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AGGIORNAMENTO AL 22.11.2014 (ore 16,15) |
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LUTTO |
Prematuramente
il nostro Amico e Collega ALESSIO GEOM. ALFREDO (del Comune
di Bonate Sotto - BG) a soli 52 anni è salito al cielo,
lasciando nello sconforto i famigliari e tutti coloro che
gli hanno voluto bene e lo hanno stimato professionalmente.
Altre parole, in questo momento, potrebbero apparire
banali e di circostanza ... ma queste le vogliamo scrivere:
"Caro ALFREDO, la Tua dignità e consapevolezza nel
contare i giorni e, nel contempo, la Tua voglia di vivere e
di rinfrancare chi Ti conosceva anziché ricercare
compassione, le sofferenze indicibili che hai patito sono
bastevoli per credere che Ti sei meritato il Paradiso e per
confermare (semmai ce ne fosse stato bisogno) che "bella"
persona" Tu sei".
Per chi vorrà partecipare all'estremo saluto, le
esequie si terranno |
LUNEDI'
24.11.2014 ORE 10,00 |
nella
Parrocchiale di Presezzo (BG).
Alfredo, questo è solo un arrivederci da tutti coloro
che Ti hanno conosciuto, stimato e voluto bene. |
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DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Palazzi,
Sblocca Italia – perplessità – nuovo art. 3-bis DPR 380/2001
(18.11.2014 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI:
L. Sergio,
Incarico per prestazione professionale con corrispettivo
subordinato al finanziamento dell’opera. La posizione della
Corte di Cassazione civile
(12.10.2014 - link a www.studiocataldi.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: A decorrere dall’entrata in
vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n.
90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche
amministrazioni, devono fare riferimento, per la
disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato
di attività tecniche nell’ambito del procedimento di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla
nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria
adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la
percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis)
e un accordo integrativo decentrato, da recepire nel
predetto regolamento, che stabilisca i criteri di
ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno adeguarsi alle
novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i
soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con
qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
Fino all’entrata in vigore della
L. 11.08.2014, n. 114, n. 90, possono trovare
applicazione le previgenti disposizioni (la novella
costituisce disposizione non applicabile retroattivamente,
non essendo norma di interpretazione autentica).
--------------
Dal compimento
dell’attività nasce il diritto al compenso, intangibile
dalle disposizioni riduttive, che non hanno alcuna efficacia
retroattiva.
Né rileva, in contrario avviso, che alla
rigorosa applicazione del criterio della spettanza
dell’incentivo nella misura vigente all’atto del compimento
della specifica attività, possa conseguire una differente
consistenza del beneficio in ordine alla stessa opera per la
quale è stanziata la somma da ripartire, a seconda se la
stessa attività sia stata compiuta prima o dal 19.08.2014.
Ciò perché, ai fini della nascita del diritto quello
che rileva è il compimento effettivo dell’attività;
dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto,
che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si
esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo
un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione
temporale di attività compiuta”: con la conseguenza che “il
“quantum” del diritto al beneficio, quale spettante sulla
base della somma da ripartire nella misura vigente al
momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle
attività incentivate, non possa essere modificato per
effetto di norme che riducano per il tempo successivo
l’entità della somma da ripartire”.
---------------
L’ente, rimanendo per il resto libero
nell’esercizio della propria attività discrezionale, nel
periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai
presupposti e ai beneficiari dell’incentivo, alla previgente
disciplina mentre, per quel che concerne l’ammontare
complessivo delle risorse destinabili al singolo
beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con
riferimento al trattamento economico spettante al momento
dell’erogazione.
---------------
La richiesta mira a conseguire chiarimenti in merito
all'applicazione degli artt. 92 e 93 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici), come modificati
dagli artt. 13 e 13-bis della l. 11.08.2014, n. 144, di
conversione del d.l. 24.06.2014, n. 90, che hanno
abrogato i commi 5 e 6 del citato art. 92 e aggiunto i commi
da 7-bis a 7-quinquies all'art. 93.
Rilevato che il nuovo provvedimento legislativo non contiene
alcuna precisa disposizione in merito (a differenza di
quanto comminato per i diritti di rogito dei segretari
comunali e provinciali e per i compensi professionali degli
avvocati interni), in particolare, è richiesto:
i) come si
attuino, con riferimento a opere e lavori pubblici che alla
data di entrata in vigore delle sopra citate disposizioni
siano in corso di realizzazione (in fase di progettazione o
già aggiudicate) e, in generale, alle attività tecniche già
concluse o ancora in corso prima di tale data ma non ancora
liquidate, le norme che prevedono la costituzione di un
"fondo per la progettazione e l'innovazione" (nuovo comma 7-bis dell'art. 93 del codice) a cui ogni amministrazione deve
fare confluire le risorse finanziarie da destinare, per
l'80%, a remunerare l'attività di progettazione, e per il
restante 20%, all'innovazione (nuovi commi 7-ter e 7-quater);
ii) se sia possibile, stante il disposto del nuovo comma 7-ter, ultimo periodo, corrispondere ancora ai dirigenti
l'incentivo inerente ad attività di progettazione e
direzione lavori, concluse o ancora in corso alla data di
entrata in vigore delle nuove disposizioni ed eventualmente
in base a quali criteri;
iii) se il limite degli incentivi
che possono essere corrisposti nel corso dell'anno al
singolo dipendente, pari al 50% del rispettivo trattamento
economico complessivo annuo lordo, operi anche con
riferimento a prestazioni, sia concluse che in corso, rese
anteriormente alla vigenza delle norme sopravvenute ma non
liquidate.
...
Come più volte messo in evidenza dalla Sezione (cfr. da
ultimo
parere 01.10.2014 n. 246), il c.d. incentivo alla
progettazione (denominazione risalente all’art. 18
dell’abrogata legge n. 109/1994), in costanza del previgente
art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, oggetto di
costante attenzione da parte della Corte dei conti (cfr.,
fra le altre, Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57 e
parere 30.05.2012 n. 259,
parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453) costituiva eccezione al principio di
onnicomprensività della retribuzione, finalizzato ad
incentivare il ricorso alle professionalità interne
dell’Ente.
A fronte di un’abrogazione secca dei commi 5 e 6
dell’articolo 92 del codice dei contratti pubblici, in
materia di incentivi per la progettazione, disposta
dall’art. 13 del decreto legge, l’art. 13-bis, introdotto in
sede di conversione, ha previsto l’istituzione, a carico
delle stazioni appaltanti e per le finalità descritte, di un
fondo per la progettazione e l’innovazione, destinato alle
risorse umane e strumentali necessarie per tali finalità
In particolare, in base alle conferenti disposizioni, le
amministrazioni pubbliche destineranno a un fondo per la
progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un’opera o di un lavoro, secondo modalità
determinate da un regolamento adottato dall’amministrazione.
Sempre tale regolamento dovrà definire i criteri di riparto
di tali somme, ferme restando le ripartizioni direttamente
disposte dall’atto normativo.
Di conseguenza (parere
01.10.2014 n. 246) a decorrere dall’entrata in
vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n.
90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche
amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la
disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato
di attività tecniche nell’ambito del procedimento di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla
nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria
adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la
percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis)
e un accordo integrativo decentrato, da recepire nel
predetto regolamento, che stabilisca i criteri di
ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle
novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i
soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con
qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
Sul punto si veda Emilia Romagna,
parere 19.09.2014 n. 183, secondo cui,
fino all’entrata in vigore della
L. 11.08.2014, n. 114, n. 90, possono trovare
applicazione le previgenti disposizioni (la novella
costituisce disposizione non applicabile retroattivamente,
non essendo norma di interpretazione autentica).
Punto essenziale, e pregiudiziale alla risoluzione di tutti
e tre i quesiti, è invece la questione della cesura
applicativa tra la vecchia e la nuova normativa; vale a
dire, in sintesi, se essa trovi applicazione con riferimento
alle sole attività successive o anche a quelle precedenti,
ma non remunerate all’atto dell’entrata in vigore del
decreto.
Come noto, in ambito dottrinario e giurisprudenziale due
orientamenti si dividono il campo: la teoria dei c.d.
“diritti quesiti”, secondo cui, al fine di connotare come
non retroattiva una disposizione, elemento essenziale è il
dato che non intacchi situazioni giuridiche già maturate; e
quella del c.d. “fatto compiuto”, secondo cui, fatta salva
l’eventuale illegittimità dell’atto normativo per lesione
dell’affidamento, l’utilità può considerarsi intangibile
solo dopo che sia stata acquisita dal soggetto interessato.
Al di là di tale considerazione di carattere generale,
tuttavia, è possibile ricavare una soluzione interpretativa
al quesito posto dalla
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della
Sez. autonomie che, affrontando altra
precedente riformulazione dell’incentivo di cui all’art. 92,
comma 5, del codice dei contratti pubblici (in relazione
alla riduzione introdotta dall’art. 18, comma 4-sexies, del
d.l. 29.11.2008, n. 185, convertito dalla l. 28.01.2009, n. 2, che ha novellato l’art. 61 del d.l. 25.06.2008, n. 112, convertito dalla l.
06.08.2008, n.
133, con un comma 7-bis) ha precisato che “dal compimento
dell’attività nasce il diritto al compenso, intangibile
dalle disposizioni riduttive, che non hanno alcuna efficacia
retroattiva. Né rileva, in contrario avviso, che alla
rigorosa applicazione del criterio della spettanza
dell’incentivo nella misura vigente all’atto del compimento
della specifica attività, possa conseguire una differente
consistenza del beneficio in ordine alla stessa opera per la
quale è stanziata la somma da ripartire, a seconda se la
stessa attività sia stata compiuta prima o dopo il 31.12.2008. Ciò perché, ai fini della nascita del diritto quello
che rileva è il compimento effettivo dell’attività;
dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto,
che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si
esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo
un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione
temporale di attività compiuta”: con la conseguenza che “il
“quantum” del diritto al beneficio, quale spettante sulla
base della somma da ripartire nella misura vigente al
momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle
attività incentivate, non possa essere modificato per
effetto di norme che riducano per il tempo successivo
l’entità della somma da ripartire”.
A diverse conclusioni deve invece addivenirsi con
riferimento al terzo quesito, in considerazione del dato che
la norma effettua un chiaro riferimento al momento della
corresponsione e che non condiziona la possibilità di
erogare l’incentivo, ma si limita a determinarne (per relationem rispetto al trattamento economico fruito)
l’ammontare massimo.
In conclusione, l’ente, rimanendo per il resto libero
nell’esercizio della propria attività discrezionale, nel
periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai
presupposti e ai beneficiari dell’incentivo, alla previgente
disciplina mentre, per quel che concerne l’ammontare
complessivo delle risorse destinabili al singolo
beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con
riferimento al trattamento economico spettante al momento
dell’erogazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.11.2014 n. 300). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Nei contratti misti di lavori e forniture l’incentivo di
progettazione di cui all’art. 92, comma 5, del Codice dei
contratti pubblici, vigente all’epoca del provvedimento e
oggi sostituito dall’art. 13-bis del d.l. 24.06.2014, n.
90, conv. in legge 11.08.2014, n. 114, che ha inserito
all’art. 93 del medesimo Codice dei contratti i commi 7-bis
e 7-ter, non può essere conteggiato sul prezzo a base d’asta
rappresentante il valore del contratto interamente
considerato, bensì sul valore della sola parte lavori nel
suo importo posto a base d’asta.
---------------
2. Sugli incentivi di progettazione riconosciuto dal
provvedimento in esame.
L’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti, recentemente
abrogato dall’art. 13, comma 1, del d.l. 24.06.2014, n.
90, conv. in l. 11.08.2014, n. 114, ma vigente all’epoca
dei fatti, prevedeva l’erogazione di incentivi di
progettazione a favore del responsabile del procedimento,
degli incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo
nonché dei loro collaboratori, che avessero prestato la
propria opera nella progettazione di lavori pubblici, in
deroga al principio dell’onnicomprensività degli emolumenti
dei pubblici dipendenti.
La ratio della disposizione (che rimane ferma nella nuova
norma introdotta dal d.l. n. 90/2014 cit. mediante
l’inserimento dell’art. 93, comma 7-bis nel Codice dei
contratti), era sostanzialmente da individuare nella
valorizzazione della professionalità dei dipendenti pubblici
e, al contempo, nel risparmio di spesa nella progettazione,
in quanto in tal modo l’Amministrazione evita di ricorrere a
consulenti esterni, certamente più onerosi. Peraltro, la
norma si poneva in coerenza logica con il divieto per le
Amministrazioni, che fossero dotate di personale dipendente
tecnicamente competente, di conferire incarichi esterni,
come codificato all’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001
e successive modificazioni e integrazioni (cfr. Corte dei
conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Come è noto, l’importo erogabile a titolo di incentivo era
previsto in termini percentuali non superiori al 2% del
valore del progetto (la nuova disposizione in tema di
incentivi inserita dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014
succitato, contenuta nell’art. 93, al comma 7-ter, del
Codice dei contratti pubblici, dispone invece che sia
istituito un Fondo per la progettazione e l’innovazione da
ripartirsi “con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale e
adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis”).
La disciplina delle modalità di calcolo della percentuale
effettiva da destinare agli incentivi di progettazione era
rimessa dall’art. 92 sopra citato a regolamento
ministeriale.
Pertanto, il Ministero delle Infrastrutture emanava a tal
fine il D.M. 17.03.2008, n. 84 (“Regolamento recante
norme per la ripartizione dell’incentivo di cui all’art. 92,
comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”).
L’art. 1, comma 2, del D.M. citato, all’epoca vigente,
disciplinava la fattispecie dei contratti misti, così
disponendo “In caso di appalti misti l’incentivo… è
corrisposto per la redazione della progettazione relativa
alla componente lavori e per il corrispondente importo degli
stessi.”.
*****
Alla luce del quadro normativo così delineato il Collegio
osserva che
il criterio di quantificazione adottato
dall’Amministrazione per il conteggio degli incentivi da
riconoscere ai progettisti ai sensi dell’art. 92, comma 5,
del Codice dei contratti e sancito dal decreto in esame non
si dimostra conforme a legge.
Infatti, l’Amministrazione risulta aver conteggiato
l’importo del 2% spettante agli incaricati per la
progettazione prendendo a base di calcolo l’intero valore
del contratto, come indicato alla voce sub A – 1) del
decreto in esame, denominata “Lavori a misura” e recante
l’importo di € 188.535,62, destinando un totale di €
3.770,71 per l’incentivo in questione. Il dato, peraltro,
non è stato contestato dall’Amministrazione.
Così operando, il Provveditorato non ha calcolato
l’incentivo per la progettazione sulla base del valore dei
lavori, che, come visto, nel cottimo in considerazione è
percentualmente molto inferiore al valore dei gruppi frigo
acquistati. Al contrario, ha effettuato il calcolo sulla
base del valore dei lavori sommato al valore dei gruppi
frigo, così aggiungendo alla componente “lavori”, sulla
quale, sola, per legge, deve essere quantificata la
percentuale destinata all’incentivo, anche la diversa
componente di “forniture”, che corrisponde al valore del
bene “gruppi frigo”.
Tuttavia il Collegio, conclusivamente valutando la vicenda
amministrativa sottoposta all’esame, è dell’avviso che il
vizio rilevato presenti i caratteri della marginalità,
pertanto, non sia tale da invalidare il provvedimento
all’esame
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio,
deliberazione 20.10.2014 n. 174). |
APPALTI
FORNITURE E LAVORI PUBBLICI: In
tema di qualificazione del contratto misto di lavori e
forniture e di conseguente conformità a legge della
selezione del contraente a mezzo di cottimo fiduciario con
procedura d’urgenza.
In caso di contratti pubblici misti la
disciplina da applicare è quella del contratto con causa
prevalente, a nulla rilevando la definizione –nel caso di
specie di lavoro o di fornitura– che ne sia stata data
dall’amministrazione.
L’individuazione della prevalenza
causale è compito del giudice e deve essere effettuata caso
per caso secondo un criterio funzionale, ritenuto anche
dalla giurisprudenza amministrativa preponderante rispetto a
quello meramente economico, basato sul valore monetario
della parte lavoro rispetto alla parte forniture.
In
particolare, quando l’appalto è funzionale alla
realizzazione o alla modificazione di un’opera di ingegneria
civile si applica la normativa dei lavori pubblici, quale
sia l’importo economico della fornitura e del lavoro.
---------------
1. Sui presupposti dell’affidamento in economia secondo le
forme del cottimo fiduciario:
1.1. Natura del contratto affidato.
Considerato che il contratto di affidamento approvato nelle
sue procedure dal decreto in esame è da qualificare
contratto misto, di lavori e forniture, il Collegio osserva
in via preliminare che il nomen iuris ad esso dato
dall’Amministrazione non è in alcun modo determinante della
sua effettiva natura. Al contrario, questa è rimessa alla
valutazione del giudice in concreto. In tal senso soccorre
anche la giurisprudenza amministrativa, costante
nell’affermare che “l’interpretazione degli atti
amministrativi soggiace alle stesse regole dettate dagli
artt. 1362 c.c. per l’interpretazione dei contratti, fra le
quali ha carattere preminente quella collegata all’elemento
letterale, centrale restando comunque l’obbligo del giudice
d’individuare l’intento perseguito dall’Amministrazione ed
il potere che ha inteso effettivamente esercitare in base al
contenuto complessivo dell’atto, e ciò privilegiando gli
aspetti sostantivi della vicenda, indipendentemente dal nomen iuris attribuito ad esso da parte dell’Amministrazione
procedente” (cfr., ex multis, Trga Trento, 09.02.2010, n. 50; Cons. St., sez. IV, 30.05.2001, n. 2953, e
sez. V, 15.10.2003, n. 6316).
Peraltro, “nei contratti
misti la fusione delle cause fa sì che gli elementi
distintivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi
di un negozio unico, a mezzo del quale le parti perseguono
un risultato economico unitario e complesso, il che comporta
che l’entità, le modalità e le conseguenze del collegamento
negoziale debbano essere considerate in relazione
all’interesse perseguito dal soggetto appaltante” (TAR
Lombardia, Milano, sez. I, 12.09.2011, n. 2204).
Osserva, inoltre, il Collegio, che la disciplina da
applicare alle fattispecie di contratti pubblici misti è
quella riferita al contratto con causa prevalente.
In particolare, sul punto la Corte di giustizia delle
Comunità europee si è pronunciata affermando che “nel caso
di contratto misto l’operazione di cui trattasi deve essere
esaminata nel suo insieme, in modo unitario, ai fini della
sua qualifica giuridica, e dev’essere valutata sulla base
delle regole che disciplinano la parte che costituisce
l’oggetto principale, o l’elemento preponderante del
contratto” (CG, sez. IV, 06.05.2010, n. 149. Nello stesso
senso, CG 05.12.1989, causa C-3/88, Commissione c.
Italia; 19.04.1994, causa C- 331/92, Gestion Hotelera
Internacional, 18.01.2007, causa C-220/05, Auroux e a.;
21.02.2008, causa C-412/2004 Commissione c. Italia).
Identico orientamento si registra in ambito nazionale ove il
criterio della prevalenza “secondo le caratteristiche
specifiche del contratto” e della valutazione
dell’”accessorietà” della prestazione è riconosciuto sia a
livello normativo, (art. 14, comma 1, lett. a) e comma 3,
del Codice dei contratti pubblici), che giurisprudenziale,
nel momento in cui si afferma che, nel caso di contratti
misti, la disciplina applicabile è quella del “tipo
contrattuale prevalente”, da individuare caso per caso, in
base all’analisi approfondita della documentazione di gara
(Cfr. TAR Puglia, Bari, sez. I, 10.03.2011, n. 418).
Detta prevalenza deve essere valutata sia dal punto di vista
economico che funzionale, assicurando maggiore rilievo a
quest’ultimo.
Al riguardo, viene in considerazione il disposto dell’art.
14 del Codice dei contratti. La norma, da un lato, fa
riferimento alla valutazione della “accessorietà”, e in tal
caso privilegia l’elemento funzionale del contratto, secondo
un approccio di valutazione sostanziale. Dall’altro lato,
richiama anche il criterio della valutazione della
percentuale di costo, che tuttavia, viene utilizzato, nel
contratto misto di lavori e forniture, per introdurre una
presunzione a favore del contratto di lavori ove questi
impegnino economicamente l’Amministrazione per oltre il 50%
del valore dell’appalto.
*****
Venendo al caso di specie, osserva il Collegio che, dal
computo metrico estimativo del progetto esecutivo si evince
che i due gruppi frigo sono iscritti per un valore
complessivo pari a € 149.177,90, su un totale dei lavori, a
lordo del ribasso (non muta l’incidenza percentuale), pari a
€ 188.535,62. L’incidenza della fornitura sui lavori è pari
al 79% (e, di converso, dei lavori sulla fornitura pari al
21%).
Poiché le percentuali sono inverse rispetto a quelle di cui
all’art. 14, comma 3, del Codice dei contratti, la
disposizione ivi contenuta potrebbe essere letta “a
contrario” e, cioè, per escludere la presunzione di
prevalenza dei lavori ivi sancita per i casi, opposti a
quello in esame, in cui siano i lavori ad essere
percentualmente prevalenti nel costo rispetto alla fornitura
dei beni.
Tuttavia, rivolgendosi all’applicazione del criterio
qualitativo-funzionale, il Collegio afferma la necessità di
verificare in concreto se la fornitura dei gruppi frigo,
così economicamente preponderante rispetto al lavoro di posa
in opera, sia o meno elemento accessorio rispetto
all’attività di installazione.
Al riguardo soccorre il principio invocato dal
Provveditorato in sede istruttoria e sancito dall’AVCP con
la delibera n. 81/2011, come riletto alla luce della
documentazione depositata e delle dichiarazioni rese dallo
stesso Provveditorato nel corso dell’Adunanza pubblica.
Nel caso richiamato, l’AVCP ribadisce la preferenza del
criterio funzionale rispetto a quello economico ai fini
della valutazione di prevalenza tra lavori e forniture nei
contratti misti.
In particolare, osserva l’Autorità, “quando l’appalto è
funzionale alla realizzazione o alla modificazione di
un’opera di ingegneria civile si applica la normativa dei
lavori pubblici, quale sia l’importo economico della
fornitura e del lavoro. Viceversa è configurabile un
contratto di fornitura con posa in opera nel caso in cui con
il contratto di fornitura si intenda conseguire una
prestazione avente per oggetto una merce, un prodotto, che
autonomamente soddisfano il bisogno per la loro stessa
natura. In tal caso gli eventuali lavori di posa e
istallazione del bene fornito sono di carattere accessorio e
strumentale rispetto all’uso dello stesso”.
Pertanto,
conclude per la natura di contratto di lavori della
procedura sottoposta al suo esame, motivando in base alla
sua qualità specifica, di realizzazione di opere e impianti
“inseriti in un organismo di ingegneria civile, commerciale,
industriale”. In casi simili a questo, osserva l’Autorità,
non è consentito dare rilievo alle forniture, anche se di
valore superiore al 50%. “Ciò in quanto in ogni appalto di
lavori vi è una componente, talora economicamente
prevalente, di forniture, ma detto appalto non muta natura
quando l’opera si realizza o si modifica per consentire
un’attività che costituisce finalità della iniziativa della
pubblica Amministrazione” (Deliberazione AVCP n. 81 del
06.10.2011).
Tale ricostruzione dei criteri da seguire
nell’individuazione della disciplina da applicare ai
contratti misti di lavori e forniture resa dall’AVCP appare
al Collegio conforme alla legge e all’interpretazione della
giurisprudenza nella materia “de qua” e, conseguentemente,
condivisibile.
Pertanto, ritiene il Collegio di dover tenere in
considerazione la natura specifica dell’oggetto della
fornitura, la cui denominazione di “gruppi frigo” indicata
nel provvedimento in esame potrebbe essere in sé sola
fuorviante.
Infatti, come chiarito dall’Amministrazione più puntualmente
in sede di adunanza pubblica, nel caso di specie non si
trattava semplicemente di fornire al Tribunale civile
condizionatori caldo/freddo, bensì si trattava di realizzare
il nuovo impianto di condizionamento/raffreddamento, al fine
di consentire il servizio pubblico di amministrazione della
giustizia in uno stabile che, per sua struttura (realizzato
interamente a vetrate non apribili), non avrebbe permesso lo
svolgimento della funzione in assenza di locali resi
agibili.
Alla luce di tali chiarimenti il Collegio ritiene
applicabile il principio di prevalenza nei termini espressi
dall’AVCP con la determinazione succitata, rilevando che,
nel caso di specie, sussiste una preponderanza solo
economica del materiale fornito rispetto ai costi dei lavori
di costruzione del sistema di condizionamento dell’intero
stabile, mentre questi ultimi risultano, invece, prevalenti
dal punto di vista funzionale.
Conclude perciò il Collegio per la conformità a legge della
procedura adottata secondo le forme del cottimo fiduciario,
stante il rispetto dei limiti di valore di cui all’art. 125,
comma 8, del Codice dei contratti applicabile nei casi di
contratti di lavori.
*****
Ritiene, invece, il Collegio di dover precisare che non
appare in alcun modo dirimente la considerazione addotta dal
Provveditorato in ordine ad una qualche portata
argomentativa della necessità di attestazione SOA per lo
svolgimento dei lavori in questione, quasi che la richiesta
di detta attestazione alla ditta affidataria sia elemento
idoneo a dimostrare la prevalenza della parte “lavori” su
quella “forniture”.
Infatti, proprio in punto di qualificazione e capacità
economica e tecnica, l’ordinamento positivo fa eccezione al
principio della prevalenza sin qui illustrato, e dispone che
“l’operatore economico che concorre alla procedura di
affidamento di un contratto misto, deve possedere i
requisiti di qualificazione e capacità prescritti dal
presente codice per ciascuna prestazione di lavori, servizi,
forniture prevista dal contratto” (art. 15 del Codice dei
contratti).
Ne discende che nel caso in esame, per quanto riguarda la
parte relativa ai lavori, rimane comunque ferma la necessità
delle attestazioni SOA, a prescindere dal fatto che questi
si presentino come prevalenti o meramente accessori alla
fornitura (cfr. Cons. St. sez. V, 28.02.2012, n. 1153).
Pertanto, il fatto di avere richiesto il possesso dello
specifico requisito non incide sull’interpretazione data
circa la natura del contratto all’esame
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio,
deliberazione 20.10.2014 n. 174). |
LAVORI PUBBLICI: La procedura di somma urgenza non può configurarsi in caso
di inerzia dell’amministrazione, mentre essa può ricorrervi
quando dimostri di essersi tempestivamente attivata.
---------------
1.2. Il presupposto della somma urgenza.
Osserva il Collegio che il legislatore ha individuato tra i
presupposti che legittimano il ricorso ad affidamenti in
economia quello della situazione di urgenza o di somma
urgenza anche a prescindere dalla qualificazione del
contratto misto come contratto di forniture o di lavori.
In particolare, per le forniture, l’art. 125, comma 10, del
Codice dei contratti, afferma che il ricorso
all’acquisizione in economia “è… consentito nell’ipotesi
di…. d) urgenza, determinata da eventi oggettivamente
imprevedibili, al fine di scongiurare situazioni di pericolo
per persone, animali o cose, ovvero per l’igiene e la salute
pubblica…”. Per i lavori pubblici, lo stesso art. 125, al
comma 6, individua le ipotesi di affidamento in economia in
una serie di categorie generali di fattispecie che si
caratterizzano per l’imprevedibilità e la non
programmabilità degli interventi. Più specificamente, poi,
gli artt. 175 e 176 del d.P.R. n. 207/2010 prevedono i casi
dell’urgenza e della somma urgenza, indicando la procedura
da seguire.
Osserva, peraltro, il Collegio che la nozione di urgenza
trova radici ben più remote nel tempo, individuandosi una
simile categorizzazione anche ai sensi del precedente d.P.R.
n. 554/1999, secondo linee interpretative sin da allora
consolidate in giurisprudenza.
In particolare, il principio espresso dalla giurisprudenza
amministrativa, e che nella fattispecie rileva, appare al
Collegio adeguatamente riassunto dall’AVCP nella
determinazione resa il 05.04.2000, n. 18, ove si afferma
che “l’urgenza deve essere qualificata e non generica, deve
corrispondere ad esigenze eccezionali e contingenti e deve
essere tale da far ritenere che il rinvio dell’intervento
comprometterebbe irrimediabilmente il raggiungimento degli
obiettivi che la stazione appaltante si è posta mediante la
realizzazione dell’intervento stesso, non deve essere
imputabile all’inerzia della stazione appaltante stessa che
deve attuare una corretta pianificazione degli interventi da
eseguire”.
*****
Invero, sin dalla fase istruttoria, il maggiore dubbio in
ordine alla sussistenza, nel caso di specie, del presupposto
della procedura di affidamento in economia, dato
dall’urgenza di provvedere, ha riguardato il carattere
dell’imprevedibilità degli eventi e, insieme ad esso, della
non riconducibilità della situazione di urgenza all’inerzia
dell’Amministrazione.
Infatti, sulla base degli atti, in precedenza allegati il
venir meno della funzionalità dei gruppi frigo appariva
fatto ampiamente prevedibile dall’Amministrazione dato che
risultavano essere decorsi più di vent’anni dalla data delle
loro istallazione. Peraltro, la necessità della sostituzione
avrebbe ben potuto essere presa in considerazione anche a
prescindere dalla vetustà dell’impianto, dato che con
Regolamento (CE) 1005/2009 del Parlamento Europeo e del
Consiglio del 16.09.2009, il gas R22, utilizzato per
il funzionamento dei gruppi frigo in questione, era stato
riconosciuto tra le sostanze che riducono lo strato di ozono
e, pertanto, dichiarato utilizzabile solo fino a 2015.
Il Collegio ritiene che, grazie all’integrazione documentale
e alle dichiarazioni rese dall’Amministrazione in sede di
adunanza pubblica, i suddetti dubbi di legittimità possano
ritenersi superati.
Al riguardo, infatti, il Collegio ritiene che assuma
fondamentale rilevanza il documento di programmazione
intitolato “Adeguamento d.lgs. 81/2008 –prevenzione
antisismica- altro”, depositato nella sede della pubblica
adunanza dei 21.07.2014 dal Provveditorato
interregionale.
Detto documento, prodotto nella versione finale del 12.07.2010, dimostra che i lavori di sostituzione dei
gruppi frigo erano stati programmati a valere sul capitolo
di bilancio 7200 già per l’esercizio finanziario 2009, sin
da allora, peraltro, con i caratteri della somma urgenza.
L’Amministrazione ha, poi, dato conto dell’incapienza,
all’epoca, del capitolo di bilancio, con conseguente
impossibilità oggettiva di poter procedere ai lavori
richiesti.
Alla luce di tale nuova prospettazione dei fatti, il
Collegio ritiene che si debba considerare venuto meno il
rilievo della mancanza dei presupposti della somma urgenza
sub specie di inerzia dell’Amministrazione nel provvedere,
ravvisandosi piuttosto la doverosa attivazione della stessa
in tempi utili e l’ascrivibilità del ritardo nel provvedere
a ragioni di oggettiva impossibilità ad assumere le
decisioni del caso (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio,
deliberazione 20.10.2014 n. 174). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
termine di decadenza per procedere all’impugnazione di atti
amministrativi, di sessanta giorni (art. 29 c.p.a.), decorre
dal momento in cui la parte legittimata all’impugnativa
riceva la notifica dell’atto impugnato, dalla scadenza del
periodo di pubblicazione se previsto (art. 41 co. 2 c.p.a.);
in mancanza, il termine decorre dalla piena conoscenza
dell’atto.
Per piena conoscenza dell’atto si intende, con orientamento
tradizionale e consolidato, la conoscenza degli elementi
essenziali dell’atto ed essi vanno individuati nell'autorità
emanante, nell'oggetto, nel contenuto dispositivo e nel suo
effetto lesivo.
L’orientamento che ritiene conseguita la piena conoscenza
dell’atto solo qualora si conoscano anche le sue
motivazioni, così da poterne anche apprezzare gli eventuali
vizi, pur rappresentato in talune pronunce, resta largamente
minoritario.
Il descritto orientamento maggioritario, cui la Sezione
aderisce, è declinato, quanto all’impugnativa dei titoli
edilizi, nel senso che il termine per impugnare decorra dal
momento in cui divenga percepibile la piena portata
dell'intervento medesimo onde poterne apprezzare l’eventuale
lesività dei propri interessi; di regola, tale conoscenza è
conseguita con l’ultimazione dei lavori, salvo che non sia
provato, a cura di chi ha sollevato l’eccezione, che già in
un momento precedente la costruzione realizzata rivelasse in
modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera
agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente.
Com’è noto, il termine di decadenza per
procedere all’impugnazione di atti amministrativi, di
sessanta giorni (art. 29 c.p.a.), decorre dal momento in cui
la parte legittimata all’impugnativa riceva la notifica
dell’atto impugnato, dalla scadenza del periodo di
pubblicazione se previsto (art. 41 co. 2 c.p.a.); in
mancanza, ed è il caso che ci occupa, il termine decorre
dalla piena conoscenza dell’atto.
Per piena conoscenza dell’atto si intende, con
orientamento tradizionale e consolidato, la conoscenza degli
elementi essenziali dell’atto ed essi vanno individuati
nell'autorità emanante, nell'oggetto, nel contenuto
dispositivo e nel suo effetto lesivo (ex multis, v. Cons.
St., IV, 02.09.2011, n. 4973 e Cons. St. VI, n.
5116/2007). L’orientamento che ritiene conseguita la piena
conoscenza dell’atto solo qualora si conoscano anche le sue
motivazioni, così da poterne anche apprezzare gli eventuali
vizi, pur rappresentato in talune pronunce, resta largamente
minoritario (per una attenta ricostruzione degli
orientamenti sul punto si veda Consiglio di Stato, sez. III
23/05/2012, n. 2993 che, comunque, aderisce al menzionato
orientamento maggioritario).
Il descritto orientamento maggioritario, cui la
Sezione aderisce (v., ad es., Sent. n. 1603/2014; v. anche
TAR Napoli, sez. VIII, n. 03240/2013), è declinato,
quanto all’impugnativa dei titoli edilizi, nel senso che il
termine per impugnare decorra dal momento in cui divenga
percepibile la piena portata dell'intervento medesimo onde
poterne apprezzare l’eventuale lesività dei propri interessi
(v., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 12/02/2013, n.
844); di regola, tale conoscenza è conseguita con
l’ultimazione dei lavori, salvo che non sia provato, a cura
di chi ha sollevato l’eccezione, che già in un momento
precedente la costruzione realizzata rivelasse in modo
inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli
effetti della sua eventuale difformità rispetto alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente (oltre ai precedenti
già richiamati, si vedano: TAR Napoli, sez. II
18/03/2013,n. 1502; Consiglio di Stato, sez. IV 07/11/2012,
n. 5657; Consiglio di Stato, sez. IV 26/11/2013, n. 5633;
Consiglio di Stato, sez. IV 16/04/2014, n. 1890; Consiglio
di Stato, sez. IV 19/12/2012, n. 6557)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 14.11.2014 n. 5902 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione .
In siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto
dovuto, che non può essere evitata nell'assunto che per le
opere realizzate non fosse necessario il permesso di
costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché,
in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già
oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in
forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere
preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere
pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di
costruire ed opere realizzabili con segnalazione certificata
di inizio attività.
Ma a rilevare ancora qui con valore dirimente, è
il principio, dal Collegio pienamente condiviso, secondo cui
in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati,
gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione (TAR Campania, Napoli,
Sez. VI, 29.10.2013 n. 4817; 05.06.2013 n. 2910; 02.05.2012 n. 2006; 11.05.2011 n. 2624; 25.02.2011 n. 1218;
03.12.2010 n. 26788; Cass. Penale,
Sezione III, 24.10.2008 n. 45070).
In siffatte
evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che
non può essere evitata nell'assunto che per le opere
realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o
che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di
prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di
domanda di condono, vale il diverso principio in forza del
quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa,
senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali
e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere
realizzabili con segnalazione certificata di inizio attività
(cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 11.12.2012 n.
5084, 02.05.2012 n. 2006, 11.05.2011 n. 2626; Sez. VII, 14.01.2011
n. 160)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.11.2014 n. 5899
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In caso di ordine di
demolizione non è richiesta una specifica motivazione che
dia conto della valutazione delle ragioni di interesse
pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione
dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla
constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo
abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il
provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con la descrizione delle opere
abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
---------------
E’ inoltre priva di riscontro probatorio la risalenza dei
manufatti al periodo antecedente all’entrata in vigore della
L. 06.08.1967 n. 765 che, come noto, ha esteso all’intero
territorio comunale l’obbligo di munirsi di titolo
abilitativo ad edificare, con ciò innovando l’art. 31 della
L. 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica) che, in
precedenza, circoscriveva tale obbligo esclusivamente agli
immobili situati nei centri urbani.
Si aggiunga che, nel caso
specifico, l’ordine demolitorio si giustifica anche in
ragione della natura vincolata dell’area interessata dalle
costruzioni abusive.
Com'è noto nelle zone soggette a vincoli di cui al D.Lgs.
n. 42/2004 ogni intervento non rientrante tra quelli di cui
all'art. 149 deve essere preceduto da specifica
autorizzazione paesaggistica e, in assenza di quest'ultima,
le opere senza titolo devono essere ridotte in pristino ai
sensi dell'art. 167 dello stesso decreto legislativo.
Allo stesso modo l'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 prevede
che "il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio
o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree
assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici
ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di
cui alla legge 18.04.1962, n. 167 , e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi".
Nel caso di specie è incontestata la presenza del vincolo
paesaggistico sull'area in questione così come
l'insussistenza di un titolo per le opere realizzate e,
pertanto, correttamente ne è stata ordinata demolizione con
riduzione in pristino dello stato dei luoghi, ai sensi
dell’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 167 del
D.Lgs. n. 42/2004.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza,
peraltro, in caso di ordine di demolizione non è richiesta
una specifica motivazione che dia conto della valutazione
delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per
l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente
dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal
titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che
il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con la descrizione delle opere
abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr.
TAR Puglia, Lecce, 04.02.2012 n. 227; TAR
Campania, Napoli, VIII, 09.02.2012 n. 693).
E’ inoltre priva di riscontro probatorio la risalenza dei
manufatti al periodo antecedente all’entrata in vigore della
L. 06.08.1967 n. 765 che, come noto, ha esteso all’intero
territorio comunale l’obbligo di munirsi di titolo
abilitativo ad edificare, con ciò innovando l’art. 31 della
L. 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica) che, in
precedenza, circoscriveva tale obbligo esclusivamente agli
immobili situati nei centri urbani
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.11.2014 n. 5899
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che, nei
procedimenti ad istanza di parte, l’adozione di un
provvedimento negativo sia preceduta dalla comunicazione
agli interessati dei motivi che ostano all'accoglimento
della domanda.
Tale disposizione, avente portata generale, trova
applicazione anche nei procedimenti diretti alla
realizzazione degli impianti di telefonia mobile
disciplinati dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003, fermo
restando ovviamente che la comunicazione delle ragioni
ostative interrompe il termine per concludere il
procedimento, ovvero per la formazione del silenzio assenso,
fino alla presentazione delle osservazioni da parte degli
interessati o in mancanza fino alla scadenza dei dieci
giorni per l’esercizio del diritto di partecipazione al
contraddittorio.
Ne consegue che l'omissione del preavviso di rigetto
comporta l'illegittimità del provvedimento conclusivo emesso
in violazione dei diritti di partecipazione procedimentale
del destinatario.
---------------
Gli artt. 86 e 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 disciplinano il
rilascio dei titoli abilitativi relativi alle infrastrutture
di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici,
con un procedimento semplificato ai fini urbanistici,
edilizi ed igienico sanitari, destinato a prevalere sulla
disciplina edilizia dettata dal d.P.R. n. 380 del 2001,
assorbendo e sostituendo i procedimenti ordinari per il
rilascio dei titoli abilitativi.
Nel contempo, in base all’art. 86, co. 4, del citato d.lgs.
n. 259, sono fatte espressamente salve le disposizioni a
tutela dei beni ambientali e culturali, ora contenute nel
d.lgs. n. 42 del 2004.
Pertanto in presenza di un immobile o di un’area di
interesse paesaggistico, l’intervento è comunque subordinato
all’autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo, con il parere vincolante della competente
Soprintendenza ai sensi dell’art. 146 del citato d.lgs. n.
42.
---------------
I gestori di impianti di telefonia mobile sono tenuti ad
allegare esclusivamente i documenti indicati dal Codice
delle Comunicazioni, ferma restando comunque l’esigenza di
fornire un'appropriata dimostrazione della disponibilità
dell’immobile interessato dall’intervento.
Infatti il procedimento dettato dall'art. 87, d.lgs. n. 259
del 2003 per l’installazione di impianti di telefonia mobile
è improntato a finalità essenzialmente acceleratorie e
semplificatorie, per cui è da escludere che l’autorità
amministrativa possa aggravare il procedimento esigendo
documentazione diversa e ulteriore da quella prevista
dall'allegato 13, modello A o B, del d.lgs. n. 259 del 2003,
per lo scrutinio in ordine al rilascio del titolo
abilitativo secondo le previsioni regolamentari in materia
edilizia.
Sull’argomento vanno innanzitutto
esaminate le censure relative a vizi del procedimento.
L'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che,
nei procedimenti ad istanza di parte, l’adozione di un
provvedimento negativo sia preceduta dalla comunicazione
agli interessati dei motivi che ostano all'accoglimento
della domanda.
Tale disposizione, avente portata generale, trova
applicazione anche nei procedimenti diretti alla
realizzazione degli impianti di telefonia mobile
disciplinati dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003, fermo
restando ovviamente che la comunicazione delle ragioni
ostative interrompe il termine per concludere il
procedimento, ovvero per la formazione del silenzio assenso,
fino alla presentazione delle osservazioni da parte degli
interessati o in mancanza fino alla scadenza dei dieci
giorni per l’esercizio del diritto di partecipazione al
contraddittorio.
Ne consegue che l'omissione del preavviso di rigetto
comporta l'illegittimità del provvedimento conclusivo emesso
in violazione dei diritti di partecipazione procedimentale
del destinatario (cfr. TAR Piemonte, 08/01/2014, n. 18).
Le considerazioni di seguito svolte nel paragrafo 3.1
escludono che il procedimento in questione debba concludersi
necessariamente con una determinazione di diniego, per gli
effetti previsti dall’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990.
E’ inoltre da osservare che gli artt. 86 e 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 disciplinano il rilascio dei titoli
abilitativi relativi alle infrastrutture di comunicazione
elettronica per impianti radioelettrici, con un procedimento
semplificato ai fini urbanistici, edilizi ed igienico
sanitari, destinato a prevalere sulla disciplina edilizia
dettata dal d.P.R. n. 380 del 2001, assorbendo e sostituendo
i procedimenti ordinari per il rilascio dei titoli
abilitativi.
Nel contempo, in base all’art. 86, co. 4, del citato d.lgs.
n. 259, sono fatte espressamente salve le disposizioni a
tutela dei beni ambientali e culturali, ora contenute nel
d.lgs. n. 42 del 2004. Pertanto in presenza di un immobile o
di un’area di interesse paesaggistico, l’intervento è
comunque subordinato all’autorizzazione dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo, con il parere vincolante
della competente Soprintendenza ai sensi dell’art. 146 del
citato d.lgs. n. 42 (cfr., Cons. St., sez. III, 13/01/2014,
n. 96).
Sennonché non risulta che l’istanza di autorizzazione
paesaggistica, risalente al 10.06.2011, sia stata
inoltrata alla Soprintendenza, accompagnata da una relazione
istruttoria e da una proposta di provvedimento in ordine
alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento.
---------------
Per il resto, è opportuno
osservare che i gestori di impianti di telefonia mobile sono
tenuti ad allegare esclusivamente i documenti indicati dal
Codice delle Comunicazioni, ferma restando comunque
l’esigenza di fornire un'appropriata dimostrazione della
disponibilità dell’immobile interessato dall’intervento
(cfr. TAR Campania, sez. VII, 20/12/2006, n. 10647).
Infatti il procedimento dettato dall'art. 87, d.lgs. n. 259
del 2003 per l’installazione di impianti di telefonia mobile
è improntato a finalità essenzialmente acceleratorie e
semplificatorie, per cui è da escludere che l’autorità
amministrativa possa aggravare il procedimento esigendo
documentazione diversa e ulteriore da quella prevista
dall'allegato 13, modello A o B, del d.lgs. n. 259 del 2003,
per lo scrutinio in ordine al rilascio del titolo
abilitativo secondo le previsioni regolamentari in materia
edilizia (cfr., TAR Campania, sez. VII, 21/4/2009, n. 2077)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.11.2014 n. 5886 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Gli
istituti di partecipazione procedimentale, per quanto
ispirati a esigenze di trasparenza e democraticità
dell’azione amministrativa -corollari, a loro volta, dei
principi di buon andamento e imparzialità della stessa (art.
97 Cost.)- non godono di applicazione indiscriminata,
potendo risultare recessivi rispetto ad altre esigenze, del
pari dotate di analogo rilievo costituzionale.
Con la conseguenza che si è esclusa l’annullabilità del
provvedimento in caso di violazioni di ordine formale, tutte
le volte in cui la natura vincolata del provvedimento sia
tale da escludere che il contenuto dello stesso avrebbe
potuto essere differente (art. 21-octies, 2 co., prima
parte), o nell’ipotesi di atti discrezionali, tutte le volte
in cui il provvedimento adottato non avrebbe, comunque,
potuto avere un contenuto diverso da quello oggetto di
impugnazione (art. 21-octies, 2 co, seconda parte).
Cioè il legislatore ha ritenuto irrilevanti gli accertati
vizi di natura formale, ove ininfluenti sul bene della vita
richiesto dall’istante.
Peraltro, va in ogni caso anche
ricordato che -come costantemente precisato dalla
giurisprudenza- gli istituti di partecipazione
procedimentale, per quanto ispirati a esigenze di
trasparenza e democraticità dell’azione amministrativa -corollari, a loro volta, dei principi di buon andamento e
imparzialità della stessa (art. 97 Cost.)- non godono di
applicazione indiscriminata, potendo risultare recessivi
rispetto ad altre esigenze, del pari dotate di analogo
rilievo costituzionale.
Con la conseguenza che si è esclusa
l’annullabilità del provvedimento in caso di violazioni di
ordine formale, tutte le volte in cui la natura vincolata
del provvedimento sia tale da escludere che il contenuto
dello stesso avrebbe potuto essere differente (art.
21-octies, 2 co., prima parte), o nell’ipotesi di atti
discrezionali, tutte le volte in cui il provvedimento
adottato non avrebbe, comunque, potuto avere un contenuto
diverso da quello oggetto di impugnazione (art. 21-octies, 2 co, seconda parte).
Cioè il legislatore ha ritenuto
irrilevanti gli accertati vizi di natura formale, ove
ininfluenti sul bene della vita richiesto dall’istante
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 14.11.2014 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
decadenza dalla concessione edilizia non implica la
demolizione delle opere realizzate, ma comporta solo la
necessità di chiedere un nuovo permesso per la esecuzione
delle ulteriori opere.
La circostanza, invero, che il provvedimento di decadenza
della concessione edilizia abbia carattere dichiarativo e
che l’effetto di decadenza del titolo edilizio si verifica
automaticamente ope legis a causa del semplice decorso dei
termini stabiliti per l’inizio e per il completamento dei
lavori, comporta la conseguente legittimità dell’ordine di
demolizione solo per quanto realizzato “successivamente”
alla intervenuta decadenza, ma non per quanto realizzato in
precedenza.
In estrema sintesi, la decadenza del titolo edilizio per
mancata ultimazione dei lavori ha efficacia ex nunc e non ex
tunc, per cui le opere edilizie realizzate nel periodo di
validità del titolo edilizio non possono di certo essere
ritenute abusive; di conseguenza, l’ordine di demolizione di
tali opere può essere disposto solo in presenza di un
interesse pubblico particolarmente rilevante e non per il
semplice fatto che il titolo edilizio è nel frattempo
decaduto.
Va, invero, al riguardo ricordato che -così come del resto già precisato dalla giurisprudenza
amministrativa (cfr. Cons. St., sez. IV, 13.02.2007,
n. 804)- la decadenza dalla concessione edilizia non
implica la demolizione delle opere realizzate, ma comporta
solo la necessità di chiedere un nuovo permesso per la
esecuzione delle ulteriori opere. La circostanza, invero,
che il provvedimento di decadenza della concessione edilizia
abbia carattere dichiarativo e che l’effetto di decadenza
del titolo edilizio si verifica automaticamente ope legis a
causa del semplice decorso dei termini stabiliti per
l’inizio e per il completamento dei lavori, comporta la
conseguente legittimità dell’ordine di demolizione solo per
quanto realizzato “successivamente” alla intervenuta
decadenza (Cons. giust. amm. Reg. Sic., 16.09.1998,
n. 474), ma non per quanto realizzato in precedenza.
In estrema sintesi, la decadenza del titolo edilizio per
mancata ultimazione dei lavori ha efficacia ex nunc e non
ex tunc, per cui le opere edilizie realizzate nel
periodo di validità del titolo edilizio non possono di certo
essere ritenute abusive; di conseguenza, l’ordine di
demolizione di tali opere può essere disposto solo in
presenza di un interesse pubblico particolarmente rilevante
e non per il semplice fatto che il titolo edilizio è nel
frattempo decaduto
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 14.11.2014 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte effettuate
dall’Amministrazione in sede di approvazione degli strumenti
urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratte
in via generale al sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità,
sicché anche la destinazione data alle singole aree non
necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può
evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano
stesso, essendo sufficiente l’espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al
piano regolatore generale, salvo che “particolari situazioni
non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche
considerazioni”;
In sostanza, le uniche evenienze che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali sono date, oltre che da superamento degli standard
minimi di cui al d.m. 02.04.1968, dalla lesione
dell’affidamento qualificato del privato, derivante da
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di
concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola
della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo.
Le scelte urbanistiche, invero, costituiscono valutazioni
connotate da amplissima discrezionalità, sottratte come tali
al sindacato di legittimità, per cui la valutazione
dell’idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle
possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici,
rientra nei limiti dell’esercizio del potere discrezionale
rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori
di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile
il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento
basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli
immobili adiacenti.
Giova, invero, sul punto
ricordare che -come costantemente e pacificamente affermato
dalla giurisprudenza- le scelte effettuate
dall’Amministrazione in sede di approvazione degli strumenti
urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratte
in via generale al sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità,
sicché anche la destinazione data alle singole aree non
necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può
evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano
stesso, essendo sufficiente l’espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al
piano regolatore generale, salvo che “particolari situazioni
non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche
considerazioni”; in sostanza, le uniche evenienze che
richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli
strumenti urbanistici generali sono date, oltre che da
superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, dalla lesione dell’affidamento qualificato del
privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi
di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari
delle aree, aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto
su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione
in zona agricola della destinazione di un’area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Le scelte urbanistiche, invero, costituiscono valutazioni
connotate da amplissima discrezionalità, sottratte come tali
al sindacato di legittimità, per cui la valutazione
dell’idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle
possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici,
rientra nei limiti dell’esercizio del potere discrezionale
rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori
di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile
il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento
basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli
immobili adiacenti
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 14.11.2014 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Insidie stradali: Se il pedone scivola su un
'cubetto instabile' non segnalato il Comune deve risarcire
il danno.
Una vera e propria tiratina d’orecchie arriva dalla
Cassazione, nei confronti del giudice d’appello, in tema di
responsabilità della P.A. ex art. 2051 c.c.
Chiamata a pronunciarsi in una vicenda riguardante un
sinistro stradale, occorso ad un pedone, il quale scivolando
su un cubetto instabile della pavimentazione della strada,
non visibile e non segnalato, riportava lesioni personali
alla caviglia sinistra, la Corte di Cassazione - Sez. IV
civile (sentenza
23.10.2014 n. 22528) ha colto l’occasione per richiamare
la Corte d’Appello di Napoli, per l’errato “ragionamento
giuridico compiuto”, sulla base di una “giurisprudenza
ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e del
trabocchetto” (vedi: la
raccolta di articoli e sentenze in tema di insidie stradali).
Accolta in primo grado, infatti, la richiesta di
risarcimento danni avanzata dal pedone veniva rigettata in
secondo grado, dal giudice territoriale che dava ragione al
Comune di Guardia Sanframondi.
Per la Cassazione, invece, rispetto alla fattispecie, il
caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui
all’art. 2051 c.c.
Pertanto, ricordando la sequenza consolidata di decisioni in
materia (tra cui Cass. n. 9546 /2010) -basata su una lettura
costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite
alla responsabilità civile della P.A. in relazione alla non
corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede,
che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni–
la Cassazione ha affermato che “la presunzione di
responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi
dell'art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni
demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere
di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente
esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto
delle circostanze, della natura limitata del tratto di
strada vigilato”.
Presunzione che può essere superata solo dalla prova del
caso fortuito che, ha sottolineato la Cassazione, non
sussiste nel caso di specie, giacché il danneggiato è caduto
“in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto
da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio
del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di
pericolo”.
Così disponendo, pertanto, la S.C. ha cassato con rinvio
alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione con
il vincolo di attenersi ai principi di diritto enunciati
(commento tratto da www.studiocataldi.it).
---------------
MASSIMA
La presunzione di responsabilità di
danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per
i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la
custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa
legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile
nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della
natura limitata del tratto di strada vigilato.
La presunzione in tali circostanze resta superata dalla
prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento
del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul
marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato
aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione
delle condizioni di pericolo (nel caso di specie un pedone
scivola su un cubetto instabile della pavimentazione
stradale non visibile, né segnalato, determinando la caduta
lesioni personali alla caviglia sinistra)
(tratta da http://renatodisa.com). |
INCARICHI PROGETTUALI: Sull'affidamento
di incarichi progettuali condizionati al finanziamento
(futuro) dell'opera pubblica.
La Corte rimette gli atti al Primo
Presidente, per l'eventuale assegnazione della causa alle
Sezioni Unite Civili, circa le questioni sollevate con il
ricorso principale e con il secondo ed il terzo motivo del
ricorso incidentale che hanno ad oggetto la validità dei
contratti di prestazione d'opera professionale stipulati
dagli enti pubblici territoriali nei quali il pagamento del
compenso dovuto al professionista sia condizionato al
finanziamento dell'opera la cui progettazione costituisce
oggetto dell'incarico conferito.
Si discute in particolare se tale condizione valga a
sottrarre il contratto al disposto dell'art. 23, commi terzo
e quarto, del decreto-legge n. 66 del 1989 (abrogato
dall'art. 123, comma primo, lett. n, del d.lgs. 25.02.1995,
n. 77, e sostituito dall'art. 35 del medesimo decreto, a sua
volta abrogato dall'art. 274, lett. hh, del d.lgs.
18.08.2000, n. 267, e sostituito dall'art. 191 del medesimo
decreto), applicabile ratione temporis alla fattispecie in
esame, che subordina l'effettuazione di qualsiasi spesa alla
sussistenza di una delibera autorizzativa ed alla
registrazione del relativo impegno contabile sul competente
capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai
terzi interessati, prevedendo che, in mancanza, il rapporto
obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e
l'amministratore o il funzionario che abbiano consentito la
fornitura
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza
17.03.2014 n. 6123).
---------------
Per un commento all'ordinanza de qua
cliccare qui (link a www.studiolegalepadula.it). |
AGGIORNAMENTO AL 17.11.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
Oramai, è imminente la scadenza del 31.12.2014 entro
cui completare la gestione associata delle
funzioni comunali!! E pare che di ulteriore proroga non se
ne parli ... |
ENTI
LOCALI:
Gestioni associate e basta. Niente
proroga ai comuni sotto 5 mila abitanti.
Il chiarimento del ministero degli affari
regionali a un convegno.
Nessuna ulteriore proroga sulle gestioni associate
dei piccoli comuni.
Questa è la posizione del governo, stando a quanto
dichiarato dal capo della segreteria tecnica del
ministero degli affari regionali, Francesco Zito, in
un convegno svoltosi ieri presso la Scuola umbra di
amministrazione pubblica.
L'obbligo è stato previsto dall'art. 14 del dl
78/2010 e interessa tutti i comuni inferiori a 5.000
abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli
appartenenti o appartenuti a comunità montane.
Le funzioni da associare sono quelle identificate
come fondamentali dalla legge statale: al momento,
il relativo elenco è dettato dall'art. 14, comma 27,
del dl 78, come sostituito dall'art. 19, comma 1,
del dl 95/2012.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue
proroghe: al momento, tre funzioni sono state
associate entro il 31.12.2012, altre tre avrebbero
dovuto esserlo entro il 30 settembre, mentre per le
restanti la scadenza è fissata al 31.12.2014.
I nodi, però, stanno venendo al pettine solo ora,
dato che funzioni già devolute a livello
sovracomunale o erano già gestite in forma associata
(per esempio, servizi sociali) o sono piuttosto «leggere»
(per esempio, protezione civile o catasto). Il vero
core business include le funzioni «pesanti»
(come, per esempio, amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo, servizi
pubblici locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed
è ancora tutto da trasferire. Così come le procedure
di acquisto, che tutti i comuni non capoluogo (anche
se con più di 5.000 abitanti) devono centralizzare
sempre entro fine anno per i beni e i servizi, entro
il 30.06.2015 per i lavori.
Questa è la tempistica, ha detto Zito. Ma sul
territorio è alta l'attesa per un nuovo rinvio.
Opzione che, però, al momento non è sul tavolo
dell'esecutivo.
Naturalmente, non è escluso che il correttivo possa
arrivare dal parlamento, magari in sede di
approvazione del ddl stabilità 2015.
Il problema, puntualmente evidenziato da Zito, è che
le sanzioni per gli enti inadempienti sono di dubbia
efficacia. In teoria, passata inutilmente la
scadenza, il prefetto dovrebbe fissare un termine
perentorio e quindi nominare un commissario ad
acta. Ma quest'ultimo (ammesso che sia
individuato) non potrà far altro che svolgere una
funzione di stimolo. Servirebbero sanzioni più
forti, accompagnate anche da incentivi reali per chi
si aggrega (articolo ItaliaOgi del 12.11.2014). |
Comunque, la Prefettura di Avellino ricorda che, ai
sensi del comma 31-quater del D.L. 78/2010
convertito nella legge n. 122/2010, in caso di
inadempimento è previsto l'intervento del Prefetto
che assegna ai Comuni un termine per provvedere,
decorso il quale opera l'azione sostitutiva del
Governo, ai sensi dell'art. 8 della legge 5 giugno
2003, n. 131 (c.d. legge la loggia). |
ENTI LOCALI:
Oggetto: Gestione associata delle funzioni
fondamentali degli enti locali ex art. 14, D.L.
31.05.2010, n. 79, convertito con modificazioni,
dalla legge 30.07.2010 e dai commi da 25 a 31-quater
della legge n. 122/2010 e successive modifiche, in
base al testo come integrato dall'art. 19 della
legge n. 135/2012 (Prefettura di Avellino,
nota 12.11.2014 n. 1256 di prot.). |
Forse, è il caso di ricordare quali
siano le funzioni comunali oggetto di gestione
associata siccome elencate dall'art.
14, comma 27, del D.L. 78/2010:
27. Ferme
restando le funzioni di programmazione e di
coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle
materie di cui all’articolo 117, commi terzo e
quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate
ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione,
sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi
dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della
Costituzione:
a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo;
b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale
di ambito comunale, ivi compresi i servizi di
trasporto pubblico comunale;
c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato
dalla normativa vigente;
d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito
comunale nonché la partecipazione alla
pianificazione territoriale di livello sovracomunale;
e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di
protezione civile e di coordinamento dei primi
soccorsi;
f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta,
avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e
la riscossione dei relativi tributi;
g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi
sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai
cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo
118, quarto comma, della Costituzione;
h) edilizia scolastica, per la parte non attribuita alla
competenza delle province, organizzazione e gestione
dei servizi scolastici;
i) polizia municipale e polizia amministrativa locale;
l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e
compiti in materia di servizi anagrafici nonché in
materia di servizi elettorali e statistici,
nell’esercizio delle funzioni di competenza statale.
Certamente, per quanto
qui interessa, la funzione più "delicata" è
quella di cui alla lett. d) ed un interrogativo ci
sorge spontaneo: se un comune con
meno di 5.000 abitanti non si associa con un altro
(per raggiungere il minimo demografico di legge)
entro fine c.a., cosa succede se dal 1° gennaio
2015:
1) rilascia un permesso di costruire?? oppure
istruisce una DIA/SCIA??
2) adotta/approva un piano attuativo??
e tutto ciò nonostante l'enorme mole di tempo messa
a disposizione dal legislatore per conformarsi al
precetto normativo??
Gli atti sono legittimi?? C'è il concreto rischio di
un eventuale risarcimento del danno laddove, magari,
l'atto amministrativo fosse annullato per le più
disparate motivazioni?? L'inerzia
dell'amministrazione comunale costituisce colpa
grave?? Il responsabile dell'UTC ha debitamente
informato (per iscritto) la Giunta Comunale circa
l'adempimento da osservare?? E se non vi ha
provveduto??
17.11.2014 - LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Ruolo
e responsabilità del committente, la guida pratica per la
sicurezza nei cantieri.
Al fine di prevenire gli incidenti che quotidianamente si
verificano in cantiere è utile informare e sensibilizzare
non solo i tecnici, ma anche tutti i cittadini: chiunque,
infatti, decida di ristrutturare il proprio appartamento o
di costruire una nuova casa assume il ruolo di committente e
diventa il primo responsabile della catena della sicurezza.
Questo è il presupposto su cui si basa la guida “Ruolo e
responsabilità del committente” realizzata dall’Ordine
degli Ingegneri di Bologna.
La pubblicazione pone l’attenzione sulla figura di “primo
responsabile” che assume il committente e le sue
responsabilità in materia di sicurezza e prevenzione, nonché
sugli obblighi normativi in materia e alle relative
sanzioni.
Il documento costituisce una raccolta di utili consigli
sulla sicurezza che guidano i committenti prima, durante e a
fine lavori, come ad esempio:
● rivolgersi ad un professionista che ricopra la carica di
Responsabile dei lavori, se non si possiede una formazione
tecnica in materia di edilizia e di sicurezza nei cantieri
●
individuare la figura del Coordinatore della sicurezza sulla
base di una comprovata esperienza e serietà professionale
●
scegliere l’impresa di fiducia e di riconosciuta capacità
tecnico-professionale anche nell’applicazione delle misure
di sicurezza e salute dei lavoratori in cantiere
(13.11.2014 - link a www.acca.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
SEGRETARI COMUNALI:
OGGETTO: richiesta di parere in merito all'applicazione
dell'art. 9, commi 1 e 21, del D.L. 78/2010 ai segretari
comunali collocati nella fascia professionale B (nota
28.10.2014 n. 60480 di prot.). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
OGGETTO: semplificazione degli oneri formali nella
partecipazione a procedure di affidamento di contratti
pubblici (Consorzio dei Comuni Trentini,
circolare 05.11.2014 n. 62/2014). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive
modificazioni ed integrazioni - risposta al quesito relativo
ai costi di manutenzione degli apprestamenti
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 04.11.2014 n. 25/2014). |
INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto:
Formazione continua ingegneri
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 31.10.2014 n. 445). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: istanze di autorizzazione ai sensi del codice
della strada per la posa di cartelli pubblicitari sul
territorio comunale
(Consorzio dei Comuni Trentini,
circolare 29.10.2014 n. 54/2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: DIFFERIMENTO DEL TERMINE DI ENTRATA IN VIGORE
DELLA NUOVA CLASSIFICAZIONE SISMICA (Regione
Lombardia,
nota 15.10.2014 n. 7424 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 17.11.2014, "Determinazioni
in merito ai tempi ed alle modalità di presentazione e/o
aggiornamento, per l’anno 2015, della comunicazione per
l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e
degli altri fertilizzanti azotati prevista dalle d.g.r. n.
2208/2011 allegato I (zone vulnerabili) e n. 5868/2007 –
Allegato 2 (zone non vulnerabili) e modifiche al d.d.g. n.
386/2012 (deroga nitrati)" (decreto
D.G. 13.11.2014 n. 10588). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: P.a., caos sulla spesa per i lavori flessibili. Corte conti campana contro quella lombarda.
È caos sulla portata dei nuovi limiti alla spesa per i
contratti di lavoro flessibili introdotti dal recente
decreto sulla p.a. I giudici contabili sono divisi
sull'interpretazione della novella e sfornano parere
contrastanti: l'ultimo è quello della Sezione regionale di
controllo per la Campania, che ha dato ragione a quella
pugliese e torto a quella lombarda.
Il problema riguarda la
previsione di cui all'art. 11, comma 4-bis, del dl 90/2014,
introdotto dalla l. 114/2014. In base a essa, agli enti
locali che hanno sempre rispettato l'obbligo di riduzione
delle spese di personale previsto dai commi 557 (enti
soggetti al Patto) e comma 562 (enti non soggetti al Patto)
dell'art. 1 della legge 296/2006 non si applicano le
limitazioni previste dall'art. 9, comma 28, del dl 78/2010
per le assunzioni a tempo determinato, collaborazioni
coordinate e le altre forme di lavoro flessibile, pari 50%
delle spesa impegnata con le medesime finalità nel 2009.
Il dubbio riguarda l'ulteriore precisazione (contenuta nel
medesimo art. 9, comma 28, già prima della modifica), secondo
cui «resta fermo che comunque la spesa complessiva non può
essere superiore alla spesa sostenuta per le stesse finalità
nell'anno 2009».
La prima a esprimersi sul punto è stata la Sezione regionale
di controllo della Corte dei conti per la Puglia con il
parere 09.10.2014 n. 174, affermando che l'obbligo di non
oltrepassare la spesa 2009 si impone anche agli enti
«virtuosi».
Il medesimo orientamento restrittivo è stato espresso nei
giorni scorsi dalla omologa Sezione per la Campania, che con
il
parere
06.11.2014 n. 232 ha confermato in pieno la tesi dei
colleghi pugliesi.
Di avviso contrario, invece, la Sezione per la Lombardia, il
cui
parere
17.10.2014 n. 264 ha ritenuto che la novella introdotta
dal dl 90 determini la disapplicazione di tutte le
limitazioni previste dal citato comma 28, ivi compresa
quella in parola.
Tale lettura, invero, pare quella maggiormente coerente con
la ratio del più recente intervento modificativo.
Come sembra ricavabile anche dagli atti preparatori della
disposizione in esame, esso è volto a consentire agli enti
locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di
personale di cui ai commi 557 e 562 una maggiore
flessibilità, riconoscendo loro la facoltà di incrementare
la spesa di personale da compensarsi comunque con
corrispondente riduzione di altre voci di bilancio, fermi
restando naturalmente i vincoli del Patto di stabilità
interno (articolo ItaliaOggi dell'11.11.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Dirigenti pubblici, il rinnovo può evitare il
concorso. Corte dei conti. Le
deroghe possibili.
Il rinnovo di un incarico
dirigenziale pubblico di seconda fascia può essere deciso
anche senza passare dal concorso pubblico, a patto che ci
siano «peculiari esigenze di funzionamento» scritte nero su
bianco nel provvedimento di conferma; tra queste «peculiari
esigenze» non può rientrare un'urgenza che mal si
concilierebbe con il calendario lungo delle procedure
concorsuali, dal momento che la scadenza dell'incarico è
nota fin dall'inizio e consente alla Pubblica
amministrazione di attrezzarsi in tempo, mentre la deroga
potrebbe essere sostenuta «dall'alto livello di
specializzazione dei compiti assegnati all'ufficio, dalla
particolare competenza posseduta e dai buoni risultati
raggiunti dal dirigente preposto».
A dettare le istruzioni per i rinnovi degli incarichi
dirigenziali è la Corte dei conti, che con la
deliberazione 29.10.2014 n. 24/2014 della sezione
centrale di controllo sugli atti del Governo, diffusa ieri,
apre un varco negli obblighi di concorso previsti
dall'articolo 19 del Testo unico sul pubblico impiego (Dlgs
165/2001) e rafforzati dalla riforma Brunetta. La regola
impone la selezione pubblica per il conferimento di
incarichi dirigenziali, e in genere il rinnovo è considerato
alla pari di un nuovo conferimento (così, per esempio, la
delibera 180/2014 della sezione Emilia Romagna).
La selezione serve a tutelare gli aspiranti al posto e ad
assicurare «la trasparenza e la neutralità
nell'assegnazione delle funzioni», ma questi interessi
possono rivelarsi «recessivi rispetto a peculiari
esigenze di funzionamento» dell'amministrazione.
Entrambi questi aspetti, dunque, vanno messi sulla bilancia,
e possono portare a scelte diverse rispetto all'obbligo di
concorso.
Scelte, però, che oltre a essere limitate dalle «peculiari
esigenze» indicate dalla Corte (ma comunque rimesse ai
giudizi della stessa Pa) devono fare i conti con le regole
anti-corruzione, che chiede di fissare criteri di rotazione
per gli incarichi più a rischio: un insieme di parametri che
non è facile tenere insieme quando si decide di rinnovare un
incarico senza concorso (articolo Il
Sole 24 Ore dell'11.11.20).
---------------
Massima:
Per l’adozione del provvedimento di
conferma nelle funzioni dei dirigenti di seconda fascia, non
è obbligatoria l’applicazione della procedura di cui
all’art. 19, comma 1-bis, del d.lgs n. 165/2001, in quanto
la specifica fattispecie del rinnovo può essere considerata
una casistica a sé, sottratta agli obblighi di pubblicità
introdotti in via generale da parte del d.lgs. n. 150 del
2009.
Le particolari esigenze di servizio atte a giustificare il
provvedimento di conferma devono essere rese ostensive nel
provvedimento stesso, costituendo il presupposto che
consente di fare ricorso a tale istituto, alternativo al
nuovo conferimento, che implica la conseguenza di procedere
in deroga al generale criterio della concorsualità. |
SEGRETARI
COMUNALI:
La Corte dei conti riassegna i diritti ai segretari di
fascia A. Decreto Pa. Lettura estensiva dalla sezione Lombardia.
L’accesso ai diritti di segreteria da parte del
segretario comunale continua a operare se il servizio viene
prestato in Comuni privi di personale con qualifica
dirigenziale o se i segretari stessi non hanno la qualifica
dirigenziale.
Lo precisa la Corte dei Conti
Lombardia con il
parere 29.10.2014 n. 275.
La magistratura contabile ha precisato che, nel caso di
segretario di fascia A (e quindi equiparato al dirigente
dall’articolo 32 del contratto nazionale del 16.05.2001)
titolare di una convenzione di segreteria tra più enti con
popolazione complessiva compresa tra 10.001 e 65mila
abitanti, dove in nessun ente sono presenti dipendenti con
qualifica dirigenziale, è possibile attribuire i diritti di
segreteria, anche dopo il Dl 90/2014 che ne ha limitato
l’attribuzione al personale interessato.
L’articolo 10 del
Dl 90 prevede che «negli enti locali privi di dipendenti con
qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari
comunali che non hanno qualifica dirigenziale», i diritti di
segreteria sono erogati in misura non superiore al quinto
dello stipendio in godimento. La lettura dei giudici risulta
a favore della categoria ma con questa interpretazione solo
i segretari che prestano servizio presso enti locali con
dirigenti si vedrebbero preclusa la possibilità di accedere
dal provento. La norma salva anche i segretari non aventi
qualifica dirigenziale, che sono quelli iscritti alla fascia
C, prescindendo dalla classe demografica del Comune.
Una
lettura diversa della stessa norma porterebbe ad affermare
l’accesso ai diritti di segreteria da parte dei segretari
comunali che non hanno la qualifica dirigenziale e di
conseguenza il provento potrebbe essere attribuito solo ai
segretari di fascia C, cioè quelli che possono ricoprire
sedi fino a 3mila abitanti. Sarebbero esclusi dai compensi i
segretari in Comuni privi di dirigenti, se hanno una
qualifica dirigenziale (di fascia A e B), e i segretari -anche privi della qualifica dirigenziale perché di fascia C- che prestano la loro attività in enti con i dirigenti.
D’altronde il trattamento dei "dirigenti" è per legge da
considerare onnicomprensivo delle funzioni attribuite
dall’ordinamento. Secondo la relazione tecnica del Ddl di
conversione del Dl 90/2014, la nuova norma, meno severa
rispetto a quella prevista prima della conversione che
aboliva tout court il diritto, attenua alcuni effetti per i
segretari che non hanno la qualifica dirigenziale e per
quelli che lavorano in enti privi di dirigenti. La lettera
della norma non aiuta a comprendere quali fossero le reali
intenzioni e forti sono i dubbi di incostituzionalità, anche
perché si incide su un ambito attualmente disciplinato dal
contratto nazionale che secondo il Dlgs 165/2001 non può che
essere demandato alla contrattazione collettiva.
Inoltre con
la nuova formulazione i diritti vengono attribuiti per
intero al segretario rogante, a differenza di prima quando
era ammesso a riparto il 75 percento del 90 percento
spettante all’ente (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2014
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
PATRIMONIO: Il
taglio dei canoni d'affitto si applica anche agli enti.
La riduzione del 15% sui canoni di locazione degli immobili
adibiti ad uffici pubblici, prevista dall'articolo 3, comma
4 del dl n. 95/2012, non opera soltanto nell'ipotesi in cui
il proprietario sia un privato, ma anche quando a possedere
l'immobile è un ente territoriale. Infatti, allo stato
attuale, nelle previsioni normative vigenti non si rinviene
alcuna deroga che comporti l'esclusione dei predetti gli
enti dall'applicazione della riduzione dei fitti passivi.
Sì è così espressa la sezione regionale di controllo della
Corte dei conti Lombardia, nel testo del
parere 27.10.2014 n. 273, con cui ha fornito un
interessante chiarimento alle disposizioni contenute
all'articolo 3 del dl n. 95/2012, come modificate
dall'articolo 24 del dl n. 66/2014.
Norma che prevede che dallo scorso 1° luglio, con
riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad
oggetto immobili ad uso istituzionale, stipulati da
amministrazioni centrali, i relativi canoni devono essere
ridotti del quindici per cento di quanto sino ad allora
corrisposto.
Su questo punto, il sindaco del comune di Broni (Pv) ha
richiesto l'intervento consultivo della Corte lombarda per
sapere se le disposizioni sopra richiamate avessero
efficacia anche nei confronti degli enti territoriali, in
veste di soggetti proprietari di detti immobili. Il dubbio
del sindaco del comune pavese, infatti, si fonda sul fatto
che un'eventuale riduzione del canone di locazione
comporterebbe minori entrate in bilancio comunale e questo
sarebbe «in contrasto» con la ratio della
spending review che «non sembrerebbe contemplare la
riduzione della spesa pubblica a danno di un'altra
articolazione della pubblica amministrazione».
Secondo la Corte lombarda la norma si applica anche alle
altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del
dlgs n. 165/2001. Vi è di più. La Corte aggiunge nel parere
che, quando il legislatore ha voluto escludere il comparto
degli enti territoriali dall'applicazione di norme sui tagli
alle locazioni passive, lo ha espressamente fatto.
Quindi, posto che la norma si riferisce in generale ai
contratti di locazione passiva stipulati dalle p.a. centrali
«senza fornire ulteriori precisazioni», è pacifico
che i tagli devono essere disposti anche nelle ipotesi di
locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche,
proprietarie dell'immobile locato. Queste ultime, subendo la
riduzione del canone, possono tuttavia esercitare il diritto
di recesso dal contratto (articolo ItaliaOggi del 15.11.2014). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli a guida interna.
L'assessore esterno non presiede l'assemblea.
Nei piccoli comuni la presidenza sarà assunta dal
consigliere anziano.
Un assessore esterno può esercitare le funzioni di
vicesindaco se, secondo lo statuto comunale, ciò comporta
avere automaticamente la supplenza della presidenza del
consiglio comunale in caso di assenza o impedimento del
sindaco?
Nel caso di specie lo statuto dell'ente prevede che «il
vice sindaco sostituisce in tutte le funzioni il sindaco
temporaneamente assente, impedito o sospeso dalla carica»;
inoltre stabilisce che, «in caso di assenza o impedimento
anche del vicesindaco, alla sostituzione del sindaco
provvede l'assessore più anziano di età». Il regolamento
sul funzionamento del consiglio comunale disciplina in
maniera specifica la fattispecie della presidenza
dell'organo, stabilendo che il consiglio comunale è
presieduto dal sindaco ed in caso di sua assenza od
impedimento la convocazione e la presidenza spettano
all'assessore delegato ed in sua assenza all'assessore
anziano, individuato nel candidato che ha riportato il
maggior numero di voti individuali; in caso di sua assenza o
impedimento, le relative funzioni sono svolte da colui che,
nella graduatoria di anzianità, occupa il posto successivo.
Premesso, pertanto, che occorrerebbe applicare la normativa
regolamentare che disciplina la supplenza del presidente del
consiglio, non essendovi obbligatoria corrispondenza tra
l'assessore vicesindaco e assessore delegato, nella
fattispecie in esame le disposizioni statutarie e
regolamentari in materia mantengono una coerenza fino
all'intervenuta modifica dello statuto che ha introdotto la
possibilità di nomina, all'interno della giunta, anche di
assessori esterni.
La nomina di assessori esterni all'assemblea nei comuni con
popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, attiene al
contenuto facoltativo dello statuto, ai sensi dell'art. 47,
comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000. Rientra,
pertanto, nella discrezionalità del sindaco l'assegnazione
delle funzioni di vicesindaco ad un assessore esterno
piuttosto che a un assessore interno. Vi sono però taluni
limiti alle prerogative del vicesindaco esterno al
consiglio, evidenziati dal Consiglio di stato, sez. I, nel
parere n. 94/1996 reso nell'adunanza del 21.02.1996. In tale
parere, il Supremo consesso ha ritenuto che il vicesindaco
esterno al consiglio non possa svolgere le funzioni di
componente, con diritto di voto, nel consiglio comunale, in
quanto «appare difficilmente concepibile che esse vengano
esercitate di volta in volta dal sindaco o da chi ne fa
occasionalmente le veci», considerato che «nel nostro
ordinamento non è ammessa la delega o sostituzione nelle
funzioni di componente delle assemblee elettive».
Per quanto concerne le funzioni di presidente del consiglio
comunale che spettano al sindaco nei comuni sino a 15.000
abitanti (salvo che l'ente si sia avvalso della facoltà di
prevedere nello statuto la figura del presidente del
consiglio) il Consiglio di stato ha distinto l'ipotesi che
il vicesindaco sia anche consigliere comunale, da quella in
cui è, viceversa, esterno al consiglio. In merito, l'art.
64, comma 3, del dlgs. n. 267/2000 dispone che nei comuni
con popolazione inferiore a 15.000 abitanti non vi è
incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed
assessore nella rispettiva giunta, per cui non è operante la
previsione del precedente comma 2, che dispone l'automatica
cessazione dalla carica di consigliere all'atto
dell'accettazione dell'incarico assessorile, ovvero
l'obbligo, per il consigliere che sia nominato assessore, di
«dimettersi» dalla carica di consigliere.
Orbene, nel primo caso deve reputarsi ammissibile la
possibilità di sostituire il sindaco anche nelle funzioni
presidenziali, mentre nel secondo caso il vicesindaco non
può presiedere il consiglio, in quanto non può «fungere
da presidente di un collegio un soggetto che non ne fa
parte. La presidenza sarà, invece, assunta dal membro del
collegio che ne ha titolo in base alle consuete regole
dell'anzianità».
Anche l'articolo 39 del decreto legislativo n. 267/2000 che
disciplina la figura del presidente del consiglio e del vice
presidente, fatta salva la prerogativa propria del sindaco,
consente l'affidamento dell'ufficio in parola esclusivamente
ai consiglieri comunali. Qualora l'ente non disponga di
assessori interni che cumulino anche il ruolo di consiglieri
comunali, nell'impossibilità di assegnazione della delega
prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale, dovrà pertanto procedersi alle opportune modifiche
statutarie e regolamentari -assegnando il potere sostitutivo
del presidente a un consigliere in carica- al fine di non
incorrere in possibili interruzioni dell'attività del
consiglio nell'ipotesi di impedimento del sindaco-presidente
(articolo ItaliaOgi del 14.11.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Diritto di accesso di un consigliere comunale. Delega ad un
terzo dell'esercizio del diritto. Inammissibilità.
Il diritto di accesso riconosciuto
dall'art. 43 TUEL ai consiglieri comunali è strumentale
all'espletamento del mandato elettivo. Pertanto, così come
non è possibile delegare l'esercizio del munus pubblico,
allo stesso modo non può essere oggetto di delega
l'esercizio di un diritto che è espressione di tale carica
pubblica.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
possibilità per un consigliere comunale di delegare un terzo
all'esercizio del diritto di accesso allo stesso
riconosciuto dall'articolo 43 del TUEL.
Sentito il servizio elettorale si formulano le seguenti
considerazioni.
L'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 recita: 'I consiglieri comunali e provinciali
hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati
dalla legge'.
Come rilevato, in diverse occasioni dalla giurisprudenza, si
tratta di un diritto che «ha in realtà una ratio
diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso
ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei
cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267)
ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della L.
07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea generale il
diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli
soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle
proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello
riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente
funzionale all'esercizio delle loro funzioni, alla verifica
e al controllo del comportamento degli organi istituzionali
decisionali dell'ente locale (Cons. Stato, sez. IV,
21.08.2006, n. 4855) ai fini della tutela degli interessi
pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si
configura come peculiare espressione del principio
democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza
esponenziale della collettività (Cons. Stato, sez. V,
08.09.1994, n. 976)» [1].
Si tratta, dunque, di un diritto riconosciuto
all'amministratore locale, strumentale all'espletamento del
mandato elettivo. Per il suo tramite, infatti, il
consigliere può 'valutare con piena cognizione di causa
la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché [per] esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
[per] promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale [...]. Il diritto in argomento non opera
unicamente in relazione alle competenze amministrative del
consiglio comunale ma, essendo riferito all'espletamento del
mandato, investe l'esercizio del munus in tutte le sue
potenziali implicazioni per consentire la valutazione della
correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione
comunale[...]'. [2]
Alla luce delle considerazioni che precedono segue che, così
come non è possibile delegare l'esercizio del munus
pubblico, allo stesso modo non può essere oggetto di delega
l'esercizio di un diritto che è espressione di tale carica
pubblica.
Tale conclusione si ritiene non venga contraddetta
dall'esistenza, nel regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale, della norma ai sensi della quale 'ciascun
gruppo, prima dell'inizio della prima seduta del neo eletto
Consiglio comunale, comunica per iscritto al Segretario
Comunale il nome del Consigliere che assume le funzioni di
Capogruppo, nonché i suoi componenti e il nominativo del
Consigliere al quale affidare, in caso di assenza o
impedimento del Capo gruppo medesimo, l'esercizio delle
funzioni attribuite dal Regolamento'.
Trattasi, infatti, di disposizione volta a disciplinare il
funzionamento dei gruppi consiliari prevedendo che, in caso
di mancanza del soggetto designato quale Capogruppo ve ne
sia un altro, anch'esso consigliere comunale, legittimato ad
esercitare le 'funzioni attribuite dal Regolamento'.
Senza addentrarsi sulla interpretazione della norma
regolamentare, attività per la quale questo Ufficio non è
competente, [3]
si rileva che, comunque, l'esercizio del diritto di accesso
degli amministratori locali non può essere annoverato tra le
'funzioni attribuite dal Regolamento' ai Capigruppo
consiliari trattandosi di un diritto personale il cui
fondamento risiede nella legge.
--------------
[1] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 05.09.2014,
n. 4525.
[2] TRGA, Trentino Alto Adige, sentenza del 12.02.2008, n.
29.
[3] L'interpretazione della norme del regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale spetta, infatti,
all'organo che lo ha approvato (11.11.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Nomina di un amministratore comunale a direttore di un
museo. Incompatibilità.
In caso di nomina di un consigliere
comunale a direttore, mediante affidamento di incarico
professionale, di un museo istituito dal Comune in cui
esercita il suo mandato elettivo, si ritiene possa venire in
rilievo la causa di incompatibilità di cui all'articolo 63,
comma 1), num. 2), del D.Lgs. 267/2000 nonché quella
prevista dall'art. 12 del D.Lgs. 39/2013.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
possibilità di nominare un consigliere comunale quale
direttore del museo comunale sotto il profilo dell'eventuale
insorgenza per lo stesso di una causa di incompatibilità.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti
considerazioni.
La legge regionale 18.11.1976, n. 60 recante 'Interventi
per lo sviluppo dei servizi e degli istituti bibliotecari e
museali e per la tutela degli immobili di valore artistico,
storico od ambientale, degli archivi storici e dei beni
mobili culturali del Friuli - Venezia Giulia',
all'articolo 19 prevede che: 'Alle attività del museo
pubblico presiede una apposita Commissione nominata
dall'ente locale proprietario e disciplinata dallo Statuto
del museo stesso'. Il quarto comma dispone, poi, che, 'Della
Commissione è membro di diritto il direttore del museo o il
conservatore preposto ad esso'.
In attuazione della norma di legge, lo statuto del Museo
dell'Ente all'articolo 4, secondo comma, prevede che: 'Della
Commissione è inoltre membro di diritto il direttore del
Museo, nominato dal Consiglio Comunale, mediante incarico,
tenendo presente la preparazione culturale, la capacità
professionale, nonché il possesso dei titoli di studio
ritenuti adeguati alle mansioni da svolgere'.
Atteso che la norma statutaria prevede che il ruolo di
direttore del museo venga attribuito mediante affidamento di
un incarico professionale, si ritiene che lo stesso, qualora
venisse dato ad un consigliere comunale, porterebbe
all'insorgenza a suo carico della causa di incompatibilità
di cui all'articolo 63, comma 1), num. 2), del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale sancisce
l'incompatibilità dell'amministratore locale che, in qualità
di titolare, amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento abbia parte, direttamente
o indirettamente, in servizi nell'interesse del comune.
Nel termine servizi si suole ricomprendere 'qualsiasi
rapporto intercorrente con l'ente locale che a causa della
sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia
in grado di determinare conflitto di interessi.'
[1] La
giurisprudenza ha, altresì, specificato che l'ampia
espressione di 'servizi nell'interesse del comune' si
riferisce 'a tutte quelle attività che l'ente locale,
nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante
l'esercizio dei poteri normativi ed amministrativi
attribuitigli, fa e considera proprie [...]'.
[2]
Si sono, al riguardo, ricondotti a tale categoria i
professionisti che svolgono, con continuità, attività per
conto del Comune. [3]
In altri termini, la causa di incompatibilità in riferimento
si riferisce a tutte le ipotesi di prestazioni d'opera anche
professionali o comunque di collaborazione, nell'interesse
del Comune, al di fuori di un rapporto d'impiego o di
lavoro. Riguarda, cioè, tutti coloro che abbiano posto in
essere con il Comune un rapporto giuridico, con carattere di
relativa durata, in virtù del quale essi sono tenuti ad
effettuare al Comune, o a terzi nell'interesse o per conto
del Comune, prestazioni che si ripetono nel tempo, in modo
che si determini un conflitto potenziale, fra i propri
interessi e quelli dell'ente, nel corso dell'adempimento
degli obblighi rispettivamente assunti.
Con riferimento alla fattispecie in esame si ritiene
necessario prendere in considerazione anche il decreto
legislativo 08.04.2013, n. 39 recante 'Disposizioni in
materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi
presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti
privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1,
commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190' e, in
particolare, l'articolo 12, comma 1, ai sensi del quale:
'Gli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle
pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti
di diritto privato in controllo pubblico sono incompatibili
con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico,
della carica di componente dell'organo di indirizzo nella
stessa amministrazione o nello stesso ente pubblico che ha
conferito l'incarico [...]'.
Si ritiene, in particolare, che l'incarico di direttore del
museo possa essere inquadrato tra gli 'incarichi
dirigenziali esterni' secondo la definizione datane
dall'articolo 1, comma 2, lett. k) del D.Lgs. 39/2013 che li
qualifica quali 'incarichi di funzione dirigenziale,
comunque denominati, che comportano l'esercizio in via
esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione
[...]'.
L'espressione 'componente di organi di indirizzo politico'
è, invece, fornita dall'articolo 1, comma 2, lett. f) del
D.Lgs. 39/2013 nel cui novero vanno ricomprese 'le
persone che partecipano, in via elettiva o di nomina, a
organi di indirizzo politico delle amministrazioni [...]
locali, quali [...] Sindaco, assessore o consigliere [...]
nei comuni [...]'.
Ai sensi dell'articolo 17 del D.Lgs. 39/2013: 'Gli atti
di conferimento di incarichi adottati in violazione delle
diposizioni del presente decreto e i relativi contratti sono
nulli'.
---------------
[1] Saporito, Pisciotta, Albanese, 'Elezioni regionali ed
amministrative', Bologna, 1990, pag. 115.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n.
550.
[3] Cassazione civile, sez. I, sentenze del 14.01.1980, n.
327 e dell'08.09.1980, n. 5160. Interessante è, anche, la
sentenza della Cassazione civ., sez. I, del 22.12.2011, n.
28504 ove, con riferimento all'indicata causa di
incompatibilità, si afferma che in essa vanno ricompresi
'anche soggetti, non menzionati dal legislatore, ma
assimilabili a quelli nominati dalla citata disposizione, in
ragione della loro posizione personale verso l'ente e del
potenziale conflitto di interessi' (La S.C. ha affermato
detto principio con riguardo al professionista autore del
progetto di variante generale del programma di
fabbricazione) (11.11.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Giunte, decide la legge.
Sul numero degli assessori lo statuto non conta.
Il Viminale ha chiarito che la materia rientra
nelle prerogative statali
In caso di mancato adeguamento statutario alla vigente
normativa in materia di composizione della giunta, si deve
applicare la norma transitoria di cui all' art. 47, comma 5,
del dlgs n. 267/2000, che prevede, per i comuni con
popolazione compresa tra 10 mila e 100 mila, che la giunta
sia composta nella misura massima di sei assessori?
