3043)(TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 12.11.2014 n. 5808 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIUna volta accertata la correttezza dell'applicazione del metodo del confronto a coppie ovvero quando non ne sia stato accertato l'uso distorto o irrazionale, non c'è spazio alcuno per un sindacato del giudice amministrativo nel merito dei singoli apprezzamenti effettuati ed in particolare sui punteggi attribuiti nel confronto a coppie, che indicano il grado di preferenza riconosciuto ad ogni singola offerta in gara, con l'ulteriore conseguenza che la motivazione delle valutazioni sugli elementi qualitativi risiede nelle stesse preferenze attribuite ai singoli elementi di valutazione considerati nei raffronti con gli stessi elementi delle altre offerte.
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L'attribuzione del punteggio secondo il delineato metodo fondato su un'indicazione preferenziale ancorata a indici predeterminati non richiede di per sé alcuna estrinsecazione logico - argomentativa della preferenza, giacché il giudizio valutativo deve ritenersi insito nell'assegnazione delle preferenze, dei coefficienti e di conseguenza del punteggio … non può dubitarsi che l'obbligo della motivazione nel caso di specie è da considerarsi assolto in quanto, come emerge dagli atti di causa ed in particolare dei verbali della commissione di gara, per tutti i singoli elementi qualitativi di valutazione i singoli commissari hanno espresso la propria preferenza, attribuendo un determinato punteggio nel confronto a coppie (in virtù dell'apposito sistema, proprio di tale metodo di valutazione, secondo cui 1 indicava la parità, 2 la preferenza minima, 3 la preferenza piccola, 4 la preferenza media, 5 la preferenza grande e 6 la preferenza massima), dalla cui somma è derivato poi il punteggio attribuito ad ogni progetto offerto nell'ambito della griglia di valutazione contenuta nel bando di gara.
Non può pertanto ragionevolmente dubitarsi che …. le determinazioni della commissione di gara in ordine alla valutazione dei singoli elementi costituenti il progetto-offerta (delle ricorrenti e degli altri concorrenti) erano pienamente intelligibili, sia pur non attraverso lo strumento della motivazione argomentativa, ma attraverso i singoli valori di preferenza espressi da ogni singolo commissario per i singoli elementi di valutazione.
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Nella procedura di affidamento mediante confronto a coppie, pertanto, “la "motivazione aritmetica" è sufficiente e non richiede alcun supplemento motivazionale nel caso in cui un bando abbia indicato criteri valutativi dettagliati e adeguati rispetto allo specifico oggetto del contratto messo a gara.
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E' inammissibile per difetto di interesse il ricorso dell’impresa terza classificata nella graduatoria finale di una gara d'appalto, qualora essa abbia lamentato l'anomalia soltanto dell'offerta dell'aggiudicataria e non anche dell'offerta dell'impresa collocatasi al secondo posto in graduatoria.

V.1.7. Quanto al difetto di motivazione, la censura è parimenti infondata posto che:
- “Una volta accertata la correttezza dell'applicazione del metodo del confronto a coppie ovvero quando non ne sia stato accertato l'uso distorto o irrazionale, non c'è spazio alcuno per un sindacato del giudice amministrativo nel merito dei singoli apprezzamenti effettuati ed in particolare sui punteggi attribuiti nel confronto a coppie, che indicano il grado di preferenza riconosciuto ad ogni singola offerta in gara, con l'ulteriore conseguenza che la motivazione delle valutazioni sugli elementi qualitativi risiede nelle stesse preferenze attribuite ai singoli elementi di valutazione considerati nei raffronti con gli stessi elementi delle altre offerte” (TAR Lazio, Latina, sez. I, 17.03.2014, n. 212; Cons. di St., sez. VI, 19.03.2013, n. 1600);
- “l'attribuzione del punteggio secondo il delineato metodo fondato su un'indicazione preferenziale ancorata a indici predeterminati non richiede di per sé alcuna estrinsecazione logico - argomentativa della preferenza, giacché il giudizio valutativo deve ritenersi insito nell'assegnazione delle preferenze, dei coefficienti e di conseguenza del punteggio … non può dubitarsi che l'obbligo della motivazione nel caso di specie è da considerarsi assolto in quanto, come emerge dagli atti di causa ed in particolare dei verbali della commissione di gara, per tutti i singoli elementi qualitativi di valutazione i singoli commissari hanno espresso la propria preferenza, attribuendo un determinato punteggio nel confronto a coppie (in virtù dell'apposito sistema, proprio di tale metodo di valutazione, secondo cui 1 indicava la parità, 2 la preferenza minima, 3 la preferenza piccola, 4 la preferenza media, 5 la preferenza grande e 6 la preferenza massima), dalla cui somma è derivato poi il punteggio attribuito ad ogni progetto offerto nell'ambito della griglia di valutazione contenuta nel bando di gara.
Non può pertanto ragionevolmente dubitarsi che …. le determinazioni della commissione di gara in ordine alla valutazione dei singoli elementi costituenti il progetto-offerta (delle ricorrenti e degli altri concorrenti) erano pienamente intelligibili, sia pur non attraverso lo strumento della motivazione argomentativa, ma attraverso i singoli valori di preferenza espressi da ogni singolo commissario per i singoli elementi di valutazione
" (Cons. di Stato, sez. V, 28.02.2012, n. 1150);
- "nella procedura di affidamento mediante confronto a coppie, pertanto, “la "motivazione aritmetica" è sufficiente e non richiede alcun supplemento motivazionale nel caso in cui un bando abbia indicato criteri valutativi dettagliati e adeguati rispetto allo specifico oggetto del contratto messo a gara” (Cons. di St., sez. V, 28.03.2013, n. 1838).
V.2. Con ulteriore motivo di gravame, la ricorrente deduce l’anomalia dell’offerta del R.T.I. aggiudicatario, sostenendo, conseguentemente, che lo stesso dovesse essere escluso dalla gara.
V.2.1. Il motivo presenta profili di evidente inammissibilità per carenza di interesse della ricorrente in ragione del posizionamento in graduatoria, ottava classificata, e dell’omessa impugnativa di quanti la precedono.
Si è, in particolare, osservato, secondo un principio di ordine generale pienamente condiviso dal Collegio, che: “E' inammissibile per difetto di interesse il ricorso dell’impresa terza classificata nella graduatoria finale di una gara d'appalto, qualora essa abbia lamentato l'anomalia soltanto dell'offerta dell'aggiudicataria e non anche dell'offerta dell'impresa collocatasi al secondo posto in graduatoria” (Cons. di St., Ad. plen., 03.02.2014, n. 8) e, ciò vale, a maggior ragione, qualora il collocamento della ricorrente sia sensibilmente inferiore
(TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 12.11.2014 n. 5808 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere.
Infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi”.
Ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione”.

In relazione ai dedotti vizi motivazionali dell’atto, il Collegio evidenzia come la giurisprudenza abbia da tempo affermato che in presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 12.11.2014 n. 5804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve effettuarsene una valutazione globale atteso che “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione.
Né è possibile scomporre un’unica operazione edificatoria in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, dovendo piuttosto procedersi a valutarla nella sua unitarietà.

Deve, inoltre, rilevarsi che l’intervento edilizio realizzato, pur riguardando una pluralità di opere deve essere globalmente considerato.
Questa Sezione ha affermato che nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsene una valutazione globale atteso che “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione” (cfr. in tali sensi, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, sentenze n. 5835 del 18.12.2013, n. 1114 del 05.03.2012; n. 26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584); né è possibile scomporre un’unica operazione edificatoria in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, dovendo piuttosto procedersi a valutarla nella sua unitarietà (così la giurisprudenza sopra riportata e così già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16.07.2001, n. 2955)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 12.11.2014 n. 5804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di pertinenza civilistico e quello urbanistico/edilizio sono da tenere distinti, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono in tutta evidenza sull’assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire.
Senza considerare che le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione".
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Al fine di verificare se una determinata opera ha carattere precario, che è condizione per l'accertamento della non necessarietà del rilascio della relativa concessione edilizia, occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.
Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante, ed è legittima l'ordinanza di demolizione di opere che, pur difettando del requisito dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili), consistano in una struttura destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai proprietari.

A parte il rilievo che i ricorrenti nemmeno indicano rispetto a quale manufatto le opere sarebbero pertinenziali vale quanto da tempo affermato dalla giurisprudenza secondo cui “il concetto di pertinenza civilistico e quello urbanistico/edilizio sono da tenere distinti, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono in tutta evidenza sull’assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire” (cfr. Consiglio di stato, sez. V, 07.04.2011, n. 2159).
Senza considerare che le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione” (Tar Campania, questa sesta sezione, n. 5835 del 18.12.2013 e n. 2245 del 30.04.2013, nel cui seno è richiamata Cass. Penale, sezione terza, pronuncia n. 2733 del 31.01.1994).
Quest’ultimo ragionamento può essere ripercorso relativamente ai realizzati sbancamenti e ampliamenti edilizi descritti nell’ordinanza di demolizione.
Quanto alla asserita precarietà (per i materiali utilizzati) delle opere descritte sub i), p) q) ed s) del ricorso (sostituzione della copertura di un terrazzo in lamiera completa di controsoffittatura in legno; manufatto di 19,5 mq.; baracca di 75 mq., tettoia di 36 mq in legno) la giurisprudenza ha evidenziato che "Al fine di verificare se una determinata opera ha carattere precario, che è condizione per l'accertamento della non necessarietà del rilascio della relativa concessione edilizia, occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire. Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante, ed è legittima l'ordinanza di demolizione di opere che, pur difettando del requisito dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili), consistano in una struttura destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai proprietari" (Consiglio di Stato, sez. III, 12.09.2012, n. 4850).
Nella fattispecie, non vi è alcun indice (né viene dedotto – la precarietà è meramente affermata) della sussistenza dei requisiti sopra richiamati per considerare le opere precarie e non soggette a permesso di costruire.
Relativamente al mutamento di destinazione d’uso sub h) si rileva che la contestazione riguarda la realizzazione delle relative opere e non il mutamento in sé (che nella prospettazione di parte ricorrente non avrebbe determinato aumento del carico urbanistico)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 12.11.2014 n. 5804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza dei prescritti titoli, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
Con riguardo al paventato rischio di danneggiare con la demolizione la struttura preesistente si evidenzia che in presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza dei prescritti titoli, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 12.11.2014 n. 5804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOCondominio. Rumore, dai tribunali tutela rafforzata.
Hanno diritto a far interrompere le immissioni di rumore e a ottenere il risarcimento del danno (sia patrimoniale che non patrimoniale) i condomini nei cui appartamenti si propagano rumori provenienti dall’impianto di riscaldamento condominiale che superano la «normale tollerabilità». Pertanto non è necessario verificare il rispetto o meno dei limiti riportati nel Dpcm del 5 dicembre 1997 dedicato alle immissioni sonore provenienti da impianti interni all’edificio.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza 31.10.2014 n. 23283.
La Cassazione ricorda che «l’articolo 844 del Codice civile è uno strumento di tutela che consente di ottenere la cessazione del comportamento lesivo», oltre al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto di proprietà nonché «al risarcimento del danno non patrimoniale ove siano stati lesi i valori della persona, in particolare, della salute di chi ha il diritto di godere il bene compromesso dall’emissione». Per la Cassazione non conta la circostanza che l’impianto di riscaldamento fosse a norma e mantenuto a regola d’arte «da personale tecnico qualificato».