L'art. 11, comma 7, della legge 03.08.1999, n. 265,
confluito nell'art. 47 del Tuel n. 267/2000, ha modificato
la disciplina dettata dalla legge n. 142/1990 in tema di
composizione delle giunte, demandando allo statuto la
determinazione del numero degli assessori sulla base di un
nuovo sistema di calcolo ancorato all'entità numerica dei
consiglieri piuttosto che alla fascia demografica di
appartenenza dell'ente locale, come previsto in precedenza
Tali disposizioni sono state, inoltre, integrate dalla
citata disciplina «transitoria», di immediata applicazione
fino all'adozione di una specifica norma statutaria. I
parametri indicati dal richiamato art. 47, comma 5, si
sostituivano automaticamente alle disposizioni statutarie
esistenti
Nel caso di specie, lo statuto comunale è stato modificato
successivamente all'entrata in vigore della legge 265/99,
tant'è che l'ente si è adeguato, individuando il numero
massimo di dieci assessori che corrispondono esattamente ad
un terzo dei consiglieri spettanti al comune secondo la
previsione dell'originario comma 1 dell'art. 47.
I successivi interventi normativi del legislatore,
finalizzati a disciplinare la composizione numerica delle
giunte (art. 2, comma 23, della legge n. 244/2007; art. 2,
comma 185, della legge n. 191/2009, come modificato dall'art.
1, comma 1-bis, del dl n. 2/2010 convertito nella legge n.
42/2010, che ha ridotto il numero massimo degli assessori a
un quarto dei consiglieri; art. 16, comma 17, del dl n.
138/2011, convertito in legge n. 148/2011; art. 1, comma
135, della legge n. 56/2014), hanno inciso in maniera
significativa sull'autonomia delle amministrazioni locali,
in quanto immediatamente precettivi, sia in carenza di una
modifica espressa del Tuel che in assenza dell'adeguamento
statutario da parte dell'ente interessato, e rendono, ormai,
sostanzialmente inapplicabile sia il comma 1 che il comma 5
dell'art. 47 del dlgs n. 267/2000.
In merito, la circolare del ministero dell'interno n. 2379
del 16/02/2012, ha chiarito che la determinazione numerica
degli assessori rientra nella materia «organi di governo»
dei comuni rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett.
p) della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva
dello stato. Pertanto le disposizioni statutarie, allorché
incompatibili con intervenute modifiche normative, non
trovano applicazione anche in relazione a quanto disposto
dall'art. 1, comma 3, del Tuel n. 267, per il quale
«l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano
espressamente i principi che costituiscono limite
inderogabile per l'autonomia normativa dei comuni e delle
province abroga le norme statutarie con essi incompatibili.
I consigli comunali e provinciali adeguano gli statuti entro
centoventi giorni dalla data di entrata in vigore delle
leggi suddette».
Nella fattispecie, lo statuto del comune prevede un numero
massimo di dieci assessori, pertanto il mancato adeguamento
dello stesso alla più recente normativa rende comunque
applicabile il parametro massimo previsto dalla legge che
consente, ai comuni della medesima fascia demografica, la
presenza di un numero massimo di sette assessori
(articolo ItaliaOggi del
07.11.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Avviso al primo dei non
eletti.
L'avviso di convocazione della prima seduta del consiglio
comunale, in caso di dimissioni di un consigliere, avrebbe
dovuto essere notificato anche al candidato risultato primo
dei non eletti, chiamato a surrogare il consigliere
dimessosi, successivamente alla proclamazione dei risultati?
In merito alla regolarità della convocazione della prima
adunanza del consiglio comunale, con la circolare del
ministero dell'interno n. 5 del 13.09.2005 stabilisce che i
consiglieri surroganti non devono essere convocati per la
seduta in cui si procede alla surroga, in quanto i medesimi
entrano in carica, ai sensi dell'art. 38 del decreto
legislativo n. 267/2000, solo «dopo l'adozione della
delibera di surroga»
(articolo ItaliaOggi del
07.11.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Turni e festività
infrasettimanale.
L'ARAN ha chiarito che, se il turno è
stato organizzato sui giorni lavorativi della settimana
(cinque o sei secondo la specifica organizzazione del tempo
di lavoro adottato), esso ricomprende anche le eventuali
festività infrasettimanali ricadenti in tale arco temporale
e che, conseguentemente, tali giornate per i turnisti devono
considerarsi lavorative.
Il Comune ha chiesto di conoscere se il personale della
polizia locale, che lavora in turno dal lunedì al sabato, in
caso di festività infrasettimanale debba prendere servizio
come stabilito dall'organizzazione dei turni stessi. L'Ente
si è posto l'ulteriore questione se, qualora detto personale
non intenda lavorare in tale giornata festiva, l'assenza
debba essere considerata come ferie.
Si osserva, a tal proposito, che l'Aran ha precisato che: 'Se
il turno è stato articolato sui giorni lavorativi della
settimana (cinque o sei, secondo la specifica organizzazione
del tempo di lavoro adottata), esso ricomprende anche le
eventuali festività infrasettimanali ricadenti in tale arco
temporale e che, conseguentemente, tali giornate per i
turnisti devono considerarsi lavorative (...)'
[1].
Pertanto, si è chiarito che, in detta giornata di festività
infrasettimanale, sulla base delle caratteristiche
dell'organizzazione del turno adottata dalle singole
amministrazioni, i dipendenti turnisti sono tenuti
ordinariamente a prestare servizio.
Si è inoltre specificato che l'attività prestata in turno
nei giorni festivi infrasettimanali non può essere, per le
ragioni sopra esposte, considerata quale lavoro
straordinario [2].
In conclusione, la mancata prestazione di attività
lavorativa nella giornata di festività infrasettimanale
ricompresa nel turno dovrà essere giustificata mediante il
ricorso agli istituti contrattuali previsti dalla vigente
contrattazione (ferie, festività soppresse, ecc.), previa
autorizzazione da parte dell'amministrazione di
appartenenza.
---------------
[1] Cfr. pareri RAL 1077 e 1305, consultabili sul sito:
www.aranagenzia.it.
[2] Cfr. parere RAL 764 (06.11.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un amministratore locale. Associazione
intercomunale.
Non sussiste la causa di incompatibilità
di cui all'art. 63, comma 1, n. 2) del TUEL per un
consigliere comunale che sia rappresentante legale della
società cooperativa che svolge la sua attività anche
nell'interesse del Comune nel quale lo stesso esercita il
proprio mandato elettivo, qualora la società cooperativa sia
iscritta nei pubblici registri, stante l'esclusione
dell'incompatibilità disposta dal comma 2 del medesimo art.
63 TUEL.
Il Comune, il quale fa parte di una associazione
intercomunale, riferisce di avere affidato, in qualità di
responsabile dell'ufficio comune del servizio tecnico, ad
una società cooperativa, l'appalto del servizio di pulizia
di alcuni edifici pubblici, di proprietà e/o tenuti in uso
dai Comuni associati. Atteso che il rappresentante legale
dell'indicata società è consigliere comunale in uno dei
comuni facenti parte dell'associazione intercomunale, chiede
se per lo stesso sussista una qualche causa di
incompatibilità prevista dalla legge. Precisa, altresì, che
il comune presso il quale il consigliere comunale esercita
il proprio mandato elettivo ha una partecipazione 'di
poco inferiore al 3%' nella società cooperativa in
questione.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti
considerazioni.
Si osserva innanzitutto come un esame delle eventuali cause
di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire
gli amministratori locali deve essere effettuato in chiave
di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi tipo di
estensione analogica delle stesse, atteso che le cause
ostative all'espletamento del mandato elettivo incidono
direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce
della riserva di legge in materia posta dall'articolo 51
della Costituzione.
Ciò premesso, con riferimento al caso prospettato potrebbe
venire in rilievo il disposto dell'articolo 63, comma 1, num.
2) del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 il quale
prevede che non possa ricoprire la carica di consigliere
comunale 'colui che, come titolare, amministratore,
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento
ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi,
esazioni di diritti, somministrazioni o appalti,
nell'interesse del comune o della provincia, [...]'.
Ratio della norma 'risiede nell'esigenza di
impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni
dei consigli comunali soggetti portatori di interessi
configgenti con quelli del comune o i quali si trovino
comunque in condizioni che ne possano compromettere
l'imparzialità'. [1]
In altri termini, la norma è finalizzata ad evitare che la
medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di
amministratore di un comune e la qualità di titolare,
amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti
giuridici con l'ente locale, caratterizzati da una
prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse,
atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere
di una posizione di conflitto di interessi.
Il comma 2 dell'articolo 63 TUEL prevede, tuttavia, che: 'L'ipotesi
di cui al numero 2) del comma 1 non si applica a coloro che
hanno parte in cooperative o consorzi di cooperative,
iscritte regolarmente nei registri pubblici'.
Segue che, per quanto attiene alla posizione del consigliere
comunale -rappresentante legale della società cooperativa
che svolge la sua attività anche nell'interesse del Comune
nel quale lo stesso esercita il proprio mandato elettivo- si
applica la disposizione di cui all'articolo 63, comma 2, del
D.Lgs. 267/2000, a condizione che la società cooperativa di
cui trattasi sia iscritta nei pubblici registri.
Al riguardo, si cita la sentenza della Cassazione civile,
sez. I, del 30.04.2005, n. 9028 la quale ha rilevato che
l'iscrizione nei 'registri pubblici'
[2] è
indispensabile per l'applicazione della deroga, ciò in
quanto si tratta di «disposizione che intende dare
rilevanza alla mutualità in quanto è proprio in forza della
causa mutualistica che l'impresa cooperativa si differenzia
dall'impresa individuale o collettiva caratterizzata dalla
causa di lucro sicché nel testo dell'art. 63 la cooperativa
è contrapposta (come fondamento dell'esclusione della causa
di incompatibilità) alle 'società ed imprese volte al
profitto di privati' menzionate al comma primo n. 2 e tenute
in considerazione, proprio in quanto volte a realizzare lo
scopo di lucro, che è visto come possibile fonte di un
conflitto di interessi».
Come rilevato dal Ministero dell'Interno,
[3] 'resta,
comunque, ferma la personale responsabilità politica e
deontologica del consigliere, tenuto, come tutti i pubblici
amministratori, ad adottare comportamenti improntati
all'imparzialità ed al principio di buona amministrazione e
ad astenersi, pertanto, dal prendere parte alla discussione
ed alla votazione di delibere riguardanti propri interessi,
in virtù di quanto espressamente disposto dall'art. 78,
commi 1 e 2, del T.U.E.L.'.
-------------
[1] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004,
n. 550.
[2] Si segnala che la sentenza citata si riferisce al
registro prefettizio ed allo schedario generale della
cooperazione di cui agli artt. 13 e 15 del D.L. 1577/1947
quali registri ufficiali della mutualità organizzata. In
luogo degli stessi vi è attualmente l'Albo Nazionale delle
Società cooperative tenuto dal Ministero dello Sviluppo
Economico e gestito con modalità telematiche dalle Camere di
commercio.
[3] Ministero dell'Interno, parere dell'08.09.2004 (06.11.2014
-
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ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
Utilizzo veicoli comunali a guida di amministratori o
privati cittadini per attività istituzionali
dell'amministrazione. Copertura assicurativa.
Gli amministratori comunali possono
essere autorizzati alla guida di autoveicoli di proprietà
dell'Ente in occasione di attività istituzionali.
La modalità legittima attraverso cui privati cittadini
possono essere posti alla guida di veicoli comunali, per le
suddette finalità, passa attraverso l'adesione di detti
cittadini alle organizzazioni di volontariato.
In entrambe le ipotesi, presupposto necessario è che i
veicoli comunali siano coperti da assicurazione RCA non
limitata a determinate categorie di conducenti.
Il Comune pone la questione della guida di veicoli di
proprietà comunale, in occasione di attività istituzionali
dell'Ente, da parte di amministratori comunali o singoli
cittadini volontari. In particolare, il Comune chiede se sia
sufficiente una copertura assicurativa RCA (polizza guida
libera) o se debba stipulare apposita convenzione con le
organizzazioni di volontariato, che preveda la copertura
assicurativa dei soggetti che prestano attività di
volontariato, o se, in alternativa, possa stipulare in
proprio la copertura assicurativa dei soggetti che prestano
attività di volontariato contro gli infortuni e le malattie
connesse con lo svolgimento dell'attività, nonché per la
responsabilità civile verso i terzi.
In via preliminare, si ritiene di evidenziare l'opportunità
che l'Ente si doti di un regolamento per l'uso degli
automezzi comunali, in cui disciplini la gestione e l'uso
dei veicoli di sua proprietà, compreso l'aspetto relativo ai
soggetti che -previa, ovviamente, autorizzazione dell'Ente-
possono guidare i mezzi e quello inerente alla copertura
assicurativa.
Ciò premesso, la questione posta dall'Ente, relativa
specificamente all'aspetto assicurativo, va esaminata
distintamente a seconda che alla guida degli automezzi
comunali siano posti amministratori o cittadini privati.
Posto che l'Ente specifica che l'uso dei veicoli comunali
avviene per finalità istituzionali, il caso in cui alla
guida di detti automezzi, per tali finalità, siano posti
amministratori si ritiene possa essere assimilato a quello
della guida a mezzo dei dipendenti comunali. In entrambi i
casi si tratta, infatti, di attività di guida strumentale
all'esercizio delle funzioni proprie dell'Ente. Al riguardo,
si ritiene che l'Ente possa stipulare una polizza
assicurativa RC auto, anche per il caso di utilizzo dei
veicoli da parte degli amministratori.
Per quanto concerne, invece, il caso in cui alla guida degli
automezzi comunali vengano posti cittadini privati (non
dipendenti dell'Ente), si ritiene che la fattispecie debba
essere inquadrata nell'ambito della disciplina relativa
all'attività di volontariato.
La normativa vigente non contempla, infatti, la possibilità
che il singolo cittadino svolga attività in favore della
pubblica amministrazione se non attraverso l'adesione ad
organizzazioni di volontariato, con le modalità di cui
appresso [1].
La disciplina del volontariato è contenuta nella L. n.
266/1991 [2],
che considera attività di volontariato quella prestata in
modo personale, spontaneo e gratuito, tramite
l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini
di lucro ed esclusivamente per fini di solidarietà (art. 2).
In ambito regionale, la L.R. n. 23/2012 [3]
prevede la possibilità per le organizzazioni di
volontariato, in possesso dei requisiti previsti, di
stipulare convenzioni con gli enti pubblici, tra cui gli
enti locali, per lo svolgimento di attività a vantaggio
della collettività, indicando nel dettaglio i criteri di
priorità nella scelta delle organizzazioni medesime, nonché
il contenuto obbligatorio della convenzione (art. 14).
In particolare, ai sensi del combinato disposto degli artt.
4 e 7, comma 3, L. n. 266/1991, elemento essenziale della
convenzione è la copertura assicurativa dei soggetti che
prestano attività di volontariato contro gli infortuni e le
malattie connesse con lo svolgimento dell'attività, nonché
per la responsabilità civile verso i terzi. Gli oneri
relativi a dette coperture sono a carico dell'ente che
usufruisce dell'attività.
Del pari in ambito regionale, l'art. 14, L. R. n. 23/2012,
richiamato, prevede che le convenzioni regolino le coperture
assicurative di cui all'art. 4 della L. n. 266/1991.
Pertanto, in relazione alla circostanza che, in occasione di
attività istituzionali dell'Ente (quali incontri,
gemellaggi, attività sociali e culturali), mezzi comunali
siano guidati da cittadini privati, si ritiene che il Comune
debba attivarsi in base alla normativa vigente in materia,
che non contempla la possibilità per l'ente locale di
stipulare rapporti diretti con il singolo cittadino, ma solo
con le organizzazioni di volontariato iscritte nel registro
di cui all'art. 5, L.R. n. 23/2012, previa stipula della
convenzione di cui al successivo art. 14.
Ciò significa che la modalità legittima attraverso cui
cittadini privati possono essere posti alla guida di veicoli
comunali, per finalità istituzionali dell'ente, passa
attraverso l'adesione di detti cittadini alle organizzazioni
di volontariato.
-----------
[1] Si segnala, peraltro, che ciò nonostante alcune
amministrazioni comunali della nostra regione hanno
previsto, con proprio regolamento, l'istituzione di un
proprio albo di volontari e l'organizzazione dell'apporto
fornito dagli stessi all'interno dell'ente. Tali enti
provvedono, tra l'altro, alle coperture assicurative dei
volontari e alla fornitura di tutti i mezzi e le
attrezzature necessari allo svolgimento del servizio.
[2] Legge 11.08.1991, n. 266, recante: 'Legge-quadro sul
volontariato'.
[3] Legge regionale 09.11.2012, n. 23, recante: 'Disciplina
organica sul volontariato e sulle associazioni di promozione
sociale' (03.11.2014 -
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APPALTI -
LAVORI PUBBLICI:
Responsabile unico del procedimento. Momento della nomina.
Sia la normativa statale che quella
regionale in materia di lavori pubblici collocano il momento
della nomina del responsabile unico del procedimento (RUP)
in un momento antecedente a quello dell'avvio della fase di
progettazione.
Il Comune chiede un parere con riferimento al momento in cui
deve avvenire la nomina del responsabile unico del
procedimento (RUP). In particolare chiede se sia più
corretto conferire l'incarico 'nella fase di approvazione
del progetto preliminare ovvero in quelle, successive, di
approvazione del progetto definitivo od ancora di quello
esecutivo, momento nel quale la volontà dell'amministrazione
di andare a realizzare l'opera pubblica diviene concreta e
attuale'.
Attesa la specifica competenza in materia del Servizio
lavori pubblici della Direzione centrale infrastrutture,
mobilità, pianificazione territoriale, lavori pubblici,
università, si esprimono in via collaborativa alcune
osservazioni di carattere generale, rimettendosi alle
eventuali ulteriori considerazioni che detto Servizio vorrà
esprimere.
Come noto, il responsabile unico del procedimento viene
nominato dalla stazione appaltante per ogni singolo appalto:
ad esso sono attribuiti specifici compiti e funzioni nelle
fasi della progettazione, dell'affidamento e dell'esecuzione
dell'appalto.
La figura del RUP è disciplinata dall'art. 10 del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti) e
dagli articoli 9 e 10 del relativo regolamento di esecuzione
e attuazione, il dPR 05.10.2010, n. 207. Per la Regione
Friuli Venezia Giulia occorre inoltre fare riferimento alla
legge regionale 31.05.2002, n. 14, art. 5, e al decreto del
Presidente della Regione 05.06.2003, n. 0165/Pres., articoli
3 e 4.
Il Codice dei contratti stabilisce che per ogni singolo
intervento da realizzarsi attraverso un contratto pubblico
le amministrazioni aggiudicatrici devono individuare un
responsabile unico del procedimento, e ne elenca i compiti e
le caratteristiche.
L'art. 9 del regolamento fornisce ulteriori indicazioni sul
responsabile del procedimento per la realizzazione di lavori
pubblici. In particolare, dispone, al comma 1, che la nomina
del RUP avvenga 'prima della fase di predisposizione
dello studio di fattibilità o del progetto preliminare da
inserire nell'elenco annuale di cui all'articolo 128, comma
1, del codice; per lavori non assoggettati a programmazione
ai sensi dell'articolo 128 del codice, il responsabile del
procedimento è nominato contestualmente alla decisione di
realizzare i lavori'.
L'art. 3, comma 1, del Regolamento di attuazione della legge
regionale 14/2002 dispone inoltre che 'L'Amministrazione
aggiudicatrice nomina il Responsabile unico del procedimento
di attuazione di ogni singolo intervento previsto dal
programma di cui all'articolo 7 della legge prima dell'avvio
della fase di progettazione'.
L'AVCP (ora ANAC) ha affermato che il responsabile unico del
procedimento riveste un ruolo propositivo-pianificatore, al
punto da arrivare addirittura a suggerire alla propria
amministrazione l'opera e studiarne la convenienza e la
fattibilità: 'il codice infatti e l'attuale regolamento
indicano che il RUP deve essere nominato ancor prima della
fase di predisposizione dello studio di fattibilità', o
comunque prima dell'avvio della progettazione
[1].
Pertanto, sia la normativa statale che quella regionale
collocano la nomina del RUP in un momento antecedente a
quello dell'avvio della fase di progettazione.
---------------
[1] Deliberazione n. 93, Adunanza del 07.11.2012 (20.10.2014
-
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EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione ordinanza demolizione manufatto abusivo e
allontanamento coattivo degli animali ivi ricoverati.
Nell'ipotesi in cui il Comune debba
procedere d'ufficio alla demolizione di un manufatto abusivo
nel quale siano ricoverati animali, nel caso di inerzia del
proprietario l'Ente può procedere all'allontanamento degli
stessi con ordinanza di sgombero, contingibile ed urgente,
rivolgendosi al servizio veterinario dell'ASL
territorialmente competente.
Il Comune riferisce di aver ordinato, ai sensi dell'art. 48,
L.R. n. 19/2009 [1],
la demolizione di una tettoia abusiva realizzata su area
comunale da privato cittadino e da questi usata per il
ricovero di un certo numero di animali da allevamento.
Nell'eventualità che si debba procedere all'esecuzione
d'ufficio della demolizione, ai sensi del comma 2 dell'art.
48 richiamato, e il proprietario del manufatto abusivo non
provveda, dopo esservi stato invitato, alla rimozione degli
animali, il Comune chiede un parere in ordine alla sorte
degli stessi.
Sentito il Servizio sanità pubblica veterinaria dell'Area
promozione salute e prevenzione della Direzione centrale
salute, integrazione sociosanitaria, politiche sociali e
famiglia, si esprimono le seguenti considerazioni.
Ai sensi dell'art. 48, L.R. n. 19/2009, qualora sia
accertata la realizzazione di interventi abusivi su suoli di
proprietà dello Stato o di altri Enti pubblici, il dirigente
o il responsabile dell'ufficio comunale ordina al
responsabile dell'abuso la demolizione e il ripristino dello
stato dei luoghi (comma 1); in caso di inottemperanza, la
demolizione è eseguita a cura del Comune e a spese del
responsabile dell'abuso (comma 2).
Nell'ipotesi che si debba procedere d'ufficio alla
demolizione di manufatto abusivo nel quale si trovino
animali, si pone la necessità del loro allontanamento,
qualora il proprietario a ciò sollecitato rimanga inerte.
A tal fine, trattandosi di allevamento abusivo, l'Ente può
procedere con ordinanza sindacale di sgombero,
specificamente con ordinanza contingibile ed urgente:
infatti, in caso di emergenze sanitarie e di igiene pubblica
(art. 50, comma 5, D.Lgs. n. 267/2000) e al fine di
prevenire gravi pericoli che minaccino l'incolumità pubblica
(art. 54, comma 4, D.Lgs. n. 267/2000) [2],
è previsto il potere del Sindaco di provvedere d'ufficio, in
caso di inottemperanza del soggetto cui ha rivolto l'ordine
e a spese di questo (art. 54, co. 7, TUEL).
Nel caso di specie, l'Ente potrà rivolgersi al servizio
veterinario dell'ASL territorialmente competente affinché
ponga in essere l'allontanamento coattivo degli animali e il
loro ricovero in struttura adeguata, nel rispetto della
dignità e del benessere degli animali, valori tutelati dal
diritto comunitario [3].
---------------
[1] Legge regionale 11.11.2009, n. 19, recante: 'Codice
regionale dell'edilizia'.
[2] Ai sensi dell'art. 54, co. 4, D.Lgs. n. 267/2000, le
ordinanze contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco nella
veste di ufficiale di governo presuppongono una situazione
di pericolo effettivo in cui si possono configurare anche
situazioni non tipizzate dalla legge e ciò giustifica la
deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi, la possibilità di deroga rispetto alla
disciplina vigente e la necessità di motivazione congrua e
peculiare (Cons. St., Sez. V, n. 904/2012).
Presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile ed
urgente ai sensi dell'art. 50 è la sussistenza e l'attualità
del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave ed
imminente per l'incolumità pubblica e per l'igiene, a nulla
rilevando che la situazione di pericolo sia nota da tempo
(cfr. Cons. St., sez. V, 19.09.2012, n. 4968), essendo a
tale riguardo sufficiente la permanenza al momento
dell'emanazione dell'atto della situazione di pericolo (cfr.
Cons. St., Sez. V, n. 3077/2012).
[3] I doveri delle autorità competenti in tema di protezione
degli animali sono posti a tutela della loro salute e del
loro benessere. Il Regolamento CE 29.04.2004, n. 882/2004,
relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la
conformità alla normativa in materia di mangimi e di
alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli
animali, dispone al quinto considerando che 'La salute e il
benessere degli animali sono fattori importanti che
contribuiscono alla qualità e alla sicurezza degli alimenti,
alla prevenzione della diffusione delle malattie degli
animali e a un trattamento umano degli animali' (16.10.2014
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PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Comando.
Il Dipartimento della funzione pubblica
ha precisato che l'art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs.
165/2001, per la sua portata generale, costituisce
attualmente la norma di riferimento nei casi in cui il
dipendente sia chiamato a prestare servizio, per esigenze di
carattere temporaneo, presso un'altra amministrazione.
Ad avviso del predetto Dipartimento, non è da escludere la
possibilità di rinnovo dell'assegnazione temporanea del
dipendente alla scadenza di quella precedentemente disposta,
anche successivamente al triennio, salva la necessità di
effettuare una nuova valutazione del fabbisogno
professionale da parte dell'amministrazione di destinazione
e delle esigenze organizzative da parte dell'amministrazione
di appartenenza.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al limite di spesa
applicabile nel 2014 per missioni del personale, in
relazione al disposto dell'art. 12, commi 21-24, della l.r.
22/2010.
Il comma 21 della richiamata norma stabilisce che, per gli
anni 2011, 2012 e 2013 le Amministrazioni del comparto unico
del pubblico impiego regionale e locale di cui all'articolo
127 della l.r. n. 13/1998, possono effettuare spese per
missioni, anche all'estero, per un ammontare annuo non
superiore a quello del 2009, ridotto del 10 per cento.
Si osserva che, allo stato attuale, tale previsione non è
stata riproposta in successivi provvedimenti legislativi per
l'anno 2014.
Pertanto, a partire dalla predetta annualità, gli enti
locali della Regione Friuli Venezia Giulia, per quanto
riguarda le spese per missioni effettuate dai dipendenti,
sono assoggettati agli stessi limiti in vigore per le altre
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, quelli cioè contemplati
all'art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010, convertito dalla l.
122/2010.
La richiamata norma prevede che, a decorrere dall'anno 2011,
le predette amministrazioni non possono effettuare spese per
missioni, anche all'estero, con esclusione delle missioni
internazionali di pace e delle Forze armate, delle missioni
delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale
di magistratura, nonché di quelle strettamente connesse ad
accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare
la partecipazione a riunioni presso enti e organismi
internazionali o comunitari, nonché con investitori
istituzionali necessari alla gestione del debito pubblico,
per un ammontare superiore al 50 per cento della spesa
sostenuta nell'anno 2009.
La disposizione in esame precisa altresì che gli atti e i
contratti posti in essere in violazione di tale prescrizione
costituiscono illecito disciplinare e determinano
responsabilità erariale.
Si stabilisce inoltre che il limite di spesa fissato può
essere superato in casi eccezionali, previa adozione di un
motivato provvedimento adottato dall'organo di vertice
dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli
organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente.
Si specifica altresì che il limite introdotto non si applica
alla spesa effettuata per lo svolgimento di compiti
ispettivi e che, a decorrere dalla data di entrata in vigore
del medesimo d.l. 78/2010, gli articoli 15 della l. 836/1973
[1] e
417/1978 [2]
e relative disposizioni di attuazione non si applicano al
personale contrattualizzato di cui al d.lgs. 165/2001 e
cessano di avere effetto eventuali analoghe disposizioni
contenute nei contratti collettivi.
Si rinvia da ultimo alle indicazioni fornite in materia
dalla Ragioneria Generale dello Stato [3].
---------------
[1] Trattamento economico di missione e di trasferimento
dei dipendenti statali.
[2] Adeguamento trattamento economico di missione e di
trasferimento dei dipendenti statali.
[3] Cfr. circolare n. 2 del 05.02.2013 (14.10.2014
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Modalità di convocazione del consiglio comunale.
In sede regolamentare, l'ente può
prevedere, per la convocazione del consiglio comunale, la
comunicazione in via telematica come modalità aggiuntiva a
quella ordinaria.
Circa la possibilità di usare in via esclusiva strumenti
telematici ai fini della comunicazione dell'avviso di
convocazione, si ritiene che tale utilizzo sia ammissibile
qualora il regolamento preveda il consenso espresso dei
consiglieri in relazione a detta modalità.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
possibilità di modificare il proprio regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale, prevedendo che la
convocazione del consiglio avvenga esclusivamente in forma
telematica (mail o fax) e se, in tale caso, il consigliere
possa rifiutarsi di ricevere la notifica in tale forma.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
In via preliminare, si osserva che l'articolo 38, comma 2,
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede che le
modalità di convocazione sono disciplinate dal regolamento
sul funzionamento del consiglio.
Di conseguenza, si ritiene che rientri nell'ambito
dell'autonomia normativa del Comune individuare le modalità
considerate più idonee a garantire la conoscibilità da parte
dei consiglieri comunali della convocazione dell'organo
assembleare.
Al contempo va ricordato che l'avviso di convocazione assume
una funzione informativa primaria tale da consentire al
consigliere comunale di poter attivamente seguire i lavori
dell'adunanza e documentarsi sugli argomenti posti
all'ordine del giorno. La ratio dell'avviso è quella
di garantire una 'pre-informazione' che risponde ad
un'esigenza di trasparenza e pubblicità finalizzata ad una
partecipazione consapevole all'attività
dell'Amministrazione.
In tal senso, è necessario che vengano predisposte delle
modalità di invio dell'avviso di convocazione, con il
relativo ordine del giorno, tali da consentire che detti
atti giungano nella sfera di conoscenza del destinatario. Si
consideri, al riguardo, come la giurisprudenza abbia
affermato che, in materia di convocazione, 'vale il
principio per cui le modalità per la comunicazione e la
formazione della convocazione (il c.d. avviso di
convocazione), quando non sono fissate dalla legge, dai
regolamenti o dagli statuti, seguono il principio di libertà
delle forme, purché la forma adottata sia idonea al
raggiungimento dello scopo'. [1]
Le considerazioni che precedono devono, inoltre, essere
necessariamente inquadrate nell'ambito dello sviluppo
tecnologico e della connessa riduzione della spesa pubblica,
in una prospettiva di amministrazione 'aperta e digitale',
e più in generale del c.d. 'governo elettronico', di
talché l'ente locale deve utilizzare delle modalità
informatiche per tutte le proprie comunicazioni, rimanendo
residuale l'utilizzo della 'posta ordinaria'.
Dalle considerazioni che precedono seguirebbe che, a parere
di chi scrive, è possibile prevedere la comunicazione in via
telematica come modalità aggiuntiva a quella ordinaria.
Non sarebbe, invece, possibile la previsione generale
dell'utilizzo in via esclusiva di strumenti telematici ai
fini della comunicazione dell'avviso di convocazione, atteso
che non si può avere la certezza che tutti i consiglieri
siano dotati di tale strumentazione.
Peraltro, nulla osterebbe alla previsione in sede
regolamentare della possibilità di utilizzare unicamente
strumenti telematici, qualora vi sia il consenso espresso
dei consiglieri, i quali dichiarino per iscritto di volersi
avvalere di tale forma di comunicazione, da effettuarsi
all'indirizzo specificato dal richiedente.
[2]
Merita, tuttavia, segnalare un diverso orientamento espresso
dal Ministero dell'Interno il quale pare, invece, ammettere
l'utilizzo esclusivo della convocazione del consiglio
comunale tramite strumenti informatici, se prevista nel
regolamento dell'Ente. Afferma, in particolare, il parere
ministeriale [3]
come: «la vigente legislazione sia orientata al
conseguimento da parte delle pubbliche amministrazioni della
più ampia diffusione delle applicazioni informatiche sia nei
rapporti con l'utenza e sia nelle proprie comunicazioni
interne. In particolare, l'art. 12, comma 2 [rectius: comma
1] del decreto legislativo n. 82/2005 (codice
dell'amministrazione digitale) stabilisce che 'le pubbliche
amministrazioni nell'organizzare la propria attività
utilizzano tali tecnologie per la realizzazione degli
obiettivi di efficienza, efficacia, economicità anche nei
rapporti interni'. [...] Il vigente regolamento adottato da
codesto comune prevede (art. 43) che la consegna dell'avviso
per la convocazione del consiglio comunale è effettuata dal
messo comunale nel luogo di residenza o nel domicilio eletto
dallo stesso consigliere. Al riguardo si esprime l'avviso
che, poiché non è stata prevista alcuna modalità alternativa
nel regolamento, sia necessario apportare le relative
modifiche al regolamento dell'ente che recepiscano quanto
indicato dal d.lgs.vo n. 85/2005 relativo all'utilizzo dei
sistemi informatici». [4]
Aderendo all'impostazione ministeriale dovrebbe seguire la
non necessità da parte dell'Ente di modificare l'attuale
norma regolamentare atteso che la stessa parrebbe porre la
convocazione per posta elettronica o via fax come
alternativa, e non aggiuntiva, a quella tramite consegna al
domicilio del consigliere a mezzo di un messo comunale o via
raccomandata A.R. [5]
Tuttavia, atteso che rientra nell'esclusiva competenza
dell'organo che ha elaborato la norma regolamentare fornire
un'interpretazione della stessa, valuti l'Ente, alla luce
delle considerazioni sopra espresse, la formulazione
normativa più adeguata da adottare.
---------------
[1] TAR Liguria, Genova, sez. II, sentenza del
14.10.2010.
[2] Un eventuale rifiuto immotivato del consigliere di
ricevere le comunicazioni informatiche potrebbe, tuttavia,
concretizzare una violazione di «quei doveri minimi di
'collaborazione e lealtà' in danno del 'buon andamento'
(senza tralasciare i profili erariali), che si traduce nei
principi di economicità, di efficacia, di efficienza che
governa la P.A. sotto i profili generali, di cui agli
articoli 54 e 97 della Costituzione, e stratificati in una
serie di norme nel TUEL» (così, M. Lucca, 'Avviso di
convocazione del consiglio comunale via pec, fax, sms',
citato in nota 3).
[3] Ministero dell'Interno, parere del 12.11.2010.
[4] A conclusioni analoghe a quelle ministeriali addiviene
anche certa dottrina: così, M. Lucca, 'Avviso di
convocazione del consiglio comunale via pec, fax, sms', in
Lexitalia, 2013, n. 4) ove si afferma che: ' [...] la norma
non prescrive che si sia raggiunta l'effettiva conoscenza
del consigliere comunale, ma che sia perfezionato il
procedimento con cui portare a conoscenza l'avviso di
convocazione secondo la norma regolamentare allo scopo
prestabilita. Non essendovi l'obbligo giuridico di notifica
dell'avviso di convocazione delle sedute del consiglio
comunale nelle forme degli atti giudiziari, l'onere di
'consegna' può ritenersi adempiuto anche quando l'invio è
avvenuto via pec, fax, sms'.
[5] Recita, in particolare, l'articolo 26, comma 1, del
regolamento del consiglio comunale: 'L'avviso di
convocazione del Consiglio, con l'ordine del giorno, è
consegnato al domicilio dei Consiglieri, a mezzo di un messo
comunale. È possibile, altresì, utilizzare la raccomandata
A.R., il telegramma, la posta elettronica, il fax. Si dà
luogo comunque all'affissione all'Albo Pretorio
indipendentemente dalle modalità usate per la convocazione'
(29.09.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
VARI: Ricetta
medica in busta chiusa. I certificati non devono essere alla
portata di chiunque. PRIVACY/ Il
Garante chiarisce gli accorgimenti in una lettera alla
Federazione medici.
Ricette mediche e certificati a disposizione del paziente,
in farmacia o dal medico di famiglia, ma sempre in busta
chiusa. Invece viola la privacy lasciare ricette e
certificati alla portata di chiunque o perfino incustodite,
in vaschette poste sui banconi delle farmacie o sulle
scrivanie degli studi medici.
Lo chiarisce in garante della privacy con la
nota 12.11.2014 n. 31914/96341 di prot., diffusa
ieri, al presidente della Federazione italiana medici di
medici generale (Fimmg).
Il Garante ha voluto sfatare una leggenda metropolitana e ha
precisato che non contrasta con il codice della privacy la
prassi degli studi medici di lasciare a disposizione del
paziente ricette e i certificati presso le sale d'attesa dei
propri studi o presso le farmacie, senza doverglieli
necessariamente consegnare di persona.
La normativa sulla tutela della riservatezza impone, però,
una precauzione per scongiurare la possibile conoscibilità
da parte di estranei di dati delicati, come quelli sanitari.
L'accorgimento non è oneroso, trattandosi di inserire
ricette e certificati in busta chiusa. Questa precauzione è
da rispettarsi sempre, anche in considerazione del fatto che
a ritirare i documenti non è sempre il paziente, ma spesso è
un'altra persona da questi appositamente delegata per
iscritto.
Pertanto il documento va imbustato e, se si presenta un
soggetto diverso dall'interessato, si deve controllare che
lo stesso sia stato incaricato al ritiro.
Lasciare aperti il certificato o la ricetta espone a
responsabilità per trattamento illecito dei dati e anche
alla possibilità di essere chiamati i risarcire i danni,
anche non patrimoniali, che il paziente dimostri di avere
subito.
Il trattamento illecito dei dati può esporre a
responsabilità amministrative (articolo 162, comma 2-bis del
codice della privacy) e, nei casi più gravi, anche a
responsabilità penali (articolo 167).
La regola della busta chiusa non vale solo per i medici di
famiglia.
In effetti i referti diagnostici, le cartelle cliniche, i
risultati delle analisi e i certificati rilasciati dagli
organismi sanitari possono essere consegnati, ma in busta
chiusa anche a persone diverse dai diretti interessati
purché munite di delega scritta.
Quanto alle comunicazioni sanitarie si deve aggiungere la
regola per la sanità elettronica.
A questo proposito va ricordato che i risultati di analisi
cliniche, radiografie e referti medici possono anche essere
inviati direttamente sulla e-mail del paziente o possono
essere resi consultabili online dal computer di casa.
L'adesione al servizio deve però essere facoltativa e il
referto cartaceo deve rimanere comunque disponibile.
Ci vuole il consenso dell'interessato. L'assistito dovrà
dare il suo consenso sulla base di una informativa chiara e
trasparente che spieghi tutte le caratteristiche del
servizio di consultazione o consegna on-line dei referti.
Le strutture che offrono la possibilità di archiviare e
continuare a consultare via web i referti dovranno fornire
una ulteriore specifica informativa e acquisire un autonomo
consenso (articolo ItaliaOggi del 15.11.2014). |
SEGRETARI
COMUNALI:
Congelati gli aumenti dei segretari comunali.
Parere della Funzione pubblica al ministero
dell'interno.
Niente aumenti di stipendio ai segretari comunali che dalla
fascia C passino alla B a seguito del corso di
specializzazione, se non ottengono un incarico di segreteria
in un comune con oltre 3000 abitanti.
Secondo il dipartimento della Funzione pubblica, che in
proposito ha espresso al Ministero dell'interno un parere
con
nota 28.10.2014 n. 60480 di prot., il
congelamento dei trattamenti economici previsto
dall'articolo 9, commi 1 e 21, del dl 78/2010, convertito in
legge 122/2010, colpisce anche i segretari comunali.
Ai sensi del comma 1 del citato articolo 9, il trattamento
economico fondamentale dei dipendenti pubblici non può
superare quello in godimento nel corso del 2010, salvo il
conseguimento di funzioni diverse in corso d'anno.
Il comma 21, invece, impedisce la produzione di effetti
economici alle ipotesi di «progressione di carriera».
Il dubbio avanzato dal Viminale era se la partecipazione ai
corsi di specializzazione disciplinati dalla contrattazione
collettiva dei segretari comunali per consentire loro il
passaggio dalla fascia C alla fascia B configurasse o meno
un'ipotesi, appunto, di passaggio di carriera rientrante,
come tale, nei vincoli imposti dalla manovra estiva del
2010.
Palazzo Vidoni sul punto è tranciante e ritiene che
l'articolo 9, comma 21, «risulta sicuramente applicabile
anche ai segretari comunali all'atto dell'iscrizione, a
seguito del superamento dei corsi di specializzazione, alla
superiore fascia professionale».
Né vale, in contrario, enfatizzare che tali corsi abbiano
natura selettiva: infatti, spiega il parere, non si tratta
di procedure concorsuali aperte dall'esterno, ma di passaggi
da una fascia professionale ad un'altra superiore riservati
ai soli segretari comunali.
Dunque, si tratta di una vera e propria «progressione di
carriera» largamente intesa, come stabilito dalla
circolare 15.04.2011, n. 12, del ministero dell'economia e
delle finanze.
Di conseguenza, il semplice superamento del corso di
specializzazione «Spes» comporta il mero
inquadramento dei segretari nella fascia professionale B, ma
non consente l'acquisizione dello stipendio tabellare
corrispondente. L'iscrizione alla fascia B, insomma, ha
effetti solo giuridici, ma non economici.
Invece, spetta ai segretari comunali il trattamento
fondamentale corrispondente alla fascia professionale B,
quando ottengano un incarico in una sede comunale
corrispondente a tale fascia, cioè in comuni con popolazione
compresa tra i 3001 e i 65.000 abitanti. Infatti, in questo
caso, secondo il parere della funzione pubblica, si
determina un «mutamento di funzione del segretario
comunale, che assume effettivamente la titolarità di un
comune di dimensioni maggiori».
Sicché, si determina la fattispecie del «conseguimento di
funzioni diverse in corso d'anno» che, ai sensi
dell'articolo 9, comma 1, del dl 78/2010, permette di
sforare il tetto retributivo del 2010 (articolo ItaliaOggi del 15.11.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Più
facile riutilizzare gli scarti. E gli estetisti potranno
trasportare rifiuti con semplicità.
Le novità del Collegato ambiente alla legge di Stabilità per
il 2014 varato dalla camera.
Stretta sulla valutazione degli impatti
prodotti da grandi impianti di combustione, sulla gestione
di terre da scavo e di rifiuti di rame. Ma anche
semplificazione su riutilizzo di determinati materiali,
compostaggio di residui verdi, trasporto di rifiuti di
estetisti, smaltimento di reflui.
E' un intervento a largo campo quello previsto dal ddl
recante «Disposizioni
in materia ambientale per promuovere misure di green economy
e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali»
approvato lo scorso 13 novembre dalla Camera, ora all'esame
del Senato (si veda ItaliaOggi di ieri).
Valutazione di impatto sanitario.
Previsto l'obbligo di valutazione di impatto sanitario (cd.
«Vis») per i progetti di centrali termiche e altri impianti
di combustione con potenza termica superiore a 300 Mw. La
valutazione, da effettuarsi nell'ambito della procedura di
«Via» (valutazione di impatto ambientale), dovrà essere
condotta secondo le linee guida dell'Istituto superiore di
sanità.
Sottoprodotti.
Saranno inseriti nell'elenco dei sottoprodotti utilizzabili
negli impianti a biomasse e biogas (ai fini dell'accesso
agli incentivi per produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili e previo rispetto delle norme ambientali ex dlgs
152/2006) i sottoprodotti da trasformazione di zuccheri
tramite fermentazione.
Plastica compostabile.
I rifiuti in plastica compostabile certificata (a norma
Uni/en 13432:2002), ad esclusione dei prodotti assorbenti
per la persona, saranno ammessi al riutilizzo come
ammendanti e fertilizzanti.
Materiali da scavo.
Esclusi tra i materiali da scavo riutilizzabili come
sottoprodotti ex dm 161/2012 (ossia provenienti da grandi
opere) i residui di lavorazione di materiali lapidei (come
marmi, graniti, pietre) anche non contenenti sostanze
pericolose.
Sistri.
Confermata l'operatività del sistema, con proroga però al
31.12.2015 del cd. «doppio binario», ossia del periodo
durante il quale i soggetti obbligati al sistema telematico
devono osservare anche le tradizionali regole di
tracciamento, godendo unicamente di una sospensione delle
sanzioni per le violazioni del Sistri.
Rifiuti di rame.
Obbligo per produttori iniziali e detentori che non
provvedono direttamente al loro trattamento di consegnare i
rifiuti di rame ad imprese autorizzate alla gestione.
Compostaggio.
Sarà sufficiente la mera dichiarazione di inizio attività
per realizzazione di impianti di compostaggio aerobico e di
digestione anaerobica di capacità massima di 80 tons/anno di
rifiuti biodegradabili di cucine, mense, mercati, giardini,
parchi.
Oli e grassi vegetali.
Circoscrizione degli obblighi di adesione al Consorzio
nazionale di raccolta e trattamento oli e grassi vegetali ed
animali esausti alle sole imprese che li producono,
importano o detengono.
Smaltimento in discarica.
Abrogazione definitiva del divieto di conferire in discarica
rifiuti con «Pci» superiore a 13mila kJ/kg.
Rifiuti di estetisti.
Semplificazione per i soggetti esercenti attività di
barbiere, parrucchiere, manicure, tatuaggio ed analoghi
(codici «Ateco» 96.02.01, 96.02.02 e 96.09.02) per trasporto
e tracciamento ambientale dei propri rifiuti pericolosi
(compresi quelli aventi codice Cer 18.01.03, relativi ad
aghi, siringhe e oggetti taglienti usati). Il trasporto in
conto proprio ad impianto di gestione autorizzato sarà
liberamente consentito fino a 30 kg di residui giornalieri
previa corretta tenuta del formulario di trasporto (anche
tramite associazioni imprenditoriali o società di servizi).
Tale adempimento comporterà per gli stessi soggetti esonero
da ogni altro tipo di tracciamento sui rifiuti.
Reflui da frantoi.
Saranno assimilate alle acque reflue domestiche quelle da
frantoi oleari, purché generate da olive prodotte in regione
da aziende site in terreni ostativi a smaltimento tramite
fertirrigazione, previo trattamento per assicurare rispetto
di valori limite locali e salvo bando del Comune per
criticità del sistema di depurazione.
---------------
Nuova authority per i rifiuti Il riciclo
è servizio pubblico.
Una nuova Autorità vigilerà sulla
materia dei rifiuti con competenze «vere» sulla
determinazione dei costi standard nel supremo tariffario e
verifica sul raggiungimento degli obiettivi di riciclo. I
Consorzi di filiera che riciclano gli imballaggi rimangono
senza fini di lucro ma diventano «incaricati» di pubblico
servizio.
Le due novità sono contenute nel Collegato ambientale
(rispettivamente art. 12-quinquies e art. 13-bis) alla legge
di stabilità 2014 approvato il 12 novembre dalla Camera e
ora al Senato (si veda ItaliaOggi di ieri). Ma non basta.
L'art. 13-bis prevede che l'attività degli stessi Consorzi è
«sussidiaria e non può in alcun modo limitare le attività di
soggetti che operano secondo le regole del mercato nel
rispetto delle norme in materia di gestione dei rifiuti». E
ancora tale «attività deve garantire il riciclaggio e il
recupero dei rifiuti di imballaggio, con priorità per quelli
provenienti dalla raccolta differenziata, indipendentemente
dalle contingenti condizioni di mercato.»
Si tratta di un cambio a «360 gradi» del sistema nato nel
1997 con il c.d. decreto Ronchi secondo il quale lo Stato
indicava gli obiettivi, lasciando agli operatori una certa
autonomia nel raggiungerli. Se a ciò aggiungiamo che il
decreto 29 aprile sugli Statuti Tipo (il cui iter è
nuovamente sospeso per effetto di un provvedimento cautelare
assunto dal Consiglio di Stato nei giorni scorsi) che
prevede la presenza di un componente ministeriale nel
Consiglio di Amministrazione e di un ministeriale nel
collegio dei revisori, il quadro appare totalmente diverso
da quello immaginato nel 1997.
Seguono altre disposizioni, sempre all'art. 13-bis, che
danno al contributo ambientale riscosso dal sistema Conai
Consorzi altre finalità, tre cui «assicurare il
trattamento e la selezione dei rifiuti di imballaggio
provenienti dalla raccolta differenziata al fine di favorire
il riciclaggio, incluso il materiale con specifiche
caratteristiche di compostabilità».
Molto più generose le norme sugli obiettivi della raccolta
differenziata dei rifiuti urbani a cui sono tenuti i Comuni
(art. 14): l'obiettivo del 60 per cento da raggiungere entro
il 31.12.2012 viene prorogato al 2020! Anche se poi al fine
di favorire la raccolta differenziata di rifiuti urbani e
assimilati, la misura del tributo in discarica è modulata in
base alla quota percentuale di superamento del livello di
raccolta differenziata.
Infine, ma non meno importante, novità in vista per le
tipologie di imballaggio destinate all'uso alimentare. Al
fine di prevenire la produzione di rifiuti di imballaggio e
di favorire il riutilizzo degli imballaggi usati, entro sei
mesi dalla data di entrata in vigore della presente
disposizione, si applica (ma in via sperimentale) il sistema
del vuoto a rendere su cauzione per per ogni imballaggio
contenente birra e acqua minerale servito al pubblico da
alberghi e residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e
altri (art. 14). La parola passa ora al Senato (articolo ItaliaOggi del 15.11.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Multe a chi getta la cicca a terra. Fino a 150 a
chi butta sigarette e gomme. Pure in acqua.
La camera approva il collegato ambiente alla
legge di stabilità 2014. Ora parola al senato.
Dal prossimo mese di luglio chi butterà
chewing gum e mozziconi di sigarette per strada o nei fiumi
rischierà una multa da 30 a 150 euro; i comuni dovranno però
installare appositi raccoglitori per le sigarette e le gomme
da masticare; fondi per campagne di informazione; 10 milioni
nel 2014 ai comuni che devono far demolire immobili e opere
abusive realizzate in zone a rischio idrogeologico; sanzioni
fino a 20.000 per chi si oppone alla demolizione; sconti
fino al 30% sulle garanzie per partecipare ad appalti
pubblici se l'impresa ha certificazioni Emas o Ecolabel o
Iso; inserimento dei criteri ambientali minimi negli atti di
gara; sperimentazione dell'applicazione del sistema del
vuoto a rendere su cauzione per bottiglie in plastica;
proroga della moratoria Sistri fino al 31.12.2015;
introdotta la valutazione di impatto sanitario per le
raffinerie e gli impianti di gassificazione.
Sono queste alcune delle principali novità contenute nel
corposo
disegno di legge «Collegato ambientale» alla legge
finanziaria per il 2014, approvato ieri in prima lettura
alla camera.
Il provvedimento, che passa al senato per il seguito
dell'esame, prevede l'applicazione di multe da 30 a 150 euro
per i fumatori che gettano i mozziconi di sigarette e i
chewing gum per strada, nelle acque e negli scarichi.
Dal canto loro, però, i comuni saranno tenuti a predisporre
nelle strade, nei parchi pubblici e nei luoghi di alta
aggregazione sociale appositi raccoglitori dove lasciare
mozziconi e gomme da masticare.
Infine, anche i produttori di sigarette e di gomme da
masticare dovranno provvedere a sensibilizzare i consumatori
sui danni ambientali derivanti dall'abbandono dei mozziconi
e delle gomme da masticare. Il disegno di legge stabilisce
che la metà dei proventi derivanti dalla riscossione delle
multe dovrà essere convogliato in un Fondo istituito presso
il ministero dell'ambiente, mentre l'altro 50% servirà ai
comuni per lanciare campagne di informazione e di
sensibilizzazione anche per la «pulizia del sistema
fognario urbano».
Un importante intervento riguarda poi le zone a rischio
idrogeologico con la possibilità di procedere alla
demolizione di immobili e opere abusive attingendo a un
apposito fondo (10 milioni per il 2014). Se, però, i comuni
non realizzeranno gli interventi entro quattro mesi, saranno
tenuti a restituire i fondi al ministero. Prevista anche una
multa (da 2.000 a 20.000 euro) per il proprietario
dell'immobile che si rifiuta di rimuovere il manufatto
abusivo in zona ad alto rischio idrogeologico.
Molto corposa la parte che riguarda gli appalti pubblici per
i quali si punta a incentivare i concorrenti muniti di
registrazione Emas (che certifica la qualità ambientale
dell'organizzazione aziendale) o di marchio Ecolabel (che
certifica la qualità ecologica di «prodotti», comprensivi di
beni e servizi). Il beneficio consiste in una riduzione del
30% per i possessori di registrazioni Emas; del 20% per i
possessori della certificazione Uni En Iso 14001, o del
marchio Ecolabel, della cauzione «provvisoria» a corredo
dell'offerta.
Il disegno di legge dispone inoltre che nella formulazione
delle graduatorie costituisca elemento di preferenza la
registrazione Emas delle organizzazioni pubbliche e private
e la richiesta di contributi per l'ottenimento della
certificazione Ecolabel di prodotti e servizi, per
l'assegnazione di contributi, agevolazioni e finanziamenti
in materia ambientale (la misura si applicherà nella
programmazione dei fondi comunitari 2014-2020). Per gli
appalti di forniture di beni e di servizi, si dovranno
sempre prevedere le specifiche tecniche e le clausole
contrattuali contenute nei «Criteri ambientali minimi «(Cam)
per l'acquisto di servizi energetici per gli edifici, di
attrezzature per l'ufficio e di lampade. Sarà poi
l'Osservatorio dei contratti a monitorare l'applicazione dei
criteri ambientali minimi che, peraltro, saranno elementi
premianti nei punteggi attribuiti in sede di gara.
Nelle gare d'appalto per la realizzazione di pavimentazioni
stradali e barriere acustiche, anche ai fini dell'esecuzione
degli interventi di risanamento acustico dovranno essere
previsti negli atti di gara punteggi premianti per i
prodotti contenenti materiali post consumo nelle percentuali
fissate in sede di definizione di criteri ambientali minimi.
Viene previsto che la presidenza del consiglio gestisca la
messa a punto della «Strategia nazionale delle green
community», come strumento per istituire un «nuovo rapporto
sussidiario e di scambio» tra comunità rurali e di montagna
e comunità urbane e metropolitane.
Prevista la predisposizione della Valutazione di impatto
sanitario (Vis), in conformità alle linee guida predisposte
dall'Istituto superiore di sanità, per alcuni progetti di
raffinerie di petrolio greggio, impianti di gassificazione e
liquefazione, terminali di rigassificazione. Non sono invece
passate alcune norme del disegno di legge che prevedevano
l'istituzione della commissione tecnica unificata per i
procedimenti di valutazione impatto ambientale e
autorizzazione integrata e l'esclusione dalla verifica di
assoggettabilità alla Vis della parte dei piani di gestione
del rischio alluvionale.
Sarà sperimentato il sistema del «vuoto a rendere» anche per
le bottiglie di plastica. Viene infine prevista la proroga
fino al 31.12.2015 della moratoria sulle sanzioni Sistri
(Sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti speciali e
pericolosi) a carico delle imprese e degli artigiani,
commercianti e agricoltori (articolo ItaliaOggi del 14.11.2014). |
APPALTI:
Dal prefetto per l'Antimafia. Rilascio nella
provincia dove c'è la sede dell'impresa.
La novità scatta dal 26 novembre ed è prevista dal
correttivo del dlgs 159/2011.
Semplificata la norma sulla competenza territoriale per il
rilascio della documentazione antimafia. Dal 26 novembre il
rilascio dei documenti antimafia sarà esclusivamente di
competenza del prefetto della provincia dove l'impresa ha
sede legale o la secondaria con rappresentanza stabile (per
i soli operatori economici ex art. 2508 c.c.). Solo per le
società estere, prive di una rappresentanza stabile nello
Stato, la competenza verrà ancorata al luogo di sede legale
delle amministrazioni richiedenti.
Tutto questo lo prevede il dlgs. 13.10.2014, n. 153
(pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale del 27.10.2014 n.
250), che contiene disposizioni integrative e correttive al
dlgs. 06.09.2011, n. 159 (recante il codice delle leggi
antimafia), con diverse misure volte a rendere più efficace
l'azione di controllo preventivo antimafia.
Il nuovo correttivo nella parte concernente i controlli
amministrativi sugli appalti e sulle concessioni di
erogazioni e dei finanziamenti pubblici, tiene alto il
livello di vigilanza su tale settore e, anzi, ne rafforza
l'incisività consentendo di emettere una documentazione
interdittiva in tutti i casi in cui siano interessate
imprese border-line, che oggi eludono gli
accertamenti antimafia più rigorosi, operando sotto soglia.
Il provvedimento semplificherà alcuni passaggi della
procedura, eliminando oneri amministrativi superflui, come
ad esempio gli accertamenti a carico dei figli minori e
semplificando alcuni termini procedimentali per il rilascio
della documentazione antimafia, specie nei casi di urgenza.
Verrà, inoltre, semplificata la norma sulla competenza
territoriale.
Con l'approvazione del decreto legislativo sarà
esclusivamente competente al rilascio della documentazione
antimafia il prefetto del luogo ove ha sede l'operatore
economico, a tutto vantaggio della completezza,
dell'efficacia e dell'approfondimento dei riscontri
informativi (articolo ItaliaOggi del 13.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Varianti urbanistiche a richiesta.
Vincolo di un contributo ai Comuni - Permessi in deroga per
nuove destinazioni d'uso.
Dl Sblocca-Italia. Le misure del decreto legge sul rilancio
del settore edilizio introducono snellimenti ma lasciano
invariate le penalità.
Per il rilancio
dell'edilizia il decreto Sblocca-Italia (Dl 133/2014)
accelera e snellisce gli interventi più semplici e le
destinazioni d'uso. Per alcuni interventi non sono più
necessari titoli edilizi: bastano comunicazioni o
segnalazioni e le sanzioni sono solo pecuniarie, di 1000
euro o poco più (probabilmente lo Stato conta sui
professionisti coinvolti, cui sono richieste relazioni ed
elaborati progettuali, e sull'attenzione dei vicini). Con le
destinazioni d'uso semplificate e agevolate si potrà
misurarsi l'orientamento del mercato tra le destinazioni
residenziali e ufficio (oggi unificate), da tempo indicatore
della crisi economica. I vincoli ambientali non paiono
seriamente minacciati: restano le forti sanzioni per chi
eccede.
Nelle pieghe del decreto vi sono prospettive anche molto
ampie: sono possibili permessi "in deroga" per nuove
destinazioni d'uso, che consentiranno un rilancio delle
ristrutturazioni anche in aree industriali dismesse, con
potenziali effetti a cascata. Si pensi ad esempio alla
recente eliminazione, per liberalizzazione, dell'ampliamento
degli esercizi commerciali (decreto Salva Italia, 201/2011).
Ma è soprattutto con la tassazione del maggior valore delle
varianti urbanistiche (articolo 17 del Dl 133, ora articolo
16 del Dpr 380/2001) richieste dai privati, che si completa
il quadro: a ogni variante che avvenga in deroga alla
destinazione precedente o con cambio di destinazione d'uso,
il maggior valore viene diviso in due. Almeno la metà spetta
al Comune sotto forma di contributo straordinario per
interventi da realizzare «nel contesto» (cioè nel
quartiere).
Sembra tornarsi al contributo di miglioria previsto dal
Testo unico della finanza locale del 1931, all'epoca
connesso alla realizzazione di nuove strade. Oggi tale
contributo è invece riscosso un monte, a carico della parte
privata (imprenditore) che ottiene la variante, mentre un
secolo fa era carico dei "frontisti" beneficiati da una
nuova strada. Il contributo oggi sarà finanziario oppure
consistere in aree, immobili da destinare ai servizi di
pubblica utilità, edilizia sociale ed opere pubbliche.
Si evolve così un principio di extra fiscalità già presente
nel piano urbanistico di Roma: passando dalle aule
giudiziarie (Consiglio di Stato, sentenza 119/2012), la
pianificazione è stata abbinata a procedure definite «rapide
e collaborative» per ottenere aree ed immobili (nonché
progetti e finanziamenti) da destinare all'ente locale.
C'è da augurarsi che questi meccanismi siano applicati con
adeguati controlli, per moderare intuibili rischi: mentre
recenti innovazioni tendono a un'equa fiscalità sugli
immobili (catasto), c'è il rischio che le varianti
urbanistiche non abbiano argini, tanto più se decise nel
solo ambito comunale. E sarebbe un peccato se l'attenzione
degli enti locali si concentrasse sugli interventi di
manutenzione e ristrutturazione che portano cassa,
tralasciando modifiche urbanistiche di maggior calibro (articolo Il
Sole 24 Ore del 13.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Responsabilità solidale in archivio. Da definire gli effetti
della nuova disciplina sulle vecchie irregolarità.
Decreto semplificazioni. Cancellata la disposizione che
finora vincolava gli appaltatori e i committenti.
L'abrogazione integrale
della disciplina sulla responsabilità tributaria in caso di
irregolarità nei versamenti riguardanti le prestazioni di
appalto e subappalto, prevista dal decreto Semplificazioni
(definitivamente approvato dal Governo ed in attesa della
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale), evita alle imprese
una serie di adempimenti e accelera i pagamenti, anche se
resta il problema delle violazioni già commesse.
L'articolo 28, comma 1, del Decreto semplificazioni,
sopprime i commi da 28 a 28-ter dell'articolo 35 del Dl
223/2006, eliminando quindi dal sistema le conseguenze
negative sul committente e sull'appaltatore nel caso in cui
uno o più subappaltatori (ovvero l'appaltatore stesso) non
abbiano versato regolarmente le ritenute sui redditi di
lavoro dipendente dovute in relazione al contratto di
appaltato/subappalto.
Ricordiamo, infatti, che l'analogo
obbligo per i versamenti Iva era stato abrogato
dall'articolo 50 del Dl n. 69/2013, che ha chiuso la
procedura sorta in seno alla Ue per la denunce di infrazione
presentate da Confindustria e dell'Associazione Dottori
Commercialisti. E che l'unico modo per evitare di essere
chiamati in causa era costituito dall'ottenere, prima di
versare il corrispettivo dovuto, la prova che la controparte
e tutti gli altri "anelli" della catena avessero
regolarmente adempiuto ai propri obblighi di versamento.
Se l'entrata in vigore del Decreto libererà i futuri
versamenti dalla burocrazia introdotta da queste norme,
occorre chiedersi se, ed eventualmente in quale misura,
possano essere sanzionate violazioni commesse in questi
mesi. Ipotizzando che in sede di verifica emerga che il
committente o l'appaltatore hanno pagato le prestazioni
senza premunirsi della prescritta documentazione ed il
subappaltatore (ovvero l'appaltatore stesso) non ha versato
i tributi dovuti, quali sono le conseguenze? E cosa accade
ai provvedimenti sanzionatori eventualmente già in essere e
non ancora definiti?
Il problema, che riguarda le ritenute
sino a quando sarà efficace il Decreto, ma anche l'Iva sino
al 22.06.2013 (entrata in vigore del Dl n. 69/13), assume
una diversa connotazione a seconda che la posizione
interessata sia quella del committente o dell'appaltatore.
Il primo, infatti, era destinatario di una sanzione
pecuniaria (da 5.000 a 200.000 euro), per cui si applica il
principio del favor rei (articolo 3, comma 2, Dlgs n.
472/1997), in base al quale «salvo diversa previsione di
legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un
fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce
violazione punibile». Inoltre, «se la sanzione è già stata
irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si
estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato».
Il
"colpo di spugna" è quindi completo e, come conferma la
Cassazione (sentenze 1656/2013 e 17069/2009), può essere
applicato anche dal giudice, d'ufficio, e in ogni stato e
grado del giudizio, a condizione che via sia un procedimento
ancora in corso e che il provvedimento impugnato non sia
definitivo. Questo principio, secondo consolidata
giurisprudenza, non si applica automaticamente alle sanzioni
amministrative, ma è la stessa agenzia delle Entrate, con
circolare n. 2/E/2013, a riconoscere la natura tributaria
della sanzione, per cui l'applicabilità del favor rei non
sembra poter generare dubbi.
Dubbi che, invece, suscita la posizione dell'appaltatore, il
quale, nella vigenza della disciplina in via di abrogazione,
veniva assoggettato non ad una sanzione ma alla
responsabilità solidale per gli irregolari versamenti del
subappaltatore "infedele". Il favor rei, in linea di
principio, non opera al di fuori dell'ambito sanzionatorio,
ma la previsione legislativa della responsabilità solidale
ha una evidente (e sostanziale) natura "punitiva", quale
penalizzazione che si è voluto attribuire all'appaltatore
per la mancata verifica documentale anteriore al pagamento.
L'applicabilità dell'articolo 3, comma 2, Dlgs n. 472/1997
al caso di specie, è quindi un tema che, a partire da
eventuali contestazioni in corso e non ancora definite,
Agenzia e Commissioni tributarie dovranno affrontare
(articolo Il
Sole 24 Ore dell'11.11.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA - TRIBUTI: Riforma catasto, primo passo. Commissioni censuarie
ridisegnate. Spazio ai proprietari. Via libera definitivo al decreto dal consiglio dei ministri.
Sezione ad hoc per gli estimi.
Primo passo per la riforma del catasto. Il consiglio dei
ministri ha dato ieri il via libera definitivo al
dlgs sulle
nuove commissioni censuarie locali e centrale, interamente
rinnovate quanto a composizione e compiti, in attuazione
della legge 23/2014 (articolo 2, comma 3). Ne faranno parte
anche esperti indicati dalle associazioni di categoria del
settore immobiliare.
Mentre una sezione ad hoc si occuperà della revisione degli
estimi dei fabbricati. Le commissioni censuarie giocheranno
un ruolo essenziale nel passaggio al nuovo catasto (basato,
oltre al resto, sulla superficie e non sui vani dei
fabbricati) e la rinnovata composizione con esperti
provenienti dal mondo delle professioni e dalle associazioni
di categoria dovrà garantire che non ci saranno
sperequazioni sul territorio nazionale.
Quanto ai
fabbricati, ad esempio, la stima deve utilizzare il metro
quadrato come unità di consistenza, specificando i criteri
di calcolo della superficie dell'unità immobiliare e deve
utilizzare funzioni statistiche per parametrare il valore di
mercato alla localizzazione e alle caratteristiche edilizie
dei beni per ciascuna destinazione catastale e per ciascun
ambito territoriale anche all'interno di uno stesso comune.
Le commissioni locali sono divise in sezioni: una competente
per il catasto terreni, una competente per il catasto urbano
e una specializzata sulla revisione del sistema estimativo
del catasto dei fabbricati.
Quanto alla composizione, sia in
quelle locali sia in quella centrale, il decreto legislativo
bilancia l'appartenenza istituzionale, professionale o alle
associazioni di categoria. Accanto a componenti dell'agenzia
delle entrate e degli enti locali sono previsti esperti
indicati dagli ordini e collegi professionali e dalle
associazioni di categoria operanti nel settore immobiliare.
Ai componenti delle commissioni, peraltro, non spetterà
nessun compenso. Esse si insedieranno entro un anno
dall'entrata in vigore del dlgs.
Le attribuzioni delle
commissioni locali in materia di catasto terreni vanno dalla
approvazione dei quadri delle qualità e classi dei terreni e
dei prospetti delle tariffe dei comuni al concorso alle
operazioni di revisione e di conservazione del catasto
terreni. Peraltro la revisione generale degli estimi è
condizionata alla ratifica da parte della commissione
censuaria centrale.
In materia di catasto edilizio urbano, le commissioni locali
hanno il compito di approvare prospetti integrativi dei
quadri tariffari per le unità immobiliari urbane dei comuni.
Inoltre concorrono alle operazioni di revisione e di
conservazione del catasto edilizio urbano. Le commissioni
censuarie locali, infine, nell'operazione di revisione del
sistema estimativo del catasto dei fabbricati, hanno il
compito di validare le funzioni statistiche utilizzate per
comporre i nuovi estimi La commissione centrale ha funzioni
di secondo grado.
In materia di catasto terreni, decide sui
ricorsi dell'Agenzia delle entrate, dei comuni direttamente
interessati e delle associazioni di categoria operanti nel
settore immobiliare contro le decisioni delle commissioni
locali in merito ai prospetti delle qualità e classi dei
terreni ed ai rispettivi prospetti delle tariffe d'estimo di
singoli comuni. In materia di catasto edilizio urbano, la
commissione centrale decide in secondo grado sulle questioni
relative al quadro delle categorie e delle classi delle
unità immobiliari urbane e ai rispettivi prospetti delle
tariffe d'estimo di singoli comuni. La commissione centrale
interviene a sostituire quelle locali in caso di loro
inerzia. Per svolgere i loro compiti le commissioni
censuarie possono richiedere dati e informazioni agli uffici
del fisco e dei comuni.
«Il testo del decreto», commenta
Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia, «è
stato rimesso in carreggiata per effetto dell'azione dei
presidenti delle Commissioni finanze di Camera e Senato,
Capezzone e Marino, che hanno preteso che il provvedimento
si conformasse alle previsioni della legge delega approvata
dal Parlamento. Si è trattato di una vittoria della politica
sulla burocrazia, considerato che quest'ultima aveva
predisposto un testo improponibile. Cosa che non è certo di
buon auspicio per i prossimi decreti attuativi della delega
per la riforma del catasto» (articolo ItaliaOggi dell'11.11.2014). |
VARI:
Biciclette pubblicitarie messe all'angolo.
Sono fuori legge i piloti delle biciclette pubblicitarie che
svolgono attività promozionale per conto terzi a titolo
oneroso salvo che si tratti di veicoli a noleggio con
conducente. In ogni caso i limiti dimensionali per la
circolazione di velocipedi muniti di eventuale rimorchio
sono fissi e stabiliti dal codice stradale.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con l'inedito
parere 25.09.2014.
Una persona ha richiesto chiarimenti sulle autorizzazioni
necessarie per allestire biciclette pubblicitarie da
noleggiare ai soggetti interessati alle loro promozioni
commerciali. A parere del ministero però, trattandosi di
veicoli a tutti gli effetti, anche la disciplina della
pubblicità da effettuare con i velocipedi è soggetta a
particolari restrizioni. Ovvero alle previsioni dell'art. 57
del codice che vieta espressamente la pubblicità stradale
conto terzi a titolo oneroso. O meglio riserva questa
ipotesi solo ai mezzi pubblici come tram, autobus, taxi e
noleggio con conducente.
Con la recente modifica innestata nell'art. 85 del codice
ora anche i velocipedi possono essere adibiti a noleggio con
conducente. Si tratta per lo più dei tricicli a pedali che
iniziano a diffondersi in alcune città turistiche per
permettere una mobilità ecologica nel rispetto delle aree ad
alto flusso pedonale. In ogni caso anche le biciclette hanno
dei limiti geometrici stabiliti dalla legge e non possono
eccedere, compreso un eventuale rimorchio, i tre metri di
lunghezza.
La massa trasportabile non può superare i 50 kg. Per la
circolazione notturna il rimorchio deve essere poi
equipaggiato con i dispositivi di segnalazione visiva
posteriore e laterale previsti per i velocipedi all'articolo
224 del regolamento. Nell'ipotesi residuale di pubblicità
consentita su veicolo a due ruote a propulsione muscolare
ovvero di promozione di iniziative per conto proprio,
attenzione alle condizioni previste dall'articolato in
materia di installazioni pubblicitarie.
In particolare, specifica il parere centrale, se la
pubblicità viene realizzata con pannelli aggiuntivi gli
stessi non dovranno sporgere di oltre 3 cm rispetto alla
superficie sulla quale sono applicati (articolo ItaliaOggi dell'11.11.2014). |
ENTI LOCALI -
VARI: Bocciato il comune che non vuole i camperisti.
Il sindaco non può limitare la sosta degli autocaravan
adducendo potenziali pericolo per la salute, l'igiene
pubblica e la sicurezza urbana.
Lo ha messo nero su bianco il Ministero dei trasporti
bocciando l'ordinanza adottata dal primo cittadino di un
comune veneto con la nota 03.10.2014 n. 4680 di prot..
Con l'avvicinarsi dei periodi di festa si riaccende
l'interesse sulla questione degli autocaravan spesso
limitati nella circolazione e nella sosta per motivazioni
diverse, non necessariamente conformi alla legge.
L'autocaravan viene individuato dal codice stradale come un
mezzo dedicato al trasporto e alloggio di persone. La sosta,
ove consentita, non costituisce campeggio se il veicolo
poggia solamente sulle ruote e non sono previste
installazioni.
Nel centro abitato la sosta dei veicoli può essere vietata
permanentemente per determinate categorie di utenti solo in
presenza di particolari condizioni. In difetto di queste
motivazioni il comune può in ogni caso vietare
permanentemente la sosta dei veicoli in generale. Nel caso
di autocaravan, in assenza di particolari esigenze, il
divieto di sosta limitato a questa singola categoria di
utenti appare illegittimo.
Spesso i sindaci limitano la sosta e la circolazione dei
camper rappresentando inafferrabili motivi di ordine e
sicurezza pubblica. Ma neppure la tutela dell'igiene e della
sanità pubblica possono essere normalmente aggravate dalla
circolazione e dalla sosta di questi veicoli. Nel caso
sottoposto all'esame del ministero un comune del litorale
veneziano ha vietato la sosta degli autocaravan evidenziando
ragioni di igiene e sicurezza pubblica.
Questa disposizione a parere dell'organo centrale di
coordinamento è fuori legge e deve essere annullata. La
sosta di questi veicoli non può costituire infatti
genericamente un potenziale pericolo per la salute e la
sicurezza. Caravan e autocaravan, infatti, sono
necessariamente allestiti con serbatoi per la raccolta delle
acque di scarico e il loro uso incongruo può essere
sanzionato. Non può essere poi un autocaravan a
rappresentare un pericolo per la sicurezza urbana, conclude
il parere. Sbarre e limitazioni devono quindi essere rimossi
(articolo ItaliaOggi dell'11.11.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: SBLOCCA ITALIA/
L'edilizia segue regole standard.
Sì allo schema tipo in particolare su sicurezza ed energia.
Il regolamento unico è solo una delle novità nel settore
delle costruzioni e ristrutturazioni.
Per frazionare e accorpare gli immobili basta la Scia.
Introdotto un contributo straordinario per le varianti
urbanistiche; sanzioni da 2 mila a 20 mila euro per chi non
adempie l'ingiunzione di demolizione per abusi edilizi. E
ancora: i cambi di destinazione d'uso, quando ammessi, non
potranno comportare aumento delle superfici dell'immobile.
Sono questi alcuni degli interventi normativi per il settore
dell'edilizia contenuti nel decreto legge cosiddetto
«Sblocca Italia», convertito in legge dal Parlamento il 5
novembre, che prevede diverse modifiche al testo unico
dell'edilizia (dlgs 380/2001).
Fra le novità viene stabilito, per gli interventi di
manutenzione straordinaria per i quali si può procedere con
comunicazione di inizio lavori (peraltro aumenta da 258 a
1.000 euro la sanzione per mancata comunicazione), che il
professionista incaricato di redigere la Cil attesti che le
modifiche da apportare siano in linea con le norme sul
rendimento energetico e anti sismiche e produca gli
«elaborati progettuali» relativi.
Viene inoltre stabilito
che, in caso di permesso di costruire rilasciato «in deroga»
(peraltro non più ammissibile per interventi di
ristrutturazione urbanistica), il cambio di destinazione
d'uso di un immobile non può mai determinare un aumento
della superficie coperta, rispetto allo stato di fatto
precedente l'intervento. Inoltre gli interventi di
ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità
immobiliari non saranno più soggetti a permesso di
costruire, ma a semplice Scia.
Per quel che riguarda
l'efficacia temporale del permesso di costruire, la norma
del testo unico viene modificata chiarendo che il termine
per l'inizio dei lavori non può essere superiore a un anno
dal rilascio del titolo, mentre quello di ultimazione, entro
il quale l'opera deve essere completata, non può superare i
tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una
proroga, accordabile motivatamente soltanto per «fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando
si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia
previsto in più esercizi finanziari».
Ma la principale novità nel settore dell'edilizia riguarda
il regolamento unico edilizio. In particolare dovranno
essere il governo, le regioni e le autonomie locali a
mettere a punto, in sede di Conferenza unificata, ad accordi
o intese per adottare uno schema di regolamento
edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme
e gli adempimenti. Il regolamento edilizio-tipo, che indica
i requisiti prestazionali degli edifici, con particolare
riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico, dovrà poi
essere adottato dai comuni.
Di particolare interesse è anche
la disposizione che agevola l'approvazione di alcuni
interventi di valorizzazione urbana, dando priorità di
valutazione, fra gli interventi oggetto di accordi di
programma per il recupero di immobili demaniali
inutilizzati, ai progetti di recupero di immobili a fini di
edilizia residenziale pubblica, da destinare a nuclei
familiari utilmente collocati nelle graduatorie comunali per
l'accesso ad alloggi di edilizia economica e popolare e a
nuclei sottoposti a provvedimenti di rilascio per morosità
incolpevole, nonché agli immobili da destinare ad auto
recupero, affidati a cooperative composte esclusivamente da
soggetti aventi è requisiti per l'accesso all'edilizia
residenziale pubblica.
In questo ambito è altrettanto
interessante la disposizione sul cosiddetto contributo
straordinario per le varianti urbanistiche. La norma
stabilisce, ai fini del calcolo degli oneri di
urbanizzazione relativi alle varianti urbanistiche per
interventi su aree o immobili in variante, in deroga o con
cambio di destinazione d'uso, che il maggior valore,
calcolato dall'amministrazione comunale, dovrà essere
suddiviso in misura non inferiore al 50% tra il comune e la
parte privata. Sarà poi il privato a erogare al comune
l'importo, sotto forma di contributo straordinario, dando
così atto dell'interesse pubblico.
In particolare il
soggetto privato dovrà effettuare un versamento finanziario
che sarà a sua volta vincolato alla realizzazione di opere
pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade
l'intervento, o alla cessione di aree o immobili da
destinare a servizi di pubblica utilità, o ad edilizia
residenziale sociale od opere pubbliche in senso più ampio.
Un intervento ad hoc viene riservato anche alle
demolizioni, con la previsione di sanzione in caso di
inottemperanza dell'ingiunzione a demolire che potrà variare
da 2 mila a 20 mila euro, con la precisazione che per le
aree a rischio idrogeologico elevato, la sanzione sarà
sempre e comunque di 20 mila euro
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: SBLOCCA ITALIA/
Calamità, udienze di merito flash.
Corsia preferenziale per i ricorsi al Tar per appalti
connessi a eventi calamitosi; l'udienza di merito dovrà
essere fissata entro 30 giorni; la sospensiva potrà essere
accordata soltanto in caso di prevalenza dell'interesse del
ricorrente rispetto alle esigenze di incolumità pubblica.
Previste, inoltre, deroghe al codice appalti per rischio
idrogeologico, anti sismica, tutela ambientale; per la messa
in sicurezza delle scuole possibile l'affidamento diretto
dei lavori fino a 200 mila euro.
Sono alcune delle misure
previste nell'articolo 9 del decreto legge «Sblocca Italia»,
convertito in legge, che detta una disciplina acceleratoria
e semplificata per i lavori di estrema urgenza in materia di
vincolo idrogeologico, antisismica e di messa in sicurezza.
In particolare il provvedimento stabilisce che dovranno
intendersi come connaturate da esigenze imperative connesse
a un interesse generale anche «quelle funzionali alla
tutela dell'incolumità pubblica». Da questa
qualificazione dell'interesse si fa discendere che in tutte
le procedure di appalto («avviate o da avviarsi») e nelle
procedure conseguenti alla redazione di un verbale di somma
urgenza per interventi conseguenti alla dichiarazione dello
stato di calamità naturale, il Tar può accogliere un ricorso
cautelare soltanto se i requisiti di estrema gravità e
urgenza previsti dal codice del processo amministrativo «siano
ritenuti prevalenti rispetto alle esigenze di incolumità
pubblica evidenziate dalla stazione appaltante».
La regola potrebbe quindi essere quella di salvezza del
contratto in essere con un rapido rinvio all'udienza di
merito; infatti, la stessa norma impone al giudice di
fissare l'esame del merito del ricorso entro trenta giorni,
saltando quindi la fase cautelare e con una decisione che
potrebbe giungere entro un massimo di 30/40 giorni dalla
presentazione del ricorso.
In via generale, poi, la legge Sblocca Italia prevede
deroghe al codice dei contratti pubblici per messa in
sicurezza degli edifici scolastici, per interventi di
mitigazione del rischio idrogeologico, di adeguamento alla
normativa antisismica e di tutela ambientale e del
patrimonio culturale. Le norme derogabili determineranno
quindi meno limiti alle varianti, l'accelerazione sui
termini di gara e la semplificazione della fase di
approvazione dei progetti.
Non potranno invece essere derogate le disposizioni relative
ai servizi di progettazione e agli appalti integrati. Per
gli interventi di messa di sicurezza delle scuole sarà
possibile l'affidamento diretto dei lavori fino a 200 mila
euro
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: SBLOCCA ITALIA/
Terre da scavo, regole ad hoc.
Alleggeriti anche iter di bonifica e spostamento di rifiuti.
Il pacchetto di misure contenuto nella legge di conversione
del decreto 133/2014.
Riscrittura della disciplina sulla gestione delle terre e
rocce da scavo con razionalizzazione delle norme,
introduzione di nuove regole per piccoli cantieri e
disposizioni ad hoc per il deposito temporaneo.
Questo
l'ambizioso obiettivo della legge di conversione del dl
133/2014 (c.d. «Sblocca Italia») approvata in via definitiva
dal senato il 05.11.2014, che affida a un decreto del
presidente della Repubblica (previsto entro il febbraio
2015) il restyling della complessa disciplina stratificatasi
dal 2006 a oggi.
L'esordiente legge incide però anche
nell'immediato, riscrivendo le regole del dlgs 152/2006
(c.d. «Codice ambientale») su campo di applicazione della
disciplina dei rifiuti, procedure semplificate di bonifica e
funzionamento degli impianti di trattamento.
Restyling disciplina materiali da scavo. Con il citato dpr,
da adottarsi entro 90 giorni dall'entrata in vigore della
legge di conferma dello «Sblocca Italia», arriverà dunque il
riordino e la semplificazione della (complessa) disciplina
vigente sulla gestione delle «terre e rocce da scavo»,
locuzione a oggi non diversamente denotabile se non
ricorrendo alla definizione di «materiali da scavo» dettata
dal dm 162/2012 (ed elevata a rango di norma primaria dal dl
69/2013) coincidente con «il suolo o sottosuolo, con
eventuali presenze di riporto, derivanti dalla realizzazione
di un'opera».
Il futuro decreto dovrà, secondo i criteri
direttivi della nuova legge: stabilire regole procedurali
proporzionali all'entità degli interventi da realizzare;
dettare norme ad hoc per la cessazione della qualifica di
rifiuto di materiali da scavo (c.d. «end of waste»); sancire
disposizioni per il riutilizzo in situ di materiali da scavo
provenienti da cantieri di piccole dimensioni ex articolo
266, comma 7, dlgs 152/2006 (ossia con produzione non
superiore ai seimila metri cubi di materiale) finalizzati a
costruzione o manutenzione di reti e infrastrutture, con
esclusione delle terre provenienti da siti contaminati;
integrare la definizione di «deposito temporaneo» (quale
raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta,
nel luogo in cui gli stessi sono prodotti) prevista
dall'articolo 183, dlgs 152/2006 mediante l'introduzione di
specifici criteri e limiti quantitativi per lo stoccaggio
delle terre e rocce da scavo.
Riutilizzo nei siti di bonifica. Sempre in materia, la legge
di conversione del dl 133/2014 conferma le nuove regole
introdotte dall'articolo 34 dell'originario provvedimento
d'urgenza sulla possibilità di riutilizzo nello stesso sito
dei terreni escavati per interventi di bonifica anche se
aventi valori inquinanti superiori alle «concentrazioni
soglia di contaminazione» (c.d. «Csc») a condizione che: non
siano comunque superate le più alte «concentrazioni soglia
di rischio» (c.d. «Csr»); i materiali siano reimpiegati
nella medesima area assoggettata all'analisi di rischio e
questa sia presidiata, nel caso, da sistemi di barrieramento
fisico o idraulico di comprovata efficienza ed efficacia.
L'incidenza sull'attuale disciplina. La promessa riscrittura
della disciplina sui materiali da scavo inciderà, come
avvenuto per citate e confermate nuove regole sul loro
riutilizzo nei siti contaminati (che per coerenza con
l'annunciato spirito di riordino avrebbero però dovuto
trovare diretta collocazione nel Titolo V del «Codice
ambientale»), su un articolato sistema normativo attualmente
composto: dalle disposizioni recate dagli articoli 184-bis
(gestione dei materiali da scavo come «sottoprodotti») e 185
(esclusione dalla disciplina dei rifiuti di determinate
terre escavate) del dlgs 152/2006; dalle norme ex dm
161/2012 (sul reimpiego in altro sito, come sottoprodotti,
delle terre e rocce da scavo provenienti da attività o opere
di grandi dimensioni e soggette a valutazione di impatto
ambientale o autorizzazione integrata ambientale, a
esclusione dei materiali ex articolo 109, dlgs 152/2006);
dalle prescrizioni del dl 2/2012 sui «materiali di riporto»
(quali miscele eterogenee di materiali antropici e terreno
presenti nel suolo); dalle regole recate dall'articolo
41-bis del dl 69/2013 sul riutilizzo come sottoprodotti dei
materiali da scavo provenienti da piccoli cantieri ex
(citato) articolo 266, comma 7, dlgs 152/2006 (articolo che
il dpr prevede di declinare ulteriormente, come più sopra
accennato, stabilendo regole specifiche per attività di
costruzione o manutenzione di reti e infrastrutture).
Nuove deroghe al regime dei rifiuti. Con la conversione del
dl 133/2014 arrivano anche nuove esclusioni dal regime dei
rifiuti. Mediante la novella dell'articolo 185 del dlgs
152/2006 escono infatti dal campo di applicazione della
Parte IV del «Codice ambientale», oltre ai sedimenti
spostati in acque superficiali, gli stessi residui che
confluiscono nelle pertinenze idrauliche.
Impianti di trattamento rifiuti. La legge di conferma dello
«Sblocca Italia» incide altresì sugli impianti di recupero
energetico e di smaltimento rifiuti. Nei primi l'aumento del
carico dei rifiuti processabili potrà essere portato fino a
«saturazione del carico termico» solo all'esito positivo
della compatibilità ambientale (qualità dell'aria compresa)
di tale regime di operatività.
Gli stessi impianti dovranno
altresì assicurare il trattamento in via prioritaria dei
rifiuti urbani prodotti dal proprio territorio regionale
fino al raggiungimento del relativo fabbisogno, e solo in
via residua il processo di quelli provenienti da altre
regioni (previo pagamento di relativo contributo all'Ente di
accoglienza) e di quelli, dietro rispetto del principio di
prossimità e di misure di sicurezza, speciali pericolosi a
solo rischio infettivo.
Con un ulteriore intervento
sull'articolo 182 del dlgs 152/2006 la nuova legge riduce
anche il divieto di smaltire i rifiuti urbani non pericolosi
in regioni diverse da quelle di origine (fino a oggi
consentito da accordi regionali o internazionali
giustificati da aspetti territoriali e opportunità
tecnico-economica di livelli ottimali) ammettendolo ogni
qual volta il presidente dell'Ente territoriale di
produzione lo riterrà necessario per fronteggiare situazioni
di emergenza dichiarate dalla Protezione civile.
Nuove semplificazioni per bonifiche. Con la rivisitazione
dell'articolo 242-bis del dlgs 152/2006 viene infine
ulteriormente alleggerita la procedura semplificata di
bonifica introdotta dal dl 91/2014 (c.d. dl «Competitività)
nel «Codice ambientale»: caratterizzazione e relativo
progetto d'intervento non avranno più bisogno di
approvazione ma saranno sottoposti a mero controllo pubblico
di verifica del conseguimento dei valori di «Csc» nei suoli
per la specifica destinazione d'uso; l'attuazione dei
progetti di bonifica di siti con estensione superiore a 15
mila metri quadri potrà essere portata fino a 3 fasi (ognuna
della quali da completare entro 18 più eventuali altri sei
mesi di proroga), la realizzazione di quelli superiori a 400
mila metri quadri dovrà rispettare un crono-programma
concordato con le autorità competenti
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il ritiro di Raee porta business.
L'attività promette crescita occupazionale ed economica.
Le prospettive del settore secondo l'Associazione italiana
dei rivenditori di elettrodomestici.
Il mondo (ancora) «inesplorato» dei rifiuti
elettrico-elettronici che «dà la possibilità a tutti gli
operatori che abbiano i requisiti di legge necessari (in
linea, cioè, con le disposizioni del decreto recente
legislativo 49/2014) di contattare direttamente i negozi,
sia grandi che piccoli, proponendosi come coloro che possono
ritirare gratuitamente» tali scarti.
A raccontarne
potenzialità e prospettive è Davide Rossi, direttore
generale dell'Aires (l'Associazione italiana retailer
elettrodomestici specializzati, che riunisce le aziende e i
gruppi distributivi specializzati di elettrodomestici ed
elettronica di consumo) che a ItaliaOggi Sette spiega come
«usciti ormai normativamente da una zona grigia» il business
possa decollare.
E, fra gli effetti positivi che intuisce,
quello (fondamentale, nell'attuale stagione di crisi) di
«generare nuove, concrete opportunità di lavoro, non
soltanto, come si potrebbe immaginare, per autisti e
trasportatori, bensì anche per personale specializzato, con
competenze specifiche nella raccolta e nelle pratiche di
smaltimento e riutilizzo del materiale che verrà prelevato».
Domanda. Si spalanca, dunque, un mercato liberalizzato e
proficuo, una volta spazzate via le incertezze normative?
Risposta. Proprio così: si afferma il principio dell'«all
actors», in cui tutte le parti si fanno carico di gestire
bene il rifiuto, che sia un caricabatterie per il telefonico
cellulare, o un piccolo «robot» da cucina. E si trasforma
quello che sembrava un problema in una risorsa, perché la
distribuzione adesso gioca un ruolo primario all'interno del
processo, giacché le rivendite diventano centri di raccolta.
D. Dunque, alla vecchia logica dell'uno contro uno, che
vincolava la distribuzione soltanto a ritirare gratuitamente
il grande elettrodomestico all'acquisto del nuovo, si
aggiunge l'uno contro zero, ossia l'obbligo per gli esercizi
di oltre 400 metri quadrati di prendere i «vecchi» prodotti
anche senza che ne sia stato comperato un altro, purché di
dimensioni inferiori ai 25 centimetri (si veda altro
servizio in pagina, ndr). E quali saranno le ricadute?
R. Per noi si tratta di una frustata di competitività,
frutto unicamente della concorrenza che si va a sviluppare
in tutto il sistema. Il principio della direttiva europea da
cui nasce il dlgs 49/2014 è metter tutti coloro che si
occupano del recupero e del trattamento dei Rifiuti
elettrico-elettronici (Raae) gli uni contro gli altri, in
maniera tale che soltanto i migliori prevalgano, perché
ciascuno è tenuto ad avere alti standard.
D. È vero che, in moltissimi casi, per il rivenditore era
una seccatura doversi far carico di tali materiali?
R. Verissimo. La sensazione era quella di essere costretti a
svolgere un adempimento burocratico in più, o di dover
pagare una tassa. Fortunatamente, ora lo scenario sui Raae
sembra ben diverso, si guarda con fiducia alle prospettive.
D. Sicuramente, gli obiettivi di tale riutilizzo
intelligente e ecologico sono ambiziosi: la norma prevede
che, nell'arco del prossimo quinquennio, si raccolgano 720
mila tonnellate, pari a circa l'85% di tutti i rifiuti
generati, equivalenti a circa 12 kg a cittadino. Lei che
cosa ne pensa?
R. Certamente si tratta di traguardi ambiziosi. Vedremo cosa
si riuscirà a realizzare. Mi preme, però, metter in risalto
un'altra conseguenza dell'ampliamento del business.
D. Ossia?
R. La fresca opportunità di raduno e gestione degli
elettrodomestici potrà tradursi in nuove chance lavorative.
Valide conseguenze sotto il profilo occupazione le avremo
senza ombra di dubbio. Vede, banalmente abbiamo dinanzi a
noi la necessità di prendere in carico tonnellate e
tonnellate di materiali.
D. E quali figure potranno essere protagoniste di questo
processo?
R. Non soltanto gli autisti e i trasportatori, così come i
magazzinieri, bensì ci sarà anche bisogno di professionisti
qualificati, che sappiano impostare con esattezza la
logistica e la redistribuzione di quanto verrà radunato. Per
non parlare, poi, dell'affare legato alla
commercializzazione delle cosiddette «materie prime
secondarie». Vedo molte analogie con quanto avvenuto sul
fronte delle energie rinnovabili: invece di continuare ad
estrarre petrolio dal nostro povero Pianeta, si utilizzano i
pannelli solari. Quanto sta alla base del reimpiego dei Raee
è, allo stesso modo, all'insegna della sostenibilità.
Insomma, un versante quasi del tutto inedito su cui
applicarsi, che s'inquadra nell'ambito delle «economie
green», che generano risorse fondamentali. E da cui si
potranno trarre perfino non poche chance d'inserimento in
azienda per tantissimi giovani che, magari, pur di operare
in questi settori produttivi, sarebbero andati all'estero.
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Gli obblighi dei distributori di apparecchiature elettriche
ed elettroniche.
Dal 12.04.2014, data di entrata in vigore del nuovo Dlgs
49/2014 sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed
elettroniche (c.d. «Raee»), i distributori di nuove
apparecchiature (c.d. «Aee») hanno visto affiancarsi allo
storico obbligo di ritiro «one on one» dei rifiuti conferiti
dagli utilizzatori (previsto fin dal 2010, sotto lo storico
dlgs 151/2005) il nuovo sistema «one on zero». Pur essendo
finalizzati entrambi ad assicurare la corretta gestione dei
tecno-rifiuti, i due sistemi si differenziano per ambito di
applicazione e relativi adempimenti.
- Raee ritirati «one on one».
Il sistema «uno contro uno»
consiste nel ritiro a titolo gratuito di una Aee usata di
tipo domestico all'atto della fornitura di nuova ed
equivalente apparecchiatura elettrica ed elettronica. Il
ritiro è obbligatorio per i distributori di nuove
apparecchiature, indifferentemente dalle dimensioni del
punto vendita, ma può essere rifiutato in caso di rischio di
contaminazione del personale incaricato, di Aee priva di
componenti essenziali o contenente rifiuti diversi dai Raee.
I distributori possono utilizzare (anche per Aee
professionali ritirati in nome dei produttori) un regime
semplificato (ex articolo 11, comma 1, dlgs 49/2014 e dm
65/2010) che consente loro di effettuare sia il deposito dei
Raee presso propri locali sia il successivo trasporto verso
centri di raccolta o impianti di trattamento in deroga
all'ordinario regime sulla gestione dei rifiuti ex dlgs
152/2006.
Tale regime semplificato permette di condurre le
suddette attività senza necessità di autorizzazione per il
deposito, di tenuta dei registri di carico/scarico, di
formulario di trasporto e dichiarazione Mud a condizione
che: il deposito dei Raee sia effettuato entro i parametri
quantitativi, temporali e di sicurezza previsti dalle
suddette norme; siano rispettati il divieto di miscelazione
tra rifiuti di diversa pericolosità e tra rifiuti pericolosi
e non pericolosi (articolo 187, «Codice ambientale») e
l'integrità delle apparecchiature; vi sia iscrizione ad
apposita Sezione dell'Albo gestori ambientali; vengano
tenuti «schedario di carico e scarico» e «documento di
trasporto».
- Raee ritirati «one on zero».
Il sistema «uno contro zero»
coincide con il ritiro a titolo gratuito di piccolissimi Raee (dimensioni esterne inferiori a 25 centimetri)
provenienti da nuclei domestici senza il contestuale
acquisto di nuove Aee da parte dei conferenti. Tale ritiro è
obbligatorio per i distributori con superficie di vendita di
Aee superiore ai 400 metri quadri e può essere rifiutato
negli stessi casi critici previsti per il sistema «one on
one». Dal punto di vista degli adempimenti ambientali, il
dlgs 49/2014 (articolo 11, comma 3) si limita a escludere
l'obbligo di autorizzazione ex dlgs 152/2006 per i punti di
raccolta dei Raee presso i distributori, rinviando a un
futuro decreto ministeriale le «modalità semplificate» per
ritiro, deposito e trasporto (ma stabilendo, nelle more,
l'obbligo di raccolta separata e di conservazione
dell'integrità dei Raee di illuminazione).
Nell'immediato,
le altre prescrizioni ambientali che tali distributori sono
chiamati a osservare sono dunque da rintracciare nel più
generale dlgs 152/2006, ossia: in qualità di detentori di
rifiuti, divieto miscelazione rifiuti (ex articolo 187
citato) e disassemblaggio; obbligo di tenuta formulario di
trasporto per movimentazione; in qualità di (eventuali)
trasportatori in proprio dei Raee dal verso centro di
raccolta o impianto di trattamento, iscrizione all'Albo
nazionale gestori ambientali, tenuta di registri
carico/scarico e formulario di trasporto.
Qualsiasi altra operazione fuori da quelle consentite dai
citati due regimi semplificati che i distributori vorranno
effettuare sui Raee ritirati necessiterà, al fine di non
incorrere in pesanti sanzioni, di specifica autorizzazione
alla gestione dei rifiuti secondo le ordinarie regole del
dlgs 152/2006
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Caldaie e condizionatori allineati al nuovo libretto.
Adeguamento da effettuare al primo controllo periodico.
Impianti domestici. Responsabilità e sanzioni per l’obbligo
in vigore dal 15 ottobre.
L’obbligo del nuovo
modello di libretto per le caldaie, i sistemi di
riscaldamento e i condizionatori, sulla carta, è scattato il
15 ottobre. Ma condomini, uffici e famiglie non dovranno
affannarsi per mettersi in regola: potranno farlo in
occasione del primo controllo utile sull’efficienza dei
propri dispositivi.
L’adempimento deriva dal Dm 10.02.2014 (che a sua volta
attua il Dpr 74/2013) e prevede che le caldaie
tradizionali, già in passato dotate di un libretto, debbano
rinnovarlo con la compilazione del nuovo modello. Inoltre,
la stessa documentazione è estesa in via obbligatoria anche
ai condizionatori (in Lombardia, per effetto della legge
regionale, solo quelli sopra i 12 kW) e all’intero universo
dei sistemi di riscaldamento, dalle pompe di calore ai
cogeneratori, dal teleriscaldamento ai dispositivi
alimentati da fonte rinnovabile.
Gli unici impianti
“dispensati” sono gli scaldacqua per uso igienico-sanitario
a servizio di singole unità immobiliari, purché siano a uso
abitativo. Se si parla, ad esempio, di un apparecchio
installato in una palestra o in un centro sportivo, allora
il libretto è necessario.
Che cosa è il libretto
È la carta di identità dell’impianto, lo segue dalla prima
accensione alla fine del servizio e alla successiva
demolizione, registra tutte le modifiche, sostituzioni di
apparecchi e componenti, interventi di manutenzione e di
controllo, valori di rendimento nel corso della vita utile,
cambi di proprietà. Rispetto all’edizione in uso fino a
oggi, il modello in vigore dal 15 ottobre non si fonda più
su due tipologie di moduli (uno riferito alle centrali e
l’altro al singolo impianto) ma su un modulo unico,
personalizzabile, costituito da tante schede, usate e
assemblate in funzione delle componenti dell’impianto.
Chi compila il libretto
La responsabilità della compilazione iniziale (per un
impianto termico nuovo) è della ditta installatrice. Al
contrario, l’aggiornamento, così come (ad esempio nel caso
di un condizionatore) la compilazione ex novo per un sistema
già esistente, spetta al responsabile dell’impianto, cioè,
nel caso di un appartamento, la persona che fisicamente ci
abita o, nel caso di un condominio, l’amministratore (che a
sua volta può delegare a un terzo responsabile). «Il modello
può essere scaricato dal sito del Mise» –spiega Giorgio
Bighelli, della società di consulenza e-training. «Tuttavia,
visto che si presenta identico, sia che riguardi un apparato
da 20kW sia uno di 300 kW, è troppo complesso perché il
singolo cittadino possa predisporlo senza l’aiuto di un
tecnico».
Per questa ragione, lo stesso Ministero ha
chiarito che l’adeguamento dei documenti potrà essere
effettuato in occasione del primo controllo, obbligatorio,
sull’efficienza energetica dell’impianto (fissato ogni due o
ogni quattro anni, in genere dalle Regioni). Ma per chi ha
un contratto di manutenzione di caldaie e condizionatori,
l’adeguamento può essere effettuato anche prima, in
occasione della prima ispezione programmata.
«È sempre buona
norma comunque per il cittadino che ha la responsabilità
dell’impianto –conclude Bighelli– farsi spiegare dal
manutentore come è compilato il modello e fare una verifica
con le istruzioni allegate al modello in bianco. Perché,
alla fine, la responsabilità è sempre sua».
In Lombardia, per i condizionatori sotto i 12kW, non è
richiesta la compilazione di un libretto: una differenza
sostanziale rispetto allo Stato, tenendo anche conto che gli
impianti domestici in genere oscillano fra 1 e 6 kW.
Il vecchio libretto
Il vecchio libretto, già in uso per le caldaie tradizionali,
non va buttato. Anzi, deve essere conservato. Così era già
accaduto nel 2003, quando il modello di libretto era stato
aggiornato la prima volta. Un apparato installato nel 2002,
ad esempio, dovrà avere tre versioni di libretto, quella che
fa capo al modello del 1993, quella del 2003 e quella del
2014.
L’efficienza energetica
Tra le novità del Dm del 10.02.2014 c’è anche
l’aggiornamento della modulistica per inviare il rapporto di
controllo al termine delle verifiche di efficienza
dell’impianto. Questo documento si distingue in 4 tipologie
(riscaldamento a fiamma e combustione, condizionamento,
teleriscaldamento, co e trigenerazione) e scatta solo nel
caso di impianti di riscaldamento con potenza maggiore di 10
kW e di condizionamento con potenza maggiore di 12 kW. La
compilazione spetta ai tecnici, che inviano il rapporto
all’ente preposto a tenere il catasto degli impianti,
pagando l'importo del bollino, secondo un tariffario che
cambia persino da Comune a Comune.
Le sanzioni
Le sanzioni stabilite dal Dlgs 192/2005, vanno da 500 a
3mila euro a carico di proprietario, conduttore,
amministratore di condominio o terzo responsabile che non
ottemperino ai propri obblighi. «Il rischio reale che
scattino le verifiche –prosegue Bighelli– è comunque
proporzionato all’esistenza o meno, a livello regionale, del
catasto degli impianti termici e all’operatività degli enti
preposti a effettuare gli accertamenti. In Lombardia, ad
esempio, l’assenza di libretto comporta una multa da 100 a
600 euro».
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Termini & vincoli
Il libretto D’IMPIANTO
Il libretto di impianto, fino a ieri in vigore per le
caldaie tradizionali (legge 10/91 e Dm 17.03.2003) oggi è
esteso a tutti gli impianti termici, installati per la
climatizzazione invernale ed estiva degli ambienti.
Riguarda, pertanto, anche condizionatori e sistemi di
climatizzazione più vari, dalle pompe di calore ai
cogeneratori, dal teleriscaldamento ai dispositivi
alimentati da fonte rinnovabile. Sono esclusi gli scaldacqua
per uso igienico-sanitario installati in unità ad uso
abitativo, così come le stufe o altri dispositivi non fissi
Il rapporto di controllo
Il rapporto (cioè l’obbligo dell’invio di un documento
tecnico che attesta la verifica di efficienza effettuata
all’ente preposto su ogni territorio alla gestione del
catasto impianti) scatta solo per impianti di riscaldamento
con potenza maggiore di 10 kW e di condizionamento con
potenza maggiore di 12 kW. A differenza del libretto si
distingue in 4 tipologie (riscaldamento a fiamma e
combustione, condizionamento, teleriscaldamento, co- e
trigenerazione). In Lombardia è previsto anche un rapporto
di controllo per gli impianti a biomassa
LA manutenzione PERIODICA
La manutenzione è la revisione periodica dell’impianto
termico, che viene svolta conformemente alle prescrizioni e
con la periodicità contenute nelle istruzioni tecniche
dell’apparato. In genere, è definita all’atto
dell’installazione dall’impresa esecutrice. Le informazioni
relative alla manutenzione sono contenute in un documento
separato rispetto al libretto e che viaggia in parallelo.
Normalmente, specie nei condomini, viene firmato un
contratto di manutenzione che prevede una serie di controlli
in date stabilite
La verifica di efficienza
La verifica dell’efficienza è fissata per legge e serve a
controllare che, nel tempo, l’impianto continui a consumare
una stessa quantità di energia a fronte del fabbisogno
necessario per garantire un uso standard.
La periodicità delle verifiche è prevista dal Dpr 74/2013, a
seconda della potenza e tipologia dell’impianto. Le Regioni,
che hanno legiferato con proprie leggi in materia, hanno via
via stabilito sui territori periodicità di controllo diverse
da quelle statali
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Sul territorio. In Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e
Piemonte modelli diversi da quello nazionale
Passaggio obbligato in Regione.
Non tutti gli italiani devono
connettersi al sito del Mise per scaricare il libretto di
impianto. Alcuni devono infatti collegarsi alla pagina
predisposta dalla propria Regione, se quest’ultima ha deciso
di fare per sé.
Il nodo è, ancora una volta, quello dei poteri concorrenti
fra lo Stato e i Governi locali, in materia di energia.
Facendo valere i diritti acquisiti con la «clausola di
cedevolezza» dell’articolo 17 del Dlgs 192/2005, alcune
amministrazione regionali sono infatti scese in campo con
propri libretti. Intervenendo anche al di là del
“consentito”, visto che il Dm 10.02.2014 lasciava ai
territori solo la possibilità di aggiungere eventuali schede
peculiari a uno strumento che, nel suo complesso, avrebbe
dovuto presentarsi ovunque uniforme.
La prima amministrazione che si è mossa è stata la
Lombardia, con un decreto del direttore generale che attua
la delibera X/1118 del 20.12.2013. Il libretto,
scaricabile dal sito del Catasto regionale unico degli
impianti termici, presenta una serie di differenze, così
come i rapporti di efficienza, diversi da quelli nazionali e
in numero di cinque anziché quattro, perché la Regione
tratta a parte i dispositivi a biomassa.
La scelta di correre per sé ha contraddistinto anche il
Veneto, dove il libretto “regionale” è stato introdotto
dalla delibera 1363 del 28.07.2014 (inizialmente entrato
in vigore con una serie di refusi, successivamente
corretti). Particolarità locale è quella di aver creato un
proprio vademecum di istruzioni, differente da quello del
Mise, su come compilare il documento. Inoltre viene
richiesta a livello locale l’integrazione obbligatoria della
periodicità delle manutenzioni (aspetto che, invece, secondo
la normativa nazionale deve essere trattato a parte, in
altro format ad hoc e non ancora predisposto).
In Emilia Romagna, il libretto contiene 15 schede al posto
delle 14 stabilite dal ministero dello Sviluppo: la Regione,
infatti, richiede una serie di dettagli aggiuntivi, non
previsti a livello centrale. Siccome la delibera con cui è
stato introdotto il modello regionale è datata 13 ottobre
(appena due giorni prima rispetto all’entrata in vigore del
Dm 10.02.2014), l’amministrazione consente però, per
ora e a chi già si è dotato di un modello di libretto simile
a quello nazionale, di aggiungere le informazioni peculiari
all’interno delle 14 schede precedenti.
Il Piemonte, infine, ha istituito con la recente delibera
13-381/2014 il catasto degli impianti, che mancava, e ha
adottato un modello locale di libretto. Dimenticando nella
prima stesura di inserire la parte dedicata ai controlli
sugli ossidi di azoto, che sul territorio sabaudo sono
obbligatori per via di quanto disposto dalla legge
regionale.
Lo stesso modello di libretto nazionale, infine, presenta
una serie di limiti che vengono messi in luce dagli
operatori. Il documento, infatti, era stato pensato per
essere supportato nella compilazione da strumenti
informatici, invece quasi in tutte le Regioni è gestito su
carta. Con tutti i limiti che ne derivano (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2014). |
APPALTI: Appalti, impossibile «regolarizzare» istanze e offerte.
Anac. Il documento di consultazione.
La mancanza,
l’incompletezza o l’irregolarità essenziale delle
dichiarazioni sostitutive e di vari documenti che i
concorrenti devono presentare in sede di gara sono
assoggettate a una sanzione pecuniaria, ma devono essere
ammesse alla regolarizzazione.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha sottoposto a
consultazione una
bozza di determinazione che fornisce importanti
interpretazioni per l’applicazione del nuovo comma 2-bis
dell’articolo 38 del codice dei contratti, introdotto
dall’articolo 39 del Dl 90/2014, evidenziando che la norma
ha ampliato il perimetro di utilizzo del soccorso
istruttorio nelle procedure degli appalti.
Rispetto alla norma, tuttavia, l’Anac individua alcune
importanti eccezioni alla regola dell’integrazione, non
ammettendo che questa possa essere applicata in caso di
mancata sottoscrizione dell’istanza di partecipazione o
dell’offerta da parte del legale rappresentante del
concorrente.
Assodata la sottoposizione alla sanzione (che le stazioni
appaltanti devono determinare nel bando entro un range tra
l’uno per mille e l’uno per cento del valore della gara)
della mancanza e dell’incompletezza delle dichiarazioni, la
bozza di determinazione focalizza l’attenzione sulle
irregolarità essenziali.
Sotto il profilo contenutistico risultano riconducibili al
parametro dell’essenzialità tutte le irregolarità che non
consentono di individuare il requisito oggetto della
dichiarazione, mentre sotto quello soggettivo vanno
ricondotte nella categoria le carenze della dichiarazione
che attengono all’individuazione dei soggetti responsabili
della stessa (ad esempio l’omessa produzione del documento
di identità a corredo della dichiarazione).
L’Anac rileva anche una terza fattispecie, derivandola dalla
disposizione, nella quale sono riconducibili ipotesi di
completamento o chiarimento delle dichiarazioni e dei
documenti presentati, sui quali deve ritenersi possibile per
la stazione appaltante attivare il soccorso istruttorio,
senza irrogare alcuna sanzione pecuniaria, per dati o
documenti non essenziali, ma indispensabili ai fini della
verifica dei requisiti (ad esempio i dati relativi alle
posizioni dell’operatore economico presso gli enti
previdenziali, necessari per consentire alla stazione
appaltante la richiesta del Durc).
Sull’articolo 46, comma 1-ter, l’Autorità evidenzia che la
norma estende il soccorso istruttorio non solo alle
dichiarazioni, ma anche ad altri elementi, ricomprendendo in
questo novero un’ampia serie di documenti da produrre in
gara.
L’Anac evidenzia come questa soluzione sia riferibile
(seppure con alcune cautele) alla cauzione provvisoria e
all’attestazione del versamento del contributo gare,
precisando peraltro che i relativi adempimenti devono essere
stati comunque soddisfatti entro il termine di presentazione
delle offerte.
Non possono essere invece assoggettate alla regolarizzazione
la sottoscrizione dell’istanza di partecipazione e
dell’offerta, in quanto rappresentative degli impegni
dell’operatore economico, così come la dichiarazione di
avvalimento dei requisiti (mentre è sanabile la
documentazione correlata) e la dichiarazione di subappalto
nei lavori quando sia necessaria per consentire
all’operatore economico subappaltante di partecipare alla
gara. L’Anac precisa infine che nemmeno gli adempimenti
finalizzati a consentire l’identificazione del concorrente e
ad assicurare il principio di segretezza delle offerte
possono essere sottoposti alla regolarizzazione (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sulle strade.
I cartelloni abusivi subito rimossi.
Gli impianti pubblicitari abusivi devono essere rimossi con
urgenza anche in caso di ricorso perché godono di una
disciplina ad hoc. Specialmente quelli posizionati sul suolo
demaniale o degli enti proprietari delle strade, anche in
assenza di un pericolo imminente.
Lo ha chiarito il
Ministero dei trasporti con il parere 06.10.2014 n. 4746
di prot..
La pubblicità abusiva è disciplinata dall'art. 23 del codice
stradale il quale prevede specificamente una multa di 419
euro per i trasgressori e di 1.376 euro per chi viola le
prescrizioni indicate nella licenza. I verbali devono poi
essere trasmessi agli enti proprietari delle strade che
provvederanno alla rimozione degli impianti.
Questa ulteriore misura punitiva a parere del ministero
dovrà essere attivata anche in caso di ricorso e senza
attinenza con la disciplina delle sanzioni accessorie di cui
all'art. 211 del codice stradale. In caso di installazione
abusiva su demanio o terreno degli enti proprietari delle
strade la rimozione del manufatto dovrà essere veloce
(articolo ItaliaOggi del
08.11.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Alla mobilità dei dipendenti non si applica il dl Madia.
Alla mobilità dei dipendenti delle province non si applica
il decreto Madia, il dl 90/2014. La disciplina dei
trasferimenti dei lavoratori che saranno interessati (ancora
non si sa come) dai trasferimenti delle funzioni
provinciali, infatti, trova integralmente ed esclusivamente
regolazione nella legge 56/2014.
A seguito della presentazione della legge di stabilità 2015
che prevede tagli alla spesa delle province dimostratamente
insostenibili e in nessun modo collegabili agli effetti
della riforma Delrio in quanto solo lineari e forfettari, si
iniziano a evidenziare le conseguenze difficilmente
controllabili di una serie di riforme mal congegnate. Molti
osservatori insistono nell'indicare che ai dipendenti
provinciali da mandare in mobilità verso gli enti che
subentrerebbero alle province nella gestione delle funzioni
non fondamentali si applicherebbe la nuova disciplina della
mobilità obbligatoria, quella entro i 50 chilometri per
intendersi, introdotta dal dl 90/2014.
Le cose, tuttavia,
non stanno così. Il nuovo comma 2 dell'articolo 30 del dlgs
165/2001, come modificato dalla riforma Madia, costituisce
una norma «generale» sulla mobilità dei dipendenti pubblici,
volta principalmente a semplificare i trasferimenti da una
sede all'altra delle medesime amministrazioni. Tra
amministrazioni diverse occorrerebbero specifiche e
preventive convenzioni. Nel caso delle mobilità dei
dipendenti provinciali, in assenza di dette convenzioni, che
fin qui nessuno ha intravisto, la mobilità obbligatoria
della riforma Madia nemmeno si può applicare, visto che i
dipendenti transiterebbero senz'altro verso altre
amministrazioni.
Non basta. Punto centrale della mobilità obbligatoria
dell'articolo 30, comma 2, novellato, è l'incentivo
economico riconosciuto agli enti che acquisiscono personale
in mobilità. Si tratta di risorse corrispondenti al
cinquanta per cento del trattamento economico spettante al
personale trasferito, per evitare che l'effetto della
mobilità riduca le quote individuali di trattamento
accessorio dei dipendenti dell'ente di destinazione. Per
assicurare queste risorse incentivanti la mobilità, il
decreto Madia ha introdotto una sorta di fondo di rotazione,
dell'ammontare di 30 milioni a decorrere dal 2015.
I
dipendenti provinciali da trasferire oscillano, secondo le
stime possibili, tra i 12 mila e i 15 mila. Il costo medio
dei dipendenti provinciali è circa 30 mila euro l'anno.
Facendo brevi e facili conti, si comprende che il fondo
potrebbe assicurare incentivi alle amministrazioni per non
più di 1.000 dipendenti e, dunque, risulterebbe del tutto
insufficiente e inutile per la riforma delle province. La
regolazione del trasferimento dei dipendenti provinciali,
invece, sta tutta nell'articolo 1, comma 96, lettera a),
della legge Delrio.
Si prevede che il personale trasferito mantenga la posizione
giuridica ed economica, con riferimento alle voci del
trattamento economico fondamentale e accessorio, in
godimento all'atto del trasferimento, nonché l'anzianità di
servizio maturata. Per assicurare che l'ente destinatario
non si veda ridotte le disponibilità per la spesa di
personale, la citata norma impone alle province di
trasferire le risorse che finanziano il trattamento
economici dei dipendenti provinciali agli enti di
destinazione. Ciò, in modo che le risorse destinate a
finanziare le voci fisse e variabili del trattamento
accessorio, nonché la progressione economica orizzontale
vanno a costituire specifici fondi, distinti da quello
contrattuale previsto per la generalità dei dipendenti, e
destinati esclusivamente al personale trasferito.
Pertanto, la legge 56/2014 prevede una disciplina totalmente
diversa e un finanziamento del 100% della spesa del
personale da trasferire, stimabile, se i dipendenti da
mandare in mobilità fossero 12 mila, in 360 milioni di euro,
più gli oneri, per giungere a più di 400 milioni. Il che
significa, per le province, un ulteriore taglio alle proprie
disponibilità, che si aggiunge al taglio a regime, nel 2017,
di 3,585 miliardi conseguente ai dl 66/2014 e alle
disposizioni della legge di Stabilità, se rimarrà confermata
nell'attuale testo, che condanna senza appello le province
al default
(articolo ItaliaOggi del
07.11.2014). |
ENTI LOCALI: Obblighi di trasparenza per tutti. Le partecipate devono
applicare le norme anticorruzione. Il dlgs 33/2013 va esteso a tutti i soggetti che operano con
risorse pubbliche.
L'Anac ha recentemente reso pubblico un report sugli esiti
dell'attività di vigilanza in materia di trasparenza, che
evidenzia gli inadempimenti in cui sono incorsi molti enti
pubblici tenuti ad osservare le disposizioni del dlgs
33/2013.
Le verifiche sono state attivate sia d'ufficio, che
in seguito alle 258 segnalazioni ricevute dall'Autorità
dall'inizio dell'anno fino al 24 ottobre scorso. Ogni
segnalazione è stata soggetta a una verifica della sua
fondatezza mediante accesso al sito web istituzionale
dell'amministrazione segnalata; successivamente, nei casi in
cui si sia reso necessario, l'Autorità ha chiesto all'ente
inadempiente di adeguarsi alle previsioni di legge entro un
termine prestabilito. Nel 55% dei casi è stato rilevato un
completo adeguamento alle prescrizioni, nel 30% dei casi un
adeguamento parziale e nel rimanente 15% un mancato
adeguamento.
Secondo quanto previsto dal Piano nazionale anticorruzione,
la trasparenza rappresenta uno strumento essenziale per
assicurare i valori costituzionali dell'imparzialità e del
buon andamento delle pubbliche amministrazioni, cosi come
sanciti dall'art. 97 della Costituzione, per favorire il
controllo sociale sull'azione amministrativa e per
promuovere la diffusione della cultura della legalità e
dell'integrità nel settore pubblico.
La trasparenza è quindi un metodo fondamentale per il
controllo da parte del cittadino e/o utente delle decisioni
della pubblica amministrazione e, quindi, e uno strumento di
deterrenza contro la corruzione, concetto che comprende
tutte quelle situazioni in cui, nel corso dell'attività
amministrativa, si riscontri l'abuso da parte di un soggetto
del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi
privati.
Le situazioni rilevanti sono dunque più ampie della
fattispecie penalistica che e disciplinata negli artt. 318 e
seguenti del codice penale.
Spesso però si commette l'errore di considerare la lotta
alla corruzione e gli obblighi di trasparenza come obiettivi
non collegati fra loro; in realtà, invece, essi sono
intrinsecamente uniti, in quanto gli obblighi di trasparenza
previsti dal dlgs 33/2013, insieme alle disposizioni sulle
incompatibilità e inconferibilità degli incarichi di cui al
dlgs 39/2013, sono il mezzo principale, ancorché non
esclusivo, attraverso il quale si persegue l'obiettivo della
lotta alla corruzione sancito dalla legge 190/2012.
È quindi del tutto logico che l'obiettivo della lotta alla
corruzione non debba essere perseguito solo dalle
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 del dlgs
165/2001, ma anche da tutti quei soggetti che operano
prevalentemente con risorse pubbliche a prescindere dalla
forma giuridica che assumono, come enti pubblici economici,
enti di diritto privato in controllo pubblico, società
partecipate dalle amministrazioni pubbliche e da quelle da
esse controllate.
Tuttavia, anche a causa di un testo normativo piuttosto
articolato e di non immediata comprensione, nonostante le
interpretazioni fornite dalla Civit (oggi Anac) e dal
dipartimento della funzione pubblica con la circolare n. 1
del 14/02/2014, solo recentemente molti organismi
partecipati dalle amministrazioni pubbliche hanno iniziato
ad assumere le iniziative necessarie per dare concreta
attuazione alle disposizioni anticorruzione.
Una recente spinta verso l'adeguamento è giunta dalle
prefetture che, in base del protocollo sottoscritto fra l'Anac
e il ministero dell'interno, hanno invitato gli enti locali
a fornire chiarimenti in merito all'adozione da parte dei
loro organismi controllati degli atti previsti dalla legge
190/2012. Inoltre, l'art. 19, comma 5 del dl 90/2014,
convertito con modificazioni dalla legge 114/2014, ha
previsto che, salvo che il fatto costituisca reato, in caso
di omissione dell'adozione dei piani triennali di
prevenzione della corruzione, dei programmi triennali di
trasparenza o dei codici di comportamento, l'Anac applica
una sanzione amministrativa compresa fra 1.000 e 10.000, che
verrà comminata al termine del procedimento individuato dal
regolamento dell'Autorità che è stato approvato lo scorso 9
settembre.
Inoltre, l'art. 24-bis del dl 90/2014 ha risolto i dubbi che
erano sorti in merito all'ambito soggettivo di applicazione
degli obblighi sulla trasparenza, riconfermando di fatto
quanto già sostenuto dal dipartimento delle funzione
pubblica nella circolare n. 1/2014 sopra richiamata.
Il
nuovo art. 11 del dlgs 33/2013, riformato dal dl 90/2014,
prevede che le regole sulla trasparenza devono essere
applicate dalle pubbliche amministrazioni individuate
all'art. 1, comma 2 del dlgs 165/2001, ivi comprese le
Autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza
e regolazione, ma anche ai seguenti soggetti:
I) enti di
diritto pubblico non territoriali nazionali, regionali o
locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati
dalla pubblica amministrazione che conferisce l'incarico,
ovvero, i cui amministratori siano da questa nominati;
II)
limitatamente all'attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea,
agli enti di diritto privato in controllo pubblico, ossia,
alle società e agli altri enti di diritto privato che
esercitano funzioni amministrative, attività di produzione
di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o
di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai
sensi dell'art. 2359 del codice civile da parte di pubbliche
amministrazioni;
III) enti nei quali siano riconosciuti alle
pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una
partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei
componenti degli organi, limitatamente all'attività di
pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
dell'Unione europea;
IV) società a partecipazione pubblica
minoritaria, limitatamente all'attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione
europea (a questi soggetti si applicano solo le disposizioni
dell'art. 1, commi 15-33 della legge 190/2012).
È quindi logico aspettarsi che anche il complesso mondo
delle società a partecipazione pubblica, siano esse
strumentali, di gestione dei servizi pubblici locali o di
altra tipologia, finirà, seppur con qualche ritardo, per
adeguarsi alla normativa vigente in materia di
anticorruzione e trasparenza
(articolo ItaliaOggi del
07.11.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Pos, sanzioni se inadempienti. Pagamenti elettronici verso
obblighi più stringenti. Tavolo tecnico aperto anche a esercenti e professionisti.
Allo studio un credito d'imposta.
Sui pagamenti elettronici in arrivo sanzioni e interdizioni
in caso di inadempienze. Mentre è allo studio del governo un
credito di imposta per incentivare l'utilizzo dei Pos (allo
stato obbligo dal 01.07.2014 per i commercianti e i
professionisti non sanzionato di non rifiutare pagamenti
elettronici per importi superiori ai 30 euro) da parte dei
commercianti e, in questo modo, abbattere i costi fissi del
terminale.
Anche se sull'agevolazione allo studio pesa il reperimento
delle coperture finanziarie che influenzerà l'intensità
dell'agevolazione.
A fare il punto sullo stato dei pagamenti elettronici è
stato, ieri, in commissione finanze della Camera, il
sottosegretario al ministero dell'economia, Enrico Zanetti,
rispondendo a una interrogazione di Giovanni Paglia (Sel).
Nell'interrogazione, il deputato di sinistra ecologia e
libertà chiedeva lo stato delle misure adottate, alla luce
di impegni assunti dal governo con la risoluzione 8-00070,
approvata il 29 luglio, per quanto riguarda l'abbattimento
dei costi fissi dei terminale Pos e per quanto riguarda la
gratuità per ulteriori 12 mesi delle transazioni effettuate
presso impianti di distribuzione di carburante.
Sul capitolo dei costi di gestione dei Pos e delle relative
transazioni, il sottosegretario fa riferimento ai lavori del
tavolo sulla diffusione delle transazioni con carte di
pagamento, istituito presso il ministero dello sviluppo
economico, con Banca d'Italia e ministero dell'economia e
che ha visto coinvolti anche Abi, Consorzio bancomat, Aiip
(Associazione italiana istituti di pagamento e di moneta
elettronica) e i gestori Visa e Mastercard. I lavori in atto
porteranno, secondo il sottosegretario, alla realizzazione
di un monitoraggio sugli effetti sul mercato sia in termini
di volumi sia di prezzi.
Intanto, allo stato attuale, chi si dota di terminali più
innovativi (con collegamento via internet) risparmia sui
costi fissi, rispetto a quelli tradizionali, essendo i primi
meno costosi. Il costo fisso infatti si aggira intorno ai
2-5 euro mensili per una spesa annuale intorno ai 25-60
euro; mentre le apparecchiature più tradizionali costano in
media 10-15 euro al mese, per un esborso annuale di 120-180
euro. C'è poi il capitolo dei costi variabili legati ai
volumi delle transazioni. In questi casi Zanetti non
fornisce cifre, evidenziando che sono legate al numero e
all'ammontare delle transazioni effettuate dalla clientela.
Per Zanetti comunque i Pos consentono la riduzione dei costi
legati all'utilizzo del denaro contante intorno all'1-1,5%
dell'entità delle transazioni. Il sottosegretario valuta che
«la crescita del numero di transazioni che ci si attende
come risultato dell'entrata in vigore del decreto consentirà
lo sviluppo di economie di scala e l'intensificazione delle
pressioni concorrenziali in grado di ridurre ulteriormente i
costi». Tornando ai lavori del tavolo, oltre che al
coinvolgimento in futuro dei rappresentanti delle
associazioni di categoria di commercianti e professionisti,
Zanetti precisa che «il menzionato tavolo potrà essere anche
l'occasione per valutare la possibile introduzione di
sanzioni o interdizioni in caso di inadempienza».
Infine, il
sottosegretario apre alla richiesta di Paglia annunciando
che è «allo studio un'ipotesi di proposta normativa agevolativa che potrebbe essere strutturata attraverso il
meccanismo del credito di imposta (a regime)». Ma la misura
di defiscalizzazione dovrà superare lo scoglio della
copertura finanziaria degli oneri, la cui entità
dipenderebbe anche dall'intensità dell'agevolazione. Sul
regime di gratuità dei pagamenti con carta di credito per i
carburanti, il sottosegretario all'economia congela le
speranze di un periodo ulteriore di gratuità delle
commissioni per i pagamenti con carta di credito alla pompa
di benzina.
In particolare Zanetti spiega che: «L'articolo
12, comma 10-bis del dl 20172011 dispone la cessazione
dell'efficacia della disposizione, facendola decorrere dalla
data di pubblicazione del dm 14.02.2014 n. 51»
(pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 31/03/2014 e che è
entrato in vigore il 29.07.2014).
Per Zanetti la tecnica legislativa adottata «in cui la legge
dispone la disapplicazione di una norma di pari rango,
individuando tuttavia il dies ad quem non direttamente, ma
nella data di pubblicazione di un provvedimento secondario,
che definisce le regole generali per la riduzione delle
commissioni a carico degli esercenti in relazione alle
transazioni effettuate mediante carte di pagamento,
ricomprendendo tra essi anche i distributori di carburanti»
ha portato come conseguenza la cessazione dell'efficacia del
regime di gratuità»
(articolo ItaliaOggi del
06.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, quando la forma è tutto. Fuori dalla gara chi
commette irregolarità insanabili. Un vademecum dell'Anac elenca i casi di esclusione
automatica dalla procedura.
Determinano l'esclusione automatica da una gara di appalto
pubblico, e quindi non sono neanche sanabili con il
pagamento di una sanzione amministrativa, le irregolarità
che non consentono alla stazione appaltante di individuare
con chiarezza il contenuto e la provenienza dell'offerta
(per esempio, la mancata sottoscrizione dell'offerta) e il
principio di segretezza dell'offerta (assenza dei sigilli
sulla busta contenente l'offerta); non sanabile anche
l'omissione del versamento del contributo dovuto all'Anac
per partecipare alle gare.
In questi casi l'irregolarità «essenziale» non è sanabile
neanche con il pagamento di una sanzione (compresa fra
1/1000 e 1/100 del valore dell'appalto, con il limite di
50.000 euro), come prevede l'art. 39 del decreto 90/2014.
Sono queste alcune delle precisazioni contenute nel
vademecum che l'Autorità nazionale anticorruzione presieduta
da Raffaele Cantone ha varato in questi giorni e ha messo in
consultazione pubblica.
L'intervento dell'Autorità chiarisce
alle stazioni appaltanti come applicare l'art. 39 del
decreto 90/2014 (legge 114/2014) che ha stabilito
l'innovativo principio per cui è in generale sanabile ogni
carenza, omissione o irregolarità «essenziale» dell'offerta,
con l'unico limite derivante dall'esigenza di garantire
l'inalterabilità del contenuto dell'offerta, la certezza
sulla provenienza e sulla segretezza dell'offerta, nonché le
situazioni in cui versano i concorrenti alla scadenza del
termine di partecipazione alla gara.
Rispetto al passato, quando si poteva soltanto integrare e
regolarizzare quanto già dichiarato o prodotto in sede di
gara, adesso si può quindi sanare ogni omissione o
incompletezza documentale (precisa l'Authority «tutti i
documenti»). L'Anac interviene per chiarire quali
irregolarità essenziali non siano comunque mai sanabili.
Il
primo punto fermo che mette l'Anac è che l'istituto
novellato dal decreto 90 si applica a tutti i documenti
presentati in gara dal concorrente, ma non può essere
utilizzato (si tratta quindi di irregolarità essenziali non
sanabili) «per supplire a carenze dell'offerta» o per
l'assenza di un requisito (ben diverso è invece il caso in
cui manchi il documento relativo al requisito, che invece
esiste in concreto).
Sono quindi non sanabili irregolarità
essenziali come: la mancata sottoscrizione dell'offerta da
parte del titolare dell'impresa; il mancato sopralluogo, la
mancata indicazione del riferimento di gara sulla busta
esterna o il mancato inserimento in due diverse buste
dell'offerta tecnica e di quella economica; la mancata
sigillatura dei plichi; l'assenza della dichiarazione di
ricorso all'avvalimento; l'omissione del versamento del
contributo dovuto all'Anac per partecipare alle gare.
Viceversa sono regolarità essenziali ma sanabili quelle
relative a «irregolarità nella redazione della
dichiarazione, oltre l'omissione e l'incompletezza, che non
consentano alla stazione appaltante di individuare con
chiarezza il soggetto e il contenuto della dichiarazione
stessa, ai fini dell'individuazione dei singoli requisiti di
ordine generale che devono essere posseduti dal concorrente»
(per esempio, aver fatto il sopralluogo, ma non aver
dichiarato la data di effettuazione le documento di gara).
Vi è poi, dice l'Anac, «un tertium genus che riguarderebbe
irregolarità non essenziali ma che tuttavia afferiscono a
elementi indispensabili» (per esempio, l'indicazione della
posizione Inps, Inail, Cassa edile, ai fini della verifica
della regolarità contributiva). In queste ipotesi la
stazione appaltante invita a sanare l'irregolarità ma non
esige la sanzione amministrativa
(articolo ItaliaOggi del
06.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO: Cantieri.
Nei costi le spese dei bagni.
La spesa dei «baraccamenti» (bagni, spogliatoi, refettori,
dormitori ecc.), da includere nella voce di costo per la
sicurezza, comprende non solo la posa in opera (montaggio e
smontaggio) ma anche le spese di utilizzo sul cantiere,
quale per esempio quello di pulizia, di riscaldamento e di
condizionamento.
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza
del lavoro nell'interpello 04.11.2014 n. 25/2014, rispondendo a un quesito
dell'associazione nazionale costruttori edili (Ance).
L'Ance, in particolare, ha appunto chiesto di sapere se tra
le voci di costo per la sicurezza degli apprestamenti,
elencate nell'allegato XV del T.u. sicurezza (dlgs n.
81/2008) con riferimento al piano di sicurezza e
coordinamento (Psc), debbano essere ricomprese oltre alle
spese per la loro installazione iniziale (fornitura,
trasporto, realizzazione piano di appoggio, realizzazione
sottoservizi di allacciamento, montaggio e smontaggio) anche
quelle relativa a riscaldamento, condizionamento, pulizia e
manutenzione. Gli apprestamenti includono, tra l'altro, i
cosiddetti «baraccamenti», di norma costituiti da
monoblocchi prefabbricati e che assolvono a funzioni di
gabinetti, spogliatoi, refettori, locali di ricovero e
riposo, di bagni per lavarsi, di dormitori ecc.
La risposta della commissione è affermativa. Stando alle
disposizioni del T.u. sicurezza (punto 4.1.3 dell'allegato
XV), il quale stabilisce che «le singole voci dei costi
della sicurezza vanno calcolate considerando il loro «costo
di utilizzo» per il cantiere interessato che comprende, in
quanto applicabile, la posa in opera e il successivo
smontaggio, l'eventuale manutenzione e l'ammortamento», se
ne deduce che le spese di manutenzione dei baraccamenti
vanno incluse tra i costi della sicurezza. E tra queste le
spese di riscaldamento, di condizionamento, nonché quelle di
pulizia le quali, risultando necessarie al corretto
«utilizzo» degli stessi baraccamenti, dovranno essere
ricomprese tra i costi della sicurezza
(articolo ItaliaOggi del
06.11.2014 -
tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Il servizio di prevenzione affidabile a consulenti.
Interpello del ministero del lavoro sui responsabili del Spp.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp)
interno all'azienda non deve essere necessariamente un
«dipendente» dell'impresa, purché sia un lavoratore
incardinato nell'ambito dell'organizzazione aziendale.
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza
del lavoro nell'interpello
04.11.2014 n. 24/2014 a risposta di un quesito
della Confcommercio sulla corretta interpretazione dell'art.
31, comma 6, del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza) relativo
all'istituzione del servizio di prevenzione e protezione (Spp)
all'interno dell'azienda.
Il servizio di prevenzione. Il T.u. prevede che sia il
datore di lavoro a organizzare il servizio di prevenzione e
protezione all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva
ovvero incaricando persone o servizi esterni, costituiti
anche presso associazioni dei datori di lavoro o presso gli
organismi paritetici. In via alternativa, il datore di
lavoro può anche assumere personalmente le funzioni.
Il dl
n. 69/2013 (convertito dalla legge n. 98/2013) fa obbligo al
datore di lavoro di organizzare il Spp in via «prioritaria»
all'interno dell'azienda. In questo modo, il legislatore ha
sottratto al datore di lavoro la facoltà di optare
liberamente fra servizi esterni e interni, favorendo per la
scelta di quest'ultimo.
L'interpello. La Confcommercio ha chiesto di sapere se, in
caso di servizio di prevenzione e protezione che sia
istituito necessariamente all'interno dell'azienda (caso di
ricorrenza di una delle ipotesi previste dal comma 6,
dell'art. 31, del T.u. sicurezza: aziende industriali a
rischio di incidente rilevante; centrali termoelettriche;
aziende per la fabbricazione e deposito separato di
esplosivi, polveri e munizioni; aziende industriali con
oltre 200 lavoratori; aziende estrattive con oltre 50
lavoratori; strutture di ricovero e cura, pubbliche e
private, con oltre 50 lavoratori ecc.), il responsabile del
servizio debba essere obbligatoriamente un dipendente del
datore di lavoro o possa essere anche un professionista in
possesso dei requisiti di legge.
I chiarimenti. Per la commissione ministeriale non c'è
esclusiva, può essere un dipendente come può essere un
professionista: ciò che conta è il possesso dei requisiti
professionali. In particolare, per la commissione il
responsabile è da ritenersi «interno» quando «gli sia
incardinato nell'ambito dell'organizzazione aziendale e
coordini un servizio di prevenzione e protezione interno,
istituito in relazione alle dimensioni e alle specificità
dell'azienda». E ciò «a prescindere dalla tipologia
contrattuale che lega tale soggetto (il Rspp) al datore di
lavoro, in linea con il dettato dell'art. 2, comma 1,
lettera a) del dlgs n. 81/2008».
Pertanto, aggiunge la
commissione, «sarà cura del datore di lavoro rendere
compatibili le diverse tipologie dei rapporti di lavoro»
(per esempio co.co.co., lavoro a progetto, ma anche un
rapporto di consulenza professionale) «e la durata della
prestazione di lavoro con le esigenze che il Rspp deve
tenere presenti per portare a termine pienamente i compiti
che è chiamato a svolgere».
In tale quadro, dunque, conclude la commissione, il termine
«interno» non va inteso equivalente a «dipendente», ma
riferito a un lavoratore che assicuri una presenza adeguata
per lo svolgimento della propria attività
(articolo ItaliaOggi del
06.11.2014). |
SICUREZZA
LAVORO: Prevenzione e protezione, incarico anche a un «esterno».
Sicurezza. In un interpello del Lavoro si chiarisce che non
è necessario il vincolo di dipendenza.
Per la valida
istituzione, quando prevista, del Servizio di prevenzione e
protezione prioritariamente all'interno dell'azienda non si
richiede necessariamente che il soggetto responsabile (Rspp)
abbia un rapporto di dipendenza con l'impresa stessa.
È quanto chiarito dalla Commissione per gli interpelli in
materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro presso il
Ministero del lavoro, con l'interpello
04.11.2014 n. 24/2014.
Il parere ministeriale è stato fornito in seguito ad un
quesito posto per conoscere se nell'ipotesi di cui
all'articolo 31, comma 6, del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla
salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), recentemente
modificato dall'articolo 32 del Dl 69/2013, il responsabile
del servizio, di cui al successivo comma 7, debba essere
necessariamente un dipendente del datore di lavoro.
Occorre a questo proposito precisare che la modifica di cui
al Decreto legge 69 ha reso più incisivo l'obbligo in capo
al datore di lavoro di organizzare il servizio in questione,
prevedendo che esso debba essere istituito, appunto,
prioritariamente, all'interno dell'azienda.
Si tratta di un obbligo che ricorre quando l'attività svolta
si riferisca: a quella di cui al Dlgs 334/1999, comportante
rischi rilevanti; a centrali termoelettriche; ad impianti e
installazioni di cui al Dlgs 230/1995 con esposizione a
radiazioni ionizzanti; alla fabbricazione e/o deposito di
esplosivi polveri e munizioni; alle aziende industriali con
oltre 200 lavoratori; alle aziende estrattive con oltre 50
lavoratori; alle strutture di ricovero pubbliche e private
con oltre 50 lavoratori.
Tale previsione è motivata dalla necessità di assicurare una
presenza costante e continuativa del servizio all'interno
dell'azienda.
Ciò posto, a prescindere dalla tipologia del rapporto, il
Rspp dovrà essere conoscitore delle dinamiche organizzative
e produttive dell'azienda, per cui sarà necessariamente
incardinato nell'ambito dell'organizzazione aziendale
provvedendo a coordinare il servizio interno. Si deve tenere
presente, però, secondo l'interpello in esame, che il
termine «interno» non equivarrà alla definizione di
«dipendente», per cui l'incarico potrà ben essere affidato a
un professionista che assicuri, tuttavia, una presenza
adeguata allo svolgimento della propria attività.
Con un secondo
interpello 04.11.2014 n. 25/2014, la stessa
Commissione, chiamata ad esprimersi in merito alla esatta
individuazione di alcune voci riguardanti il costo per la
sicurezza di cui all'allegato XV del Tu, sottolinea invece
che nel costo delle singole voci per il cantiere interessato
vanno comprese quelle per il loro utilizzo.
Più in particolare, con riferimento ai cosiddetti
«baraccamenti» (gabinetti, locali per lavarsi, spogliatoi,
refettori, locali di ricovero e di riposo, dormitori) vanno
compresi la posa in opera ed il successivo smontaggio,
manutenzione e ammortamento, assieme a quelle per il loro
riscaldamento/condizionamento e pulizia, risultando tutte
necessarie per il loro corretto utilizzo (articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2014). |
GIURISPRUDENZA |
VARI:
Anche il pedone investito può avere colpa.
Incidenti stradali. Se si attraversa in modo non corretto va
valutato il concorso di responsabilità.
Il pedone non ha sempre ragione: anche lui può avere
colpa (in tutto in parte) in un incidente stradale nel quale
viene investito e tutto dipende da dove e come attraversa la
strada.
Lo ha confermato la
III Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza
13.11.2014 n. 24204.
La pronuncia riguarda la complessa vicenda di un pedone
investito nel 1992, mentre era malato di Alzheimer in fase
iniziale e morto per questo morbo nel 1997; un esito
accelerato dal trauma dell'incidente.
Oltre a confermare la decurtazione del risarcimento per
invalidità permanente alla vittima in ragione del fatto che
l'Alzheimer lo avrebbe comunque condotto alla demenza totale
(per cui il danno riportato nell'incidente va valutato in
modo inferiore a quanto si farebbe con una persona sana), la
Cassazione ha ribadito e rafforzato i suoi orientamenti più
recenti sulla responsabilità del pedone.
Infatti, è stata ricordata la sentenza 5399/2013 che tenne
conto dell'imprevedibilità del comportamento di chi aveva
scavalcato improvvisamente un guard-rail su una strada a
scorrimento veloce. Il caso della sentenza di ieri è più
sfumato: al momento dell'impatto, il pedone si trovava sulla
carreggiata a due metri dal ciglio, una posizione pericolosa
ma che avrebbe potuto consentire una manovra d'emergenza per
evitarlo.
Inoltre, c'erano lavori in corso e quindi il
conducente avrebbe dovuto guidare con più prudenza. La Corte
ha convalidato la tesi secondo cui la posizione pericolosa
del pedone costituisce una sua responsabilità, anche se
minore. Così è stato confermato il concorso di colpa, col
25% al pedone
(articolo Il
Sole 24 Ore del 14.11.2014). |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Non
è configurabile, in capo agli Enti che decidano di stipulare
una convenzione per l’esercizio associato delle funzioni di
segreteria, alcun obbligo di individuare, accanto al
Segretario, anche la figura del vicesegretario.
La scelta se prevedere o meno un vicesegretario per
coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di vacanza,
assenza o impedimento, è rimessa all’autonomia regolamentare
del singolo Ente, ai sensi dell’art. 97, comma 5, del D.lgs.
n. 267/2000.
Orbene, ritiene il Collegio che in virtù di tale autonomia,
e in assenza di previsioni normative espresse di segno
contrario (tale non potendo considerarsi la deliberazione
del Consiglio nazionale di amministrazione dell’ex Agenzia
Autonoma per la Gestione dell’Albo dei segretari comunali e
provinciali, richiamata dall’Amministrazione resistente), i
Comuni che addivengano, come nel caso di specie, alla
stipula di una convenzione per l’esercizio delle funzioni di
segreteria, restino liberi di decidere non solo se
individuare o meno la figura del vicesegretario, ma anche,
in caso affermativo, se attribuirne le funzioni ad un unico
soggetto per entrambi, oppure a soggetti diversi, in
possesso dei necessari requisiti.
In quest’ottica, risulta valida e pienamente efficace la
disposizione di cui all’art. 18 del Regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune,
secondo la quale “il Sindaco ha la facoltà di attribuire,
con apposito decreto, le funzioni di Vice Segretario
Comunale Generale, sentito il Segretario, ad uno dei
Responsabili di settore in possesso dei titoli per l’accesso
alla carriera dei Segretari Comunali e Provinciali, nonché
dell’esperienza decennale maturata alle dipendenze di un
Ente Locale”.
3.1. Con gli atti impugnati la Prefettura ha
invitato i Comuni di Biassono e Carugate a modificare la
convenzione, tra gli stessi sottoscritta per istituire un
comune servizio di Segreteria, invitandoli ad indicare il
Vice Segretario comunale che avrebbe sostituito il
Segretario titolare nei casi di assenza o impedimento, “in
applicazione della delibera n. 175/2004 del C.d.A.
nazionale, la quale dispone: «… la sede di segreteria
convenzionata realizza un unico soggetto giuridico, per il
quale deve essere previsto un unico preposto all’ufficio e,
quindi, un unico sostituto nell’ipotesi di assenza o
impedimento del titolare»”.
3.2. La nota prefettizia in questione implica l’esistenza,
in capo ai Comuni interessati, di un obbligo alla
individuazione di un unico soggetto al quale attribuire i
compiti del vicesegretario.
Tale obbligo, tuttavia, non è previsto da alcuna norma.
3.3. Al riguardo, è utile richiamare le disposizioni
contenute in materia nel D.lgs. n. 267/2000 (Testo unico
delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e nel D.P.R.
n. 465/1997 (Regolamento recante disposizioni in materia di
ordinamento dei segretari comunali e provinciali, a norma
dell'articolo 17, comma 78, della L. 15.05.1997, n.
127).
In generale, con riferimento alla figura del vicesegretario,
l’art. 97, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 stabilisce che
“il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi,
può prevedere un vicesegretario per coadiuvare il segretario
e sostituirlo nei casi di vacanza, assenza o impedimento”.
Più specificamente, con riguardo alla possibilità di
esercitare in forma associata tra più Enti il servizio di
segreteria comunale, l’art. 98, comma 3, del D.lgs. n.
267/2000 si limita a prevedere che “i comuni possono
stipulare convenzioni per l'ufficio di segretario comunale
comunicandone l'avvenuta costituzione alla Sezione regionale
dell'Agenzia”.
Sul tema, inoltre, l’art. 10 del D.P.R. n. 465/1997
(rubricato significativamente “Convenzioni di segreteria”)
così dispone:
“1. I comuni, le cui sedi sono ricomprese nell’ambito
territoriale della stessa sezione regionale dell’Agenzia,
con deliberazione dei rispettivi consigli comunali, possono
anche nell’ambito di più ampi accordi per l’esercizio
associato di funzioni, stipulare tra loro convenzioni per
l’ufficio di segreteria.
2. Le convenzioni stabiliscono le modalità di espletamento
del servizio, individuano il sindaco competente alla nomina
e alla revoca del segretario, determinano la ripartizione
degli oneri finanziari per la retribuzione del segretario,
la durata della convenzione, la possibilità di recesso da
parte di uno o più comuni ed i reciproci obblighi e
garanzie. Copia degli atti relativi è trasmessa alla
competente sezione regionale dell’Agenzia.
… omissis”.
3.4. Alla luce del quadro normativo così delineato emerge
che:
- non è configurabile, in capo agli Enti che decidano di
stipulare una convenzione per l’esercizio associato delle
funzioni di segreteria, alcun obbligo di individuare,
accanto al Segretario, anche la figura del vicesegretario;
- la scelta se prevedere o meno un vicesegretario per
coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di vacanza,
assenza o impedimento, è rimessa all’autonomia regolamentare
del singolo Ente, ai sensi dell’art. 97, comma 5, del D.lgs.
n. 267/2000.
3.5. Orbene, ritiene il Collegio che in virtù di tale
autonomia, e in assenza di previsioni normative espresse di
segno contrario (tale non potendo considerarsi la
deliberazione del Consiglio nazionale di amministrazione
dell’ex Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei
segretari comunali e provinciali, richiamata
dall’Amministrazione resistente), i Comuni che addivengano,
come nel caso di specie, alla stipula di una convenzione per
l’esercizio delle funzioni di segreteria, restino liberi di
decidere non solo se individuare o meno la figura del
vicesegretario, ma anche, in caso affermativo, se
attribuirne le funzioni ad un unico soggetto per entrambi,
oppure a soggetti diversi, in possesso dei necessari
requisiti.
In quest’ottica, risulta valida e pienamente efficace la
disposizione di cui all’art. 18 del Regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune di
Carugate, secondo la quale “il Sindaco ha la facoltà di
attribuire, con apposito decreto, le funzioni di Vice
Segretario Comunale Generale, sentito il Segretario, ad uno
dei Responsabili di settore in possesso dei titoli per
l’accesso alla carriera dei Segretari Comunali e
Provinciali, nonché dell’esperienza decennale maturata alle
dipendenze di un Ente Locale”.
In ragione delle suesposte considerazioni, le note
prefettizie impugnate sono illegittime e vanno pertanto
annullate
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. I,
sentenza 10.11.2014 n. 2700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Nulla la servitù di parcheggio.
La possibilità di sosta dei veicoli crea un vantaggio
personale ma non ha utilità fondiaria.
Cassazione. Invalidato il contratto di compravendita che
costituisce o riconosce una situazione di beneficio a favore
di un terzo
Un contratto che intenda
riconoscere come già esistente, oppure costituire ex novo,
una servitù di parcheggio di autovetture, è nullo per
impossibilità dell'oggetto: il caso esaminato dalla
Cassazione è di grande rilevanza perché le situazioni del
genere, nei condomìni e non solo, sono molte.
Così la suprema Corte, II Sez. civile (Presidente ed estensore Triola), con
sentenza
06.11.2014 n. 23708, ha concluso dopo aver
esaminato un atto di vendita che conteneva una clausola in
cui i contraenti affermavano che il terreno compravenduto
era «gravato da servitù di parcheggio limitatamente a due
auto» in favore della proprietà di un terzo.
Nel negare la validità di questa scrittura, la Cassazione
chiarisce che il parcheggio di autovetture non può mai
essere posto a contenuto di un diritto di servitù, in quanto
fa ad esso difetto la "realità", cioè la riferibilità
dell'utilità al fondo dominante, come anche la riferibilità
del corrispondente peso al fondo servente (si vedano anche
le sentenze della Cassazione del 28.04.2004, n. 8137;
del 21.01.2009, la quale negava l'azione di spoglio del
possesso di servitù, proposta dai condomini di un fabbricato
nei confronti di un soggetto che aveva recintato un'area
condominiale da quelli utilizzata a fini di parcheggio; e
del 07.03.2013, n. 5769).
La semplice comodità di parcheggiare l'auto per specifiche
persone (anche numericamente limitate) equivale insomma, per
la Corte, all'attribuzione di un vantaggio personale per
costoro, vantaggio che è però estraneo alla funzione di
utilità fondiaria essenziale per la configurabilità di una
servitù prediale. Diverso discorso sarebbe ipotizzare, in
base al principio dell'autonomia contrattuale di cui
all'articolo 1322 Codice civile, che le parti, semmai in
quanto proprietarie di fondi confinanti, diano luogo ad un
rapporto di natura meramente personale, che non consista,
perciò, nell'imposizione di un peso su un fondo (servente)
per l'utilità di un altro (dominante), ovvero in una
relazione di asservimento del primo al secondo, quanto nella
pattuizione di un obbligo e di un corrispettivo diritto di
parcheggio, previsto per il vantaggio della persona o delle
persone indicate nel relativo atto costitutivo.
---------------
Il vantaggio per un terreno «passa» sempre al proprietario.
Il quadro interpretativo. La pronuncia solleva più di una
perplessità.
Con una motivazione di
appena una decina di righe la Cassazione liquida come
"nullo" a causa di «impossibilità dell'oggetto» il negozio
con il quale venga costituita una servitù di parcheggio; e
giunge a questa conclusione affermando che non si può
parlare in tal caso di servitù in quanto «difetta la realitas, intesa come inerenza al fondo dominante
dell'utilità, così come al fondo servente del peso»,
trattandosi invero di una situazione di «mera commoditas di
parcheggiare l'auto per specifiche persone» e cioè di un
«vantaggio affatto personale dei proprietari».
La sentenza è sorprendente non solo al cospetto delle decine
di migliaia di casi di servitù di parcheggio esistenti in
ogni parte del territorio nazionale ma anche perché appare
assai stridente il ragionamento che la Suprema Corte compie
in punto di puro diritto. Infatti, la servitù è il «peso
imposto sopra un fondo per l'utilità di un altro fondo»
appartenente a diverso proprietario (articolo 1027 del
Codice civile).
Per esempio: la servitù di attingimento di acqua potabile
consiste nel prelevare l'acqua dal fondo servente affinché
la si possa bere nel fondo dominante (e la beve il
proprietario del fondo dominante e chiunque vi si trovi); la
servitù di passaggio consiste nel poter transitare sul fondo
servente per uscire dal fondo dominante (chi transita è il
proprietario del fondo dominante e chiunque altro vi si
trovasse); e così via.
L'utilità cui la legge fa riferimento, è bensì del fondo
dominante ma, evidentemente, è una utilità a vantaggio del
proprietario del fondo dominante. È sempre un soggetto,
insomma, che se ne avvantaggia: un soggetto non in quanto
tale, ma in quanto titolare di un fondo. È proprio questa la
differenza tra una servitù di passaggio e un diritto di
passaggio privo delle caratteristiche della servitù: in
tanto si può esercitare un diritto di servitù in quanto si
abbia la titolarità del fondo dominante; mentre, il diritto
di passaggio senza caratteristiche di realità (e che quindi
non integra una servitù) prescinde dalla titolarità del
fondo dominante e quindi, non inerisce a un fondo, ma alla
persona del titolare del diritto di transitare.
Non appare dubbio che un identico ragionamento sia
ripetibile, pari pari, con il diritto di parcheggio. Se
Tizio è proprietario di un' area e concede a Caio di
parcheggiarvi, quello è senz'altro un diritto di credito. Ma
se il diritto di parcheggio è concesso a chiunque sia
proprietario del fondo dominante (oppure a Caio in quanto
titolare del fondo dominante), questo è un lampante esempio
di servitù: con la conseguenza della necessità dell'atto
scritto per costituirla, della sua trascrivibilità, della
sua conseguente opponibilità ai terzi per il fatto che la
servitù si imprime sui beni cui inerisce e li "segue"
qualunque sorte giuridica essi abbiano a titolo derivativo
(tutte caratteristiche che non sono invece ripetibili per il
diritto "personale" di parcheggio).
E anche il ragionamento secondo cui la servitù di parcheggio
non sarebbe tale perché conferirebbe solo una commoditas al
titolare del diritto lascia il tempo che trova: non solo
perché la lettera del Codice civile è esplicita nel senso
che "l'utilità" della servitù «può consistere anche nella
maggiore comodità o amenità del fondo dominante» (articolo
1028) ma anche perché altrettanta commoditas allora potrebbe
esserci nell'attingere acqua dal fondo dominante o nel
potervene scaricare, nel potervi transitare, nel potervi
prelevare cubatura, nel poterne pretendere la non
edificazione, nel potervi far passare cavi e tubazioni,
eccetera: tutti i casi in cui non è invero contestabile che
si tratti di servitù se tali "pretese" siano non connesse
alla proprietà di un fondo.
La sentenza lascia perplessi, infine, perché, se le
caratteristiche di realità non fossero state ravvisabili
nella fattispecie esaminata, si sarebbe potuto pianamente
concludere per una sua qualificazione in termini di servitù
"irregolare" (e cioè di un diritto personale di chi
parcheggia) piuttosto che percorrere questa impervia strada
della nullità per impossibilità dell'oggetto (articolo Il
Sole 24 Ore dell'11.11.2014). |
APPALTI: Appalti, esclusione per i «dubbi» penali sul direttore
tecnico. Corte Ue. Serve una documentazione completa.
È legittima l'esclusione di un'impresa da una procedura
di aggiudicazione di appalto se non è allegata la
dichiarazione che il direttore tecnico non è oggetto di
procedimenti o condanne penali.
Lo ha stabilito la Corte di
giustizia dell'Unione europea nella
sentenza 06.11.2014 causa C-42/13, che fa chiarezza
sugli effetti della mancata presentazione di documenti nel
settore degli appalti.
È stato il Tribunale amministrativo della Lombardia a
rivolgersi alla Corte Ue per alcuni chiarimenti sulla
direttiva 2004/18 sul coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di
forniture e di servizi (recepita in Italia con Dlgs
163/2006).
Al centro della vicenda la decisione di
un'amministrazione aggiudicatrice di escludere un'impresa da
un appalto perché non aveva allegato la dichiarazione
sull'assenza di procedimenti penali del direttore tecnico.
L'azienda esclusa aveva inviato successivamente la
dichiarazione e il Tar le aveva dato ragione, mentre il
Consiglio di Stato torto. Nel procedimento per ottemperanza,
il giudice ha rimesso la questione interpretativa agli eurogiudici.
Prima di tutto, la Corte di giustizia ha precisato che,
malgrado si fosse formato il giudicato in base al diritto
nazionale, il giudice, anche nel procedimento di
ottemperanza, può rivolgersi a Lussemburgo se ritiene che la
sentenza «possa essere contraria al diritto dell'Unione».
Poi, la Corte è passata a verificare se il diritto
dell'Unione consente all'offerente di rimediare a una lacuna
nella documentazione. Gli eurogiudici, precisato che
l'amministrazione aggiudicatrice deve «osservare
rigorosamente i criteri da essa stessa fissati», ha concluso
che se l'operatore economico non comunica un documento
richiesto nell'appalto, deve essere escluso.
È vero -osserva la Corte- che si tratta di un sistema rigoroso, ma
esso è funzionale ad assicurare il principio della parità di
trattamento e l'obbligo di trasparenza alla base della
direttiva Ue, che impone di formulare le condizioni e le
modalità della procedura di aggiudicazione «in maniera
chiara, precisa e univoca», per consentire agli offerenti di
comprenderne la portata e all'amministrazione aggiudicatrice
di verificare con obiettività la rispondenza ai criteri
individuati.
Questo porta la Corte a concludere che, se non è allegata la
dichiarazione sui procedimenti penali richiesta dal Dlgs
163/2006, l'amministrazione aggiudicatrice può escludere
l'impresa offerente.
Una conclusione che non è intaccata dall'art. 51 della
direttiva che consente all'amministrazione di invitare gli
operatori all'integrazione di documenti, perché questa norma
non può essere interpretata nel senso di consentire
qualsiasi rettifica
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Stretta Ue su requisiti d'appalto.
Obbligatorio escludere da un appalto pubblico l'impresa che
non ha prodotto la dichiarazione attestante il possesso dei
requisiti di partecipazione alla gara.
Lo afferma la
sentenza 06.11.2014 causa C-42/13
della Corte di giustizia con un dispositivo che sembra
andare in senso diametralmente opposto a quanto previsto di
recente dal legislatore italiano con il decreto 90/2014, che
consente previo pagamento di una sanzione di sanare entro
dieci giorni l'irregolarità producendo il documento mancante
(vedi Italia Oggi del 06.11.2014 sul vademecum Anac).
A questo punto si porrebbe quindi anche una questione di
compatibilità comunitaria della novella apportata
dall'articolo 39 del decreto 90/2014, che potrebbe essere
ritenuta non in linea con le norme europee. La sentenza
europea risolve una questione pregiudiziale posta dal Tar
Lombardia rispetto alla conformità alla direttiva appalti
2004/18 dell'esclusione di un concorrente per omessa
produzione dell' autodichiarazione sull'assenza di condanne
definitive, senza possibilità di rettifica dell'omissione.
La Corte ricorda che la stazione appaltante è tenuta ad
escludere dall'appalto un operatore che non abbia comunicato
un documento o un'informazione la cui produzione era
prevista a pena di esclusione.
Tale obbligo rientra nel principio di parità di trattamento
e nell'obbligo di trasparenza che ne deriva. Il principio di
parità di trattamento impone infatti che tutti gli offerenti
dispongano delle stesse possibilità nella formulazione dei
termini delle loro offerte e implica quindi che queste siano
soggette alle medesime condizioni per eliminare i rischi di
favoritismo e di arbitrarietà da parte della stazione
appaltante.
L'esclusione del concorrente che non aveva prodotto una
dichiarazione sull'assenza di sentenze passate in giudicato
è quindi conforme alla direttiva che ammette tale esclusione
«anche qualora, a una data successiva alla scadenza del
termine stabilito per il deposito delle offerte, una
siffatta dichiarazione sia stata comunicata
all'amministrazione» (articolo ItaliaOggi del
07.11.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Il ricorso non decorre dalla sentenza via Pec.
La decorrenza dipende dall'atto di impulso di controparte.
Cassazione. Anche l'invio «integrale» non ha effetti sui
termini brevi di impugnazione.
Processo telematico sì, ma senza esagerare. La
comunicazione digitale della sentenza, anche del testo
integrale e non solo del suo dispositivo sulla base della
norma in vigore da quest'estate, non ha effetti sui termini
di impugnazione.
Lo
ricorda, ed è la prima pronuncia in merito, l'ordinanza
05.11.2014 n.
23526 della VI Sez. civile della Corte di Cassazione.
La Corte si è trovata a fare i conti con la
nuova versione dell'articolo 133 del Codice di procedura
civile, modificato quest'estate dal decreto legge n. 90. La
norma prevede la possibilità per la cancelleria di
comunicare via Pec all'avvocato l'integralità della
sentenza. Si tratta, ricorda la Cassazione, dell'utilizzo in
via ordinaria da parte della cancelleria del canale
digitale, attraverso posta elettronica certificata, come
modalità generalizzata di messa a conoscenza delle parti.
Si è però posto il problema se le nuove materiali modalità
di trasferimento della sentenza tutta e non più del solo
dispositivo siano anche idonee a considerare l'interessato
pienamente informato della totalità dell'atto e a fare
decorrere i termini brevi di impugnazione. Una questione
sulla quale si è interrogato in realtà anche il legislatore
in sede di conversione del decreto su sollecitazione
allarmata degli addetti ai lavori. E che è stata risolta
chiarendo che la sostituzione della comunicazione per
estratto o del solo dispositivo, con quella, anche
integrale, del documento via Pec non ha effetto sui termini
di impugnazione, In questo modo ricorda la Cassazione, si
sono volute sterilizzare le conseguenze della piena
conoscenza della sentenza, derivanti dalla nuova modalità
digitale di comunicazione. In questo senso, la decorrenza
del termine breve per impugnare il giudizio continua a
decorrere dall'atto di impulso della controparte.
L'ordinanza però fa un passo ulteriore sul punto e chiarisce
anche che la nuova versione dell'articolo 133 del Codice non
ha però abrogato quelle numerose norme speciali di deroga al
regime ordinario che ancorano, per ragioni di velocità del
processo, la decorrenza del termine breve non all'iniziativa
della controparte, ma comunque alla comunicazione proprio
della cancelleria del provvedimento da impugnare. E
l'ordinanza li elenca tutti, dalle impugnazioni del pubblico
ministero al reclamo contro le ordinanze di estinzione dei
processi di cognizione e di esecuzione.
Altro profilo rilevante dell'ordinanza depositata ieri è
quello conclusivo, dove da una parte si ammette la
compensazione delle spese di giudizio vista la novità delle
questioni trattate, ma poi, data l'inammissibilità del
ricorso, si condanna nello stesso tempo la parte che aveva
impugnato a una sanzione pari al contributo unificato come
impone la norma del 2012 (articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2014). |
APPALTI: Nelle
procedure di appalti pubblici non vi è una incompatibilità
assoluta e insuperabile tra le funzioni di responsabile del
procedimento e quelle di componente di commissione di gara,
poiché le prime non attengono a compiti di controllo, ma
soltanto a verifica interna della correttezza del
procedimento, di guisa che non vi è sovrapposizione né
identità tra controllato e controllante e le due funzioni
restano compatibili tra loro.
È stato infatti ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza
di questo Consiglio che nell’ambito degli enti locali non
sussiste un rigido divieto di partecipazione dei dirigenti
alle commissioni di gara.
Il rafforzamento del modello della responsabilità
dirigenziale innescato dal processo di privatizzazione del
pubblico impiego, infatti, valorizza l’opposta esigenza che
il dirigente segua direttamente le procedure del cui
risultato è tenuto a rispondere.
In questa logica va annoverato il disposto dell’art. 107 del
T.U.E.L., che prevede tra le attribuzioni di competenza
dirigenziale il potere di presiedere le commissioni di gara
e di stipulare i contratti in correlazione con la
responsabilità per l’esito delle gare medesime.
Così come non vi è incompatibilità tra le funzioni di
presidente della commissione di gara e quella di
responsabile del procedimento, quindi, “analogamente deve
ritenersi nel caso in cui al dirigente di un ente locale che
ha svolto di responsabile del procedimento sia stato anche
attribuito il compito di approvare gli atti della
commissione di gara, atteso che detta approvazione non può
essere ricompresa nella nozione di controllo in senso
stretto, ma si risolve in una revisione interna della
correttezza del procedimento connessa alla responsabilità
unitaria del procedimento spettante alla figura
dirigenziale”.
Tale principio vale a fortiori nel caso di specie ove, come
si è accennato, alla dott.ssa R., quale responsabile unico
del procedimento, non spetta alcuna funzione amministrativa
connessa all’esecuzione del contratto, attribuita, invece,
al dott. D.S..
25. Non merita altresì condivisione
il secondo motivo di appello, con il quale la Cooperativa ha
lamentato, in primo grado, e ribadisce, in questa sede, che
la dott.ssa Ricco, già responsabile del procedimento, era
stata inserita tra i membri della commissione giudicatrice
in violazione dell’art. 84, comma 4, del d.lgs. 163/2006 e
del principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost..
26. Sarebbe evidentemente illegittima, ad avviso
dell’appellante, la situazione di incompatibilità della
dott.ssa Ricco, svolgente la funzione di responsabile unico
del procedimento e di membro della commissione.
27. Il TAR ha disatteso tale censura con il rilievo che
la dott.ssa Ricco, già responsabile del procedimento, era
stata sostituita dal precedente Dirigente nella sua funzione
di responsabile, ma l’appellante deduce l’erroneità di tale
rilievo, poiché assume che, dalla semplice lettura della
documentazione e delle difese del Comune, la Dirigente Di
Palma, contestando la nomina del nuovo responsabile De Sario,
ribadiva che la dott.ssa Ricco era l’unica responsabile del
procedimento.
28. Anche tale censura, tuttavia, è destituita di
fondamento, pur con le precisazioni che seguiranno, atteso
che, pur volendo prescindere dal rilievo, evidenziato a p. 9
della memoria depositata dal Comune nel giudizio di primo
grado, che il responsabile del procedimento, dott.ssa Anna
Ricco, non si occupa delle questioni inerenti all’esecuzione
del contratto, di competenza del dott. Carmine De Sario che,
invece, era stato impropriamente indicato quale componente
della commissione approvata con determina n. 454 del
19.03.2012, appare dirimente, sul piano giuridico, la
considerazione che nelle procedure di appalti pubblici non
vi è una incompatibilità assoluta e insuperabile tra le
funzioni di responsabile del procedimento e quelle di
componente di commissione di gara, poiché le prime non
attengono a compiti di controllo, ma soltanto a verifica
interna della correttezza del procedimento, di guisa che non
vi è sovrapposizione né identità tra controllato e
controllante e le due funzioni restano compatibili tra loro
(Cons. St., sez. V, 23.10.2012, n. 5408).
29. È stato infatti ripetutamente chiarito dalla
giurisprudenza di questo Consiglio che nell’ambito degli
enti locali non sussiste un rigido divieto di partecipazione
dei dirigenti alle commissioni di gara.
30. Il rafforzamento del modello della responsabilità
dirigenziale innescato dal processo di privatizzazione del
pubblico impiego, infatti, valorizza l’opposta esigenza che
il dirigente segua direttamente le procedure del cui
risultato è tenuto a rispondere.
31. In questa logica va annoverato il disposto dell’art. 107
del T.U.E.L., che prevede tra le attribuzioni di competenza
dirigenziale il potere di presiedere le commissioni di gara
e di stipulare i contratti in correlazione con la
responsabilità per l’esito delle gare medesime.
32. Così come non vi è incompatibilità tra le funzioni di
presidente della commissione di gara e quella di
responsabile del procedimento, quindi, “analogamente deve
ritenersi nel caso in cui al dirigente di un ente locale che
ha svolto di responsabile del procedimento sia stato anche
attribuito il compito di approvare gli atti della
commissione di gara, atteso che detta approvazione non può
essere ricompresa nella nozione di controllo in senso
stretto, ma si risolve in una revisione interna della
correttezza del procedimento connessa alla responsabilità
unitaria del procedimento spettante alla figura
dirigenziale” (v., sul punto, Cons. St., sez. V, 22.06.2010,
n. 3890).
33. Tale principio vale a fortiori nel caso di specie ove,
come si è accennato, alla dott.ssa Ricco, quale responsabile
unico del procedimento, non spetta alcuna funzione
amministrativa connessa all’esecuzione del contratto,
attribuita, invece, al dott. De Sario.
34. Ne segue che il secondo motivo di appello, seppure con
le esposte integrazioni motivazionali e alla luce
dell’orientamento giurisprudenziale seguito da questo
Consiglio con particolare riferimento alle figure
dirigenziali negli enti locali, deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.11.2014 n. 5456 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
nozione di nuova costruzione di cui all’art. 41-sexies della
legge 17.08.1942, n. 1150 rientrano non solo l’edificazione
di un manufatto su un’area libera, ma anche gli interventi
di ristrutturazione che, come nel caso di specie, anche in
ragione dell’entità delle modifiche apportate al volume ed
alla collocazione del fabbricato, rendono l’opera realizzata
nel suo complesso oggettivamente diversa da quella
preesistente.
La disposizione contenuta nel predetto art. 41-sexies
“…opera come norma di relazione nei rapporti privatistici e
come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la p.a.,
non potendo quest’ultima autorizzare nuove costruzioni che
non siano corredate di dette aree, giacché l’osservanza
della norma costituisce condizione di legittimità della
concessione edilizia, e spettando esclusivamente alla stessa
p.a. l’accertamento della conformità degli spazi alla misura
proporzionale stabilita dalla legge e della idoneità a
parcheggio delle aree, con la conseguenza che il
trasferimento del vincolo di destinazione su aree diverse da
quelle originarie può avvenire soltanto mediante il rilascio
di una concessione in variante”, chiarendosi anche che,
mentre gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies
della legge n. 1150 del 1942 costituiscono aree pubbliche da
conteggiarsi ai fini della dotazione d standard, quelli di
cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree
private pertinenziali alle nuove costruzioni e come tali
escluse (ex art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968,
n. 1444) dal computo del calcolo della misura degli
standards.
Del resto, diversamente da quanto dedotto
dall’appellante, nella nozione di nuova costruzione di cui
all’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150,
rientrano non solo l’edificazione di un manufatto su un’area
libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che,
come nel caso di specie, anche in ragione dell’entità delle
modifiche apportate al volume ed alla collocazione del
fabbricato, rendono l’opera realizzata nel suo complesso
oggettivamente diversa da quella preesistente (Cass. civ.,
sez. II, 03.03.2008, n. 5741; così anche Cons. St., sez. VI, 12.04.2013, n. 1995).
E’ stato anche precisato che la disposizione contenuta nel
predetto art. 41-sexies “…opera come norma di relazione
nei rapporti privatistici e come norma di azione nel
rapporto pubblicistico con la p.a., non potendo quest’ultima
autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di
dette aree, giacché l’osservanza della norma costituisce
condizione di legittimità della concessione edilizia, e
spettando esclusivamente alla stessa p.a. l’accertamento
della conformità degli spazi alla misura proporzionale
stabilita dalla legge e della idoneità a parcheggio delle
aree, con la conseguenza che il trasferimento del vincolo di
destinazione su aree diverse da quelle originarie può
avvenire soltanto mediante il rilascio di una concessione in
variante” (Cass. civ., sez. II, 13.01.2010, n.
378), chiarendosi anche che, mentre gli spazi di parcheggio
di cui all’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942
costituiscono aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della
dotazione d standard, quelli di cui al successivo art.
41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali
alle nuove costruzioni e come tali escluse (ex art. 3, comma
2, lett. d), del D.M. 02.04.1968, n. 1444) dal computo
del calcolo della misura degli standards (Cons. St., sez. IV,
08.01.2013, n. 32)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 04.11.2014 n. 5444 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Si
deve osservare che l'art. 84 del D.Lgs. n. 163/2006,
relativo alla composizione della commissione giudicatrice,
pel caso di aggiudicazione di un appalto con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, al comma 4
prevede che i commissari diversi dal presidente non devono
aver svolto né possono svolgere alcuna altra funzione o
incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto
del cui affidamento si tratta.
Come evidenziato da ricorrente giurisprudenza,
l'incompatibilità mira a garantire l'imparzialità dei
commissari di gara che abbiano svolto incarichi relativi al
medesimo appalto, quali compiti di progettazione, di
verifica della progettazione, di predisposizione della legge
di gara e simili e non incarichi amministrativi o tecnici
genericamente riferiti ad altri appalti.
L'ottavo comma dell'art. 84 citato, prevede che i commissari
diversi dal presidente siano selezionati fra i funzionari
della stazione appaltante e che, in caso di accertata
assenza nell'organico di adeguata professionalità, nonché
negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono
esigenze oggettive e comprovate, siano scelti tra i
funzionari di amministrazioni aggiudicatrici a termini
dell'art. 3, comma venticinquesimo, ovvero con criterio di
rotazione tra gli appartenenti alle categorie dei
professionisti, con almeno 10 anni di iscrizione nei
rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco,
formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini
professionali e dei professori universitari di ruolo.
E' evidente, quindi, che l'incompatibilità riguarda i
componenti dipendenti dalla stazione appaltante e non gli
esterni, fermo restando che anche per questi ultimi, quando
occorra fare ricorso ad essi, la norma mira a disciplinarne
la nomina secondo un criterio di imparzialità, quale
predicato all'articolo 97 della Costituzione,
obiettivizzando, per quanto possibile, la scelta dei
componenti delle commissioni,per sottrarla a possibili
elementi di eccessiva discrezionalità o di arbitrio
dell'amministrazione aggiudicatrice che possano
pregiudicarne proprio la trasparenza e l'imparzialità.
---------------
Questo Consiglio di Stato, con sentenza dell'adunanza
plenaria n. 13 del 07.05.2014, ha evidenziato che la
previsione di legge di cui al comma 4, come il precedente
storico contenuto nell'art. 21, comma 5, della legge n. 109
del 1994, è evidentemente destinata a prevenire il pericolo
concreto di possibili effetti disfunzionali derivanti dalla
partecipazione alle commissione giudicatrici di soggetti
(progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del
procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a
diverso titolo nella procedura concorsuale.
E dalla suddetta sentenza si ricava che l'interesse pubblico
rilevante nella problematica de qua è, non tanto e non solo
quello della imparzialità cui è in ogni caso esso è
riconducibile (anche se la deroga per il presidente ne
costituisce evidente attenuazione), ma anche la volontà di
assicurare che la valutazione sia il più possibile
"oggettiva" e cioè non "influenzata" dalle scelte che
l’hanno preceduta, se non per ciò che è stato dedotto
formalmente negli atti di gara.
Nella sentenza, l'Adunanza Plenaria evidenzia, poi, che "è
naturale che, secondo i principi generali, la caducazione
della nomina, ove si accerti, come nella specie, essere
stata effettuata in violazione delle regole di cui all'art.
84, commi 4 e 10, comporterà in modo caducante il
travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti
successivi della procedura di gara fino all'affidamento del
servizio ed impone quindi la rinnovazione dell'intero
procedimento".
1. Con determinazione n. 66 del 29.03.2013 il Comune di Anzano di Puglia bandiva una gara per l'aggiudicazione,
secondo il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, dei "lavori di realizzazione dell'intervento di efficientamento energetico e miglioramento della
sostenibilità ambientale della palestra della scuola
secondaria di 1° grado".
La commissione giudicatrice, composta dal presidente ing.
Domenico Ianniciello, responsabile del settore tecnico del
Comune di Anzano di Puglia, dall’arch. Luigi Troso,
responsabile del IV settore del Comune di Accadia,
componente, e dal geom. Giuseppe Di Paola, dipendente del
settore tecnico del Comune di Anzano di Puglia, componente e
segretario verbalizzante, redigeva la graduatoria finale,
nella quale l’impresa individuale del sig. Pietro Antonio
Capuano risultava al primo posto, con punti 81,20 su 100 e
un ribasso del 5,48% sul prezzo a base d’asta, con
conseguente aggiudicazione definitiva dei lavori in suo
favore.
1a. Con nota del luglio 2013, il Comune comunicava al sig.
Capuano l’avvio del procedimento di annullamento in
autotutela della gara per asserita violazione dell’art. 84,
comma 4, D.Lgs. 163/2006, avendo il geom. Di Paola svolto le
funzioni di R.U.P. (responsabile unico del procedimento) e
di componente della commissione giudicatrice e, dopo avere
esaminato le osservazioni presentate dall’impresa
ricorrente, con provvedimento n. 146 del 31.07.2013
venivano annullati gli atti della procedura.
2. Avverso la comunicazione di avvio del procedimento, il
successivo provvedimento comunale n. 146/2013, a firma del
responsabile del settore tecnico del Comune di Anzano di
Puglia di annullamento in autotutela della procedura di gara
e di tutti gli atti connessi, presupposti e consequenziali,
il sig. Pietro Antonio Capuano ricorreva al TAR per la
Puglia chiedendone l'annullamento.
Il sig. Capuano eccepiva, anche, l'illegittimità
costituzionale dell’art. 84, comma 4, D.Lgs. 163/2006 per
contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost.. e, in via subordinata
rispetto alle domande principali, la condanna al
risarcimento del danno ingiusto cagionato dalla condotta del
Comune.
3. Il TAR per la Puglia con sentenza n. 388 del 30.01.2014, depositata il 27.03.2014, ha respinto il
ricorso.
4. Avverso la sentenza il sig. Pietro Antonio Capuano, quale
titolare della omonima ditta individuale, ha proposto
appello, avanzando quattro motivi di censura sostanzialmente
ripetitivi di quelli già esaminati dal TAR.
Il Comune di Anzano di Puglia si è costituito in giudizio ed
ha chiesto il rigetto dell'appello.
Con il primo motivo l'appellante censura la sentenza
lamentando la violazione dell’art. 84, comma 4, del D.lgs.
n. 163/2006, avendo il Tribunale ritenuto che i dipendenti
comunali che hanno diretto o collaborato all'istruttoria del
procedimento siano incompatibili con le funzioni di
componenti della commissione di gara per l'aggiudicazione
del relativo appalto.
Sul punto l'impresa sostiene che la richiamata norma non
riguarderebbe i componenti dipendenti della stazione
appaltante, ma solo i componenti esterni.
Con il secondo motivo di censura l'appellante sostiene che
la sentenza impugnata non avrebbe rilevato il difetto di
motivazione da cui sarebbe affetto il provvedimento di auto
annullamento del Comune, perché la motivazione addotta, di
annullare la gara "in maniera da non esporre la procedura a
contenziosi il cui esito … sarebbe pressoché scontato", non
sarebbe sufficiente, mancando l'indicazione di un "interesse
specifico, diverso da tale esigenza …".
L'appellante lamenta, altresì, violazione del principio di
leale collaborazione, non avendo l’amministrazione preso in
esame le osservazioni formulate a seguito della
comunicazione di avvio del procedimento di annullamento in
autotutela.
Con il terzo motivo di censura l'appellante lamenta eccesso
di potere per sviamento, avendo il Comune intrapreso il
procedimento in autotutela solo su segnalazione di una delle
imprese partecipanti.
Con il quarto motivo di censura l'appellante lamenta eccesso
di potere per sviamento, violazione dell’art. 78 D.Lgs.
267/2000, violazione dell’obbligo di imparzialità e terzietà,
essendo stato il provvedimento di annullamento emesso dal
presidente della commissione che, quale dirigente del
Comune, ha anche nominato la commissione stessa e diretto i
lavori. L'appellante lamenta, inoltre, che il TAR avrebbe
disatteso la domanda subordinata di annullamento non
dell'intera procedura, ma solo degli atti successivi alla
nomina della commissione, con sostituzione del componente in
condizione di incompatibilità.
L'appellante, infine, chiede la riforma della sentenza
impugnata, quanto alla reiezione della domanda risarcitoria
da lui avanzata in via subordinata e ripropone la eccezione
di illegittimità costituzionale dell’art. 84, comma 4,
D.Lgs. 163/2006 per presunto contrasto con gli artt. 3 e 97
Costituzione.
...
6. Orbene, diversamente da quanto ritenuto dall'appellante,
si deve osservare che l'art. 84 del D.Lgs. n. 163/2006,
relativo alla composizione della commissione giudicatrice,
pel caso di aggiudicazione di un appalto con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, al comma 4
prevede che i commissari diversi dal presidente non devono
aver svolto né possono svolgere alcuna altra funzione o
incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto
del cui affidamento si tratta.
Come evidenziato da ricorrente giurisprudenza,
l'incompatibilità mira a garantire l'imparzialità dei
commissari di gara che abbiano svolto incarichi relativi al
medesimo appalto, quali compiti di progettazione, di
verifica della progettazione, di predisposizione della legge
di gara e simili e non incarichi amministrativi o tecnici
genericamente riferiti ad altri appalti (Consiglio di Stato,
sez. VI, 29.12.2010, n. 9577; sez. V, 22.06.2012, n. 3682).
L'ottavo comma dell'art. 84 citato, prevede che i commissari
diversi dal presidente siano selezionati fra i funzionari
della stazione appaltante e che, in caso di accertata
assenza nell'organico di adeguata professionalità, nonché
negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono
esigenze oggettive e comprovate, siano scelti tra i
funzionari di amministrazioni aggiudicatrici a termini
dell'art. 3, comma venticinquesimo, ovvero con criterio di
rotazione tra gli appartenenti alle categorie dei
professionisti, con almeno 10 anni di iscrizione nei
rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco,
formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini
professionali e dei professori universitari di ruolo.