Quindi, il Dpcm del 05.12.1997 è irrilevante nei rapporti tra privati. Se la Corte accerta che le immissioni sono intollerabili in base all’articolo 844 del Codice civile scatta in automatico la responsabilità prevista dall’articolo 2043 del Codice civile e il connesso risarcimento del danno e non serve, pertanto, la prova di un comportamento doloso o colposo del condominio. Di conseguenza, per la Cassazione, la normativa di diritto pubblico (cioè il Dpcm) fissa solo le linee guida generali per la tutela dell’interesse collettivo.
La situazione, in ogni caso, è più complessa di come appare. Infatti, l’articolo 6-ter del decreto legge 208/2008 stabilisce che «nell’accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche, ai sensi dell’articolo 844 del Codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e i regolamenti che disciplinano sorgenti e la priorità di un determinato uso». La formulazione può apparire oscura, ma il suo obiettivo è chiaro: privilegiare la normativa in materia acustica, che nel caso in esame sarebbe il Dpcm del 1997, rispetto ai criteri abitualmente impiegati in sede civilistica.
La sentenza 23283 segue altre due pronunce della Cassazione del medesimo tenore, vale a dire la 2319/2011 e la 939/2011, confermando un orientamento che elimina le certezze create dal Dl 208/2008. Le due sentenze del 2011, in realtà, fanno riferimento a cause iniziate prima dell’entrata in vigore del Dl 208/2008; nelle loro motivazioni non citano il Dl e quindi non affrontano l’apparente incongruenza tra le decisioni e la nuova legge. La conseguenza di questo “garbuglio” normativo è stata l’incremento della litigiosità sul tema delle immissioni sonore, poiché il criterio della “tollerabilità” rende nella pratica intollerabile qualunque rumore appena avvertibile.
Sul tema si attendono ora le nuove disposizioni del Governo, che con la Legge europea 2013-bis (legge 161/2014) ha ricevuto la delega per adeguarsi alle regole europee sull’inquinamento acustico, inclusa la semplificazione delle procedure autorizzative in materia di requisiti acustici passivi degli edifici
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.01.2015).
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MASSIMA
L'accertamento del superamento della soglia della normale tollerabilità di cui all'art. 844 cod. civ., comporta nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente in "re ipsa", l'esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell'uso, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'art. 2043 c.c. e, specificamente, per quanto concerne il danno alla salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2059 cod. civ..

PUBBLICO IMPIEGONei concorsi si salva la brutta. La scaletta degli appunti non è segno di riconoscimento. Il Tar Puglia: lo schema risponde a un'esigenza di un'ordinata stesura del compito.
Nell'ambito di concorsi e selezioni pubbliche non può essere interpretato come segno di riconoscimento la scaletta appuntata dal candidato sul foglio recante la traccia della prova giacché essa risponde all'evidente esigenza di organizzare la stesura del compito scritto.

Lo ha stabilito il TAR Puglia-Bari, Sez. II, con la sentenza 10.10.2014 n. 1178.
Nel caso di specie un giovane medico ha partecipato ad una selezione pubblica per l'accesso alla scuola di specializzazione in ortopedia e traumatologia. Il candidato si è visto escludere dalla graduatoria finale perché ha utilizzato uno dei fogli forniti dalla commissione per redigere una scaletta, poi inserita nella busta assieme agli altri elaborati della prova scritta. Secondo la commissione di gara, gli appunti allegati dal candidato avrebbero rappresentato un chiaro segno di riconoscimento, sicché il provvedimento di esclusione sarebbe stato un atto dovuto.
Il medico ha, quindi, proposto ricorso innanzi al tribunale amministrativo. Il giudice ha accolto la domanda cautelare proposta, per l'effetto sospendendo il provvedimento di esclusione e ordinando all'amministrazione di correggere lo scritto. All'esito della valutazione obbligata il candidato è risultato vincitore. Il provvedimento cautelare è stato peraltro confermato in sede d'appello dal Consiglio di stato, adito da altra partecipante rimasta lesa dalla vittoria posticipata del ricorrente.
La sentenza in esame tratta il merito della vicenda, e conferma l'apprezzamento reso in sede cautelare in ordine alla illegittimità del provvedimento di esclusione adottato dalla commissione.
Secondo il Tar, infatti, la busta del candidato escluso non avrebbe contenuto alcun segno di riconoscimento propriamente detto. I giudici amministrativi hanno osservato come, nell'ambito dei concorsi pubblici, la regola dell'anonimato non possa essere interpretata nel senso che ogni astratta possibilità di diversità tra gli elaborati vada qualificata come segno di riconoscimento, bensì «solo quando il segno oggetto di esame assuma un carattere anomalo rispetto alle ordinarie manifestazioni del pensiero»; in quest'ottica, si spiega, «non può essere interpretato quale segno di riconoscimento la cd. scaletta appuntata dal candidato sul foglio recante la traccia della prova giacché risponde all'evidente esigenza di organizzare la stesura del compito scritto».
Il Tar si spinge oltre, affermando come i contrassegni che si rinvengono nella minuta (dove si riportano, ad esempio, l'elenco degli argomenti da sviluppare o l'orario di inizio e termine della prova) rimangono ad ogni modo relegati al segreto della busta, sicché «non assumono un carattere oggettivamente e incontestabilmente anomalo, tale che ad essi possa ricondursi l'astratta idoneità a fungere da elemento identificativo delle generalità del concorrente».
Sulla scorta di queste argomentazioni il ricorso è stato accolto anche nel merito, e il candidato è riuscito ad aggiudicarsi il posto nella scuola di specializzazione. La pronuncia merita apprezzamento per la lettura solidaristica offerta dai giudici del Tar e, tuttavia, il principio di diritto affermato non scioglie ogni dubbio sul problema della identificabilità dei candidati: anche gli appunti in «brutta», infatti, possono rappresentare un elemento efficace per falsare i risultati della selezione sol che si consideri la possibilità, per la commissione, di prenderne visione siccome allegata agli altri elaborati della prova (articolo ItaliaOggi Sette del 05.01.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Appalto senza concessione ko. Il contratto non può essere convalidato retroattivamente. La Cassazione non trascura però l'esistenza di orientamenti meno severi in materia.
Il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo, avendo un oggetto illecito, per violazione delle norme imperative in materia urbanistica e non può essere convalidato in virtù di una concessione posticipata con effetti retroattivi.

Lo ha stabilito la seconda sezione civile della Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 09.10.2014 n. 21350.
Nel caso concreto il proprietario di un terreno alluvionato ha concluso un contratto di appalto per la realizzazione di un fabbricato da adibire a stalla. L'appaltatore ha realizzato il lavoro commissionato ma, all'atto della richiesta di pagamento, si è visto eccepire il rifiuto del committente. All'imprenditore non è rimasto che rivolgersi al giudice ordinario, il quale ha concesso un decreto ingiuntivo per la somma dei lavori pattuita dai due contraenti.
Il committente si è prontamente opposto al decreto spiegando il perché non volesse onorare i suoi debiti: da un lato, ha osservato come il contratto di appalto fosse nullo a cagione della mancanza del permesso di costruire per realizzare la stalla; dall'altro ha sottolineato al giudice l'inadempimento dell'appaltatore, reo di avergli consegnato l'opera finita con grande ritardo. L'opposto si è difeso rimarcando che l'assenza del permesso fosse circostanza nota fin dall'inizio, e comunque irregolarità sanata con effetto retroattivo dalla concessione successivamente rilasciata dall'ente; quanto al ritardo nella consegna, invece, il costruttore ha insistito nel ribadire che questo non poteva essergli addebitato perché dovuto alle condizioni climatiche che avevano reso impossibile il rispetto delle tempistiche.
Il tribunale, con sentenza confermata in sede di appello, ha rigettato l'opposizione del committente. Per entrambi i giudici di merito, infatti, doveva escludersi la nullità del contratto di appalto, essendo stato accertato che la concessione edilizia, già richiesta prima dell'inizio dei lavori, era stata rilasciata posticipatamente, con efficacia retroattiva e con idoneità, anche in ipotesi di concessione in sanatoria, a determinare l'estinzione del reato di abuso edilizio, in relazione all'accertamento di conformità e di non contrasto delle opere in questione con lo strumento urbanistico vigente.
Il committente, fermo nel non voler onorare il proprio debito, si è rivolto, in ultima istanza, alla Suprema corte di cassazione cui è stato chiesto l'annullamento della sentenza della Corte territoriale. Il proprietario ha insistito nel ribadire la nullità del contratto stipulato finanche in presenza della concessione retroattiva, stante l'impossibilità di procede alla convalida di un contratto nullo. Di talché, ha osservato la difesa del costruttore, una cosa sono gli effetti prodotti dalla concessione sul piano amministrativo e penale, altro è la validità del contratto a monte.
Gli Ermellini, nel dare ragione al ricorrente, hanno tacciato di erroneità l'apprezzamento svolto dalla Corte d'appello: la concessione edilizia, infatti, non può sopperire anche all'invalidità originaria cui va affetto il contratto d'appalto per l'esecuzione di lavori. La decisione dei giudici di secondo grado, secondo la Corte, si pone in contrasto con il principio, già in passato affermato, secondo cui «il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., avendo un oggetto illecito, per violazione delle norme imperative in materia urbanistica, con la conseguenza che tale nullità, una volta verificatasi, impedisce sin dall'origine al contratto di produrre gli effetti suoi propri e ne impedisce anche la convalida ai sensi dell'art. 1423 c.c.».
La Corte non trascura l'esistenza di orientamenti meno severi in materia: alcune Corti, in particolare, hanno precisato che «l'illiceità del contratto di appalto è ravvisabile solo ove esso sia, di fatto, eseguito in carenza di concessione e non pure per il solo fatto che quest'ultima sia rilasciata dopo la data della stipulazione del contratto, di appalto, ma prima della realizzazione dell'opera». In questi caso, si osserva, non sarebbe conforme alla «mens legis» la sanzione di nullità di un contratto il cui adempimento sia stato, per espressa volontà delle parti, posposto al previo ottenimento della concessione o autorizzazione richiesta.
Nella vicenda in esame, tuttavia, la concessione edilizia era pervenuta quando i lavori erano stati da tempo eseguiti. Non si verteva, quindi, nel caso di contratto sospensivamente condizionato, in forza di presupposizione, al previo ottenimento dell'atto amministrativo, mancante al momento della relativa stipulazione, bensì in quello di contratto interamente eseguito cui ha fatto seguito il provvedimento autorizzatorio. Per questo motivo la Corte ha rigettato il ricorso, per l'effetto affermando la nullità del contratto e ribadendo, ai fini civilistici, la totale irrilevanza dell'estinzione dell'illecito penale per abusivismo edilizio (articolo ItaliaOggi Sette del 12.01.2015).

APPALTI: RUP non può fare commissario di gara.
Con la sentenza 09.10.2014 n. 1630 il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, applica allo specifico settore degli appalti pubblici due principi cardine del diritto amministrativo: l’onere di tempestiva impugnazione del provvedimento immediatamente lesivo della sfera giuridica del privato e la necessità di una diversificazione dei ruoli all’interno del procedimento amministrativo ai fini dell’imparzialità dell’azione amministrativa.