E' evidente, quindi, che l'incompatibilità riguarda i
componenti dipendenti dalla stazione appaltante e non gli
esterni, fermo restando che anche per questi ultimi, quando
occorra fare ricorso ad essi, la norma mira a disciplinarne
la nomina secondo un criterio di imparzialità, quale
predicato all'articolo 97 della Costituzione,
obiettivizzando, per quanto possibile, la scelta dei
componenti delle commissioni,per sottrarla a possibili
elementi di eccessiva discrezionalità o di arbitrio
dell'amministrazione aggiudicatrice che possano
pregiudicarne proprio la trasparenza e l'imparzialità
(Consiglio Stato, sez. V, 25.07.2011, n. 4450).
Come evidenziato dal TAR nella sentenza appellata, il
geom. Di Paola ha pacificamente svolto il ruolo di
responsabile unico del procedimento, proprio con riferimento
alla procedura di gara in cui è stato nominato come
componente della commissione giudicatrice, in difformità
dalla norma, che ammette il cumulo delle responsabilità
della gara di appalto solo con riferimento alla "presidenza"
della commissione in capo ai "dirigenti" degli enti locali.
Il Comune ha, quindi, correttamente tenuto conto della norma
ed a essa si è attenuto nell'adottare il provvedimento di
autotutela.
6b. Diversamente da quanto ritenuto dall'appellante, il
legislatore, con le disposizioni in questione, ha inteso
evitare che nella commissione fosse presente il R.U.P., che
nella fase propedeutica alla gara è stato il primo partecipe
delle opere da eseguire.
Non può quindi sostenersi che il provvedimento in autotutela
del Comune pecchi di motivazione, trovando fondamento
nell'esigenza di non adottare provvedimenti illegittimi, con
danno materiale e di tempo per l'ente, ma anche per gli
stessi concorrenti.
A nulla rileva che l'amministrazione si sia determinata
anche in relazione ad una segnalazione di un’ impresa
partecipante alla gara, stante la necessità, comunque, che
il provvedimento fosse adottato.
6c. Parimenti inconferente è la ritenuta disparità di
trattamento che l'art. 78 del D.lgs. n. 267/2000
determinerebbe, tra la posizione del componente semplice
della commissione e il presidente, dirigente del Comune,
perché l'art. 84 del codice dei contratti esclude qualsiasi
incompatibilità per tale figura nell'ambito della
burocrazia, mentre l'art. 78 evocato riguarda solo ipotesi
d’incompatibilità degli amministratori degli enti locali.
6d. Correttamente, ancora, il provvedimento di auto
annullamento è stato adottato dal dirigente dell'area
tecnica, essendo egli competente al riguardo alla luce della
distinzione dei poteri e attribuzioni tra amministratori
elettivi, cui sono riservati compiti di indirizzo e
funzionari cui competono, come nel caso di specie, compiti
di gestione e di amministrazione attiva.
La legge di riferimento all'art. 107 ribadisce, del resto,
il principio della distinzione tra funzione politica e
funzione amministrativa, già previsto dall'art. 97 della
Costituzione e affermato dalla legge n. 142/1990.
L'appellante insiste, infine, in via subordinata, nella
richiesta di annullamento parziale degli atti di gara,
sostenendo che "la sentenza appellata … oblitera la ben più
pregnante motivazione contenuta nella decisione
dell'Adunanza Plenaria n. 30/2012 che ha fatto giustizia di
una concezione formalistica del principio di segretezza; per
non dire che la soluzione avallata dalla sentenza appellata
conduce allo stesso risultato perché i concorrenti alla
nuova gara non faranno altro che calibrare la propria
offerta su quella che era risultata vincitrice
dell'aggiudicazione annullata".
8. Anche tale tesi non può essere condivisa.
8a. Questo Consiglio di Stato, con sentenza dell'adunanza
plenaria n. 13 del 07.05.2014, ha evidenziato che la
previsione di legge di cui al comma 4, come il precedente
storico contenuto nell'art. 21, comma 5, della legge n. 109
del 1994, è evidentemente destinata a prevenire il pericolo
concreto di possibili effetti disfunzionali derivanti dalla
partecipazione alle commissione giudicatrici di soggetti
(progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del
procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a
diverso titolo nella procedura concorsuale.
E dalla suddetta sentenza si ricava che l'interesse pubblico
rilevante nella problematica de qua è, non tanto e non solo
quello della imparzialità cui è in ogni caso esso è
riconducibile (anche se la deroga per il presidente ne
costituisce evidente attenuazione), ma anche la volontà di
assicurare che la valutazione sia il più possibile
"oggettiva" e cioè non "influenzata" dalle scelte che
l’hanno preceduta, se non per ciò che è stato dedotto
formalmente negli atti di gara.
Nella sentenza, l'Adunanza Plenaria evidenzia, poi, che "è
naturale che, secondo i principi generali, la caducazione
della nomina, ove si accerti, come nella specie, essere
stata effettuata in violazione delle regole di cui all'art.
84, commi 4 e 10, comporterà in modo caducante il
travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti
successivi della procedura di gara fino all'affidamento del
servizio ed impone quindi la rinnovazione dell'intero
procedimento".
Da ciò la doverosità, per il Comune, di agire
tempestivamente in tali termini, in via di autotutela, per
evitare che la prosecuzione della procedura di gara
comportasse ben più gravi conseguenze e, sotto questo
profilo, nessun comportamento colposo può essere addebitato
al Comune di Anzano di Puglia.
8b. Sul piano della legittimità costituzionale dell'art. 84,
comma 4, del D.lgs. n. 163/2006, nessun fraintendimento è,
infine, ascrivibile al TAR, atteso che il Tribunale,
quanto all'eventuale contrasto della norma con gli artt. 3 e
97 della Costituzione, ha evidenziato "che la medesima
questione è stata già esaminata e respinta dalla Corte
costituzionale, con sentenza n. 401/2007, e si palesa,
pertanto, inammissibile"
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 04.11.2014 n. 5441 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
affidata alla Soprintendenza una
compiuta valutazione di legittimità, anche sotto il profilo
del ponderato bilanciamento degli interessi tutelati, quale
espressione di un potere non di mero controllo formale, ma
di vera e propria attiva cogestione del vincolo, funzionale
all’“estrema difesa” dello stesso, con conseguente
riferibilità dell’eventuale annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica a qualsiasi vizio di legittimità, ivi compreso
l’eccesso di potere in ogni figura sintomatica (sviamento,
insufficiente motivazione, difetto di istruttoria,
illogicità manifesta).
Quanto al merito del giudizio, deve essere
sottolineato –sulla base di ampia e consolidata
giurisprudenza– come sia affidata alla Soprintendenza una
compiuta valutazione di legittimità, anche sotto il profilo
del ponderato bilanciamento degli interessi tutelati, quale
espressione di un potere non di mero controllo formale, ma
di vera e propria attiva cogestione del vincolo, funzionale
all’“estrema difesa” dello stesso (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n.
437), con conseguente riferibilità dell’eventuale
annullamento dell’autorizzazione paesaggistica a qualsiasi
vizio di legittimità, ivi compreso l’eccesso di potere in
ogni figura sintomatica (sviamento, insufficiente
motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta:
cfr. in tal senso Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001,
n. 9, nonché, fra le tante, Cons. Stato, VI, 25.03.2009,
n. 1786 e 3557, 11.06.2012, n. 3401, 23.02.2010,
n. 1070, 21.09.2011, n. 5292; Cons. Stato, V, 03.12.2010, n. 8411)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 04.11.2014 n. 5430 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della
volumetria massima consentita, può essere applicata solo con
riferimento ad opere edilizie completamente prive di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinate a contenere impianti serventi di una costruzione
principale, per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione stessa.
Si tratta, in particolare, di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione, che non possono essere ubicati
all'interno di essa, connessi alla condotta idrica, termica,
ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di
volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare
rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella
realtà fisica.
-----------------
Nel caso in esame, si è accertato che l’ordine di
demolizione riguarda un fabbricato, già sul piano
dimensionale (6,30 mt X 5,40 mt e di altezza pari a mt
2,90), ex se di consistente impatto e nient’affatto
accessorio o servente rispetto all’abitazione principale.
La stessa destinazione principale a ricovero di biciclette
ed altri mezzi, riconosciuta dai proprietari (unitamente
alle altre destinazioni proprie dei volumi tecnici), non fa
altro che corroborare la correttezza della tesi
dell’amministrazione, a ragione condivisa dai giudici di
primo grado, secondo cui si tratta in realtà di un manufatto
potenzialmente (ma anche in fatto) autonomo rispetto a
quello principale, pienamente compatibile, anche in ragione
della sua altezza con destinazioni d’uso di differente
tipologia e perciò non qualificabile alla stregua di un
volume tecnico.
Pertanto, è pacifico che non si tratti di locale tecnico, ma
al più di locale di sgombero, potenzialmente destinato ad
altra destinazione d’uso.
---------------
In assenza di leggi regionali e di altre disposizioni
normative urbanistico-edilizie specificamente applicabili,
si deve tenere conto nella materia della circolare del
Ministero dei lavori pubblici 31.01.1973, n. 2474, che ha
ammesso la possibilità di non computare nella volumetria
assentibile i volumi tecnici, soltanto quando si tratti di
un manufatto ancora da realizzare e l'amministrazione abbia
effettuato ex ante le valutazioni inerenti alle sue esigenze
tecnico-funzionali.
Quando, invece, sia stato realizzato abusivamente un nuovo
volume, rispetto a quello legittimamente assentito, nessuna
disposizione consente di effettuare le medesime valutazioni:
il solo fatto che si tratti di un nuovo manufatto abusivo
preclude all'amministrazione di considerarlo irrilevante.
Inoltre, nella stessa circolare si legge che, sentito il
Consiglio Superiore dei lavori pubblici, si propone la
seguente definizione di volume tecnico: "Devono intendersi
per volumi tecnici, ai fini della esclusione dal calcolo
della volumetria ammissibile, i volumi strettamente
necessari a contenere ed a consentire l'accesso di quelle
parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio,
televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non
possono per esigenze di funzionalità degli impianti stessi,
trovare luogo entro il corpo dell'edificio realizzabile nei
limiti imposti dalle norme urbanistiche. A titolo
esemplificativo il Consiglio Superiore fa presente che sono
da considerare "volumi tecnici" quelli strettamente
necessari a contenere i serbatoi idrici, l'extracorsa degli
ascensori, i vasi di espansione dell'impianto di
termosifone, le canne fumarie e di ventilazione, il vano
scala al di sopra delle linee di gronda. Non sono invece da
intendere come volumi tecnici i bucatai, gli stenditoi
coperti, i locali di sgombero e simili”.
Osserva, infatti, il Collegio che, in base
ad una consolidata giurisprudenza da cui non si ravvisano
ragioni per discostarsi "la nozione di volume tecnico, non
computabile nel calcolo della volumetria massima consentita,
può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie
completamente prive di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa; si tratta, in
particolare, di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione, che non possono essere ubicati all'interno
di essa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore
ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici
al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza
giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica"
(Cons. di Stato, Sez. IV, 04.05.2010, n. 2565).
Nel caso in esame, si è accertato che l’ordine di
demolizione riguarda un fabbricato, già sul piano
dimensionale (6,30 mt X 5,40 mt e di altezza pari a mt
2,90), ex se di consistente impatto e nient’affatto
accessorio o servente rispetto all’abitazione principale. La
stessa destinazione principale a ricovero di biciclette ed
altri mezzi, riconosciuta dai proprietari (unitamente alle
altre destinazioni proprie dei volumi tecnici), non fa altro
che corroborare la correttezza della tesi
dell’amministrazione, a ragione condivisa dai giudici di
primo grado, secondo cui si tratta in realtà di un manufatto
potenzialmente (ma anche in fatto) autonomo rispetto a
quello principale, pienamente compatibile, anche in ragione
della sua altezza con destinazioni d’uso di differente
tipologia e perciò non qualificabile alla stregua di un
volume tecnico.
In ogni caso, giova qui ricordare che, come statuito da
questa sezione nella sentenza 05.08.2013 n. 4086, in
assenza di leggi regionali e di altre disposizioni normative urbanistico-edilizie specificamente applicabili, si deve
tenere conto nella materia della circolare del Ministero dei
lavori pubblici 31.01.1973, n. 2474, che ha ammesso la
possibilità di non computare nella volumetria assentibile i
volumi tecnici, soltanto quando si tratti di un manufatto
ancora da realizzare e l'amministrazione abbia effettuato ex
ante le valutazioni inerenti alle sue esigenze
tecnico-funzionali. Quando, invece, sia stato realizzato
abusivamente un nuovo volume, rispetto a quello
legittimamente assentito, nessuna disposizione consente di
effettuare le medesime valutazioni: il solo fatto che si
tratti di un nuovo manufatto abusivo preclude
all'amministrazione di considerarlo irrilevante.
Inoltre,
nella stessa circolare si legge che, sentito il Consiglio
Superiore dei lavori pubblici, si propone la seguente
definizione di volume tecnico:
"Devono intendersi per volumi tecnici, ai fini della
esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, i
volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire
l'accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico,
termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di
ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze di
funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il
corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle
norme urbanistiche.
A titolo esemplificativo il Consiglio Superiore fa presente
che sono da considerare "volumi tecnici" quelli strettamente
necessari a contenere i serbatoi idrici, l'extracorsa degli
ascensori, i vasi di espansione dell'impianto di
termosifone, le canne fumarie e di ventilazione, il vano
scala al di sopra delle linee di gronda. Non sono invece da
intendere come volumi tecnici i bucatai, gli stenditoi
coperti, i locali di sgombero e simili.”
Nel caso di specie è pacifico, alla luce della definizione
dianzi esposta, che non si tratti di locale tecnico, ma al
più di locale di sgombero, potenzialmente destinato ad altra
destinazione d’uso
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 04.11.2014 n. 5428 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In materia di mobbing.
- per mobbing, in assenza di una
definizione normativa, si intende normalmente una condotta
del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa,
continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un
lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con
comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e
sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria
gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del
lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo.
A tal fine, la condotta di mobbing del datore di lavoro va
esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non
può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di
esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza
di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno
evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il
Giudice Amministrativo possa verificare la sussistenza nei
suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato
alla vessazione o alla prevaricazione;
- non si ravvisano gli estremi del mobbing nell'accadimento
di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali
nell'ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non
sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in
particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o
antipatie reciproche. In particolare nel lavoro "pubblico",
per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un
disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti
dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale
sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a
cui sono normalmente diretti;
- la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve
essere esclusa quante volte la valutazione complessiva
dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro
materialità), pur se idonea a palesare, singolarmente,
elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non
consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria
verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente
persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del
complesso delle condotte poste in essere sul luogo di
lavoro.
Segue da ciò che, nel verificare l'integrazione del mobbing
è necessario, anche in ragione della indeterminatezza
normativa della figura, attendere ad una valutazione
complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal
lavoratore, da apprezzare per accertare tra l'altro, da un
lato, l'idoneità offensiva della condotta datoriale
(desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e
discriminazione) e, dall'altro, la connotazione univocamente
emulativa e pretestuosa della condotta;
- non si può addebitare un disegno persecutorio qualora non
sia possibile desumere elementi di prova dalla illegittimità
dei provvedimenti, non essendo stati, tali atti, impugnati,
e non siano state provate condotte personali dei superiori
del dipendente tali da manifestare il connotato della
vessatorietà, delle minacce, della violenza e delle
ingiurie.
Di conseguenza, la domanda di risarcimento dei danni
discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può
essere accolta qualora il lavoratore non abbia
tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi,
adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività
gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica
peggiorativa del rapporto lavorativo.
Al riguardo, non sussiste presupposto
alcuno per discostarsi dalle coordinate giurisprudenziali di
questo Consiglio di Stato in materia ed alle quali si
rinvia:
- per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si
intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del
superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel
tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente
di lavoro, che si manifesta con comportamenti
intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici,
esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del
rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato
alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che
ne consegua un effetto lesivo.
A tal fine, la condotta di
mobbing del datore di lavoro va esposta nei suoi elementi
essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al
giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un
illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti
illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche
concreto elemento in base al quale il Giudice Amministrativo
possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più
complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla
prevaricazione (Sez. IV, 06.08.2013, n. 4135; Sez. VI, 12.03.2012, n. 1388);
- non si ravvisano gli estremi del mobbing nell'accadimento
di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali
nell'ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non
sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in
particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o
antipatie reciproche. In particolare nel lavoro "pubblico",
per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un
disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti
dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale
sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a
cui sono normalmente diretti (Sez. IV, 19.03.2013, n.
1609; Sez. VI, 15.06.2011, n. 3648);
- la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve
essere esclusa quante volte la valutazione complessiva
dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro
materialità), pur se idonea a palesare, singolarmente,
elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non
consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria
verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente
persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del
complesso delle condotte poste in essere sul luogo di
lavoro.
Segue da ciò che, nel verificare l'integrazione del
mobbing è necessario, anche in ragione della
indeterminatezza normativa della figura, attendere ad una
valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati
dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l'altro, da
un lato, l'idoneità offensiva della condotta datoriale
(desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e
discriminazione) e, dall'altro, la connotazione univocamente
emulativa e pretestuosa della condotta (Sez. VI, 17.02.2012, n. 856; Sez. IV, 10.01.2012, n. 14);
- non si può addebitare un disegno persecutorio qualora non
sia possibile desumere elementi di prova dalla illegittimità
dei provvedimenti, non essendo stati, tali atti, impugnati,
e non siano state provate condotte personali dei superiori
del dipendente tali da manifestare il connotato della
vessatorietà, delle minacce, della violenza e delle
ingiurie.
Di conseguenza, la domanda di risarcimento dei
danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non
può essere accolta qualora il lavoratore non abbia
tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi,
adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività
gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica
peggiorativa del rapporto lavorativo (Sez. V, 27.05.2008, n.
2515)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 04.11.2014 n. 5419 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare, i «precedenti» nel curriculum.
Obbligo di correttezza ampio: gli uffici valuteranno poi
caso per caso. Tar Bologna. L'impresa deve indicare errori o inadempimenti
anche con Pa diverse da quella appaltante.
Chi partecipa a una gara deve
dichiarare lealmente di avere precedenti, eventuali
inadempimenti contrattuali, anche se questi errori siano
avvenuti in rapporti con amministrazioni diverse da quella
che ha bandito la gara di appalto.
Il principio è posto dalla
sentenza 31.10.2014 n. 1041 del
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, che
impone alle imprese una correttezza di fondo, con l'obbligo
di dichiarare comunque l'esistenza di situazioni dubbie.
Sarà poi l'amministrazione a dare o meno peso a queste
situazioni. Chi concorre a una gara deve infatti dichiarare
tutti gli aspetti del proprio curriculum, perché sarà poi
l'amministrazione a esprimere un giudizio, ammettendo
l'impresa alla gara nel caso in cui valuti veniali o
risalenti nel tempo le contestazioni avvenute nel
l'esecuzione di altre opere o servizi pubblici.
Il principio interessa sia le imprese, che possono essere
indotte a non dichiarare eventuali precedenti errori nel
timore di essere escluse, sia le Pa, che hanno l'onere
specifico di apprezzare le dichiarazioni delle imprese
concorrenti, dando a ogni episodio, seppur remoto, un
corretto peso.
Nel caso specifico, si discuteva di una gara per la gestione
triennale di una residenza temporanea notturna, cui aveva
partecipato un'impresa che aveva in precedenza subito, da
altro Comune, una risoluzione contrattuale per gravi
inadempienze. Nel partecipare, l'impresa aveva omesso
qualsiasi accenno all'episodio, risultando poi
aggiudicataria. Su ricorso di altro concorrente, il Tar ha
espresso un parere diverso dall'amministrazione, annullando
l'esito della gara e disponendo la modifica della
graduatoria. Il principio applicato obbliga quindi ogni
partecipante a una pubblica gara a dichiarare le eventuali
pregresse risoluzioni contrattuali, senza possibilità che il
concorrente depuri in modo autonomo il proprio curriculum.
La norma che obbliga a una dichiarazione completa è
l'articolo 38, comma 1, lettera f), Dlgs 163/2006, che
esclude da gare le imprese (e professionisti) che, secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nel l'esecuzione delle
prestazioni affidate o che hanno commesso un errore grave
nel l'esercizio della loro attività professionale, accertato
con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione
appaltante. La nozione di errore grave si legge in una
determina (n. 1 del 2010) dell'Autorità per la vigilanza sui
lavori pubblici (oggi, Anticorruzione): l'errore grave
attiene indistintamente a tutta la precedente attività
professionale dell'impresa, in quanto elemento sintomatico
della perdita del requisito di affidabilità e capacità
professionale e influente sull'idoneità dell'impresa a
fornire prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo
pubblico che la stazione appaltante persegue.
L'accertamento dell'errore grave può risultare sia da fatti
certificati in sede amministrativa o giurisdizionale, sia da
fatti attestati da altre stazioni appaltanti o anche da
fatti noti. La casistica più recente riguarda la pulizia di
stazioni ferroviarie (Consiglio Stato n. 4174/2013), e non
dà rilievo alla circostanza che successivamente all'episodio
di inadempimento la Pa abbia disposto ulteriori proroghe
contrattuali. Errori gravi possono esservi nel servizio di
accertamento e riscossione di imposte sulla pubblicità e
sulle pubbliche affissioni (Consiglio Stato n. 6614/2012),
rilevanti anche se, nel precedente rapporto, l'impresa
esclusa era mandataria di un raggruppamento verticale.
Altri
errori possono capitare nella fatturazione di gas (Consiglio
di Stato n. 6951/2011) o nella archiviazione di cartelle
cliniche (Consiglio di Stato n. 5866/2011), e in tali casi
insieme al singolo infortunio possono essere valutati altri
numerosi rapporti contrattuali e l'episodicità
dell'inconveniente verificatosi (articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Atti riservati se la gara è «chiusa».
Il concorrente potrebbe imitare le tecniche utilizzate dal
vincitore.
Tar Milano. L'accesso ai documenti resta limitato se non è
possibile ribaltare l'esito della selezione.
Nuovi limiti all'accesso
agli atti di gara da parte di un concorrente, se non c'è
possibilità di ribaltare il risultato.
Li pone il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la
sentenza 30.10.2014 n. 2587, che applica
la riservatezza anche a servizi di pulizia.
L'accesso è un diritto generale previsto dalla legge
241/1990 per favorire la partecipazione e assicurare
imparzialità e trasparenza dei procedimenti, ma a condizione
che ci sia un interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata
(articoli 22 e 24). Poi sono sopravvenute più norme, che
hanno applicato il principio con intensità diversa di volta
in volta, allargando o limitando l'accesso (si veda la
scheda sulla destra). Punto di equilibrio tra restrizioni e
ampliamenti è l'articolo 3 del Dpr 184/2006, che obbliga le
amministrazioni ad informare i controinteressati (cui si
riferiscono i dati oggetto di accesso), affinché esprimano o
meno il proprio consenso.
Per il Tar di Milano, la norma sull'accesso civico (il Dlgs
33/2012, articolo 3) non amplia i diritti che spettano ai
partecipanti alle gare: per questi ultimi l'accesso è
garantito, ma deve collegarsi a un'esigenza di difesa in
giudizio. Ciò significa che l'ente pubblico che ha gestito
la gara deve effettuare un accurato controllo in ordine
all'effettiva utilità, per il richiedente, della
documentazione richiesta.
Nel caso specifico, poiché l'impresa di pulizie che chiedeva
l'accesso alla documentazione si era classificata sesta e
non aveva impugnato l'esito della gara, non è emerso un
interesse concreto ed attuale a conoscere l'analisi dei
costi dell'offerta della prima classificata. Quando le gare
si svolgono sulla base dell'offerta economicamente più
vantaggiosa (e non sulla base del prezzo più basso), può
essere utile conoscere soluzioni, innovazioni e specifiche
tecniche delle offerte risultate aggiudicatarie. Con un
accesso agli atti di gara si possono conoscere fornitori,
sistemi di organizzazione, tecnologie utili per successive
gare. Per ottenere ciò occorre tuttavia motivare l'istanza
di esibizione, affermando di aver intenzione di rivolgersi
ad un organo giurisdizionale per tutelare i propri
interessi.
Quando vi è una richiesta del genere, cioè un cosiddetto
accesso difensivo, l'unico argomento che può tutelare la
riservatezza dei dati delle imprese vincitrici è il diritto
alla riservatezza commerciale dei dati tecnologici, dei
brevetti o dei segreti commerciali o industriali. In
particolare se si tratta di forniture, migliorie e tecniche
di manutenzione. La fonte di questo diritto alla
riservatezza dei dati è la Direttiva comunitaria 93/36
(articolo 9, numero 3), che limita la pubblicazione di
informazioni successive ad una gara che possano pregiudicare
interessi commerciali o generare una concorrenza sleale.
Il chiarimento più utile su questa norma comunitaria
proviene dalla Corte di giustizia della Ue (sentenza della
causa C-450/06, resa nel 2008), che riguardava una
controversia relativa alla gara per fornire le maglie dei
cingoli destinati ai carri armati di tipo Leopard.
Respingendo –nella sostanza– l'istanza di accesso di un
produttore che voleva conoscere le tecniche costruttive di
altri concorrenti, la Corte ha sottolineato che la
commissione di gara deve garantire la riservatezza ed il
rispetto dei segreti commerciali.
Anche alle imprese di pulizie, nel caso deciso dal Tar di
Milano, è stato applicato lo stesso principio di
riservatezza. L'argomentazione è stata che l'azienda
interessata potrebbe imitare tecniche altrui attraverso la
scorciatoia dell'accesso alle offerte di gara
(articolo Il
Sole 24 Ore del 13.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Va pagato anche il parere del legale.
Spetta il giusto compenso, secondo il tariffario forense,
all'avvocato che si è impegnato, investendo tempo e proprie
competenze professionali, nello studio di un atto
giudiziario, anche in assenza di un successivo conferimento
di incarico formale.
Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. civile della
Corte di Cassazione con
ordinanza 27.10.2014 n. 22737.
I giudici di piazza Cavour si sono espressi su un caso in
cui un Tribunale aveva respinto l'appello proposto da una
società circa una decisione del Giudice di pace, con la
quale veniva rigettata l'istanza di revoca del decreto con
cui veniva ingiunto alla società stessa il pagamento degli
onorari a compenso delle prestazioni professionali fornite
da un legale.
Secondo gli Ermellini, alla luce degli atti, quello tra il
legale e la società non fu un semplice colloquio
informativo, ma vennero sottoposti all'attenzione del
professionista atti giudiziali prodotti in giudizio, al fine
di ottenere un parere ed in vista di un futuro mandato
professionale.
Chiaramente, pertanto, si andava a profilare la sussistenza
di un rapporto professionale tra la società e l'avvocato e
il conferimento di un incarico, dalla società al legale,
avente ad oggetto un parere professionale in merito ad una
causa già pendente presso il Tribunale. Pertanto
correttamente, a parere della Cassazione, il Tribunale ha
ritenuto che il professionista avendo impegnato il proprio
tempo e le proprie competenze professionali andava
compensato secondo il tariffario forense.
Si tratta, quindi, di una più ampia lettura dell'art. 4 del
dm 55/2014 in cui si legge che: «Ai fini della
liquidazione del compenso si tiene conto delle
caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività
prestata, dell'importanza, della natura, della difficoltà e
del valore dell'affare, delle condizioni soggettive del
cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della
complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate.
In ordine alla difficoltà dell'affare si tiene particolare
conto dei contrasti giurisprudenziali (...)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.201).
---------------
MASSIMA
La visita allo studio di un avvocato
per sottoporgli un atto di citazione fa scattare il diritto
alla parcella anche se poi il cliente decide di non
affidargli l’incarico di difesa in giudizio
(tratta da http://renatodisa.com). |
APPALTI: Per l'accesso basta l'aggiudicazione provvisoria.
Consiglio di Stato. Possibile rinviare l'accesso solo per la
verifica sull'anomalia dell'offerta.
In tema di procedure di affidamento e di esecuzione dei
contratti pubblici, la Pa può rimandare il diritto di
accesso agli atti di gara soltanto per il procedimento di
verifica dell'anomalia dell'offerta, ma non per la restante
documentazione che invece è accessibile già dopo
l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza 27.10.2014 n. 5280.
I giudici hanno respinto l'appello di un Comune che
aveva negato a una società di servizi informatici di
visionare i documenti di un contratto di fornitura di
software poiché al momento della richiesta era stato
aggiudicato solo in via provvisoria.
Secondo i giudici, esclusi i casi di appalti segretati o la
cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, il
differimento del diritto d'acceso previsto dal Codice dei
contratti pubblici (articolo 13, Dlgs n. 163/2006) in
relazione alle offerte fino all'approvazione
dell'aggiudicazione (comma 2, lettera c) e in relazione al
procedimento di verifica della anomalia dell'offerta fino
all'aggiudicazione definitiva (comma 2, lettera c-bis) «deve
essere interpretato in modo restrittivo, rappresentando una
norma eccezionale, derogatoria rispetto alle ordinarie
regole in materia di accesso».
In altre parole, per il Collegio, prima dell'ok definitivo
«non sussiste alcun divieto legale di divulgare i dati
concernenti le "offerte" (cioè: documentazione
amministrativa, tecnica, offerta economica e tecnica)
presentate dai concorrenti» poiché «il legislatore, quando
ha ritenuto rilevante attendere che si fosse realizzata la
conclusione della procedura selettiva (attraverso, appunto,
l'aggiudicazione definitiva), lo ha detto espressamente.
L'espressione generica "aggiudicazione" deve essere riferita
all'aggiudicazione "provvisoria", e ciò in applicazione del
criterio interpretativo ubi lex voluit, dixit; ubi noluit,
non dixit».
All'azienda, classificatasi penultima in
graduatoria, andava quindi subito garantito il diritto
d'accesso per controllare l'elenco degli operatori economici
realizzato dall'Amministrazione, l'eventuale avviso di
presentazione di candidature, le lettere dei soggetti che
avevano chiesto di partecipare e tutta l'altra
documentazione, allegati inclusi (articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2014). |
URBANISTICA:
Decreto del fare: la proroga dei termini delle convenzioni
si applica solo a quelle formalmente stipulate.
Con
ordinanza 24.10.2014 n. 1417 Il TAR Lombardia-Milano,
Sez. II, interviene in tema di interpretazione e
applicazione dell'art. 30, comma 3-bis, D.L. n. 69/2013.
La previsione, convertita con Legge n. 98/2013, introduce un
meccanismo di proroga triennale dei termini di validità
nonché di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni
di lottizzazione e simili.
Per espressa previsione normativa, la proroga si applica
agli accordi "stipulati sino al 31.12.2012": "3-bis.
Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine
lavori nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui
all’articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero
degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione
regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di
tre anni.".
Nel ricorso in commento, la società ricorrente invoca
l'applicazione della norma ad una bozza di convenzione che,
pur approvata dall'amministrazione comunale con delibera
consiliare, non era mai stata sottoscritta dalle parti e
perciò non risultava essere stata "stipulata",
formandosi la volontà .
In applicazione del canone letterale di cui all'art. 12
Preleggi, il Comune ha ritenuto che l’incontro delle volontà
tra le parti non possa che sostanziarsi nel momento della
sottoscrizione della convenzione, non essendo dati accordi
della Pubblica Amministrazione privi della caratteristica
della ritualità. Per tale motivo ha negato la richiesta di
riconoscimento della proroga automatica avanzata dalla
società e quest'ultima ha impugnato il provvedimento.
Il sede cautelare il TAR Lombardia aderisce a tale
interpretazione della norma e respinge la domanda di
sospensione, affermando che "l’interpretazione dell’art.
30, c. 3-bis, d.l. n. 69/2013, accolta nel provvedimento
impugnato - secondo cui la proroga non può operare con
riferimento a bozze di convenzioni, pur approvate
dall’amministrazione comunale, ma che non siano state
stipulate dalle parti - appare legittima in quanto conforme
alla lettera della norma" (link a http://studiospallino.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
controversie relative alla determinazione dei contributi
urbanistici involgono l'accertamento di diritti soggettivi
che traggono origine direttamente da fonti normative, per
cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di
provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di
prescrizione.
Rileva altresì il Collegio che non appare convincente
sostenere che ciò vale quando si discute di un profilo di
quantum, cioè della determinazione dell’ammontare degli
oneri dovuti, e non quando sia in considerazione una
questione di an, cioè di assoggettabilità dell’intervento
edilizio al pagamento degli oneri medesimi ovvero di sua
gratuità, trattandosi comunque di questioni ontologicamente
assimilabili, riguardanti diritti soggettivi.
Diverso il discorso nell’ipotesi in cui vi sia un atto a
monte (una convenzione urbanistica, un piano di
lottizzazione o uno strumento attuativo) che già disciplina
il profilo della gratuità o onerosità di specifici
interventi edilizi e che dà copertura ai successivi atti
attuativi, ipotesi nella quale è corretto affermarsi che
occorre la contestazione nel termine decadenziale della
previsione a monte.
L’eccezione è infondata.
Osserva il Collegio che le controversie relative alla
determinazione dei contributi urbanistici involgono
l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine
direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a
prescindere dall'impugnazione di provvedimenti
dell'amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons.
Stato, sez. 4^, 28.11.2012, n. 6033).
Rileva altresì il Collegio che non appare convincente
sostenere che ciò vale quando si discute di un profilo di
quantum, cioè della determinazione dell’ammontare degli
oneri dovuti, e non quando sia in considerazione una
questione di an, cioè di assoggettabilità
dell’intervento edilizio al pagamento degli oneri medesimi
ovvero di sua gratuità, trattandosi comunque di questioni
ontologicamente assimilabili, riguardanti diritti
soggettivi.
Diverso il discorso nell’ipotesi in cui vi sia un atto a
monte (una convenzione urbanistica, un piano di
lottizzazione o uno strumento attuativo) che già disciplina
il profilo della gratuità o onerosità di specifici
interventi edilizi e che dà copertura ai successivi atti
attuativi, ipotesi nella quale è corretto affermarsi che
occorre la contestazione nel termine decadenziale della
previsione a monte (Cons. di Stato, sez. 5^, 30.04.2009, n.
2768, parla di atti che “assumono il significato
sostanziale di una rinuncia alla prescrizione”).
Il citato precedente della Sezione (sentenza n. 1083 del
2013) riguardava una fattispecie nella quale la onerosità
dell’intervento edilizio era espressamente prevista dalle
convenzioni stipulate tra le parti ed era quindi accettata
dalla parte privata ed è su questa base che in detto
pronunciamento si giunge a richiedere l’attivazione nel
termine decadenziale di chi voglia contestare la onerosità
medesima.
Nel caso qui in esame, al contrario, l’onerosità
dell’intervento non risultava prescritta dalla convenzione
del 26.03.1998, con il risultato che nella proposta azione
giudiziaria parte ricorrente fa valere un diritto soggettivo
al quale necessariamente si correla l’ordinario termine
prescrizionale
(TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 16.10.2014 n. 1596 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: È
vero che la giurisprudenza estende l’applicazione dell’art.
9, comma 1, lett. f), parte prima, della legge n. 10 del
1977 anche oltre i confini soggettivi dell’ente pubblico, ma
richiedendo che il soggetto privato non agisca per fini di
lucro e abbia un “legame istituzionale con l’azione
amministrativa volta alla cura di interessi pubblici”.
La censura è infondata.
La invocata disposizione normativa collega la gratuità
dell’intervento edilizio, oltre che al profilo oggettivo,
che non pare nella specie difettare, ad un preciso
connotato soggettivo, cioè essere l’opera stessa
realizzata da “enti istituzionalmente competenti”.
Appare evidente che nella specie non si è in presenza di un
“ente pubblico” né ricorre la figura del “concessionario
di opera pubblica”, che realizza una traslazione di
funzioni pubbliche su soggetto privato; ad avviso di parte
ricorrente sarebbe tuttavia sufficiente la convenzione
stipulata tra la società medesima e il Comune di Prato a
garantire la funzionalizzazione dell’operato della società e
ad escludere che si abbia mero perseguimento del fine di
lucro, in tal modo meritando l’applicazione della invocata
norma sulla gratuità. Tale percorso interpretativo,
tuttavia, non pare convincente.
È vero che la giurisprudenza estende l’applicazione
dell’invocato art. 9, comma 1, lett. f), parte prima, della
legge n. 10 del 1977 anche oltre i confini soggettivi
dell’ente pubblico, ma richiedendo che il soggetto privato
non agisca per fini di lucro e abbia un “legame
istituzionale con l’azione amministrativa volta alla cura di
interessi pubblici” (Cons. Stato, sez. 4^, 28.10.2011,
n. 5799; id. 08.11.2011, n. 5903); nella specie questo “legame
istituzionale” non pare sussistere, non risultando
idonei a crearlo gli impegni che la società ricorrente ha
assunto con la convenzione del 26.03.1998, che prevedono la
libera accessibilità degli interessati alla struttura ma
senza più pregnanti obbligazioni in punto di erogazione
delle prestazioni e costi delle stesse; in altre parole, la
richiamata convenzione del 26.03.1998, valutata con
riferimento alla prima fattispecie di cui all’art. 9, comma
1, lett. f) cit., non risulta idonea a creare vincoli così
intensi con il soggetto pubblico da far rientrare il
soggetto privato attuatore tra gli “enti
istituzionalmente competenti”
(TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 16.10.2014 n. 1596 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sconta l'esenzione di cui all’art. 9, comma 1,
lett. f), della legge n. 10 del 1977, riferita a “opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”, la realizzazione di un’opera di
urbanizzazione secondaria (edificazione di RSA) avvenuta in
attuazione di previsione dello strumento urbanistico.
Con il secondo mezzo parte ricorrente contesta il mancato
riconoscimento della seconda ipotesi di esenzione di cui
all’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977,
riferita a “opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici”,
essendo in presenza della realizzazione di un’opera di
urbanizzazione secondaria (edificazione di RSA) avvenuta in
attuazione di previsione dello strumento urbanistico.
La censura è fondata e merita
accoglimento.
La evocata seconda fattispecie di cui all’art. 9, comma 1,
lett. f), della legge n. 10 del 1977 (oggi riprodotta
dall’art. 17, comma 3, lett. c] del DPR n. 380 del 2001)
esonera dal pagamento dei contributi concessori la
realizzazione di “opere di urbanizzazione”
allorquando essa, pur realizzata da privati, avvenga “in
attuazione di strumenti urbanistici”.
Nella specie appaiono sussistere entrambi i requisiti
previsti dalla legge. Siamo in presenza di “opere di
urbanizzazione secondaria”, requisito questo non
contestato dall’Amministrazione resistente (si legge a pag.
10 della memoria del 28.03.2014 che “per predicare il
regime di gratuità, infatti, non basta che l’opera
realizzata rientri nel novero delle opere di urbanizzazione,
in questo caso secondaria, come è innegabile che sia la
struttura oggetto della concessione”) e che rientra
nella previsione dell’art. 4, comma 2, lett. g), della legge
n. 847 del 1964 (“centri sociali e attrezzature culturali
e sanitarie”), trattandosi dell’edificazione di “una
struttura extra ospedaliera finalizzata a fornire
accoglimento, prestazioni sanitarie, assistenziali e di
recupero a persone anziane prevalentemente non
autosufficienti non assistibili a domicilio” (Relazione
tecnica di cui al doc. 2 del deposito comunale del
19.03.2014).
In secondo luogo, l’opera è senz’altro eseguita “in
attuazione di strumenti urbanistici”. L’appezzamento di
terreno della società ricorrente rientra infatti nella
previsione di cui all’art. 35 delle NTA dello strumento
urbanistico comunale (doc. 7 dell’Amministrazione comunale)
ed è dunque destinato ad “attrezzature di interesse
comune”, tra cui anche, a mente del comma 2 dello stesso
articolo, “centri sociali”, “attrezzature
sanitarie” e “residenze protette”; il successivo
comma 5 dello stesso art. 35 stabilisce poi che “è
ammessa l’attuazione delle previsioni di PRG da parte di
privati (singoli, Enti) subordinatamente alla stipula di una
convenzione col Comune che ne stabilisca le modalità della
gestione nell’interesse comune”.
La società ricorrente e il Comune di Prato hanno stipulato
la convenzione attuativa dell’art. 35 cit. in data
26.03.1998 (doc. 4 della documentazione di parte
ricorrente); in essa si legge che il terreno della
ricorrente “è destinato dal vigente PRG comunale ad <aree
per attrezzature di interesse comune destinate a centri
sociali, centri culturali, ricreativi, attrezzature
sanitarie e residenze protette>, come disciplinato dall’art.
35 delle NTA” e che la “società Immobiliare Senior
s.r.l. intende attuare le previsioni di PRG realizzando sul
predetto terreno una Residenza sociale protetta per anziani,
ai sensi della L.R. 16.04.1980 n. 28”, iniziativa che “appare
compatibile con il disposto dell’art. 35 delle NTA del PRG
sopra richiamato, che offre facoltà ad Enti e privati a dare
diretta esecuzione alle previsioni del PRG <subordinatamente
alla stipula di una convenzione con il Comune che ne
stabilisca le modalità della gestione nell’interesse comune>”.
Non può dunque esserci dubbio che quella del 26.03.1998 sia
convenzione attuativa dell’art. 35, comma 5, delle NTA del
PRG e che dunque quello realizzato sia intervento eseguito “in
attuazione di strumenti urbanistici”. L’Amministrazione
comunale evidenzia però che la disciplina legislativa
regionale richiede comunque, ai fini dell’esonero, la
stipula di una convenzione con l’Amministrazione che “assicuri
l’interesse pubblico”, mentre la convenzione presente
nella specie niente dice circa le modalità di svolgimento
del servizio e quindi non è idonea ad integrare la
previsione normativa.
Il richiamo effettuato dal Comune di Prato è all’art. 23,
comma 1, lett. b), della legge regionale Toscana n. 52 del
1999 che, nel riprodurre la previsione di cui all’art. 9,
comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977, aggiunge il
riferimento ad una specifica convenzione: dice infatti la
norma regionale che l’esenzione spetta “per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati o privato sociale,
in attuazione di strumenti urbanistici, previa, in questo
caso, convenzione con il comune che assicuri l'interesse
pubblico”.
Osserva tuttavia il Collegio che, in disparte la
considerazione che la individuazione dei presupposti
legittimanti la gratuità di un intervento edilizio pare
rientrare nella legislazione di principio di competenza
statale (sicché la legge regionale non può aggiungerne
ulteriori rispetto a quelli stabiliti dalla norma statale,
nella specie tutti esistenti), in ogni caso nella specie la
convenzione c’è, ed è stata valutata dalla stessa
Amministrazione comunale che l’ha sottoscritta come idonea a
soddisfare l’art. 35, comma 5, delle NTA del PRG comunale
che parla, anch’esso, di convenzione che “stabilisca le
modalità di gestione nell’interesse comune”, col
risultato che non può poi l’Amministrazione comunale, al
diverso fine di dare applicazione all’art. 23 della legge
regionale n. 52 del 1999, ritenere che la stessa convenzione
non soddisfi il requisito di “assicurare l’interesse
pubblico”
(TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 16.10.2014 n. 1596 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Parcheggi, la legge Tognoli ko se l'immobile è tutto fuori
terra
Non può trovare applicazione la legge Tognoli, quando
l'immobile è costruito totalmente fuori terra, sebbene si
sia utilizzato un volume preesistente, ma con un
ampliamento, per cui non si tratta di un recupero, ma di una
nuova costruzione.
Lo hanno sottolineato i giudici della
I Sez. del TAR Piemonte, con
sentenza
18.09.2014 n. 1490.
La c.d. «legge Tognoli» (legge 24.03.1989, n. 122)
stabilisce che i proprietari di immobili possono realizzare
parcheggi nel sottosuolo o al piano terreno, con determinate
agevolazioni. E precisa (art. 9, 5° comma): «I parcheggi
realizzati ai sensi del presente articolo non possono essere
ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono
legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione
sono nulli».
Secondo i giudici amministrativi:
«Indipendentemente dalla qualificazione dell'intervento, è
pacifico che il fabbricato sia fuori terra, per cui
correttamente l'Amministrazione non ha ritenuto applicabile
la disciplina derogatoria della legge Tognoli, ed in
particolare dell'art. 9, che consente di realizzare
parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliare nel sottosuolo per l'intera altezza, anche in
deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi
vigenti. La disposizione -osservano i giudici- è di stretta
interpretazione e di rigorosa applicazione. In altre parole,
la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi
prevista dall'art. 9, legge 24.03.1989 n. 122, opera solo ed
esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad
essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità
immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto
dell'originario piano attuale di campagna, senza alcuna
tolleranza di sorta, mentre la realizzazione di autorimesse
e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale
di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata
per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra»
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Resta agricolo il terreno con impianti
fotovoltaici. Le conclusioni della
Commissione tributaria di Brindisi.
Qualora sopra un terreno agricolo sia realizzato un impianto
fotovoltaico, la sua destinazione urbanistica rimarrà
agricola e non subirà variazione ai fini delle imposte
locali.
Sono le interessanti conclusioni a cui giunge la sezione
seconda della Commissione tributaria provinciale di Brindisi
nella sentenza 16.09.2014 n. 1032/2/14.
La vicenda riguarda un accertamento ai fini Ici notificato a
una società dal comune di San Pietro Vernotico (Br) per
l'anno 2011 sul terreno agricolo da questa condotto in
locazione; la vicenda riguarda specificatamente l'Ici, ma
rileva anche ai fini dell'Imu e della Tasi. La stessa
società conduttrice, oltre all'edificazione di servitù
relative a un elettrodotto, aveva realizzato, con diritto di
superficie, impianti di produzione elettrica fotovoltaica e
provveduto ad accatastare il nuovo fabbricato con procedura
Docfa nel febbraio 2011. L'ente impositore riteneva che il
terreno oggetto di locazione, in quanto edificabile, dovesse
essere oggetto di tassazione Ici secondo due diverse
modalità:
a) una prima tassazione relativa al terreno oggetto delle
opere, tassato come terreno edificabile;
b) una tassazione seguente relativa alle opere eseguite.
La società locataria, titolare del diritto di superficie,
aveva, invece, corrisposto l'imposta solo dopo aver
accatastato il fabbricato relativo all'impianto
fotovoltaico, relativamente cioè, ai soli dieci mesi del
2011, successivi al censimento dell'impianto (febbraio
2011).
Dopo aver verificato che i terreni oggetto di tassazione
ricadono tutti in zona agricola, i giudici provinciali
pugliesi, accogliendo sul punto il ricorso, hanno stabilito
che il terreno agricolo mantiene la sua destinazione
urbanistica originaria (agricola) e non sconta l'imposta
locale. La Commissione ha raggiunto la decisione rilevando
come l'articolo 12, comma 7, del dlgs n. 387/2003 disponga
che «gli impianti di produzione di energia elettrica...
possono essere ubicati anche in zone classificate agricole
dai vigenti piani urbanistici».
La Commissione aggiunge che, anche l'articolo 5, comma 9,
del dm 19.02.2007, attuativo di tale disposizione prevede
«ai sensi dell'articolo 12, comma 7, del dlgs n. 387/2003
anche gli impianti fotovoltaici possono essere realizzati in
aree classificate agricole dai vigenti piani urbanistici
senza necessità di variazione della destinazione
urbanistica». Valga, infine, aggiungere che le stesse
conclusioni sono state raggiunte anche dal Notariato in un
recente Studio n. 24/2012/T (articolo ItaliaOggi del 12.11.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non sufficiente la Pec del tecnico ai fini del permesso di
costruire
Galeotta fu la Pec: il messaggio incompleto di posta
elettronica certificata mandato dal tecnico di fiducia fa
sfumare per la società committente l'opportunità di ottenere
il permesso di costruire con le premialità del decreto
sviluppo. Il punto è che il silenzio-assenso del Comune non
può formarsi quando all'email con valore legale non sono
allegati l'atto di conferimento dell'incarico al
professionista e la copia del documento di identità della
società richiedente: valgono i principi dell'autoresponsabilità
e dell'autocertificazione e senza le carte che diano
certezze sulla provenienza le dichiarazioni contenute nel
messaggio di posta elettronica non hanno valore.
È quanto
emerge dalla
sentenza
15.07.2014 n. 347, pubblicata dalla I Sez. del TAR
Abruzzo-Pescara.
Niente da fare per l'azienda, anche se il Comune ha fatto di
tutto per «boicottare» il ricorso al digitale, facendosi
mandare tutti i documenti in formato cartaceo per
«l'impossibilità» di gestire il materiale in formato
elettronico.
In effetti si scopre che la Pec spedita dal
tecnico è insufficiente: intendiamoci, il permesso di
costruire ben può essere richiesto con l'email col «bollino
blu», ma servono riferimenti certi sui soggetti in campo.
Altrimenti fa bene l'amministrazione a disporre
l'archiviazione della pratica, come in questo caso.
L'azienda dovrà probabilmente rivalersi sul tecnico: l'atto
non risulta in grado di dispiegare gli effetti di
certificazione previsti perché manca una forma essenziale
prescritta dalla legge e non sanabile in altro modo. Il
silenzio-assenso, spiegano i giudici, non può infatti
formarsi senza la documentazione completa prescritta dalle
norme in materia per il rilascio del titolo edilizio:
l'eventuale inerzia dell'amministrazione nel provvedere non
può far guadagnare agli interessati un risultato che non
potrebbero mai conseguire con un provvedimento espresso.
Il professionista, fra l'altro, manca di apporre la sua
firma digitale su alcuni atti. Ma bisogna comunque
cancellare dagli atti di causa il riferimento alla «scarsa
professionalità» del progettista. Spese compensate per la
complessità e la novità della questione
(articolo ItaliaOggi del
08.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Un'area inutilizzata non paga la tassa rifiuti.
Un'area inutilizzata, per quanto grande, non paga la tassa
rifiuti. Anche se lo spazio è adibito al transito degli
automezzi o al deposito di materiali inerti. L'imposizione
può scattare solo laddove vi sia una produzione, anche
minima, di rifiuti da conferire al servizio di smaltimento
comunale.
È quanto affermato dalla Ctp Reggio Emilia con la
sentenza 07.07.2014 n. 313/3/14.
Il caso in esame era quello di un frantoio, che era stato
raggiunto da una rettifica Tarsu per l'anno 2009 dal valore
di oltre 40 mila euro. Il comune aveva applicato la tassa a
una superficie scoperta di oltre 13 mila metri quadrati,
utilizzati solo in parte dal contribuente come deposito e
per il resto vuota. L'azienda presentava ricorso in Ctp
sostenendo peraltro che già dal 1997 il piazzale era stato
indicato come area non produttrice di rifiuti. La Tarsu non
era mai stata applicata su tale porzione.
Risultava pertanto piuttosto irrazionale, osservava la difesa del
ricorrente, che dopo oltre dieci anni dalla presentazione
della dichiarazione di occupazione, senza che nel frattempo
fossero intervenute modifiche, l'ente avesse deciso di
iniziare ad applicare il prelievo.
Diversa l'interpretazione del municipio. Il quale, facendo
riferimento alle disposizioni del regolamento comunale in
materia di smaltimento rifiuti, ribadiva la legittimità
della propria pretesa.
Tesi però non condivisa dai giudici reggiani. «Non si può
ragionevolmente sostenere che sia l'area destinata a
deposito di materiali inerti, sia quella riservata al
transito degli automezzi e, soprattutto, quella inutilizzata
possano produrre rifiuti da smaltire», si legge nella
sentenza. La Tarsu colpisce invece «soltanto l'area
destinata alla operatività della società» (pari, in
questo caso, a circa 640 mq).
Da qui l'annullamento parziale dell'accertamento e la
rideterminazione del tributo dovuto al comune da parte del
frantoio (articolo ItaliaOggi del 12.11.2014). |
AGGIORNAMENTO AL 14.11.2014 |
ã |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Informativa in materia di Autorizzazione Unica
Ambientale (AUA) ai fini dell'applicazione del Regolamento
AUA sul territorio regionale ai sensi del DPR 59/2013
(Regione Lombardia, Direzione Generale Ambiente, Energia e
Sviluppo Sostenibile,
nota 30.10.2014 n. 51381 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 13.11.2014 "Testo
dell’allegato «Direttiva per il controllo degli scarichi
degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, ai
sensi dell’allegato 5 alla parte terza del d.lgs.
03.04.2006, n. 152 e s.m.i.» del d.d.g. 15.03.2013 n. 2365,
coordinato con le modifiche approvate con decreto del
direttore generale della Direzione generale Ambiente,
energia e sviluppo sostenibile n. 10356 del 07.11.2014"
(comunicato
regionale 10.11.2014 n. 132). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 13.11.2014
"Modifica parziale dell’allegato al d.d.g. 15.03.2013 n.
2365 avente per oggetto “Modifica parziale all’allegato alla
d.g.r. 28.12.2012 n. IX/4621 di approvazione della
“Direttiva per il controllo degli scarichi degli impianti di
trattamento delle acque reflue urbane””" (decreto
D.G. 07.11.2014 n. 10356). |
ENTI LOCALI: G.U.
12.11.2014 n. 263 "Criteri per l’individuazione dei beni
e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e
organizzative connesse con l’esercizio delle funzioni
provinciali" (D.P.C.M.
26.09.2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCARICHI PROFESSIONALI: C.
Isoni e P. Elia,
Risarcimento per lite temeraria per l'avvocato che "ignora"
il tentativo di mediazione
(11.11.2014 - link a www.diritto.it). |
APPALTI:
G. F. Celentano,
L’azione di ingiustificato arricchimento contro la P.A. e i
debiti fuori bilancio (11.11.2014 - link a
www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra le costruzioni nei rapporti di vicinato
(2010 - tratto da www.acqua-spa.it). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO
IMPIEGO: Mobbing.
Domanda
Quale norma è alla base della responsabilità per mobbing
lavorativo?
Risposta
Nella disciplina del rapporto di lavoro, dove numerose
disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona
del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di
tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è
contrattualmente obbligato a prestare una particolare
protezione rivolta ad assicurare l'integrità fisica e
psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell'art. 2087
cod. civ.), ma deve altresì rispettare il generale obbligo
di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che
possano cagionare danni di natura non patrimoniale,
configurabili ogni qual volta la condotta illecita del
datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti
diritti.
Fra le situazioni potenzialmente dannose e non
normativamente tipizzate rientra il mobbing che, secondo
quanto affermato dalla giurisprudenza, designa un complesso
fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti
vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei
confronti di un lavoratore da parte dei componenti del
gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo,
caratterizzati da un intento di persecuzione ed
emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di
escludere la vittima dal gruppo.
Ai fini della
configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi
ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti
di carattere persecutorio -illeciti o anche leciti se
considerati singolarmente- che, con intento vessatorio,
siano stati posti in essere contro la vittima in modo
miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente
da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche
da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo
dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della
personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso di
causalità tra la descritte condotte e il pregiudizio subito
dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella
propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè
l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti
lesivi.
Alla base della responsabilità per mobbing
lavorativo si pone normalmente l'art. 2087 cod. civ., che
obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie
a tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale
del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i
diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.11.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Demansionamento.
Domanda
Nelle cause per demansionamento quali prove deve fornire il
lavoratore?
Risposta
In tema di demansionamento e relativo onere probatorio, il
lavoratore può reagire al potere direttivo che assume
esercitato illegittimamente prospettando circostanze di
fatto volte a dare fondamento alla denuncia e, quindi, con
un onere di allegazione di elementi di fatto significativi
dell'illegittimo esercizio, mentre il datore di lavoro,
convenuto in giudizio, è tenuto a prendere posizione, in
maniera precisa e non limitata a una generica contestazione,
circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della
domanda (art. 416 cpc) e può allegarne altri, indicativi per
converso, del legittimo esercizio del potere direttivo.
Il
diritto del lavoratore al risarcimento del danno non
patrimoniale non può prescindere da una specifica
allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno
medesimo, ma la sua dimostrazione in giudizio può essere
fornita con tutti i mezzi offerti dall'ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per
presunzioni, alla luce della complessiva valutazione di
precisi elementi in tal senso significativi -quali le
ragioni dell'illegittimità del provvedimento di revoca, le
caratteristiche, durata, gravità e conoscibilità
nell'ambiente di lavoro dell'attuato demansionamento, la
frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione di
carriera, le eventuali reazioni poste in essere nei
confronti del datore di lavoro comprovanti l'avvenuta
lesione dell'interesse relazionale- la cui isolata
considerazione si risolverebbe in una lacuna del
procedimento logico e valutativo seguito dal giudice di
merito
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.11.2014). |
NEWS |
APPALTI: Appalti, committente vincolato. Resta la responsabilità per
il versamento delle ritenute. Il decreto sulle semplificazioni fiscali non ha abrogato gli
obblighi da sostituto di imposta.
Appalti: resta la responsabilità fiscale del committente. Se
l'appaltatore o il subappaltatore non pagano lo stipendio ai
propri dipendenti è il committente che, oltre a doverne
rispondere, è responsabile del versamento delle relative
ritenute d'acconto Irpef all'Erario.
È quanto si ricava dalla lettura dell'art. 28, comma 2, del
decreto delegato sulla semplificazione fiscale, appena
approvato dal Consiglio dei ministri e prossimo alla
pubblicazione in G.U., in base al quale il Committente,
qualora sia direttamente obbligato a eseguire il pagamento
dei trattamenti retributivi ai dipendenti dell'appaltatore
e/o dei subappaltatori impegnati nell'appalto per effetto
della solidarietà, «è tenuto ove previsto ad assolvere gli
obblighi del sostituto d'imposta ai sensi delle disposizioni
di cui al dpr n. 600/1973».
La precisazione giunge proprio mentre con il 1° comma del
suddetto art. 28 si è proceduto ad abrogare la
responsabilità solidale in ambito fiscale tra appaltatore e
subappaltatore, nonché a cancellare la pesante sanzione
amministrativa gravante sul Committente qualora non abbia
ottenuto idonea documentazione circa la correttezza del
versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di
lavoro dipendente dovute dall'appaltatore e dal
subappaltatore.
Ma andiamo con ordine.
L'art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003 stabilisce che in
caso di appalto di opere o di servizi, il committente
imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con
l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali
subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione
dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti
retributivi in relazione al periodo di esecuzione
dell'appalto.
Malgrado i ripetuti interventi legislativi che si sono
susseguiti senza soluzione di continuità dal 2003 ad oggi (dlgs
251/2004, legge 276/2006, legge 35/2012, legge 92/2012) e
che hanno profondamente modificato a più riprese il suddetto
art. 29 a dispetto della necessità di dare stabilità e
certezza giuridica a un quadro normativo già di per sé
ostico e da più parti osteggiato, non è mai stato chiarito
se «i trattamenti retributivi dovuti» debbano essere
considerati al lordo o al netto dei contributi previdenziali
e delle ritenute fiscali conto dipendente, né tanto meno
specificati gli obblighi del committente quale sostituto
d'imposta. Il sospetto che la normativa potesse lasciare
adito a incertezze interpretative deve pertanto aver indotto
il legislatore a intervenire, precisando che il Committente
deve assolvere gli obblighi di sostituto d'imposta.
Con l'abrogazione dell'art. 35 della legge n. 248/2006,
commi da 28 a 28-ter, la responsabilità solidale in ambito
fiscale che coinvolge tutta la catena dell'appalto smette
quindi di vivere di luce propria per essere «inglobata» in
quella prevista dall'art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003:
di fatto, se l'appaltatore e/o il subappaltatore non pagano
i propri dipendenti impegnati nell'appalto non solo deve
provvedervi il committente; ma quest'ultimo ha anche
l'obbligo di effettuare le ritenute fiscali sulle
retribuzioni erogate, a versarle all'Erario, a certificare
le somme erogate attraverso il modello CU e la dichiarazione
mod. 770. Esattamente come per i suoi dipendenti
(articolo ItaliaOggi del
04.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Competenza finanziaria potenziata, segretari in campo.
L'analisi/la riforma della contabilità.
Hanno poco meno di due mesi di tempo a disposizione per
informare tutta la struttura sul nuovo concetto di
competenza finanziaria potenziata, introdotto dal dlgs
118/2011 come integrato e corretto dal dlgs 126/2014: sono i
responsabili dei servizi finanziari dei comuni, ma anche
quelli delle province e delle regioni, alle prese con la
riforma del sistema contabile che va in vigore dal 01.01.2015.
Accanto a comuni schemi di bilancio, un unico
piano dei conti integrato e una classificazione della spesa
che prevede la medesima classificazione funzionale per
Missioni e Programmi adottata dallo Stato, l'armonizzazione
dei bilanci della pubblica amministrazione passa anche e
soprattutto per regole contabili uniformi i cui aspetti
applicativi sono analiticamente normati dai principi
generali, allegato n. 1 del dlgs 126/2014 e dai quattro
principi applicati, allegati da 4.1 a 4.4 del medesimo
decreto, che riportano le disposizioni di dettaglio
concernenti la programmazione, la contabilità finanziaria,
la contabilità economica e il bilancio consolidato.
Dal 2 gennaio tutte le determinazioni di impegno e di
accertamento dovranno essere conformi alle disposizioni
normative richiamate e, in particolare, all'allegato 4.2
relativo al principio contabile applicato della contabilità
finanziaria affinché il responsabile del servizio
finanziario possa apporre il visto di regolarità contabile
ai sensi dell'art. 153 del dlgs 267/2000. Tale principio
applicato prevede la registrazione delle obbligazioni
giuridiche al momento della loro nascita con l'imputazione
delle stesse nel momento in cui scadono. Ciò comporta per i
responsabili dei servizi individuare, nel momento in cui
sorge l'obbligazione che porta alla registrazione di
accertamenti e di impegni, l'esigibilità dell'obbligazione,
aspetto determinante per l'imputazione dell'accertamento o
dell'impegno nell'anno in cui la stessa obbligazione scade .
In tal modo, l'analisi contabile della rilevazione del fatto
gestionale si scinde andando a verificare, oltre alla
nascita dell'obbligazione giuridica, anche la sua scadenza:
è questo il cuore della riforma della contabilità, il nuovo
concetto di competenza finanziaria potenziata, rafforzata,
cioè, dall'esigibilità dell'obbligazione.
Il principio contabile applicato, dopo aver fatto proprio un
concetto espresso dalla Corte di cassazione in merito alla
scadenza delle obbligazioni, per il quale un'obbligazione è
scaduta quando nulla osta al suo adempimento, specifica
analiticamente per ogni fattispecie di entrata e di spesa il
concetto di esigibilità, individuando in tal modo il periodo
di imputazione degli accertamenti e degli impegni.
Il perché dell'adozione del criterio della competenza
finanziaria potenziata è presto detto: i bilanci della
pubblica amministrazione, oltre a essere idonei a permettere
il consolidamento dei conti pubblici, devono essere
trasparenti, rispecchiare obbligazioni giuridiche effettive,
esigibili, scadute. Si comprende, pertanto, come l'adozione
di tale criterio sia il reale fulcro della riforma della
contabilità, condizione necessaria affinché le intenzioni
del legislatore in tema di armonizzazione di sistemi
contabili degli enti territoriali non vadano vanificate.
È per questo motivo che il principio contabile applicato
della contabilità finanziaria, così come gli altri tre
principi applicati più sopra citati, non costituisce una
semplice raccomandazione ma essendo un allegato al dlgs
126/2014 ha la medesima forza di legge e quindi idoneo,
capace, a innovare nell'ordine legislativo preesistente, con
tutte le conseguenze che derivano anche dalla sua
inosservanza. Basti pensare, ad esempio, che uno dei criteri
a cui la Ragioneria generale dello Stato, durante i
controlli ispettivi di finanza pubblica sui bilanci degli
enti locali, nonché la stessa Corte dei conti dovranno
attenersi per verificare l'accertamento della sana gestione
finanziaria dell'ente locale, dal primo gennaio 2015 sarà
proprio il rispetto delle disposizioni applicative contenute
nel principio contabile applicato della contabilità
finanziaria seguite per la rilevazione dei fatti di
gestione.
Emerge pertanto l'indispensabile attività di formazione a
cui tutta la struttura dedicata alla gestione delle risorse
e all'acquisizione delle entrate dovrà necessariamente
sottoporsi con il ruolo guida e di coordinamento delle
diverse fasi da assegnarsi al segretario generale, l'unica
figura che, in assenza di direttore generale, all'interno
dell'ente sovrintende alle funzioni dei dirigenti,
coordinandone le attività.
Il processo di armonizzazione è già partito: sottovalutarne
gli effetti e gli obblighi adempimentali non trova
giustificazioni accoglibili da parte degli organi deputati
al controllo sugli enti locali proprio perché la violazione
delle disposizioni aventi forza di legge contenute nei
principi generali e applicati compromette il consolidamento
e la trasparenza dei nostri conti pubblici
(articolo ItaliaOggi del
04.11.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
CONDOMINIO: Danni in casa, risponde l'impresa.
L'appaltatore risarcisce in proprio solo se è stato davvero
autonomo nell'esecuzione.
Responsabilità. Azione possibile per il condòmino
danneggiato dai lavori eseguiti su parti comuni.
Quando i lavori
condominiali creano un danno al singolo appartamento, si
crea una complessa catena di responsabilità. Ma con la
sentenza 20557/2014 la Cassazione mette ordine in una
vicenda che aveva visto coinvolti, da una parte, un
condomino che richiedeva il risarcimento dei danni subiti
nell'unità immobiliare di sua proprietà, a causa della
cattiva esecuzione di opere di bonifica e di
impermeabilizzazione del tetto del palazzo e, dall'altro,
quali soggetti ai quali era stata indirizzata tale richiesta
di risarcimento danni, il condominio stesso,
l'amministratore dello stabile, nonché l'impresa che aveva
svolto i lavori.
Nel corso dei primi due gradi di giudizio, a evidenziare la
difficoltà di giungere a una soluzione uniforme, il
Tribunale aveva ritenuto responsabile (e condannato quindi
al risarcimento dei danni) la sola impresa, rigettando
quindi la domanda svolta sia nei confronti del condominio
che in proprio dell'amministratore, mentre la Corte
d'appello aveva ribaltato la decisione estendendo la
condanna, in solido tra loro, a impresa costruttrice,
condominio e amministratore in proprio.
La Cassazione chiariva anzitutto come normalmente sia
l'appaltatore che risponde dei danni provocati a terzi:
questo a causa della autonomia con cui egli svolge la sua
attività nell'esecuzione dell'opera o del servizio
appaltato.
A tale responsabilità dell'appaltatore si può poi affiancare
(con possibilità di condanna in solido), sia la
responsabilità del condominio quale committente, o per aver
dato un ordine all'appaltatore tale da privare quest'ultimo
di ogni possibile autonomia nell'esecuzione dello stesso, o
per la cosiddetta «culpa in eligendo», e cioè per aver
demandato l'esecuzione dei lavori (in questo caso su parti
condominiali) a un soggetto palesemente non idoneo ad
adempiervi con efficacia.
È poi possibile, come argomenta la Suprema Corte nella
sentenza esaminata, che alla responsabilità dell'impresa
esecutrice dei lavori, o del condominio, si aggiunga quella
in proprio dell'amministratore del condominio (che si chiama
«culpa in vigilando»), qualora questi sia venuto meno al suo
dovere, quale delegato dello stabile, di controllare la
regolare e corretta esecuzione dei lavori.
A tale condanna dell'amministratore, ed è questo il punto
centrale e decisivo della sentenza della Cassazione, si può
solo arrivare, tuttavia, qualora l'amministratore sia
effettivamente venuto meno al suo dovere di vigilanza sulla
corretta esecuzione dei lavori, ma non certo quando il danno
sia stato causato, come nel caso di specie, da una libera
iniziativa presa dall'impresa che aveva coperto (con dei
teloni di plastica evidentemente rivelatisi inadatti) il
tetto durante i lavori di scopertura e successiva
ricostruzione.
In sostanza, non esiste una responsabilità oggettiva
dell'amministratore per i danni causati ai condòmini
dall'impresa costruttrice che intervenga sulle parti comuni:
essendo viceversa necessario, perché l'amministratore possa
essere ritenuto responsabile in proprio nei confronti del
condominio, che tali danni si siano verificati per un
comportamento dell'impresa che l'amministratore, se avesse
correttamente vigilato, avrebbe potuto evitare.
Particolarmente rilevante, nella decisione in oggetto, è il
richiamo della Cassazione a una sua precedente decisione
(sentenza 25251/2008) che aveva introdotto un indirizzo
«tendenzialmente più rigoroso» valutando le eventuali
responsabilità dell'amministratore condominiale nel vigilare
sulla corretta esecuzione di opere sulle parti comuni.
A tale indirizzo, che secondo la Corte è espressione
«dell'evoluzione della figura dell'amministratore di
condominio, i cui compiti vanno viepiù incrementandosi sia
da far ritenere che gli stessi possano venire assolti in
modo più efficace dalle società di servizi all'interno delle
quali operano specialisti in settori diversi, in grado di
assolvere alle numerose e gravi responsabilità ascritte allo
stesso amministratore dalle leggi speciali», la più recente
decisione pone in qualche modo un limite, precisando che
l'amministratore (che pure rimane custode delle parti comuni
nonostante la presenza di un appaltatore che debba eseguirvi
degli interventi) risponderà dei danni derivati dalla
cattiva esecuzione dei lavori da parte di un'impresa terza,
solo qualora effettivamente egli vigilando con attenzione
potesse accorgersene ed evitarli.
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Il quadro
01|RISPONDE L'IMPRESA
In caso di danni agli alloggi privati nel corso di lavori
di rifacimento di parti condominiali, ne risponde l'impresa
quando l'appaltatore svolge la propria prestazione
normalmente
in piena autonomia, utilizzando i mezzi che ritiene
adeguati, quindi (a meno
che si limiti a eseguire senza possibilità di margine
le istruzioni che riceve dall'appaltante) risponde
dei danni causati a terzi
02|IL CONDOMINIO
Il condominio (appaltante) risponde per «culpa in eligendo»,
per aver affidato
i lavori a un'impresa che palesemente difettava delle
necessarie capacità tecniche
03|L'AMMINISTRATORE
L'amministratore risponde dei danni per «culpa in
vigilando», quando venga meno al proprio dovere
di controllare la corretta esecuzione dei lavori da parte
dell'impresa; non risponde qualora i danni siano stati
causati da una scelta
propria dell'impresa che l'amministratore non poteva evitare
neppure utilizzando
la normale diligenza
nello svolgimento delle proprie mansioni
04|SOLIDARIETÀ
È poi inoltre possibile che
i soggetti interessati:
impresa condominio
e amministratore,
rispondano dei danni verso terzi in solido tra loro (articolo Il Sole 24 Ore del
04.11.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Seminterrati,
ok al recupero in sette Regioni. Ammesso il riutilizzo
versando gli oneri di urbanizzazione e rispettando
condizioni minime di luci e volume.
Per contenere il consumo
del suolo le Regioni consentono anche il recupero dei locali
interrati o seminterrati.
Con un livello di dettaglio
differente, hanno disciplinato la materia in sette:
Basilicata, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Molise, Puglia,
Sardegna e Sicilia. Con la sola eccezione della Basilicata e
del Molise -che consentono il recupero dei volumi non del
tutto fuori terra solo per destinarli ad attività terziarie
o commerciali- tutte le altre prevedono la realizzazione di
interventi per ricavarne locali a uso misto o esclusivamente
abitativo.
I requisiti
Le definizioni adottate sono le stesse: sono considerati
seminterrati i piani che hanno la superficie laterale dei
muri contro terra per non più dei 2/3. Superata questa
proporzione i locali sono classificati interrati.
Naturalmente sono proporzioni medie.
Per la fattibilità
degli interventi, le definizioni sono importanti: in
Sardegna e in Sicilia è possibile trasformare i seminterrati
unicamente in abitazioni; anche in Friuli Venezia Giulia i
locali possono essere trasformati solo in case, ma questa
operazione è possibile sia per gli interrati che per i
seminterrati. In Sardegna i locali devono essere ubicati
nelle zone omogenee B (di completamento residenziale), C (di
espansione residenziale) ed E (agricole), mentre il recupero
è vietato nelle aree dichiarate di pericolosità elevata o
molto elevata oppure a rischio elevato di frana.
In queste
tre Regioni tra i vincoli ai quali è condizionata la
realizzazione degli interventi non è prevista quello
dell’altezza minima standard prevista per le abitazioni: in
Friuli sono sufficienti 2,20 metri, mentre nelle due isole
il soffitto deve crescere di 20 centimetri (si veda anche
l'articolo a fianco).
I costi
Per molti altri vincoli non si fanno differenze in base alla
destinazione d’uso. È il caso del contributo da pagare per
il rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione
dell’intervento e delle dotazioni degli standard
urbanistici. Dal loro onere dipende anche la convenienza a
trasformare il volume. Sia il contributo relativo al costo
di costruzione che gli oneri di urbanizzazione variano da
zona a zona. La Sicilia sembra, però, la Regione in cui
l’operazione è più costosa: per ottenere il permesso di
costruire o la Scia, oltre a pagare questi due oneri a
tariffa normale, occorre anche versare una cifra pari al 20%
dell’incremento di valore del locale a seguito della
trasformazione.
Le leggi della Sardegna e della Calabria non forniscono
indicazioni su questi oneri, mentre quelle di tutte le altre
Regioni -comprese quelle che prevedono destinazioni
ulteriori rispetto al residenziale- prevedono
l’applicazione delle tariffe ordinarie previste per gli
interventi di ristrutturazione edilizia, che è la
classificazione attribuita, in genere, al recupero degli
interrati e dei seminterrati. In Lucania la trasformazione
di un volume superiore al 15% della volumetria dell’intero
edificio è possibile solo attribuendo al locale la quantità
minima di spazi per parcheggi prevista dalla legge 122/1989.
L’esistenza di quegli spazi è vincolante: se non si riesce a
reperirli non si può ricorrere alla loro monetizzazione,
cioè superare il problema con il pagamento di una somma al
comune. Niente monetizzazione anche in Puglia. Questa
alternativa è, invece, prevista dalla legge del Molise, la
quale richiede che il titolare dell’intervento di recupero
conferisca al Comune le superfici idonee a compensare gli
standard urbanistici mancanti, nel caso si operi in deroga
ai limiti previsti dal Dm 1444/1968, sulla densità edilizia,
l’altezza e la distanza tra fabbricati; la cifra da versare
è calcolata in base ai costi correnti di esproprio dell’area
da conferire.
La legge sarda demanda, invece, ai consigli
comunali la determinazione della cifra da corrispondere, nei
casi in cui la mancanza di spazi dimostri l’impossibilità di
destinare a parcheggi una superficie di almeno 10 metri
quadri (articolo Il Sole 24 Ore del
03.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dal 2015 rischio azzeramento
per i «premi» degli avvocati.
Personale. Vanno adeguati i contenuti, ma sono «congelati».
Il nuovo restyling delle
regole per i compensi degli avvocati pubblici, intervenuto
nel Dl 90/2014 appena sette mesi dopo la disciplina
introdotta con la legge di stabilità dell'anno scorso,
rischia di bloccare del tutto il meccanismo dei “premi”.
Andando oltre la riduzione dei diritti di toga, l’articolo 9
del decreto differenzia il trattamento da riservare ai
legali dell’Avvocatura dello Stato da quello che si deve
riconoscere agli avvocati delle altre Pubbliche
amministrazioni, ma un presupposto li accomuna: le nuove
disposizioni «si applicano a decorrere dall’adeguamento dei
regolamenti e dei contratti collettivi», così prescrive il
comma 8. Nello stesso senso si può leggere il comma 5, che
indica le medesime fonti normative deputate alla
individuazione dei criteri per il riparto dei compensi fra i
legali.
Nulla quaestio per la revisione del regolamento: già i
contratti collettivi nazionali di lavoro rimettevano a un
atto adottato dalle singole amministrazioni la disciplina di
dettaglio dell'emolumento. La modifica del quadro
legislativo di riferimento fa scaturire, quale diretta e
immediata conseguenza, la necessità di revisionare il
regolamento interno.
Il problema è rappresentato dall’adeguamento dei contratti
collettivi. Molte amministrazioni e i loro rappresentanti,
in primis l’Anci, si chiedono se la norma si riferisca ai
contratti collettivi di livello nazionale oppure possa
bastare un contratto decentrato. Se l’interpretazione
corretta dovesse abbracciare la prima ipotesi, si entrerebbe
in un circolo vizioso, che non vede una via di uscita. I
contratti nazionali sono infatti bloccati a tutto il 2014 e
il testo del disegno di legge di stabilità per il prossimo
anno, presentato dal Governo al Parlamento lo scorso 23
ottobre, prevede già una proroga a tutto il 2015.
Orizzonte
che potrebbe essere ulteriormente spostato in avanti nel
tempo. In sostanza, ciò significherebbe, in linea teorica,
spostare sine die l’entrata in vigore della nuova normativa.
Anche il far rivivere le disposizioni già contenute nei
contratti nazionali sottoscritti prima dell'entrata in
vigore del decreto 90 non appare una strada percorribile.
Questi contratti (si veda, ad esempio, l’articolo 27 del
contratto nazionale del 14.09.2000 per Regioni e
autonomie locali) rimandavano, come detto, ad una disciplina
interna dell’amministrazione, vale a dire a quel regolamento
già indicato dal nuovo testo come fonte che deve essere
adeguata. In altre parole, perderebbe di significato il
rinvio al contratto collettivo.
La questione non è di poco conto, considerato che lo stesso
comma 8 prevede una scadenza per l'adeguamento di
regolamenti e contratti collettivi. Un primo termine è
fissato in tre mesi decorrenti dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione, allo spirare del quale,
però, in caso di inadempimento, non è prevista alcuna
sanzione. Più preoccupante è sicuramente la seconda
scadenza, fissata nel 31 dicembre di quest'anno. Dal 01.01.2015, persistendo il mancato adeguamento, nessun
compenso può essere riconosciuto agli avvocati dell’ente (articolo Il Sole 24 Ore del
03.11.2014). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Acquisti, piccoli enti
verso nuovi blocchi.
Beni e servizi. A due mesi dal debutto.
A pochi mesi dal via, ci
si interroga sull’effettiva applicabilità della
centralizzazione degli acquisti disposta dall’articolo 33,
comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, modificato
dai decreti legge 66 e 90 del 2014.
È ormai assodato che gli
obblighi riguardano l'intero processo gestionale e non solo
la fase di gara, nonostante alcune rilevanti perplessità
sulla centralizzazione integrale dell'affidamento dei
servizi pubblici e delle nuove opere, prestazioni poco
standardizzabili e bisognose di competenze specialistiche
non sempre disponibili nelle centrali uniche; per queste
fattispecie si potrebbero utilizzare semmai le forme di
“committenza ausiliaria” previste dalla Direttiva
24/2014/UE.
Ma il nodo essenziale riguarda le spese in economia. In base
alla disciplina in esame, i Comuni con più di 10mila
abitanti possono procedere autonomamente agli acquisti di
beni, servizi e lavori di valore inferiore a 40mila euro;
gli enti sotto soglia sono invece costretti a ricorrere alla
Centrale Unica per ogni spesa (a parte quelle effettuate
tramite economato).
La scelta rischia di rivelarsi iniqua e controproducente;
non ha molto senso infatti “burocratizzare” le spese di
importo limitato, come la sostituzione di una finestra rotta
nelle scuole, che un ente potrebbe effettuare rapidamente in
base all'articolo 125 del Codice dei contratti. In questi
casi il costo della centralizzazione supera ogni possibile
economia di scala e -a ben vedere- mette a repentaglio la
condivisione stessa del disegno riformatore generale.
Sarebbe utile quindi esentare tutti gli enti dall’obbligo di
accentrare le spese d'importo inferiore a 40mila euro, oltre
agli interventi di somma urgenza, per ragioni di efficienza
e di snellimento amministrativo. Ciò alla luce anche della
Direttiva 2014/24/UE, che pur implementando il percorso per
la centralizzazione degli acquisti precisa al considerando
59: «l’aggregazione e la centralizzazione delle committenze
dovrebbero essere attentamente monitorate per evitare
un’eccessiva concentrazione del potere d’acquisto e
collusioni, nonché di preservare la trasparenza e la
concorrenza e la possibilità di accesso al mercato per le Pmi».
Senza una deroga del genere, i Comuni fino a 10mila abitanti
si troverebbero ancora una volta in uno stato di totale
paralisi (come è accaduto già nel luglio scorso). Proprio
per l’importanza degli obiettivi di contenimento della spesa
pubblica, è necessario che vengano adottati per tempo gli
opportuni correttivi anziché l'ennesima proroga di fine
anno (articolo Il Sole 24 Ore del
03.11.2014). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9,
secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, ha efficacia di
legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge
urbanistica), aggiunto dall’art. 17 della legge 06.08.1967,
n. 765.
Ne consegue che, poiché il citato art. 9 dispone
l’inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza
e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati –in
caso di redazione o revisione dei propri strumenti
urbanistici– a non discostarsi dalle regole fissate da tale
norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali
siano con esse in contrasto.
2.1. – Il secondo motivo censura la sentenza la quale
–dopo avere formulato considerazioni fuorvianti sulla
presunta ripartizione delle distanze ritenuta dal tribunale–
aveva erroneamente escluso l’applicazione del d.m. n. 1444
del 1968 le cui disposizioni trovano applicazione anche
quando il regolamento edilizio, di cui il Comune si sia
successivamente dotato, non sia conforme alle relative
prescrizioni.
Nella specie, prima della delibera consiliare n. 417 del
1979, con la quale aveva recepito le disposizioni di cui al
d.m. n. 1444 del 1968, il Comune si era dotato del piano
regolatore generale, che era stato approvato con decreto del
Ministro lavori pubblici del 1971, con l’effetto che, se
anche in esso non era previsto il distacco di metri dieci,
lo stesso doveva ritenersi automaticamente inserito.
2.2. - Il motivo è fondato In tema di distanze tra
costruzioni, l’art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968,
n. 1444, ha efficacia di legge dello Stato, essendo stato
emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto
dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765; ne consegue
che, poiché il citato art. 9 dispone l’inderogabilità dei
limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati, i Comuni sono obbligati –in caso di redazione o
revisione dei propri strumenti urbanistici– a non
discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali
comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse
in contrasto.
Nella specie, può ritenersi pacifico che il regolamento
vigente al momento della costruzione realizzata dai
convenuti era stato adottato nel 1967 (prima dell’entrata in
vigore del decreto del 1968) ma venne approvato nel 1971.
Orbene, al fine di stabilire se lo stesso dovesse osservare
le prescrizioni di cui al citato decreto ministeriale e se
dovessero prevalere le disposizioni di quest’ultimo in caso
di contrasto, va considerata la natura del procedimento di
formazione dello strumento urbanistico, che è un atto
complesso, il quale si conclude con l’approvazione da parte
dell’organo di controllo di guisa che, prima di tale atto,
esso è improduttivo di effetti. Ne consegue che la
circostanza che lo stesso fosse stata adottato in data
anteriore al decreto n. 1444 del 1968 è irrilevante, posto
che la normativa alla quale esso doveva conformarsi era
quella vigente al momento della sua approvazione.
Pertanto, la sentenza ha erroneamente ritenuto che, essendo
il regolamento locale preesistente all’entrata in vigore del
d.m. n. 1444 del 1968, non trovassero applicazioni le più
restrittive norme in materia di distanze tra fabbricati
previste dal suddetto decreto (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 11.11.2014 n. 24013 -
link a http://renatodisa.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
In caso di uso indebito, per scopi personali,
dell’utenza telefonica di cui il pubblico ufficiale abbia la
disponibilità per ragioni d’ufficio, ciascuna telefonata
compiuta con l’apparecchio di servizio integra un’autonoma
condotta di peculato d’uso, rispetto alla quale dovrà dunque
essere compiuta la verifica di offensività e, quindi, di
rilevanza penale del fatto; ciò salvo che, per l’unitario
contesto spaziotemporale, le plurime chiamate non possano
ritenersi integrare un’unica ed indivisibile condotta.
È invero connaturale alla fattispecie di peculato d’uso che
l’agente agisca all’esclusivo fine di fare un uso momentaneo
della cosa e che questa, dopo l’uso, sia stata
immediatamente restituita. L’elemento della “fisica”
sottrazione della res alla sfera di disponibilità e
controllo della pubblica amministrazione non è essenziale,
in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal
legislatore, di tal che il peculato d’uso risulta
configurabile anche nel caso in cui l’apparecchio non esca
mai dalla materiale disponibilità della pubblica
amministrazione e, nondimeno, il telefono assegnatogli per
le esigenze dell’ufficio sia utilizzato dal pubblico agente
per fini personali.
Tuttavia, proprio la struttura della fattispecie del
peculato d’uso, presupponendo l’uso momentaneo, è
inconciliabile con un uso prolungato della cosa altrui.
1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
2. A prescindere dalla inammissibilità delle deduzioni in
fatto compiute dal difensore (laddove ha elencato le
telefonate compiute dalla ricorrente verso la (…), cioè
quelle che secondo l’ipotesi d’accusa dovrebbero essere le
più costose, indicandone l’ammontare complessivo di 20 Euro
circa, ed ha sollecitato una rivalutazione delle emergenze
processuali, improponibile nella sede di legittimità),
ritiene il Collegio che la sentenza in verifica non sia
adeguatamente motivata, ed anzi si appalesi generica ed
assertiva, nella parte in cui ha ritenuto che la condotta
delittuosa serbata da B.L. abbia cagionato un apprezzabile
danno alla pubblica amministrazione.
Al riguardo, occorre premettere che, come questa Corte ha
avuto modo di chiarire pronunciandosi a Sezioni Unite, in
tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il
telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei casi
d’urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni,
integra il reato di peculato d’uso se produce un danno
apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una
lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve
ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze
economicamente e funzionalmente significative (Cass. Sez. U,
n. 19054 del 20/12/2012, Vattani e altro, Rv. 255296).
Nella diffusa motivazione della citata pronuncia, si è in
particolare evidenziato che “non può non rilevarsi,
giusta quanto già segnalato nell’analisi generale del
peculato (ma la sottolineatura è qui particolarmente
doverosa), che il raggiungimento della soglia della
rilevanza penale presuppone comunque l’offensività del
fatto, che, nel caso del peculato d’uso, si realizza con la
produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a.
o di terzi ovvero con una concreta lesione della
funzionalità dell’ufficio: eventualità quest’ultima che
potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo
nelle situazioni regolate da contratto c.d. “tutto incluso”.
L’uso del telefono d’ufficio per fini personali,
economicamente e funzionalmente non significativo, deve
considerarsi, quindi (anche al di fuori dei casi d’urgenza,
espressamente previsti dall’art. 10, comma 3, del d.m.
28.11.2000, o di eventuali specifiche e legittime
autorizzazioni), penalmente irrilevante. Considerata, poi,
la struttura del peculato d’uso (che implica l’immediata
restituzione della cosa), la valutazione in discorso non può
che essere riferita alle singole condotte poste in essere,
salvo che le stesse, per l’unitario contesto
spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una
condotta inscindibile”.
3. Ritiene il Collegio che la Corte territoriale non abbia
fatto buon governo dei principi affermati da questa Corte a
Sezioni Unite, laddove non ha proceduto ad una
commisurazione puntuale del danno economico cagionato alla
pubblica amministrazione, così da poter affermare che la
condotta abbia superato la soglia di rilevanza penale. In
particolare, il giudice di secondo grado non ha verificato
se l’utilizzo da parte dell’imputata del telefono presente
nel suo alloggio di servizio abbia cagionato un apprezzabile
danno al patrimonio della p.a., non ricorrendo, nella
specie, i presupposti per ravvisare una concreta lesione
della funzionalità dell’ufficio (stante la plurioffensività
alternativa del delitto di peculato ribadita anche dalle
Sezioni Unite), in quanto si trattava di situazione regolata
da contratto “a consumo” e non “tutto incluso”.
Ed invero, pur a fronte di una specifica doglianza mossa con
l’atto d’appello, la Corte territoriale si è limitata ad
osservare sul punto che “È dunque da considerare certo
che, nell’unitario spazio temporale preso in considerazione,
che per il costante plurimo utilizzo giornaliero fatto del
telefono di servizi a fini privati, non può che essere
individuato in tutto il periodo preso in considerazione,
l’appellante abbia comunque procurato un danno economico
stimabile in varie decine di Euro, che, ovviamente, non può
essere considerato trascurabile e, comunque, stimabile al di
sotto della soglia minima di rilevanza penale”.
Tale passo della motivazione si appalesa censurabile sotto
un triplice profilo.
3.1. Sotto un primo aspetto, la Corte territoriale si è
limitata ad affermare che il danno procurato alla
amministrazione è “stimabile in varie decine di Euro”
e, “ovviamente, non può essere considerato trascurabile”,
senza, in effetti, quantificarne in modo esatto l’ammontare,
così da consentire –anche in questa sede di legittimità– la
verifica in ordine alla correttezza della valutazione in
termini di non irrilevanza del danno cagionato e, quindi, di
obbiettiva offensività del fatto.
3.2. Sotto diverso e più rilevante profilo, va evidenziato
come la Corte abbia proceduto alla commisurazione del danno
economico cagionato alla pubblica amministrazione
nell’intero ed unitario spazio temporale preso in
considerazione, cioè dall’ottobre 2007 al maggio 2008 (come
dato atto alle pagine 7 e 9 della impugnata sentenza), e ciò
tenuto conto del “costante plurimo utilizzo giornaliero
fatto del telefono di servizio a fini privati”.
Il che si pone –almeno per come è stato argomentato nella
decisione in verifica– in evidente contrasto con le chiare
indicazioni di questa Suprema Corte a Sezioni Unite, che al
riguardo hanno evidenziato che la struttura del peculato
d’uso, che implica l’immediata restituzione della cosa,
impone la valutazione del danno economico cagionato alla
pubblica amministrazione come “riferita alle singole
condotte poste in essere, salvo che le stesse, per
l’unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a
costituire una condotta inscindibile”.
In altri termini, secondo l’insegnamento dato dalle Sezioni
Unite, in caso di uso indebito, per scopi personali,
dell’utenza telefonica di cui il pubblico ufficiale abbia la
disponibilità per ragioni d’ufficio, ciascuna telefonata
compiuta con l’apparecchio di servizio integra un’autonoma
condotta di peculato d’uso, rispetto alla quale dovrà dunque
essere compiuta la verifica di offensività e, quindi, di
rilevanza penale del fatto; ciò salvo che, per l’unitario
contesto spaziotemporale, le plurime chiamate non possano
ritenersi integrare un’unica ed indivisibile condotta.