Esaminiamo più nel dettaglio le due questioni.
A fronte del tentativo di uno degli operatori economici non aggiudicatari di denunciare l’esistenza di presunte contraddittorietà nei documenti di gara solo dopo l’aggiudicazione, il TAR ricorda come l’interesse del candidato al corretto svolgimento della procedura venga inciso già al momento della pubblicazione del bando deficitario della necessaria chiarezza, per cui è onere del soggetto, che da tale provvedimento ritenga di subire un pregiudizio, contestarne immediatamente la legittimità, senza attendere l’esito della procedura.
Infatti, l’inerzia inizialmente serbata di fronte ai presunti vizi della documentazione di gara si traduce, inevitabilmente, in un’acquiescenza tacita alle regole poste dalla lex specialis, con conseguente impossibilità di una sua successiva impugnazione.
Tale principio è, del resto, espresso dall’art. 120, co. 5, del D.Lgs. 02.07.2010, n. 104 recante il Codice del processo amministrativo, laddove precisa che i termini per il ricorso avverso gli atti relativi alle procedure di affidamento dei contratti pubblici decorrono, “per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione….. ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto”.
Correttamente, quindi, il TAR calabrese ha optato per la reiezione delle eccezioni sollevate dal ricorrente nei confronti del disciplinare di gara e del capitolato speciale d’appalto, dichiarandone l’inammissibilità per tardività.
Infatti, l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici che si consolidano sulla base di un provvedimento amministrativo, ancorché illegittimo, come un bando di gara, risulta preminente rispetto alla scelta del singolo di concorrere all’acquisizione di un certo bene della vita secondo delle regole che ritiene errate e che si riserva di contestare solo una volta che la competizione si sia conclusa con un epilogo a lui sfavorevole.
L’altro principio di diritto che il Tribunale amministrativo enuncia con particolare rigore è costituito dal divieto per il RUP di partecipare, come membro, alla Commissione giudicatrice di cui all’art. 84 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163.
Tale norma reca la disciplina dell’organo collegiale incaricato di valutare l’offerta tecnica degli operatori economici partecipanti ad una gara da aggiudicare secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La Commissione giudicatrice si inserisce, quindi, in una fase cruciale della procedura di gara, essendo chiamata ad esprimersi sul pregio tecnico-qualitativo della proposta formulata dal concorrente, secondo i criteri indicati dal bando di gara e dalla documentazione complementare.
Il comma quarto della disposizione in esame recita testualmente che: “I commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
Secondo il Collegio giudicante, tale norma è posta a presidio dell’imparzialità dell’azione amministrativa nello specifico settore degli affidamenti, in quanto volta ad impedire che nel procedimento formativo della volontà del soggetto pubblico rientrino figure che hanno svolto precedenti funzioni endoprocedimentali idonee a condizionarne il giudizio.
Per i giudici, il RUP è una di queste.
Le attività che competono al funzionario designato quale RUP sono, infatti, così numerose ed incisive che la sua partecipazione alla Commissione giudicatrice è ritenuta illegittima in quanto idonea a vulnerare l’esigenza di mantenere nettamente distinte, nell’ambito del procedimento amministrativo finalizzato all’affidamento di un contratto pubblico, le funzioni istruttoria e decidente, sul presupposto che chi è chiamato ad esprimere discrezionalmente le proprie valutazioni in tanti momenti cruciali della procedura finisce inevitabilmente per essere influenzato dalle posizioni ideologiche alle quali in tali occasioni è approdato e non è in grado, pertanto, di esprimere un giudizio obiettivo e neutrale sul pregio tecnico di un’offerta.
Una breve disamina dei compiti assegnati al RUP dal D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 recante il Codice dei contratti pubblici e dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207, che ne costituisce il Regolamento di attuazione ed esecuzione, contribuirà a lumeggiare le ragioni di questa incompatibilità.
L’art. 10 del Codice, rubricato “Responsabile delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”, nel descrivere i compiti che spettano al RUP, offre una significativa istantanea dell’ampiezza delle sue prerogative.
Già l’esordio della disposizione, che individua un responsabile “unico” per le fasi di progettazione, affidamento ed esecuzione di ogni contratto pubblico, è fortemente sintomatico della peculiarità delle funzioni svolte.
La competenza del RUP, infatti, non si limita alla conduzione della fase di individuazione del contraente che, essendo governata da norme di diritto amministrativo, troverebbe già nella Legge 07.08.1990, n. 241 la propria ragion d’essere; la sua competenza abbraccia anche la fase di esecuzione del contratto, nella quale, a mente dell’art. 2, co. 4, del Codice, trovano ingresso istituti e principi propri del diritto privato.
Particolarmente indicativa è, poi, l’espressione contenuta nel comma secondo dell’art. 10 in esame, secondo cui “Il responsabile del procedimento svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, e alla vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.
Il RUP, in sostanza, ha una competenza residuale, che attrae al proprio interno tutti i compiti non espressamente attribuiti dalla legge ad altre figure.
Dalla lettura delle varie disposizioni dedicate al RUP, in particolare degli artt. 9, 10, 272 e 273 del D.P.R. 05.10.2010, n. 207, che vanno nel dettaglio ad indicare i compiti enunciati in nuce dall’art. 10 del Codice, emerge l’attribuzione al RUP di un ruolo di impulso, di proposta, di indirizzo e coordinamento, di verifica delle attività svolte dagli altri organi della procedura nonché, ovviamente, della tradizionale funzione istruttoria, che accentra nel RUP ampi poteri nelle fasi più delicate dell’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione.
Sul RUP grava, in definitiva, un obbligo di risultato: quello di concludere il procedimento, affrontando e risolvendo tutti gli accidenti che gli si presentano lungo un percorso dove solo parzialmente la sua azione è vincolata da norme immediatamente precettive e, più spesso, la scelta della soluzione del caso concreto è lasciata al suo prudente apprezzamento, procedendo ad un delicato bilanciamento dei principi espressi dall’art. 2 del Codice.
A mente di tale norma, “l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l’affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità…”.
Come ogni branca dell’ordinamento, anche il settore degli appalti pubblici non si sottrae, infatti, alla constatazione dell’esistenza di inevitabili lacune normative che, tuttavia, non esimono il RUP dal cercare la regula iuris applicabile alla fattispecie che si offre al suo esame ed utile ai fini della prosecuzione del procedimento, compiendo, pur nel doveroso rispetto dei principi regolatori della materia, una scelta inevitabilmente discrezionale.
Tuttavia, i contesti in cui il RUP è chiamato ad esercitare i poteri discrezionali che gli competono ne fanno una figura “sbilanciata” che, in quanto tale, pregiudicherebbe la necessaria imparzialità richiesta alla Commissione giudicatrice.
Innanzitutto, il ruolo del RUP è decisivo nella determinazione delle clausole del bando di gara ed, in particolare, dei requisiti di partecipazione, quindi delle regole in base alle quali gli operatori economici concorreranno all’aggiudicazione (artt. 10, co. 1, lett. d) e 273, co. 1, lett. c) del Regolamento).
Nella modulazione dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale richiesti ai fini della partecipazione alla gara, il RUP deve evitare che siano fissati “senza congrua motivazione, limiti di accesso connessi al fatturato aziendale” (art. 41, co.2, del Codice per i requisiti economici) e che le informazioni richieste non eccedano l’oggetto dell’appalto (art. 42, co. 3, del Codice per i requisiti tecnici).
La previsione di tali limiti, che costituiscono diretta applicazione dei principi di proporzionalità e del favor partecipationis, non esclude, tuttavia, la presenza di ampi margini di discrezionalità in capo al soggetto incaricato di proporre, avallare ed, in ogni caso, determinare la lex specialis della procedura, ossia il RUP.
Altro passaggio cruciale del procedimento, nel quale troneggia la figura del RUP, è quello nel quale si decide dell’eventuale esclusione di un concorrente per le irregolarità della documentazione presentata dove, nonostante gli accorgimenti linguistici utilizzati dalle recenti novelle legislative, l’attività valutativa del RUP è ancora significativamente estesa.
Si pensi all’istituto della regolarizzazione disciplinata dall’art. 46 del Codice dove, se si era conosciuto un parziale ridimensionamento della discrezionalità del RUP con l’introduzione di un elenco tassativo delle cause di esclusione (comma 1-bis) e la corrispondente lettura datane dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici con la determinazione n. 4 del 10.10.2012, si è assistito ad una reviviscenza della discrezionalità del RUP con le ultime novità introdotte dal D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114.
Per effetto di tale intervento legislativo, è stato inserito un comma 2-bis nell’art. 38 che commina una sanzione pecuniaria, da quantificare in sede di bando, per i casi in cui i concorrenti presentino delle dichiarazioni sostitutive sul possesso dei requisiti di ordine generale irregolari o incomplete, salvo che si tratti di “casi di irregolarità non essenziali ovvero di mancanza o incompletezza di documenti non indispensabili”, nei quali è esclusa sia la richiesta di regolarizzazione che l’applicazione della sanzione.
Ancora una volta, si attribuisce al RUP un’ampia discrezionalità nel giudizio sull’essenzialità o indispensabilità del documento e, quindi, sulla sorte del candidato.
Tuttavia, ai sensi dell’art. 84, co. 4, del Codice, lo svolgimento di altri incarichi di natura amministrativa non solo impedisce l’assolvimento dell’incarico di commissario ma è, a sua volta, da questo impedito.
L’incarico di commissario crea, cioè, un’incompatibilità anche rispetto alla futura assunzione di incarichi tecnici ed amministrativi nell’ambito della medesima procedura.
Pertanto, il soggetto che facesse parte della Commissione giudicatrice non potrebbe successivamente essere designato quale RUP e procedere, di conseguenza, alla verifica dell’anomalia delle offerte.
Con riferimento a tale subprocedimento, il D.P.R. 05.10.2010, n. 207 ha definitivamente chiarito che compete al Responsabile del procedimento chiedere e valutare le giustificazioni di cui all’art. 87 del Codice ai concorrenti che abbiano presentato un’offerta sospettata di anomalia (art. 121 per i lavori pubblici e art. 284 per i servizi e le forniture).
La verifica dell’anomalia si colloca, quindi in una fase successiva all’apertura delle offerte, in particolare a valle dell’attribuzione dei punteggi per la componente tecnico-qualitativa.
Si comprende bene come il RUP non si troverebbe nella condizione di neutralità necessaria a scrutinare oggettivamente la congruità di un’offerta laddove, in un momento immediatamente antecedente, avesse espresso il proprio giudizio sul “peso” tecnico della stessa.
Si afferma, così, il principio secondo cui solo il rispetto dell’alterità dei ruoli, quale espressione anche di una funzione di controllo che ciascun organo della procedura deve assolvere sull’operato dell’altro, riesca a garantire quell’esigenza di imparzialità che, intesa quale necessaria equidistanza della Pubblica Amministrazione rispetto agli interessi in gioco, l’art. 97 della Costituzione codifica come canone fondamentale dell’azione amministrativa.