È invero connaturale alla fattispecie di peculato d’uso che
l’agente agisca all’esclusivo fine di fare un uso momentaneo
della cosa e che questa, dopo l’uso, sia stata
immediatamente restituita. Come chiarito dalle Sezioni Unite
nella già ricordata sentenza, l’elemento della “fisica”
sottrazione della res alla sfera di disponibilità e
controllo della pubblica amministrazione non è essenziale,
in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal
legislatore, di tal che il peculato d’uso risulta
configurabile anche nel caso in cui l’apparecchio non esca
mai dalla materiale disponibilità della pubblica
amministrazione e, nondimeno, il telefono assegnatogli per
le esigenze dell’ufficio sia utilizzato dal pubblico agente
per fini personali. Tuttavia, proprio la struttura della
fattispecie del peculato d’uso, presupponendo l’uso
momentaneo, è inconciliabile con un uso prolungato della
cosa altrui (Cass. Sez. 6, n. 1862 del 20/10/1992, Riggio Rv.
193529).
Cercando di esemplificare, potrà allora ravvisarsi
un’unitaria condotta di peculato d’uso allorché le plurime
telefonate siano state compiute nello stesso giorno o in un
arco temporale ristretto o ancora se, pur in un intervallo
più ampio, l’utilizzo dell’apparecchio di servizio da parte
dell’agente sia così intenso e senza soluzioni di continuità
da poter considerare le diverse chiamate, in quanto cosi
ravvicinate nel tempo, espressione di una condotta unitaria.
3.3. In ossequio a tali condivisibili principi, la Corte
siciliana avrebbe pertanto dovuto argomentare, in modo
puntuale e con specifico ancoraggio alle risultanze
obbiettive del traffico telefonico fornito dal gestore, la
ragione per la quale –sebbene, in linea generale, debbano
ritenersi consumate tante condotte di peculato d’uso quante
sono le telefonate fatte dall’agente con l’apparecchio di
servizio– nel caso specifico, stante l’unitario contesto
spazio-temporale, le diverse chiamate effettuate
dall’imputata dovessero stimarsi integrare un’unica ed
inscindibile condotta.
Onere argomentativo che non può ritenersi assolto in modo
adeguato mediante l’apodittica e del tutto generica
asserzione fatta sul punto dalla Corte territoriale, laddove
ha commisurato il danno economico procurato alla pubblica
amministrazione (ritenendolo appunto non trascurabile e
quindi rilevante ai fini della integrazione del reato) “nell’unitario
spazio temporale preso in considerazione” “per il
costante plurimo utilizzo giornaliero fatto del telefono di
servizi a fini privati”.
Il giudice d’appello avrebbe, infatti, dovuto rigorosamente:
1) verificare, lasciandone circostanziata traccia
argomentativa nel provvedimento, se, nel lasso temporale di
nove mesi sotto lente, potesse ravvisarsi, in taluni giorni
o periodi, una concentrazione di chiamate tale da
consentirne una valutazione unitaria; 2) accertare quale
danno economico tali “grappoli” di conversazioni
telefoniche integranti peculato d’uso avessero cagionato
all’amministrazione; 3) evidenziare se le condotte così
unitariamente considerate superassero la soglia di rilevanza
penale.
4. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con
rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo
perché proceda ad un nuovo giudizio, tenendo conto dei
principi e criteri valutativi sopra precisati (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 10.11.2014 n. 46282 -
link a http://renatodisa.com). |
CONDOMINIO:
Il parcheggio di autovetture costituisce
manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del
suolo, non anche estrinsecazione di un potere di fatto
riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, del
quale difetta la realitas, intesa come inerenza al fondo
dominante dell’utilità, così come al fondo servente del
peso, mentre la mera commoditas di parcheggiare l’auto per
specifiche persone che accedano al fondo (anche
numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli
estremi della utilità inerente al fondo stesso,
risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale
dei proprietari.
Con il primo motivo la società ricorrente deduce
sostanzialmente che i giudici di merito hanno riconosciuto a
favore della attrice una servitù di parcheggio che, invece,
secondo la costante giurisprudenza di questa S.C. non è
configurabile.
La doglianza è fondata.
Questa S.C., infatti, ha anche di recente avuto occasione di
affermare che il parcheggio di autovetture costituisce
manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del
suolo, non anche estrinsecazione di un potere di fatto
riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, del
quale difetta la realitas, intesa come inerenza al
fondo dominante dell’utilità, così come al fondo servente
del peso (sent. 07.03.2013 n. 5760), mentre la mera
commoditas di parcheggiare l’auto per specifiche persone
che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può
in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente
al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio
affatto personale dei proprietari (sent. 28.04.2004 n.
8137)..
Ne consegue che sia che si voglia ritenere che nella specie
non rileva accertare se la Corte di appello nella sua
confusa motivazione ha inteso affermare che le parti con il
contratto in data 21.08.1990 avevano dato vita ad un
riconoscimento di una servitù già esistente oppure che
avevano costituito una servitù a favore di terzo, essendo in
entrambi i casi nulla la volontà negoziale per impossibilità
dell’oggetto. Tale nullità, poi, poteva essere dedotta per
la prima volta anche in questa sede ai sensi dell’art. 1421
cod. civ.
Vengono ad essere assorbiti il secondo ed il terzo motivo,
con i quali la società ricorrente censura la motivazione con
la quale la Corte di appello ha ritenuto che nella specie le
parti, nel citato contratto del 21.08.1990 avevano inteso
riconoscere una servitù già esistente oppure costituire una
servitù a favore di terzo (come già osservato non si
comprende a quale delle due possibilità i giudici di secondo
grado abbiano inteso riferirsi.
In considerazione della nullità per impossibilità
dell’oggetto dell’atto di riconoscimento o di costituzione
di servitù, non essendo necessari ulteriori accertamenti di
merito, questa S.C., ritiene di poter decidere la causa nel
merito con il rigetto della domanda.
In considerazione del fatto che, da un lato, la nullità di
cui sopra risulta dedotta per la prima volta in questa sede
e non è stata rilevata di ufficio nei precedenti gradii di
giudizio, ritiene il collegio di compensare le spese
dell’intero giudizio (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 06.11.2014 n. 23708 -
link a http://renatodisa.com) |
EDILIZIA PRIVATA:
Se la costruzione non rispetta la distanza legale e il
vicino fa causa il progettista paga i danni che il suo
cliente subisce.
La Corte d’Appello di Venezia stabilisce che
sussiste la responsabilità professionale del
progettista e/o direttore lavori se le opere realizzate non
sono conformi alla diposizioni legislative /o comunali in
materia di distanze e il vicino vince una causa per la
demolizione. In queste casi, infatti, il cliente ha diritto
di essere tenute indenne dal professionista di tutte le
spese (processuali e non) collegate alla realizzazione
dell’opera abusiva, salvo che il professionista abbia agito
come mero esecutore degli ordini impartiti (nudus
minister) ovvero il cliente abbia mantenuto un costante
controllo (di fatto e/o tecnico) sulla realizzazione del
manufatto.
Nella
sentenza 04.11.2014 n. 2430
si legge: “secondo risalente, ma condivisibile
giurisprudenza di legittimità, il fatto illecito,
consistente nella realizzazione di un edificio in violazione
delle distanze legali dal fondo del vicino, deve ritenersi
legato da nesso causale con il comportamento del
professionista, che abbia predisposto il progetto e diretto
i lavori, al fine dell’obbligo di quest’ultimo di rivalere
il committente delle conseguenze della sua responsabilità
verso il proprietario di quel fondo, qualora quella
irregolare ubicazione del fabbricato sia conforme al
progetto, e non sia stata impedita dal professionista
medesimo in sede di direzione dei lavori. (Cass. n. 5699 del
03/11/1979)” ed ancora che: “va osservato che in
materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale
il cliente non può imputare alcunché al professionista,
progettista e direttore dei lavori, quando è stato lui
stesso a chiedere la progettazione in un determinato modo e
quando, essendo nella possibilità di controllare agevolmente
il rispetto delle più comuni norme di legge e di
regolamentari in tema di distanze, ha accettato, facendo
acquiescenza al comportamento del professionista stesso, il
rischio di una lite con il vicino confinante (Cass. n. 5296
del 07/12/1977).
Nessuna delle ipotesi di esonero da responsabilità, quali
sopra evidenziate, sono ravvisabili nel caso di specie.
Va, invero, escluso che …. fosse in grado di controllare in
modo agevole il rispetto della normativa in materia di
distanze: nella specie non si trattava di un mero controllo
di fatto, ma anche di valutazioni di carattere giuridico,
delle quali lo … non poteva avere competenza. Che il mancato
rispetto delle predette distanze non fosse, poi, così
facilmente rilevabile emerge con tutta evidenza se solo si
consideri che la decisione di primo grado è stata ribaltata
nella presente sede di appello.
Va, altresì, escluso che lo … avesse chiesto che la
progettazione avvenisse in un certo modo. Anzi, dall’espleta
istruttoria orale di primo grado è emerso che: il geom. …
aveva curato la progettazione e la direzione lavori di altra
parte del medesimo immobile, colpita da provvedimento
giudiziale di abbattimento; che per tale ragione; al momento
del conferimento dell’incarico relativamente all’immobile
per cui è causa, al geom. … fu ricordata più volte la
precedente vicenda che si concluse con il parziale
abbattimento; che quindi lo … si raccomandò più volte al
geom. … di curare la ristrutturazione con particolare
riguardo e attenzione al fatto che si evitasse il ripetersi
di situazioni simili; che il geom. … assicurò e garantì più
volte che il progetto e l’esecuzione dell’opera sarebbero
stati eseguiti in modo inattaccabile sia sotto il profilo
urbanistico che civilistico (testi …).
Conseguentemente il … va condannato al risarcimento in
favore dello … dei danni dallo stesso patiti e come
accertati, consistenti nei costi da sostenersi per la
demolizione delle opere realizzate in contrasto con la
normativa sulle distanze dai confini e per la ricostruzione
a norma di legge” (tratto da e link a http://venetoius.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sopraelevazione costituisce una nuova costruzione.
La Corte d’Appello di Venezia conferma che
la sopraelevazione costituisce una nuova costruzione e,
dunque, deve rispettare la distanza dai confini prevista
dall’art. 873 c.c. o quella maggiore prevista dai
regolamenti comunali.
Nella
sentenza 04.11.2014 n. 2430:
“va premesso che nell’ambito delle opere edilizie la
semplice “ristrutturazione” si verifica ove gli interventi,
comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano
interessato un edificio del quale sussistono e rimangano
inalterate le componenti essenziali, quali i muri
perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre
è ravvisabile la “ricostruzione” allorché dell’edificio
preesistente siano venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si
traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza
alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece,
in ipotesi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla
disciplina in tema di distanza vigente al momento della
medesima (Cass. Sez. Un., ord. n. 21578 del 19/10/2011).
Si è, infatti, precisato che in tema di opere edilizie,
qualora siano venute meno, per eventi naturali o per
demolizione, le preesistenti strutture edilizie, di ha “mera
ricostruzione” se l’intervento si traduca nell’esatto
ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna
variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio
e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle
superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di
ingombro; in presenza di tali aumento, si verte, invece, in
ipotesi di “ nuove costruzioni”, come tale sottoposta alla
disciplina in tema di distanze vigente al momento della
medesima (Cass. n. 3391 del 11/02/2009).
D’altro canto è pacifico in giurisprudenza che in tema di
rispetto della distanza legali dalle costruzioni, la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato, è sempre
qualificabile come nuova costruzione (per tutte si veda
Cass. Sez. Un. 74 del 03/01/2011)”, nonché: “dovendosi
qualificare l’intervento di nuova costruzione, ad esso è,
pertanto, applicabile la normativa vigente al momento della
modifica e non opera il criterio della prevenzione se
riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito
dal principio di priorità temporale correlata al momento
della sopraelevazione (Cass. Sez. Un. n. 74 del 03/01/2011,
citata)”.
Nessuna circostanza può rivestire il fatto che la
sopraelevazione costituisca un volume tecnico perché:
“diverso è il concetto di volume edificabile ai fini
urbanistici e di nuova costruzione: il fatto che un
sottotetto di una determinata altezza non sia computato nel
volume edificabile, non per ciò solo va escluso che si
tratti di costruzione, laddove abbia le caratteristiche
sopra evidenziate. D’altro canto la ratio delle norme
regolamentari che impongono determinate distanze dai confine
per le costruzioni è quella di evitare che determinate zone
cittadine siano densamente costruite e, per contro, che
nella stesse zone le costruzioni siano isolate dai confini
del filo stradale e tra loro mediante gli spazi previsti”
(tratto da e link a http://venetoius.it). |
VARI: Condanna per chi non tiene puliti i cani.
Animali. Sanzionate anche le emissioni di rumore.
È un reato non impedire
le esalazioni maleodoranti provenienti dalle gabbie in cui
sono tenuti alcuni cani, arrecando disturbo agli abitanti
del condominio vicino.
Questa la decisione presa dalla Corte
di cassazione, III Sez. penale, con la
sentenza
03.11.2014 n. 45230.
La vicenda si svolge in un condominio in cui i giudici di
merito, anche a seguito di diversi sopralluoghi della Asl,
accertavano la presenza dal settembre 2008 al luglio 2011 di
cinque cani tenuti in gabbia, la cui incuria generava la
violazione dei seguenti due reati a carico del proprietario:
l'articolo 674 «Getto pericoloso di cose» (tra cui
l'imbrattamento), per la pulizia non adeguata dei recinti,
con conseguenti esalazioni maleodoranti; e l'articolo 659
«Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone» per
il continuo abbaiare di giorno e di notte.
La Corte, per
quanto riguarda il primo reato, ha specificato che in tema
di «molestie olfattive», quando non esiste una
predeterminazione normativa dei limiti delle emissioni, si
fa riferimento alla normale tollerabilità disciplinata
dall'articolo 844 del Codice civile. Sul reato di cui
all'articolo 659, invece, ha chiarito che basta che la
situazione sia «potenzialmente idonea» a danneggiare un
«numero indeterminato di persone», anche se (come nel caso)
il condominio nel suo complesso non aveva intrapreso azioni
giudiziarie (articolo Il Sole 24 Ore del
04.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di sospensione dei lavori ha natura
di provvedimento cautelare e provvisorio, inteso ad evitare
che l'attività costruttiva abusivamente condotta possa
essere portata ad ulteriori conseguenze e ha efficacia
temporalmente limitata, spirando al decorso del
quarantacinquesimo giorno dalla sua adozione: e ciò sia che
venga soppiantata dal provvedimento definitivo di
demolizione, sia che quest'ultimo non venga adottato.
In ambedue i casi, infatti, l'ordinanza di sospensione dei
lavori consuma la sua efficacia e l'eventuale sua
impugnazione, quand’anche proposta prima del decorso dei
quarantacinque giorni dalla sua notificazione, diviene
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse a motivo
della postuma perdita di effetti dell'ordinanza stessa.
L'ordinanza di sospensione dei lavori, secondo l’orientamento
della prevalente giurisprudenza, “ha natura di provvedimento
cautelare e provvisorio, inteso ad evitare che l'attività
costruttiva abusivamente condotta possa essere portata ad
ulteriori conseguenze e ha efficacia temporalmente limitata,
spirando al decorso del quarantacinquesimo giorno dalla sua
adozione: e ciò sia che venga soppiantata dal provvedimento
definitivo di demolizione, sia che quest'ultimo non venga
adottato. In ambedue i casi, infatti, l'ordinanza di
sospensione dei lavori consuma la sua efficacia e
l'eventuale sua impugnazione, quand’anche proposta prima del
decorso dei quarantacinque giorni dalla sua notificazione,
diviene improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse
a motivo della postuma perdita di effetti dell'ordinanza
stessa” (cfr. TAR Lazio, Sez. I-quater, 02.05.2013,
n. 4373; TAR Puglia Bari, sez. III, sent. n. 269 del
19.02.2014).
La sopravvenuta carenza di interesse al ricorso va
pronunciata non solo nel caso di perdita di efficacia
dell'ordinanza di sospensione dei lavori per mero decorso
del termine finale di efficacia della stessa, ma anche per
il caso in cui la perdita di efficacia dell'ordinanza di
sospensione consegua non già alla mera inerzia
provvedimentale dell'Ente locale, bensì all'emanazione
dell'ordinanza di demolizione definitiva, in aderenza alla
sequenza procedimentale delineata dagli artt. 27 e 31,
D.P.R. n. 380 del 2001
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 29.10.2014 n. 1262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il presupposto essenziale per la formazione del
silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi
edilizi, oltre al completo pagamento delle somme dovute a
titolo di oblazione, è che siano stati integralmente assolti
dall'interessato gli oneri di documentazione, relativi al
tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla
consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante
affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di
verifica dell'Amministrazione comunale.
Ne consegue che il termine per la formazione del
silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione
in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di
fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non
siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda
stessa sia carente della documentazione prevista dalla
legge.
Occorre, in altri termini, che l'amministrazione procedente
sia posta in condizioni di esaminare compiutamente la
domanda, in quanto integrata la documentazione necessaria
richiesta ex lege all'interessato dall'amministrazione.
In base al costante
indirizzo giurisprudenziale, il presupposto essenziale per
la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di
sanatoria degli abusi edilizi, oltre al completo pagamento
delle somme dovute a titolo di oblazione, è che siano stati
integralmente assolti dall'interessato gli oneri di
documentazione, relativi al tempo di ultimazione dei lavori,
all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro
elemento rilevante affinché possano essere utilmente
esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione
comunale (cfr. ex multis Consiglio Stato, sez. IV, 16.02.2011, n. 1005; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2010 n. 4174; TAR Lombardia Milano,sent. n. 127 del 22.01.2010).
Ne consegue che il termine per la formazione del
silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione
in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di
fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non
siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda
stessa sia carente della documentazione prevista dalla legge
(cfr. TAR Basilicata, sez. I, sent. n. 552, del
22.08.2014; TAR Trentino Alto Adige Trento, sent. n. 4
del 07.01.2010).
Occorre, in altri termini, che
l'amministrazione procedente sia posta in condizioni di
esaminare compiutamente la domanda, in quanto integrata la
documentazione necessaria richiesta ex lege all'interessato
dall'amministrazione (cfr. TAR Lazio Latina, 03.03.2010
n. 204; TAR Puglia, Lecce, sez. III, sent. n. 16 del
10.01.2012) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 29.10.2014 n. 1262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I vincoli di inedificabilità sopravvenuti alla
realizzazione dell'intervento edilizio non sono privi di
rilevanza, ma costituiscono comunque vincoli relativi ai
sensi dell'art. 32 della l. n. 47 del 1985, che impongono in
ogni caso un apprezzamento concreto di compatibilità.
In ogni caso, il Collegio
richiama l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i
vincoli di inedificabilità sopravvenuti alla realizzazione
dell'intervento edilizio non sono privi di rilevanza, ma
costituiscono comunque vincoli relativi ai sensi dell'art.
32 della l. n. 47 del 1985, che impongono in ogni caso un
apprezzamento concreto di compatibilità (Cons. St., Sez. IV,
04.12.2012, n. 2576) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 29.10.2014 n. 1262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
La visita allo studio di un avvocato per
sottoporgli un atto di citazione fa scattare il diritto alla
parcella anche se poi il cliente decide di non affidargli
l’incarico di difesa in giudizio.
- Rilevato che il Consigliere designato, Dott. A. Scalisi,
ha depositato ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c., la
seguente proposta di definizione del giudizio: “Preso
atto che La società (OMISSIS) srl proponeva opposizione
avverso il decreto ingiuntivo 752/2008 emesso dal Giudice di
Pace di Pisa con il quale veniva ingiunta alla società
(OMISSIS) la somma di euro 738,20 oltre interessi e spese
per prestazioni professionali asseritamente fornite alla
ricorrente. La società (OMISSIS) chiedeva la revoca del DI.
in quanto contestava che all’avv. (OMISSIS) fosse mai stato
conferito alcun mandato professionale ne’ che mai la stessa
avesse effettuato prestazioni professionali in favore della
stessa.
Il Giudice di Pace, con sentenza n. 2305/2009 rigettava
l’opposizione.
Avverso tale sentenza proponeva appello la società (OMISSIS)
srl lamentando essenzialmente l’erroneità e la
contraddittorietà della motivazione per aver ritenuto come
provato l’incarico professionale all’avvocato (OMISSIS) da
parte del legale rappresentante della società (OMISSIS).
Il Tribunale di Pisa con sentenza n. n. 863 del 2012,
rigettava l’appello e confermava la sentenza impugnata.
Secondo il Tribunale di Pisa la decisione del Giudice di
Pace andava confermata posto che era stato evidenziato come
alcuni incaricati della (OMISSIS) in data 05.07.2004 si
recarono presso lo studio del legale (OMISSIS) al fine di
far esaminare allo stesso un atto di citazione per una causa
già pendente dinnanzi al Tribunale di Pisa.
Successivamente seguiva una missiva da parte del legale alla
(OMISSIS) srl con la quale l’avvocato (OMISSIS) invitava la
società a prendere contatti con lo studio legale al fine di
formalizzare l’incarico professionale.
Per quanto, poi, non sia effettivamente seguito il
conferimento formale dell’incarico non vi era dubbio che il
professionista aveva impegnato il proprio tempo e le proprie
competenze professionali.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dalla
società (OMISSIS) con ricorso affidato a due motivi. L’avv.
(OMISSIS) in questa fase non ha svolto attività giudiziale.
Considerato che:
1.- La società Immobiliare srl lamenta:
a) Con il primo motivo la violazione e falsa applicazione
dell’articolo 112 c.p.c., e dell’articolo 360, n. 3, per
vizio di ultra petizione su fatto controverso e decisivo.
Secondo la ricorrente il Tribunale di Pisa non avrebbe
tenuto presente che la stessa attrice aveva dichiarato di
avere svolta solamente attività prodromica all’incarico
chiedendo poi compenso per attività giudiziale che non si
mai effettuata.
b) Con il secondo motivo la violazione dell’articolo 360, n.
5, per omesso esame circa un fatto controverso e decisivo
per il giudizio. Secondo la ricorrente il Tribunale di Pisa
non avrebbe prestato alcuna attenzione alle diverse
prospettazioni fatte dall’avv. (OMISSIS) omettendo un
accurato esame delle diverse ricostruzioni della stessa, in
particolare sul fatto controverso dell’affidamento
dell’incarico dell’accettazione dello stesso e dell’attività
che nel caso di avvenuta accettazione non risulta sia stata
svolta dalla controparte.
1.1.- Entrambi i motivi, che vanno esaminati congiuntamente
per l’innegabile connessione che esiste tra gli stessi, sono
infondati e non solo perché si risolvono nella richiesta di
una nuova e diversa valutazione delle risultanze istruttorie
non proponibile nel giudizio di legittimità se, come nel
caso in esame, la valutazione effettuata dal Giudice del
merito non presenta vizi logici o giuridici, ma, anche
perché il Tribunale non ha omesso di valutare tutti i dati
e/o, comunque, i dati essenziali, acquisiti agli atti del
giudizio. In particolare il Giudice di Pace prima e il
Tribunale dopo hanno avuto modo di chiarire che in data
05.07.2004 incaricati della (OMISSIS) si recavano presso lo
studio del legale (OMISSIS) al fine di fare esaminare un
atto di citazione per una causa già pendete dinanzi al
Tribunale di Pisa. E, di più, il Tribunale ha avuto modo di
chiarire che non si trattò di un mero colloquio informativo
ma vennero sottoposti all’attenzione del legale atti
giudiziali ancora in possesso in copia dell’Avvocato
(OMISSIS) e prodotti in giudizio, al fine di ottenere un
parere ed in vista di un futuro mandato professionale.
Emerge con chiarezza, dunque, la sussistenza di un rapporto
professionale tra la società (OMISSIS) e il legale (OMISSIS)
e il conferimento di un incarico, dalla società (OMISSIS) al
legale (OMISSIS), avente ad oggetto un parere professionale
in merito ad una causa già pendente presso il Tribunale di
Pisa.
Pertanto correttamente il Tribunale ha ritenuto che il
professionista avendo impegnato il proprio tempo e le
proprie competenze professionali andava compensato secondo
il tariffario forense.
In definitiva, si propone il rigetto del ricorso";
- Tale relazione veniva comunicata al PM ed ai difensori
delle parti costituite.
- Il Collegio, condivide argomenti e proposte contenute
nella relazione ex articolo 380-bis c.p.c., alla quale non
sono stati mossi rilievi critici. Evidenzia, altresì, che il
ricorso difetta, comunque, di autosufficienza dato che il
ricorrente, pur facendo riferimento ad una prova
testimoniale ha omesso di indicare i capitoli di prova non
ammessi funzionali alla dimostrazione della propria difesa.
- In definitiva, il ricorso va rigettato: Non occorre
provvedere alla liquidazione delle spese del presente
giudizio di cassazione dato che l’avv. (OMISSIS),
regolarmente intimato, in questa fase non ha svolto attività
giudiziale.
- Il Collegio, ai sensi del Decreto del Presidente della
Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da
atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte
dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso
principale a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis (Corte
di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 27.10.2014 n. 22737 -
link a http://renatodisa.com) |
ENTI LOCALI
-VARI: Compiti vigili.
No avvisi? La multa si straccia.
Se il vigile non avverte l'interessato della facoltà di
farsi assistere dal difensore prima dell'effettuazione
dell'alcoltest e non lo indica nel verbale il conseguente
decreto penale di condanna rischia di diventare carta
straccia.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con
l'ordinanza 21.10.2014 n. 43847 che ha rinviato
alle sezioni unite la decisione finale.
Un automobilista condannato con decreto penale per guida
alterata dall'alcol ha proposto con successo opposizione al
tribunale evidenziando la lacuna formale realizzata dagli
organi di vigilanza che al momento del controllo non lo
hanno informato della facoltà di farsi assistere da un
legale.
Contro questa decisione la procura ha avanzato censure ai
giudici del Palazzaccio. L'omesso avviso all'indagato per
guida alterata della facoltà di farsi assistere da un
difensore configura una nullità a regime intermedio,
facilmente sanabile se non eccepita tempestivamente.
Sul punto esistono però due distinti orientamenti, specifica
il collegio. Il primo, più restrittivo, comporta la
necessità di sollevare l'eccezione molto velocemente ai
sensi dell'art. 121 cpp..
Il secondo invece giunge all'opposta conclusione di
considerare tempestiva l'eccezione di nullità sollevata con
il primo atto procedimentale utile che spesso coincide anche
con l'opposizione al decreto penale di condanna. Spetterà
alle sezioni unite chiarire definitivamente la questione
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.11.2014). |
TRIBUTI: Tassato l'annuncio immobiliare.
Il cartello in vetrina non è pari ai prodotti sugli scaffali.
La Corte di cassazione: agenzie di mediazione soggette
all'imposta sulla pubblicità.
Gli annunci immobiliari esposti nelle agenzie costituiscono
pubblicità a tutti gli effetti e, quindi, scontano
l'applicazione della relativa imposta comunale. Una nuova
tegola si abbatte sui mediatori immobiliari in un periodo
non certo facile per il settore.
La Corte di
Cassazione, Sez. VI civile, con
ordinanza 16.10.2014 n. 21966, ha infatti
stabilito, in maniera per certi versi sorprendente, che i
mediatori siano costretti a versare al comune l'imposta
sulla pubblicità ogni volta che, come di regola avviene,
espongano sulla propria vetrina i cartelli reclamizzanti gli
immobili in vendita e/o in locazione.
Il caso in questione nasce dall'annullamento concesso dalla
Commissione tributaria provinciale di un avviso di
accertamento emesso dal comune di Verona nei confronti del
titolare di un'agenzia immobiliare.
Nella specie l'ente locale pretendeva, infatti, di
assoggettare all'imposta comunale di pubblicità i cartelli
esposti sulle vetrine del mediatore e che raffiguravano gli
immobili in vendita con la relativa descrizione. Il
contribuente aveva prontamente impugnato l'atto impositivo e
in primo grado il giudice tributario aveva accolto le sue
ragioni. Lo stesso era avvenuto in appello, in quanto la
Commissione tributaria regionale del Veneto aveva confermato
la decisione di prime cure, ritenendo che la vetrina di
un'agenzia immobiliare, così come lo scaffale di un
qualsiasi esercizio commerciale, avrebbe semplicemente lo
scopo di esporre i prodotti offerti al pubblico. Di
conseguenza il cartoncino contenente il logo dell'agenzia,
nonché le foto e la descrizione dell'immobile, non
integrerebbe un vero e proprio messaggio pubblicitario.
Di qui il ricorso in Cassazione dell'amministrazione
comunale che, del tutto in disaccordo con il giudice
tributario, riteneva che i cartelli solitamente affissi
nelle agenzie immobiliari non possano affatto essere
parificati ai prodotti trattati dagli esercizi commerciali,
ma costituiscano delle vere e proprie réclame pubblicitarie,
come tali assoggettabili all'imposta locale. Occorre dire
che la pervicacia dimostrata dal comune di Verona ha avuto
successo perché, come detto, la Suprema corte, ribaltando i
precedenti gradi di giudizio, ha stabilito proprio questo
principio, che ora probabilmente non farà dormire sonni
tranquilli ai titolari delle agenzie immobiliari.
La Cassazione, infatti, ha ritenuto addirittura fuorviante,
benché suggestiva, l'equiparazione del cartello al prodotto
del commercio al dettaglio perché nel primo caso, a
differenza del secondo, il bene esposto in vetrina e offerto
in vendita/locazione al pubblico non è presente fisicamente
nei locali nei quali viene esercitata l'attività di
mediazione ma, appunto, viene semplicemente descritto
attraverso immagini e testi. Ciò posto, secondo i supremi
giudici, non si può allora che ritenere che i cartelli delle
agenzie immobiliari costituiscano dei messaggi pubblicitari,
visto che il presupposto per l'applicazione della relativa
imposta, ai sensi dell'art. 5 del dlgs n. 507/1993, è la
«diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso
forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle
assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali
luoghi percepibile». Per la Suprema corte è dunque
innegabile che l'esposizione in vetrina di un cartello
contenente la descrizione di un immobile offerto in vendita
o in locazione abbia lo scopo di promuovere l'attività del
mediatore immobiliare finalizzata alla conclusione
dell'affare e costituisca, dunque, un messaggio
pubblicitario.
I giudici di legittimità hanno operato anche un interessante
distinguo, mettendo a confronto il caso dell'attività di
mediazione svolta tradizionalmente in negozi con vetrine
posti sul fronte della strada con quello
dell'intermediazione esercitata in locali siti ai piani alti
degli edifici, ospitata in veri e propri appartamenti
(modalità alternativa di gestione dell'attività che,
complice la crisi, sembra attualmente in fase di rilancio).
Ebbene, secondo la Suprema corte in questo secondo caso
l'agente immobiliare che lavora ricevendo nel proprio
ufficio i soggetti interessati all'acquisto o alla locazione
di un immobile, ascoltando le loro esigenze e, quindi,
illustrando loro le soluzioni che reputa più adatte,
all'occorrenza mostrando loro le relative foto, non espone
evidentemente alcun cartello pubblicitario e, quindi, non
ricorre alcun presupposto impositivo.
Al contrario, invece, nell'agenzia sita al piano terra e
munita di vetrine sulle quali sono affissi i vari annunci il
titolare intende proprio pubblicizzare gli immobili in essi
descritti al fine di promuovere fra il pubblico la richiesta
dei suoi servizi di mediazione. In questo secondo caso, come
detto, ci sarebbero quindi tutti i presupposti per
l'applicazione dell'imposta comunale sulla pubblicità.
La Corte di cassazione è quindi stata chiamata a valutare se
nella specie sussistessero i presupposti per l'esenzione
dall'imposta di cui all'art. 17, lett. a) e b), del predetto
dlgs n. 507/93. Si tratta di esenzioni previste per i meri
avvisi al pubblico, dunque attinenti all'attività esercitata
nei locali commerciali, a condizione che gli stessi nel loro
insieme non superino la superficie complessiva di mezzo
metro quadrato per ciascuna vetrina o ingresso. Anche in
questo caso è stata però esclusa la ricorrenza delle
predette ipotesi di esenzione. In effetti la finalità dei
cartelli contenti la descrizione dell'immobile offerto in
vendita o in locazione è cosa diversa da quella degli avvisi
al pubblico contenenti informazioni sull'attività esercitata
nei locali. Si pensi, per esempio, al cartello che riporti
l'orario di apertura dell'esercizio commerciale, o a quelli
che evidenzino la possibilità di utilizzare la carta di
credito o il bancomat o, ancora, a quelli che indichino la
presenza di un parcheggio convenzionato per i clienti oppure
l'affiliazione ad associazioni di categoria ecc.
Alla stregua di tale principio, i cartelli contenenti la
descrizione degli immobili intermediati dall'agenzia
immobiliare non possono ricondursi alla nozione di avvisi al
pubblico, perché essi svolgono, come sopra evidenziato, una
funzione promozionale, ossia quella di attirare verso un
immobile determinato l'attenzione di chi abbia interesse ad
acquistarlo o condurlo in locazione.
I cartelli esposti nelle vetrine delle agenzie immobiliari,
contenenti l'immagine fotografica o la scheda descrittiva
degli immobili, vanno quindi considerati a tutti gli effetti
dei mezzi pubblicitari, perché promuovono la vendita o la
locazione degli immobili raffigurati e, quindi,
pubblicizzano l'offerta dei servizi dell'agenzia che di tali
immobili gestisce la mediazione.
In questi casi, in effetti, l'agenzia immobiliare gode
dell'effetto promozionale generato dai cartelli in
questione, anche indipendentemente dalla riproduzione, sugli
stessi, del proprio logo e dei propri recapiti
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.11.2014).
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MASSIMA
Agenzia immobiliare, vetrina, cartelli pubblicitari,
imposta sulla pubblicità.
L'esposizione nella vetrina dei
locali di un'agenzia immobiliare di cartelli contenenti
fotografie e descrizioni degli immobili offerti in vendita o
in locazione integra il presupposto impositivo dell'imposta
di pubblicità, perché assolve alla funzione di pubblicizzare
(anche senza l'adozione di modalità di rappresentazione di
carattere reclamistico) tali immobili, ossia di promuoverne
la vendita o la locazione e, quindi e contestualmente, di
promuovere l'accesso del pubblico ai servizi di mediazione
offerti dall'agenzia; ciò anche a prescindere dalla
presenza, su detti cartelli, del logo e dei recapiti
dell'agenzia, in quanto la promozione dell'attività di
mediazione svolta dall'agenzia costituisce effetto immediato
e diretto della promozione dell'affare la cui mediazione sia
stata affidata all'agenzia
(tratto da www.altalex.com). |
APPALTI: Ricorsi da «girare» alle Centrali uniche.
Contenzioso. Prime sentenze dai Tar.
L’articolo 33, comma
3-bis, del Dlgs 163/2006 impone ai Comuni non capoluogo di
provincia l'acquisizione di lavori, beni e servizi
nell’ambito delle unioni di Comuni, ove esistenti, oppure
costituendo un accordo consortile (si ritiene: una
convenzione ex articolo 30 del Tuel).
Si tratta tuttavia di un progetto destinato a produrre un
drastico impatto per i Comuni -specie di minori dimensioni- che si trovano alle prese con carenze strutturali di
organico, e un sovraccarico di procedure amministrative
sempre più difficili da gestire. Il modello proposto è una
chiara digressione rispetto al modello, che doveva essere
solo facoltativo, di committenza centralizzata derivante
dalla disciplina comunitaria (15° considerando della
Direttiva 2004/18); nella previsione per gli enti locali, al
contrario, la facoltà si trasforma in un obbligo.
Il legislatore statale incide sull’autonomia comunale,
imponendo scelte organizzative i cui effetti non potranno
che essere anche di natura sostanziale e non solo
organizzativa; una conferma di ciò viene ora dal TAR Abruzzo-L’Aquila,
sentenza 16.10.2014 n. 721, per
il quale è inammissibile un giudizio avente ad oggetto
l’esclusione da una gara di appalto disposta da una Centrale
unica di committenza, costituita da più Comuni, quando il
ricorso sia stato notificato solo a un Comune facente parte
della Centrale di committenza.
Secondo il Tar, i Comuni
aderenti sono meri beneficiari della procedura espletata
dalla Centrale di committenza: conseguentemente, mentre i
risultati della gara sono imputati al Comuni, l’imputazione
formale degli atti non può che ricadere sulla Centrale di
committenza, contraddittore necessario, in quanto competente
in via esclusiva all’indizione, regolazione e gestione della
gara e responsabile della stessa (si veda Consiglio di
Stato, n. 3639/2013 e 3402/2012).
Nel caso specifico la Centrale unica era stata costituita
mediante convenzione ex articolo 30 del Tuel: osserva il Tar
che «quand’anche la Centrale di committenza venga
qualificata come modulo organizzativo e strumento di
raccordo tra amministrazioni privo di una propria
individualità e non centro formale di imputazione autonoma,
la notifica del ricorso in sede giurisdizionale avverso gli
atti di gara vanno notificati quantomeno “anche” alla
centrale di committenza».
Il principio vale, a maggior
ragione, per le Unioni di comuni (articolo 32 del Tuel)
trattandosi di enti dotati di personalità giuridica (articolo Il Sole 24 Ore del
03.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Dopo il lodo il riesame è escluso.
Non può configurarsi come un comune appello avverso la
pronuncia l'impugnazione di un lodo arbitrale, poiché esso è
circoscritto al solo accertamento dell'illegittimità del
lodo stesso, essendo precluso il riesame delle questioni di
merito sottoposte agli arbitri.
Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. civile
della Corte di Cassazione, Sez. I civile, con
sentenza 15.10.2014 n. 21836.
L'arbitrato costituisce una sorta di strumento col quale le
parti vanno a sottrarre al giudice ordinario la decisione
circa una lite e la affidano agli arbitri, soggetti privati
con lo specifico incarico delle parti stesse di esprimersi
circa una controversia.
Ebbene: i supremi giudici si sono espressi su un caso in cui
un collegio arbitrale, con lodo, dichiarava risolto un
contratto di locazione per inadempimento del conduttore, e
condannava lo stesso conduttore all'abbandono del locale.
Il
conduttore ricorreva in Cassazione denunciando la falsa
applicazione dell'art. 829 c.p.c. (casi di nullità), comma
2, dell'art. 1218 c.c. (responsabilità del debitore) e delle
nome sulla risoluzione dei contratti, nonché l'insufficiente
motivazione. I giudici di piazza Cavour dichiaravano il
ricorso privo di fondamento, sottolineando come per
consolidata giurisprudenza «la risoluzione di diritto ai
sensi dell'art. 1456 c.c., postula non soltanto la
sussistenza, ma anche l'imputabilità dell'inadempimento, in
quanto la pattuizione di tale modalità di scioglimento del
contratto rende superflua l'indagine in ordine
all'importanza dell'inadempimento, ma non incide sugli altri
principi che disciplinano l'istituto della risoluzione, né
da luogo, in particolare, a un'ipotesi di responsabilità
senza colpa, sicché, difettando il requisito della
colpevolezza dell'inadempimento, la risoluzione non si
verifica e non può dunque essere legittimamente dichiarata»
(Cass., n. 2553/2007).
E inoltre, la stessa Corte ha ribadito che tale opposizione
al lodo non si configura quale comune appello avverso la
pronuncia arbitrale, ma è limitato alla verifica
dell'illegittimità del lodo, restando precluso, nella fase
rescindente, il riesame delle questioni di merito sottoposte
agli arbitri (si veda: Cass., n. 13511/2007)
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.11.2014).
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MASSIMA
L’oggetto del giudizio
d’impugnazione del lodo, il quale non si configura come un
comune appello avverso la pronuncia arbitrale, ma è limitato
alla verifica dell’illegittimità del lodo, in relazione ai
vizi previsti dall’art. 829 cit. e dedotti con i motivi
d’impugnazione, restando precluso nella fase rescindente il
riesame delle questioni di merito sottoposte agli arbitri,
il cui apprezzamento è censurabile, ai sensi dell’art. 829
n. 5, soltanto nel caso in cui la motivazione sia
completamente assente o risulti a tal punto carente da
potersi ritenere insussistente il requisito di cui all’art.
823 n. 5 cod. proc. civ.
(tratta da http://renatodisa.com). |
CONDOMINIO:
Valutazioni tecniche per installare i
condizionatori. Sentenza sul decoro architettonico.
L’installazione dei condizionatori può pregiudicare il
decoro architettonico degli edifici. Occorre quindi condurre
una valutazione caso per caso per stabilire se sia o meno
possibile procedere all’intervento.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 06.10.2014 n. 20985.
Nel caso in questione i giudici di legittimità si sono
pronunciati sul ricorso presentato da alcuni condomini
contro una sentenza che aveva loro imposto di provvedere
alla rimozione degli impianti per il condizionamento posti
sulla facciata esterna dell’edificio. I proprietari
dell’appartamento avevano evidenziato ai giudici che nella
specie non esisteva una soluzione tecnica alternativa e che
quindi non era possibile allocare diversamente i macchinari.
Inoltre, secondo i ricorrenti, gli impianti non
pregiudicavano il decoro architettonico ed estetico dello
stabile, anche perché gli stessi avevano ottenuto dal comune
un provvedimento per la sanatoria delle opere in tal modo
realizzate.
Il giudice del merito aveva al contrario ritenuto che
l’inserimento di tali macchine sulla facciata dell’edificio
avesse spezzato la soluzione di continuità del tetto e si
sostanziasse in un utilizzo arbitrario della facciata
comune. Sulla base delle foto allegate agli atti di causa si
era anche ritenuto che non fosse stata dimostrata
l’impossibilità tecnica di adottare soluzioni alternative
per consentire ai proprietari dell’appartamento di dotarsi
di un impianto di condizionamento.
La Cassazione, nel rilevare in via preliminare che già il
fatto che fosse stata necessaria una sanatoria confermasse
in qualche modo la natura pregiudizievole
dell’installazione, ha quindi confermato la decisione di
merito, ritenendo a sua volta che l’apposizione sulla
facciata condominiale delle predette apparecchiature avesse
comportato una evidente lesione al decoro architettonico
dell’edificio, sia per la dimensione dei macchinari che per
la loro collocazione.
Con la decisione in commento i supremi giudici hanno quindi
chiarito che per valutare la legittimità delle innovazioni
apportate a uno stabile condominiale in corrispondenza delle
unità immobiliari di proprietà esclusiva è fondamentale una
valutazione tecnica sull’inserimento armonico dei nuovi
elementi costruttivi nel contesto architettonico
dell’edificio (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.11.2014).
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MASSIMA
Costituisce innovazione lesiva del
decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale
vietata, non solo quella che ne alteri le linee
architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta
negativamente sull'aspetto armonico di esso, a prescindere
dal pregio estetico che possa avere l'edificio e che la
relativa valutazione spetta al giudice di merito, ed è
insindacabile in sede di legittimità ove non presenti vizi
di motivazione
(tratta da www.overlex.com). |
TRIBUTI:
I garage non dribblano la tassa rifiuti.
I garage sono soggetti al pagamento della tassa rifiuti,
anche se in questi immobili i rifiuti vengono prodotti in
quantità minore. Naturalmente, per lo stesso motivo sono
sottoposti al prelievo anche autorimesse, box, cantine e
soffitte.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
15.09.2014 n. 19469.
Per i giudici di piazza Cavour, la legge pone «a carico dei
possessori di immobili una presunzione legale relativa di
produzione di rifiuti». Dunque, l'impossibilità dei locali o
delle aree a produrre rifiuti per la loro natura o per il
particolare uso cui sono destinati, «non può essere ritenuta
in modo presunto dal giudice tributario, essendo onere del
contribuente indicare nella denuncia originaria o di
variazione le obiettive condizioni di inutilizzabilità».
Con
questa pronuncia la Cassazione dà una mano ai comuni,
considerato il gettito che deriva da questi immobili, e va
oltre le pronunce dei giudici di merito che hanno ritenuto
non tassabili i garage e non applicabili le regole contenute
nella disciplina della tassa rifiuti (decreto legislativo
507/1993) perché non in linea con la normativa comunitaria e
con il principio «chi inquina paga».
Tra l'altro, questa
regola affermata dalla Cassazione vale anche per gli altri
immobili che hanno le stesse caratteristiche dei garage,
vale a dire autorimesse, box, cantine e soffitte, e si
applica a tutti i tributi sui rifiuti che si sono alternati
nel corso degli ultimi anni: Tia, Tares e Tari.
In passato la Cassazione ha chiarito che il giudice
tributario non ha il potere di disapplicare la normativa
nazionale nella parte in cui impone il pagamento del tributo
anche per autorimesse e garage. Decisione adottata, per
esempio, dalla commissione tributaria regionale della
Sicilia, sezione staccata di Catania (XXXIV).
Con la
sentenza n. 483 del 12.12.2011, infatti, ha sostenuto
che secondo la comune esperienza il garage di uso privato è
luogo adibito al ricovero di uno o più veicoli, e,
quand'anche la persona vi si trattenga per tempi non brevi,
non è plausibile ipotizzare che ne derivino rifiuti. Ex lege,
vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non
utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati) o
improduttivi di rifiuti
(articolo ItaliaOggi del
04.11.2014). |
CONDOMINIO: Sottotetto, proprietà dal titolo.
Cassazione. Il valore del rogito.
Se il contratto di
acquisto parla chiaro non c'è presunzione né destinazione
funzionale che tenga: il sottotetto è di proprietà di chi è
indicato nell'atto e lo ha acquistato.
Di recente la Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
10.09.2014 n. 19094, ha
applicato tale principio alla fattispecie riguardante alcuni
condomini che, al momento dell'acquisto dell'abitazione dal
costruttore, avevano rilasciato, in sede di preliminare, una
dichiarazione di rinuncia all'acquisto del sottotetto.
Successivamente, preso conoscenza che tali vani potevano
essere utilizzabili dai condomini come depositi o stenditoi
ovvero per altro servizio di comune interesse, facevano
causa al venditore per sentirne dichiarare la natura
condominiale, con la condanna del costruttore all'immediata
consegna in loro favore delle relative chiavi d'accesso,
oltre al risarcimento del danno per mancato uso dei predetti
locali.
La domanda venne accolta sia in primo che in secondo grado
ma la Cassazione ha, di fatto, ribaltato l'esito del
giudizio. Richiamandosi a principi di diritto ormai
consolidati, ha riaffermato che la natura del sottotetto di
un edificio è, in primo luogo, determinata dai titoli e,
solo in difetto di questi ultimi, può ritenersi comune, se
esso risulti in concreto, per le sue caratteristiche
strutturali e funzionali, oggettivamente destinato (anche
solo potenzialmente) all'uso comune o all'esercizio di un
servizio di interesse comune.
Secondo la Cassazione, proprio leggendo attentamente il
titolo, era palese la riserva di proprietà del sottotetto in
capo all'originario costruttore-venditore. Prima del rogito,
infatti, il venditore aveva comunicato ad alcuni degli
acquirenti che «non sarebbe stata loro trasferita anche la
proprietà dei sottotetti, se non versando l'ulteriore somma
di Lire...» e alcuni avevano perciò rilasciato, in sede di
preliminare, una dichiarazione di rinuncia all'acquisto del
sottotetti. Questo, per la Cassazione, era sicuro indice
della non condominialità dei vani (articolo Il Sole 24 Ore del
04.11.2014). |
APPALTI SERVIZI: Raggruppamenti di imprese, meno formalità.
Appalti di servizi/sentenza del consiglio di stato.
Negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti
temporanei di imprese non vige il principio di necessaria
corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e
la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo
la relativa disciplina rimessa alle disposizioni del bando
di gara.
È quanto ha stabilito l'Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato con la
sentenza
28.08.2014 n. 27.
La vicenda controversa trae origine da una gara indetta da
una società pubblica per l'affidamento del servizio di
acquisizione delle immagini dei registri cartacei delle
conservatorie. All'esito della selezione è risultato
aggiudicatario un raggruppamento temporaneo di imprese.
Tuttavia la gara ha registrato una brusca battuta d'arresto.
Il provvedimento di aggiudicazione, infatti, è stato
tempestivamente impugnato innanzi al Tar dall'impresa
risultata seconda classificata.
La principale censura
avanzata dalla ricorrente è consistita nell'evidenziare
l'assenza, in capo alla prima classificata, dei requisiti
imposti dal bando con riferimento ai raggruppamenti
d'impresa: più precisamente, la legge di gara prevedeva tra
i requisiti d'idoneità un fatturato complessivo pregresso di
1.200.000,00 euro; alla mandante del raggruppamento
vittorioso è stata riservata l'esecuzione del 30%; sicché,
in forza del principio di corrispondenza tra percentuali di
qualificazione, partecipazione ed esecuzione, quest'ultima
avrebbe dovuto possedere quantomeno un fatturato di
360.000,00 euro, e non già, come appurato, di 357.432,57
euro.
Il giudice adito ha accolto il ricorso, annullando gli atti
di gara e aggiudicando il contratto in favore della
ricorrente. Secondo il Tar, infatti, l'art. 37, c. 13, dlgs
163/2006, nella versione antecedente alla modifica operata
dalla legge n. 135/2012, doveva essere interpretato nel
senso dell'obbligatoria corrispondenza tra percentuali di
qualificazione, partecipazione ed esecuzione di ogni impresa
facente parte del raggruppamento, a prescindere da quanto
prevedesse il bando di gara. Né la recente modifica del
2012, che ha relegato espressamente il principio di
corrispondenza dei parametri su citati ai soli appalti di
lavori, poteva trovare applicazione retroattiva al caso di
specie, dato il carattere innovativo, e non già
interpretativo della novella.
Considerato il contrasto giurisprudenziale registrato in
materia, la lite è finita all'attenzione dell'adunanza
plenaria del consiglio di stato, cui è stato rivolto il
seguente quesito di diritto: «Se gli artt. 37, 41 e 42 del
codice dei contratti, nella formulazione antecedente alla
novella di cui alla legge n. 135/2012, consentano, anche per
gli appalti di servizi, l'applicazione del principio di
corrispondenza fra quota di capacità e quota di esecuzione
della prestazione, a prescindere dalle espresse previsioni
della lex certaminis».
La Plenaria, nel sciogliere ogni dubbio, ha ribaltato il
verdetto del Tar, ritenendo arbitraria l'interpretazione
dell'art. 37, offerta dai giudici di primo grado. Nella
sentenza, si osserva come il legislatore, con riferimento
agli appalti di servizi, chieda alle imprese raggruppate la
sola corrispondenza dei requisiti di partecipazione ed
esecuzione.
E si aggiunge come l'orientamento che ritiene necessario un
parallelismo, in modo congiunto, fra quote di
partecipazione, requisiti di qualificazione e quote di
esecuzione si ponga in contrasto, in primo luogo, «con il
tenore testuale delle disposizioni del codice (e
segnatamente, i commi 4 e 13 dell'art. 37), che non
consentono di avallare una siffatta opzione interpretativa»;
e in secondo luogo, «con la sistematica del codice (e del
regolamento attuativo), che disciplina in maniera completa e
nella sede propria il regime della qualificazione delle
imprese anche riunite in a.t.i., per i lavori, mentre affida
alla disciplina di gara ogni determinazione in materia per
gli appalti di servizi e forniture».
Palazzo Spada ha, altresì, avuto cura di fare ordine
generale tenendo conto del recente intervento di modifica ad
opera del recente art. 12, comma 8, dl 28.03.2014, n. 47,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23.05.2014,
n. 80, che ha abrogato l'art. 37, c. 13.
Dall'ennesimo intervento correttivo al codice derivano,
dunque, le seguenti linee guida:
a) in base al tenore
letterale della novella del 2012, e considerata la sua
finalità di semplificare gli oneri di dichiarazione
incombenti sulle imprese raggruppate operanti nel mercato
dei contratti pubblici, l'obbligo di corrispondenza fra
quote di partecipazione e quote di esecuzione, sancito
dall'art. 37, c. 13, è circoscritto ai soli appalti di
lavori fino all'entrata in vigore del dl n. 47/2014, che lo
abroga;
b) per gli appalti di servizi e forniture si applica
il solo art. 37, c. 4, cit., per cui alle imprese
raggruppate è imposto solamente d'indicare le parti del
servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse,
e non anche la corrispondenza fra quote di partecipazione e
quote di esecuzione, «fermo restando, però, che ciascuna
impresa va qualificata per la parte di prestazioni che
s'impegna a eseguire, nel rispetto delle speciali
prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara»;
c) in entrambi i casi, così conclude la Plenaria, le norme
richiamate continuano a esprimere un precetto imperativo da
rispettarsi a pena di esclusione e sono dunque capaci di eterointegrare
i bandi che nulla dicono sul punto
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.11.2014).
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MASSIMA
Deve ritenersi, invero, che:
a) giusta il tenore letterale della nuova disposizione e la
sua finalità di semplificare gli oneri di dichiarazione
incombenti sulle imprese raggruppate operanti nel mercato
dei contratti pubblici, l’obbligo di corrispondenza fra
quote di partecipazione e quote di esecuzione, sancito dal
più volte menzionato comma 13, sia rimasto circoscritto ai
soli appalti di lavori, fino all’entrata in vigore del d.l.
n. 47/2014 (abrogante il cit. comma 13);
b) per gli appalti di servizi e forniture continua a trovare
applicazione unicamente la norma sancita dal comma 4
dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più
modesto obbligo d’indicare le parti del servizio o della
fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere
anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di
partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però,
che ciascuna impresa va qualificata per la parte di
prestazioni che s’impegna ad eseguire, nel rispetto delle
speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa
di gara;
c) rimane inteso, in entrambi i casi, che le norme in
questione continuano ad esprimere un precetto imperativo da
rispettarsi a pena di esclusione e sono dunque capaci di
etero-integrare i bandi silenti.
In base alle esposte considerazioni va, quindi, enunciato il
seguente principio di diritto: “Ai
sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo antecedente alle
modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.l.
06.07.2012 n. 95, convertito nella legge 07.08.2012 n. 135,
negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti
temporanei di imprese non vige ex lege il principio di
necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna
impresa e la quota della prestazione di rispettiva
pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle
disposizioni della lex specialis della gara”. |
AGGIORNAMENTO AL 12.11.2014 |
ã |
dite la vostra
.... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
PUBBLICO
IMPIEGO:
R. Lasca,
PENSIONATI EX DIPENDENTI PUBBLICI E PRIVATI & PUBBLICHE
AMMINISTRAZIONI: TUTTO CHIARO DOPO IL DL. 90/2014-L.
114/2014? Non proprio tutto: siamo in Italia! (03.11.2014). |
GURI - GUUE - BULR
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 11.11.2014 n. 262 "Disposizioni urgenti
di correzione a recenti norme in materia di bonifica e messa
in sicurezza di siti contaminati e misure finanziarie
relative ad enti territoriali" (D.L.
11.11.2014 n. 165). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI -
PATRIMONIO:
G.U. 11.11.2014 n. 262, suppl. ord. n. 85/L, "Testo
del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, coordinato con la
legge di conversione 11.11.2014, n. 164,
recante: «Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive»".
---------------
Di particolare interesse si leggano:
►
Art. 2 (Semplificazioni procedurali per le
infrastrutture strategiche affidate in concessione)
►
Art. 4 (Misure di semplificazione per le opere
incompiute segnalate dagli Enti locali e misure finanziarie
a favore degli Enti territoriali)
►
Art. 6 (Agevolazioni per la realizzazione di reti di
comunicazione elettronica a banda ultralarga e norme di
semplificazione per le procedure di scavo e di posa aerea
dei cavi, nonché per la realizzazione delle reti di
comunicazioni elettroniche)
►
Art. 6-ter (Disposizioni per l’infrastrutturazione
degli edifici con impianti di comunicazione elettronica)
►
Art. 7 (Norme in materia di gestione di risorse
idriche. Modifiche urgenti al decreto legislativo
03.04.2006, n. 152, per il superamento delle procedure di
infrazione 2014/2059, 2004/2034 e 2009/2034, sentenze
C-565-0 del 19.07.2012 e C-85-13 del 10.04.2014; norme di
accelerazione degli interventi per la mitigazione del
rischio idrogeologico e per l’adeguamento dei sistemi di
collettamento, fognatura e depurazione degli agglomerati
urbani; finanziamento di opere urgenti di sistemazione
idraulica dei corsi d’acqua nelle aree metropolitane
interessate da fenomeni di esondazione e alluvione)
►
Art. 8 (Disciplina semplificata del deposito
preliminare alla raccolta e della cessazione della qualifica
di rifiuto delle terre e rocce da scavo che non soddisfano i
requisiti per la qualifica di sottoprodotto. Disciplina
della gestione delle terre e rocce da scavo con presenza di
materiali di riporto e delle procedure di bonifica di aree
con presenza di materiali di riporto)
►
Art. 9 (Interventi di estrema urgenza in materia di
vincolo idrogeologico, di normativa antisismica e di messa
in sicurezza degli edifici scolastici e dell’Alta formazione
artistica, musicale e coreutica - AFAM)
►
Art. 13 (Misure a favore dei project bond)
►
Art. 14 (Disposizioni in materia di standard tecnici)
►
Art. 16-bis (Disciplina degli accessi su strade
affidate alla gestione della società ANAS Spa)
►
Art. 17 (Semplificazioni ed altre misure in materia
edilizia)
►
Art. 17-bis (Regolamento unico edilizio)
►
Art. 21 (Misure per l’incentivazione degli
investimenti in abitazioni in locazione)
►
Art. 22 (Conto termico)
►
Art. 22-bis (Interventi sulle tariffe incentivanti
dell’elettricità prodotta da impianti fotovoltaici)
►
Art. 24 (Misure di agevolazione della partecipazione
delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione
del territorio)
►
Art. 25 (Misure urgenti di semplificazione
amministrativa e di accelerazione delle procedure in materia
di patrimonio culturale)
►
Art. 26 (Misure urgenti per la valorizzazione degli
immobili demaniali inutilizzati)
►
Art. 31 (Misure per la riqualificazione degli
esercizi alberghieri)
►
Art. 34 (Modifiche al decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163, per la semplificazione delle procedure in materia di
bonifica e messa in sicurezza di siti contaminati. Misure
urgenti per la realizzazione di opere lineari realizzate nel
corso di attività di messa in sicurezza e di bonifica)
►
Art. 35 (Misure urgenti per la realizzazione su scala
nazionale di un sistema adeguato e integrato di gestione dei
rifiuti urbani e per conseguire gli obiettivi di raccolta
differenziata e di riciclaggio. Misure urgenti per la
gestione e per la tracciabilità dei rifiuti nonché per il
recupero dei beni in polietilene)
►
Art. 38 (Misure per la valorizzazione delle risorse
energetiche nazionali)
---------------
Per una migliore
comprensione della ratio sottesa ai vari articoli si leggano
anche:
● Camera dei Deputati,
dossier 27.10.2014
● Senato della Repubblica,
dossier ottobre 2014
● Senato della Repubblica,
dossier novembre 2014 |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 10.11.2014, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1 dell’Elenco dei Tecnici competenti in
Acustica Ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.10.2014, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 03.11.2014 n. 130). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
G.U. 08.11.2014 n. 260 "Protocollo per la definizione del
calendario delle votazioni per il rinnovo delle
rappresentanze unitarie del personale dei comparti -
tempistica delle procedure elettorali" (ARAN,
protocollo 28.10.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 45 dell'08.11.2014, "Riordino
dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei
canoni di polizia idraulica"
(deliberazione
G.R. 31.10.2014 n. 2591). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Venezia - Abaco degli interventi in materia
edilizia - Rilevanza paesaggistica delle opere - QUESITO
(MIBACT Veneto,
nota 04.11.2014 n. 18289 di prot.). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO: Province:
più tardi il passaggio di competenze più "sfigati" gli
addetti ai lavori
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 05.11.2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
OGGETTO: novità nella disciplina antimafia per la
realizzazione di lavori pubblici (Consorzio dei Comuni
Trentini,
circolare 05.11.2014 n. 61/2014). |
SICUREZZA
LAVORO:
Oggetto: art. 12, D.Lgs. n. 81/21008 e successive
modifiche e integrazioni - risposta al quesito relativo alla
corretta interpretazione dell'art. 31, comma 6, del D.Lgs.
n. 81/2008 (Ministero del Lavoro ed elle Politiche
Sociali,
interpello 04.11.2014 n. 24/2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: FUMANE (Verona) - Accertamento di compatibilità
paesaggistica di cui all'art. 167, comma 4, del decreto
legislativo 22.01.2014, n. 42 - Interventi di "miglioramento
fondiario"
(MIBACT Veneto,
nota 11.07.2014 n. 11368 di prot. - tratto da http://venetoius.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA
PRIVATA: La
guida alle case efficienti con aspetti tecnici, indicazioni
normative e incentivi fiscali.
La Provincia di Torino ha pubblicato “L’energia di casa
mia”, un interessante opuscolo con una serie di
informazioni sulle tecnologie costruttive sulle case ad alta
efficienza energetica e sugli impianti.
La guida fornisce informazioni su come intervenire sugli
elementi costruttivi degli edifici per ridurre la
dispersione del calore, come scegliere il miglior impianto
di riscaldamento, come individuare la fonte energetica
rinnovabile più confacente alle proprie esigenze.
Gli argomenti trattati sono:
● facciate
●
finestre
●
coperture
●
solai e pavimenti
●
impianti di riscaldamento
●
impianti a fonte rinnovabile
Sono presenti, inoltre, informazioni su costi e incentivi
fiscali.
Il documento è certamente utile ai tecnici che possono
utilizzarlo come materiale informativo per sensibilizzare i
propri clienti
(06.11.2014 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Ponteggi,
il quaderno tecnico per la sicurezza e la prevenzione del
rischio di caduta dall’alto.
Il ponteggio fisso, costituito da tubi e giunti o da
elementi portanti prefabbricati collegati fra loro, è tra le
opere provvisionali maggiormente utilizzate.
In questo articolo proponiamo un’interessante guida
realizzata dall’Inail sui ponteggi fissi, un utile strumento
sia per l'informazione e la formazione dei lavoratori e sia
per coloro che operano nell’ambito della sicurezza sui
cantieri, finalizzato alla riduzione del rischio di caduta
dall’alto durante le operazioni di montaggio, uso e
smontaggio.
Il documento, adeguatamente illustrato, contiene
informazioni riguardanti l’evoluzione legislativa e
normativa connessa all’innovazione tecnologica; nel
dettaglio è così strutturato:
►
definizioni
►
documenti di riferimento
►
classificazione in base alle classi di carico
►
classificazione in base agli elementi costruttivi
►
marcatura
►
indicazioni essenziali per la scelta, il montaggio, l’uso e
lo smontaggio e la manutenzione
►
faq (frequently asked questions)
(06.11.2014 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legge
di Stabilità 2015, dall’ANCE un’analisi delle novità per il
settore dell’edilizia.
Il Disegno di Legge di Stabilità per il 2015 prevede una
manovra di finanza orientata alla crescita economica del
Paese.
L’ANCE (Associazione Costruttori Edili Italiani) ha
pubblicato un documento contenente tutte le osservazioni in
merito alle misure previste.
Alcune misure sono ritenute positive, come ad esempio la
riduzione dei carichi fiscali e contributivi delle imprese e
la proroga degli incentivi fiscali per le ristrutturazioni
edilizie e degli ecobonus, tuttavia la manovra, secondo i
costruttori, sul piano della crescita rimane sostanzialmente
legata alla logica di austerità europea.
Di seguito alcune osservazioni dell’ANCE sul ddl Stabilità
2015:
- si evidenzia una riduzione degli stanziamenti nel 2015 per
nuove infrastrutture di circa l’11% rispetto al 2014. Dal
2008 ad oggi, le risorse disponibili per opere pubbliche
risultano diminuite del 45%;
- non sono previsti finanziamenti per alcuni programmi di
opere diffuse sul territorio, come le opere segnalate dai
Comuni e il Piano dei 6.000 campanili
- sono apprezzabili alcune misure fiscali, quali la proroga
degli incentivi alla ristrutturazione ed alla
riqualificazione energetica e la piena neutralizzazione del
costo del lavoro dalla base imponibile IRAP
- non è apprezzabile il raddoppio della ritenuta dal 4%
all’8% sui bonifici per le spese agevolate, che ha come
unico effetto quello di ridurre la liquidità delle imprese
senza migliorare in alcun modo l’efficacia dello strumento
di contrasto all’evasione
- preoccupa l’inserimento della disposizione che prevede la
possibilità di aumentare, a decorrere dal 01.01.2016, sia
l’aliquota IVA ridotta del 10% che quella ordinaria del 22%
il provvedimento andrebbe integrato con misure di più ampio
respiro, essenziali per riattivare i processi di
riqualificazione urbana
(06.11.2014 - link a www.acca.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
F. Gavioli,
Infiltrazioni mafiose negli appalti: come funzionano le
white lists (11.11.2014 - tratto da
www.ipsoa.it). |
TRIBUTI: T.
Lamedica,
L'imposta di pubblicità e le vetrine delle agenzie
immobiliari (08.11.2014 - tratto da
www.ispoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
F. Lorenzorri,
L’autorizzazione unica ambientale tra semplificazioni e
complicazioni (06.11.2014 - tratto da
www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
G. Buscema,
Semplificazioni fiscali: soppresso il regime di solidarietà
negli appalti (04.11.2014 - tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E. Abbate,
Agibilità dell'immobile e contratto di locazione (04.11.2014
- link a www.filodiritto.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
C. Zaccheo,
IL RIESAME CON ESITO CONFERMATIVO: ONERE DI IMPUGNAZIONE PER
IL PRIVATO ED ONERE PARTECIPATIVO PER LA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE (Gazzetta
Amministrativa n. 2/2014).
---------------
La linea distintiva tra la conferma in senso proprio e
l’atto meramente confermativo corre lungo il binario della
verifica della rinnovazione dell’esercizio del potere
amministrativo.
Se l’amministrazione ha aperto un nuovo procedimento
amministrativo si tratta di un atto confermativo in senso
proprio che deve essere impugnato entro i termini di
decadenza.
Viceversa, se l’amministrazione non ha avviato formalmente
un procedimento di riesame si tratta un atto meramente
confermativo che non deve essere impugnato autonomamente. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
C. Zaccheo,
LE CONSEGUENZE DERIVANTI DALL’INOSSERVANZA DEL TERMINE DI
CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO: LA DOPPIA FORMA
DI RISTORO CONSEGUIBILE DAL PRIVATO (Gazzetta
Amministrativa n. 2/2014).
---------------
L’inosservanza del termine di conclusione procedimentale
comporta:
a) in via generale, il risarcimento del danno ingiusto,
qualora –con dimostrazione del nesso di causalità- questo
consegua alla predetta inosservanza colposa o dolosa della
pubblica amministrazione;
b) nei casi espressamente previsti, il riconoscimento di un
indennizzo, il cui titolo sorge (nelle condizioni previste
dalla legge) per il solo fatto del superamento del termine e
che –ove concorra con la distinta obbligazione risarcitoria-
è detratto dalla somme complessivamente riconosciute a
titolo di risarcimento. |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Sul TAR competente in caso di contestuale
impugnazione sia dell'informativa prefettizia che degli atti
applicativi adottati dalla stazione appaltante.
Con
l'ordinanza dal n. 17 del 2014 l'Adunanza Plenaria ha
enunciato il principio di diritto in base al quale
esplicando l'informativa prefettizia, alla stregua dello
jus superveniens, effetti ultraregionali, competente a
conoscere dell'impugnazione della stessa è il TAR del luogo
ove ha sede la prefettura che ha adottato l'atto. Detto TAR
rimane competente anche in caso di contestuale impugnazione
sia dell'informativa che degli atti applicativi adottati
dalla stazione appaltante. Non trova, infatti, applicazione
il c. 4-bis dell'art. 13 c.p.a. ove è stabilito che "la
competenza territoriale relativa al provvedimento da cui
deriva l'interesse a ricorrere attrae a sé anche quella
relativa agli atti presupposti allo stesso provvedimento,
tranne che si tratti di atti normativi o generali".
L'informativa prefettizia non può considerarsi "atto
presupposto" rispetto alle determinazioni della stazione
appaltante o dell'ente che ha concesso i benefici economici,
stante la sua autonoma efficacia lesiva per gli immediati
effetti negativi nei confronti dell'impresa; l'atto
prefettizio ha, quindi, effetti ultraregionali per cui, in
caso di impugnazione della sola informativa, il TAR
territorialmente competente è quello ove ha sede l'autorità
che lo ha emesso, ex art. 13, c. 1, primo periodo. Essendo,
inoltre, l'informativa atto immediatamente impugnabile, non
può trovare applicazione l'art. 13, c. 4-bis c.p.a. e
quindi, in caso di impugnazione contestuale di tale atto e
dei susseguenti atti applicativi adottati dalla stazione
appaltante, è sempre competente il Tribunale ove ha sede
l'autorità che ha emesso la misura di prevenzione.
Va riconosciuta la prevalenza del criterio della competenza
territoriale, previsto dall'art. 13 c.p.a., rispetto a
quello della competenza funzionale, nei casi di affidamento
di lavori, servizi e forniture di cui all'art. 119 c.p.a.,
c. 1, lett. a), in base ai principi di concentrazione dei
procedimenti giurisdizionali e del simultaneus processus
- garanti dell'effettività della tutela giurisdizionale e
dell'economia dei giudizi secondo gli indirizzi segnati
dagli artt. 24 e 111 Cost. e dal diritto comunitario.
Assume, pertanto, rilievo -alla stregua del rinvio esterno
alle disposizioni del cod. proc. civ. di cui all'art. 39
c.p.a.- l' art. 31 c.p.c. in tema di rapporti di connessione
tra causa principale e causa accessoria, che riconosce
competente, in caso di pluralità di domande, il giudice cui
è rimessa la cognizione della prima.
Si realizza, quindi, una particolare forma di connessione
per accessorietà in base alla quale, ai fini della
determinazione del giudice competente, la causa principale
(avente ad oggetto l'impugnativa prefettizia) attrae a sé
quella accessoria (avente ad oggetto gli atti applicativi
adottati dalla stazione appaltante), senza che a ciò siano
di ostacolo le norme sulla competenza funzionale (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 07.11.2014 n. 30 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
E' legittimo il provvedimento di una stazione
appaltante che ha richiesto per la partecipazione alla
procedura negoziata per l'affidamento, mediante cottimo
fiduciario, dei lavori per la demolizione di una barca
porta, la qualificazione SOA OS23.
Non è illegittimo il provvedimento del commissario
straordinario dell'autorità portuale che ha deliberato di
approvare l'elenco delle imprese in possesso della categoria
SOA OS 23 (comprendente la demolizione di opere in generale)
da invitare a una procedura negoziata per l'affidamento,
mediante cottimo fiduciario, di cui all'art. 125, c. 8, del
codice dei contratti pubblici, dei lavori per la demolizione
di una barca porta.
Sebbene, infatti, la barca porta sia un galleggiante,
costituito da strutture in acciaio al carbonio, destinata ad
essere posta a chiusura di un bacino marittimo, costruita in
modo da poter galleggiare o affondare in funzione della
apertura o chiusura del bacino, al fine di valutare la
legittimità del requisito di qualificazione richiesto deve
essere considerato, in concreto, il tipo di lavoro oggetto
dell'appalto.
In pratica, all'impresa affidataria del lavoro è richiesto
di demolire un manufatto composto da parti metalliche e da
una zavorra in calcestruzzo; si tratta di una operazione ben
diversa dalla demolizione di una vera e propria nave. Non è
pertinente, pertanto, il parere dell'autorità di vigilanza
dei contratti pubblici con il quale è stato sostenuto che la
demolizione di una nave non può essere ricondotta ai lavori
per cui è richiesta la qualificazione SOA OS23.
E' corretta, dunque, la valutazione della stazione
appaltante di non richiedere, quale requisito di
partecipazione, il possesso della qualificazione SOA OG 7,
riferita alle opere marittime e ai lavori di dragaggio,
dovendosi ritenere che oggetto dell'appalto sia, piuttosto
che un'opera marittima, una demolizione di opera,
agevolmente riconducibile alla categoria specialistica OS 23
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 05.11.2014 n. 5696 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
E' legittimo il provvedimento con cui una regione
ha confermato la prosecuzione del rapporto contrattuale con
l'attuale gestore del trasporto pubblico locale nonostante
l'informativa ostativa antimafia.
E' legittimo il provvedimento con cui una regione
riscontrando la richiesta del consorzio ricorrente di
subentrare nel contratto di trasporto pubblico locale, ha
confermato la prosecuzione del rapporto contrattuale con
l'attuale gestore colpito da informativa ostativa antimafia.
L'amministrazione resistente ha, infatti, legittimamente
applicato il c. 3º dell'art. 94 del d.lvo 159 nel 2011 che
consente di non procedere alla revoca delle concessioni o al
recesso dai contratti per forniture di beni e servizi con
soggetti colpiti da interdittiva antimafia, qualora tali
soggetti non siano sostituibili in tempi rapidi e la
fornitura o il servizio siano essenziali per il
perseguimento dell'interesse pubblico.
Ha ritenuto, invero, che l'interruzione del servizio di
trasporto pubblico locale svolto dall'impresa
controinteressata avrebbe determinato un sicuro pregiudizio
per l'interesse pubblico, nelle more dell'espletamento della
procedura di gara per l'affidamento definitivo del servizio,
non essendo possibile sostituire immediatamente la
concessionaria del servizio pubblico neanche per il tempo
strettamente necessario all'espletamento della gara
definitiva.
L'amministrazione, con determinazione discrezionale non
irragionevole, mostra di aver implicitamente valutato che
anche una eventuale procedura ristretta per l'affidamento
provvisorio del servizio ad altra impresa avrebbe richiesto
un tempo incompatibile con le esigenze di continuità del
servizio di trasporto pubblico locale (TAR Campania-Napoli,
Sez. I,
sentenza 05.11.2014 n. 5692 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
SICUREZZA
LAVORO:
La mera sollecitazione all’uso dei DPI da parte
del direttore tecnico capocantiere non è di per sé fonte di
una colpa per assunzione, non essendo tale comportamento di
per sé solo sufficiente ad integrare quell’ingerenza che la
giurisprudenza di legittimità riconosce poter essere fonte
di obblighi prevenzionistici, ossia quella che segnala
l’assunzione di poteri decisionali, ai quali sempre si
associano le connesse responsabilità.
3. Il ricorso è fondato.
3.1. La trama delle posizioni di garanzia costituite dal
legislatore all’interno di un cantiere edile nel quale
insistano, ciascuna svolgendo parte dei lavori, più imprese
o lavoratori autonomi e’ particolarmente serrata:
committente e responsabile dei lavori; coordinatori per la
progettazione e per l’esecuzione, la nuova figura
dell’incaricato del datore di lavoro committente, nonché la
più risalente schiera di debitori di sicurezza: datore di
lavoro, dirigente, preposto, lavoratore autonomo e così
seguitando.
Tanto impegna ad una precisa definizione delle rispettive
posizioni, in modo da evitare indebite responsabilità penali
per fatto altrui.
Nel caso che occupa, secondo l’accertamento condotto nei
gradi di merito, il (OMISSIS) era direttore tecnico e
capocantiere per conto della (OMISSIS) s.r.l., società che
aveva subappaltato alla (OMISSIS) i lavori acquisiti dalla
(OMISSIS).
Così indicate le qualifiche del (OMISSIS) risulta ancora
indistinta l’effettiva collocazione spettante al medesimo
nella costellazione dei soggetti debitori di sicurezza verso
i lavoratori impegnati nel cantiere di cui trattasi. E’
noto, infatti, che la legislazione penale, in specie
prevenzionistica, al fine di identificare ad esempio il
datore di lavoro, il dirigente ed il preposto prende in
considerazione i compiti effettivamente assunti o che si
sarebbero dovuti svolgere (cfr., da ultimo, Sez. 4 , n.
10704 del 07/02/2012 – dep. 19/03/2012, Corsi, Rv. 252676).
Sotto tale profilo è evidente che, ordinariamente, il
direttore tecnico può risultare in concreto un dirigente,
mentre il capocantiere può essere di norma assimilato al
preposto (così, Sez. 4 , Sentenza n. 39606 del 28/06/2007,
Marchesini e altro, Rv. 237879), secondo le definizioni che
di tali figure si traggono oggi dal Decreto Legislativo n.
81 del 2008, articolo 2 e dava, al tempo del sinistro, il
Decreto Legislativo n. 626 del 1994. Di certo, il direttore
tecnico/capocantiere non è perciò solo titolare degli
obblighi che la legge pone in capo al coordinatore per la
progettazione e del coordinatore per l’esecuzione, ove
nominati (cfr. Decreto Legislativo n. 494 del 1996, articoli
4 e 5).
Ma più in generale deve osservarsi come il riconoscimento di
responsabilità in materia di prevenzione di infortuni sul
lavoro presuppone la prova sicura dell’attribuzione delle
funzioni o dell’ingerenza nell’organizzazione del cantiere.
La qualifica di direttore tecnico può comportare anche solo
compiti di sorveglianza tecnica attinente alla esecuzione
del progetto (così, già per il direttore dei lavori, Sez. 4
, n. 12993 del 25/06/1999 – dep. 12/11/1999, Galeotti D, Rv.
215165). Tale prova è tanto più necessaria ove si affermi,
come fatto nel caso che occupa dal giudice di primo grado
che il (OMISSIS) non esercitò un efficiente controllo
sostanziale, e non meramente formale, non avendo prescritto
al (OMISSIS) di utilizzare la fune di sicurezza in
dotazione, pur essendosi accorto che egli l’aveva dismessa,
e comunque di non aver adottato le misure necessarie ad
imporre al lavoratore l’uso obbligatorio dei DPI; o, come la
Corte distrettuale, che egli non impose lo spostamento della
piattaforma mobile, quale misura di sicurezza collettiva.
Né può definirsi ingerenza la sollecitazione al rispetto
della normativa prevenzionistica; l’ingerenza che vale ad
individuare una posizione di garanzia è evidentemente quella
che segnala l’assunzione di poteri decisionali, ai quali
sempre si associano le connesse responsabilità.
In conclusione, la sentenza impugnata, come già quella di
primo grado, non manifesta quale accertamento sia stato
operato in merito alla effettiva posizione di garanzia
assunta dal (OMISSIS) nel contesto dei lavori di cui
trattasi, al di là delle qualifiche formali; ed erra
nell’evocare la sollecitazione all’uso dei DPI come fonte di
una colpa per assunzione, non essendo tale comportamento di
per sé solo sufficiente ad integra quell’ingerenza che la
giurisprudenza di legittimità riconosce poter essere fonte d
obblighi prevenzionistici.
Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata, con
rinvio alla Corte di appello di Perugia per nuovo esame sul
punto messo a fuoco nel precedente capo verso (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 21.10.2014 n. 43836 -
link a http://renatodisa.com). |
SICUREZZA
LAVORO:
I verbali degli ispettori del lavoro non
costituiscono mera informativa di reato, ai sensi dell’art.
347 c.p.p., poiché contengono l’accertamento o la
descrizione di una situazione di fatto suscettibile di
modifica nel tempo, per effetto di comportamenti umani o di
eventi naturali. Essi vanno, pertanto, annoverati tra gli
atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria, ai
sensi dell’art. 431, lett. b) c.p.p.; come tali, vanno
inseriti nel fascicolo per il dibattimento e ne va data
lettura a richiesta di parte o su iniziativa del giudice,
essendo utilizzabili come fonti di prova.
Il ricorso è infondato.
Il verbale dell’ispettore del lavoro non costituisce mera
informativa di reato ai sensi dell’articolo 347 c.p.p.,
poiché contiene l’accertamento o la descrizione di una
situazione di fatto suscettibile di modifica nel tempo, per
effetto di comportamenti umani o di eventi naturali. Esso
va, pertanto, annoverato tra gli atti non ripetibili
compiuti dalla polizia giudiziaria (articolo 431 c.p.p.,
lettera b); come tale, va inserito nel fascicolo per il
dibattimento e ne va data lettura a richiesta di parte o su
iniziativa del giudice (articolo 511 c.p.p., comma 1),
essendo utilizzabile come fonte di prova (cfr. Sez. 3 ,
Sentenza n. 7083 del 26/04/1994 Ud. dep. 16/06/1994 Rv.
199004).
In ogni caso dalla sentenza impugnata risulta che la
colpevolezza dell’imputato è stata affermata non
esclusivamente sulla base delle dichiarazioni fatte
all’ispettore del lavoro in occasione del controllo dalla
(OMISSIS) (dichiarata irreperibile all’udienza 25.03.2013
senza peraltro alcuna opposizione del difensore), ma anche
sulla scorta delle affermazioni dello stesso imputato nella
parte in cui ha ammesso che la ragazza in questione riceveva
periodicamente una somma di danaro , mentre invece sono
state ritenute prive di riscontro probatorio le ulteriori
precisazioni (e cioè che si trattava di un contributo
versato per conto di un socio ammiratore della ragazza che
non voleva figurare direttamente).
Ciò esclude quindi qualunque violazione del principio di cui
all’articolo 526 c.p.p. e di quelli contenuti nell’articolo
6 della CEDU come interpretati dalla Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo (nel senso che può astrattamente
concepirsi una deroga al principio della formazione della
prova in contraddittorio purché, naturalmente, la condanna
non si sia basata esclusivamente sulle dichiarazioni rese in
fase anteriore al dibattimento su cu, non si è avuto modo di
replicare: cfr. tra le varie, sentenza del 03.12.2013 nr.
35842/2005, Vararu e/Romania).
Pertanto, non merita censura la sentenza che, con
riferimento alla posizione della (OMISSIS), ha desunto
l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla
scorta delle dichiarazioni rese a verbale dalla donna, e
sulle dichiarazioni dell’imputato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.10.2014 n. 43807 - link a http://renatodisa.com). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Solo eccezionalmente i consiglieri dissenzienti
possono impugnare le delibere consiliari.
Nella sentenza in rassegna, incentrata sulla legittimazione
dei consiglieri comunali dissenzienti ad impugnare le
delibere dell'organo di cui fanno parte, i giudici del
Tribunale amministrativo della Calabria estrapolano alcuni
principi di diritto, tratti dalle più recenti pronunzie del
Consiglio di Stato e suffragati da costante giurisprudenza
precedente.
I giudici amministrativi calabresi, innanzitutto,
ribadiscono che la legittimazione dei consiglieri
dissenzienti ad impugnare le delibere dell'organo di cui
fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio
amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra
organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è
diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui
essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della
loro sfera giuridica, come per esempio lo scioglimento
dell'organo o la nomina di un commissario ad acta, in
cui detto effetto lesivo discende ab externo rispetto
all'organo di cui fa parte.
Riguardo alla legittimazione ad agire del consigliere, gli
stessi giudici confermano che non risiede nella deviazione
dell'atto impugnato rispetto allo schema normativamente
previsto, quando da essa non derivi la compressione di una
sua prerogativa inerente all'ufficio, occorrendo in ogni
caso aver riguardo a questo fine, alla natura e al contenuto
della delibera impugnata e non già delle norme interne
relative al funzionamento dell'organo.
La contestazione del componente di un organo collegiale,
infine, non può limitarsi a censurare l'oggetto o le
modalità di formazione della deliberazione del medesimo
organo, senza dedurre che da esse ne sia derivata una
lesione delle sue prerogative, giacché questa non discende
automaticamente da violazioni di forma o di sostanza
nell'adozione di un atto deliberativo
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. II,
sentenza 06.10.2014 n. 1602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'avvalimento può riferirsi anche alla
certificazione di qualità.
I giudici
della quarta sezione del Consiglio di Stato hanno stabilito,
nella sentenza in commento, che in caso di avvalimento,
l'impresa ausiliata può senz'altro utilizzare tutti i
requisiti afferenti alla capacità economica e tecnica
dell'impresa ausiliaria, non esclusa la certificazione di
qualità.
In tal senso è stato chiarito che "nelle gare pubbliche
la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo
fine di valorizzare gli elementi di eccellenza
dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa
requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da
inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrarne la capacità
tecnico professionale assicurando che l'impresa, cui sarà
affidato il servizio o la fornitura, sarà in grado di
effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo
di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto"
(così Cons. Stato, Sez. V, 20.12.2013, n. 6125, vedi anche
Sez. V, 06.03.2013, n. 1368).
L'unico limite, concludono i giudici di Palazzo Spada, è
rappresentato dalla condizione che l'avvalimento sia
effettivo, e non fittizio giacché, come pure osservato, non
potrebbe ammettersi che sia "prestata" la sola
certificazione di qualità (Cons. Stato, Sez. III,
18.04.2011, n. 2343).
Peraltro, ulteriore conferma della riferibilità dell'avvalimento
anche alla certificazione di qualità deve rinvenirsi
nell'art. 50 del d.lgs. n. 163/2006, che ammette l'avvalimento
nel caso di sistemi di attestazione e sistemi di
qualificazione
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2014 n. 4958 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'omessa dichiarazione di precedenti penali
non opera il ‘falso innocuo’.
Nella sentenza
in commento i giudici del Consiglio di Stato ribadiscono
alcuni principi giurisprudenziali consolidati in merito alla
dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare
d'appalto, ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006.
I giudici di Palazzo Spada riaffermano, innanzitutto, che la
valutazione della gravità delle condanne riportate dai
concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale
spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai
concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le
condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro,
ciò implicando un giudizio meramente soggettivo
inconciliabile con la ratio della norma.
Secondo gli stessi giudici, inoltre, la completezza e la
veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di
tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva
di notorietà rappresenta lo strumento indispensabile,
adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti
interessi in gioco, quello dei concorrenti alla
semplificazione e all'economicità del procedimento di gara
(a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di
adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente
economico, come la prova documentale di stati e qualità
personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e
quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter
verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono
ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla
moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e
rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza
pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto
più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito
proprio con la gara di appalto, così che la sola omessa
dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno
di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla relativa
gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara.
Anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex
specialis, stante la sua eterointegrazione con la norma
di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento
della presentazione della domanda di partecipazione le
dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163
del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che
sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale.
In caso di omessa dichiarazione di precedenti penali, in
conclusione, non può operare il principio del c.d. falso
innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni
previste dalla legge e dal bando di gara a pena di
esclusione, con la precisazione che solo se la dichiarazione
sia resa sulla base di modelli predisposti dalla stazione
appaltante ed il concorrente incorra in errore indotto dalla
formulazione ambigua o equivoca del bando non può
determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza
della dichiarazione resa
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4932 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il cottimo fiduciario non è una vera e propria
gara, ma una trattativa privata.
Ad avviso della quinta sezione del Consiglio di Stato il
cottimo fiduciario non è una vera e propria gara, ma una
trattativa privata. Spiegano infatti gli stessi giudici che
nel contesto dell'art. 125 del d.lgs. n. 163/2006 il
principio della "rotazione", imposto con riferimento
alla procedura di "cottimo fiduciario", appare
concepito dal legislatore come una contropartita, o un
bilanciamento, del carattere sommario e "fiduciario"
della scelta del contraente. Ed invero, il "cottimo
fiduciario" è definito dallo stesso art. 125 come "una
procedura negoziata... previa consultazione di almeno cinque
operatori economici".
Nel pensiero del legislatore, dunque, il cottimo fiduciario
non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata (si
veda anche l'art. 3, c. 40, dello stesso codice, che
contiene la definizione del termine "procedura negoziata"),
quindi una scelta ampiamente discrezionale. Tale
discrezionalità, secondo i giudici di Palazzo Spada, si
esercita in (almeno) due momenti: primo, l'individuazione
delle cinque ditte da "consultare"; secondo, la
scelta del contraente fra le ditte consultate.
La discrezionalità è temperata, ma non eliminata, da alcuni
princìpi, quali la "trasparenza" (che implica il
dovere di una previa formulazione e comunicazione dei
criteri della scelta, etc.) e, appunto, la "rotazione"
(per evitare che il carattere discrezionale della scelta si
traduca in uno strumento di favoritismo).
In questa occasione, l'ente appaltante, pur avendo fatto
richiamo al citato art. 125 del codice dei contratti, ha
impostato la procedura come una gara vera e propria, da
aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, ai sensi
dell'art. 82, c. 2, lett. (b), dello stesso codice,
invitando ben 1771 ditte - vale a dire senza alcuna
discrezionalità né alcuna negoziazione
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 12.09.2014 n. 4661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Solo gli atti secretati o sotto sequestro sono
sottratti al diritto di accesso.
Su questo argomento, i giudici del Tar di Lecce ricordano,
innanzitutto, che la giurisprudenza ha chiarito che
l’esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la
non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in
qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato
disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono
risultare sottratti al diritto di accesso.
Secondo quanto precisato da Tar Salerno 920/2003, aggiungono
i giudici amministrativi pugliesi, "Ai sensi dell'art.
329 c.p.p., l'obbligo di segreto nei procedimenti penali
riguarda soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e
dalla polizia giudiziaria, di talché gli atti posti in
essere da un'azienda sanitaria locale nell'ambito della sua
attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se
riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza,
controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur
dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria;
tali atti, dunque, restano nella disponibilità
dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno
specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G.,
cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro
confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22,
l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di
cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990".
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR
Campania Napoli, Sez. I, 23.02.1995, n. 38: "La
circostanza dell'avvenuta trasmissione degli atti, oggetto
della domanda di accesso, al vaglio della magistratura
penale, peraltro senza un provvedimento di sequestro, non
giustifica il rifiuto o il differimento dell'accesso, né
comporta uno specifico obbligo di segretezza che escluda o
limiti la facoltà per i soggetti interessati di prendere
conoscenza degli atti, anche alla luce della previsione
dell'art. 258 c.p.p." (conformi anche Cons. Stato, Sez.
IV, 28.10.1996, n. 1170, TAR Bari, sentenza n. 287/2011).
In questa vicenda l’accesso è stato richiesto in relazione
ad atti di origine extraprocessuale che non risultavano
coperti da segreto o dal vincolo del sequestro, pertanto, i
giudici del Tar Puglia, hanno ordinato l’esibizione dei
documenti richiesti (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 11.09.2014 n. 2331 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Escluso dalla gara il concorrente che non produce
le dichiarazioni attestanti l'assenza di condizioni
ostative.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, afferma
l'obbligo di escludere il concorrente che non ha prodotto le
dichiarazioni attestanti l'assenza delle relative condizioni
ostative; vengono così prontamente applicate alcune novità
introdotte dal D.L. n. 90 del 24.06.2014.
L'art. 39 del D.L. n. 90 del 24.06.2014, spiegano infatti i
giudici di Palazzo Spada, ha apportato modifiche all'art. 38
del D.Lgs. n. 163/2006, semplificando gli oneri formali
nella partecipazione a procedure per l'affidamento dei
contratti pubblici con disposizioni relative per l'appunto
alle dichiarazioni sostitutive volte a valorizzare il potere
di soccorso istruttorio e distinguendo, fra l'altro, fra
dichiarazioni essenziali e non essenziali.