Perché, riprendendo una suggestiva espressione riportata nel testo della sentenza del 1° aprile 2009, n. 2070 del Consiglio di Stato, “icasticamente può quindi affermarsi che l’amministrazione o è imparziale o non è
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EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di mutamento di destinazione d'uso, anche senza opere, da artigianale a commerciale, trattandosi di un cambiamento implicante il passaggio ad una categoria funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico va rilevato che ai sensi dell'art. 19, d.P.R. n. 380 del 2001, il sopravvenuto mutamento della destinazione d'uso, anche in assenza di interventi, comporta comunque l'insorgenza del presupposto imponibile per la debenza del contributo dovuto, compreso quello relativo al costo di costruzione.
Ciò a maggior ragione se, come nel caso in esame, il cambio di destinazione è avvenuto con opere. E’ noto come il contributo relativo al costo di costruzione sia il corrispettivo dovuto in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si riveli produttiva di vantaggi economici per il suo autore; situazione, questa, che si verifica anche nel caso di mutamento d'uso, intendendo per tale ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che determini comunque un aumento del c.d. carico urbanistico.
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In caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio è un principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, la cui "ratio", come chiarito dalla giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente".
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Nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato dal ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di intervento da una classe contributiva originaria e meno "pesante" (artigianale) ad un'altra tipologia (commerciale), non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico urbanistico.
Si è trattato, cioè, di un cambio di destinazione d'uso intervenuto tra categorie autonome, quella artigianale e quella commerciale, che ha comportato un aumento del carico urbanistico con conseguente mutamento degli "standard".
Presupposto, questo, sufficiente a giustificare la richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione.
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I provvedimenti relativi alla determinazione degli oneri concessori e dell'oblazione non necessitano di motivazione in ordine alla somma indicata, in quanto risultano da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali indicazioni normative, senza che in proposito residui un margine di discrezionalità.
Non è pertanto configurabile, a carico dell'Amministrazione, un onere di specificare le ragioni della decisione adottata, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente.

1.2 Con riguardo alla qualificazione delle modifiche oggetto dell’istanza come mero cambio di destinazione d’uso con opere, la tesi di parte ricorrente non può essere condivisa. Difatti, nel caso di mutamento di destinazione d'uso, anche senza opere, da artigianale a commerciale, trattandosi di un cambiamento implicante il passaggio ad una categoria funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico va rilevato che ai sensi dell'art. 19, d.P.R. n. 380 del 2001, il sopravvenuto mutamento della destinazione d'uso, anche in assenza di interventi, comporta comunque l'insorgenza del presupposto imponibile per la debenza del contributo dovuto, compreso quello relativo al costo di costruzione (Tar Veneto 26.11.2012 1445).
Ciò a maggior ragione se, come nel caso in esame, il cambio di destinazione è avvenuto con opere. E’ noto come il contributo relativo al costo di costruzione sia il corrispettivo dovuto in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si riveli produttiva di vantaggi economici per il suo autore; situazione, questa, che si verifica anche nel caso di mutamento d'uso, intendendo per tale ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che determini comunque un aumento del c.d. carico urbanistico (CdS Sez. IV 14.10.2011 n. 5539).
1.3 Riguardo l’affermazione di parte ricorrente per cui gli oneri avrebbero dovuto essere rapportati al cambio di destinazione d’uso e non alla nuova costruzione, il Collegio osserva come, in caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio sia un principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, la cui "ratio", come chiarito dalla giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente" (CdS sez. V, 07.12.2010, n. 8620, 30.08.2013 n. 426).
Né la delibera di Consiglio Comunale n. 177 del 28.05.1979, citata dal ricorrente e allegata al ricorso, può essere interpretata nel senso di superare tale fondamentale principio, nella parte in cui prescrive l’abbattimento del costo di costruzione del 50% in caso di ristrutturazione con cambio di destinazione d’uso e senza modifica di strutture portanti.
Ancora, non possono essere applicati gli oneri di urbanizzazione previsti nella delibera di Giunta Comunale n. 2449 del 29.11.1994 per il caso di ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione. Difatti, la presenza di un cambio di destinazione d’uso da artigianale a commerciale, con il corredato aumento di carico urbanistico che caratterizza quest’ultima destinazione, indubbiamente lascia la possibilità all’Amministrazione di valutare se, ai fini della determinazione degli oneri, risulti prevalente il cambio di destinazione o il tipo di intervento (si veda in materia il condivisibile ragionamento in Tar Piemonte 27.03.2013 n. 381).
Come nota il Comune, in caso contrario si creerebbe un cortocircuito logico che renderebbe i cambi di destinazione senza opere, in presenza di aumento di carico urbanistico, più costosi di quelli con opere, qualora quest’ultimi fossero riconducibili allo sconto previsto per le ristrutturazioni dalla citata delibera 177/1979. Correttamente, il Comune ha quindi qualificato il cambio di destinazione da artigianale a commerciale come “nuova costruzione”, anche tenuto che la precedente costruzione, con destinazione artigianale non era tenuta al pagamento del costo di costruzione, con conseguente pagamento degli oneri “per differenza” ai sensi dell’art. 2 lett. f) del Regolamento Comunale.
1.4 Nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato dal ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di intervento da una classe contributiva originaria e meno "pesante" (artigianale) ad un'altra tipologia (commerciale), non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico urbanistico. Si è trattato, cioè, di un cambio di destinazione d'uso intervenuto tra categorie autonome, quella artigianale e quella commerciale, che ha comportato un aumento del carico urbanistico con conseguente mutamento degli "standard". Presupposto, questo, sufficiente a giustificare la richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione.
2 Ancora, con riguardo all’affermato calcolo errato dell’oblazione per avere computato metri cubi in eccesso, va specificato che i provvedimenti relativi alla determinazione degli oneri concessori e dell'oblazione non necessitano di motivazione in ordine alla somma indicata, in quanto risultano da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali indicazioni normative, senza che in proposito residui un margine di discrezionalità. Non è pertanto configurabile, a carico dell'Amministrazione, un onere di specificare le ragioni della decisione adottata, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente (da ultimo Tar Lazio Roma 18.02.2014 n. 2015).
Nel caso in esame, i calcoli effettuati dal Comune sono contestati con calcoli di parte (depositati unitamente al ricorso) che risultano generici, dato che il Comune medesimo ha depositato la documentazione fornita dal ricorrente per la sanatoria, ove i vani dei quali il ricorrente chiede lo scorporo in quanto ingressi comuni ad altre parti di edificio non sono stati indicati e scorporati (tavole 7 e 9). Il calcolo è stato quindi correttamente effettuato sulla base della documentazione presentata dal ricorrente medesimo, in allegato all’istanza di sanatoria (TAR Marche, sentenza 06.10.2014 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di legittimazione di un comitato di cittadino per la protezione degli interessi ambientale, la giurisprudenza, che con indirizzo uniforme e consolidato ha originariamente ritenuto sicuramente legittimate le sole associazioni protezionistiche espressamente individuate con apposito decreto ministeriale ai sensi del combinato disposto degli artt. 13 e 18 della legge n. 349 del 1986, al fine di evitare il possibile configurarsi di un’azione popolare, ha progressivamente ammesso la possibilità di valutare per caso la legittimazione (ad impugnare i provvedimenti amministrativi i materia di ambiente e conseguentemente anche quella ad intervenire nei relativi giudizi) anche in capo ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura giuridica), purché perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi di natura ambientale, abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità ed abbiano altresì un stabile collegamento con il territorio in cui è sito il bene che si assume leso.
E’ stato sottolineato che ai fini della legittimazione non è sufficiente il solo scopo associativo a rendere differenziato un interesse diffuso o adespota, facente capo alla popolazione nel suo complesso, come quello della salvaguardia dell’ambiente, né l’astratta titolarità del diritto all’informazione ambientale, specie quando tale scopo associativo si risolve nell’utilizzazione delle finalità sociali ed ambientali per superare la carenza delle concrete ragioni di proposizione dell’azione giurisdizionale, fermo restando che la necessaria sussistenza del requisito dello stabile collegamento con il territorio esclude la legittimazione di quei comitati occasionali, costituiti cioè proprio ed esclusivamente al fine di ostacolare specifiche iniziative asseritamente lesive dell’ambiente o per impugnare specifici atti.

In tema di legittimazione di un comitato di cittadino per la protezione degli interessi ambientale, la giurisprudenza, che con indirizzo uniforme e consolidato ha originariamente ritenuto sicuramente legittimate le sole associazioni protezionistiche espressamente individuate con apposito decreto ministeriale ai sensi del combinato disposto degli artt. 13 e 18 della legge n. 349 del 1986, al fine di evitare il possibile configurarsi di un’azione popolare, ha progressivamente ammesso la possibilità di valutare per caso la legittimazione (ad impugnare i provvedimenti amministrativi i materia di ambiente e conseguentemente anche quella ad intervenire nei relativi giudizi) anche in capo ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura giuridica), purché perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi di natura ambientale, abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità ed abbiano altresì un stabile collegamento con il territorio in cui è sito il bene che si assume leso (ex multis, Cons. St., sez. V, 14.06.2007, n. 3192; 17.07.2004, n. 5136; sez. VI, 26.07.2001, n. 4123).
E’ stato sottolineato che ai fini della legittimazione non è sufficiente il solo scopo associativo a rendere differenziato un interesse diffuso o adespota, facente capo alla popolazione nel suo complesso, come quello della salvaguardia dell’ambiente, né l’astratta titolarità del diritto all’informazione ambientale, specie quando tale scopo associativo si risolve nell’utilizzazione delle finalità sociali ed ambientali per superare la carenza delle concrete ragioni di proposizione dell’azione giurisdizionale (Cons. St., sez. VI, 05.12.2002, n. 6657; sez. V, 09.12.2013, n. 5881), fermo restando che la necessaria sussistenza del requisito dello stabile collegamento con il territorio esclude la legittimazione di quei comitati occasionali, costituiti cioè proprio ed esclusivamente al fine di ostacolare specifiche iniziative asseritamente lesive dell’ambiente o per impugnare specifici atti (Cons. St., sez. V, 18.04.2012, n. 2234; sez. IV, 21.08.2013, n. 4233; 19.02.2010, n. 1001)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4928 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Alla stregua dei principi comunitari e nazionali, oltre che delle sue stesse peculiari finalità, la valutazione di impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale dell'opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all'utilità socio-economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione-zero.
In particolare, è stato evidenziato che "la natura schiettamente discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende allora fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si pervenga ad una soluzione negativa ove l'intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell'interesse diverso sotteso all'iniziativa; da qui la possibilità di bocciare progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste”.
La valutazione di impatto ambientale non è perciò un mero atto (tecnico) di gestione ovvero di amministrazione in senso stretto, rientrante come tale nelle attribuzioni proprie dei dirigenti, trattandosi piuttosto di un provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria funzione di indirizzo politico-amministrativo con particolare riferimento al corretto uso del territorio (in senso ampio), attraverso la cura ed il bilanciamento della molteplicità dei (contrapposti) interessi, pubblici (urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo economico-sociale) e privati.
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La funzione stessa della valutazione di impatto ambientale “è preordinata alla salvaguardia dell'habitat nel quale l'uomo vive, che assurge a valore primario ed assoluto, in quanto espressivo della personalità umana, attribuendo ad ogni singolo un autentico diritto fondamentale, di derivazione comunitaria (direttiva 27.07.1985 n. 85/337/CEE, concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati); diritto che obbliga l'amministrazione a giustificare, quantomeno ex post ed a richiesta dell'interessato, le ragioni del rifiuto di sottoporre un progetto a V.I.A. all'esito di verifica preliminare.