Orbene il D.L., che, nel caso di specie, al momento della
assunzione in decisione dei gravami in esame era nella fase
di conversione, prevede che le modifiche si applicano
espressamente alle procedure indette successivamente alla
loro entrata in vigore (c. 3). Sussiste l'obbligo di
escludere il concorrente che non ha comunque prodotto, ai
sensi degli artt. 46 e 38 del D.Lgs. n. 163/2006, le
dichiarazioni attestanti l'assenza delle relative condizioni
ostative, anche se inesistenti.
In conclusione, secondo gli stessi giudici, le procedure
concorsuali perseguono il rispetto rigoroso delle regole
poste ad assicurare l'imparzialità e la parità di
trattamento in tutte le loro fasi, per cui spetta al
concorrente il dovere della diligenza nella osservanza delle
disposizioni di legge e concorsuali proprio ai fini della
tutela dell'interesse al concorso; né tale onere può essere
posto a carico dell'Amministrazione, che altrimenti verrebbe
a violare proprio quella parità di trattamento, che invece
nel caso di specie prevale sul diverso principio del
favor partecipationis, dovendosi assicurare certezza
agli elementi dell'offerta
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 08.09.2014 n. 4543 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'interesse concorrenziale è requisito idoneo
all'accesso ai documenti.
La legge 07.08.1990, n. 241 (legge sul procedimento
amministrativo) all'art. 22 prevede che, ai fini di
correttamente esercitare il diritto di accesso ai documenti
amministrativi, il privato interessato deve dimostrare di
essere titolare di un interesse personale, concreto e
attuale. L'interessato deve cioè dimostrare che sussiste un
collegamento diretto tra la propria posizione e il documento
per il quale si richiede l'accesso.
In questa occasione una società esercente trasporto
passeggeri e gestione di servizi elicotteristici privati,
aveva richiesto al soggetto competente, società gestrice di
area pubblica -che aveva proceduto ad assegnazione, in
assenza di procedura concorrenziale, del servizio di
gestione di ad altra impresa- di poter prendere visione del
contratto pluriennale di affidamento in gestione del
servizio, nonché degli atti e dei documenti ad esso
allegati. Opposto il rifiuto all'accesso, l'impresa
interessata aveva proposto ricorso al TAR, il quale tuttavia
aveva rigettato la domanda per carenza dei requisiti
specifici di interesse, previsti dalla legge.
Secondo il giudice di primo grado il ricorrente si sarebbe
limitato ad affermare in via generica le proprie ragioni,
richiamando semplicemente la normativa di settore e
sottolineando di esercitare attività imprenditoriale
specifica.
Il Consiglio di Stato, dopo aver ricordato come "l'accesso
ai documenti amministrativi costituisce principio generale
dell'attività amministrativa, al fine di favorire la
partecipazione e assicurarne l'imparzialità e la
trasparenza, richiedendosi per l'accesso un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso" e che, parallelamente, "non sono
ammissibili solo le istanze di accesso preordinate a un
controllo generalizzato all'operato delle pubbliche
amministrazioni, essendo tale controllo estraneo alle
finalità perseguite attraverso l'istituto di cui trattasi",
giunge a una soluzione diametralmente opposta
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.07.2014 n. 4028 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'istituto dell'avvalimento si applica anche alle
concessione di servizi pubblici.
L'istituto dell'avvalimento (art. 49 del dlvo 12.04.2006 n.
163 (Codice dei contratti pubblici) è espressione di
principi generali a tutela della concorrenza, consentendo la
partecipazione di soggetti che senza l'ausilio di altra
impresa non avrebbero i requisiti richiesti per la
partecipazione stessa. Ne consegue che detto istituto si
applica anche in presenza di una concessione di servizi
pubblici.
In relazione al dovere di soccorso, la giurisprudenza ha
affermato che il potere di soccorso -sostanziandosi
unicamente nel dovere della stazione appaltante di
regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già
esistenti ovvero di completarli ma solo in relazione ai
requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere
chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire
interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della
par condicio dei concorrenti- non consente la produzione
tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la
sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano
previsti a pena di esclusione dal Codice dei contratti
pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi
statali (commento
tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 22.07.2014 n. 3905 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Concessioni di servizi: non c’è obbligo di
indicare gli oneri per la sicurezza.
I giudici del Consiglio di Stato hanno stabilito nella
sentenza n. 3864 dello scorso 18 luglio che non sussiste per
le concessioni di servizi l'obbligo di indicare gli oneri
per la sicurezza.
L'art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006, spiegano i giudici di
Palazzo Spada, prevede che le concessioni di servizi siano
sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e
del codice dei contratti pubblici e che ad esse si
applichino i principi desumibili dal Trattato e i principi
generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i
principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non
discriminazione, parità di trattamento, mutuo
riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui
sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in
tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto
della concessione, e con predeterminazione dei criteri
selettivi.
I costi sostenuti per la sicurezza, concludono gli stessi
giudici, non possono farsi rientrare tra i principi generali
a tutela della concorrenza, in quanto perseguono la diversa
finalità di tutela dei lavoratori e vengono in rilievo, come
sopra rilevato, nella fase di verifica dell'anomalia
dell'offerta.
Del resto, se la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
escluso che sussiste finanche per i contratti di appalto di
lavori disciplinati dal Codice l'obbligo di indicare
nell'offerta gli oneri di sicurezza, non potrebbe
sostenersi, che tale obbligo trovi applicazione per le
concessioni di servizi
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.07.2014 n. 3864 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 03.11.2014 |
ã |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Manuale per la qualificazione SOA
(ANCE Bergamo,
circolare 31.10.2014 n. 198). |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
Ordinanza TRIBUNALE di Avellino n. 395 del 19.02.2014 –
Ingegnere junior - Titolo professionale e timbro - Richiesta
di omettere l'aggettivo "junior" - Rigetto – Circolare CNI
n. 383/2011 – Interpretazione corretta della normativa -
Considerazioni (Consiglio Nazionale Ingegneri,
circolare 10.10.2014 n. 434). |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Consiglio Nazionale dei Geometri e Geometri Laureati -
Regolamento sul professionista affidatario di più di tre
tirocinanti e sui corsi di formazione professionale
alternativi al tirocinio (con allegato A) (Consiglio
Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
delibera 22.07.2014 n. 7). |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Consiglio Nazionale dei Geometri e Geometri Laureati -
Regolamento per la formazione professionale continua ai
sensi del D.P.R. 07.08.2012 n. 137, articolo 7
(Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
delibera 22.07.2014 n. 6). |
COMPETENZE
PROGETTUALI: Oggetto:
Nuova circolare relativa alle competenze dell'architetto
junior e del pianificatore junior alla luce di fatti e
mutamenti finora intervenuti
(Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori,
Paesaggisti e Conservatori,
circolare
07.03.2013 n. 21). |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
Titolo accademico e titolo professionale - Informazioni
da riportare sul timbro - Continue richieste di chiarimento
- Indicazioni circa la distinzione e la corretta dizione con
cui chiamare gli iscritti alle sezioni A e B dell'albo -
Riepilogo della disciplina (Consiglio Nazionale
Ingegneri,
circolare 26.01.2011 n. 383). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 03.11.2014, "Rettifica
dell’allegato A al decreto n 9768 del 22.10.2014 -
Determinazione, per l’anno 2015 dei canoni da porre a base
d’asta per l’affidamento dei lavori di sistemazione
idraulica mediante escavazione di materiale inerte dagli
alvei dei corsi d’acqua" (decreto
D.G. 30.10.2014 n. 10067). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2014, "Individuazione
dei periodi di divieto di spandimento degli effluenti di
allevamento e dei fertilizzanti azotati di cui al d.m.
07.04.2006 per la stagione autunno vernina 2014/2015" (decreto
D.G. 28.10.2014 n. 9977). |
VARI: G.U.
28.10.2014 n. 251 "Delega al Governo per il recepimento
delle direttive europee e l’attuazione di altri atti
dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2013 -
secondo semestre" (Legge
07.10.2014 n. 154). |
APPALTI: G.U.
27.10.2014 n. 250 "Ulteriori disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159,
recante codice delle leggi antimafia e delle misure di
prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della
legge 13.08.2010, n. 136" (D.Lgs.
13.10.2014 n. 153). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Tutela del
dipendente che effettua segnalazioni di illecito (c.d.
whistleblower).
L’Autorità Nazionale Anticorruzione è competente a ricevere
(ai sensi dell’art. 1, comma 51, della legge 06.11.2012, n.
190 e dell’art. 19, comma 5, della legge 11.08. 2014, 114)
segnalazioni di illeciti di cui il pubblico dipendente sia
venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di
lavoro.
Si intende dare immediatamente attuazione a queste
disposizioni normative, aprendo un canale privilegiato a
favore di chi, nelle situazioni di cui si è detto, scelga di
rivolgersi all’Autorità e non alle vie interne stabilite
dalla Pubblica Amministrazione di appartenenza.
E’ perciò istituito un protocollo riservato dell’Autorità,
in grado di garantire la necessaria tutela del pubblico
dipendente: saranno assicurati la riservatezza sull’identità
del segnalante e lo svolgimento di un’attività di vigilanza,
al fine di contribuire all’accertamento delle circostanze di
fatto e all’individuazione degli autori della condotta
illecita.
Quest’attività consentirà inoltre all’Autorità di valutare
la congruenza dei sistemi stabiliti da ciascuna Pubblica
Amministrazione a fronte delle denunce del dipendente con le
direttive stabilite nel Piano Nazionale Anticorruzione
(punto 3.1.11) ed evitare, in coordinamento con il
Dipartimento per la funzione pubblica, il radicarsi di
pratiche discriminatorie nell’ambito di eventuali
procedimenti disciplinari.
Seguirà a breve una delibera dell’Autorità per regolare in
modo specifico la procedura (22.10.2014 - link a www. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
L’istituto dell’accesso civico: responsabilità delle
pubbliche amministrazioni e opportunità per la società
civile (comunicato
15.10.2014 - link a www.anticorruzione.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA: R.
D'Isa,
La S.r.l. - Società a responsabilità limitata
(31.10.2014 - tratto da http://renatodisa.com).
---------------
Rassegna giurisprudenziale e dottrinaria sulla S.r.l. -
Normativa di riferimento: Codice civile – Libro V del lavoro
– Titolo V delle società - Capo VII della società a
responsabilità limitata – artt. 2462 – 2483. |
URBANISTICA:
D. Tramutoli,
“Vincoli conformativi ed espropriativi: occhio alle
differenze!” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sentenza n.
4976 del 06.10.2014)
(29.10.2014 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
P. Palazzi,
Caso studio: Regione Lombardia – centro storico - già
avvenuto cambio uso in “box” di u.i. esistente con altra
destinazione – illegittimità comunicazione (postuma) ex art.
52, comma 2 – applicabilità art. 37 (28.10.2014 -
link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
P. Palazzi,
"C'era una volta un paese senza terremoti": la horror
fiaba della riclassificazione delle zone sismiche (28.10.2014
- link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
C. Volpe,
L’affidamento “in house”: situazione attuale e
proposte per una disciplina specifica
(28.10.2014 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La rilevanza plurima
dell’in house. 3. Le ragioni della costruzione dell’in
house. 4. I requisiti dell’in house. 5. L’in house modello
organizzativo e modalità di affidamento. 6. L’in house nelle
nuove direttive: i requisiti. 7. Segue. L’in house nelle
nuove direttive: l’in house verticale capovolto, l’in house
orizzontale e il controllo limitato ad alcune delle attività
della società. 8. Segue. L’in house nelle nuove direttive:
l’in house frazionato o pluripartecipato. 9. Le conseguenze
in tema di recepimento delle direttive. 10. Considerazioni
finali. |
EDILIZIA
PRIVATA: I.
Pagano, In
pendenza del rilascio di condono edilizio, l’Amministrazione
Comunale deve valutare la possibilità di emettere un
certificato di agibilità provvisoria dei manufatti oggetto
di istanza di sanatoria (23.10.2014 - link a www.diritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: P.
Avitto,
La responsabilità degli enti in materia ambientale e i
principi generali del d.lgs. n. 231/2001 (24.10.2014
- link a www.diritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: A.
P. Esposito,
Il funzionario di fatto: in particolare, la sorte degli atti
adottati
(24.10.2014 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Vendita forzata e attestato di prestazione energetica
(alla luce delle recenti modifiche al D.Lgs. 192/2005 di cui
al D.L. 04.06.2013, n. 63, convertito con L. 03.08.2013, n.
90 e di cui al D.L. 23.12.2013, n. 145 convertito in L.
21.02.2014, n. 9) (studio
19-20.06.2014 n. 263-2014/C).
---------------
Sommario:
1. Premessa;
2. Conclusioni raggiunte nel vigore della formulazione del
D.lgs. 192/2005 vigente fino al 03.08.2013. Esclusione della
vendita forzata dal perimetro di applicazione del D.lgs. 192
del 2005;
3. Le novità apportate dal D.L. n. 63/2013 convertito in L.
n. 90/2013 e il bilanciamento degli interessi in gioco da
parte del legislatore statale;
4. I nuovi articoli 6 e 15 del D.lgs. 192 del 2005 a seguito
delle novità apportate dal D.L. n. 63/2013 convertito in L.
n. 90/2013. Argomenti a favore della non applicazione della
disciplina prevista alla vendita forzata a mezzo di decreto
di trasferimento;
5. Consequenziale irrilevanza rispetto alle vendite forzate
attuate a mezzo di decreto di trasferimento ex art. 586
c.p.c. del comma 8 dell’art. 1 del D.lgs. 145/2013;
6. Il D.L. 23.12.2013, n. 145 (c.d. “destinazione Italia”)
oggi convertito con L. 21.02.2014, n. 9 e la disciplina
attualmente vigente in tema di allegazione dell’APE agli
atti di trasferimento a titolo oneroso. Argomenti a favore
della non applicazione della disciplina prevista alla
vendita forzata a mezzo di decreto di trasferimento;
7. Opportunità della dotazione di attestato di prestazione
energetica dei beni posti in vendita in sede esecutiva sotto
il profilo della competitività della vendita forzata e
opportunità dell’allegazione dell’attestato di prestazione
energetica agli atti al decreto di trasferimento (o della
sua consegna all’aggiudicatario) sotto il profilo
dell’economia del sistema;
8. Conclusioni. |
ARAN |
SEGRETARI
COMUNALI:
SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI RISULTATO
/
L’istituto della “Valutazione” è obbligatorio
anche per il segretario comunale?
In proposito, si ritiene utile precisare quanto segue:
a) in generale, si deve evidenziare che, base alle
previsioni del Titolo II del D.Lgs. n. 150, tutte le
amministrazioni adottano metodi e strumenti idonei a
misurare, valutare e premiare non solo la performance
organizzativa ma anche quella individuale, con riferimento a
tutte le categorie di personale presenti nell’ente
(dirigenti e non dirigenti);
b) con riferimento poi alla particolare ipotesi del
segretario comunale, si deve ricordare anche che allo
stesso, l’indennità di risultato non può essere erogata in
modo automatico e per il solo servizio prestato; infatti,
l’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del
16.05.2001, stabilisce che la corresponsione di tale voce
retributiva può avvenire solo nel rispetto delle precise
condizioni e modalità ivi stabilite e cioè:
1) preventiva determinazione dell’ammontare della
retribuzione di risultato che può essere riconosciuta al
segretario, nell’ambito delle risorse effettivamente
disponibili e nel rispetto della propria capacità di spesa;
2) preventiva fissazione e formale conferimento al
segretario di precisi obiettivi, tenendo conto del complesso
degli incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione
dell’incarico di funzione di Direttore Generale;
3) valutazione annuale degli obiettivi e dei risultati
conseguiti dal segretario da parte degli enti che, a tal
fine, utilizzano, con gli opportuni adattamenti, la
disciplina adottata, in coerenza con le previsioni del
Titolo II del D.Lgs. n. 150/2009, in materia di definizione
di misurazione, valutazione e trasparenza della performance
(parere
14.10.2014 n. SEG-041 - link a
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Qualora
transiti da un ente (o enti convenzionati) con numero di
abitanti tra 10.001 e i 65.000 ad un ente (o enti
convenzionati) con numero di abitanti tra i 3.000 ed i
10.000, il segretario continua a percepire la retribuzione
di posizione più elevata (€ 15.584,45) oppure gli va
riconosciuto l’importo inferiore (7.837,59), di cui
all’art. 41 del CCNL del 16.05.2001 e successivo art. 3 del
CCNL dell’01.03.2011?
Nel merito del quesito formulato, si ritiene opportuno
precisare che disciplina contrattuale vigente stabilisce
espressamente la garanzia della conservazione dell’eventuale
maggiore importo della retribuzione di posizione
precedentemente in godimento del segretario solo per la
particolare fattispecie dei segretari che, collocati in
disponibilità, accettino successivamente la nomina in un
ente di fascia immediatamente inferiore.
Infatti, l’art. 43 del CCNL dei segretari comunali e
provinciali del 16.05.2001 chiaramente prevede che, in caso
di nomina del segretario in disponibilità presso un ente di
fascia immediatamente inferiore a quella di iscrizione, lo
stesso conserva il trattamento economico in godimento
previsto dal comma 1 del suddetto articolo e, cioè, per
quello che qui interessa soprattutto la precedente
retribuzione di posizione.
La stessa disciplina contrattuale specifica anche che, in
questa particolare situazione, i relativi oneri sono a
carico dell’ente di nomina, ad eccezione di quelli relativi
alla retribuzione di posizione che rimangono a carico che
rimangono a carico dell’ex Agenzia per la gestione dell’Albo
nazionale dei segretari, per la quota corrispondente alla
differenza tra quella precedentemente in godimento e quella
prevista per la fascia di appartenenza dell’ente.
Pertanto, sulla base di tale normativa, la garanzia della
conservazione del più elevato importo della retribuzione di
posizione in godimento di un segretario, precedentemente
titolare di un incarico in un ente di superiore classe
demografica e che ha accettato la titolarità in un ente di
classe demografica inferiore, può trovare attuazione solo in
questa specifica fattispecie.
Trattandosi di una disciplina contrattuale specifica e “speciale”
si ritiene che la stessa non possa essere estesa in via
analogica a fattispecie diverse da quella espressamente
presa in considerazione dalla stessa
(parere
11.02.2014 n. SEG-040 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E
PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI RISULTATO /
E’ possibile erogare la retribuzione di risultato
ad un segretario comunale cessato dall’incarico in data
12.08.2012, sostituito da altro segretario in data
27.08.2012, considerato che solo in data 24.09.2012 è stata
determinata la misura della suddetta voce retributiva e sono
stati stabiliti gli obiettivi ed i criteri di misurazione
dei risultati per l’anno 2012?
Il segretario
non è titolare di un autonomo e preciso diritto alla
percezione dell’indennità di risultato; la predetta,
indennità, infatti, non può essere erogata in modo
automatico e per il solo servizio prestato;
1) l’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e provinciali
del 16.05.2001, stabilisce che la corresponsione
dell’indennità di risultato può avvenire solo nel rispetto
delle precise condizioni e modalità ivi stabilite e cioè:
a) preventiva determinazione dell’ammontare della
retribuzione di risultato che può essere riconosciuta al
segretario, nell’ambito delle risorse effettivamente
disponibili e nel rispetto della propria capacità di spesa;
b) preventiva fissazione e formale conferimento al
segretario di precisi obiettivi, tenendo conto del complesso
degli incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione
dell’incarico di funzione di Direttore Generale;
c) valutazione annuale degli obiettivi e dei risultati
conseguiti dal segretario da parte degli enti che, a tal
fine, utilizzano, con gli opportuni adattamenti, la
disciplina adottata, in coerenza con le previsioni del
Titolo II del D.Lgs. n. 150/2009, in materia di definizione
di misurazione, valutazione e trasparenza della performance;
d) poiché si tratta di un emolumento da corrispondere solo a
seguito della positiva verifica e certificazione del
conseguimento degli obiettivi annuali assegnati al
segretario, è possibile anche l’ eventuale riduzione della
retribuzione di risultato allo stesso riconosciuta, in
presenza di una valutazione dei risultati parzialmente
negativa.
Gli adempimenti di cui ai punti 1 e 2, e soprattutto la
preventiva fissazione degli obiettivi e dei risultati che il
segretario deve conseguire, sono, come detto, un presupposto
indefettibile per la corretta applicazione dell’istituto.
Pertanto, la mancanza della preventiva assegnazione al
segretario degli obiettivi e dei risultati non consente in
alcun modo l’erogazione della retribuzione di risultato al
segretario (parere
24.10.2013 n. SEG-036 -
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SEGRETARI
COMUNALI:
SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / ORARIO DI LAVORO / E’
possibile dotare il Segretario comunale di un apposito badge
per la rilevazione automatica della presenza in servizio?
La materia dell’orario di lavoro dei segretari comunali
trova la sua fondamentale regolamentazione nell’art.19 del
CCNL del 16.05.2001 che ha previsto una disciplina
sostanzialmente identica a quella già prevista per la
dirigenza del Comparto Regioni-Autonomie Locali del
10.04.1996. Tale clausola contrattuale ha introdotto, come è
noto, un sistema basato sulla autoresponsabilizzazione del
segretario.
In tale ambito, non è prevista alcuna quantificazione
complessiva dell’orario di lavoro del segretario, neppure
attraverso la sola definizione di un limite massimo di
durata delle prestazioni lavorative dovute. Spetta, invece,
al segretario la organizzazione complessiva del proprio
tempo di lavoro, in modo da assicurare il completo
soddisfacimento dei compiti affidati e degli obiettivi
assegnati.
In analogia a quanto sempre sostenuto con riferimento alla
corrispondente disciplina della dirigenza, si ritiene che,
anche se il nuovo sistema è basato sulla
autoresponsabilizzazione del segretario nell’organizzazione
del proprio orario di lavoro, non è comunque preclusa
all’ente la possibilità di assumere iniziative per
l’adozione di sistemi di rilevazione ed accertamento delle
presenze e delle assenze del segretario, anche ai fini della
valutazione annuale dello stesso e dell’erogazione della
retribuzione di risultato nonché per la gestione degli altri
istituti connessi al rapporto di lavoro (ferie, malattia,
ecc.).
E’ evidente che la rilevazione, per i fini di cui si è
detto, riguarderà solo le presenze e le assenze e non anche
la quantità oraria delle prestazioni giornaliere, dato che,
come si è detto, non è prevista per i segretari alcuna
quantificazione dell’orario di lavoro dovuto
settimanalmente.
Si ricorda anche che la previsione di un controllo di tipo
automatico dell’osservanza dell’orario di lavoro è contenuta
direttamente nell’art. 22, comma 3, della legge n. 724/1994
(parere
24.10.2013 n. SEG-034 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E
PROVINCIALI / SEGRETERIE CONVENZIONATE /
La retribuzione aggiuntiva di cui all’art. 45,
comma 1, del CCNL del 16.05.2001, riconosciuta ai segretari
comunali in caso di servizio di segreteria convenzionata, è
dovuta anche nei casi di astensione dal lavoro di durata
elevata (maternità o malattia)? Qual è la normativa di
riferimento?
Ai fini della determinazione dell’ammontare della
retribuzione aggiuntiva per segreteria convenzionata che può
essere riconosciuta al segretario comunale, la disciplina
contrattuale (art. 45 del CCNL dei segretari comunali e
provinciali del 16.05.2001, relativo al quadriennio
normativo 1998-2001 ed al biennio economico 1998-1999),
prevede un sistema di calcolo incentrato sull’applicazione
di una predefinita percentuale su un insieme di voci
retributive, tra le quali sono ricompresi anche compensi
accessori. Si ritiene che venga in considerazione un
emolumento comunque riconducibile al trattamento stipendiale
piuttosto che a quello accessorio.
A sostegno di tale interpretazione, si possono richiamare i
seguenti profili:
a) il compenso si può qualificare come trattamento economico
fondamentale di attività, in quanto finalizzato a remunerare
i particolari e più gravosi compiti che il segretario è
chiamato a svolgere presso più enti, con assunzione di
maggiore responsabilità;
b) il dato formale rappresentato dalla circostanza che, pure
in mancanza di previsioni espresse nel testo dell’art.45 del
CCNL del 16.05.2001, la clausola contrattuale qualifica il
suddetto emolumento come “retribuzione mensile aggiuntiva”
e, quindi, come tale non può non essere ricondotta al
trattamento stipendiale;
c) la circostanza che, ai fini della determinazione si
faccia riferimento anche a voci del trattamento economico
accessorio, non acquista, per quel che interessa, uno
specifico rilievo ai fini della riconduzione del compenso al
trattamento economico accessorio del segretario, in quanto
si tratta di un mero criterio di calcolo: la definizione
della base di calcolo su cui applicare la prevista
percentuale del 25%.
Occorre, infatti, considerare che nelle previsioni dell’art.
45, comma 1, del CCNL del 16.05.2001, attraverso il
riferimento all’art. 37, comma 1, del medesimo CCNL, vengono
inserite nella suddetta base di calcolo anche voci
retributive, in godimento del segretario, di natura
evidentemente stipendiale: lett. a) - trattamento
stipendiale; lett. b) - indennità integrativa speciale;
lett. c) - la retribuzione individuale di anzianità, ove
acquisita; lett. e) e) maturato economico annuo, ove
spettante. Proprio il rinvio anche a voci retributive
stipendiali evidenzia ulteriormente la riconduzione del
compenso al trattamento economico fondamentale di attività;
d) le modalità di computo della tredicesima mensilità.
Infatti, pure in mancanza di previsioni espresse nel testo
del CCNL del 16.05.1001, proprio perché trattasi di “retribuzione”
aggiuntiva e, quindi, di trattamento stipendiale, l’avviso
della scrivente Agenzia è sempre stato nel senso che, nella
determinazione dell’ammontare della tredicesima mensilità
del segretario incaricato di segreteria convenzionata,
dovesse tenersi conto anche del rateo relativo alla
retribuzione aggiuntiva allo stesso corrisposta, ai sensi
dell’art. 45 del CCNL del 16.5.2001;
e) l’ulteriore elemento di sostegno della ricostruzione
fatta è rappresentato anche dalla circostanza che l’INPDAP
nella sua circolare applicativa del 2002 sul CCNL dei
segretari comunali del 2001, considera tale particolare voce
retributiva come fissa e ricorrente e, quindi, utile ai fini
della quota A della pensione;
f) l’elemento di natura tecnico–sistematica utilizzata dalle
parti negoziali nella stesura del testo contrattuale con
riferimento alle voci che compongono il trattamento
economico, fondamentale ed accessorio, del segretario
comunale. Infatti, quando le stesse hanno inteso compensare
una specifica funzione o responsabilità solo in sede di
trattamento economico accessorio, lo hanno fatto
espressamente. Cosi, ad esempio, per le eventuali funzioni
aggiuntive attribuite al segretario, l’art. 41, comma 4, del
CCNL del 16.05.2001, è stata prevista espressamente solo una
maggiorazione della retribuzione di posizione del
segretario, sia pure demandandone la effettiva attuazione
alla contrattazione decentrata integrativa di livello
nazionale di questa particolare categoria di personale.
g) pertanto, se le parti avessero voluto compensare le
funzioni connesse alle sedi di segreteria convenzionata solo
in sede di trattamento economico accessorio, avrebbero fatto
riferimento semplicemente alle previsioni del citato art.
41, comma 4, del CCNL del 16.05.2001.
Pertanto, se si tratta di una voce retributiva riconducibile
al trattamento stipendiale, come sopra evidenziato, in caso
di assenza per malattia o di astensione per maternità essa
sarà assoggettata alle stesse regole previste per
quest’ultimo (parere
24.10.2013 n. SEG-032 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / In
presenza del conglobamento nello stipendio tabellare del
segretario di una quota della retribuzione di posizione, con
conseguente rideterminazione in diminuzione del valore della
stessa con decorrenza dal 31.12.2009, ai sensi dell’art. 5,
comma 3, del CCNL dell’01.03.2011, ove nel periodo
31.12.2009–01.03.2011, si sia proceduto alla decurtazione
del trattamento accessorio per malattia del segretario (art.
71 della legge 133/2008), con riferimento quindi al
precedente e più elevato importo della retribuzione di
posizione, l’ente può procedere al conguaglio della
trattenuta operata, adeguandola al nuovo importo della
retribuzione di posizione prevista con decorrenza dal
31.12.2009?
L’art. 3, commi 4 e 5, del CCNL dei segretari comunali e
provinciali del 01.03.2011, relativo al biennio 2008-2009,
come è noto, ha operato il conglobamento di una quota della
retribuzione di posizione del segretario ai fini della
realizzazione dell’allineamento dello stipendio tabellare di
tale categoria di personale con quello della dirigenza del
Comparto Regioni-Autonomie Locali.
Conseguentemente, dalla medesima data del 31.12.2009, la
retribuzione di posizione dei segretari è stata ridefinita
nel più basso importo previsto per i tre livelli dall’art.
3, comma 6, del medesimo CCNL del 01.03.2011.
Attraverso la previsione espressa della decorrenza della
nuova disciplina al 31.12.2009, è indubbia l’efficacia
retroattiva della stessa.
Pertanto, poiché la decurtazione del trattamento accessorio
per malattia del segretario è stata operata nel periodo
temporale successivo al 31.12.2009, e quindi sulla base del
precedente e più elevato importo della retribuzione di
posizione allo stesso spettante, e considerata la
retroattività della nuova disciplina contrattuale sopra
richiamata, si ritiene che l’ente non possa non procedere al
conguaglio della trattenuta già posta in essere, adeguandola
cioè al nuovo importo della retribuzione di posizione
prevista con decorrenza appunto dal 31.12.2009
(parere
13.08.2012 n. SEG-037 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E
PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI RISULTATO /
E’ possibile fare riferimento alle tabelle ACI
per il rimborso delle spese di viaggio sostenute dal
segretario titolare di segreterie convenzionate, ai sensi
dell’art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001?
L’art. 45, comma 2 del CCNL del 16.05.2001 stabilisce che “al
segretario titolare di segreterie convenzionate, per
l'accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese
di viaggio effettivamente sostenute e documentabili” e
non contiene alcun riferimento alle tabelle chilometriche
elaborate dall’ACI che, pertanto, non possono essere
utilizzate.
E’ onere del Segretario fornire la documentazione delle
spese effettivamente sostenute (parere
05.12.2011 n. SEG-029 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E
PROVINCIALI / SEGRETERIE CONVENZIONATE /
Quali spese possono essere rimborsate al
segretario titolare di segreterie convenzionate ai sensi
dell’art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001?
Non possiamo che rinviare alla chiara previsione dell’art.
45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001, secondo il quale “al
segretario titolare di segreterie convenzionate, per
l'accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese
di viaggio effettivamente sostenute e documentabili”.
Si tratta di una previsione che non necessita, a nostro modo
di vedere, di alcun ulteriore chiarimento: o le spese
effettivamente sostenute per l’accesso alle diverse sedi
sono documentabili, e allora il segretario avrà diritto al
loro rimborso (negli importi documentati); o esse non sono
documentabili, in tutto o in parte, e allora non sarà
possibile alcun rimborso o sarà possibile il loro rimborso
solo per la parte documentata.
Precisiamo, infine, che la citata disposizione contrattuale
consente di rimborsare le spese sostenute dal segretario per
recarsi nella seconda sede di segreteria anche quando egli
non passi per la prima sede di segreteria ma parta
direttamente dal suo domicilio (parere
05.12.2011 n. SEG-028 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI
E PROVINCIALI / SEGRETERIE CONVENZIONATE /
E’ possibile liquidare nel 2010 la retribuzione di risultato
del segretario comunale relativa al 2006?
A tal fine si
evidenzia che:
a) il comune capofila della convenzione di segreteria
intende procedere alla liquidazione dell’intero importo, con
conseguente ripartizione della quota a carico di ciascun
comune convenzionato;
b) non risultano agli atti preventivi accordi tra i comuni
convenzionati, non vi è impegno di spesa, né risultato
assegnati gli obiettivi, di cui all’art. 42 del CCNL del
16.05.2001.
Nel caso in cui l’ente capofila debba corrispondere la
retribuzione di risultato, lo stesso è obbligato per la
quota parte o deve anticipare anche la quota eventualmente a
carico degli altri comuni in convenzione?
Il segretario non è titolare di un autonomo e preciso
diritto alla percezione dell’indennità di risultato e che
questa, comunque, non può essere erogata in modo automatico
e per il solo servizio prestato.
L’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del
16.05.2001, stabilisce che la corresponsione dell’indennità
di risultato può avvenire solo nel rispetto delle precise
condizioni e modalità ivi stabilite e cioè:
1.preventiva fissazione e formale conferimento al segretario
di precisi obiettivi, tenendo conto del complesso degli
incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione dell’incarico
di funzione di Direttore Generale;
2.valutazione annuale degli obiettivi e dei risultati
conseguiti dal segretario da parte degli enti che, a tal
fine, utilizzano, con gli opportuni adattamenti, la
disciplina adottata ai sensi del D.Lgs. n. 286/1999, relativo
alla definizione di meccanismi e strumenti di monitoraggio
dei costi, dei rendimenti e dei risultati.
Pertanto, la mancanza dei presupposti sopra indicati non
consente in alcun modo l’erogazione della retribuzione di
risultato al segretario. Come specificato dal citato art. 42
del CCNL del 16.05.2001, in tale ambito di valutazione, non
si deve tenere conto degli obiettivi e dei risultati
attinenti all’incarico di direttore generale.
Inoltre, si deve precisare anche che:
a) la stessa possibilità di erogare la retribuzione di
risultato al segretario e la misura della stessa sono
rimesse integralmente alle autonome valutazioni dell’ente,
dato che l’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e
provinciali del 16.05.2001, in materia, non prevede alcun
criterio specifico, (fatto salvo quanto specificato nel
successivo punto b) limitandosi solo stabilire che tale
determinazione debba avvenire: “….nell’ ambito delle risorse
disponibili e nel rispetto della propria capacità di
spesa.”;
b) in base all’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e
provinciali del 16.05.2001, l’ammontare della retribuzione di
risultato dei segretari non può superare la percentuale del
10% del monte salari riferito a ciascun segretario;
c) la nozione di “monte salari”, ampiamente diffusa
nell’esperienza applicativa di tutti i comparti di
contrattazione collettiva, come base di calcolo per la
definizione delle risorse finanziarie disponibili per i
rinnovi contrattuali, ricomprende tutte le somme corrisposte
nell’anno di riferimento, determinate sulla base dei dati
inviati da ciascun ente, ai sensi dell’art. 60 del D.Lgs. n.
165/2001, in sede di rilevazione dei dati per il conto
annuale, e con riferimento ai compensi corrisposti al
personale destinatario del CCNL in servizio in tale anno;
d) tali somme ricomprendono quelle corrisposte a titolo di
trattamento economico sia principale che accessorio, ivi
comprese le incentivazioni, al netto degli oneri accessori a
carico dell’ente e con esclusione degli emolumenti non
correlati ad effettive prestazioni lavorative (assegni per
il nucleo familiare, indennità di trasferimento, indennità
di mensa, somme corrisposte a titolo di equo indennizzo,
ecc.);
e) tra le diverse voci retributive da considerare non sembra
possibile inserire anche l’indennità per funzioni di
direttore generale, di cui all’art. 44 del citato CCNL del
16.05.2001; in tal senso, si deve evidenziare che la
formulazione testuale dell'articolo 42, comma 1, del CCNL
del 16.05.2001, secondo la quale la retribuzione di risultato
è correlata al conseguimento degli obiettivi assegnati e
"...tenendo conto del complesso degli incarichi aggiuntivi
conferiti, ad eccezione dell'incarico di direttore
generale", esclude, all'origine, l’indennità per funzioni di
direttore generale dal computo del monte salari sul quale
calcolare la suddetta retribuzione di risultato del
segretario. Diversamente ritenendo, si determinerebbe una
evidente violazione del citato art. 42, comma 1, del CCNL
del 16.05.2001.
Poiché si tratta di un emolumento da corrispondere solo a
seguito della positiva verifica e certificazione del
conseguimento degli obiettivi annuali assegnati al
segretario, nel caso in cui siano stati posti in essere
tutti gli adempimenti sopra indicati, qualora la valutazione
prevista sia integralmente o parzialmente non positiva, si
avrà la non corresponsione o l’ eventuale riduzione della
retribuzione di risultato del segretario.
Gli adempimenti richiamati, e soprattutto la preventiva
fissazione degli obiettivi e dei risultati che il segretario
deve conseguire, sono, come detto, un presupposto
indefettibile per la corretta applicazione dell’istituto.
Pertanto, la scrivente Agenzia non ritiene possibile una
erogazione “a posteriori”, a sanatoria, della retribuzione
di risultato al segretario, sulla base di una valutazione,
ora per allora, di prestazioni e risultati già resi e
conosciuti. Un tale comportamento, in contrasto con le
regole contrattuali, potrebbe essere censurato dai Servizi
ispettivi del Ministero dell’Economie ed essere considerato
fonte di possibile responsabilità per danno erariale dalla
Corte dei Conti, che in passato ha già stigmatizzato tali
prassi, con riferimento alla retribuzione di risultato sia
della dirigenza sia dei titolari di posizione organizzativa
(sezione giurisdizionale per il Veneto, decisione n. 1158/2006;
Sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo, decisione
239/06/E.L).
Nel senso dell’impossibilità di un riconoscimento “a
posteriori” depone anche la circostanza che, ai fini
dell’erogazione della retribuzione di risultato, l’art. 42,
comma 2, del CCNL del 16.05.2001 richiede all’ente il
preventivo accertamento della effettiva sussistenza delle
risorse a tal fine necessarie nel rispetto della propria
capacità di spesa.
Proprio perché tale verifica doveva essere fatta in via
preventiva per l’anno in cui si decideva l’erogazione della
voce retributiva di cui si tratta (con riferimento alla
situazione dell’ente stesso, anche con riferimento alle
risorse ed alla propria capacità di bilancio, quale era
all’epoca), si esclude che essa possa intervenire “ora per
allora”, per consentire il pagamento della stessa con
efficacia retroattiva.
Relativamente alle segreterie convenzionate, ai fini della
ripartizione degli oneri, come regola generale, occorre fare
riferimento ai contenuti della convenzione di segreteria.
Infatti, questa dovrebbe prevedere modalità di ripartizione
degli oneri di segreteria convenzionata tali da garantire,
comunque, l’autonomia decisionale di ciascun ente
(valutazione dei risultati conseguiti dal segretario presso
la singola sede) e, soprattutto, il rispetto delle
previsioni dell’art. 42, comma 2, del CCNL del 16.05.2001,
che, come detto, ai fini dell’attribuzione e della
corresponsione della retribuzione di risultato, fa
riferimento alle "risorse disponibili" ed al "rispetto della
capacità di spesa" degli Enti (parere
05.12.2011 n. SEG-026 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E
PROVINCIALI / SEGRETERIE CONVENZIONATE /
Come si calcola l'importo della retribuzione di
risultato dei segretari comunali in convenzione?
La eventuale retribuzione di risultato dei segretari
comunali e provinciali, ai sensi dell’art. 42, comma 2, del
CCNL del 16.05.2001, deve essere determinata in un importo
non superiore al 10% del “monte salari” riferito a “ciascun
segretario”.
Questa chiara previsione contrattuale impone agli enti di
far riferimento, come base di calcolo, all’effettivo “monte
salari” che costituisce la retribuzione di “ciascun
segretario”.
Nel caso di servizi in convenzione, il “monte salari”
corrisponde all’insieme dei compensi che il segretario
effettivamente percepisce a carico di bilanci dei diversi
enti convenzionati; l’eventuale retribuzione di risultato
(nella misura unica del 10%) ci sembra corretto che venga
ripartita tra gli stessi enti, in proporzione alla
distribuzione degli oneri prevista dalla convenzione.
In altri termini, non sono consentite valutazione di “basi
retributive virtuali” (parere
05.12.2011 n. SEG-025 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / La
retribuzione di posizione del segretario generale da tenere
in considerazione per operare il c.d. "galleggiamento",
previsto dall’art. 41 comma 5, del CCNL 16/05/2001 è quella
di base prevista contrattualmente o quella maggiorata, ai
sensi dell’art. 41, comma 4, del medesimo contratto?
Ai fini dell’applicazione della regola contrattuale del
cosiddetto “galleggiamento”, ai sensi dell’art. 41,
comma 5, del CCNL dei segretari comunali del 16.05.2001, si
deve tenere conto dell’importo della retribuzione di
posizione effettivamente corrisposta al segretario generale
e, quindi, anche della eventuale maggiorazione della
retribuzione di posizione allo stesso riconosciuta, ai sensi
dell’art. 41, comma 4, del CCNL del 16.05.2001 e dello
specifico CCDI del 22.12.2003.
A tal fine si evidenzia che la regola del “galleggiamento”,
ai fini della sua applicazione, presuppone una necessaria
comparazione dei valori della retribuzione di posizione
stabilita per la funzione dirigenziale più elevata presente
nell’ente e di quella prevista per il segretario.
Conseguentemente, non può non tenersi conto degli effetti
dell’art. 41, comma 4, che, in presenza di determinate
condizioni e requisiti, prevede una maggiorazione proprio
della retribuzione di posizione al di sopra degli importi
per questa stabiliti dalla disciplina contrattuale (art. 41,
comma 3, del CCNL del 16.05.2001, relativo al quadriennio
normativo 1998-2001 ed art. 3 del CCNL del 16.05.2001,
relativo al biennio economico 2000-2001).
Gli enti possono riconoscere o meno detta maggiorazione, ma
se la attribuiscono essa non può essere considerata una voce
distinta dalla retribuzione di posizione. Pertanto, poiché
la maggiorazione è sempre parte integrante della
retribuzione di posizione in godimento del segretario, essa
non può non essere computata ai fini del “galleggiamento”
(parere 05.12.2011 n. SEG-020 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Alla
luce del principio di onnicomprensività della retribuzione
sancito dell’art. 24, comma 3, del D.Lgs. 165/2001, è
possibile attribuire uno specifico compenso al Segretario
Generale nominato componente del nucleo di valutazione
interno dell’ente?
Premesso che l’art. 24, comma 3, del D.Lgs. 165/2001 non è
direttamente applicabile al Segretario Generale, figura
sui generis equiparata ai dirigenti solo a talune
finalità e solo in alcune ipotesi (v. art.32 CCNL
16.5.2001), questa Agenzia ha già avuto modo di chiarire che
problemi come quello in esame devono essere risolti
valutando se le prestazioni correlate all’incarico
attribuito rientrano o meno nelle ordinarie competenze del
dipendente interessato.
Nella prima ipotesi, esse rientrano nei normali obblighi di
lavoro (sono svolte "ratione officii"), vengono
svolte durante l'orario di lavoro e sono retribuite
unicamente con il trattamento economico fondamentale e
accessorio previsto dal CCNL (v. art.41, comma 6 del CCNL
del 16.5.2001, secondo il quale “la retribuzione di
posizione … assorbe ogni altra forma di compenso connessa
alle prestazioni di lavoro…”).
Se, invece, dette prestazioni si collocano al di fuori delle
competenze ordinarie, e quindi non sono svolte "ratione
officii", esse possono essere svolte solo su incarico (o
preventiva autorizzazione) dell'ente, ai sensi dell'art. 53
del D.Lgs.165/2001, devono essere svolte al di fuori e non a
carico dell'orario di lavoro e solo in tal caso possono
essere percepiti eventuali compensi o gettoni ulteriori
rispetto al trattamento economico fondamentale e accessorio
previsto dai contratti collettivi.
La soluzione del problema va ricercata quindi nel contenuto
delle regole adottate dal vostro ente per la istituzione e
il funzionamento del nucleo di valutazione
(parere 05.12.2011 n. SEG-019 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / L’art.
42 del CCNL dei Segretari comunali e provinciali stabilisce
che la retribuzione di risultato non deve essere superiore
al 10% del monte salari riferito a ciascun segretario
nell’anno di riferimento. Come si calcola tale monte salari?
Comprende anche i diritti di segreteria?
a) la nozione di “monte salari” ha carattere generale
nel settore pubblico in quanto rappresenta un elemento
utilizzato in tutti i contratti per la quantificazione delle
risorse da destinare al fondo per l’erogazione dei
trattamenti accessori al personale;
b) tale nozione, sotto il profilo applicativo, ha una
portata molto ampia in quanto ricomprende tutte le somme
corrisposte nell’anno di riferimento al personale, rilevate
dai bilanci consuntivi delle singole amministrazioni e con
riguardo ai compensi corrisposti al personale destinatario
del CCNL in servizio nello stesso anno (tali somme
ricomprendono quelle corrisposte sia a titolo di trattamento
economico principale che accessorio, ivi comprese le
incentivazioni, al netto degli oneri accessori a carico
delle amministrazioni e con esclusione dei soli emolumenti
aventi carattere indennitario, risarcitorio o rimborso
spese);
c) pertanto tale nozione non può avere una diversa e minore
valenza nel caso del CCNL dei segretari comunali e
provinciali;
d) conseguentemente, ai fini della determinazione della
retribuzione di risultato del segretario, il monte salari
non può non ricomprendere tutte le voci retributive che
compongono la retribuzione dello stesso, tenendo conto delle
indicazioni contenute negli artt. 42 e 43 del CCNL del
16.05.2001; in particolare, esso ricomprende anche la voce “diritti
di segreteria”
(parere 05.12.2011 n. SEG-018 -
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COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / E’
possibile attribuire i compensi ISTAT al segretario comunale
responsabile dell’area amministrativa?
Riteniamo che i compensi ISTAT non possano essere attribuiti
al segretario comunale responsabile dell’area
amministrativa. Infatti, tale possibilità non è in alcun
modo prevista nell’ambito della disciplina del trattamento
economico di segretari comunali e provinciali contenuta nei
CCNL del 16.05.2001.
Inoltre, non è neppure estensibile al segretario comunale,
destinatario di una propria specifica regolamentazione
contrattuale (ai sensi dell’art. 97, comma 6, del D.Lgs. n.
267/2000 e dell’art. 14 del DPR n. 465/1997), la disciplina
dell’art. 14, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, dell’art.
39, comma 2, del CCNL del 14.09.2000 che consente di erogare
i compensi ISTAT all’altro personale che sia titolare di
posizione organizzativa. Analogo criterio è valido anche per
il personale con qualifica dirigenziale
(parere 05.12.2011 n. SEG-017 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / La
disciplina sulla 'parificazione' della retribuzione di
posizione del Segretario con quella della posizione
organizzativa più elevata dell'ente, con quale decorrenza
deve essere applicata?
In relazione ai quesiti formulati con la lettera cui
rispondiamo, dobbiamo ancora una volta confermare il
principio secondo il quale la disciplina dei contratti
collettivi di lavoro, compreso quello dei segretari comunali
e provinciali stipulato il 16.05.2001, può trovare
applicazione solo dal giorno successivo a quello della
sottoscrizione definitiva; nel caso specifico dal
17.05.2001.
Sono fatte salve, naturalmente, tutte le diverse decorrenze,
anche retroattive, che fossero espressamente consentite
dallo stesso CCNL.
In particolare l’espressione usata dall’art. 2, comma 1, del
CCNL in parola, secondo la quale “il presente contratto
concerne il periodo 01.01.1998–31.12.2001, non può in alcun
modo essere intesa come fissazione alla data dell’01.01.1998
degli effetti applicativi delle diverse clausole
contrattuali".
Basta, infatti, tener conto anche del contenuto del secondo
comma del citato art. 2, per trovare la conferma esplicita
del principio sopra affermato.
Naturalmente anche la disposizione relativa alla “parificazione”
della retribuzione di posizione del Segretario a quella
stabilita per la più elevata posizione organizzativa dell'
ente (art. 37, comma 5) non può non trovare applicazione che
dalla ripetuta data del 17.05.2001.
Riteniamo utile chiarire, ancora, per evitare equivoci
interpretativi, che il valore di L. 25.00.000 deve
corrispondere ad una posizione organizzativa che viene
effettivamente retribuita con un compenso pari a
quell’importo
(parere 05.12.2011 n. SEG-016 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Con
quali criteri deve essere applicata la disciplina dell'art.
41, comma 5, del CCNL dei Segretari per la 'parificazione'
con la retribuzione di posizione della posizione
dirigenziale più elevata dell'ente? Si deve tener conto del
valore effettivo o di quello massimo teorico (L.
82.000.000)?
La disciplina dell’art. 41, comma 5, del CCNL dei segretari
comunali e provinciali, sottoscritto il 16.05.2001, debba
essere correttamente interpretata e applicata nel senso che
il confronto tra la retribuzione di posizione del segretario
e quella della posizione dirigenziale più elevata dell'ente,
deve essere effettuata sulla base dell’effettivo valore “stabilito”
per detta ultima posizione ed effettivamente corrisposto al
dirigente titolare della posizione medesima.
In altri termini non deve farsi riferimento ad un dato
teorico, meno che mai al valore teorico massimo di L.
82.000.000, ma all’importo reale che la singola
amministrazione ha determinato per la posizione dirigenziale
al massimo livello di responsabilità.
Più banalmente possiamo convenire che il termine “stabilito”
debba essere inteso come equivalente di “percepito”.
Naturalmente la citata disciplina dell’art. 41, comma 5, può
trovare applicazione solo dal giorno successiva alla data di
definitiva sottoscrizione del CCNL
(parere 05.12.2011 n. SEG-015 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Con
quali decorrenze deve essere corrisposta la retribuzione di
posizione ai Segretari? La retribuzione di posizione è
interamente utile ai fini pensionistici e previdenziali? E’
possibile compensare eventuali incarichi per la
partecipazione a commissioni o ad altri organismi?
In relazione
al quesito specifico riteniamo utile fornire i seguenti
elementi di chiarimento:
◦ la disciplina dei contratti collettivi di lavoro, come
regola generale, trova applicazione dalla data di definitiva
sottoscrizione del documento da parte dell’ARAN e delle
organizzazioni sindacali; sono fatte salve, naturalmente, le
eventuali diverse decorrenze, anche retroattive,
espressamente previste nel testo del CCNL;
◦ per i nuovi valori della retribuzione di posizione, la
tabella n. 2 allegata al CCNL prevede tre specifiche
decorrenze cui sono correlati tre diversi importi, in
crescendo, della stessa retribuzione: 31.12.1997, dicembre
99 e 31.12.1999;
◦ con effetto dalle date suindicate ai segretari interessati
devono essere corrisposti i corrispondenti valori, con il
conseguente conguaglio rispetto agli analoghi compensi
fruiti in precedenza.
Riteniamo utile aggiungere che, nella determinazione degli
eventuali conguagli, occorre tener conto di quanto
eventualmente già percepito come compensi per lavoro
straordinario, ai sensi dell’art. 41, comma 6, del CCNL del
16.05.2001
(parere 05.12.2011 n. SEG-013 -
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SEGRETARI
COMUNALI: SEGRETARI
COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Oltre
alla retribuzione di posizione e di risultato, possono
essere corrisposti ulteriori compensi ai segretari per altri
incarichi organizzativi conferiti nell'ente?
L’attuale CCNL
relativo ai segretari comunali e provinciali prevede una
organica ed esaustiva disciplina della retribuzione di
posizione che assorbe ogni altro compenso connesso alle
prestazioni di lavoro.
Al di fuori delle disposizioni, anche di favore, contenute
nell’art. 41 del citato CCNL, non riteniamo, pertanto, che
possano essere posti in essere ulteriori incrementi dei
compensi contrattualmente definiti, anche se correlati a
specifici incarichi organizzativi o gestionali
(parere 05.12.2011 n. SEG-012 -
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CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: L’analisi
complessiva delle varie pronunce di Sezioni regionali di
controllo già intervenute in materia consente altresì di
enucleare gli specifici caratteri e condizioni che devono
ricorrere nei casi di interventi di manutenzione perché ad
essi possa ritenersi applicabile il sistema incentivante
considerato.
E' stato unanimemente acclarato che la possibilità
di corrispondere l’incentivo in parola è limitata all’area
degli appalti pubblici di lavori, i cui connotati sono
normativamente definiti negli artt. 7 e 8 del Codice dei
contratti pubblici, con conseguente divieto di estensione
agli appalti di fornitura o servizi.
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Il c.d. “incentivo alla
progettazione” non può essere riconosciuto per qualunque
intervento di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni
dell’ente locale, ma solo per lavori di manutenzione
riferiti alla realizzazione di un’opera pubblica.
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Il regolamento di esecuzione ed attuazione del
Codice, approvato con d.p.r.
05.10.2010, n. 207,
definisce la manutenzione come “la combinazione di tutte le
azioni tecniche, specialistiche ed amministrative, incluse
le azioni di supervisione, volte a mantenere o a riportare
un'opera o un impianto nella condizione di svolgere la
funzione prevista dal provvedimento di approvazione del
progetto” (art. 3, co. 1, lett. n).
Elementi essenziali
perché possa parlarsi di lavori di manutenzione appaiono
quindi l’inerenza ad un’opera, la finalità di ripristino
funzionale, l’approvazione di un progetto. In ogni caso,
dovrà porsi attenzione ai criteri distintivi affermati dalla
giurisprudenza (specialmente amministrativa) da cui deriva,
tra l’altro, la precisazione per cui la manutenzione può
rientrare nell’ambito dei lavori –e non in quello dei
servizi– sempre che l’attività dell’appaltatore comporti la
creazione di un aliquid novi, vale a dire un’azione
prevalente ed essenziale di modificazione della realtà
fisica, con l’utilizzazione, la manipolazione e
l’installazione di materiali aggiuntivi e sostitutivi non
inconsistenti sul piano strutturale e funzionale.
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Si è affermato che presupposto per
l’applicazione dell’incentivo è che alla base dei lavori di
manutenzione riferiti ad un’opera pubblica vi sia una
necessaria attività di progettazione.
Tale assunto è stato anche precisato nel senso che
l’attività di progettazione richiesta ai fini in esame è
quella cui si riferiscono gli articoli 90, 91 e 93 del
Codice dei contratti pubblici, articolata in varie fasi
secondo differenti livelli di successivi approfondimenti
tecnici. Se in regime ordinario tali livelli sono i tre
corrispondenti alla progettazione, rispettivamente,
preliminare, definitiva ed esecutiva, va ricordato che, in
base all’art. 105 del già citato regolamento attuativo del
Codice, in taluni casi l’esecuzione dei lavori di
manutenzione può prescindere dall’avvenuta redazione ed
approvazione del progetto esecutivo (comma 1), mentre i
contratti di lavori di manutenzione ordinaria possono essere
affidati sulla base di un progetto definitivo costituito
almeno da una relazione generale, dall’elenco dei prezzi
unitari delle lavorazioni previste, dal computo metrico-estimativo, e dal piano di sicurezza e di
coordinamento (comma 2).
Fatta salva quest’ultima eccezione (e comunque entro i
termini in cui essa è prevista), ciò che va escluso è che,
ai fini del riconoscimento dell’incentivo, all’attività di
progettazione come sopra identificata possano essere
assimilati atti di altra natura, quali ad esempio gli studi
di fattibilità oppure quelli comunemente denominati
“elaborati progettuali”, come la stima sommaria delle opere
da eseguire, l’elenco dei prezzi, la bozza di contratto,
eccetera.
In presenza di lavori
di manutenzione che assai difficilmente possono comportare
problematiche progettuali di particolare complessità, i
dipendenti dell’ente coinvolti nelle attività considerate
dall’art. 92, co. 5, Codice dei contratti pubblici, non
hanno titolo a vedersi attribuito l’incentivo previsto se
l’espletamento di tali attività è ricompreso negli ordinari
compiti d‘ufficio che gli stessi sono tenuti ad assolvere,
posto che per la relativa remunerazione vale in tal caso il
trattamento fondamentale ed accessorio contrattualmente
previsto.
Tale assunto, essenzialmente ispirato a un criterio di
ragionevolezza, risulta oggi suffragato dalla posizione su
cui si è attestata altra articolazione regionale della Corte
dei conti secondo cui, con espresso riferimento
(esemplificativo) a taluni lavori di manutenzione ordinaria
o straordinaria, sarebbe lecito attendersi che i regolamenti
interni delle amministrazioni fissino una soglia minima di
rilevanza tecnica dei lavori e delle opere (in termini di
entità dell’importo e/o di complessità), al di sotto della
quale non sia prevista la corresponsione di alcun incentivo
aggiuntivo, trattandosi di fattispecie in cui obiettivamente
non è richiesta un’attività di progettazione quale
richiamata negli artt. 90-93 del Codice.
In base all’art. 125, co. 6, Codice dei contratti
pubblici, la manutenzione di opere od impianti rientra tra i
lavori eseguibili in economia.
---------------
Nei casi di
lavori di manutenzione eseguiti in economia l’art. 92, co.
5, del Codice dei contratti pubblici non trova applicazione
ove venga meno il necessario presupposto di una procedura ad
evidenza pubblica, ove cioè non vi sia svolgimento di una
gara alla cui base sia posto l’importo cui è normativamente
commisurato l’incentivo in questione.
Solamente gli organi dell’Ente deputati ad
assumere le determinazioni previste sono in grado di
disporre di tutti gli elementi informativi e di giudizio
relativi alla fattispecie amministrata e di stabilire di
conseguenza se sussistono le condizioni per l’erogazione
dell’incentivo.
Gli spazi per il riconoscimento
dell’incentivo alla progettazione in caso di attività
manutentive appaiono in concreto alquanto ristretti,
specialmente per quanto concerne la manutenzione ordinaria
che, infatti, in diverse delle pronunce segnalate è esclusa tout court dal novero dei lavori incentivabili ex art. 92, co. 5.
Non appare casuale, a questo proposito, che la nuova
disciplina della materia, come visto introdotta dall’art.
13-bis, d.l. n. 90/2014, pur ricalcando in linea di massima
quella dell’art. 92, co. 5 in esame, tuttavia esclude
espressamente le attività manutentive dalle opere che i
regolamenti degli enti possono considerare ai fini del
riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione (art.
93, co. 7-ter, d.lgs. n. 163/2006).
---------------
Un’ultima notazione viene riservata all’incarico di
coordinatore della sicurezza nella fase dell’esecuzione che
nella richiesta di parere viene ricompreso tra quelli per
cui è viene ipotizzato il riconoscimento dell’incentivo alla
progettazione.
Tale tipo di figura, infatti, non
rientrerebbe in realtà nell’elenco dei possibili beneficiari
previsto dall’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006.
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Il Sindaco del Comune di Rapallo ha formulato una richiesta
di parere in ordine alla corretta applicazione dell’articolo
92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
concernente il riconoscimento di incentivi alla
progettazione di opere pubbliche a favore del personale
dipendente dell’amministrazione.
In essa si legge che, per l’esecuzione di diverse opere di
manutenzione ordinaria e straordinaria di immobili, strade
ed aree pubbliche, l’Amministrazione Comunale, nell’ottica
di ridurre le spese per consulenze, ha affidato a propri
dipendenti gli incarichi rispettivamente di, responsabile
del procedimento, progettista, direttore dei lavori,
coordinatore della sicurezza e collaudatore.
Tra le opere in questione vengono menzionate, a titolo
esemplificativo, gli interventi per la manutenzione di
murature, intonaci e pitturazioni di edifici pubblici,
implicanti l’uso di ponteggiature per lavorazioni in
elevazione, nonché lavori stradali quali scarifiche,
asfaltature, ricostruzione di muri e sostegni di protezione
stradale, comportanti l’uso di macchinari complessi in
cantieri ad alta responsabilità in termini di sicurezza e
gestione della viabilità.
Ciò premesso, il Sindaco del Comune chiede specificamente
se l’incentivo di cui al citato art. 92, co. 5, d.lgs. n.
163/2006 possa essere riconosciuto anche in relazione a
lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria riguardanti
la realizzazione di opere pubbliche alla cui base vi sia una
necessaria attività di progettazione e che comportano
l’allestimento di cantieri edili o stradali nonché
l’affidamento di incarichi procedurali/esecutivi di
responsabilità, tipo quelli esemplificativamente indicati.
...
3. Nel merito, occorre anzitutto premettere che la
disposizione di cui si discute, ovvero l’art. 92, co. 5,
d.lgs. n. 163/2006 (così come il successivo comma 6 relativo
agli incentivi per la redazione di atti di pianificazione),
è stata recentemente abrogata dall’articolo 13, comma 1, del
decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114. La
disciplina relativa alla incentivazione della progettazione
interna è stata quindi oggetto di riconsiderazione ad opera
del successivo articolo 13-bis, d.l. n. 90/2014, che ha a
tal fine inserito all’art. 93, d.lgs. n. 163/2006, in
particolare, i nuovi commi 7-bis e 7-ter.
In ogni caso, tanto la suddetta abrogazione quanto la nuova
disciplina (che non interviene a titolo di interpretazione
autentica della precedente) non hanno effetto retroattivo e
pertanto non valgono che per l’avvenire. Tale evenienza è
nota al Comune istante che, infatti, nelle premesse,
riferisce la richiesta di parere alle attività compiute in
vigenza della disposizione oggi soppressa, in relazione alle
quali sopravvive appunto l’interesse del Comune ad ottenere
i chiarimenti invocati a questa Sezione.
4. Il tema dei presupposti e delle modalità applicative
dell’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) è già
stato diffusamente affrontato dalla giurisprudenza contabile
in sede consultiva e numerose pronunce hanno riguardato, in
particolare, proprio la questione della possibilità di
ricomprendere nell’ambito di operatività della norma anche
ipotesi di interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria fatti eseguire dagli enti locali (oltre a
Sezione controllo Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72, Sezione controllo
Liguria
parere 10.05.2013 n. 24 e Sezione controllo Piemonte
parere 28.02.2014 n. 39,
ricordate dal Comune nell’istanza di parere, si menzionano
altresì Sezione controllo Lombardia
parere 15.10.2013 n. 442 e
parere 28.05.2014 n. 188, Sezione controllo Piemonte
parere 16.01.2014 n. 8 e
parere 21.05.2014 n. 97,
Sezione controllo Toscana
parere 13.11.2012 n. 293,
parere 12.12.2012 n. 459 e
parere 19.03.2013 n. 15).
Ne emerge un orientamento essenzialmente consolidato
anzitutto per quanto attiene all’inquadramento dei profili
generali della materia.
Come noto, l’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006, allo scopo
di contenere i costi di realizzazione delle opere pubbliche
mediante la valorizzazione nelle varie fasi dell’apporto di
professionalità interne alle amministrazioni, prevede e
disciplina la corresponsione di un incentivo al personale
dipendente delle amministrazioni impegnato in specifiche
attività collegate alle procedure di affidamento ed
esecuzione di appalti pubblici, e cioè, al responsabile del
procedimento e agli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché ai loro collaboratori.
E’ stato chiarito che in questo caso il legislatore,
riconoscendo un compenso ulteriore e speciale per
prestazioni comunque rientranti nell’attività d’ufficio del
dipendente, opera in via di eccezione rispetto ai generali
principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale
della retribuzione dei dipendenti pubblici.
Come tale, la disposizione in esame si presta a stretta
interpretazione e, in base all’art. 14 delle disposizioni
preliminari al codice civile, non può applicarsi in via
analogica.
Secondo il disposto normativo, la definizione della
disciplina di dettaglio per la ripartizione e l’attribuzione
dell’incentivo ai dipendenti beneficiari è rimessa alla
contrattazione decentrata i cui esiti sono assunti in un
regolamento adottato da ciascuna amministrazione. Sulla base
delle indicazioni offerte dal dettato legislativo, la
giurisprudenza contabile ha individuato i punti fermi che
devono essere rispettati nel regolamento interno: per
l’esame complessivo degli stessi si rimanda semplicemente
alle pronunce sopra segnalate, oltre che per ragioni di
brevità espositiva anche perché essi sono in tutto condivisi
da questa Sezione e verosimilmente conosciuti dall’Ente
istante come risulterebbe dal tenore della richiesta di
parere.
5. Venendo al tema oggetto di tale richiesta,
l’analisi
complessiva delle varie pronunce di Sezioni regionali di
controllo già intervenute in materia consente altresì di
enucleare gli specifici caratteri e condizioni che devono
ricorrere nei casi di interventi di manutenzione perché ad
essi possa ritenersi applicabile il sistema incentivante
considerato.
5.1. In linea generale, muovendo dal dato letterale offerto
dagli artt. 90, co. 1 e 92, co. 1, d.lgs. n. 163/2006, in
cui è fatto espresso riferimento ai concetti di “opera” e
“lavori”, è stato unanimemente acclarato che la possibilità
di corrispondere l’incentivo in parola è limitata all’area
degli appalti pubblici di lavori, i cui connotati sono
normativamente definiti negli artt. 7 e 8 del Codice dei
contratti pubblici, con conseguente divieto di estensione
agli appalti di fornitura o servizi.
Con riferimento al campo di attività che qui interessa, il
suddetto approdo interpretativo è stato specificato
anzitutto nel senso che il c.d. “incentivo alla
progettazione” non può essere riconosciuto per qualunque
intervento di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni
dell’ente locale, ma solo per lavori di manutenzione
riferiti alla realizzazione di un’opera pubblica.
E’ chiaro che, al riguardo, viene in primo luogo in rilievo
la distinzione dei lavori di manutenzione rispetto ai
servizi di manutenzione.
Il Codice dei contratti pubblici si limita a comprendere la
manutenzione tra i lavori di cui al già menzionato art. 3,
comma 8, ed allo stesso tempo, nel successivo comma 10
dell’art. 3, ai fini della definizione degli appalti
pubblici di servizi rinvia per l’oggetto alle prestazioni
indicate nell’allegato II in cui sono menzionati anche i
servizi di manutenzione e riparazione (Allegato II A,
categoria 1).
Il regolamento di esecuzione ed attuazione del
Codice, approvato con d.p.r.
05.10.2010, n. 207,
definisce la manutenzione come “la combinazione di tutte le
azioni tecniche, specialistiche ed amministrative, incluse
le azioni di supervisione, volte a mantenere o a riportare
un'opera o un impianto nella condizione di svolgere la
funzione prevista dal provvedimento di approvazione del
progetto” (art. 3, co. 1, lett. n). Elementi essenziali
perché possa parlarsi di lavori di manutenzione appaiono
quindi l’inerenza ad un’opera, la finalità di ripristino
funzionale, l’approvazione di un progetto. In ogni caso,
dovrà porsi attenzione ai criteri distintivi affermati dalla
giurisprudenza (specialmente amministrativa) da cui deriva,
tra l’altro, la precisazione per cui la manutenzione può
rientrare nell’ambito dei lavori –e non in quello dei
servizi– sempre che l’attività dell’appaltatore comporti la
creazione di un aliquid novi, vale a dire un’azione
prevalente ed essenziale di modificazione della realtà
fisica, con l’utilizzazione, la manipolazione e
l’installazione di materiali aggiuntivi e sostitutivi non
inconsistenti sul piano strutturale e funzionale (Cons.
Stato, Sez. V, 31.01.2006, n. 348).
Si ritiene poi che, sotto questo specifico profilo, possano
altresì assumere rilevanza i differenti caratteri che
qualificano la manutenzione in ordinaria o straordinaria.
Sul piano normativo, ad esempio, sebbene riferito a
specifico settore, si rinviene in proposito l’articolo 3,
comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico in
materia edilizia) che distingue la manutenzione
straordinaria per il fatto che gli interventi riguardano
opere e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire
parti strutturali degli edifici, mentre quella ordinaria
consiste in attività di riparazione, rinnovamento e
sostituzione delle finiture e in quelle volte ad integrare o
mantenere l’efficienza di impianti.
5.2. In base agli stessi riferimenti normativi dianzi
considerati si è poi affermato che presupposto per
l’applicazione dell’incentivo è che alla base dei lavori di
manutenzione riferiti ad un’opera pubblica vi sia una
necessaria attività di progettazione.
Tale assunto è stato anche precisato nel senso che
l’attività di progettazione richiesta ai fini in esame è
quella cui si riferiscono gli articoli 90, 91 e 93 del
Codice dei contratti pubblici, articolata in varie fasi
secondo differenti livelli di successivi approfondimenti
tecnici. Se in regime ordinario tali livelli sono i tre
corrispondenti alla progettazione, rispettivamente,
preliminare, definitiva ed esecutiva, va ricordato che, in
base all’art. 105 del già citato regolamento attuativo del
Codice, in taluni casi l’esecuzione dei lavori di
manutenzione può prescindere dall’avvenuta redazione ed
approvazione del progetto esecutivo (comma 1), mentre i
contratti di lavori di manutenzione ordinaria possono essere
affidati sulla base di un progetto definitivo costituito
almeno da una relazione generale, dall’elenco dei prezzi
unitari delle lavorazioni previste, dal computo metrico-estimativo, e dal piano di sicurezza e di
coordinamento (comma 2).
Fatta salva quest’ultima eccezione (e comunque entro i
termini in cui essa è prevista), ciò che va escluso è che,
ai fini del riconoscimento dell’incentivo, all’attività di
progettazione come sopra identificata possano essere
assimilati atti di altra natura, quali ad esempio gli studi
di fattibilità oppure quelli comunemente denominati
“elaborati progettuali”, come la stima sommaria delle opere
da eseguire, l’elenco dei prezzi, la bozza di contratto,
eccetera.
5.3. Già con il citato
parere 10.05.2013 n. 24, peraltro adottato
in esito ad istanza di codesto Comune di Rapallo, questa
Sezione si è espressa nel senso che, in presenza di lavori
di manutenzione che assai difficilmente possono comportare
problematiche progettuali di particolare complessità, i
dipendenti dell’ente coinvolti nelle attività considerate
dall’art. 92, co. 5, Codice dei contratti pubblici, non
hanno titolo a vedersi attribuito l’incentivo previsto se
l’espletamento di tali attività è ricompreso negli ordinari
compiti d‘ufficio che gli stessi sono tenuti ad assolvere,
posto che per la relativa remunerazione vale in tal caso il
trattamento fondamentale ed accessorio contrattualmente
previsto.
Tale assunto, essenzialmente ispirato a un criterio di
ragionevolezza, risulta oggi suffragato dalla posizione su
cui si è attestata altra articolazione regionale della Corte
dei conti secondo cui, con espresso riferimento
(esemplificativo) a taluni lavori di manutenzione ordinaria
o straordinaria, sarebbe lecito attendersi che i regolamenti
interni delle amministrazioni fissino una soglia minima di
rilevanza tecnica dei lavori e delle opere (in termini di
entità dell’importo e/o di complessità), al di sotto della
quale non sia prevista la corresponsione di alcun incentivo
aggiuntivo, trattandosi di fattispecie in cui obiettivamente
non è richiesta un’attività di progettazione quale
richiamata negli artt. 90-93 del Codice (Sezione controllo
Puglia
parere 06.02.2014 n. 33 e
parere 28.05.2014 n. 114).
5.4. In base all’art. 125, co. 6, Codice dei contratti
pubblici, la manutenzione di opere od impianti rientra tra i
lavori eseguibili in economia.
Come noto, in linea generale la previsione della possibilità
per le amministrazioni di operare, sia pur entro importi e
per categorie di prestazioni legislativamente
predeterminati, mediante procedure semplificate quali sono
quelle con cui si effettuano le c.d. “spese in economia”,
risponde alle esigenze emerse dalla constatazione che il
ricorso sistematico a procedure di evidenza pubblica, di
regola implicanti costi non trascurabili in capo alle
stazioni appaltanti per l’espletamento di gare, finirebbe in
taluni casi per contrastare con i principi di economicità e
buon andamento dell’attività amministrativa.
Ebbene, secondo l’orientamento comune maturato nella
giurisprudenza contabile in sede consultiva,
nei casi di
lavori di manutenzione eseguiti in economia l’art. 92, co.
5, del Codice dei contratti pubblici non trova applicazione
ove venga meno il necessario presupposto di una procedura ad
evidenza pubblica, ove cioè non vi sia svolgimento di una
gara alla cui base sia posto l’importo cui è normativamente
commisurato l’incentivo in questione.
6. Ciò riferito, si evidenzia tuttavia che la verifica del
ricorrere dei presupposti sopra ricostruiti è rimessa, nei
singoli casi, a ciascun ente, il quale può già conformare
alle indicazioni fornite la propria regolamentazione in
materia. D’altronde, anche nel caso in esame, per quanto
siano forniti diversi dettagli delle tipologie di lavori di
manutenzione sottoposte alla valutazione di questo Collegio,
solamente gli organi dell’Ente deputati ad assumere le
determinazioni previste sono in grado di disporre di tutti
gli elementi informativi e di giudizio relativi alla
fattispecie amministrata e di stabilire di conseguenza se
sussistono le condizioni per l’erogazione dell’incentivo (a
titolo dimostrativo si osserva, ad esempio, che, in base
alla richiesta di parere esaminata, non è dato sapere se
l’attività di progettazione svolta risponda ai requisiti
sopra indicati, oppure se i lavori siano eseguiti in
economia).
Quello che questa Sezione può aggiungere è che, dalla
ricostruzione operata, gli spazi per il riconoscimento
dell’incentivo alla progettazione in caso di attività
manutentive appaiono in concreto alquanto ristretti,
specialmente per quanto concerne la manutenzione ordinaria
che, infatti, in diverse delle pronunce segnalate è esclusa
tout court dal novero dei lavori incentivabili ex art. 92, co. 5.
Non appare casuale, a questo proposito, che la nuova
disciplina della materia, come visto introdotta dall’art.
13-bis, d.l. n. 90/2014, pur ricalcando in linea di massima
quella dell’art. 92, co. 5 in esame, tuttavia esclude
espressamente le attività manutentive dalle opere che i
regolamenti degli enti possono considerare ai fini del
riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione (art.
93, co. 7-ter, d.lgs. n. 163/2006).
8. Un’ultima notazione, sebbene non risponda all’oggetto di
un quesito posto dal Comune, viene riservata all’incarico di
coordinatore della sicurezza nella fase dell’esecuzione che
nella richiesta di parere viene ricompreso tra quelli per
cui è viene ipotizzato il riconoscimento dell’incentivo alla
progettazione. Tale tipo di figura, infatti, non
rientrerebbe in realtà nell’elenco dei possibili beneficiari
previsto dall’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006.
Al riguardo, per l’individuazione dei limiti e delle
condizioni alla cui presenza il sistema incentivante si
ritiene nondimeno applicabile anche per lo svolgimento di
tale mansione si rinvia al già menzionato
parere 28.05.2014 n. 114 Sezione controllo Puglia le cui conclusioni al
riguardo sono pienamente condivise da questo Collegio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 24.10.2014 n. 60). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Posizioni organizzative vincolate ai tetti del Dl 78.
Precisazione dalla Corte conti.
La
retribuzione dei dipendenti incaricati di posizione
organizzativa rientra nei limiti dell'articolo 9, comma
2-bis, del Dl 78/2010.
Quattro anni dopo l'entrata in vigore
della norma, la Sezione Autonomie della Corte conti, con la
deliberazione 21.10.2014 n. 26, chiude definitivamente il dibattito:
la retribuzione di posizione e la retribuzione di risultato,
a prescindere dall'imputazione sul fondo o sul bilancio, va
contingentata nel tetto del trattamento accessorio del 2010
e rientra nel conteggio della riduzione proporzionale sulla
base dei dipendenti che cessano dal servizio.
Mentre non vi era dubbio sulle posizioni organizzative negli
enti con la dirigenza, rimaneva aperta la discussione in
quelli di minori dimensioni, in quanto tali emolumenti sono
finanziati da risorse proprie di bilancio. Ma secondo la
Corte dei conti delle Autonomie la norma non lascia margini
per escludere tali emolumenti, in quanto il riferimento è al
«trattamento accessorio» e non al fondo, così come molto
genericamente si era finora ritenuto.
Emergono a questo punto alcune difficoltà applicative. Se,
infatti, fin dal 2010, rientravano nel limite dell'articolo
9, comma 2-bis, anche le posizioni organizzative, si dovrà
necessariamente rifare i calcoli, con effetti anche
spiacevoli. I rischi maggiori li avranno i Comuni che,
nonostante quanto previsto dall'articolo 1, comma 557, della
legge 296/2006, hanno in questi anni incrementato le
posizioni organizzative e/o le relative retribuzioni. Lo
sforamento del tetto è praticamente immediato, a meno che
non si possa compensare con un fondo del salario accessorio
mantenuto a livelli più bassi rispetto al 2010 (situazione,
peraltro, rara).
Come affrontare, poi, il superamento del limite? Se, da
sempre, le posizioni organizzative avrebbero dovuto essere
inserite nella verifica, si potrebbe pensare che le somme
"in più" nei fondi costituiscano superamento dei vincoli
finanziari, sui quali l'articolo 4 del Dl 16/2014 ha
previsto il recupero sul fondo degli anni successivi. A meno
che non si possa operare, interamente nel 2014, una
compensazione sui tagli da operare in questo esercizio,
ancora in vigenza dell'articolo 9, comma 2-bis, Dl 78/2010.
Altre domande riguardano la modalità di verifica del
rispetto del limite sia rispetto al kit di Excel diffuso
dall'Aran e condiviso con la RgS, sia rispetto alla
compilazione delle tabelle del conto annuale, le quali
finora si riferivano esclusivamente al fondo del salario
accessorio, non includendo quindi i compensi per le
posizioni organizzative.
Da ultimo, vista la lettura della Corte dei conti,
dovrebbero a questo punto rientrare nel limite anche i
trattamenti accessori corrisposti ai segretari comunali e
provinciali, nonché il fondo per il lavoro straordinario, ex
articolo 14 Ccnl 01.04.1999
(articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
La pigrizia del dipendente comunale è danno
erariale.
Responsabile dell'Ufficio tecnico comunale condannato dal
giudice contabile per aver dato ascolto alle chiacchiere e
dicerie degli abitanti di un comune sardo, anziché
effettuare accertamenti serie e compiuti.
L’approssimazione non porta mai a grandi risultati, anzi,
talvolta, conduce ad un risultato assolutamente mediocre, di
cui ci si trova inevitabilmente a dover pagare le
conseguenze.
A tale conclusione dovrebbe essere giunto, dati i fatti, il
Sig. V.C. -il quale nel lontano 1997 svolgeva le funzioni di
responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune di San Vero
Milis, in provincia di Oristano- che a distanza di 17 anni
dai fatti è stato condannato dalla Corte dei Conti –Sez.
giurisdiz. per la Regione Sardegna- con la
sentenza 17.10.2014 n. 205, a
rifondere il detto Comune della somma di € 1.240,00 a titolo
di risarcimento del danno erariale dallo stesso arrecato
alle casse dell’ente locale.
La vicenda trae le sue origini nell’ormai lontano 1997,
quando il detto responsabile aveva disposto con ordinanza la
demolizione di opere abusive asseritamente realizzate da una
cittadina del Comune di San Vero Milis, la quale, alquanto
sorpresa per aver ricevuto un simile ordine, aveva impugnato
la detta ordinanza, opponendo di non essere la proprietaria
dell’immobile di cui si era intimata la demolizione, né la
titolare di diritti reali di godimento sul medesimo bene.
In seguito alle indagini svolte dal giudice amministrativo
in sede di ricorso, era emerso che effettivamente la
ricorrente non possedesse alcuna delle qualifiche necessarie
per essere destinataria di un ordine di demolizione, e che
un tale errore fosse riconducibile alla sola condotta del
responsabile dell’Ufficio tecnico dell’ente locale.
Quest’ultimo infatti, in una relazione resa dallo stesso e
assunta in tale giudizio, specificava che l’errore commesso
nell’indicare l’ignara cittadina quale proprietaria
dell’immobile, era dovuto al fatto che in tutte le
informazioni assunte in loco da numerose persone che in quel
periodo abitavano nei fabbricati vicini, il nome della
signora era stato indicato in modo chiaro ed esplicito. In
concreto, il responsabile dell’Ufficio comunale, affidandosi
alle dicerie della gente circa la riconducibilità della
proprietà dell’immobile in capo alla signora, aveva omesso
di procedere ad ulteriori riscontri documentali al fine di
verificare la fondatezza di tali informazioni.
Tale leggerezza ha così comportato l’accoglimento del
ricorso proposto dalla destinataria dell’ordine di
demolizione, con il conseguente annullamento dello stesso e
la condanna del Comune di San Vero Milis al pagamento delle
spese di giudizio, liquidate in € 2.000,00.
La Corte dei Conti, adita dal Procuratore Regionale della
Sardegna a seguito di tali fatti, con la sopra citata
sentenza ha ritenuto che il detto esborso, oltre a
costituire danno erariale poiché costituente una spesa priva
di qualsiasi utilità per l’Ente locale, debba essere
addebitato alla sola responsabilità del dipendente
dell’Ufficio comunale.
Difatti la Corte dei Conti, nel caso di specie, ha rinvenuto
tutti i presupposti previsti dalla legge ai fini della
sussistenza di una responsabilità erariale in capo al
dipendente pubblico, ossia l’esistenza di un rapporto di
servizio, la riconducibilità causale del danno alla condotta
del medesimo ed infine l’elemento psicologico del dolo o la
colpa grave.
Qualificando pressoché come pacifica la sussistenza dei
primi due requisiti, la Corte ha tenuto a precisare come la
pigrizia dimostrata dal funzionario comunale, portasse
inevitabilmente a qualificare gravemente colposa la condotta
del medesimo, avendo egli omesso di effettuare i dovuti e
necessari riscontri, sul piano documentale, di una realtà
erroneamente e superficialmente assunta a base del
provvedimento poi giudicato illegittimo dal giudice
amministrativo, con soccombenza del Comune e liquidazione, a
carico dell’Ente, delle spese di giudizio.
Alla luce di tali considerazioni, il giudice contabile ha
ritenuto responsabile il dirigente pubblico del danno di €
1.240,00, somma che, si spera, possa costituire un monito
per lo stesso a lasciare da parte nel futuro la pigrizia e
l’approssimazione che ha dimostrato di avere in questa
vicenda nel suo lavoro (commento
tratto da www.ilquotidianodellapa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Condannati Sindaco e responsabile ufficio tecnico
che non concludono l'esproprio.
I giudici contabili fanno chiarezza sulla condotta omissiva
dell'Amministrazione.
Una procedura espropriativa ha causato un danno consistente
alla casse comunali. La giunta municipale aveva deciso di
iniziare i lavori di una strada ma poi non aveva concluso
l’iter con l’adozione del provvedimento di esproprio.
Il proprietario del terreno, vista la trasformazione
irreversibile del suolo, adiva il Tribunale civile per
essere risarcito. Il processo si concludeva con una sentenza
di condanna per l’Amministrazione comunale pari a €
21.150,00.
Secondo quanto affermato dalla Procura presso la Corte dei
Conti il pagamento di questa somma poteva essere evitato e,
pertanto, si configura un danno erariale indiretto
imputabile al Sindaco e al responsabile dell’ufficio
tecnico.
A nulla sono valse le argomentazioni difensive dei
convenuti. Infatti, affermano i giudici contabili, l’ipotesi
di mancato espletamento della procedura espropriativa rende
responsabile il Sindaco che ha la potestà provvedimentale in
materia. Il capo dell’Amministrazione e, come tale,
responsabile diretto degli affari del comune, è “titolare
di un dovere di sovrintendenza sul funzionamento dei servizi
e degli uffici”.
Così anche l’Ufficio tecnico ha “l’indubbio compito di
curare tutti gli aspetti tecnico-amministrativi relativi
alle procedure espropriative (redigere lo stato di
consistenza, i decreti, le occupazioni definitive e le
retrocessioni, i frazionamenti e gli accatastamenti). In
particolare, è l’apparato cui è affidato l’espletamento di
tutta l’attività strumenta e propedeutica all’adozione, da
parte dell’organo politico, del provvedimento finale
d’esproprio”.
Nella vicenda in esame quindi vi sono stati inadempimenti
rispetto a doveri normativamente previsti.
La condotta omissiva del Sindaco –secondo i giudici
contabili– è “manifestazione di grave trascuratezza e non
curanza” ed ancora di un “disinteresse totale degli obblighi
e dei doveri istituzionali”. Il primo cittadino, con
questo comportamento, ha violato i doveri di attenzione
sugli affari del Comune, trascurando in maniera grave “i
principi normativi di buon andamento dell’azione
amministrativa e, soprattutto una marcata inosservanza delle
norme specifiche in materia di espropriazione”.
Pertanto, con la
sentenza 15.10.2014
n. 238, la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. per la
Regione Calabria, ha condannato sia il Sindaco (nella quota
del 60%) a risarcire il danno per una somma pari a € 1.800
che il responsabile tecnico per € 253, per quest’ultimo
nella quantificazione del danno si è tenuto conto dei giorni
(563) in cui svolse l’attività lavorativa (commento tratto
da www.ilquotidianodellapa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Corte conti divisa sui limiti alla spesa per contratti
flessibili.
Giudici contabili divisi sui nuovi limiti alla spesa per i
contratti di lavoro flessibili.
Il problema riguarda la previsione di cui all'art. 11, comma
4-bis, del dl 90/2014, convertito dalla legge n. 114/2014.
In base ad essa, agli enti locali che hanno sempre
rispettato l'obbligo di riduzione delle spese di personale
previsto dai commi 557 (enti soggetti al Patto) e comma 562
(enti non soggetti al Patto) dell'art. 1 della legge
296/2006 non si applicano le limitazioni previste dall'art.
9, comma 28, del dl 78/2010 per le assunzioni a tempo
determinato, collaborazioni coordinate e le altre forme di
lavoro flessibile, pari al 50% delle spesa impegnata con le
medesime finalità nel 2009.
Il dubbio riguarda l'ulteriore precisazione (contenuta nel
medesimo art. 9, comma 28, già prima della modifica), secondo
cui «resta fermo che comunque la spesa complessiva non può
essere superiore alla spesa sostenuta per le stesse finalità
nell'anno 2009».
Secondo la Sez. regionale di controllo della Corte dei
conti per la Puglia (parere 09.10.2014 n. 174), l'obbligo di non
oltrepassare la spesa 2009 si impone anche agli enti
virtuosi.
Un avviso contrario è stato espresso più recentemente dalla
omologa sezione per la Lombardia. Quest'ultima, con il
parere n. 264/2014, ha ritenuto che la novella introdotta
dal dl 90 determini la disapplicazione di tutte le
limitazioni previste dal citato comma 28, ivi compresa
quella in parola.
Tale lettura, evidenzia lo stesso consesso lombardo, è
quella maggiormente coerente con la ratio del più recente
intervento modificativo.
Come sembra ricavabile anche dagli atti preparatori della
disposizione in esame, esso è volto a consentire agli enti
locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di
personale di cui ai commi 557 e 562 una maggiore
flessibilità, riconoscendo loro la facoltà di incrementare
la spesa di personale da compensarsi comunque con
corrispondente riduzione di altre voci di bilancio, fermi
restando naturalmente i vincoli del Patto di stabilità
interno.
A questo punto, pare inevitabile un intervento
chiarificatore da parte delle sezioni riunite o quanto meno
della sezione autonomie.
Nel frattempo, vale comunque la pena ribadire quanto
sottolineato dalla sezione Lombardia in ordine alle cautele
che ciascuna amministrazione dovrà adottare onde evitare il
possibile effetto negativo che l'aumento delle spese di
personale potrebbe determinare in termini di irrigidimento
dei bilancio, con la conseguente minore manovrabilità delle
spese ai fini del concorso al risanamento della finanza
pubblica
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2014). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco fa numero. Per
determinare il numero degli assessori.
Il primo cittadino va annoverato tra i componenti
del consiglio.
Qual è la corretta interpretazione di una norma statutaria
che definisce il numero di assessori nominabili dal sindaco,
non avendo esplicitamente previsto che nel numero dei
consiglieri vada computato anche il sindaco?
L'ente in questione ha una popolazione superiore ai 10.000
abitanti e ha rinnovato i propri organi a seguito delle
ultime elezioni amministrative, eleggendo 16 consiglieri. In
ordine all'individuazione del numero degli assessori occorre
far riferimento all'art. 2, comma 185, della legge n.
191/2009 e successive modifiche e integrazioni, il quale
stabilisce che il numero massimo degli assessori è
determinato in misura pari a un quarto del numero dei
consiglieri del comune, con arrotondamento all'unità
superiore, disponendo, che ai fini del suddetto computo, nel
numero dei consiglieri del comune è computato anche il
sindaco.
Inoltre l'art. 47, comma 2, del decreto legislativo
n. 267/2000, demanda agli enti la facoltà di fissare
statutariamente il numero degli assessori, ovvero il numero
massimo degli stessi, sempre nell'ambito dei limiti previsti
dalla legge. Nel caso di specie, lo Statuto del comune
dispone che la giunta è composta dal sindaco e da un minimo
di quattro a un massimo di un quarto dei consiglieri del
comune.
La previsione statutaria potrebbe ingenerare qualche
dubbio circa il corretto calcolo dei componenti la giunta in
quanto, non avendo esplicitamente previsto che nel numero
dei consiglieri vada computato anche il sindaco, verrebbe a
determinarsi una coincidenza tra il numero massimo e minimo
degli assessori, individuabile in quattro unità.
Tuttavia,
occorre richiamare l'art. 37, comma 1, del Tuel il quale
include il sindaco tra i «componenti» del consiglio, mentre
il successivo art. 46 utilizza per il sindaco l'espressione
«membro del consiglio». Considerato che, nelle ipotesi in
cui l'ordinamento non ha inteso annoverare il sindaco o il
presidente della provincia tra i componenti del consiglio lo
ha indicato espressamente, usando la formula «senza
computare a tal fine il sindaco e il presidente della
provincia», la disposizione statutaria può essere
interpretata nel senso di computare, ai fini del calcolo
degli assessori, anche l'organo di vertice.
Ciò posto, si
rende opportuna una diversa formulazione della norma
statutaria da parte dell'ente, che potrà procedere alle
relative modifiche ai sensi dell'art. 6 del decreto
legislativo n. 267/2000
(articolo ItaliaOggi del
31.10.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Convalida.
Qualora l'atto di convocazione della prima adunanza del
consiglio comunale sia inficiato da vizio di legittimità, è
possibile ricorrere all'istituto della convalida ex art.
21-nonies, comma 2, della legge 241/1990, oppure l'ente deve
procedere all'annullamento, in autotutela, di ogni atto
assunto nella seduta?
Nel caso di specie, l'avviso di convocazione della prima
adunanza del consiglio comunale, fissata in una data, non è
stato notificato a un consigliere, risultato assente alla
relativa riunione; pertanto lo stesso consigliere ha
inoltrato al protocollo dell'ente una formale richiesta di
annullamento in autotutela di ogni atto assunto dal
consiglio nella seduta. Al fine di sanare la suddetta
irregolarità potrebbe essere impiegato l'istituto della
convalida amministrativa.