A tali fini, l'ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e finanche degli aspetti scientifico-naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona”, sottolineandosi che la stessa Corte Costituzionale, ha affermato che "lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, è di per sé un valore costituzionale", da intendersi come valore "primario".
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E’ stato anche sottolineato che proprio per le finalità cui è preordinata la valutazione di impatto ambientale, la disciplina relativa normativa ha prefigurato un modello di istruttoria aperto ai contributi partecipativi dei soggetti portatori di interessi pubblici e privati coinvolti nell'opera, con la conseguenza che l'impegno motivazionale dell'autorità deliberante è tanto più pregnante quanto più l'istruttoria abbia fatto emergere, mediante apporti partecipativi di soggetti, pubblici e privati, anche esponenziali di interessi collettivi, ricadute potenzialmente negative sul contesto ambientale ed insediativo interessato dall'iniziativa, fermo restando che l’amministrazione, nel rendere il giudizio di valutazione ambientale, esercita un'amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all'apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato giurisdizionale sulla determinazione finale emessa.
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Sono state inoltre delineate le differenze tra valutazione di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale, evidenziando che mentre la prima si sostanzia in una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto dal progetto rispetto all'utilità socio-economica dallo stesso ritraibile, tenuto conto anche delle alternativi possibili e dei riflessi sulla c.d. opzione zero, investendo propriamente gli aspetti localizzativi e strutturali di un impianto (e più in generale dell'opera da realizzare), la seconda -introdotta nel nostro ordinamento in attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento- è atto che sostituisce, con un unico titolo abilitativo, tutti i numerosi titoli che erano invece precedentemente necessari per far funzionare un impianto industriale inquinante, assicurando così efficacia, efficienza, speditezza ed economicità all'azione amministrativa nel giusto contemperamento degli interessi pubblici e privati in gioco, e incide quindi sugli aspetti gestionali dell'impianto.

La giurisprudenza ha ripetutamente affermato (Cons. St., sez. V, 31.05.2012, n. 3254; 22.06.2009, n. 4206; sez. IV, 22.01.2013, n. 361; 05.07.2010, n. 4246; VI, 17.05.2006, n. 2851) che, alla stregua dei principi comunitari e nazionali, oltre che delle sue stesse peculiari finalità, la valutazione di impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale dell'opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all'utilità socio-economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione-zero; in particolare, è stato evidenziato che "la natura schiettamente discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende allora fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si pervenga ad una soluzione negativa ove l'intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell'interesse diverso sotteso all'iniziativa; da qui la possibilità di bocciare progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste” (Cons. St, sez. IV, 05.07.2010, n. 4246; sez. VI, 22.02.2007, n. 933).
La valutazione di impatto ambientale non è perciò un mero atto (tecnico) di gestione ovvero di amministrazione in senso stretto, rientrante come tale nelle attribuzioni proprie dei dirigenti, trattandosi piuttosto di un provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria funzione di indirizzo politico-amministrativo con particolare riferimento al corretto uso del territorio (in senso ampio), attraverso la cura ed il bilanciamento della molteplicità dei (contrapposti) interessi, pubblici (urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo economico-sociale) e privati.
Ciò del resto è del tutto coerente con la funzione stessa della valutazione di impatto ambientale che (Cons. St., sez. IV, 09.01.2014, n. 36), “è preordinata alla salvaguardia dell'habitat nel quale l'uomo vive, che assurge a valore primario ed assoluto, in quanto espressivo della personalità umana (Cons. St., sez. VI, 18.03.2008, n. 1109), attribuendo ad ogni singolo un autentico diritto fondamentale, di derivazione comunitaria (direttiva 27.07.1985 n. 85/337/CEE, concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati); diritto che obbliga l'amministrazione a giustificare, quantomeno ex post ed a richiesta dell'interessato, le ragioni del rifiuto di sottoporre un progetto a V.I.A. all'esito di verifica preliminare (Corte giust. 30.04.2009, C75/08). A tali fini, l'ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e finanche degli aspetti scientifico-naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona”, sottolineandosi che la stessa Corte Costituzionale (sent. 07.11.2007, n. 367), ha affermato che "lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, è di per sé un valore costituzionale", da intendersi come valore "primario" (Corte Cost., sentt. nn. 151/1986; 182/2006), ed "assoluto" (sent. n. 641/1987).
E’ stato anche sottolineato che proprio per le finalità cui è preordinata la valutazione di impatto ambientale, la disciplina relativa normativa ha prefigurato un modello di istruttoria aperto ai contributi partecipativi dei soggetti portatori di interessi pubblici e privati coinvolti nell'opera, con la conseguenza che l'impegno motivazionale dell'autorità deliberante è tanto più pregnante quanto più l'istruttoria abbia fatto emergere, mediante apporti partecipativi di soggetti, pubblici e privati, anche esponenziali di interessi collettivi, ricadute potenzialmente negative sul contesto ambientale ed insediativo interessato dall'iniziativa (Cons. St., sez. V, 18.04.2012, n. 2234), fermo restando che l’amministrazione, nel rendere il giudizio di valutazione ambientale, esercita un'amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all'apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato giurisdizionale sulla determinazione finale emessa (Cons. St., sez. V, 27.03.2013, n. 1783).
Sono state inoltre delineate le differenze tra valutazione di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale, evidenziando che mentre la prima si sostanzia in una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto dal progetto rispetto all'utilità socio-economica dallo stesso ritraibile, tenuto conto anche delle alternativi possibili e dei riflessi sulla c.d. opzione zero, investendo propriamente gli aspetti localizzativi e strutturali di un impianto (e più in generale dell'opera da realizzare), la seconda -introdotta nel nostro ordinamento in attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento- è atto che sostituisce, con un unico titolo abilitativo, tutti i numerosi titoli che erano invece precedentemente necessari per far funzionare un impianto industriale inquinante, assicurando così efficacia, efficienza, speditezza ed economicità all'azione amministrativa nel giusto contemperamento degli interessi pubblici e privati in gioco, e incide quindi sugli aspetti gestionali dell'impianto (Cons. St, sez. V, 17.01.2012, n. 5292)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4928 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Obbligo di bonifica e privilegio speciale immobiliare sul fondo.
Il D.Lgs. n. 152 del 2006 stabilisce che l'obbligo di bonifica è in capo al responsabile dell'inquinamento che le autorità amministrative hanno l'onere di individuare e ricercare (artt. 192, 242 e 244); che il proprietario dell'area non responsabile dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno solo la facoltà di effettuare interventi di bonifica (art. 245); che nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica sono realizzate dalle Amministrazioni competenti (art. 250) che, a fronte delle spese sostenute, si vedono riconosciuto un privilegio speciale immobiliare sul fondo (253).
Ne consegue che, laddove l'Amministrazione non provi che l'inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile alla società, a quest’ultima non può essere imposto alcun obbligo di adottare misure di bonifica in un'ottica di recupero del sito.
Deve, inoltre, aggiungersi che la giurisprudenza ha sottolineato la necessità del rigoroso accertamento del nesso di causalità fra il comportamento del "responsabile" ed il fenomeno dell'inquinamento, affermando che tale accertamento deve essere fondato su una adeguata motivazione e su idonei elementi istruttori.

3. Venendo alla questione principale, va detto che questo Collegio non ritiene di discostarsi dalla nota giurisprudenza, anche di questo TAR, che in materia fa applicazione del principio europeo “chi inquina paga” trasfuso nella normativa nazionale, anche nella considerazione che dal punto di vista fattuale l’inquinamento ambientale (derivante dall’accumularsi di materiale inquinato) risulta risalente nel tempo né si è verificato alcun evento emergenziale, improvviso e imprevedibile, che non consentisse all’amministrazione il pieno rispetto della normativa vigente.
Invero, ad avviso di questo Collegio, tanto la disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997 (in particolare, l'art. 17, comma 2), quanto quella introdotta dal d.lgs. n. 152/2006 (ed in particolare, gli artt. 240 e segg.), si ispirano al principio secondo cui l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione d’inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa. Al contrario, l'obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può essere invece addossato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità (nello stesso senso, TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 26.07.2007, n. 1254). L'Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento.
4. In sostanza, si afferma l'illegittimità degli ordini di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario (ovvero gestore a vario titolo) di un fondo in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione (quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità soggettiva della condotta.
L'enunciato è conforme al principio "chi inquina, paga", cui si ispira la normativa comunitaria (cfr. art. 174, ex art. 130/R, del Trattato CE), la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione, già sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta confermata e specificata dagli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si desume l'addossamento dell'obbligo di effettuare gli interventi di recupero ambientale, anche di carattere emergenziale, al responsabile dell'inquinamento, che potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero il gestore dell'area interessata (TAR Calabria, Catanzaro, n. 954 del 2012; TAR Toscana, Sez. II, n. 665/2009).
5. Va precisato, in argomento, che il principio "chi inquina, paga" vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza d'emergenza, secondo la definizione che delle misure stesse è fornita dall'art. 240, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente).
Infatti, anche l'adozione delle misure di messa in sicurezza d'emergenza è addossata dalla normativa in discorso al soggetto responsabile dell'inquinamento (cfr. art. 242 del d.lgs. n. 152 cit.).
Invero, i suddetti principi si attagliano al disposto di cui all'art. 192 del D.lgs. n. 152/2006, dal momento che siffatta disposizione legislativa non soltanto riproduce il tenore dell'abrogato art. 14 del D.lgs. n. 22/1997, con riferimento alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa, ma, in più, integra il precedente precetto, precisando che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente "in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo".
6. Si deve altresì sottolineare che a carico del proprietario dell'area inquinata, che non sia altresì qualificabile come responsabile dell'inquinamento, non incombe alcun obbligo di porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area interessata libera da pesi. Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del Codice ambiente si ricava, infatti, che, nell'ipotesi di mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del responsabile dell'inquinamento, ovvero di mancata individuazione dello stesso -e sempreché non provvedano né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati- le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A. competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10.07.2007, n. 5355; TAR Toscana, Sez. II, 17.09.2009, n. 1448; TAR Toscana, sez. II, 11.05.2010 n. 1397 e 1398).
Nel caso di specie, dalla documentazione in atti non si evince alcun accertamento istruttorio volto a determinare la sussistenza dei presupposti soggettivi per l'imposizione, a carico dell'odierna ricorrente, degli obblighi di messa in sicurezza; in particolare, né nelle conferenze di servizi che hanno preceduto l'emanazione degli atti impugnati, né nei decreti direttoriali impugnati si rinviene alcun approfondimento istruttorio volto ad accertare un comportamento dell'odierna ricorrente, che possa aver dato luogo all'inquinamento dell'area.
7. Per completezza si osserva che l'obbligo di procedere alla bonifica dell'area non potrebbe neanche essere desunto dall'applicazione della previsione dell'art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode); a prescindere da ogni considerazione relativa all'aspetto temporale della problematica (che richiederebbe l'accertamento della qualità di custode dell'area al momento dell'inquinamento e non in un periodo di tempo di molto successivo, come avvenuto nel caso di specie), deve, infatti, rilevarsi come si tratti di un criterio che si presenta in contraddizione con i precisi criteri di imputazione degli obblighi di bonifica previsti dagli artt. 240 e ss. e 252-bis, 2° comma del d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
In buona sostanza, si tratta di una disciplina esaustiva della problematica che non può certo essere integrata dalla sovrapposizione di principi (come quello previsto dall'art. 2051 c.c.) desunti da diversa normativa e che determinerebbero la sostanziale alterazione di un contenuto normativo improntato a ben diversi principi.