Nell'ipotesi di un atto
illegittimo, la p.a., in virtù del principio di
conservazione degli atti giuridici, può decidere di
mantenerlo in vita, rimuovendo i vizi che lo inficiano
attraverso l'espressione di una manifestazione di volontà
finalizzata a eliminare il vizio ravvisato. La convalida si
sostanzia in una nuova e autonoma manifestazione di volontà
che, collegandosi all'atto originario, ne mantiene gli
effetti fin dal momento della sua emanazione. La legge n.
15/2005 ha modificato la legge n. 241/1990 introducendo l'art.
21-nonies che, al comma 2, prevede la possibilità di
convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le
ragioni di pubblico interesse ed entro un termine
ragionevole.
Giova a tale proposito richiamare la sentenza
n. 566 del 2007, con la quale il Tar Lazio, sez. Latina, ha
osservato che «l'istituto della convalida è applicabile
anche con riferimento alla irrituale convocazione della
seduta di un organo collegiale proprio perché va
riconosciuta al comune la facoltà di convalidare i propri
atti affetti da vizi di legittimità, con una manifestazione
di volontà intesa a eliminare il vizio da cui l'atto stesso
è inficiato».
Il Consiglio di stato, con sentenza n. 1228
del 2013, ha ricordato che la convalida attiene alla
rimozione ex ufficio del vizio di un atto invalido, mentre
l'annullamento in autotutela sottintende la cura di
«interessi ulteriori rispetto al mero ripristino della
legalità»
(articolo ItaliaOggi del
31.10.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Pubblico
impiego.
Domanda
Vorrei sapere se una Pubblica amministrazione può indire un
nuovo concorso in pendenza di precedente graduatoria.
Risposta
Con sentenze n. 14/2011 e 6247/2013 il Consiglio di stato ha
sancito il principio che prevede, in capo
all'Amministrazione, l'obbligo di fornire una compiuta
motivazione dell'eventuale scelta di indire un nuovo
concorso anziché attingere fra i soggetti iscritti in una
graduatoria già esistente.
La giurisprudenza si riferisce all'ipotesi in cui la
Pubblica amministrazione disponga di una pregressa
graduatoria, ancora in corso di validità, risultante da un
concorso bandito su presupposti e requisiti analoghi a
quelli richiesti nella nuova procedura di concorso.
Sebbene non sussista, in capo agli idonei, un diritto
soggettivo all'assunzione, l'Amministrazione deve
considerare che lo scorrimento delle preesistenti
graduatorie deve costituire la regola generale, mentre
l'indizione del concorso rappresenta un'eccezione.
Pertanto la p.a., nel provvedimento di indizione di una
nuova procedura di concorso, deve fornire puntuale
motivazione «sul perché si debba seguire un procedimento
amministrativo di rilevante complessità e accompagnato a
oneri di bilancio come un nuovo concorso pubblico, piuttosto
che la chiamata di soggetti già scrutinati e dichiarati
idonei a quelle determinate funzioni».
Questi principi, precisano i giudici, potrebbero essere
disapplicati solo qualora la precedente graduatoria fosse
conseguente a un concorso bandito su presupposti diversi da
quello nuovo
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
APPALTI: Comunicazioni
via Pec.
Domanda
In caso di aggiudicazione comunicata via Pec, quando inizia
a decorrere il termine per impugnare?
Risposta
L'art. 79 del dlgs 163/2006, comma 5-bis, prevede che le
comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione «sono
fatte per iscritto, con lettera raccomandata con avviso di
ricevimento o mediante notificazione o mediante posta
elettronica certificata»
Sulla base di tali disposizioni normative il Tar Lombardia,
con sentenza 2677/2013, ha precisato che la posta
elettronica certificata costituisce uno strumento di
comunicazione di per sé idoneo a determinare la conoscenza
rilevante per la decorrenza del termine di impugnazione.
L'art. 6, comma terzo, del Dpr n. 68/2005 precisa che «la
ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente prova che
il suo messaggio di posta elettronica certificata è
effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico
dichiarato dal destinatario e certifica il momento della
consegna tramite un testo, leggibile dal mittente,
contenente i dati di certificazione».
Pertanto, la comunicazione dell'aggiudicazione effettuata a
mezzo di posta elettronica certificata, si intende avvenuta
nella data indicata nella ricevuta di avvenuta consegna
fornita al mittente dal gestore di posta elettronica
certificata.
La ricevuta di avvenuta consegna è rilasciata
contestualmente alla consegna del messaggio di posta
elettronica certificata e il momento in cui il destinatario
legge il messaggio è irrilevante ai fini della conoscenza
legale del documento trasmesso
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Diritto
amministrativo.
Domanda
Istanza di annullamento in autotutela
Risposta
Vorrei sapere se, in caso di istanza di annullamento di un
provvedimento in autotutela, sussiste un obbligo di
provvedere in capo all'Amministrazione pubblica.
Il Consiglio di stato, sez. V, con sentenza n. 322/2014 ha
stabilito che «nel caso in cui venga proposta una istanza
del privato intesa a sollecitare l'esercizio del potere di
autotutela dell'Amministrazione non sussiste da parte della
stessa alcun obbligo di provvedere in ragione della
discrezionalità dell'attività in tema di atti di ritiro, cui
il riesame è di norma finalizzato, nonché della esigenza di
certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza
gestionale che sono alla base dell'agire della Pubblica
amministrazione e che verrebbero a trovare detrimento da una
ritenuta doverosità del riesame».
Pertanto, anche in presenza di un vizio di legittimità o di
merito, riguardante un provvedimento amministrativo, rimane
in capo all'Amministrazione la discrezionalità di decidere
se procedere all'annullamento o alla revoca in ragione del
prevalente interesse pubblico (articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Requisito
della contiguità.
Domanda
Nel campo delle pertinenze, il requisito oggettivo della
contiguità come va individuato?
Risposta
La Corte di cassazione, con la sentenza del 10.06.2011,
numero 12855, ha affermato che, ai fini della sussistenza
del vincolo pertinenziale tra bene principale e ben
accessorio, è necessaria la presenza del requisito
soggettivo dell'appartenenza di entrambi al medesimo
soggetto nonché del requisito oggettivo della contiguità,
anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale è
necessario che il bene accessorio arrechi un'utilità al bene
principale e non al proprietario di esso.
Inoltre, sempre
per la Corte di cassazione (sentenza del 13.11.2009,
numero 24104), affinché il vincolo pertinenziale tra due
beni autonomi e distinti, siano essi beni mobili o immobili,
possa costituirsi ed il relativo regime, che postula
l'esclusività della funzione accessoria, possa funzionare, è
necessario che il proprietario della cosa principale abbia
la piena disponibilità, anche della cosa accessoria e che la
destinazione pertinenziale, specie quando essa derivi da un
atto non negoziale, sia attuale ed effettiva e non meramente
potenziale, dovendo risultare da un comportamento
oggettivamente valutabile.
Pertanto, per i Supremi giudici, non ricorre un vincolo
pertinenziale, ma semmai un rapporto di comproprietà o di
servitù, nell'ipotesi di un immobile contemporaneamente
adibito a servizio di diversi altri immobili appartenenti a
proprietari diversi, né tale vincolo sussiste quando il
collegamento funzionale sia previsto solo in prospettiva
futura, come in un progetto finalizzato all'edificazione con
riguardo a immobili poi venuti ad esistenza in capo a
diversi proprietari.
Inoltre il comproprietario della cosa accessoria, anche se
titolare esclusivo di quella principale, non può costituire
il vincolo pertinenziale senza l'assenso degli altri
contitolari. E ciò al fine precipuo di evitare la creazione
di un limite in pregiudizio di tutti i comproprietari
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
TRIBUTI: Sottotetti.
Domanda
La mia abitazione principale, oltre ad avere la cantina e il
sottotetto, ha un altro locale di deposito, di natura
pertinenziale. Per detto locale posso godere dell'esenzione
Imu, prima casa? Lettera firmata.
Risposta
Come si è avuto modo di scrivere, la legge numero 147, del
2013 (legge di Stabilità per l'anno 2014), puntualizzando
meglio la normativa che regolamenta l'Imposta municipale
propria (Imu), portata dall'articolo 13 del decreto legge
numero 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla
legge numero 214, del 2011, ha affermato che la suddetta
imposta non si applica al possesso dell'abitazione
principale e delle pertinenze.
Ha aggiunto, poi, che per pertinenze dell'abitazione
principale si intendono esclusivamente quelle classificate
nelle categorie catastali C/2, C/6, C/7 (C/2..Magazzini e
locali di deposito; C/6...Stalle, scuderie, rimesse, autorimesse; C/7..Tettoie
chiuse o aperte), nella misura massima di una unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali
indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità
ad uso abitativo.
Pertanto, la presenza di un locale
indicato nella planimetria catastale dell'abitazione
principale come cantina o sottotetto viene ad eliminare la
possibilità che un'unità immobiliare autonoma, iscritta in
categoria C/2, possa assurgere al ruolo di pertinenza
dell'abitazione principale anche quando sussistono tutti gli
elementi per l'uso funzionale all'abitazione.
Peraltro, lo
stesso ministero dell'economia e delle finanze, con la
circolare numero 3/DF del 18.05.2012, emanata dopo
l'entrata in vigore dell'imposta municipale propria (Imu),
ebbe ad affrontare l'ipotesi di «due pertinenze, di solito
la soffitta e la cantina, accatastate unitamente all'unità
ad uso abitativo. In tale caso, in base alle norme
catastali, la rendita attribuita all'abitazione principale
ricomprende la redditività di tali porzioni immobiliari non
connesse. Pertanto, poiché dette pertinenze, se fossero
accatastate separatamente, sarebbero entrambe classificate
in categoria C/2, per rendere operante la disposizione in
esame, si ritiene che il contribuente possa usufruire delle
agevolazioni per l'abitazione principale solo per un'altra
pertinenza classificata in categoria C/6 o C/7».
Interpretazione questa che, anche se esplicitata prima
dell'entrata in vigore della citata legge numero 147, del
2013 (legge di Stabilità per l'anno 2014), ha valenza (si
ritiene) anche dopo l'entrata in vigore di quest'ultima
legge.
È naturale che per detti spazi (soffitta, cantina),
integrati nell'abitazione principale, deve sussistere la
possibilità di una loro potenziale iscrivibilità catastale
autonoma (articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quali sono le nuove regole della classificazione dei rifiuti
ai sensi della legge n. 116/2014? (27.10.2014 -
link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RAEE: è obbligatoria l'iscrizione al centro di
coordinamento? (27.10.2014 - link a
www.ambientelegale.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Il no all'indennità vincola.
Vietato erogare il gettone a chi vi ha rinunciato.
Gli enti devono stanziare in anticipo le somme per gli
amministratori.
È possibile erogare ad alcuni ex amministratori locali
l'indennità da essi maturata e non ricevuta per formale
espressa rinuncia al percepimento della stessa?
L'art. 82 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
stabilisce il diritto degli amministratori alle indennità e
gettoni di presenza per l'impegno da essi sostenuto per
l'esercizio del mandato, nelle misure dalla stessa previste.
La riscossione di detti emolumenti si configura quale
diritto soggettivo disponibile, conseguentemente è
consentito che gli stessi amministratori possano rinunciare
al loro percepimento.
Da tale disposizione discende che ordinariamente, in sede di
programmazione, l'ente prevede per ciascun esercizio le
indennità spettanti agli amministratori e stanzia in
bilancio le somme necessarie, erogandole poi mensilmente
agli aventi diritto, previa assunzione dei relativi
provvedimenti d'impegno e degli ulteriori atti che ne
conseguano, e senza bisogno di una specifica richiesta da
parte degli interessati (vedasi Corte dei conti, sezione
regionale di controllo per la Campania, parere n. 3/2010 del
15.01.2010, nonché parere n. 5/2009 cit.).
Conseguentemente, come affermato dalla Corte dei conti con
il parere n. 3 citato, la mancanza di stanziamenti riferiti
alle predette indennità nei bilanci di previsione dei
rispettivi esercizi di competenza costituisce un elemento
ostativo per qualsiasi corrispondente (e peraltro
inammissibilmente tardiva) assunzione di impegno contabile e
per il conseguente pagamento degli emolumenti stessi.
La caratteristica peculiare del bilancio di previsione è
infatti costituita dal contenuto autorizzatorio dei singoli
stanziamenti di spesa per i quali, con l'eccezione degli
stanziamenti delle «spese per conto terzi», non è possibile
assumere «impegni» che eccedano gli importi
autorizzati, e ciò in quanto l'autorizzazione degli
stanziamenti rappresenta sia una garanzia del rispetto
dell'equilibrio finanziario del bilancio, sia uno strumento
a supporto degli organi competenti per esplicare
correttamente il governo della gestione (cfr. Corte dei
conti Campania, sez. contr., delibera n. 119/2010)
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Assessori esterni.
Quali norme disciplinano la nomina degli assessori esterni
di un comune?
L'articolo 46, comma 2 del decreto legislativo n. 267/2000
dispone che il sindaco nomina, nel rispetto del principio di
pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza
di entrambi i sessi, i componenti della giunta, tra cui un
vicesindaco. Il successivo articolo 47, ai commi 1 e 2,
rinvia agli statuti la possibilità di fissare il numero
degli assessori, ovvero il numero massimo degli stessi, nei
limiti stabiliti dalla normativa. Il comma 3 del citato
articolo 47, stabilisce che nei comuni con popolazione
superiore a 15.000 abitanti gli assessori sono nominati dal
sindaco anche al di fuori dei componenti del consiglio, fra
i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità,
eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere.
Per quel che concerne i comuni con popolazione compresa tra
10.000 e 30.000 abitanti, la legge (art. 2, comma 185, legge
n. 191 del 23.12.2009, come modificata dalla legge n.
42/2010) stabilisce il tetto massimo di cinque assessori.
Ai sensi dell'art. 64, comma 1, del Tuel, la carica di
assessore è incompatibile con quella di consigliere
comunale. Il successivo comma 2 stabilisce, infatti, che
qualora un consigliere comunale assuma la carica di
assessore nella rispettiva giunta (eventualmente anche con
la funzione di vicesindaco), cessa dalla carica di
consigliere all'atto di accettazione della nomina, e al suo
posto subentra il primo dei non eletti
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Albo Gestori Ambientali: come avviene l'iscrizione alla
categoria 3-bis? (20.10.2014 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'attività tecnicamente connessa che viene considerata parte
dell'installazione ricade nell'obbligo di presentazione
dell'Aia? (20.10.2014 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quale comunicazione deve presentare l'impresa che intende
iscriversi alla categoria 2bis dell'Albo ai sensi del D.M.
n. 120/2014? (13.10.2014 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Cosa prevede il collegato ambientale alla legge di stabilità
2014? (13.10.2014 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Come deve essere inteso il divieto di miscelazione
all'indomani della legge n. 116/2014? (06.10.2014
- link a www.ambientelegale.it). |
SEGRETARI
COMUNALI: Oggetto:
Retribuzione di posizione del Segretario comunale in caso di
segreteria convenzionata
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria
Generale dello Stato,
nota 29.09.2014 n. 76063 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RAEE: quali sono gli obblighi del produttore riguardo al
marchio? (29.09.2014 - link a
www.ambientelegale.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Composizione
della Giunta comunale. – Quesito.
Si fa riferimento alla nota sopra distinta con la quale
codesta Prefettura ha chiesto il parere circa la legittimità
della rotazione nella nomina di uno dei due assessori
nell’ambito della Giunta municipale del comune di …,
programmata dal sindaco, il quale, al termine di ogni seduta
di Giunta, procede alla revoca dell’assessore e alla
contestuale nomina alla stessa carica di un diverso
consigliere, con riserva di comunicazione al primo consiglio
comunale utile.
In particolare, nella delibera di consiglio comunale n. 13
dell’11.06.2014, viene specificato che il sindaco, “ha
deciso di dare stabilità alla figura del Vicesindaco, mentre
per l’altro assessore di fatto la nomina sarà ripartita tra
più consiglieri, alternandoli”.
Al riguardo, si rappresenta che l’articolo 46, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000 dispone che il sindaco
nomina, nel rispetto del principio di pari opportunità tra
donne e uomini, i componenti della Giunta, tra cui un
vicesindaco, e ne dà comunicazione al consiglio nella prima
seduta successiva alla elezione.
Il successivo comma 3 prevede che entro il termine fissato
dallo statuto, il sindaco, sentita la giunta, presenta al
consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai
progetti da realizzare nel corso del mandato, mentre il
comma 4 dà facoltà al sindaco di revocare uno o più
assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio.
Ciò premesso, si osserva che in tema di revoca degli
assessori, la giurisprudenza ha sempre affermato l’obbligo
di motivazione del relativo provvedimento sindacale, in
virtù di quanto previsto dal sopra citato comma 4.
Il Consiglio di Stato, Sez. V con sentenza 12.10.2009 n.
6253, ha affermato che “l'obbligo di motivazione del
provvedimento di revoca dell'incarico di un singolo
assessore (o di più assessori) … può senz'altro basarsi
sulle più ampie valutazioni di opportunità
politico-amministrative, rimesse in via esclusiva al sindaco”.
Anche il TAR della Puglia–Bari, Sez. I, con sentenza
29.05.2012 n. 1067, ha affermato che è “noto il
consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, secondo cui la natura ampiamente
discrezionale del provvedimento di revoca dell’incarico di
assessore consente di ritenere ammissibile una motivazione
basata sulle più ampie valutazioni di opportunità politica
ed amministrativa, rimesse in via esclusiva al vertice
dell’ente locale, in quanto aventi ad oggetto un incarico
fiduciario (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23.02.2012 n. 1053 ed
i numerosi precedenti ivi richiamati)”.
In ordine alla specifica fattispecie, assume tuttavia
particolare rilevanza l’ordinanza n. 788/2009 del 21.10.2009
con la quale il TAR della Puglia–Lecce, Sez. I, ha affermato
che il decreto di revoca della nomina ad Assessore adottato
dal Sindaco …. non può certamente trovare giustificazione
nell’accordo in ordine all’alternanza alla carica di
assessore raggiunto in seno ad una delle forze politiche che
sostengono il Sindaco ….; inoltre, la validità di un simile
accordo si presenta altamente problematica, in
considerazione dell’innegabile contrasto con interessi
pubblicistici di indubbio rilievo, come quello al buon
andamento dell’amministrazione o al rispetto della volontà
del corpo elettorale.
Condividendo le perplessità evidenziate dal TAR Puglia con
la citata ordinanza n. 788/2009, si ricorda che la Giunta,
secondo la previsione dell’articolo 36 del decreto
legislativo n. 267/2000, è uno degli organi di governo del
Comune, ed in quanto tale assume una responsabilità di tipo
collegiale di fronte al consiglio, ai sensi dell’articolo 48
dello stesso decreto, il quale tra l’altro, al comma 2
assegna, sempre alla Giunta, compiti di collaborazione con
il sindaco nell’attuazione degli indirizzi generali del
consiglio, rispondendo allo stesso organo con cadenza
annuale in merito alla propria attività espletata e
svolgendo compiti di proposta e di impulso nei confronti
sempre del medesimo organo consiliare.
Peraltro, la continua rotazione degli assessori, richiedendo
sempre la conseguente comunicazione al consiglio,
comporterebbe un gravoso appesantimento delle procedure
formali e non agevolerebbe il lavoro collegiale della Giunta
ed impedirebbe di risalire con chiarezza ad eventuali
responsabilità in caso di non corretta gestione degli
assessorati di competenza.
Inoltre nell’eventualità del mancato rispetto del patto
politico all’interno del Consiglio, l’eventuale revoca di un
assessore, non supportata da adeguata motivazione nei
termini surriferiti richiesti dalla giurisprudenza, potrebbe
esporre l’Ente a possibili contenziosi
(12.08.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
NEWS |
APPALTI:
Appalti, restyling a 360°. Testo unico coordinato
con le norme Ue. Lo schema di ddl
che porterà al nuovo codice dei contratti pubblici.
Rivisitazione completa dell'intera
disciplina degli appalti pubblici e sulle concessioni.
Compilazione di un unico testo normativo coordinato con le
disposizioni europee. Revisione del sistema di
qualificazione delle imprese di costruzioni, da rendere più
omogeneo e trasparente. Riduzione delle stazioni appaltanti,
razionalizzazione e estensione del partenariato
pubblico-privato.
Trasparenza e pubblicità delle procedure di gara e riduzione
degli oneri documentali.
Sono queste le linee indicate nella nuova bozza del disegno
di legge delega che dovrà portare, entro aprile 2016,
all'emanazione dei decreto delegato che sostituirà l'attuale
codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) recependo le
direttive Ue n. 23, 24 e 25/2014.
Nel nuovo testo vi è la conferma dell'attribuzione alla
Presidenza del consiglio dei ministri, di intesa con il
Ministero delle infrastrutture, del compito di avviare una
ampia consultazione con le categorie interessate, che
avverrà dopo l'approvazione della delega e prima della
redazione del decreto attuativo, compito, quest'ultimo, che
dovrebbe essere confermato in capo al Ministero delle
infrastrutture.
Una precedente bozza era già stata esaminata dal consiglio
dei ministri del 29 agosto, senza però che il testo
definitivo arrivasse in parlamento (dove sarebbe già stato
deciso di avviare l'esame del disegno di legge partendo dal
Senato). Le nuove disposizioni dovranno essere trasmesse al
parlamento per essere discusse e approvate. Poi scatterà la
consultazione delle categorie interessate, si perverrà alla
redazione di uno schema di decreto sul quale andranno
raccolti i pareri di diversi dicasteri, della Conferenza
unificata, delle commissioni parlamentari e del Consiglio di
stato.
Un iter indubbiamente lungo per un recepimento delle tre
direttive europee che vede impegnati, attualmente, oltre
alla Commissione Nencini presso il Ministero delle
infrastrutture, la Presidenza del consiglio, sia pure con un
target diverso, e una Commissione Anac insediatasi il 18
settembre 2014 con il compito di seguire, «attraverso
proposte al governo e al parlamento, l'iter di formazione
del disegno di legge di recepimento».
Nel merito dei criteri si conferma che il nuovo decreto
delegato dovrà portare ad una razionalizzazione del quadro
normativo attuando i principi della semplificazione e
armonizzazione delle disposizioni in materia di affidamento,
della trasparenza e pubblicità delle procedure di gara,
della riduzione degli oneri documentali a carico dei
soggetti partecipanti e della semplificazione delle
procedure di verifica da parte delle stazioni appaltanti.
Fra gli obiettivi da conseguire anche la riduzione delle
stazioni appaltanti e razionalizzazione delle loro attività
e alla razionalizzazione ed estensione delle forme di
partenariato pubblico privato. Viene inserito anche un
criterio, non del tutto pertinente, relativo alla «trasparenza
nella partecipazione dei portatori qualificati di interessi
nell'ambito dei processi decisionali», come se si
volesse arrivare a quella legge sulle lobby finora mai
portata avanti dagli ultimi governi
(articolo
ItaliaOggi dell'01.11.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale, spesa calcolata sul 2011-2013.
È il triennio 2011-2013 la base per il calcolo della media
triennale della spesa di personale da ridurre
progressivamente per gli enti locali, valevole come uno dei
principali vincoli da rispettare ai fini della corretta
gestione.
L'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, convertito in legge
114/2014 ha modificato in modo piuttosto rilevante il
diritto sostanziale e le procedure per tenere sotto
controllo e, anzi, diminuire costantemente la spesa di
personale degli enti locali, in particolare con l'abolizione
dell'articolo 76, comma 7, del dl 112/2008, convertito in
legge 133/2008.
Ciò ha comportato l'eliminazione di tre «fardelli»:
l'obbligo di mantenere il rapporto tra spesa di personale e
totale della spesa corrente più basso del 50%, per non
incorrere nel blocco assoluto delle assunzioni; la modifica
del contenimento del turnover (ora disciplinato appunto
dall'articolo 3, comma 5, della riforma della p.a., in modo
che sia pari al 60% della costo del personale di ruolo
cessato per gli anni 2014-2015, 80% negli anni 2016-2017 e
100 dal 2018); eliminazione dell'obbligo di computare nella
spesa di personale anche quella del personale delle società
ed enti partecipati.
È rimasto vigente, invece, l'obbligo fissato dall'articolo
1, comma 557, della legge 296/2006, di abbassare anno dopo
anno la spesa complessiva del personale, attraverso una
serie di misure, dall'accorpamento degli uffici al
contenimento del numero dei dirigenti, dalla riduzione della
dinamica salariale legata alla contrattazione decentrata
all'attenzione appunto al turnover.
Dopo, però, l'intervento di riforma del dl 90/2014 era
opportuno ridefinire quale fosse lo stock di spesa di
personale da ridurre progressivamente. A questo pensa il
comma 5-bis dell'articolo 3 del dl 90/2014, a mente del
quale «ai fini dell'applicazione del comma 557, a decorrere
dall'anno 2014 gli enti assicurano, nell'ambito della
programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il
contenimento delle spese di personale con riferimento al
valore medio del triennio precedente alla data di entrata in
vigore della presente disposizione».
Dunque, la base di calcolo non è più un anno specifico, ma
una media triennale. Il che appare corretto, perché la media
corregge distorsioni derivanti da elementi accidentali (ad
esempio, un picco di pensionamenti) che possono
caratterizzare una certa annualità in modo troppo negativo o
positivo, ai fini della gestione.
Il problema che si pone è quello di identificare il
triennio, visto che l'articolo 5-bis non è, sul punto,
troppo chiaro. È un triennio «scorrevole» cioè il
triennio che precede la programmazione triennale delle
assunzioni? Oppure un triennio «fisso»?
La soluzione da considerare corretta è la seconda. Lo
dimostrano una considerazione logica e l'altra di stretta
interpretazione letterale.
Sul piano logico, è facile intuire come non sia possibile
ancorare una riduzione progressiva e costante della spesa di
personale a una base di calcolo sempre variabile, quale
sarebbe la media di trienni «scorrevoli» Sul piano
della mera lettura della norma, il legislatore specifica che
il triennio da considerare è quello precedente alla data di
entrata in vigore della legge 114/2014. Ma, detta legge
entra in vigore solo nel 2014: dunque, il triennio da
considerare è solo e soltanto il 2011-2013
(articolo ItaliaOggi dell'01.11.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sblocca Italia, i rifiuti anche fuori regione, le
bonifiche semplificate.
Rimodulazione delle regole sullo spostamento dei rifiuti da
una regione all'altra, aumento del carico massimo dei
residui processabili da impianti energetici condizionato a
compatibilità ambientale, ulteriore semplificazione delle
procedura di bonifica dei siti inquinati e promessa di
analoghe norme per la gestione delle terre e rocce da scavo.
Queste le novità ambientali licenziate il 30.10.2014 dalla
Camera dei deputati con l'approvazione del ddl (blindato da
fiducia governativa) di conversione del dl 133/2014 (c.d.
«Sblocca Italia») ora in viaggio verso il Senato per il
placet definitivo.
Smaltimento rifiuti fuori Regione.
Ridotto il divieto ex dlgs 152/2006 di smaltire i rifiuti
urbani in regioni diverse da quelle di origine che sarà
invece possibile ogni qual volta il presidente dell'Ente
territoriale di produzione lo riterrà necessario per
fronteggiare situazioni di emergenza dichiarate dalla
Protezione civile.
Impianti di recupero energetico.
Gli impianti di valorizzazione energetica dovranno sempre
assicurare il trattamento in via prioritaria dei rifiuti
urbani prodotti dal proprio territorio regionale fino al
raggiungimento del relativo fabbisogno, solo in via
residuale il processo di quelli provenienti da altre Regioni
e, previo rispetto dei principi di prossimità e sicurezza,
di quelli speciali pericolosi a rischio infettivo.
Per il trattamento di rifiuti urbani extra-regionali gli
stessi impianti dovranno corrispondere alla propria Regione
un contributo fino a 20 euro per tonnellata di «indifferenziati».
Ridotto invece rispetto alla versione originaria del dl
133/2014 l'aumento del carico dei rifiuti processabili: il
funzionamento fino a «saturazione del carico termico» sarà
possibile solo all'esito positivo della compatibilità
ambientale (qualità dell'aria compresa) di tale regime di
operatività.
Procedura semplificata bonifiche.
Con la legge di conversione arrivano ulteriori
alleggerimenti alla procedura semplificata di bonifica ex
articolo 242-bis dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale»):
caratterizzazione e relativo progetto di bonifica non
saranno più sottoposti ad approvazione ma a mero controllo
pubblico del rispetto dei valori di contaminazione
ammissibili. Ma la bonifica di siti con estensione superiore
a 15 mila metri quadri dovrà avvenire in non più di tre
fasi, quella di aree di oltre 400 mila metri secondo un
crono-programma concordato con le Autorità competenti.
Riutilizzo materiali da scavo.
Oltre a confermare le norme dell'originario dl 133/2014 che
consentono il riutilizzo delle terre e rocce da scavo con
alta presenza di sostanze inquinanti nei siti oggetto di
bonifica, la legge licenziata dalla Camera affida ad un
decreto del presidente della repubblica il riordino di tutte
le disposizioni sui materiali da scavo, la determinazione di
regole ad hoc per il «deposito temporaneo»
degli stessi nonché la disciplina semplificata per la loro
gestione da parte di cantieri di piccole dimensioni
(disciplina originariamente affidata dal dlgs 152/2006 a un
decreto del Minambiente)
(articolo ItaliaOggi dell'01.11.201). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sblocca Italia, cambia l'edilizia. Incentivi alle
ristrutturazioni, stretta sull'abusivismo.
La camera ha dato l'ok al decreto che ora passa al senato.
Imu ridotta a chi riduce l'affitto.
Paga una multa (fino a 20 mila euro) l'autore dell'abuso
edilizio che non rispetta l'ordine di demolizione. I comuni
possono deliberare, per gli interventi di ristrutturazione
edilizia, che i costi di costruzione siano inferiori ai
valori determinati per le nuove costruzioni. Non è più
necessario il permesso di costruire per gli interventi di
ristrutturazione edilizia, che comportano aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume o delle superfici senza
intaccare però la volumetria complessiva degli edifici.
Sono alcune delle novità contenute nel
decreto legge Sblocca
Italia (n. 133/2014), approvato ieri dalla camera dei
deputati (278 voti favorevoli, 161 contrari e sette
astenuti). Il testo passa ora al senato anche se
difficilmente palazzo Madama potrà metterci mano visti i
tempi stretti (il provvedimento va convertito
definitivamente in legge entro l'11 novembre).
Per gli enti locali arrivano sconti sul Patto di stabilità.
Ne beneficeranno le amministrazioni virtuose nel pagamento
dei debiti o che hanno investito in opere pubbliche. Ma
vediamo i punti di maggiore interesse per le amministrazioni
locali.
Edilizia. Come detto, il decreto Sblocca Italia modifica la
definizione di manutenzione straordinaria, ritenendo
sufficiente per questi interventi, il rispetto della
volumetria complessiva degli edifici, e comprendendo,
quindi, anche il frazionamento o accorpamento delle unità
immobiliari. Non è più necessario, quindi, il permesso di
costruire per gli interventi di ristrutturazione edilizia,
che comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume o delle superfici.
Si introduce la definizione di «interventi di conservazione»
e si introduce una nuova ipotesi di permesso di costruire in
deroga anche alle destinazioni d'uso per gli interventi di
ristrutturazione edilizia attuati anche in aree industriali
dismesse.
I termini per il rilascio del permesso di costruire sono
raddoppiati nei soli casi di progetti particolarmente
complessi.
Si codifica la disciplina del permesso di costruire
convenzionato, ispirato alla normativa regionale. Vengono
introdotte sanzioni pecuniarie da 2 mila a 20 mila euro in
caso di inottemperanza dell'ordine di demolizione degli
abusi edilizi. La mancata o tardiva emanazione dell'ordine
di demolizione implica responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario
inadempiente. Le somme sono di competenza comunale e saranno
destinate esclusivamente alla demolizione/rimessione in
pristino delle opere abusive e alla
acquisizione/attrezzatura di aree a verde pubblico. Si
prevede che le varianti siano eseguibili mediante Scia e
sono classificati i mutamento d'uso urbanisticamente
rilevanti.
Altra disposizione precisa che la Dia (ad eccezione della
super- Dia) viene sostituita dalla Scia. Si introduce il
Regolamento unico edilizio al fine di semplificare e
uniformare le norme e gli adempimenti.
Tutela del territorio. I comuni potranno definire criteri e
condizioni per la realizzazione da parte di cittadini,
singoli o associati, di interventi pulizia, la manutenzione,
l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade. In cambio si
otterrà la riduzione o un'esenzione di tributi locali.
Procedimento amministrativo. Viene limitata, nelle ipotesi
di Segnalazione certificata di inizio attività (Scia), la
possibilità per l'amministrazione di assumere determinazioni
in via di autotutela. La revoca del provvedimento
amministrativo per mutamento della situazione di fatto sarà
possibile solo se il mutamento fosse «non prevedibile al
momento dell'adozione del provvedimento» e, per le ipotesi
di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario,
è esclusa la revoca per i provvedimenti di autorizzazione o
di attribuzione di vantaggi economici. Esclusa la
possibilità di annullamento di ufficio quando il dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
Meno Imu se il locatore riduce l'affitto. Si stabilisce che
i comuni possano riconoscere un'aliquota Imu ridotta al
locatore che concordi una riduzione del canone di affitto
con l'inquilino. In ogni caso gli atti di riduzione dei
canoni di locazione beneficeranno dell'esenzione dalle
imposte di registro e di bollo. La richiesta di abbassare il
canone potrà essere avanzata dallo stesso conduttore che
però dovrà motivarne le ragione.
Sconti sul Patto di stabilità.
Il dl stabilisce l'esclusione dal Patto di stabilità interno
dei pagamenti effettuati dai comuni per gli investimenti in
opere, oggetto di segnalazione entro il 15.06.2014 alla
presidenza del consiglio dei ministri. La deroga è concessa
nel limite di 250 milioni di euro per l'anno 2014. Viene
anche disposta l'esclusione dai vincoli del patto di
stabilità interno per gli anni 2014 e 2015, per un importo
complessivamente pari a 300 milioni di euro (di cui 200
milioni per il 2014 e 100 milioni per il 2015), dei
pagamenti dei debiti in conto capitale certi, liquidi ed
esigibili alla data del 31.12.2013 sostenuti successivamente
all'entrata in vigore del decreto-legge (articolo ItaliaOggi del
31.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sulle varianti ai permessi un pasticcio da risolvere.
Il decreto Sblocca Italia approvato alla Camera contiene una
modifica riguardante il regime normativo delle varianti ai
permessi di costruire: quasi sblocca le varianti con la
Scia.
L'articolo 17, comma 1, lettera m), infatti,
sostituisce le parole «dichiarazione di inizio attività» con
«segnalazione certificata di inizio attività» nel comma 2
dell'articolo 22 e introduce, nello stesso articolo, un
nuovo comma 2-bis. In base a quest'ultimo comma sono
realizzabili, mediante Scia (per giunta comunicata, poco
comprensibilmente, a fine lavori), le varianti ai permessi
di costruire che non configurino una variazione essenziale,
a condizione che, tra le altre condizioni, siano attuate
dopo l'acquisizione degli eventuali atti di assenso
prescritti dalla normativa sui vincoli paesaggistici.
La contraddizione con quanto disposto dal comma 2 dello
stesso articolo 22 (come contestualmente modificato) e dal
comma 4 del successivo articolo 23-bis è evidente. In base
al riformulato comma 2 dell'articolo 22, possono essere
realizzate con Scia le varianti ai permessi di costruire
qualora, tra l'altro, non modifichino la sagoma degli
edifici vincolati. In base al comma 2-bis, invece, la Scia
può essere utilizzata anche per una variante al permesso di
costruire comportante la modifica della sagoma di un
edificio vincolato, dato che in presenza di una modifica
della sagoma non si può parlare, necessariamente (si veda
l'articolo 32 del dpr n. 380/2001), di variazione
essenziale, e dunque escludere il ricorso alla stessa Scia.
L'utilizzabilità della Scia per interventi comportanti
modifiche della sagoma anche rispetto a edifici vincolati è
confermata dal fatto che lo stesso comma 2-bis subordina
l'eseguibilità di interventi di questo tipo all'acquisizione
delle autorizzazioni previste dalla normativa sui vincoli
paesaggistici. L'estensore del decreto sembra essersi
dimenticato anche delle modifiche al dpr n. 380/2001
apportate con il decreto-legge n. 69/2013 e in particolare
dell'articolo 23-bis che, al comma 4, dispone la
delimitazione, a cura dei comuni, delle parti delle zone
territoriali omogenee A. In esse si esclude il ricorso alla
segnalazione certificata per realizzare varianti ai permessi
di costruire comportanti modifica alla sagoma, prevedendo,
in caso di inerzia dei comuni, l'esercizio di poteri
sostitutivi da parte delle regioni ovvero del ministro delle
Infrastrutture, e stabilendo comunque che, in assenza della
delimitazione, non è possibile utilizzare la Scia per le
stesse varianti all'interno dell'intera zona A.
Se, come appare probabile, i tempi stretti non consentiranno
al Senato di apportare modifiche al testo del decreto
sblocca Italia, di certo non scomparirà la dichiarazione di
inizio attività, ma molto probabilmente compariranno dubbi
sull'utilizzabilità della segnalazione certificata di inizio
attività per realizzare varianti ai permessi di costruire
relativi agli edifici vincolati nonché a quelli che si
trovano all'interno dei centri storici. Se n'è accorto, pur
tardivamente, anche il governo che, al riguardo, ha accolto
a Montecitorio un ordine del giorno (n. 153), con l'impegno
ad armonizzare il contenuto dell'articolo 22, comma 2-bis,
con le altre disposizioni richiamate
(articolo ItaliaOggi del
31.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI -
PATRIMONIO: Sblocca-Italia, sì della Camera.
Il Senato non dovrebbe modificare il testo che destina 3,9
miliardi alle grandi opere.
Giro di boa con assetto
da considerare definitivo per il decreto Sblocca Italia.
Dopo la fiducia votata al governo una settimana fa, ieri
la
legge di conversione del decreto ha ottenuto il via libera
finale della Camera, al termine di un tormentatissimo iter
parlamentare, concluso dall'approvazione di ben 50
emendamenti richiesti dalla commissione Bilancio sul testo
uscito dalla commissione Ambiente.
L'ok finale di
Montecitorio consegna al Senato un testo praticamente
blindato. L'esame in Aula a Palazzo Madama inizierà martedì
4 novembre. Difficile, se non impossibile, immaginare nuove
correzioni (dopo le oltre 200 apportate alla Camera) a meno
di non rischiare la decadenza del provvedimento, da
convertire in legge entro martedì 11 novembre.
Il passaggio parlamentare ha confermato i pilastri del
provvedimento, ma non sono mancate le correzioni di rilievo:
alcune imposte peraltro dalla cronaca, come nel caso degli
interventi mirati a sbloccare gli appalti per la messa in
sicurezza di Genova, congelati dai ricorsi al Tar. In
futuro, prima di accordare una sospensiva i giudici dovranno
valutare anche le esigenze di incolumità pubblica connesse
alla realizzazione degli interventi.
Confermati i fondi destinati allo sblocco delle grandi opere
(3,9 miliardi, di cui una prima tranche di 1,7 miliardi già
individuata dal ministero delle Infrastrutture) così come i
poteri da super-commissario attribuiti all'amministratore
delegato delle Ferrovie Michele Elia per accelerare l'avvio
dei cantieri per la Napoli-Bari e la Palermo-Messina.
Completamente riscritto, invece, dopo i rilievi Ue, il
capitolo dedicato all'accorpamento (con proroga) delle
concessioni autostradali. Rispetto alla corsia preferenziale
disegnata dal decreto andato in Gazzetta il 12 settembre
sono stati ripristinati una serie di passaggi formali (come
il parere dell'Autorità Trasporti e l'ok preventivo Ue)
oltre all'impossibilità di "defiscalizzare" gli investimenti
previsti con la rivisitazione dei piani.
Qualche correzione di rilievo è arrivata anche sul corposo
capitolo delle semplificazioni edilizie. Torna innanzitutto
l'obiettivo di disegnare un regolamento edilizio standard
valido per tutti i Comuni italiani: la quadra andrà trovata
in Conferenza unificata. Confermata la possibilità di
frazionare o accorpare le unità immobiliari con una semplice
Scia, senza più necessità di richiedere un permesso di
costruire. Le semplificazioni sono state accompagnate da un
inasprimento delle sanzioni. Per chi "dimentica" di
comunicare l'avvio dei lavori (Cil) la multa sale da 258 a
mille euro.
Confermata la deduzione Irpef del 20% per l'acquisto di case
da destinare all'affitto per almeno otto anni. Si deve
trattare però di abitazioni nuove invendute o ristrutturate.
Da luglio 2015, poi, gli edifici nuovi o ristrutturati
dovranno essere predisposti alla banda larga.
Modifiche di minor impatto per il corposo capitolo dedicato
alle bonifiche. In larga parte mantenute anche le deroghe al
codice appalti per gli interventi di difesa del suolo (con
la possibilità di progetti in house) e per le opere urgenti
su scuole, antisismica e beni tutelati. Saltato all'ultimo
minuto il raddoppio del fondo emergenze, rimandato (forse)
alla legge di stabilità (articolo Il Sole 24 Ore del
31.10.2014). |
SEGRETARI
COMUNALI: Segretari, stipendi ancorati al capofila.
Comuni. Gli emolumenti di chi opera in più enti
convenzionati.
Tempi duri per i
segretari comunali. Dopo l'annuncio del superamento della
figura storica degli enti locali e del loro ruolo, in
discussione al Senato (AS 1577), la
nota 29.09.2014 n. 76063 di prot. della Ragioneria
generale dello Stato frena gli stipendi dei
segretari comunali in convenzione tra più enti (si veda «Il
Sole 24 Ore» del 27 ottobre).
Nel dettaglio una parte dello stipendio –chiamata
retribuzione di posizione– è legato alla fascia demografica
dell'ente dove si presta servizio, secondo quanto previsto
dai Ccnl. Tuttavia, poiché è noto che i segretari in
servizio sono in numero inferiore rispetto alle sedi
presenti su tutto il territorio nazionale, per garantire la
copertura delle sedi vacanti, gli enti possono convenzionare
il servizio di segreteria comunale cosicché il segretario di
un ente (detto capofila) possa ricoprire lo stesso incarico
in altri comuni, potendo così gli enti conseguire economie
grazie al riparto dei costi.
Ciò garantisce agli interessati
l'attribuzione di un trattamento economico più favorevole
grazie alla maggiorazione del 25% che remunera le maggiori
attività richieste. Tuttavia la Ragioneria generale,
rispondendo al quesito di un ente, ha precisato che non è
ammissibile parametrare la retribuzione di posizione alla
fascia demografica derivante dalla somma degli abitanti
degli enti in convenzione presso cui il segretario presta
servizio, non potendosi determinare –con il semplice atto
di convenzione– alcuna modifica nella retribuzione di
posizione che resta ancorata alla fascia professionale di
appartenenza del segretario stesso e alla tipologia del
singolo ente inizialmente ricoperto.
Tale aspetto riguarda tutti i segretari comunali che operano
in sedi capofila di dimensioni demografiche inferiori alla
classe di appartenenza della segreteria convenzionata. Per
un segretario di fascia B che opera in una segreteria di
classe II, ma dove l'ente capofila è di classe III, il
taglio dello stipendio sfiora i 10mila euro annui. Per i
segretari che sono transitati dalla fascia C alla fascia B
grazie all'ultimo corso-concorso Spes, il cui esito è stato
pubblicato lo scorso 4 settembre, la differenza è minima
(circa 600 euro annui).
Il semplice superamento del
corso-concorso non costituisce motivo di attribuzione del
trattamento economico stipendiale relativo alla fascia per
la quale si è conseguita l'idoneità, se a ciò non segue la
presa di servizio in un ente dove è richiesta la qualifica
superiore. Pertanto il segretario di fascia C che ha
conseguito l'idoneità di fascia B, ma che rimane titolare in
un ente di classe IV non potrà vantare alcun diritto di
attribuzione del trattamento economico della classe
superiore.
Nel caso in esame, oltre a essere diversa la retribuzione di
posizione, lo stipendio subirebbe un incremento di oltre
8mila euro annui, arrecando un evidente danno alle casse
dell'ente. A tal fine si ricorda che in materia di
attribuzione del trattamento economico fondamentale dei
segretari comunali l'organismo competente alla definizione
dello stesso è l'ex Agenzia autonoma per la gestione
dell'albo dei segretari comunali e provinciali, confluita
nel ministero dell'Interno ad opera del Dl 78/2010, e pertanto
eventuali decreti sindacali, adottati (o fatti adottare) a
tal fine, sono nulli.
Inoltre dopo l'ultimo Spes si è posto
il problema dell'applicabilità del congelamento degli
stipendi dei pubblici dipendenti (articolo 9 del Dl 78/2010)
poiché la norma avevo previsto che le progressioni di
carriera comunque denominate e i passaggi tra le aree
eventualmente disposte negli anni 2011/2014 avessero effetto
esclusivamente a fini giuridici. Di tale problematica è
stato investito il dipartimento della Funzione pubblica con
nota 3391 del 22 ottobre (articolo Il Sole 24 Ore del
31.10.2014). |
APPALTI:
Dall'Anac, manuale ad hoc per opere sopra 150 mila.
Manuale sulla qualificazione per l'esecuzione di lavori
pubblici di importo superiore a 150 mila euro.
Arriva
dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) che ne ha dato
notizia con un comunicato pubblicato in G.U. n. 251 del 28.10.2014. Il Manuale, i cui contenuti sono stati
illustrati su ItaliaOggi del 15 ottobre scorso, è operativo
da oggi e individua una serie di criteri per l'utilizzo
delle cessioni di rami di azienda ai fini del rilascio
dell'attestato di qualificazione.
Fornisce, inoltre, elementi stringenti per la valutazione
dei lavori privati; introduce verifiche più puntuali ai fini
dell'accertamento dell'indipendenza di giudizio delle Soa
(Società organismi di attestazione) e della vigilanza sulla
loro attività.
Il Manuale sulla attività di qualificazione per l'esecuzione
di lavori pubblici di importo superiore a 150 mila, inoltre
aggiorna, integra e razionalizza circa 300 atti tra
determinazioni, comunicati e deliberazioni, emanati negli
ultimi 15 anni, dal 1999 ad oggi, dall'Autorità
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Vendita forzata senza attestato «verde».
Notariato. La disciplina dell'Ape vale solo per le
compravendite consensuali.
L'attestato di
prestazione energetica (Ape) non occorre per i trasferimenti
immobiliari disposti con provvedimenti dell'autorità
giudiziaria in procedure di vendita forzata: è quanto
sostenuto dal Consiglio nazionale del notariato nello
studio 19-20.06.2014 n. 263-2014/C, intitolato «Vendita forzata e attestato di
prestazione energetica».
Nello studio si osserva che la disciplina della
certificazione energetica, contenuta nel Dlgs 192/2005,
origina dalla necessità di dare attuazione a quanto
prescritto dalla normativa europea che, perseguendo una
maggiore efficienza energetica degli edifici sul territorio
degli Stati membri, è certamente rivolta a disciplinare la
circolazione dei beni immobili mediante un'attività
contrattuale, lasciando invece al diritto interno dei
singoli Stati la regolamentazione della materia in termini
di procedimenti giudiziari.
Nel nostro ordinamento, la vendita coattiva per l'attuazione
di un diritto di credito insoddisfatto è tradizionalmente
regolata da una disciplina speciale: quanto al contenuto,
alla forma, ai mezzi di impugnazione e alla stabilità del
provvedimento giudiziale che la attua; pertanto, una
disciplina destinata a regolare una vendita negoziale e a
sanzionare una sola o entrambe le parti di una compravendita
consensuale non può considerarsi automaticamente applicabile
ad essa, in assenza di espressi e inequivocabili indici
normativi.
Ebbene, né nell'originaria formulazione dell'articolo 6 del
Dlgs 192/2005 né nelle riformulazioni che si sono succedute,
fino a quella attualmente vigente sarebbero rinvenibili
sicuri indici della volontà del legislatore nazionale di
attrarre e includere nella disciplina prevista (e
adeguatamente sanzionata) anche le vendite forzate attuate a
mezzo di decreto di trasferimento.
La legge in effetti obbliga all'allegazione dell'Ape agli
«atti di trasferimento a titolo oneroso» e quindi utilizza
un'espressione che allude ad atti di natura contrattuale.
Inoltre, esistono diversi indizi nel senso della non
estensione alle vendite forzate giudiziali degli obblighi e
delle sanzioni previsti Dlgs 192/2005:
a) il riferimento espresso a una «clausola» contenente una
certa dichiarazione dell'acquirente;
b) il riferimento espresso al "contratto" a proposito
dell'obbligo di allegazione;
c) il principio di legalità e tipicità delle sanzioni
amministrative in generale e, quindi, la loro non
estensibilità a soggetti diversi da quelli indicati nella
norma di legge (vale a dire le parti contraenti del
contratto di compravendita) le quali, però, nel caso di
vendita forzata, non possono ritenersi in alcun modo
responsabili del contenuto del provvedimento del giudice con
cui viene effettuato il trasferimento (in forma di decreto) (articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2014). |
APPALTI: Documenti antimafia snelliti. L'informazione scatta solo per
familiari maggiorenni. In G.U. il decreto correttivo che semplifica alcuni
adempimenti degli imprenditori.
Documentazione antimafia snellita per le imprese.
L'informazione antimafia dovrà essere resa non per tutti i
familiari conviventi del titolare ma solo per quelli
maggiorenni e residenti in Italia. Inoltre tale
documentazione è utilizzabile e produce i suoi effetti anche
in altri procedimenti, diversi da quello per il quale è
stata acquisita, riguardanti i medesimi soggetti.
Lo prevede, tra l'altro, il decreto legislativo 13.10.2014, n. 153 «Ulteriori disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159,
recante codice delle leggi antimafia e delle misure di
prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della
legge 13.08.2010, n. 136», pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 250 del 27.10.2014 e in vigore dal 26.11.2014.
Il nuovo correttivo interviene nella
parte del Codice concernente i controlli amministrativi
sugli appalti e su concessioni, erogazioni e finanziamenti
pubblici, consentendo di emettere una documentazione interdittiva in tutti i casi in cui siano interessate
imprese border-line, che oggi, spiegano dalla Presidenza del
consiglio dei ministri, eludono gli accertamenti antimafia
più rigorosi, operando sotto soglia.
Il provvedimento
semplifica alcuni passaggi della procedura, eliminando oneri
amministrativi superflui, come ad esempio (come visto sopra)
gli accertamenti a carico dei figli minori e semplificando
alcuni termini procedimentali per il rilascio della
documentazione antimafia, specie nei casi di urgenza. Viene,
inoltre, semplificata la norma sulla competenza
territoriale.
Con l'approvazione del decreto legislativo sarà
esclusivamente competente al rilascio della documentazione
antimafia il prefetto del luogo ove ha sede l'operatore
economico.
L'intervento normativo, ha annunciato Palazzo Chigi, troverà
il suo completamento con la prossima pubblicazione del
regolamento sul funzionamento della Banca dati nazionale
unica della documentazione antimafia, che ha concluso il suo
iter formativo
(articolo ItaliaOggi del
28.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: All'asta senza Ape. Obbligatorio solo con contratto.
Il notariato sulla necessità dell'attestato energetico.
Niente attestato di prestazione energetica per gli immobili
venduti all'asta.
Lo ha precisato il Consiglio nazionale del
notariato (studio
19-20.06.2014 n. 263-2014/C) che analizza la disciplina
da seguire nel caso di vendita forzata.
Nello studio si
affronta il problema della estensione alle vendite coattive
della normativa sulla qualità energetica degli immobili. Lo
studio evidenzia che né nell'originaria formulazione
dell'art. 6 del dlgs 192/2005 né nelle riformulazioni
successive, fino a quella attualmente vigente risulta la
volontà del legislatore di estendere le regole
sull'attestato energetico anche le vendite forzate attuate a
mezzo di decreto di trasferimento giudiziale. La normativa
di settore, infatti, fa riferimento a clausole con le
dichiarazioni dell'acquirente e richiama espressamente il
contratto. Nulla di tutto ciò si riscontra nelle vendite
forzate.
Inoltre, sarebbe impraticabile applicare le sanzioni
previste per la mancata dichiarazione e allegazione agli
acquirenti all'asta, che non possono ritenersi in alcun modo
responsabili del contenuto del decreto del giudice con cui
viene effettuato il trasferimento. In ogni caso, prosegue lo
studio dei notai, anche se si ritenesse applicabile anche al
trasferimento in ambito giudiziale coattivo la normativa in
tema di dotazione e di allegazione dell'attestato di
prestazione energetica, le eventuali violazioni non
potrebbero, comunque, mai determinare l'applicabilità delle
sanzioni amministrative. Non può applicarsi al debitore
esecutato la sanzione la sanzione prevista per la violazione
dell'obbligo di dotazione dell'attestato, a carico del solo
proprietario nel caso di vendita.
Inoltre, non sono applicabili agli organi della procedura o
al creditore procedente le responsabilità civili conseguenti
alla violazione degli obblighi di informativa
precontrattuale previsti in ambito energetico, in quanto,
una volta esaurite le eventuali contestazioni su presunte
irregolarità della vendita, non è data la responsabilità per
vizi nella vendita forzata. Infine, non sono irrogabili alle
parti della vendita le sanzioni amministrative previste per
la violazione dell'obbligo di inserimento della clausola o
dell'obbligo di allegazione al contratto dell'attestato di
prestazione energetica: il decreto di trasferimento è,
infatti, atto del giudice delle esecuzioni sul cui contenuto
le parti non possono incidere.
Quanto, infine, all'obbligo di inserimento delle
caratteristiche energetiche del bene offerto in vendita in
caso di annuncio con i mezzi di pubblicità commerciali,
secondo lo studio, è opportuno che il professionista
delegato alla vendita, prima di effettuare gli adempimenti
pubblicitari, verifichi sempre se l'attestato di prestazione
energetica sia agli atti e ne tenga conto nella redazione
dell'avviso di vendita. Il giudice, infatti, potrebbe, dare
indicazioni specifiche di diverso tenore
(articolo ItaliaOggi del
28.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Revisori locali, si riparte. Iscrizioni dal 3/11 al 16/12.
Solo online. Decreto Viminale. Anche chi è già in elenco dovrà presentare
domanda.
Dal 3 novembre e sino al 16 dicembre prossimo, i soggetti
già iscritti nell'elenco dei revisori dei conti degli enti
locali e chi, possedendone i requisiti, fosse interessato a
iscriversi, devono trasmettere, rispettivamente, la domanda
di mantenimento nell'elenco e le nuove istanze di
iscrizione.
È quanto viene previsto nel decreto Mininterno di ieri con
cui si approva l'avviso 27.10.2014
per il mantenimento dell'iscrizione nell'elenco dei revisori
dei conti degli enti locali delle regioni a statuto
ordinario, nonché la presentazione di nuove domande di
iscrizione nello stesso a far data dal prossimo 01/01/2015.
L'istanza di mantenimento nell'elenco, infatti, è una
condizione prevista dal dm Interno 15/02/2012, che richiede,
a pena di cancellazione, l'autocertificazione del
mantenimento dei requisiti che permettono l'iscrizione,
come, ad esempio l'iscrizione nel registro dei revisori
legali o all'Ordine dei dottori commercialisti e il
conseguimento di crediti formativi. Dichiarazioni su cui
l'amministrazione dell'interno si riserva di effettuare dei
controlli a campione in merito alla veridicità delle
informazioni contenute.
Soggetti non iscritti. Le istanze andranno presentate in
forma esclusivamente telematica attraverso la sezione
«elenco revisori enti locali» del sito internet http://finanzalocale.interno.it,
previa registrazione al sistema con userid e password. Una
volta completata questa fase, verrà generata un'istanza che
gli interessati dovranno firmare digitalmente ed inviare al
Viminale attraverso la Pec del dipartimento della finanza
locale. Nell'istanza sarà altresì richiesto di non trovarsi
nelle condizioni ex art. 236 Tuel, vale a dire di non essere
interdetto, inabilitato o interdetto, anche temporaneamente,
ai pubblici uffici.
Soggetti già iscritti. Chi, invece, risultasse già iscritto
alla data dell'1/1/2014, dovrà dichiarare che a data della
domanda permangono i requisiti che permettono l'iscrizione
all'elenco. Sul versante dell'acquisizione dei crediti
formativi, l'avviso pubblico allegato al Dm in osservazione
prescrive che l'interessato dovrà procedere all'inserimento
dei crediti conseguiti dall'01/01/2014 al 30/11/2014 e
completare la domanda. Se la procedura è stata correttamente
eseguita, l'interessato riceverà una comunicazione, entro 12
ore, in merito al buon esito dell'acquisizione della
domanda.
Disposizioni comuni. Tutti i soggetti che al termine della
procedura di iscrizione risultassero iscritti nell'elenco,
sono tenuti a versare al Mininterno un contributo annuo di
25 euro entro e non oltre il 30.04.2015. Tale
versamento, così come prevede il dm 21/06/2013, dovrà essere
effettuato sul conto corrente postale n. 1013096209 (Iban:
IT60 C076 0114 5000 0101 3096 209) intestato alla Tesoreria
Viterbo- Ministero interno – indicando come causale
«Contributo Art 4 Bis dl 79/2012».
Estrazioni. Dall'elenco così formato, per ogni ente locale
verranno estratti, con una procedura «random» presso le
Prefetture competenti per territorio, tre nominativi. Nei
casi di organi «monocratici», il primo nominativo è il
designato per la funzione, mentre gli altri due, in ordine
di estrazione, subentrano in caso di rinuncia del titolare.
Nei casi di organi collegiali, i primi tre nominativi sono
coloro che svolgeranno la funzione, mentre gli altri, (dal
quarto al nono estratto) potranno subentrare sempre in caso
di rinuncia di un componente
(articolo ItaliaOggi del
28.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Enti,
oneri concessori fai-da-te.
Durante l'esame parlamentare del decreto sblocca Italia è
stato approvato un emendamento, poi confluito nel testo sul
quale il governo ha ottenuto la fiducia, che modifica
l'articolo 16 del dpr 380/2001. Esso impone alle regioni e
ai comuni di rivedere i parametri per il calcolo del
contributo di costruzione che gli operatori privati versano
alle amministrazioni locali a fronte del rilascio del titolo
abilitativo.
Siamo arrivati al federalismo dei prelievi.
Finora la quota parte del contributo commisurata
all'incidenza degli oneri di urbanizzazione è stata
calcolata tenendo conto delle caratteristiche e della
tipologia dell'intervento edilizio da realizzare e del
diverso carico urbanistico indotto. Quest'ultimo fattore
rappresenta il parametro tecnico che consente di stimare il
costo per la collettività (in termini di attrezzature e
servizi domandati) che l'intervento implica e del quale si
chiede all'operatore di farsi carico. La ricerca di
strumenti con i quali catturare una quota delle plusvalenze
incassate dagli operatori privati, da sempre al centro del
dibattito, è divenuta più pressante, anche perché è
cresciuta la richiesta dalle amministrazioni locali di altre
risorse.
Un simile tema è davvero affrontabile con un
emendamento approvato nella conversione in legge di un
decreto, e con la formulazione scelta? Per effetto della
modifica, regioni e comuni dovranno rielaborare parametri di
calcolo degli oneri, tenendo conto del «maggior valore
determinato da interventi in variante/deroga o da cambi di
destinazione d'uso», e non meno del 50% di questo «maggior
valore» (calcolato dagli stessi comuni) dovrà essere versato
a titolo di contributo straordinario. Gli oneri concessori
diventano, dunque, un altro strumento (in aggiunta a quelli
esistenti) con il quale prelevare una quota (non meno della
metà) del ritorno economico derivante da investimenti
immobiliari e dunque dalle forme di utilizzo della proprietà
privata. E ciò avverrà sulla base di parametri e metodi di
calcolo definiti dalle regioni e dai comuni, senza alcuna
indicazione ulteriore da parte dello stato.
Spetterà al singolo comune inventarsi il metodo attraverso
il quale accertare, o meglio prevedere, quale possa essere
il ritorno economico di un investimento immobiliare che,
come è noto, può avere tempi di esecuzione dell'operazione,
riferiti agli interventi e alla gestione, anche commerciale,
molto lunghi. I comuni sono in grado di fare un'operazione
di questo tipo? Sanno stabilire la quota parte del ritorno
economico che va versata ovvero a fronte della quale devono
essere realizzate opere pubbliche per un valore economico
corrispondente?
Ci si chiede, poi, perché si facciano salve le previsioni
contenute nelle leggi regionali e negli strumenti
urbanistici vigenti, indipendentemente da quali siano il
campo di applicazione, gli interventi per i quali è dovuto e
l'entità dello stesso contributo previsti da quelle
disposizioni. È già molto difficile capire un Paese nel
quale esistono una ventina di leggi urbanistiche regionali.
Bisogna ora aggiungere centinaia e centinaia di forme di
trattamento del diritto di proprietà
(articolo ItaliaOggi del
28.10.2014). |
INCARICHI
PROGETTUALI: Progettisti anche costruttori.
Niente obbligo di astensione se non c'è un vantaggio
concorrenziale.
Legge europea. Riordinate le procedure per gli incarichi -
Cade l'incompatibilità per l'esecuzione dell'opera.
La legge comunitaria
riordina le procedure di affidamento degli incarichi di
progettazione: l'articolo 25, modificando il testo unico
degli appalti 163 del 2006 (articolo 90, comma 8),
consentirà l'affidamento di appalti e concessioni di lavori
pubblici anche a chi sia stato affidatario di precedenti
incarichi di progettazione.
Dalla pubblicazione della legge comunitaria, chi ha
progettato non sarà soggetto all'obbligo di astensione dal
partecipare ad appalti concessioni sulle stesse opere, né
opererà l'attuale dubbio (articolo 90, comma 8) che
esperienze e competenze specifiche, maturate durante la
progettazione, possano travasarsi a favore dell'impresa che
intenda partecipare alla gara per l'esecuzione dell'opera
con l'ausilio del progettista predetto.
Il principio che
obbliga l'astensione dei progettisti è presente da tempo
nella legislazione tecnica: la legge urbanistica 1150 del
1942 (articolo 41-bis) impone infatti ai redattori di piani
urbanistici il divieto di progettare singoli interventi
attuativi del piano da loro progettato, prima che l'iter di
approvazione sia concluso. Secondo la stessa logica,
dapprima la legge del 1994 (articolo 17, comma 10, della
legge 109) e oggi l'articolo 90 del Dlgs 163/2006
sterilirizzano il progettista rispetto alle procedure di
gara e di esecuzione dell'opera. Per di più,
l'incompatibilità si estende anche a soggetti controllati,
controllanti o collegati all'affidatario di incarichi di
progettazione, con una previsione che quindi allarga
l'incompatibilità non solo alle società professionali ma
anche a chi avesse continuità di rapporti con imprese
concorrenti in gara.
Oggi questa barriera è destinata a venir meno perché si
potrà essere dapprima progettista e poi coinvolti
nell'affidamento di appalti e concessioni di lavori
pubblici. Il confine tra la possibilità di partecipare e il
divieto non è più collocato nella presunzione di una
commistione d'interessi, cioè nel dubbio che una serie di
dati, elementi di progettazione e valutazioni tecniche
possano trasmigrare dalla conoscenza del progettista
all'offerta in gara formulata da un 'appaltatore che fruisca
dei servizi del progettista.
La legge comunitaria inserisce
infatti un comma 8-bis all'articolo 90 del Dlgs 163/2006,
prevedendo che possa partecipare a gare di appalto
concessione di lavori pubblici chi, pur avendo espletato
incarichi di progettazione (per quell'opera), dimostri che
l'esperienza acquisita nell'espletamento dell'incarico non è
tale da determinare un vantaggio che possa falsare la
concorrenza con gli altri operatori. In tal modo si
inserisce, a carico del progettista (e dell'impresa che
intende giovarsene) un onere di provare che le altre imprese
concorrenti, anche senza fruire di un progettista che ha
collaborato "a monte" all'ideazione dell'opera, possano
essere in grado di raggiungere gli stessi risultati).
In altri termini: quando qualche impresa scoprirà che il
progettista incaricato di studiare la fase precedente la
gara partecipa tra le fila di un'impresa avversaria, potrà
contestare tale partecipazione, ma dovrà dimostrare che
l'impresa avversaria si è effettivamente avvantaggiata
grazie all'esperienza acquisita dal progettista.
Attingendo dall'esperienza, si ricorda quindi che
l'affidatario della progettazione preliminare a una gara può
partecipare all'affidamento della progettazione definitiva
ed esecutiva perché il vantaggio concorrenziale che deriva
dal previo espletamento dell'incarico finalizzato alla
redazione del progetto preliminare non supera la soglia del
normale vantaggio di cui gode, ad esempio, l'appaltatore che
ha già eseguito lotti adiacenti o che opera in ambiti
territoriali limitrofi (Tar Piemonte 1510/2008, Consiglio di
Stato 561/2004) (articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Standard Ue contro il rumore.
Inquinamento acustico. Entro 18 mesi il Governo dovrà
stabilire i nuovi parametri.
Nuovo regole sul
contenimento dei rumori, sulle emissioni sonore per le
attività industriali e per quelle sportive, semplificazioni
per i requisiti acustici degli edifici.
Sono queste alcune
delle novità contenute nell'articolo 19 della delega,
contenuta nella legge europea, che recepirà norme di matrice
comunitaria sul contrasto all'inquinamento acustico.
Il
Governo, entro 18 mesi dovrà quindi riordinare la normativa
per un più efficace contrasto all'inquinamento acustico.
L'intervento riguarda tutte le fonti di produzione sonora
presenti negli edifici o nelle infrastrutture (ferrovie,
autostrade), ovvero in fonti mobili come i veicoli,
destinati ad avare un impatto sull'ambiente. Si profilano
quindi una standardizzazione delle soglie di rilevanza del
rumore, uniformità dei requisiti acustici, delle
professionalità tecniche e infine adeguamenti del regime
sanzionatorio.
Vi è una pluralità di settori e rapporti
(civili, penali e amministrativi) che la normativa
influenzerà, ad esempio in tema di soglie generali di
tolleranza del rumore. Ciò significa che la delega riguarda
le regole pubblicistiche della materia come gli ambienti
esterni (ad esempio, per gli impianti industriali) e interni
(per la conformità degli edifici). Su un piano diverso, ma
parallelo, corre invece il concetto di "normale
tollerabilità" nelle immissioni sonore (ex articolo 844 del
Codice civile ) prodotte, ad esempio, da un vicino di casa
rumoroso o dal ristoratore del piano sottostante.
Questi
casi attengono al rapporto tra privati e la norma di
riferimento (articolo 844 del Codice civile) deve osservare
parametri generati dal caso concreto (Cassazione 9434/2012,
relativo al suono di un pianoforte in un contesto
condominiale), e non quelle generali imposti dalle pubbliche
amministrazioni. L'articolo 659 del Codice penale punisce
inoltre il disturbo arrecato alla quiete pubblica,
distinguendo tra violazioni commesse da privati o da coloro
che esercitano una professione.
In tale situazione si
puniscono quelle condotte che, anche se rispettose dei
livelli previsti dalla normativa antirumore (legge 447/1995),
sono realizzate minando la tranquillità pubblica (ad
esempio, perché esercitata in orari notturni). La nuova
disciplina riguarderà, quindi, soprattutto gli operatori
economici (costruttori, imprenditori, tecnici del suono), i
quali dovranno rispettare i livelli ispirati dal legislatore
comunitario. A criteri di diritto interno si ricorrerà
invece per definire le soglie di tolleranza del rumore tra
vicini (articolo 844 del Codice civile) e per quelle che
sorvegliano il disturbo della quiete pubblica (articolo 659
del Codice penale).
In attesa dei decreti, nell'edilizia continuerà ad
applicarsi l'articolo 15 della legge 96/2010, che nei
rapporti tra privati (costruttori-venditori-acquirenti di
alloggi) consente un generico riferimento alle soglie del
Dpcm del 05.12.1997 (Tribunale Roma 13550/2014): al di
sotto di tali soglie, il livello di rumore è accettabile, ma
anche al di sopra, se per pochi decibel, occorre dimostrare
la reale lesività del rumore (articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Revisori locali, aperte le candidature.
Professionisti. Termine al 16 dicembre per i debutti e i
rinnovi.
Si apre la nuova stagione
delle iscrizioni all'elenco dei revisori dei conti degli
enti locali, passaggio indispensabile per poter essere
estratti per i posti da revisore che si renderanno
disponibili nel 2015.
A fissare regole e calendario è il decreto con l'avviso
ufficiale pubblicato ieri dal ministero dell'Interno: la
finestra per presentare la domanda si aprirà il 3 novembre
per chiudersi alle 18.30 del 16 dicembre (termine
perentorio, che non ammette deroghe).
Al passaggio sono interessati ovviamente tutti i
professionisti che vogliono debuttare nella revisione
contabile degli enti locali delle Regioni a Statuto
ordinario, ma anche i 15.924 revisori che sono già iscritti
negli elenchi utilizzati per le estrazioni di quest'anno.
L'unica strada percorribile è quella telematica (dalla
sezione dedicata ai revisori nel sito del dipartimento
Finanza locale del ministero dell'Interno: http://finanzalocale.interno.it),
tramite posta elettronica certificata, e l'iscrizione sarà
certificata con la comunicazione ufficiale del buon esito
dell'operazione da parte del Viminale (non sono sufficienti,
quindi, le ricevute di accettazione e consegna che arrivano
sempre quando si usa la posta elettronica certificata):
anche in caso di mancata iscrizione, comunque, il ministero
dell'Interno manderà una comunicazione all'interessato.
Per facilitare il compito ai già iscritti, che saranno
verosimilmente la maggioranza degli interessati al nuovo
adempimento, il Viminale ha alleggerito i loro "obblighi
dichiarativi", dal momento che da quest'anno il sistema
riproporrà in modo automatico tutti i dati già inseriti
nella precedente iscrizione, che naturalmente potranno
essere aggiornati in caso di modifiche.
Il passaggio essenziale, sia per i nuovi sia per i vecchi
iscritti, sarà la certificazione dei requisiti di
formazione, che impongono di aver maturato fra il 1° gennaio
e il 30 novembre almeno 10 crediti formativi nei corsi (sono
oltre 600, quest'anno) riconosciuti dal ministero
dell'Interno.
Chi non ha mai avuto incarichi di revisione può essere
iscritto solo nella prima fascia (in base a una norma che i
professionisti vorrebbero fosse corretta), quella dedicata
gli enti fino a 4.999 abitanti. Per la seconda fascia (enti
fino a 14.999 abitanti) occorrono 5 anni di iscrizione al
Registro dei revisori legali o all'Ordine dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili e un incarico
triennale di revisione già svolto, mentre per la terza
fascia, che comprende tutti gli enti maggiori, occorre avere
in curriculum due incarichi già effettuati e 10 anni di
iscrizione all'ordine o al registro (articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2014). |
APPALTI -
SICUREZZA LAVORO: Appalti sicuri standardizzati.
Modulistica semplificata per redarre Pos, Psc e Pss. Le novità sui piani operativi previste dal decreto Fare per
ridurre gli adempimenti.
Modelli semplificati per la sicurezza lavoro negli appalti.
Piani di sicurezza e fascicolo opera, infatti, possono avere
ora una struttura standard, cioè la veste dei modelli
fissati dal decreto 09.09.2014.
La semplificazione
scaturisce dal decreto del Fare (dl n. 69/2013) che aveva
delegato la predisposizione dei modelli standard per il Pos
(Piano operativo di sicurezza) da parte delle imprese, il
Psc (Piano di sicurezza e coordinamento) e il Fo (Fascicolo
dell'opera) da parte dei coordinatori per la progettazione e
il Pss (Piano di sicurezza sostitutivo del Psc) da parte dei
committenti.
Cantieri temporanei o mobili. La semplificazione riguarda
gli adempimenti previsti dal T.u. sulla sicurezza (dlgs n.
81/2008) e, in particolare, quelli riferiti ai cantieri
temporanei o mobili (Titolo IV del T.u.). Per cantiere deve
intendersi «qualunque luogo in cui si effettuano lavori
edili o d'ingegneria civile», ossia i lavori di costruzione,
manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione,
risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento, la
trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere
fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento
armato, in metallo, in legno o in altri materiali, comprese
le parti strutturali delle linee elettriche e le parti
strutturali degli impianti elettrici, le opere stradali,
ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche e, solo
per la parte che comporta lavori edili o di ingegneria
civile, le opere di bonifica, di sistemazione forestale e di
sterro; nonché i lavori di costruzione edile o di ingegneria
civile gli scavi, e il montaggio e lo smontaggio di elementi
prefabbricati utilizzati per la realizzazione di lavori
edili o ingegneria civile.
Modelli standard. La semplificazione, prevista come detto
dal decreto Fare (dl n. 69/2013 convertito dalla legge n.
98/2013) mediante inserimento dell'art. 104-bis al T.u.
sicurezza nonché con l'inserimento del comma 2-bis all'art.
131 del Codice dei contratti pubblici (il dlgs n. 163/2006),
deriva dall'adozione del decreto interministeriale 09.09.2014 che ha approvato i modelli semplificati
relativi a: a) piano operativo di sicurezza (Pos); b) piano
di sicurezza e coordinamento (Psc); c) fascicolo dell'opera;
d) piano di sicurezza e coordinamento (Pss).
Il decreto 09.09.2014 precisa che la possibilità di
adottare i modelli semplificati non implica alcuna
conseguente semplificazione della disciplina normativa che,
pertanto, resta del tutto confermata. In particolare, per
tutti i modelli restano integralmente applicabili le norme
contenute nel Titolo IV del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008)
fatta eccezione per il Pss nel qual caso restano
integralmente applicabili le disposizioni del dlgs n.
163/2006 (codice contratti pubblici).
Il piano operativo di sicurezza. Il primo modello
semplificato è il Pos, ossia il documento di valutazione dei
rischi la cui redazione è obbligatoria da parte del datore
di lavoro delle imprese esecutrici dei lavori in un cantiere
e con riferimento ad ogni singolo cantiere presso il quale
sia prestata l'opera (è una delle due attività, l'altra è la
designazione del responsabile del servizio di prevenzione e
protezione, che il datore di lavoro deve necessariamente
effettuare personalmente, perché non è delegabile (art. 17
del T.u. sicurezza).
Il modello semplificato contiene le seguenti sezioni:
-
identificazione e descrizione dell'opera;
-
dati identificativi dell'impresa;
-
organizzazione del servizio di pronto soccorso, antincendio
ed evacuazione dei lavoratori;
-
numero e qualifica dei lavoratori operanti in cantiere per
conto dell'impresa;
-
documentazione in merito all'informazione e alla formazione
fornite ai lavoratori impegnati in cantiere;
-
esito del rapporto di valutazione del rumore;
-
lavorazioni svolte in cantiere;
-
procedure complementari o di dettaglio richieste dal Psc (se
previsto)
-
elenco allegati obbligatori
In caso di mancata utilizzazione del nuovo modello
semplificato, il Pos va redatto seguendo le indicazioni ed
esponendo i contenuti indicati nell'Allegato XV del T.u.
sicurezza.
Il piano di sicurezza e coordinamento. Il secondo modello
semplificato è il Psc, parte integrante del contratto di
appalto. Tale piano è costituito da una relazione tecnica e
da prescrizioni correlate alla complessità dell'opera da
realizzare e alle eventuali fasi critiche del processo di
costruzione, atte a prevenire o ridurre i rischi per la
sicurezza e la salute dei lavoratori, nonché dalla stima dei
costi. Il Psc è specifico per ogni singolo cantiere
temporaneo o mobile e di concreta fattibilità, con i suoi
contenuti che devono essere «il risultato di scelte
progettuali e organizzative conformi alle prescrizioni
dell'art. 15 del» T.u. sicurezza (l'articolo 15 elenca le cd
misure generali di tutela).
Per «scelte progettuali e
organizzative», invece, deve intendersi l'insieme di scelte
effettuate in fase di progettazione dal progettista
dell'opera in collaborazione con il coordinatore per la
progettazione, al fine di garantire l'eliminazione o la
riduzione al minimo dei rischi di lavoro. Le scelte
progettuali sono effettuate nel campo delle tecniche
costruttive, dei materiali da impiegare e delle tecnologie
da adottare; le scelte organizzative sono effettuate nel
campo della pianificazione temporale e spaziale dei lavori.
Il modello semplificato contiene le seguenti sezioni:
-
identificazione e descrizione dell'opera;
-
identificazione delle imprese esecutrici e dei lavoratori
autonomi;
-
organigramma del cantiere;
-
individuazione analisi e valutazione dei rischi relativi
all'area di cantiere;
-
organizzazione del cantiere;
-
planimetria del cantiere;
-
rischi in riferimento alle lavorazioni;
-
interferenze tra le lavorazioni;
-
procedure complementari o di dettaglio da esplicitare nel
Pos;
-
misure di coordinamento relative all'uso comune di
apprestamenti, attrezzature, infrastrutture, mezzi e servizi
di protezione collettiva;
-
modalità organizzative della cooperazione e del
coordinamento;
-
disposizioni per la consultazione degli Rls;
-
organizzazione del servizio; di pronto soccorso, antincendio
ed evacuazione dei lavoratori;
-
stima dei costi della sicurezza;
-
elenco allegati obbligatori;
-
quadro riepilogativo inerente gli obblighi di trasmissione.
Anche in tal caso, la mancata utilizzazione del nuovo
modello semplificato obbliga a redigere il Psc, seguendo le
indicazioni e con i contenuti indicati nell'Allegato XV del
T.u. sicurezza.
---------------
Indicazioni anche per il fascicolo opera.
Il terzo modello è il Fo alla cui redazione è tenuto il
coordinatore per la progettazione. Il fascicolo dell'opera
deve contenere, tra l'altro, le informazioni utili ai fini
della prevenzione e della protezione dai rischi cui sono
esposti i lavoratori. La sua redazione non è obbligatoria in
caso di lavori di manutenzione ordinaria di cui all'art. 3,
comma 1, lett. a), del dpr n. 380/2001 (T.u. edilizia), ossia
di tutti gli interventi che riguardano opere di riparazione,
rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e
quelle necessarie a integrare o mantenere in efficienza gli
impianti tecnologici esistenti.
Il fascicolo viene
predisposto la prima volta a cura del coordinatore per la
progettazione; è eventualmente modificato nella fase
esecutiva in funzione dell'evoluzione dei lavori ed è
aggiornato a cura del committente a seguito delle modifiche
intervenute in un'opera nel corso della sua esistenza. Per
interventi su opere esistenti già dotate di fascicolo e che
richiedono la designazione dei coordinatori, l'aggiornamento
del fascicolo è predisposto a cura del coordinatore per la
progettazione. Il fascicolo accompagna l'opera per tutta la
sua durata di vita.
Il modello semplificato contiene le seguenti sezioni:
• Scheda I = Descrizione sintetica dell'opera e
individuazione dei soggetti interessati;
• Scheda II-1 = Misure preventive e protettive in dotazione
dell'opera e ausiliarie;
• Scheda II-2 = Adeguamento delle misure preventive e
protettive in dotazione dell'opera e ausiliarie;
• Scheda II-2 = Informazioni sulle misure preventive e
protettive in dotazione dell'opera necessarie per
pianificare la realizzazione in condizioni di sicurezza e
modalità di utilizzo e di controllo dell'efficienza delle
stesse;
• Scheda III-1 = Elenco e collocazione degli elaborati
tecnici relativi all'opera nel proprio contesto;
• Scheda III-2 = Elenco e collocazione degli elaborati
tecnici relativi alla struttura architettonica e statica
dell'opera;
• Scheda III-3 = Elenco e collocazione degli elaborati
tecnici relativi agli impianti dell'opera;
• Elenco allegati.
- Il piano di sicurezza sostitutivo (del Psc). Ultimo
modello semplificato è il Pss, il piano di sicurezza
sostitutivo del Psc, la cui redazione è obbligatoria da
parte dell'appaltatore qualora la redazione del Psc non sia
prevista ai sensi del T.u. sicurezza. Il Pss riguarda gli
appalti pubblici e la sua redazione è consentita soltanto
nel caso in cui il lavoro venga svolta da una sola impresa.
Ciò vuol dire, che nel caso in cui la legge non obblighi
alla nomina del Csp (coordinatore della sicurezza per la
progettazione) e quindi all'elaborazione del Psc, andrà
sempre consegnato il Pss alle amministrazioni che hanno
proposto il bando per la concessione dell'appalto
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, da gennaio nuovo avvio ma con le vecchie procedure. Dal 2015 scatta la piena operatività del sistema di
tracciamento telematico dei rifiuti.
La perdurante assenza dei previsti decreti ministeriali di
semplificazione del Sistri sembra preludere a una partenza
della piena operatività del sistema, prevista per il 01.01.2015, con l'obbligo di utilizzo dell'attuale
dotazione hardware e software stabilita per legge, ossia:
«dispositivi Usb» e «black box»; schede elettroniche del
sistema centrale per comunicare i dati sulla gestione dei
beni a fine vita.
Spirata inutilmente la data del 24.08.2014, entro la quale, in base all'articolo 14 del dl
91/2014, il Minambiente avrebbe dovuto con propri
regolamenti sancire «l'applicazione dell'interoperabilità»
(ossia dell'interazione tra il citato sistema informatico ed
eventuali software terzi) e «la sostituzione dei dispositivi
token usb» il passaggio cruciale dal vecchio al nuovo regime
di tracciamento dei rifiuti (che prevede l'abbandono del
periodo transitorio e lo scattare, per la prima volta, delle
relative sanzioni per le violazioni Sistri) avverrà sui
binari del meccanismo originariamente disegnato dal dlgs
152/2006 e dm 52/2011.
Meccanismo che impone ai soggetti
aderenti (per obbligo di legge o mera volontà) al Sistri di
inoltrare al sistema un flusso dati tramite i citati
dispositivi informatici parallelamente al compimento delle
diverse attività che interessano i rifiuti (produzione,
movimentazione, conferimento a impianto di trattamento,
intermediazione e commercio) ma che al contempo offre loro
la scelta (non indifferente dal punto di vista
dell'organizzazione aziendale) tra diverse procedure da
utilizzare.
Il sistema Sistri.
Strumenti previsti dal Sistri per
assicurare il tracciamento sono: le schede informatiche
Sistri presenti sul relativo portale (nelle quali devono
essere dichiarati i dati quali/quantitativi e temporali
relativi alle attività poste in essere); i citati
dispositivi informatici descritti, ossia la «chiavetta Usb»
per accedere, compilare, firmare elettronicamente le schede
e la «black box» per tracciare (unitamente alla relativa
«Usb» di identificazione) il trasporto dei rifiuti. Le
regole per il corretto utilizzo degli strumenti software e
hardware citati sono quelle dettate, in attuazione del dlgs
152/2006, dal dm 52/2011 (c.d. «Testo unico Sistri») e, su
richiamo di quest'ultimo, dalle istruzioni pubblicate dal
Minambiente sul portale internet www.sistri.it.
Le schede Sistri.
Il software prevede la tenuta di due
schede: «Area Registro Cronologico» (che sostituisce per i
soggetti iscritti, lo storico «registro di carico e
scarico») ed «Area Movimentazione Rifiuto» (che sostituisce
il «formulario di trasporto»). Ai fini della corretta tenuta
di tali schede ogni operatore deve, per quanto di sua
competenza, (e secondo la tempistica stabilita dalla
disciplina di riferimento): accedere al sistema
autenticandosi tramite «token usb» collegato a personal
computer, effettuare la compilazione online dei previsti
campi; firmare elettronicamente le registrazioni tramite
l'utilizzo degli stessi «dispositivi Usb»; accompagnare il
trasporto dei rifiuti con la copia cartacea della scheda
«Area Movimentazione Rifiuto».
Il tracciamento del trasporto.
Oltre alla tenuta della
citata scheda di movimentazione, la disciplina Sistri impone
anche l'attivazione sul veicolo di trasporto della citata «black
box» a inizio viaggio per tracciarne tramite satellite il
percorso effettuato e la sincronizzazione dati con il Sistri
a fine operazioni.
Le procedure Sistri.
Dal punto di vista operativo il Sistri
prevede diverse procedure utilizzabili: due ordinarie
(«Procedura con utilizzo non contestuale dei dispositivi» e
«Procedura con utilizzo contestuale dei dispositivi») e sei
particolari (trasporto intermodale; trasporto
transfrontaliero; microraccolta; respingimento del rifiuto;
movimentazione fanghi destinati a spandimento in
agricoltura; movimentazione rifiuti in caso di
indisponibilità del sistema).
La differenza tra le due
procedure ordinarie risiede nella tempistica da rispettare,
poiché quella con «utilizzo non contestuale» (si vedano le
tabelle) non obbliga il conducente del mezzo di trasporto a
inserire il relativo dispositivo Usb nella black box del
veicolo a ogni carico e scarico di rifiuti, ma solo a inizio
viaggio e fine giornata di movimentazione.
Comune a entrambe
è invece il flusso dati da comunicare al Sistri che deve
abbracciare la produzione del rifiuto, la sua consegna al
trasportatore, la presa fisica da parte del conducente del
veicolo da quest'ultimo delegato, la consegna all'impianto
di destinazione, le eventuali attività di intermediazione e
commercializzazione intervenute. Il tutto attraverso la
regolare registrazione temporale (termini più stringenti
sono previsti per alcune tipologie, come i residui sanitari)
sia dei carichi/scarichi di rifiuti che della loro
movimentazione.
Soggetti obbligati al Sistri.
Il Sistri è attualmente
obbligatorio per: enti/imprese produttori iniziali di
rifiuti speciali pericolosi (a eccezione, a condizione che
non stocchino i propri rifiuti, delle aziende agricole
conferenti rifiuti a propri sistema di raccolta e le piccole
strutture individuate dal citato decreto ministeriale 2014);
enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale,
di trattamento, recupero, smaltimento, commercio,
intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi
produttori di rifiuti pericolosi; operatori del trasporto
intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi;
Comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione
Campania.
I soggetti obbligati ad aderire al Sistri, devono
iscriversi al sistema: prima di dare avvio alle attività o
comunque al verificarsi dei presupposti per i quali la
disciplina ne dispone l'obbligo (dm 52/2011, articolo 6); in
caso di produzione accidentale di rifiuti pericolosi, entro
tre giorni lavorativi dall'accertamento di tale loro
caratteristica (articolo 188-ter, comma 10, dlgs 152/2006).
---------------
Iter semplificato con la microraccolta.
Maggior elasticità nell'organizzazione della raccolta
rifiuti, nella tenuta delle schede di movimentazione e
tempistica della relativa registrazione online, nonché nella
pianificazione degli itinerari dei mezzi di trasporto,
contraddistingue la particolare procedura semplificata
utilizzabile in Sistri per la «microraccolta dei rifiuti»,
quale (secondo la definizione datane dall'articolo 193 del
dlgs 152/2006) «raccolta di rifiuti da parte di un unico
raccoglitore o trasportatore presso più produttori o
detentori svolta con lo stesso automezzo».
Le regole. Tale procedura è disciplinata dal citato articolo
193 del «Codice ambientale», in base al quale la microraccolta deve essere effettuata nel più breve tempo
tecnicamente possibile; devono essere indicate nelle schede
Sistri tutte le tappe intermedie del percorso di raccolta,
indicando eventuali variazioni devo essere indicate dal
trasportatore nello spazio annotazioni. Dal punto di vista
procedurale, le regole sono invece previste dagli articoli
13 e 18 del dm 52/2011, unitamente alle istruzioni dettate
dal Minambiente attraverso il relativo «manuale» pubblicato
(nell'ultima versione dell'8 maggio scorso) sul portale
Sistri.
La procedura. Fulcro della procedura semplificata (modellata
sulla procedura ordinaria Sistri con «utilizzo non
contestuale» dei dispositivi informatici) è lo spostamento
degli oneri relativi alla tenuta delle «schede di
movimentazione» dei rifiuti dal produttore al trasportatore,
unitamente alla facoltà per quest'ultimo di poter effettuare
lungo il percorso di raccolta anche il prelievo di rifiuti
da produttori aggiuntisi all'ultimo mento.
È al
trasportatore che compete, infatti, l'emissione della
particolare scheda «Comunicazione trasporto per microraccolta» (che consente di generare l'ordinaria «scheda
Area movimentazione» anche per il produttore) e di produrne
la relativa copia cartacea che dovrà poi accompagnare il
viaggio, essere completata con i dati via via necessari da
proprio conducente del veicolo, produttore conferente i
rifiuti ed impianto di destinazione per essere a fine
movimentazione riconciliata con le relative schede
informatiche.
Al gestore dell'impianto di destinazione
spetta inoltre sempre inviare al produttore non iscritto al
Sistri copia della scheda di movimentazione completa di
tutti i dati, al fine di garantire l'esonero di quest'ultimo
(tranne i casi di concorso nel reato) da responsabilità
nella gestione dei rifiuti.
Le semplificazioni abbracciano anche i tempi di
registrazione delle movimentazioni (ammesse fino alle 48 ore
lavorative dalla chiusura delle operazioni) e il
tracciamento del viaggio, che pur dovendo comunque essere
svolto mediante l'utilizzo della «black box» installata sul
mezzo di trasporto e della relativa «chiavetta Usb»
associata (compresa sincronizzazione dati a fine giornata),
non soggiace all'obbligo di utilizzo della «funzionalità
cartografica», ossia dell'impostazione nel software Sistri
della tratta stradale da percorrere (articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Doccia fredda sulle caldaie.
Spese di manutenzione fino a 200 , sanzioni a 3 mila. Gli effetti dell'entrata in vigore del libretto che
registrerà i sistemi di climatizzazione.
Un nuovo libretto d'impianto per caldaie, climatizzatori e
impianti solari.
A prevederlo è la normativa introdotta con
il decreto del 10.02.2014 del ministero dello sviluppo
economico, in vigore a partire dal 15 ottobre scorso, che
punta a garantire agli utenti maggior sicurezza, salubrità e
igiene. A fronte di costi che però potrebbero lievitare
ulteriormente.
Ecco le novità e cosa bisogna fare per
mettersi in regola.
Cosa cambia. La nuova normativa stabilisce che gli impianti
termici devono essere dotati del nuovo libretto di impianto.
Le novità sono sostanzialmente due: il libretto viene esteso
a tutti gli impianti presenti nelle abitazioni. Dunque, non
più solo a caldaie e sistemi di riscaldamento, ma anche a
climatizzatori, impianti solari e così via.