8. A quanto appena rilevato deve, inoltre, aggiungersi che la giurisprudenza ha sottolineato la necessità del rigoroso accertamento del nesso di causalità fra il comportamento del "responsabile" ed il fenomeno dell'inquinamento, affermando che tale accertamento deve essere fondato su un’adeguata motivazione e su idonei elementi istruttori (Cons. di Stato, Sez. VI, 05.09.2005, n. 4525).
Infine, a conferma di quanto fin qui sostenuto occorre rilevare che anche la giurisprudenza comunitaria si è orientata nei termini che precedono (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188).
9. Detto principio del "chi inquina paga" consiste, in definitiva, nell'imputazione dei costi ambientali (ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell'impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall'attività di trasformazione industriale dell'ambiente che non supera gli standard legali).
Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare rilevante quanto stabilito dalla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 21.04.2004, "sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale". Anche tale Direttiva è conformata dal principio "chi inquina paga", per cui l'operatore che provoca un danno ambientale o è all'origine di una minaccia imminente di tale danno, dovrebbe, di massima, sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando l'autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da essa sostenuto sia a carico dell'operatore. È inoltre opportuno che gli operatori sostengano in via definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale danno.
La Direttiva non si applica al danno di carattere diffuso se non in presenza di un nesso causale tra il danno e l'attività di singoli operatori.
Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di effettività della protezione dell'ambiente, che, ferma la doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con specifici elementi i responsabili dei fatti di contaminazione, l'imputabilità dell'inquinamento può avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive.
In sostanza, la corretta interpretazione della normativa porta ad escludere che il legislatore abbia voluto introdurre una sorta di obbligazione "propter rem" di diritto pubblico (in quanto funzionale al pubblico interesse e coercibile da parte dell'amministrazione nell'ambito dei suoi poteri di polizia amministrativa) a carico del proprietario o del titolare di un diritto reale sul fondo (ed estesa anche ai titolari di un diritto personale di godimento, nel caso in cui il contenuto di questo conferisca al suo titolare i poteri di disposizione necessari per provvedere alla rimozione), con riferimento all'ipotesi in cui non sia stato accertato il responsabile del deposito abusivo di rifiuti, e, cioè, qualora non possa trovare applicazione la sanzione amministrativa ripristinatoria prevista.
Ed invero, soltanto nel caso in cui l'obbligazione ripristinatoria fosse connessa alla mera titolarità del diritto sul bene (in tal senso "propter rem"), a prescindere dalla sua responsabilità in ordine alla formazione di un deposito abusivo attraverso l'abbandono di rifiuti, si potrebbe pervenire alle conclusioni cui è pervenuto il Ministero, ma, poiché il legislatore ha positivamente stabilito l'inserimento della colpa fra gli elementi costitutivi della fattispecie in discorso, se ne trae sicura conferma della non condivisibilità dell'esegesi seguita dallo stesso.
10. Va rilevato che il potere è comunque attivabile anche a fronte di una situazione di mero pericolo d’inquinamento come imposto dal principio comunitario di precauzione come enunciato sin dalla Conferenza di Rio del 2004 (secondo l'art. 15 del documento conclusivo della Conferenza "in caso di rischi di danni gravi o irreversibili, l'assenza di certezze scientifiche non deve servire come pretesto per rinviare l'adozione di misure efficaci volte a prevenire il degrado dell'ambiente") e dal principio di doverosa prevenzione dei danni.
Una significativa applicazione dei suddetti principi e corollari è stata effettuata dall'Avvocato Generale J. Kokott nelle conclusioni presentate in data 13.03.2008 relativamente alla causa C-188/07, Comune de Mesquer c. Total France SA e Total International LTD, relativa ad un noto caso di inquinamento marino da idrocarburi, con riguardo all'art. 15 della Direttiva 2006/12/CE.
Dette conclusioni sono state accolte dalla sentenza Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 24.06.2008.
L'Avvocato Generale ha correttamente concluso che «l'addebitamento a singoli soggetti dei costi dello smaltimento di rifiuti che essi non hanno prodotto sarebbe incompatibile con il principio “chi inquina paga”. A fronte di tale richiesta da parte delle autorità statali gli interessati potrebbero, pertanto, opporre l'art. 15 della direttiva quadro sui rifiuti».
L'Avvocato Generale ha argomentato tale conclusione sulla base di una nota sentenza della Corte di Giustizia (Corte giust. Ce, 07.09.2004, in causa C-1/2003, Van de Walle et al.): «La sentenza Van de Walle aveva ad oggetto idrocarburi fuoriusciti da una stazione di servizio, che avevano prodotto l'inquinamento del terreno circostante. In via di principio, la responsabilità di tale evento ricade sul gestore della stazione di servizio che ha acquistato gli idrocarburi per le proprie necessità aziendali e pertanto ne era detentore ed è il soggetto che li aveva in deposito, per esigenze della sua attività, nel momento in cui sono divenuti rifiuti ai sensi dell'art. 1, lett. b), della Direttiva 75/443. Soltanto se il cattivo stato degli impianti di stoccaggio della stazione di servizio e la fuoriuscita degli idrocarburi fossero eccezionalmente imputabili ad una violazione degli obblighi contrattuali incombenti alla compagnia petrolifera fornitrice della stazione di servizio, ovvero a diversi comportamenti idonei a far sorgere la responsabilità della detta compagnia, quest'ultima sarebbe responsabile. Per effetto della sua attività, infatti, la compagnia petrolifera avrebbe prodotto rifiuti ai sensi dell'art. 1, lett. b) , della Direttiva 75/442 ed essa potrebbe dunque essere considerata la detentrice di tali rifiuti. Secondo la Corte, pertanto, i costi devono essere sostenuti dal soggetto che ha prodotto i rifiuti.
I soggetti menzionati nell'art. 15 identificano invece soltanto l'insieme dei possibili responsabili finanziari, all'interno del quale, in conformità al principio “chi inquina paga”, deve essere scelto il soggetto che deve sostenere i costi. Detta interpretazione del principio “chi inquina paga” quale principio per la ripartizione dei costi è conforme ad altre versioni linguistiche che —a differenza della versione tedesca— non utilizzano il concetto di causalità, ma affermano che chi inquina paga (Polluter pays, pollueur-payeur) . [...] Applicato alla normativa ambientale, ciò consente innanzitutto di concludere che non è possibile sostenere i costi dello smaltimento di rifiuti prodotti da altri
» (punti 118, 119 e 120).
11. Ed infatti la citata sentenza della Corte giust. Ce, 07.09.2004, in causa C-1/2003, Van de Walle et al., aveva puntualmente affermato che «dalle disposizioni citate nei tre punti precedenti risulta che la Direttiva 75/442 distingue la materiale realizzazione delle operazioni di recupero o smaltimento —che essa pone a carico di ogni “detentore di rifiuti”, indipendentemente da chi sia il produttore o il possessore degli stessi— dall'assunzione dell'onere finanziario relativo alle suddette operazioni, che la medesima direttiva accolla, in conformità del principio “chi inquina paga”, ai soggetti che sono all'origine dei rifiuti, a prescindere se costoro siano detentori o precedenti detentori dei rifiuti oppure fabbricanti del prodotto che ha generato i rifiut » (punto 58).
Per la giurisprudenza interna, Cons. Stato, Sez. V, 16.06.2009 n. 3885; TAR Toscana, Sez. II, 03.03.2010, n. 594; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 26.07.2007, n. 1254; TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 28.04.2011, n. 746; TAR Puglia, Lecce, Sez. I, ord. 01.12.2010, che ha dichiarato l'illegittimità di un’ordinanza con la quale è stata ordinata al proprietario di una cava la bonifica del sito per l'inquinamento della falda sottostante, nel caso in cui non sia possibile desumere una situazione di sicura imputabilità dell'inquinamento al proprietario della cava).
In sostanza, a carico del proprietario dell'area inquinata non responsabile della contaminazione non incombe, dunque, alcun obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in questione, avendo solo la facoltà di eseguirli al fine di evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato, per l'appunto, da onere reale, al pari delle spese sostenute per gli interventi di recupero ambientale assistite anche da privilegio speciale immobiliare.
Pertanto, il provvedimento impositivo della messa in sicurezza e bonifica ben può essere notificato al proprietario al fine di renderlo edotto di tale onere (che egli ha facoltà di assolvere per liberare l'area dal relativo vincolo), ma non può imporre misure di bonifica senza un adeguato accertamento della responsabilità, o corresponsabilità, del proprietario per l'inquinamento del sito.
12. Va ricordato, in questo contesto, che gli interventi di messa in sicurezza sono finalizzati non tanto alla diminuzione del livello di inquinamento dell'area interessata (obiettivo questo che va perseguito attraverso l'attivazione delle opere di bonifica) quanto a scongiurare che la contaminazione in atto si espanda nel terreno o nella falda in attesa dell'esecuzione di interventi definitivi di bonifica del sito.
13. Riassumendo e compendiando: il D.Lgs. n. 152 del 2006 (Codice dell'Ambiente) stabilisce che l'obbligo di bonifica è in capo al responsabile dell'inquinamento che le autorità amministrative hanno l'onere di individuare e ricercare (artt. 192, 242 e 244); che il proprietario dell'area non responsabile dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno solo la facoltà di effettuare interventi di bonifica (art. 245); che nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica sono realizzate dalle Amministrazioni competenti (art. 250) che, a fronte delle spese sostenute, si vedono riconosciuto un privilegio speciale immobiliare sul fondo (253).
Ne consegue che, laddove l'Amministrazione non provi che l'inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile alla società, a quest’ultima non può essere imposto alcun obbligo di adottare misure di bonifica in un'ottica di recupero del sito (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.04.2011, n. 2376).
A quanto appena rilevato deve, inoltre, aggiungersi che la giurisprudenza ha sottolineato la necessità del rigoroso accertamento del nesso di causalità fra il comportamento del "responsabile" ed il fenomeno dell'inquinamento, affermando che tale accertamento deve essere fondato su una adeguata motivazione e su idonei elementi istruttori.
Infine, a conferma di quanto fin qui sostenuto occorre rilevare che anche la giurisprudenza comunitaria si è orientata nei termini che precedono, ritenendo, anche se per fattispecie diversa, che l'addebito dei costi dello smaltimento dei rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti sarebbe incompatibile con il principio "chi inquina paga" (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188).
14. Volendo schematizzare e riepilogare, dalle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 152 del 2006 (in particolare nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett.1), ovvero "le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia";
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall'Amministrazione competente (art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l'altro l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
15. Peraltro in tale materia rileva altresì il tredicesimo considerando della direttiva 2004/35/Ce, in cui si legge: "A non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinché quest'ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe essere concreto e qualificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per trattare l'inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi ad atti o omissioni di taluni soggetti".
Tale considerando, evidenziando l'insufficienza in materia ambientale della responsabilità civile (sia pure con riferimento all'inquinamento a carattere diffuso e generale) mostra, comunque, l'esigenza di individuare criteri di imputazione del danno ambientale che prescindano dagli elementi costitutivi dell'illecito civile e, dunque, non solo dall'elemento soggettivo, ma anche dal rapporto di causalità.
16. Ancora, appare importante ai fini che in questa sede rilevano, il considerando n. 24 della citata direttiva 2004/35/Ce in cui si afferma la necessità di "assicurare la disponibilità di mezzi di applicazione ed esecuzione efficaci, garantendo un'adeguata tutela dei legittimi interessi degli operatori e delle altre parti interessate", conferendo "alle autorità competenti compiti specifici che implicano appropriata discrezionalità amministrativa, ossia il dovere di valutare l'entità del danno e di determinare le misure di riparazione da prendere".
La discrezionalità amministrativa evocata dalla direttiva potrebbe, invero, essere letta nel senso di sottintendere anche il potere per l'autorità competente di individuare il soggetto che si trova nelle condizioni migliori per adottare le misure di riparazione, anche a prescindere dal rigoroso accertamento del nesso eziologico.
17. Significativa, inoltre, è anche la previsione dell'art. 8, n. 3, lett. b), della direttiva 2004/35/Ce, secondo cui i costi delle azioni di prevenzione e di riparazione non sono a carico dell'operatore "se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno è stato causato da un terzo o si è verificato nonostante l'esistenza di opportune misure di sicurezza".
Tale disposizione dà rilievo al rapporto di causalità, ma non in positivo, bensì in negativo, nel senso che la presenza del nesso di causalità (e, dunque, la necessità che esso sia dimostrato dall'autorità competente) non sembra essere condizione necessaria al fine del sorgere della responsabilità; è, al contrario, la prova, fornita dall'operatore, dell'assenza del rapporto di causalità, o meglio la dimostrazione di un nesso eziologico che permetta di ricondurre l'evento lesivo ad un soggetto terzo, che lo esonera dalla responsabilità. Sembrerebbe, quindi, confermata la possibilità di imporre misure di prevenzione e di riparazione anche senza rapporto di causalità, ferma restando la possibilità per l'operatore di recuperare i costi di tali interventi dimostrando che l'evento lesivo è eziologicamente imputabile ad un soggetto terzo.
18. Da quanto testé illustrato, emerge che, oltre al principio "chi inquina paga", vengono poi in rilievo i principi di precauzione, di prevenzione e di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, anch'essi esplicitamente richiamati dall'art. 191, paragrafo 2, TFUE, come fondamenti della politica dell'Unione in materia ambientale.
I principi di precauzione e di prevenzione rendono legittimo un approccio anticipatorio ai problemi ambientali, sulla base della considerazione che molti danni causati all'ambiente possono essere di natura irreversibile.
Per prevenire il rischio del verificarsi di tali danni, il principio di precauzione legittima l'adozione di misure di prevenzione, riparazione e contrasto ad una fase nella quale il danno non solo non si è ancora verificato, ma non esiste neanche la piena certezza scientifica che si verificherà. In altri termini, la ricerca di livelli di sicurezza sempre più elevati porta ad un consistente arretramento della soglia dell'intervento delle Autorità a difesa della salute dell'uomo e del suo ambiente: la tutela diviene "tutela anticipata" e oggetto dell'attività di prevenzione e di riparazione diventano non soltanto i rischi conosciuti, ma anche quelli di cui semplicemente si sospetta l'esistenza.
Il principio di prevenzione presenta tratti comuni con il principio di precauzione, in quanto entrambi condividono la natura anticipatoria rispetto al verificarsi di un danno per l'ambiente. Il principio di prevenzione si differenzia da quello di precauzione perché si occupa della prevenzione del danno rispetto a rischi già conosciuti e scientificamente provati relativi a comportamenti o prodotti per i quali esiste la piena certezza circa la loro pericolosità per l'ambiente.
19. Si può evidenziare che, se la ratio dei principi di precauzione e di prevenzione è quella di legittimare un intervento dell'autorità competente anche in condizioni di incertezza scientifica (sulla stessa esistenza del rischio o delle sue ulteriori conseguenze), sul presupposto che il trascorrere del tempo necessario per acquisire informazioni scientificamente certe o attendibili potrebbe determinare danni irreversibili all'ambiente, allora non appare peregrino sostenere che la medesima ratio consenta l'intervento in via precauzionale o preventiva non solo quando l'incertezza da dipanare riguardi l'evento di danno, ma anche quando concerna il nesso causale e, quindi, l'individuazione del soggetto responsabile di un danno certo.
20. In quest'ottica, quindi, i principi di precauzione e di prevenzione potrebbero legittimare l'imposizione, a prescindere dalla prova circa la sussistenza del nesso di causalità, in capo al soggetto che, essendo proprietario del sito contaminato, si trova nelle migliori condizioni per attuarle, non solo delle misure di prevenzione descritte dall'art. 240, comma 1, lett. i), decreto legislativo n. 152 del 2006, (già previste a suo carico dall'art. 245, comma 2, decreto legislativo n. 152 del 2006), ma anche di misure di sicurezza di emergenza. Anche queste misure, infatti, hanno una finalità precauzionale ed una connotazione di urgenza, essendo dirette a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente.
21. Infine, viene in rilievo il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati. Tale principio, infatti, dispone che i danni causati all'ambiente vengano contrastati in una fase il più possibile vicino alla fonte, per evitare che i loro effetti si amplifichino e si ingigantiscano. Nelle situazioni d’impossibilità di individuare il responsabile, o d’impossibilità di evitare da questi le misure correttive, la "fonte" cui il principio fa riferimento sembra potere essere ragionevolmente individuata nel soggetto attualmente proprietario del fondo, che, proprio per la sua posizione di proprietario, è quello meglio in grado di controllare la fonte di pericolo rappresentata dal sito contaminato (su tali questioni si veda Adunanza Plenaria n 13 del 2013).
In sostanza, riprendendo la questione di diritto fondamentale sottesa alla controversia, il principio comunitario che accolla al colpevole dell’inquinamento l’onere di porvi rimedio, sia con misure di bonifica sia di messa in sicurezza, non può essere inteso come assoluto ma va contemperato con gli altri principi di precauzione, prevenzione e tutela dell’ambiente, per cui al proprietario ancorché non responsabile della situazione di inquinamento illecito si possono accollare limitati e definiti oneri di realizzazione di misure precauzionali, soprattutto in occasione di interventi gestionali e manutentivi sulla zona, e ovviamente previa congrua istruttoria e motivazione (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Va osservato che l’art. 16 del RD 11.02.1929 n. 274 attribuisce alla competenza del geometra la progettazione direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone.
Nel caso in esame si tratta di un tradizionale capannone a pianta rettangolare (con dimensioni di ml. 20x25 circa), con struttura prefabbricata (articolata in pilastri con interasse ml. 6,33 su un lato e ml. 9,45 massimi sull’altro, che reggono la struttura di copertura), e che non presenta alcun elemento architettonico di rilievo o comunque complesso.
Va inoltre osservato che i progetti versati in atti (sulla base dei quali venivano poi rilasciate le varie concessioni edilizie per l’opera in esame) non rappresentano la versione esecutiva (che include la risoluzione dei problemi tecnici di dettaglio e i calcoli strutturali), ma la versione di massima (che riguarda essenzialmente il profilo architettonico dell’immobile), per cui il Collegio non intravede (perlomeno nell’odierna fase amministrativo-concessoria) particolari difficoltà tecniche implicanti complesse operazioni di calcolo, fuori dalla professionalità del geometra, al fine di evitare pericoli per la pubblica incolumità (che attengono, invece, alla fase di cantierabilità ed esecuzione dei lavori).
Dagli atti risulta, inoltre, che il progettista e il direttore dei lavori strutturali è stato l’Ing. ….. e che l’opera è stata regolarmente collaudata (sotto il profilo statico) dall’Ing. …..; circostanze che rafforzano la conclusione che il Geom. …… abbia operato entro i limiti della propria competenza professionale.
Trova pertanto applicazione anche l’orientamento giurisprudenziale, già condiviso da questo Tribunale, secondo cui la presenza dell'ingegnere progettista delle opere strutturali assorbe per intero quella parte che poteva esorbitare dalla competenza professionale del geometra. Di conseguenza la contestazione circa l'inidoneità del geometra a sottoscrivere il progetto esaminato dal comune viene a cadere e, quindi, tale aspetto della vicenda non è suscettibile di incidere negativamente sulla legittimità dell'impugnata concessione edilizia.
Al riguardo il Collegio non ignora che esistono anche indirizzi giurisprudenziali di contrario avviso, adottati sul rilievo che non sarebbe possibile enucleare e distinguere un’autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, il che (prosegue la citata giurisprudenza) apparirebbe senz’altro esatto, in quanto chi non è abilitato a delineare l’ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto.
A giudizio del Collegio appare invece possibile, sulla base di comuni esperienze di fatto, scindere dette attività progettuali, poiché definita l’ossatura (o, meglio, la struttura portante di un edificio, dimensionata per reggere tutte le sollecitazioni, statiche e dinamiche, verticali e orizzontali, cui esso è o potrebbe essere sottoposto) da parte del tecnico a ciò abilitato, l’ulteriore attività progettuale si risolve nella definizione di elementi di chiusura della stessa, mediante opere di tamponamento interno ed esterno di natura essenzialmente architettonica; opere volte a delimitare gli spazi in cui si svolge l’attività umana e che non richiedono il possesso di specifiche competenze strutturali (attività che, spesso, viene svolta dai tecnici specializzati nei soli componenti d’arredo)….”.

Passando quindi al ricorso principale, va anzitutto rigettato il primo motivo, per le ragioni che di seguito si espongono.
Pur consapevole dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali molto diversificati sul punto, il Tribunale ritiene di confermare quanto già statuito in sentenze recenti relative a vicende analoghe.
In particolare, nella sentenza n. 355/2011 (nonché nella coeva decisione n. 356/2011), il Tribunale ha statuito che “….Al riguardo va osservato che l’art. 16 del RD 11.02.1929 n. 274 attribuisce alla competenza del geometra la progettazione direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone.
Nel caso in esame si tratta di un tradizionale capannone a pianta rettangolare (con dimensioni di ml. 20x25 circa), con struttura prefabbricata (articolata in pilastri con interasse ml. 6,33 su un lato e ml. 9,45 massimi sull’altro, che reggono la struttura di copertura), e che non presenta alcun elemento architettonico di rilievo o comunque complesso.
Va inoltre osservato che i progetti versati in atti (sulla base dei quali venivano poi rilasciate le varie concessioni edilizie per l’opera in esame) non rappresentano la versione esecutiva (che include la risoluzione dei problemi tecnici di dettaglio e i calcoli strutturali), ma la versione di massima (che riguarda essenzialmente il profilo architettonico dell’immobile), per cui il Collegio non intravede (perlomeno nell’odierna fase amministrativo-concessoria) particolari difficoltà tecniche implicanti complesse operazioni di calcolo, fuori dalla professionalità del geometra, al fine di evitare pericoli per la pubblica incolumità (che attengono, invece, alla fase di cantierabilità ed esecuzione dei lavori).
Dagli atti risulta, inoltre, che il progettista e il direttore dei lavori strutturali è stato l’Ing. ….. e che l’opera è stata regolarmente collaudata (sotto il profilo statico) dall’Ing. …..; circostanze che rafforzano la conclusione che il Geom. …… abbia operato entro i limiti della propria competenza professionale.
Trova pertanto applicazione anche l’orientamento giurisprudenziale, già condiviso da questo Tribunale (cfr. TAR Marche 13.03.2008 n. 194; 23.11.2001 n. 1220), secondo cui la presenza dell'ingegnere progettista delle opere strutturali assorbe per intero quella parte che poteva esorbitare dalla competenza professionale del geometra. Di conseguenza la contestazione circa l'inidoneità del geometra a sottoscrivere il progetto esaminato dal comune viene a cadere e, quindi, tale aspetto della vicenda non è suscettibile di incidere negativamente sulla legittimità dell'impugnata concessione edilizia (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04.06.2003 n. 3068; v. anche Cons. Stato, Sez. V 03.10.2002 n. 5208 riguardante edifici analoghi).
Al riguardo il Collegio non ignora che esistono anche indirizzi giurisprudenziali di contrario avviso (cfr. da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 28.04.2011 n. 253), adottati sul rilievo che non sarebbe possibile enucleare e distinguere un’autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, il che (prosegue la citata giurisprudenza) apparirebbe senz’altro esatto, in quanto chi non è abilitato a delineare l’ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto.
A giudizio del Collegio appare invece possibile, sulla base di comuni esperienze di fatto, scindere dette attività progettuali, poiché definita l’ossatura (o, meglio, la struttura portante di un edificio, dimensionata per reggere tutte le sollecitazioni, statiche e dinamiche, verticali e orizzontali, cui esso è o potrebbe essere sottoposto) da parte del tecnico a ciò abilitato, l’ulteriore attività progettuale si risolve nella definizione di elementi di chiusura della stessa, mediante opere di tamponamento interno ed esterno di natura essenzialmente architettonica; opere volte a delimitare gli spazi in cui si svolge l’attività umana e che non richiedono il possesso di specifiche competenze strutturali (attività che, spesso, viene svolta dai tecnici specializzati nei soli componenti d’arredo)….
”.
Come si vede, tali principi sono perfettamente applicabili al caso di specie, visto che il geom. M. ha curato la progettazione solo dal punto di vista architettonico e con riguardo ad impianti che rientrano sicuramente nelle sue competenze professionali. Viceversa tutti i manufatti in cemento armato sono stati progettati e collaudati da ingegneri, i quali non si sono limitati a controfirmare il progetto del geom. M., ma hanno sottoscritto in proprio i rispettivi elaborati.
Non si comprende poi l’eccezione riferita al fatto che il deposito degli elaborati progettuali presso la Provincia di Ancona non sanerebbe l’illegittimità. Il ricorrente non tiene conto infatti della disciplina di cui agli artt. 65 e 93 del T.U. n. 380/2001, i quali prevedono espressamente che il deposito degli elaborati presso il Genio Civile deve precedere l’inizio dei lavori, il che vuol dire che tali elaborati non debbono necessariamente essere prodotti in sede autorizzatoria. Fra l’altro, avendo la Provincia partecipato alla conferenza di servizi, sarebbe stato agevole per essa rilevare l’omissione e sollecitare la ditta proponente a produrre i calcoli strutturali, mentre nessuna obiezione è stata mossa al riguardo in seno alla conferenza di servizi (TAR Marche, sentenza 11.07.2013 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: No alla variante urbanistica (mediante procedimento SUAP) se mancano i presupposti di legge.
Si deve ricordare in linea generale che:
- il potere di pianificazione urbanistica si pone su di un piano di prevalenza rispetto agli atti di gestione attinenti la materia commerciale;
- l'art. 6, d.lgs. 31.03.1998 n. 114, è comunque finalizzato ad assicurare l'integrazione tra la pianificazione territoriale ed urbanistica e la programmazione commerciale, in quanto pone la stretta correlazione tra titoli edilizi e autorizzazioni all'esercizio, nel novero dei criteri di programmazione riferiti al settore commerciale;
- le prescrizioni e le disposizioni del piano urbanistico sono sempre prevalenti su quelle del piano commerciale, in quanto rispondono all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, e le relative disposizioni possono legittimamente porre limiti alla libertà di iniziativa economica.
Ciò premesso, il D.P.R. (oggi abrogato) 20.10.1998 n. 447, in coerenza con il predetto impianto, all’art. 5 disponeva tra l’altro che ”Qualora il progetto presentato sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza.”.
In via subordinata nel caso in cui “…il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro …“ ma “…lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente, convocare una conferenza di servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241".
I predetti presupposti di operatività dell'art. 5 del D.P.R. n. 447/1998 costituivano condizione minima necessaria, seppure non sufficiente, per poter consentire la realizzazione dell'intervento edilizio.
La giurisprudenza ha sempre interpretato in senso rigoroso l’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447, sottolineando come lo strumento “de quo” avesse natura eccezionale e comunque non poteva costituire in alcun modo uno strumento di modifica dell'assetto urbanistico azionabile in base alle soggettive preferenze e convenienze dell'imprenditore.
Pertanto, nei casi in cui invece dovessero risultare disponibili nel Piano degli insediamenti Produttivi aree per l’allocazione dell’intervento commerciale, non potevano ritenersi sussistenti le esigenze promozionali che sono la ragione logica e giuridica per far luogo all’applicazione della disciplina derogatoria ex D.P.R. n. 447 cit..
E ciò per assicurare che gli assetti territoriali non seguano la casualità della proprietà delle aree o le relative speculazioni in danno delle aree agricole (che sono notoriamente meno costose di quelle industriali e commerciali). In tali ambiti non può infatti trascurarsi che le pressioni degli operatori, motivate da interessi di natura meramente speculativa, hanno spesso effetti assolutamente deleteri sul buon andamento e sull’imparzialità dell’azione delle Amministrazioni Comunali.
La necessità di rispettare la funzionalità e la coerenza delle scelte urbanistiche e di pianificazione globale del territorio ha anche il fine di evitare che una realizzazione atomistica e dispersa sul territorio delle infrastrutture urbanistiche faccia ricadere sulla collettività i relativi ulteriori oneri finanziari.
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Il carattere eccezionale del procedimento di variante dello strumento urbanistico finalizzato all’individuazione di aree da destinare all'insediamento di impianti produttivi presuppone la condizione ineluttabile che lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi, ovvero tali aree siano spazialmente insufficienti in relazione al progetto presentato.
Pertanto, costituiscono condizioni imprescindibili per l'avvio di convocazione della conferenza di cui all’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447:
- la conformità del progetto alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e della sicurezza del lavoro;
- l'impossibilità giuridica, e spaziale, di reperire nello strumento esistente, aree idonee e sufficienti all'iniziativa.
Si deve ricordare in linea generale che:
- il potere di pianificazione urbanistica si pone su di un piano di prevalenza rispetto agli atti di gestione attinenti la materia commerciale (cfr. Consiglio Stato sez. V 12.07.2004 n. 5057);
- l'art. 6, d.lgs. 31.03.1998 n. 114, è comunque finalizzato ad assicurare l'integrazione tra la pianificazione territoriale ed urbanistica e la programmazione commerciale, in quanto pone la stretta correlazione tra titoli edilizi e autorizzazioni all'esercizio, nel novero dei criteri di programmazione riferiti al settore commerciale (cfr. Consiglio Stato, sez. IV 08.06.2007 n. 3027);
- le prescrizioni e le disposizioni del piano urbanistico sono sempre prevalenti su quelle del piano commerciale, in quanto rispondono all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, e le relative disposizioni possono legittimamente porre limiti alla libertà di iniziativa economica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI 10.04.2012 n. 2060).
Ciò premesso, il D.P.R. (oggi abrogato) 20.10.1998 n. 447, in coerenza con il predetto impianto, all’art. 5 disponeva tra l’altro che ”Qualora il progetto presentato sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza.”.
In via subordinata nel caso in cui “…il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro …“ ma “…lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente, convocare una conferenza di servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241".
I predetti presupposti di operatività dell'art. 5 del D.P.R. n. 447/1998 costituivano condizione minima necessaria, seppure non sufficiente, per poter consentire la realizzazione dell'intervento edilizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.10.2007 n. 5471).
La giurisprudenza ha sempre interpretato in senso rigoroso l’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447, sottolineando come lo strumento “de quo” avesse natura eccezionale e comunque non poteva costituire in alcun modo uno strumento di modifica dell'assetto urbanistico azionabile in base alle soggettive preferenze e convenienze dell'imprenditore (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sent. 03.03.2006 n. 1038).
Pertanto, nei casi in cui invece dovessero risultare disponibili nel Piano degli insediamenti Produttivi aree per l’allocazione dell’intervento commerciale, non potevano ritenersi sussistenti le esigenze promozionali che sono la ragione logica e giuridica per far luogo all’applicazione della disciplina derogatoria ex D.P.R. n. 447 cit. (cfr. Cons. Stato, Sez. VI 27.07.2011 n. 4498).
E ciò per assicurare che gli assetti territoriali non seguano la casualità della proprietà delle aree o le relative speculazioni in danno delle aree agricole (che sono notoriamente meno costose di quelle industriali e commerciali). In tali ambiti non può infatti trascurarsi che le pressioni degli operatori, motivate da interessi di natura meramente speculativa, hanno spesso effetti assolutamente deleteri sul buon andamento e sull’imparzialità dell’azione delle Amministrazioni Comunali.
La necessità di rispettare la funzionalità e la coerenza delle scelte urbanistiche e di pianificazione globale del territorio ha anche il fine di evitare che una realizzazione atomistica e dispersa sul territorio delle infrastrutture urbanistiche faccia ricadere sulla collettività i relativi ulteriori oneri finanziari.
In tale scia esattamente la Regione ricorda che, ai sensi del primo dell’art. 12 della Legge Regionale Puglia n. 11/2003 il Comune doveva individuare “… le aree idonee all'insediamento di strutture commerciali attraverso i propri strumenti urbanistici, in conformità degli indirizzi generali di cui all'articolo 3, con particolare con riferimento al dimensionamento della funzione commerciale nelle diverse articolazioni previste all'articolo 5”.
Il secondo comma consentiva poi “… L'insediamento di grandi strutture di vendita e di medie strutture di vendita di tipo M3 … solo in aree idonee sotto il profilo urbanistico e oggetto di piani urbanistici attuativi anche al fine di prevedere le opere di mitigazione ambientale, di miglioramento dell'accessibilità e/o di riduzione dell'impatto socio economico, ritenute necessarie”.
Il carattere eccezionale del procedimento di variante dello strumento urbanistico finalizzato all’individuazione di aree da destinare all'insediamento di impianti produttivi presuppone la condizione ineluttabile che lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi, ovvero tali aree siano spazialmente insufficienti in relazione al progetto presentato (cfr. Cons. Stato, sez. IV 04.12.2007 n. 6157; Cons. Sez. IV, 11.04.2007 n. 1644; Consiglio di Stato sez. IV 20.07.2011 n. 4413).
Pertanto, costituiscono condizioni imprescindibili per l'avvio di convocazione della conferenza di cui all’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447:
- la conformità del progetto alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e della sicurezza del lavoro;
- l'impossibilità giuridica, e spaziale, di reperire nello strumento esistente, aree idonee e sufficienti all'iniziativa
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.02.2013 n. 1202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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