Inoltre, questa
nuova disposizione prevede una diagnosi completa che ne
andrà a verificare sicurezza, salubrità e igiene. Al momento
degli interventi di manutenzione e controllo dovrà poi
essere compilato il «Rapporto di efficienza energetica» per
gli apparecchi di riscaldamento con potenza maggiore di 10 kw e di condizionamento di potenza maggiore di 12 kw.
Come si ottiene il libretto. A partire dal 15 ottobre, e
secondo le scadenze di manutenzione degli impianti già
regolamentate dalle singole regioni, ogni cittadino deve
dotarsi del libretto, che affianca quello vecchio che non
deve essere buttato. Rispetto al passato, il nuovo libretto
è composto da un modello unico, composto da più schede,
assemblabili in funzione degli apparecchi e delle componenti
dell'impianto. Il documento è scaricabile online dal sito
del ministero dello sviluppo economico.
Il responsabile
(quindi il proprietario nel caso di abitazione privata e
l'inquilino in caso di affitto) è tenuto a trascrivere sulla
prima pagina del libretto i dati identificativi
dell'impianto per poi consegnarlo, in occasione del
controllo, al manutentore per l'aggiornamento.
Il rapporto
di efficienza, invece, viene compilato direttamente da
quest'ultimo che provvederà a trasmetterlo all'ente locale
preposto. Per chi avesse difficoltà a cercare e compilare il
proprio libretto, sottolinea Lorenzo Epis, consulente di
Domotecnica, rete in franchising per le aziende di
installazione che operano nel campo dell'efficienza
energetica e delle rinnovabili, che ha elaborato anche una
serie di suggerimenti per le famiglie, «sarà sufficiente
durante il prossimo controllo dell'impianto di riscaldamento
richiederlo al manutentore che verrà a casa».
I costi. Il tecnico si occuperà dunque di effettuare un
controllo e un'eventuale manutenzione, monitorando le
funzionalità dell'impianto, verificandone il rendimento e la
salubrità, controllando non solo caldaie e generatori di
caldo o freddo, ma ogni componente dell'impianto. Con costi
che potrebbero lievitare. Secondo i calcoli di Domotecnica,
infatti, se la spesa prima variava in media tra i 100 e i
120 euro, con l'aggiunta dei controlli e della sanificazione
previsti dal nuovo libretto, una famiglia con una caldaia
collegata a 4/5 caloriferi e un impianto di climatizzazione
con 2 o 3 split verrà a spendere mediamente 200 euro. «Un
costo superiore che vale però la garanzia di sicurezza degli
impianti», commenta Epis.
Non è però d'accordo Mauro Zanini,
vicepresidente Federconsumatori, secondo il quale «l'entrata
in vigore di questa normativa non deve comportare un
ulteriore onere per il cittadino che già paga una cifra che
si aggira sui 100 euro per la manutenzione della caldaia
ogni uno o due anni», commenta. Aggiungendo che i controlli
e la trascrizione dei dati dal vecchio al nuovo libretto
dovrebbero avvenire senza alcun sovrapprezzo da parte del
manutentore. «Un aggravio di costi sarebbe infatti del tutto
ingiustificato e inaccettabile, anche alla luce dell'attuale
quadro recessivo».
Periodicità dei controlli. Per avere un'idea delle scadenze
cui si andrà incontro, occorre ricordare che la manutenzione
per l'efficienza, e quindi la sua periodicità, è a
discrezione delle singole regioni e potrebbe variare dai due
ai quattro anni. Mentre per tutto ciò che riguarda la
manutenzione e la verifica della sicurezza e salubrità
spetta al manutentore indicarne la frequenza (che sarà
prevedibilmente annuale). Il rapporto di controllo verrà poi
inviato da quest'ultimo agli enti preposti. Da sottolineare
che, per chi non si adegua, è prevista una sanzione che
parte dai 500 euro e può arrivare fino ai 3 mila euro. Anche
per l'installatore che comunica in maniera errata o
incompleta l'esito del controllo è prevista una multa che va
dai mille ai 6 mila euro.
Le verifiche non verranno più effettuate a campione, ma si
partirà da coloro che non hanno effettuato gli interventi e
del cui impianto non è arrivata alcuna notifica al catasto
preposto. A seguire verranno effettuati controlli sugli
impianti «segnalati». Una nuova normativa che, secondo
Domotecnica, andrà a favore di una maggior sicurezza,
facendo emergere impianti non a norma e pericolosi,
considerato che «da un lato i controlli si concentreranno su
chi non ha fatto l'intervento, dall'altro perché il
manutentore è tenuto a riportate agli enti preposti anomalie
degli impianti, da risolvere entro un determinato lasso di
tempo», conclude Epis
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.201). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Galateo dei legali al restyling.
Acconti da fatturare e patto di quota lite in soffitta.
Dal 15 dicembre entra in vigore il codice deontologico
forense, pubblicato in G.U..
Sempre fatturare, anche gli acconti, e mai compartecipare
agli utili della causa con il patto di quota lite; possibile
per i legali assistere parti in contenzioso con soggetti
difesi da colleghi, con cui si dividono i locali (sempreché
non ci sia collaborazione non occasionale), ma divieto, per
gli avvocati consiglieri dell'ordine, di difendere i
magistrati del circondario; i documenti vanno restituiti al
cliente, ma l'avvocato ne può estrarre copia anche senza il
consenso degli interessati.
Sono alcune delle regole
introdotte dal nuovo codice deontologico degli avvocati, in
vigore dal 15.12.2014: è stato pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 16.10.2014 n. 241 e aggiorna le
regole etiche della professione forense. Il codice
ristruttura l'impianto del testo attuale, mettendo in
evidenza le precauzioni nei rapporti con i clienti e le
parti assistite. Da evidenziare alcune disposizioni di nuova
fattura. Vediamo quali.
CONFLITTO
DI INTERESSI
In caso di conflitto di interessi, l'avvocato deve astenersi
dallo svolgere attività difensiva. Il dovere di astensione
sussiste anche se le parti aventi interessi configgenti si
rivolgono ad avvocati che esercitino negli stessi locali.
Questa situazione di incompatibilità è stata attenuata dal
nuovo codice, che fa scattare l'obbligo di astensione se la
coabitazione è accompagnata da un rapporto di collaborazione
professionale non occasionale.
L'attenuazione della regola
di incompatibilità prende atto della prassi di condivisione
degli stessi locali da più avvocati per dividere le spese.
L'attenuazione non vale, però, per arbitrati e mediazioni:
il codice ha ritenuto di privilegiare requisiti più rigorosi
e stringenti, quando l'avvocato è chiamato a svolgere
funzioni arbitrali o di mediatore, che richiedono non solo
la sostanza ma anche l'apparenza di un'assoluta terzietà,
imparzialità e indipendenza.
COMPENSI
Il nuovo codice deontologico esclude il patto di quota lite
e cioè l'accordo con cui l'avvocato partecipa al ricavato
della causa, accordandosi con il cliente per percepire come
compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto
della prestazione o della ragione litigiosa. Non incorre nel
divieto, però, un compenso a percentuale parametrata sul
valore dell'affare o su quanto si prevede che l'assistito
possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente
patrimoniale.
FATTURA
Bisogna rilasciare sempre fattura, anche per gli acconti. Il
nuovo codice deontologico impone, a pena di responsabilità
disciplinare, all'avvocato di emettere il documento fiscale
per ogni pagamento ricevuto.
DOCUMENTI
L'avvocato, se richiesto, e anche se non è stato pagato,
deve restituire senza ritardo gli atti e i documenti
ricevuti e consegnare a cliente e assistito copia di tutti
gli atti e documenti, anche provenienti da terzi, tranne la
corrispondenza riservata tra colleghi. Il nuovo codice
deontologico prevede, però, la possibilità per l'avvocato di
estrarre e conservare copia della documentazione ricevuta,
per l'espletamento dell'incarico, dal cliente e dalla parte
assistita, anche senza il consenso di questi ultimi.
CORRISPONDENZA
Viene aggiornato il divieto di portare in causa la
corrispondenza riservata tra colleghi. Il nuovo codice
deontologico aggiunge anche la condotta, vietata, del
«riportare in atti processuali» la corrispondenza riservata.
Inoltre si usa il termine corrispondenza, intesa in senso
lato, e non più la parola «lettere» e si specifica che il
divieto riguarda, esclusivamente, le comunicazioni tra
colleghi. Peraltro si vuole bloccare l'abuso della clausola
di riservatezza. La clausola, infatti, non deve vincolare
alla riservatezza il destinatario della comunicazione anche
per situazioni, che non contengono niente di riservato. Il
nuovo codice fa la scelta di sanzionare anche i casi in cui
si esagera, al fine di limitare l'uso di tale clausola ai
soli casi che impongono il rispetto del principio.
MAGISTRATI
Nuova è la regola che vieta ai consiglieri di accettare
incarichi giudiziari dai magistrati del circondario, fatta
eccezione per le nomine a difensore d'ufficio.
MINORI
L'ascolto del minore è una delle novità più significative
del nuovo codice. L'avvocato non deve procedere all'ascolto
del minore senza il previo consenso degli esercenti la
responsabilità genitoriale.
RUBRICHE
Il nuovo codice deontologico non ripete l'obbligo di
comunicare preventivamente il fatto di tenere o curare
rubriche fisse su organi di stampa con l'indicazione del
proprio nome e di partecipare a rubriche fisse televisive o
radiofoniche. A reprimere gli abusi, spiega la relazione,
sono sufficienti le previsioni deontologiche in materia di
accaparramento di clientela e di corretta informazione.
IN VIGORE
Il codice deontologico entrerà in vigore decorsi 60 giorni
dalla pubblicazione in G.U. Quanto al regime transitorio,
bisogna tenere conto del comma 5 dell'art. 65 della legge
247/2012, in base alla quale l'entrata in vigore del codice
deontologico determina la cessazione di efficacia delle
norme previgenti anche se non specificamente abrogate. La
relazione illustrativa del nuovo codice spiega che le norme
contenute nel codice deontologico si applicano anche ai
procedimenti disciplinari in corso al momento della sua
entrata in vigore, se più favorevoli per l'incolpato
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
SICUREZZA
LAVORO: La delega sulla sicurezza non libera il Cda.
Il consiglio d'amministrazione dell'azienda ha doveri di
controllo e di intervento sostitutivo del delegato.
Prevenzione infortuni. La linea tracciata dalla Cassazione
sulle responsabilità penali dei vertici societari in caso di
incidenti e lesioni di lavoratori e addetti.
Il consiglio
d'amministrazione delle società può essere chiamato a
rispondere in caso di infortuni o lesioni avvenuti sul
lavoro. Può anche delegare le sue attribuzioni, nel campo
della sicurezza, a un consigliere, ma questo non elimina del
tutto il suo ruolo di garanzia. Vediamo, dunque, quali sono
le responsabilità del Cda e i rischi legati a un'eventuale
gestione scorretta della delega.
Il datore per la sicurezza
Il datore di lavoro per la sicurezza è il titolare del
rapporto con il lavoratore o, comunque, colui che, secondo
il tipo e l'assetto dell'organizzazione, ha la
responsabilità dell'organizzazione o dell'unità produttiva,
esercitando i poteri decisionali e di spesa (in base
all'articolo 2, comma 1, lettera b del Dlgs 81/2008). Questo
datore non necessariamente coincide con quello in senso
lavoristico (si veda la sentenza della Cassazione penale,
4106/2014), vale a dire la controparte del lavoratore nel
contratto individuale di lavoro. L'effettivo vertice della
sicurezza emerge, in pratica, dall'organizzazione della
singola impresa.
Il Cda come originario datore
Nelle Spa e nelle Srl, il consiglio di amministrazione
impatta anche sul quadro organizzativo per la sicurezza
lavorativa, con conseguenze, sia pure indirette, sul piano
delle responsabilità penali in materia. Così, ad esempio, se
non risulta un ruolo specifico di vertice della sicurezza,
il Cda, secondo la Cassazione, conserva tutti poteri del
«datore di lavoro per la sicurezza». Quando, invece,
«deleghe gestorie» articolano l'originario indistinto
assetto organizzativo del consiglio, sono inevitabili delle
conseguenze giuridiche.
La delega gestoria
Secondo l'articolo 2381, comma 2, del Codice civile, il Cda
può delegare, attraverso lo strumento
organizzativo-giuridico della «delega gestoria», proprie
attribuzioni a uno o più suoi componenti, assicurando così,
con la suddivisione di compiti, maggiore efficacia ed
efficienza gestionale alla propria azione. Nel determinare
il contenuto e i limiti di questa delega (articolo 2381,
comma 3 del Codice civile), il consiglio, inoltre, può
incidere sull'architettura della gestione direttiva e di
quella operativa della società, anche relativa alla
sicurezza lavorativa.
Ogni scelta fatta con la delega, ma, persino, l'inazione del
Cda, determinano, quindi, un qualche assetto organizzativo
della società, cui sono collegate conseguenze sulla
individuazione del datore per la sicurezza. Come insegna la
giurisprudenza della Cassazione, le scelte (o le non-scelte)
del consiglio influiscono sul ruolo, ai fini della sicurezza
del lavoro, di presidenti, eventuali amministratori delegati
e dell'intero Cda, con implicazioni di responsabilità
individuale. In questo senso i giudici (Cassazione penale,
sezione 4, sentenza 21628/2013) hanno ritenuto che la
responsabilità per lesioni è, di regola, dell'intero organo,
salvo delega di gestione a un singolo consigliere. In questo
caso, l'obbligo di adottare le misure antinfortunistiche si
trasferisce dal consiglio al delegato.
Le funzioni residue del Cda
Anche in caso di uso accurato della delega gestoria,
tuttavia, il Cda conserva compiti residui e quindi ha
responsabilità per la sua eventuale inattività nella tutela
della salute. In primo luogo perché le norme sull'assetto
organizzativo post-delega gestoria legano,
indissolubilmente, alcuni compiti e poteri al Cda: il comma
3 dell'articolo 2381 del Codice civile prevede che, dopo la
delega, il Cda debba valutare l'adeguatezza dell'assetto
organizzativo, possa impartire direttive agli organi
delegati e avocare operazioni delegate.
L'affermazione si evince, implicitamente, anche
dall'articolo 2, comma 1, lettera b), del Dlgs 81/2008 che
connette datore ad assetto organizzativo: perciò, se alcuni
compiti e poteri restano al Cda, anche la parte del ruolo di
datore a essi inerente rimane a quell'organo.
Inoltre, nella prassi, è frequente che il Cda riservi a sé
alcuni poteri (il principale è definire il bugdet) o ponga
limiti all'azione del delegato, così lasciandoli a sé.
Tutto ciò rileva ai fini della responsabilità penale per la
sicurezza sul lavoro. La Cassazione, infatti, ha affermato
la non esclusione di responsabilità dell'intero organo, pur
esistendo delega gestoria ad amministratore per compiti
sulla salute lavorativa, argomentando che il consiglio
conserva residui doveri di controllo sul generale andamento
della gestione e di intervento sostitutivo in caso di
mancato esercizio della delega (tra le altre, si veda la
sentenza della Cassazione penale 21628 del 2013). Altre
volte la Corte ha stabilito che, pur in presenza di un
consigliere delegato ad hoc, resta un ruolo del Cda su
profili strutturali e del processo produttivo incidenti
sulla tutela della salute (Cassazione penale, sentenza
4968/2014).
---------------
Nell'incarico autonomia e risorse ad hoc.
La redazione del documento. È necessario specificare nel
dettaglio i compiti attribuiti.
Una
buona organizzazione del Cda richiede, sulla tutela della
salute dei lavoratori, una «delega gestoria» formulata con
la massima accuratezza organizzativa e giuridica. In realtà,
invece, spesso i testi non sono di elevata qualità.
Peraltro, in generale si intende la tutela della salute per
lo più come anti-infortunistica, senza considerare che la
salute lavorativa comprende anche la cura del benessere
mentale e relazionale di chi lavora e, quindi, la
prevenzione di fenomeni di mobbing, burn-out e stalking
lavorativo.
I documenti redatti nelle aziende sono spesso dettagliati e
giuridicamente "raffinati" su deleghe di attività centrali
(ad esempio commerciali, di marketing, di produzione) e sono
invece laconici e ambigui sulle deleghe di attività
"trasversali", come la sicurezza sul lavoro.
Una buona delega gestoria
In ogni società di capitali è invece essenziale una grande
attenzione sulla formulazione di deleghe gestorie
comprensive dell'organizzazione della sicurezza sul lavoro.
Il documento dovrebbe essere:
- il più possibile univoco, cioè chiaro ed esplicito nella
determinazione operata. Un classico errore è l'attribuzione
del ruolo di datore lavoristico, pensando di avere così
conferito anche il ruolo di datore per la sicurezza. È
invece auspicabile un'esplicita indicazione della
denominazione di «datore di lavoro per la sicurezza»,
prevista dal Dlgs 81/2008;
- non contraddittorio rispetto alla restante azione
organizzativa. Un esempio negativo è un Cda (o il
presidente) che riservi a sé (e a scapito
dell'amministratore delegato-presunto datore per la
sicurezza) poteri e leve funzionali alla sicurezza sul
lavoro;
- congruo, cioè che si prospetti adeguato nei poteri e nelle
risorse date rispetto alle esigenze di sicurezza della
specifica organizzazione. Bisogna evitare, ad esempio, la
carenza di budget;
- esauriente, identificando nella descrizione del ruolo di
delegato anche i profili principali di datore per la
sicurezza emergenti dal Dlgs 81/2008. È assolutamente
necessaria, per esempio, una specifica attenta
dell'attribuzione dei compiti e dei poteri, tra cui quello
della delega di funzioni prevista dall'articolo 16 del Dlgs
81/2008;
- specifico, vale a dire puntuale nell'indicazione delle
attribuzioni in materia di sicurezza;
- evocativo di un'assoluta autonomia di ruolo, in modo tale
che il datore di lavoro per la sicurezza non debba chiedere
al Cda una convalida di proprie decisioni in materia.
Semplificando, la delega deve essere idonea a costruire un
ruolo di datore per la sicurezza «a tutto tondo» e a
comunicarlo con chiarezza, all'interno della società e, se
necessario, al suo esterno.
La delega di funzioni
Un discorso diverso è da fare quando alla
macro-articolazione organizzativa nell'ambito del Cda,
mediante la delega finora descritta, segua una
micro-organizzazione al livello dirigenziale ed esecutivo
sottostante della società.
In questo caso, si entra nel ben differente capitolo
giuridico e organizzativo della «delega di funzioni» del
datore di lavoro per la sicurezza (come detto, di solito, lo
stesso Cda o un amministratore) verso propri delegati di
funzione sulla sicurezza sul lavoro (Cassazione penale,
sezione IV, sentenza 20062/2010).
Per questa delega, bisogna prendere come riferimento
normativo non il Codice civile, ma le regole fissate dal
Testo unico sulla sicurezza, Dlgs 81/2008 (principalmente
l'articolo 16 sulla delega di funzioni e l'articolo 18 sulle
attribuzioni trasferibili dal datore al dirigente)
(articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.201. |
EDILIZIA
PRIVATA: Per la pagella energetica i calcoli sono più severi.
Le correzioni per impianti, illuminazione e acqua calda.
Efficienza energetica. Pronte le nuove norme Uni ma mancano
ancora i criteri guida.
L'attestato di
prestazione energetica (Ape) resta l'eterno incompiuto. A
quasi un anno e mezzo dalla legge n. 90 del 03.08.2013,
mancano ancora i decreti di attuazione con i nuovi limiti da
rispettare nel rilascio della targa di efficienza di case,
singoli appartamenti, uffici. Mentre a inizio ottobre è
stato aggiornato il metodo di calcolo che permette di
rilevare i diversi parametri di efficienza in un fabbricato.
I criteri attualmente seguiti per stilare un Ape continuano
a essere quelli che fanno riferimento ancora al vecchio
attestato di certificazione energetica, che non è più in
vigore da metà del 2013. L'emanazione delle norme attuative
della legge 90 viene, comunque, indicata come imminente.
Forse già prima della fine del 2014, secondo ciò che segnala
il Comitato termotecnico italiano.
Le nuove norme Uni
Dal 2 ottobre, intanto, sono entrate in vigore le nuove
parti 1 e 2 delle norme Uni/Ts 11300, che si occupano del
bilancio energetico dell'immobile e del fabbisogno
energetico per la climatizzazione invernale, la produzione
di acqua calda sanitaria, la ventilazione e l'illuminazione.
È cambiato cioè il metodo di calcolo utilizzato per il
rilascio della certificazione energetica su tutto il
territorio nazionale, con l'eccezione della Lombardia, della
Provincia di Bolzano e della Valle d'Aosta, territori su cui
sono rispettivamente in vigore i sistemi locali del Cened,
dell'Agenzia Casa Clima e di Beauclimat.
«Le novità sono importanti, anche se siamo di fronte tutto
sommato a una piccola rivoluzione –commenta Rossella
Esposti, direttore tecnico dell'Anit, l'associazione
nazionale per l'isolamento termico e acustico-. Le regole
diventano, in generale, più stringenti rispetto a prima. Ad
esempio, per ciò che riguarda i ponti termici, viene
approfondita la metodologia per calcolarli. Uno sforzo che
richiederà a chi opera sul mercato l'acquisizione di
competenze e un necessario aggiornamento».
Per ciò che riguarda la seconda parte, relativa agli
impianti, spiega anche Simone Martinelli, responsabile della
materia per Assotermica «la novità più significativa è
l'introduzione della metodologia di calcolo
dell'illuminazione, parametro che è previsto dal nuovo Ape e
dovrà essere registrato nella certificazione degli edifici
terziari. Prima, questa parte era del tutto assente».
«Inoltre -aggiunge- il calcolo della ventilazione
meccanica, che nelle precedenti norme Uni era trattato in
due pagine, è stato notevolmente approfondito, in dieci
pagine con due appendici dedicate. La valutazione è divenuta
molto più raffinata».
Per la misurazione dei consumi di acqua sanitaria, sono
state rimodulate le tabelle di riferimento, rese più simili
alla realtà. «Un accorgimento -prosegue Martinelli- che
riguarda non tanto gli edifici residenziali, ma più che
altro quelli a uso scolastico, ospedaliero o ricettivo, per
cui risultava difficile, fino ad oggi, stimare i consumi
secondo valori veritieri».
Alcune modifiche introdotte derivano dallo spunto offerto
dalla Lombardia, che con il proprio sistema di calcolo si è
distinta rispetto al metodo nazionale. «Anche nelle norme
Uni -prosegue Rossella Esposti- è stata introdotta, ad
esempio per ciò che riguarda i guadagni solari, una modifica
che valuta un solo fattore di riduzione, peggiorativo, per
l'ombreggiatura all'esterno tra l'aggetto verticale e
orizzontale».
I condizionatori
Se le parti 1 e 2 delle norme Uni/Ts 11300 sono state
rinnovate, nessuna novità ha toccato invece le parti 3 e 4,
uscite nel 2010 e nel 2013 e che riguardano,
rispettivamente, dati e metodi per la determinazione dei
rendimenti e dei fabbisogni di energia primaria e dei
sistemi di climatizzazione estiva e il calcolo del
fabbisogno di energia primaria per la climatizzazione
invernale e la produzione di acqua calda sanitaria nel caso
vi siano impianti alimentati da energie rinnovabili.
In particolare, la terza parte delle norme è in corso di
revisione, per una difficoltà che la rende di fatto
inapplicabile.
Al momento però non è richiesto per la certificazione
energetica dell'edificio di tenere in considerazione gli
impianti di raffrescamento. Per cui, nei fatti, la parte 3
non ha applicazione concreta rispetto all'Ape, visto che il
parametro richiesto per la prestazione estiva riguarda
unicamente l'involucro.
Sono infine attese le norme Uni/Ts parte 5 e 6. «Le prime -conclude Martinelli- ricalcano la raccomandazione 14 già
emessa dal Cti e serviranno a pesare e fare un bilancio fra
i diversi tipi di energia utilizzati nell'immobile. Le
seconde, invece, attengono gli ascensori, il cui consumo
deve essere calcolato obbligatoriamente secondo la legge
90/2013 nella compilazione dell'Ape per gli edifici
terziari».
---------------
In sintesi
Cosa manca all'Ape
L'attestato di prestazione energetica degli edifici (Ape),
introdotto dalla legge 90/2013, ha sostituito il vecchio Ace
o attestato di prestazione energetica. Il documento è
obbligatorio in caso di nuova costruzione, ristrutturazione
o vendita di una casa o un singolo appartamento. Per la
piena operatività del nuovo strumento mancano però le norme
attuative
Rinnovata la metodologia
Il 2 ottobre sono entrate in vigore le nuove parti 1 e 2
delle norme Uni/Ts 11300, che dettano il metodo di calcolo
per fare il bilancio energetico di un immobile e calcolare
il fabbisogno energetico per: climatizzazione invernale,
acqua calda sanitaria, ventilazione e illuminazione. Fra le
novità: un metodo di calcolo dell'illuminazione e regole più
stringenti per valutare i ponti termici
Le eccezioni
Il metodo di calcolo Uni/Ts 11300 è utilizzato in tutte le
Regioni italiane, comprese quelle con un proprio sistema per
il rilascio degli Ape. Fanno eccezione, poiché dotate di una
propria metodologia di calcolo, la Lombardia, la Provincia
di Bolzano e la Valle d'Aosta. Su questi territori sono,
rispettivamente, in vigore i sistemi locali del Cened,
dell'agenzia CasaClima e di Beauclimat (articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Controlli «riscritti» dal decreto semplificazioni.
Le verifiche. I compiti di Entrate e Sviluppo.
A quasi un anno di
distanza dal decreto "destinazione Italia", sta per arrivare
al traguardo la norma che corregge i meccanismi di controllo
sulla presenza dell'attestato di prestazione energetica
(Ape), così come delineati dalla normativa nazionale.
Il Dl 145/2013, in vigore dal 24 dicembre scorso, ha
sostituito la nullità degli atti privi di Ape con una
sanzione amministrativa pecuniaria a carico delle parti.
Inoltre, ha stabilito che l'accertamento e la contestazione
delle violazioni sono svolte dalla Guardia di finanza o,
alla registrazione dell'atto, dall'agenzia delle Entrate,
andando a modificare l'articolo 6, comma 3, del Dlgs
192/2005.
La seconda parte della norma, però, è inapplicabile. Il
problema è che, per le Entrate, è impossibile contestare la
violazione «all'atto della registrazione», dal momento che –quando si utilizza internet, come avviene ormai nella
maggior parte dei casi– la registrazione degli atti di
trasferimento di immobili a titolo oneroso e dei contratti
di locazione avviene «al momento della ricezione del file
telematico». Senza dimenticare che in alcuni casi la
registrazione delle locazioni (modelli Siria, Iris e Rli)
avviene senza che il contribuente debba "caricare" online
l'atto e i suoi allegati. Il che rende impossibile, per i
funzionari del Fisco, verificare se la normativa è stata
rispettata.
Da qui la disposizione contenuta del decreto delegato sulle
semplificazioni fiscali (Ag 99-bis), ora all'ultimo
passaggio in Consiglio dei ministri prima della
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. L'articolo 34 del
decreto stabilisce che le Entrate –previa intesa con lo
Sviluppo economico– trasmetteranno in via telematica allo
stesso ministero le informazioni necessarie ad accertare e
contestare le eventuali violazioni rispetto all'Ape. Per
evitare una sanatoria di fatto, la norma prevede che siano
inviati allo Sviluppo anche i dati dei contratti registrati
dal 24.12.2013 a oggi.
Il decreto semplificazioni rimedia anche a un'altra falla
del "destinazione Italia", precisando che chi paga la
sanzione amministrativa per regolarizzare spontaneamente il
mancato inserimento della clausola o la mancata allegazione
dell'Ape, deve comunque presentare al ministero dello
Sviluppo economico l'Ape entro 45 giorni.
Non cambia invece la portata degli obblighi, che resta
quella delineata dal Dl 145 (e contenuta nell'articolo 6,
comma 3, del Dlgs 192). Quindi:
- nei contratti di compravendita immobiliare, negli atti di
trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi
contratti di locazione di edifici o di singole unità
immobiliari soggetti a registrazione, va inserita una
clausola con cui l'acquirente o il conduttore dichiarano di
aver ricevuto le informazioni e la documentazione
sull'efficienza energetica dell'edificio, compreso l'Ape;
- va allegata al contratto una copia dell'Ape, tranne che
nel caso di locazione di singole unità immobiliari (articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.2014). |
SEGRETARI
COMUNALI:
Una «stretta» dalla Ragioneria per i segretari in
convenzione. Retribuzioni/2. Riferimento alla popolazione
del solo Comune capofila.
Come calcolare la popolazione
dei Comuni in convenzione di segreteria?
Per la Ragioneria
generale dello Stato (parere
29.09.2014 n. 76063 di prot.) per determinare la
misura della retribuzione di posizione del segretario va
considerata solamente quella del Comune capofila. Invece la
disciolta agenzia dei Segretari e ora l'unità di missione
del ministero dell'Interno considerano, quanto meno per gli
aspetti ordinamentali, la somma degli abitanti dei Comuni
aderenti alla convenzione.
Il problema non è di poco conto,
visto che la stragrande maggioranza dei Comuni ha il
segretario in convenzione.
Per la Ragioneria generale dello Stato «non è ammissibile parametrare la retribuzione di posizione alla fascia
demografica derivante dalla somma degli abitanti degli enti
in convenzione presso cui il segretario presta servizio, non
potendosi determinare, con la sola convenzione, alcuna
modifica nella retribuzione di posizione che resta ancorata
alla fascia professionale di appartenenza del segretario
stesso e alla tipologia del singolo ente inizialmente
ricoperto». E ancora: «La struttura della retribuzione dei
segretari comunali e provinciali si compone anche di una
voce retributiva aggiuntiva per sedi di segreterie
convenzionate pari al 25% della retribuzione complessiva».
Di conseguenza, argomenta la RgS, nel contratto non è
prevista la possibilità di sommare la popolazione dei Comuni
aderenti per determinare della misura della retribuzione di
posizione del segretario. Il parere riprende le
interpretazioni date dall'Aran delle norme contenute nel
Ccnl dei segretari del 16.05.2001. E la Ragioneria rivendica
la coerenza –in verità tutta da dimostrare– con le
indicazioni del ministero dell'Interno sull'abrogazione del
divieto della reformatio in peius in caso di cambio di sede.
Occorre però chiedersi se la materia sia oggetto di
contrattazione o non siano prevalenti gli aspetti
istituzionali. Fino a oggi (e praticamente da sempre) si è
considerata la convenzione di segreteria per gli aspetti
ordinamentali come una sede unitaria ai fini del calcolo
della popolazione. Tanto è vero che i segretari della fascia
iniziale che possono svolgere l'attività nei Comuni fino a
3mila abitanti, non possono essere nominati in convenzioni
che superano questa soglia.
E ancora, ai fini della
maturazione dei requisiti per l'ammissione dei segretari ai
corsi per diventare segretari generali (cioè l'aver retto
per almeno 2 anni Comuni con popolazione superiore a 10mila
abitanti) si considera, nel caso di convenzioni, la somma
complessiva degli abitanti (articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Edilizia, norme uguali per tutti. Regolamento-tipo per
unificare le regole di 8 mila enti. I contenuti del dl Sblocca Italia. Per i comuni nuove
disposizioni per gli immobili pubblici.
Regolamento edilizio unico pronto a prendere forma. E 8 mila
comuni si preparano a rinunciare alle proprie disposizioni.
Nel corso della Conferenza unificata, infatti, governo,
regioni e autonomie locali saranno chiamati a raggiungere un
accordo per la stesura dello schema di regolamento
edilizio-tipo per semplificare e, soprattutto, uniformare
gli adempimenti.
Questa una delle novità contenute nel
dl
133/2014 (Sblocca Italia) che, giovedì 23 ottobre, ha
incassato la fiducia alla Camera (si veda ItaliaOggi del 21
e 24.10.2014)
La disposizione, che è stata inserita all'interno del dl
attraverso l'approvazione di un emendamento ad hoc che ha
introdotto l'art. 17-bis nel corso dei lavori in Commissione
ambiente a Montecitorio, prevede l'aggiunta, all'art. 4, del
Testo unico in materia di edilizia, del comma 1-sexies.
La
norma, che in un primo momento sembrava non dover far più
parte del testo, prevede che l'accordo che dovrà essere
raggiunto in sede di Conferenza unificata in merito allo
schema di regolamento unico, dovrà indicare «i requisiti
prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla
sicurezza e al risparmio energetico».
Non solo. Il
regolamento unico dovrà, inoltre, essere adottato dai comuni
entro e non oltre i tempi che saranno perentoriamente
fissati attraverso l'accordo stesso. In base a quanto
previsto dall'art. 17-bis, infine, attraverso un rinvio di
rango costituzionale, gli accordi saranno inseriti nei
livelli essenziali delle prestazioni inerenti ai diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale.
Sempre per quanto attiene il settore immobiliare pubblico,
l'art. 26 del dl prevede una serie di disposizioni
finalizzate, da un lato, a semplificare e accelerare le
procedure di valorizzazione degli immobili pubblici non
utilizzati e, dall'altro lato, a regolare il procedimento di
valorizzazione degli immobili non più utili alle finalità
istituzionali della difesa.
In particolare, la disposizione prevede che siano
prioritariamente valutati i progetti di recupero immobiliare
da destinare a edilizia residenziale pubblica con
particolare riguardo a due categorie di soggetti: i nuclei
familiari già presenti nelle graduatorie comunali e i nuclei
familiari sottoposti a provvedimenti di rilascio per
morosità incolpevole
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sblocca-Italia, sì alla fiducia.
Ok al Mef: saltano Iva al 4% sui lavori in casa e
defiscalizzazioni per autostrade in esercizio.
Il Governo incassa la
fiducia (316 sì, 198 no) sullo sblocca-Italia, un testo che
ormai si può considerare definitivo dopo le 50 correzioni
imposte dalla Ragioneria e recepite ieri mattina dalla
commissione Bilancio. Saltano l'Iva al 4% sui lavori in casa
e l'estensione della defiscalizzazione alle autostrade in
esercizio, mentre torna l'esame del Cipe (oltre che della
Ue) sulle modifiche alle convenzioni e ai piani economici
delle concessionarie autostradali. Cancellato anch eil
raddoppio da 50 a 100 milioni del fondo per le calamità
naturali (Genova compresa). Il voto finale della Camera e la
trasmissione del testo al Senato -che avrà tempo fino
all'11 novembre per convertire- avverranno soltanto giovedì
prossimo, dopo che la prima parte della settimana sarà
dedicata -con un tempo insolitamente lungo- alla votazione
degli ordini del giorno.
Il testo finale riconferma i capisaldi del decreto del
governo, a partire dai 3,9 miliardi destinati alle opere
infrastrutturali considerate cantierabili, ma introduce
oltre 200 modifiche che sono il frutto di un lavoro
estenuante di oltre tre settimane a pieno ritmo nella
commissione Ambiente guidata da Ermete Realacci. Gli
emendamenti presentati sono stati 2.200, quelli votati oltre
1.200 ed è pesato l'ostruzionismo duro dei Cinquestelle,
mentre a confermare il percorso accidentato è anche
l'appendice di ieri con un numero davvero straordinario di
correzioni imposte dal Mef.
A fare un bilancio positivo è la relatrice del
provvedimento, Chiara Braga (Pd). «Abbiamo fatto un buon
lavoro -dice- perché abbiamo mantenuto il principio
condiviso con il governo di sbloccare procedure e lavori per
far ripartire l'Italia, ma al tempo stesso abbiamo inserito
alcune importanti modifiche migliorative. Fondamentale, in
particolare, il rafforzamento della trasparenza e della
concorrenza che otteniamo garantendo un più ampio accesso al
mercato delle imprese, nella convinzione che l'Italia non si
sblocca se non si garantisce alle imprese di accedere agli
investimenti». La riduzione delle trattative private e delle
deroghe al codice degli appalti, così come il caso delle
autostrade, vanno in questo senso.
Sul parere molto critico del Mef al testo della commissione,
Braga evita qualunque polemica diretta, ma evidenzia che
«sarebbe stato utile un maggiore coordinamento all'interno
del governo e una maggiore partecipazione di tutti i cinque
ministeri competenti al lavoro in commissione».
Nel merito, Braga esprime soddisfazione anzitutto per la
riforma della governance locale nella gestione dei servizi
idrici. «Contrariamente a quanto detto dai Cinquestelle -dice Braga- non abbiamo affatto tradito lo spirito del
referendum, ma abbiamo creato le condizioni per una maggiore
efficienza del servizio idrico, favorendo un contributo
degli enti locali a un miglioramento delle gestioni e a un
aumento degli investimenti per cui rafforziamo anche le
garanzie reali. Si superano le gestioni frammentate e si
impone ovunque il gestore unico. Cancelliamo l'obbligo di
vendita delle azioni dell'Acquedotto pugliese e acceleriamo
il piano da 4 miliardi per la depurazione e per la difesa
del suolo».
Soddisfazione anche per aver aperto la strada a
un uso più flessibile e intelligente del patto di stabilità
interno (per esempio con i 300 milioni delle opere urgenti
dei comuni e delle opere segnalate a Palazzo Chigi) «che ora
dovrà trovare una revisione più organica nella legge di
stabilità». Bene, infine, le semplificazioni edilizie.
«Abbiamo dato una risposta -dice Braga- a un'esigenza
molto avvertita e diffusa nel Paese, ma lo abbiamo fatto
privilegiando sempre il recupero dell'esistente, la
riqualificazione delle città e le opportunità di nuovi
investimenti per il settore dell'edilizia, senza che vi sia
un solo punto del testo in cui si dia spazio a un maggiore
consumo del suolo, all'abusivismo o a condoni mascherati».
Quanto all'Iva al 4% per i lavori in casa già agevolati dai
bonus fiscali, «la soluzione individuata per la copertura
era sbagliata, ma è stato posto un tema nuovo, che non si
può liquidare, di come usare anche la leva fiscale per
rendere più conveniente il recupero dell'esistente rispetto
alle nuove costruzioni». Il rammarico più grande aver dovuto
tagliare, per il parere del Mef, i 50 milioni di risorse
aggiuntive (ai 50 già previsti con il governo) per le
calamità naturali (articolo Il Sole 24 Ore del
24.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Comunicazioni Pec solo per pochi. Il termine di fine mese
riguarda chi non ha mai comunicato l'indirizzo.
Digitalizzazione. Cosa rimane della scadenza del 31 ottobre
per i destinatari delle norme antiriciclaggio.
I soggetti destinatari
degli obblighi antiriciclaggio, individuati agli articoli
11, 12, 13 e 14 del Dlgs 231/2007 (intermediari finanziari,
professionisti, revisori contabili e altri operatori), sono
tenuti a fornire all'amministrazione finanziaria determinate
informazioni con riferimento a specifiche operazioni con
l'estero, o a rapporti a esse collegate, di cui siano venuti
a conoscenza nello svolgimento della propria attività.
In base al provvedimento congiunto emesso dall'agenzia delle
Entrate e dalla Guardia di finanza 105953/2014, sia le
richieste di informazione da parte delle autorità preposte
sia le risposte dei soggetti obbligati devono essere
effettuate tramite posta elettronica certificata. A tal fine
il provvedimento da ultimo indicato stabiliva l'obbligo di
comunicazione all'agenzia delle Entrate delle Pec entro la
data del 31.10.2014.
Con la risoluzione 88/E del 14 ottobre scorso
l'amministrazione finanziaria, in risposta ad alcuni quesiti
avanzati da associazioni di categoria che richiedevano la
dispensa per i propri aderenti in considerazione del fatto
che gli indirizzi Pec sono già inseriti in albi o elenchi
detenuti da pubbliche amministrazioni cui l'agenzia delle
Entrate ha libero accesso, in un'ottica di semplificazione
degli adempimenti prodromici alla comunicazione delle
informazioni, stabilisce l'esonero dell'invio per quanti
hanno già comunicato la Pec rispettivamente al registro
delle imprese (società e imprese individuali), ai rispettivi
ordini professionali (professionisti), al Centro nazionale
per l'informatica nella pubblica amministrazione (le
pubbliche amministrazioni).
La risoluzione evidenzia, altresì, che è istituito presso il
ministero per lo Sviluppo economico l'Indice nazionale degli
indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec)
finalizzato proprio a raccogliere tutti gli indirizzi di
posta certificata di imprese e professionisti e il cui
accesso è libero (si veda l'approfondimento qui sotto).
In riferimento agli obblighi di trasmissione dei dati,
specifica la circolare 105953/14 dell'agenzia delle Entrate,
essi hanno riguardo alle operazioni intercorse con l'estero,
ai rapporti a esse collegate e all'identità dei relativi
titolari; le informazioni dovranno essere trasmesse a
richiesta delle Autorità preposte (Ucifi per l'agenzia delle
Entrate, speciali reparti specificatamente individuati per
la Guardia di finanza).
Gli intermediari finanziari sono obbligati a fornire
evidenza delle operazioni svolte con l'estero per le quali
vi è l'obbligo di registrazione delle informazioni che sono
state acquisite in sede di adeguata verifica delle clientela
in sede di controllo antiriciclaggio.
Gli elementi da fornire sono indicati nella circolare (ad
esempio data, causale, importo e tipologia dell'operazione;
eventuale rapporto continuativo movimentato, ovvero in caso
di operazione fuori conto, l'eventuale presenza di denaro
contante di cui all'articolo 1, comma 2, lettera i), del
decreto legislativo 21.11.2007, n. 231; in relazione
ai clienti dell'intermediario obbligato alla comunicazione,
i dati identificativi dei soggetti destinatari dell'ordine
di accreditamento, compreso l'eventuale stato estero di
residenza anagrafica; e altro ancora).
Sempre gli intermediari finanziari nonché i professionisti,
i revisori e gli altri operatori indicati all'articolo 14
del Dlgs 231/2007 sono tenuti a fornire, su richiesta,
informazioni relative all'identità dei titolari effettivi
facenti capo a specifiche operazioni con l'estero o a
rapporti a esse collegate relative all'identità dei titolari
effettivi rilevati secondo quanto previsto dall'articolo 1,
comma 2, lettera u) e dall'allegato tecnico del decreto
legislativo 21.11.2007, n. 231 (articolo Il Sole 24 Ore del
24.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Un click per accusare i corrotti. Gli statali potranno
segnalare i casi in forma anonima. Anac pronta a partire con il «whistle blowing». Un indirizzo
mail ad hoc per le «soffiate»
Segnalazioni (anonime) di casi di corruzione a portata di
«click».
È l'opportunità offerta ai dipendenti pubblici che,
secondo quanto ItaliaOggi è in grado di anticipare, potranno
inviare all'indirizzo whistleblowing@anticorruzione.it,
predisposto dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac),
informazioni sugli illeciti di cui vengono a conoscenza.
È lo stesso presidente dell'organismo, Raffaele Cantone, a
dare notizia dell'imminente avvio del progetto,
partecipando, a Roma, a «Contromafie», l'evento promosso
dall'associazione Libera di Don Luigi Ciotti, giunto alla
terza edizione, spiegando che «siamo pronti a partire» con
lo strumento del «whistle blowing» (espressione anglosassone
che letteralmente evoca il concetto di «soffiata»), grazie
al quale coloro che lavorano nelle amministrazioni pubbliche
potranno riferire all'Authority eventuali avvenimenti
illegali, accaduti nello svolgimento dell'attività.
L'istituto, sperimentato con successo da anni nei paesi
anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna), nella versione «made
in Italy», premette il vertice dell'Anac, verrà realizzato
garantendo la massima riservatezza a colui che riporta i
fatti, e le informazioni pervenute saranno tutte «trattate
come se fossero anonime, anche se non lo sono».
L'obiettivo, incalza Cantone, è raccoglier indicazioni utili
a smascherare episodi di corruzione, permettendo a «chiunque
di fare la propria parte in modo autonomo» e senza correre
il rischio di rimanere vittima di «ritorsioni». A breve, fa
sapere l'Autorità, sarà emanata una delibera contenente le
istruzioni per attuare la procedura, nel frattempo si
chiarisce che l'organismo «è competente a ricevere (ai sensi
dell'art. 1, comma 51, della legge 06.11.2012, n. 190 e
dell'art. 19, comma 5 della legge 11.08.2014, 114)
segnalazioni di illeciti di cui il pubblico dipendente sia
venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di
lavoro».
E che, volendo dare «immediatamente attuazione a queste
disposizioni normative», si punta ad aprire «un canale
privilegiato a favore di chi scelga di rivolgersi
all'Autorità, e non alle vie interne stabilite dalla
pubblica amministrazione di appartenenza».
Assicurando l'anonimato sull'identità del dipendente che
inoltra l'email, nonché «lo svolgimento di un'attività di
vigilanza», si potrà «contribuire all'accertamento delle
circostanze di fatto e all'individuazione degli autori della
condotta illecita». Nel contempo, l'Anac potrà, grazie al «whistle
blowing» valutare la congruenza dei sistemi stabiliti da
ciascuna pubblica amministrazione, a fronte delle denunce
del dipendente con le direttive stabilite nel Piano
nazionale anticorruzione ed evitare, «in coordinamento con
il Dipartimento per la funzione pubblica, il radicarsi di
pratiche discriminatorie nell'ambito di eventuali
procedimenti disciplinari».
Negli Usa e nel Regno Unito la
pratica è tanto diffusa da interessare sì fenomeni di
corruzione e concussione, ma vengono comunicati
riservatamente anche rischi sul luogo di lavoro, frodi,
danni ambientali, false comunicazioni sociali e altro ancora
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2014
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI: Appalti, comuni critici sull'Avcpass. Fassino incontra
Cantone.
Comuni sempre critici e sul piede di guerra per il sistema
di verifica dei requisiti nelle gare di appalto pubblico (il
c.d. Avcpass, acronimo di Authority virtual company passport),
di cui sono state ribadite anche di recente le problematiche
che potrebbero rallentare l'azione amministrativa, fino al
blocco delle procedure di appalto. A breve però l'Anci, su
invito del presidente dell'Anac Raffaele Cantone, potrebbe
rispondere alla richiesta di un incontro finalizzato ad
esaminare in concreto i punti critici del sistema, peraltro
segnalate anche dagli operatori economici.
L'Avcpass,
istituito in base all'articolo 6-bis del dlgs 163/2006 che
ha affidato all'Autorità il compito di dare vita ad una
Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bndcp), ha lo
scopo di consentire alle stazioni appaltanti di verificare
la veridicità delle autodichiarazioni presentate in sede di
gara dagli operatori economici in merito al possesso dei
requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario necessari per la partecipazione alla
gara.
Il sistema, come ribadito anche dal comunicato diffuso il 22
ottobre dal presidente Anac, è obbligatorio dal primo luglio
2014 e deve essere applicato per tutte le procedure in
relazione alle quali è stato acquisito il Codice
identificativo gara (Cig) a decorrere da inizio luglio. Il
termine di decorrenza del sistema di verifica messo a punto
dall'allora Avcp, oggi Anac, è stato più volte prorogato
(doveva entrare in vigore il primo luglio 2013) e ancora nel
decreto «Sblocca Italia» erano state presentati emendamenti
per un ulteriore rinvio, nel presupposto che vi siano
diversi problemi applicativi. Prova di ciò ne sia il fatto
che nelle poche gare in cui è stato ritenuto applicabile l'Avacpass,
le stazioni appaltanti si sono anche riservate la
possibilità di verificare i requisiti con il tradizionale
metodo cartaceo.
L'Anci, in particolare, sono diversi mesi (fino all'ultima
lettera trasmessa il 9 ottobre a Raffaele Cantone a firma di
Piero Fassino) che segnala numerosi problemi. In primis è
stato sottolineato che l'Avcpass «non garantisce la celerità
di gestione delle informazioni promessa e posta
dall'Autorità come obiettivo primario» e che «la difficoltà
di adempiere tempestivamente alle richieste formulate dagli
utenti impedisce a quest'ultimi l'osservanza dell'obbligo di
utilizzo del sistema che, altrimenti, condurrebbe alla
dilatazione dei tempi di gara o al non rispetto di
quest'ultimi».
Per l'Anci, inoltre, lo strumento informatico
messo a punto dall'Autorità negli anni scorsi «non tiene in
debito conto della diversità, complessità e
dell'organizzazione interna dei comuni, nonché delle
molteplici tipologie di procedure di gara previste dal
codice», elemento questo segnalato anche da diverse
associazioni di categoria.
Secondo i comuni, inoltre, «la
previsione di una normativa omogenea slegata non solo alle
esigenze del territorio ma anche alle caratteristiche ed al
grado di complessità di ogni procedura di gara, potrebbe non
assicurare l'effettività di utilizzo del sistema, né il
rispetto del principio di proporzionalità». Tutti problemi
serissimi che a fronte dei costi sostenuti per la messa a
punto del sistema, impongono un accurato screening delle crititicità sollevate da più parti. E proprio per questa
ragione il presidente Anac ha chiesto al presidente dell'Anci,
Piero Fassino, un incontro per analizzare le criticità di
funzionamento del sistema Avcpass, ossia il sistema
informativo per la verifica dei requisiti alle procedure di
gara d'appalto.
Il 9 ottobre Fassino aveva scritto a Cantone
prospettando il rischio che l'Avcpass invece di costituire
un valido supporto per tutte le stazioni appaltanti,
rallentasse l'attività dei comuni e delle imprese
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Province, dipendenti a rischio. Nel 2017 la spesa passerà da
10 mld a 6,6. Tagli in vista. LEGGE DI STABILITÀ/ Sacrifici insostenibili per gli enti
senza ridurre i costi del personale.
Per i dipendenti delle province si avvicina il momento dei
licenziamenti di massa? Se i tagli indiscriminati alle
province previsti dalla legge di stabilità 2015 saranno
confermati, non sembra vi siano molte alternative a
un'ondata di licenziamenti mai vista di decine di migliaia
di dipendenti, visto che presso le province operano 56.000
lavoratori circa.
Sono le cifre della spesa delle province a indurre
chiaramente verso questa conclusione. Secondo il rapporto
Upi sulla spese delle province aggiornato al marzo 2014 in
base ai dati Siope del 2013, la spesa delle province
ammontava a 10,194 miliardi di euro.
La legge di stabilità per il 2015 intende tagliare tale
spesa di 1 miliardo nel 2015, 2 nel 2016 e 3 nel 2017. A
regime, dunque, la spesa scenderà a 7,194 miliardi. Ma, in
realtà sarà ancora inferiore, perché sarà andato a regime
anche l'altro taglio previsto dall'articolo 47 del dl
66/2014, pari a 585,7 milioni. Il risultato finale, dunque,
sarà a partire dal 2017 di una spesa massima ammessa per le
province pari a circa 6,608 miliardi. Oltre il 35% della
spesa 2013. Che già si è ridotta di 2 miliardi rispetto al
dato del 2010.
Si tratta di un taglio alla spesa pubblica mai visto prima,
molto ma molto superiore a qualsiasi altro, di certo non
paragonabile al taglio di 4 miliardi su circa 130 previsto
per le regioni dalla medesima legge di stabilità.
Nel 2013, secondo le rilevazioni Upi, nell'edilizia
scolastica le province hanno speso 1,904 miliardi; nella
mobilità e trasporti 1,638 miliardi; nella gestione del
territorio, urbanistica e viabilità, 1,793 miliardi; nella
tutela ambientale, 1,342 miliardi. Solo queste voci sommano
6,677 miliardi. Più di quanto le province potrebbero
spendere a partire dal 2017, di 65 milioni.
Le province potrebbero (ma non è detto, dipende
dall'attuazione della riforma Delrio) azzerare la residua
spesa per funzioni non fondamentali (si tratta, stando ai
dati Upi, di 1,499 miliardi, dei quali la parte del leone
sarà di quelli dedicati alle politiche del lavoro). Ma
questo non basterebbe per garantire il volume di spesa
necessario alla gestione delle sole funzioni fondamentali.
Ma, i conti fatti sopra non considerano l'altro dato
eclatante: la spesa del personale, che nel 2013 ammontava a
poco più di 2 miliardi. Anche ammettendo che il processo di
attuazione della riforma Delrio consenta alle province di
dimezzare la spesa del personale necessario, comunque vi
sarebbe un disavanzo di gestione superiore al miliardo.
Dunque, o lo si finanzia con tagli anche sulla gestione
delle funzioni fondamentali con un importo simmetrico,
oppure si deve passare a licenziamenti di massa
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Trasparenza, diritto d'appello.
Segnalazione all'Anac se l'accesso civico è disatteso.
Doppio binario per il cittadino. Lo ha chiarito l'Autorità
guidata da Raffaele Cantone.
Trasparenza amministrativa con diritto di appello. Se la
richiesta di accesso civico alla singola p.a. non va a buon
fine, cittadini e imprese, in seconda istanza, possono fare
una segnalazione all'Anac, l'Autorità nazionale
anticorruzione. Ma non si può bypassare l'istanza all'ente e
andare direttamente all'Autorità anticorruzione.
Lo ha precisato la stessa Anac (comunicato 15.10.2014), che ha anche descritto il doppio binario della tutela
per il cittadino.
La trasparenza amministrativa è, infatti, a due vie.
C'è l'accesso civico e c'è anche l'accesso ai documenti
amministrativi, che sono, però, due strumenti diversi per
garantire una pubblica amministrazione senza veli.
L'accesso disciplinato dal dlgs 33/2013 va, dunque, tenuto
distinto dal diritto di accesso regolamentato dalla legge
241/1990.
L'accesso civico (articolo 5 del dlgs n. 33/2013) introduce
una legittimazione, estesa a chiunque, a richiedere la
pubblicazione di documenti, informazioni o dati per i quali
sussiste l'obbligo di pubblicazione da parte delle pubbliche
amministrazioni. Tutti i documenti, le informazioni e i dati
oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della
normativa vigente sono, infatti, pubblici e chiunque ha
diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente e di
utilizzarli e riutilizzarli.
Il diritto di accesso agli atti (legge n. 241/1990), invece,
è finalizzato alla protezione di un interesse giuridico
particolare, può essere esercitato solo da soggetti
portatori di tali interessi e ha per oggetto atti e
documenti individuati.
D'altra parte l'Anac non è competente a intervenire sulle
questioni legate all'esercizio del diritto di accesso agli
atti. Per esse è possibile rivolgersi alla commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi presso la presidenza
del consiglio dei ministri (vedasi la legge n. 241/1990), o,
in alternativa, si può presentare un ricorso al Tar.
Segnalazioni su inadempimenti da parte degli enti pubblici
su istanze di accesso ai documenti non devono, quindi,
essere trasmesse all'Anac.
Tra l'altro le segnalazioni delle violazioni non possono
essere inviate subito in prima battuta all'Anac; prima
bisogna fare la richiesta all'amministrazione e in caso di
risposta negativa si può andare all'Autorità: solo in caso
di mancata presenza nei siti istituzionali delle
amministrazioni delle necessarie indicazioni relative
all'istituto dell'accesso civico o in ipotesi di mancata
risposta anche del titolare del potere sostitutivo, entro i
termini previsti, da parte delle pubbliche amministrazioni
cui è stata inoltrata la richiesta di accesso civico, sarà
possibile inoltrare segnalazioni all'Anac.
Per le segnalazioni all'Anac si deve utilizzare
esclusivamente l'apposita procedura online «Comunica con
l'Autorità».
Nella segnalazione bisogna indicare gli estremi (data di
invio) della richiesta di accesso civico inoltrata
all'amministrazione, in assenza dei quali la segnalazione
non verrà trattata. In caso di risposta ricevuta
dall'amministrazione la procedura di segnalazione chiede di
chiarire, nel campo «note aggiuntive» del modulo, le ragioni
per cui la stessa sia ritenuta incompleta o insoddisfacente.
L'Autorità ha, nel contempo, richiamato gli enti pubblici e
assimilati a tutte le incombenze previste dalla normativa
sulla trasparenza. Nel dettaglio le amministrazioni devono
pubblicare sul sito istituzionale, nella sezione
«Amministrazione trasparente» il nominativo del responsabile
della trasparenza (cui presentare la richiesta di accesso
civico), e il nominativo del titolare del potere sostitutivo
con l'indicazione dei recapiti telefonici e delle caselle di
posta elettronica istituzionale. Sul sito cittadini e
imprese devono facilmente trovare i modelli per esercitare
il diritto di accesso civico.
La domanda va presentata al responsabile della trasparenza
dell'amministrazione obbligata alla pubblicazione.
L'amministrazione, entro 30 giorni, procede alla
pubblicazione nel sito del documento, dell'informazione o
del dato richiesto e lo trasmette contestualmente al
richiedente, oppure comunica al medesimo l'avvenuta
pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale a
quanto richiesto. Se il documento, l'informazione o il dato
richiesti risultano già pubblicati, l'amministrazione indica
al richiedente il relativo collegamento ipertestuale
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Spoils system, dirigenti da confermare entro 90 giorni.
In materia di spoils system, le disposizioni contenute al
comma 8 dell'art. 19 del dlgs n. 165/2001, stabiliscono che
nell'arco di 90 giorni gli organi di direzione politica
della nuova compagine governativa, che ha ottenuto la
fiducia, manifestino espressamente la volontà di confermare
nell'incarico i dirigenti assoggettati a tale regime, ovvero
di sostituirli con altri.
Se entro tale termine non viene operata tale conferma,
pertanto, la necessaria conseguenza è la cessazione
dell'incarico. In dettaglio, l'avvio della procedura di
conferma di un dirigente apicale non si ottiene con la mera
proposizione da parte del ministro competente, bensì con la
deliberazione del consiglio dei ministri.
Queste le considerazioni con cui la Corte dei conti, sezione
centrale di controllo sugli atti del governo e della p.a.,
con la deliberazione n. 21/2014 ha ricusato il visto al dpr
25.06.2014 di conferma di Stefano Scalera nell'incarico
di direttore dell'Agenzia del demanio fino al 16 ottobre
scorso.
Le doglianze che hanno portato al deferimento del
provvedimento innanzi al collegio giudicante sono state
fondate sul fatto che la delibera preliminare del consiglio
dei ministri di avvio della procedura di conferma
dell'incarico in questione risulta adottata solo nella
riunione del 13 giugno e, considerando il fatto che il
governo in carica ha ottenuto la fiducia del parlamento solo
il 25 febbraio, il provvedimento risulta adottato oltre il
predetto termine di 90 giorni. Secondo il Mineconomia,
invece, il provvedimento non è viziato, in quanto è la
proposta del ministro che è da considerare come «atto di
avvio della procedura» (formulata, nel caso in esame, il 26
maggio).
Opinione non condivisa dalla Corte che rileva come la
proposta non è di per sé idonea a esprimere la volontà
dell'autorità politica che, per incarichi di altissimo
rilievo, come quelli ai quali si applica il regime dello
spoils system, si esprime in una fase più avanzata.
Ovvero, nella fase decisoria della deliberazione del
consiglio dei ministri. Infatti, è collegialmente che si
esprime la volontà del governo di nominare o confermare un
dirigente di prima fascia apicale ed è a quella data che se
ne dà notizia all'esterno con il comunicato stampa di
palazzo Chigi
(articolo ItaliaOggi del 24.10.2014
- tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: La
presentazione di domanda di accertamento di conformità
successivamente all’adozione di ordinanza di demolizione non
ne determina l’illegittimità ma unicamente la provvisoria
inefficacia, ponendola in uno stato di temporanea
quiescenza, destinato a durare finché il Comune non si
pronunci sulla domanda di sanatoria.
Si è di recente ribadito al riguardo che “L’avvenuta
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in
uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che
in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria
l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva
contraria e positiva determinazione dell’amministrazione,
mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza
stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista
efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per
far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del
provvedimento di rigetto della domanda di conservazione”.
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3,
del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci
espressamente sull’istanza di accertamento di conformità
entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta. Si
forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di
silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione
di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
3.1. Con il secondo motivo i ricorrenti sostengono
l’illegittimità dell’ordinanza gravata perché hanno
presentato al Comune per lo stesso abuso, istanza di
accertamento di conformità (all. 3), la quale determinerebbe
la paralisi del potere repressivo edilizio.
3.2. Tale doglianza è infondata al lume di pacifica
giurisprudenza, espressa anche dalla Sezione, secondo la
quale la presentazione di domanda di accertamento di
conformità successivamente all’adozione di ordinanza di
demolizione non ne determina l’illegittimità ma unicamente
la provvisoria inefficacia, ponendola in uno stato di
temporanea quiescenza, destinato a durare finché il Comune
non si pronunci sulla domanda di sanatoria. Si è di recente
ribadito al riguardo che “L’avvenuta presentazione di
un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida
l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di
temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di
accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza
demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e
positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso
di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la
pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia (in
tal senso, da ultimo TAR Campania–Napoli, Sez. III,
28.01.2013 n. 651; ID, 05.12.2012, n. 4941), decorrendo,
peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla
demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di
rigetto della domanda di conservazione” (TAR
Campania–Napoli, III, 22.02.2013 n. 1070
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3,
del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci
espressamente sull’istanza di accertamento di conformità
entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta. Si
forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di
silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione
di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
Nel caso al vaglio del Collegio, dunque, l’istanza è stata
presentata al Comune intimato in data 13.02.2006 (doc. 3 di
parte ricorrente) e su di essa si è dunque ormai formato il
silenzio–rigetto che non risulta impugnato,con la
conseguente consolidazione degli effetti della precedente
ordinanza di demolizione (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nessuna norma del D.P.R.
n. 380/2001 impone all’amministrazione comunale di indagare
e verificare d’ufficio, in assenza di istanza
dell’interessato, la sanabilità dell’opera abusivamente
realizzata, prima di emettere l’ordinanza di demolizione.
La Sezione ha di recente, infatti, già chiarito,
illustrandone le ragioni di esegesi sistematica del dettato
legislativo e la ratio legis, che “In presenza di un opera
abusivamente realizzata l’Amministrazione deve, quindi,
senz’altro procedere ad ordinarne la demolizione, non
essendo tenuta a una preventiva valutazione della sanabilità
della stessa senza che l’interessato abbia presentato
l’istanza di sanatoria, la cui produzione è rimessa
esclusivamente ad una libera scelta del destinatario
dell’ordinanza di demolizione”.
Anche la Sezione distaccata di questo TAR si è pronunciata
nei delineati sensi avendo affermato che “una volta
accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto
permesso di costruire, l’amministrazione comunale deve
disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a
valutare preventivamente la sanabilità delle stesse”.
4.1. Con il terzo motivo si
lamenta che l’opera sanzionata è conforme alla vigente
normativa urbanistico–edilizia ed è pertanto assentibile,
ragion per cui il Comune non poteva reprimerla.
4.2. La doglianza è infondata, poiché nessuna norma del
D.P.R. n. 380/2001 impone all’amministrazione comunale di
indagare e verificare d’ufficio, in assenza di istanza
dell’interessato, la sanabilità dell’opera abusivamente
realizzata, prima di emettere l’ordinanza di demolizione.
La Sezione ha di recente, infatti, già chiarito,
illustrandone le ragioni di esegesi sistematica del dettato
legislativo e la ratio legis, che “In presenza di
un opera abusivamente realizzata l’Amministrazione deve,
quindi, senz’altro procedere ad ordinarne la demolizione,
non essendo tenuta a una preventiva valutazione della
sanabilità della stessa senza che l’interessato abbia
presentato l’istanza di sanatoria, la cui produzione è
rimessa esclusivamente ad una libera scelta del destinatario
dell’ordinanza di demolizione” (TAR Campania–Napoli,
Sez. III, 09.07.02012, n. 3302).
Anche la Sezione distaccata di questo TAR si è pronunciata
nei delineati sensi avendo affermato che “una volta
accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto
permesso di costruire, l’amministrazione comunale deve
disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a
valutare preventivamente la sanabilità delle stesse”
(TAR Campania–Salerno, Sez. II, 04.04.2011, n. 621).
Questa Sezione aveva del resto già sancito l’avviso testé
ricordato: TAR Campania-Napoli, III, 07.02.2007, n. 920
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Una volta accertata la
consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di
discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente
collegato, conseguendone che “i provvedimenti repressivi che
ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non
abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse
pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato)”.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive e delle
ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo
motivazionale.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente
suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare”.
6.1. Con il quinto mezzo i
deducenti lamentano difetto di motivazione per non essere
state esternate nel provvedimento le ragioni del prevalente
interesse pubblico militante alla sua adozione e per non
essere stata effettuata la comparazione dell’interesse
pubblico con quello privato al mantenimento dell’abuso
realizzato.
6.2. Anche siffatta censura è serenamente infondata al lume
di granitica giurisprudenza espressa più volte anche dalla
Sezione.
Si è in proposito costantemente puntualizzato che una volta
accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine
di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente
collegato, conseguendone che “i provvedimenti repressivi
che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non
abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse
pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato)”
(TAR Campania, Napoli, Sez. III, 9.7.2007, n. 6581; più di
recente, TAR Campania, Napoli, Sez. III, n. 270/2011).
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive e delle
ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo
motivazionale: TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente
suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011,
n. 79).
Il Collegio ha più recentemente ribadito l’esegesi in
parola: TAR Campania Napoli, III Sez., 20.03.2014 n. 1602;
ID, 26.09.2013, n. 4450
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il sequestro di un immobile abusivo non determina
l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione, ma soltanto
l'eventuale differimento del termine fissato per la rimessa
in pristino, decorrente dalla data del dissequestro penale,
che sarà onere dell'interessato richiedere tempestivamente.
Anche la Sezione aveva del resto già enunciato il principio
illustrato avendo affermato che “È legittima l'ordinanza di
demolizione che ha ad oggetto immobili realizzati
abusivamente che siano sottoposti a sequestro penale, in
quanto è onere del responsabile domandare all'autorità
giudiziaria il dissequestro dell'immobile al fine di
ottemperare all'ordine di demolizione”.
7.1. Con il sesto motivo i
ricorrenti si dolgono dell’illegittimità dell’ordinanza di
demolizione impugnata poiché l’opera che ne è oggetto era
stata sottoposta a sequestro giudiziario e pertanto il
proprietario non avrebbe la possibilità di ottemperare
all’ordine impartito.
7.2. La doglianza è destituita di fondamento, avendo la
giurisprudenza anche di recente precisato che “Il
sequestro di un immobile abusivo non determina
l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione, ma soltanto
l'eventuale differimento del termine fissato per la rimessa
in pristino, decorrente dalla data del dissequestro penale,
che sarà onere dell'interessato richiedere tempestivamente”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.01.2014 n. 1804).
Anche la Sezione aveva del resto già enunciato il principio
illustrato avendo affermato che “È legittima l'ordinanza
di demolizione che ha ad oggetto immobili realizzati
abusivamente che siano sottoposti a sequestro penale, in
quanto è onere del responsabile domandare all'autorità
giudiziaria il dissequestro dell'immobile al fine di
ottemperare all'ordine di demolizione” (TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 13.04.2011, n. 2136)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione in quanto atto dovuto
e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi,
escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del
procedimento.
9.1. Con l’ottavo motivo i ricorrenti lamentano la
violazione dell’obbligo di comunicare l’avvio del
procedimento teso alla emissione dell’ordinanza di
demolizione.
9.2. Anche tale censura è infondata e va conseguentemente
disattesa sulla scorta della pacifica giurisprudenza,
espressa anche della Sezione che predica che l’ordinanza di
demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto
rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento (TAR Liguria,
Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania–Napoli, Sez. IV,
10.08.2008, n. 9710; TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499; TAR
Campania–Napoli, Sez. IV, 17.01.2007, n. 357).
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi,
escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del
procedimento: TAR Campania–Napoli, sez. III 10.10.2013 n.
4534: ID, 26.06.2013 n. 3328; TAR Campania–Napoli, Sez. III,
22.02.2013 n. 1069
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: Gestione illegittima ma la multa è valida.
Strisce blu. Viziata solo la delibera di affidamento.
L'affidamento illegittimo
della concessione per i parcheggi a pagamento non invalida
le multe a chi non ha il ticket: occorre dimostrare che ad
essere viziata è la delibera che destina l'area a sosta
tariffata.
Con la sentenza 27.10.2014 n. 22793 la
VI Sez. civile della Corte di Cassazione aggiunge un tassello
significativo al principio secondo cui il giudice cui un
cittadino ricorre contro una sanzione da Codice della strada
può sindacare incidentalmente l'atto amministrativo che è
alla base dell'infrazione accertata: in sostanza, occorre un
collegamento diretto fra l'atto illegittimo e l'infrazione
commessa.
Normalmente il problema non si pone, perché molte violazioni
commesse dagli utenti riguardano obblighi e divieti imposti
con ordinanze "dirette" dell'ente proprietario della strada.
Il caso delle strisce blu è un'eccezione: il Comune non deve
solo deliberare che su una certa area la sosta diventa a
pagamento (con le relative tariffe), ma normalmente affida
quell'area in concessione a un soggetto che abbia il compito
di gestirla, curando che gli utenti paghino.
Nella vicenda finita al vaglio della Corte, ad essere
illegittima era proprio quest'ultima delibera: il Comune di
Siracusa l'aveva adottata con atto della Giunta e non del
Consiglio. Era invece corretta la delibera che aveva
istituito la sosta a pagamento. Un'automobilista multata per
non aver esposto il ticket aveva fatto ricorso eccependo
proprio l'illegittimità della concessione affidata e aveva
avuto ragione in entrambi i gradi di merito. Il Comune ha
resistito, ottenendo ragione dalla Cassazione.
I giudici di merito hanno riconosciuto l'orientamento delle
Sezioni unite (sentenze 5705/1990 e 116/2007) secondo cui la
sanzione pecuniaria amministrativa può essere annullata se
si riconosce l'illegittimità del provvedimento presupposto.
Ma hanno precisato che in questo caso l'illegittimità non si
trasmette agli atti in qualche modo collegati, perché «sono
inseriti in iter amministrativi diversi e rispondono ad
altrettanto diverse finalità».
Dunque, la delibera di
concessione «non si inserisce nella sequela procedimentale
che sfocia con l'ordinanza sindacale» che istituisce la
sosta a pagamento (articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2014). |
APPALTI:
L'art. 13 del d.lgs. n. 163/2006 che prevede il
differimento del diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici deve essere interpretato in modo restrittivo,
rappresentando una norma eccezionale.
L'art. 13 del d.lgs. n. 163/2006 stabilisce che "1. Salvo
quanto espressamente previsto nel presente codice, il
diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento
e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le
candidature e le offerte, è disciplinato dalla l.
07.08.1990, n. 241 e ss.mm.. Fatta salva la disciplina
prevista dal presente codice per gli appalti segretati o la
cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, il
diritto di accesso è differito: c) in relazione alle
offerte, fino all'approvazione dell'aggiudicazione. c-bis)
in relazione al procedimento di verifica della anomalia
dell'offerta, fino all'aggiudicazione definitiva".
Detto articolo, nella parte in cui prevede il differimento
del diritto di accesso a documenti relativi ai contratti
pubblici, deve essere interpretato in modo restrittivo,
rappresentando una norma eccezionale, derogatoria rispetto
alle ordinarie regole in materia di accesso.
Inoltre, la lett. c) del c. 2 di detta norma è chiara nel
disporre che il diritto all'accesso può essere differito, in
relazione alle offerte, solo fino all'approvazione
dell'aggiudicazione, che, non può che essere costituita da
quella provvisoria; non avrebbe senso, diversamente, l'aver
previsto la possibilità di differimento fino
all'aggiudicazione definitiva solo in relazione al
procedimento di verifica dell'anomalia.
La conclusione è supportata da una interpretazione di tipo
letterale: la lett. c) fa, infatti, riferimento
all'aggiudicazione, mentre, la successiva c-bis) cita
esplicitamente l'aggiudicazione definitiva; segno che il
legislatore, quando ha ritenuto rilevante attendere che si
fosse realizzata la conclusione della procedura selettiva
(attraverso, appunto, l'aggiudicazione definitiva), lo ha
detto espressamente.
Quindi, nell'ipotesi descritta nella precedente lett. c),
l'espressione generica "aggiudicazione" deve essere
riferita all'aggiudicazione "provvisoria", e ciò in
applicazione del criterio interpretativo ubi lex voluit,
dixit; ubi noluit, non dixit (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 27.10.2014 n. 5280 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Requisiti necessari affinché una società possa
essere definita in house e giurisdizione della Corte dei
conti.
La Corte dei
conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità
esercitata dalla procura della repubblica presso la corte
quando tale azione sia diretta a far valere la
responsabilità degli organi sociali per i danni da essi
cagionati al patrimonio di una società in house, così
dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti
pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui
esclusivamente i medesimi enti possano essere soci, che
statutariamente esplichi la propria attività prevalente in
favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per
statuto assoggetta a forme di controllo analoghe a quello
esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.
Può dirsi superata l'autonomia della personalità giuridica
rispetto all'ente pubblico e quindi la società può essere
definita "in house", allorché vi sia contemporanea
presenza di tre requisiti:
1) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o
più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e lo
statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati;
2) la società esplichi statutariamente la propria attività
prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che
l'eventuale attività accessoria non implichi una
significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza
meramente strumentale;
3) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di
controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici
sui propri uffici, con modalità e intensità dì comando non
riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del
codice civile.
La verifica in ordine alla ricorrenza dei requisiti propri
della società "in house", come delineati dall'art.
113, c. 5, lett. c), del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (come
modificato dall'art. 15, c. 1, lett. d, del d.l. 30.09.2003,
n. 269, convertito con modificazioni nella l. 24.11.2003, n.
326), la cui sussistenza costituisce il presupposto per
l'affermazione della giurisdizione della Corte dei conti
sull'azione di responsabilità esercitata nei confronti degli
organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio
della società, deve compiersi con riguardo alle previsioni
contenute nello statuto della società al momento in cui
risale la condotta ipotizzata come illecita e non a quelle,
eventualmente differenti, esistenti al momento in cui
risulti proposta la domanda di responsabilità del P.G.
presso la Corte dei conti (Corte di Cassazione, SS.UU.
civili,
sentenza 24.10.2014 n. 22609 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
VARI:
L’ordinanza del Ministro della Salute del
13.01.2007, n. 10, avente per oggetto la “Tutela
dell’incolumità pubblica dall’aggressione di cani”, è
previsto l’obbligo per i detentori di cani di applicare la
museruola o il guinzaglio ai cani quando si trovano nelle
vie o in altro luogo aperto al pubblico; inoltre di vigilare
con particolare attenzione sulla detenzione degli stessi al
fine di evitare ogni possibile aggressione a persone.
Spetta pertanto al detentore dell’animale scegliere il mezzo
più adeguato (museruola o guinzaglio) idoneo a garantire la
sicurezza dei terzi presenti in luoghi pubblici.
Nel caso che in esame il giudice di merito ha rinvenuto
nella omessa vigilanza del cane il profilo di colpa
dell’imputata la quale, in presenza di più persone
nell’ambito di una mostra, avrebbe dovuto tenere una
condotta di particolare attenzione ed idonea ad evitare
l’evento poi verificatosi (lesioni colpose in danno del
minore che pativa un morso da un cane condotto dall’imputata
in una villa in cui era in corso una mostra canina).
1. Il ricorso è inammissibile.
2. In relazione alla prova dei morso e della sua
riconducibilità al cane dell’imputata, i giudici di merito
riportano le plurime deposizioni testimoniali, tutte
convergenti nella ricostruzione della vicenda così come
effettuata nella sentenza impugnata. Peraltro le
deposizioni, come evidenziato dal tribunale, hanno trovato
riscontro nella certificazione medica versata in atti e
nelle foto del volto del bambino ove sono visibili i segni
dell’aggressione.
3. Quanto al lamentato difetto di motivazione sulla prova
della colpa, va premesso il richiamato disposto
dell’ordinanza del Ministro della Salute del 13.01.2007, n.
10, avente per oggetto la “Tutela dell’incolumità
pubblica dall’aggressione di cani”, ove è previsto
l’obbligo per i detentori di cani di applicare la museruola
o il guinzaglio ai cani quando si trovano nelle vie o in
altro luogo aperto al pubblico; inoltre di vigilare con
particolare attenzione sulla detenzione degli stessi al fine
di evitare ogni possibile aggressione a persone.
Spetta pertanto al detentore dell’animale scegliere il mezzo
più adeguato (museruola o guinzaglio) idoneo a garantire la
sicurezza dei terzi presenti in luoghi pubblici.
Nel caso che ci occupa il giudice di merito ha rinvenuto
nella omessa vigilanza del cane il profilo di colpa
dell’imputata la quale, in presenza di più persone
nell’ambito di una mostra, avrebbe dovuto tenere una
condotta di particolare attenzione ed idonea ad evitare
l’evento poi verificatosi.
Le censure mosse dalla difesa alla sentenza, esprimono solo
un dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto (operata
in modo conforme dal giudice di primo e secondo grado) ed
invitano ad una rilettura nel merito della vicenda, non
consentita nel giudizio di legittimità, a fronte di una
motivazione della sentenza impugnata che regge al sindacato
di legittimità, non apprezzandosi nelle argomentazioni
proposte quei profili di macroscopica illogicità, che soli,
potrebbero qui avere rilievo.
Segue, per legge, la condanna della ricorrente al pagamento
delle spese processuali, nonché (trattandosi di causa di
inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a
colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. n.
186 del 7-13.06.2000) al versamento a favore della cassa
delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo
determinare in euro 1000,00 (mille). La condanna, inoltre
dal pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, che
si liquidano come da dispositivo (Corte
di Cassazione, Sez. IV civile,
sentenza 23.10.2014 n. 44095 -
link a http://renatodisa.com). |
VARI: L'inedificabilità non va «taciuta».
Vincoli. La cessione di un fondo.
Se il fondo oggetto di
compravendita è garantito dal venditore come libero da
gravami, e invece vi sussiste un vincolo di inedificabilità
imposto dall'autorità amministrativa in base a una legge
regionale, il venditore è inadempiente all'obbligo (articolo
1489 del Codice civile) di non vendere cose gravate da
vincoli o diritti di terzi che «ne diminuiscono il libero
godimento», se viene dimostrato che il contratto venne
stipulato perché l'acquirente potesse poi edificare sul
fondo. Di conseguenza il compratore, non a conoscenza di
questi vincoli e diritti, può domandare la risoluzione del
contratto oppure una riduzione del prezzo.
Il venditore, quindi, non può sostenere che un vincolo di
inedificabilità (taciuto nel contratto) imposto in base a
una legge regionale, data la sua natura pubblicistica, si
presume conosciuto da chiunque.
È quanto deciso dalla
Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella
sentenza
22.10.2014 n. 22343.
Nel caso specifico si trattava di valutare diversi elementi
in conflitto: il vincolo urbanistico di pubblico dominio, un
contratto che non menzionava detto vincolo e nel quale il
venditore aveva garantito il bene «libero e disponibile,
esente da vincoli, gravami e privilegi» e un'altra clausola
con la quale l'acquirente veniva facoltizzato a presentare
una richiesta di concessione edilizia (dalla quale la
Cassazione ha dissento che l'interesse del compratore al
contratto era quello di poter costruire sul fondo).
È vero, secondo la Cassazione, che i vincoli inseriti nel
piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati,
hanno valore di prescrizione con efficacia verso chiunque,
perché assistita da una presunzione legale di conoscenza
assoluta da parte della collettività, sicché non possono
qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sul'immobile.
Questa situazione non è conseguentemente invocabile dal
compratore come fonte di responsabilità del venditore che
non li abbia dichiarati nel contratto.
Ma è anche vero che occorre tener conto dello scopo pratico
del contratto, che non può essere interpretato in modo da
rendere irrealizzabile il programma contrattuale dei
contraenti o di uno di essi, così falsificando l'interesse
che l'operazione contrattuale era propriamente volta a
soddisfare, costituendo la «causa concreta» dell'accordo.
Pertanto, secondo la Cassazione, non solo le espressioni
utilizzate nel contratto vanno interpretate non come
elementi a se stanti bensì alla luce dell'intero contesto
contrattuale, ponendo le clausole in correlazione tra loro;
ma pure occorre accertare il significato dell'accordo in
coerenza con la relativa ragione pratica o «causa concreta»
ed escludere (dovendosi i contraenti comportare con lealtà)
interpretazioni cavillose delle espressioni letterali
contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle
intese raggiunte e deponenti per un significato del
contratto in contrasto con la sua ragione pratica (articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2014). |
PATRIMONIO: La
colpa civile dell’ANAS va accertata non già valutando se
abbia o meno provveduto alla manutenzione dei fondi privati,
ma se abbia adottato le cautele imposte dall’art. 1176,
comma 2, c.c., nell’individuare, prevenire o attenuare i
rischi derivanti dalla proprietà privata: in primo luogo
segnalando ai proprietari interessati la situazione di
pericolo; in secondo luogo invitandoli ad eliminarla; in
terzo luogo inibendo la circolazione.
Ne consegue che l’eventuale inerzia del proprietario nella
realizzazione degli interventi idonei a rendere sicuro il
terreno adiacente la strada non elimina quella del
proprietario della strada su cui l’albero era destinato a
cadere, mettendo a repentaglio quella sicurezza della
circolazione che, come specificato, costituisce uno dei
compiti primari dell’ANAS.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Anche col terzo motivo di ricorso l’Istituto lamenta
che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di
violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c..
Assume violato gli artt. 16 cod. strad. e 26, comma 6, del
relativo Regolamento di esecuzione.
Espone, al riguardo, che le norme testé ricordate impongono
ai proprietari di fondi privati confinanti con le strade
pubbliche di evitare le situazioni di pericolo per queste
ultime. L’ANAS, tuttavia, ha il dovere di vigilare su tali
situazioni di pericolo, e non lo fece. La Corte d’appello
pertanto ha violato le suddette norme, nell’escludere la
colpa civile del’ANAS.
3.2. Il motivo è fondato.
La colpa civile, di cui all’art. 2043 c.c., consiste nella
deviazione da una regola di condotta.
“Regola di condotta” è non soltanto la norma
giuridica, ma anche qualsiasi doverosa cautela concretamente
esigibile dal danneggiante.
Stabilire se questi abbia o meno violato norme giuridiche o
di comune prudenza è accertamento che va compiuto alla
stregua dell’art. 1176 c.c., comparando la condotta
concretamente tenuta dal preteso responsabile, con quella
che un soggetto delle medesime qualità e condizioni avrebbe
tenuto, nelle stesse circostanze di tempo e luogo.
Or bene, l’ente proprietario della strada aperta al pubblico
transito è obbligato a garantire la sicurezza della
circolazione (d.lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 14), e ad
adottare i provvedimenti necessari ai fini della sicurezza
del traffico sulle strade (d.lgs. 26.02.1994, n. 143, art.
2).
Da queste previsioni non discende certo, come correttamente
ha ritenuto la Corte d’appello, l’obbligo dell’ANAS di
provvedere alla manutenzione dei fondi privati. Discende,
però, come erroneamente ha trascurato di considerare la
Corte d’appello, l’obbligo dell’ANAS di:
(a) segnalare ai proprietari confinanti le situazioni di
pericolo suscettibili di recare pregiudizio agli utenti
della strada;
(b) adottare i presidi necessari ad eliminare i fattori di
rischio conosciuti o conoscibili con un attento e doveroso
monitoraggio del territorio;
(c) come extrema ratio, permanendo l’eventuale
negligenza dei proprietari dei fondi finitimi nel rimuovere
le situazioni di pericolo, chiudere la strada al traffico.
La colpa civile dell’ANAS va dunque accertata non già
valutando se abbia o meno provveduto alla manutenzione dei
fondi privati, ma se abbia adottato le cautele imposte
dall’art. 1176, comma 2, c.c., nell’individuare, prevenire o
attenuare i rischi derivanti dalla proprietà privata: in
primo luogo segnalando ai proprietari interessati la
situazione di pericolo; in secondo luogo invitandoli
ad eliminarla; in terzo luogo inibendo la
circolazione.
Ne consegue che l’eventuale inerzia del proprietario nella
realizzazione degli interventi idonei a rendere sicuro il
terreno adiacente la strada non elimina quella del
proprietario della strada su cui l’albero era destinato a
cadere, mettendo a repentaglio quella sicurezza della
circolazione che, come specificato, costituisce uno dei
compiti primari dell’ANAS (in questi esatti termini, con
riferimento a fattispecie analogia, si è già pronunciata
questa Corte: Sez. 3, Sentenza n. 23562 del 11/11/2011, Rv.
620514)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.10.2014 n. 22330 - link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La responsabilità per la realizzazione di opere
abusive è configurabile anche nei confronti del nudo
proprietario che ha la disponibilità dell’immobile ed un
concreto interesse all’esecuzione dei lavori, se egli non
allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di
interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua
volontà.
3. Il ricorso è fondato per le ragioni di cui si dirà oltre.
4. Al fine di comprendere l’approdo solutorio cui è
pervenuto questo Collegio, è necessario sovvertire l’ordine
dell’esame dei motivi di ricorso, affrontando per primi il
terzo ed il quarto motivo di ricorso, che, attesa
l’omogeneità dei profili di doglianza con gli stessi svolti,
possono essere oggetto di trattazione unitaria. Con i
medesimi, in estrema sintesi, la ricorrente pone due
distinte questioni di diritto, unificabili, che attengono
alla corretta interpretazione della disciplina dettata
dall’art. 29, d.P.R. n. 380/2001 e della fattispecie penale
che prevede il c.d. delitto paesaggistico di cui all’art.
181, comma I-bis, D.Lgs. n. 42/2004.
Sostiene, in tal senso, la ricorrente che la medesima quale
nuda proprietaria non sarebbe responsabile dell’abuso posto
in essere dal padre, usufruttuario dell’immobile sul quale
vennero eseguiti gli interventi abusivi.
La Corte d’appello, a confutazione della tesi della
ricorrente, richiama il consueto criterio del “cui
prodest”, sostenendo l’esistenza di un concorso della
ricorrente con il proprio padre, usufruttuario e autore
materiale dell’intervento, sia perché la ricorrente era
colei che aveva presentato domanda per la realizzazione
della cisterna, sia perché era la figlia, attuale
ricorrente, ad avere interesse, in quanto dell’abuso
edilizio “paterno” ne avrebbe usufruito anche la
stessa quando vi si sarebbe recata in vacanza (a tal
proposito, si osserva, la ricorrente risulta risiedere,
anche all’epoca del fatto, a (…), mentre l’immobile oggetto
di intervento abusivo è sito a (…)).
Ritiene il Collegio che la questione da risolvere è se il
criterio adottato dalla Corte d’appello, sicuramente
corretto per ritenere raggiunta la prova di un concorso in
un reato contravvenzionale, possa essere idoneo a sostenere
la configurabilità del concorso in un delitto, qual è quello
paesaggistico per cui si procede. Vero è, si osserva, che ai
fini della configurabilità del delitto in esame è
sufficiente il dolo generico (Sez. 3, n. 48478 del
24/11/2011 – dep. 28/12/2011, Mancini, Rv. 251635), ma è
altrettanto vero che, nel caso in esame, occorre valutare la
peculiare posizione del concorrente, proprietario non
committente, costituito dal nudo proprietario, soprattutto
in una fattispecie in cui quest’ultimo –come emerge
pacificamente dalla stessa sentenza impugnata– non risultava
risiedere nello stesso luogo di consumazione dell’illecito.
Correttamente, sul punto, la difesa di parte ricorrente ha
ricordato quella giurisprudenza che, già con riferimento al
reato edilizio di natura contravvenzionale, afferma che il
semplice comportamento omissivo da luogo a responsabilità
penale solo se l’agente aveva l’obbligo giuridico di
impedire l’evento, obbligo che certamente non sussiste in
capo al nudo proprietario dell’area interessata dalla
costruzione, non essendo esso sancito da alcuna norma di
legge (Sez. 5, n. 13812 del 11/11/1999 – dep. 02/12/1999,
Giovannella F ed altro, Rv. 214609).
Non va certo dimenticato che la responsabilità per la
realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei
confronti del nudo proprietario che ha la disponibilità
dell’immobile ed un concreto interesse all’esecuzione dei
lavori, se egli non allega circostanze utili a dimostrare
che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua
insaputa e senza la sua volontà (Sez. 3, n. 39400 del
21/03/2013 – dep. 24/09/2013, Spataro, Rv. 257676), ma –nel
caso in esame– ciò che difetta, a giudizio del Collegio, è
nella motivazione dell’impugnata sentenza una adeguata e
argomentazione in ordine alle ragioni per le quali fosse
ipotizzabile un concorso (colposo o doloso) della ricorrente
nel reato, doloso, previsto dall’art. 181, comma I-bis,
d.lgs. n. 42/2004.
5. L’accoglimento del ricorso esime questa Corte dall’esame
dei restanti motivi di ricorso (ivi compreso quello relativo
alla prescrizione, atteso che al termine di prescrizione
massima, che maturerebbe alla data del maggio 2015, deve
aggiungersi un periodo di sospensione di gg. 60 dal 26
aprile al 05.10.2011, causa rinvio dell’udienza determinato
da motivi di salute dell’imputata, con conseguente
maturazione del termine di prescrizione alla data del luglio
2015), da ritenersi pertanto assorbiti attesa la valenza
pregnante della questione relativa alla configurabilità di
una responsabilità concorsuale della ricorrente, con
conseguente rinvio alla Corte d’appello di Reggio Calabria,
cui spetta la cognizione in sede rinvio in ordine alle
sentenze della limitrofa Corte territoriale di Messina di
cui è disposto l’annullamento da parte di questa Corte di
legittimità.
In sede di rinvio, peraltro, la Corte territoriale
provvederà anche ad emendare l’omissione del giudice
d’appello messinese, provvedendo a revocare l’ordine di
demolizione del manufatto abusivo, ordine non revocato
nonostante già in primo grado fosse stata pronunciata
sentenza di proscioglimento dai capi a) e c) della rubrica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.10.2014 n. 43562 -
link a http://renatodisa.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il genitore può visionare i temi. Scuola. Per il
Tar Lecce va tutelato il diritto di vigilare sugli
orientamenti del figlio.
Stretta collaborazione tra scuola e
genitori per seguire la personalità degli studenti:
lo sottolinea il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la
sentenza 20.10.2014 n. 2597, che consente
l'accesso ai compiti di italiano di uno studente di scuola
media.
Non si trattava di una delle frequenti contestazioni al
corpo insegnante, bensì dell'interesse di un genitore a
poter comprendere, leggendo i pensieri del figlio, una
personalità in evoluzione. Anche se l'andamento scolastico è
ottimo (come nel caso esaminato), restano intatte le
esigenze di conoscenza dei genitori che intendano vigilare
sugli orientamenti culturali del minorenne durante il
percorso scolastico. Per tale motivo, il tribunale ha
imposto alla segreteria scolastica, che negava l'accesso
ritenendolo invasivo e inutile, l'esibizione degli
elaborati, affinché il genitore potesse avere piena
cognizione di gusti, aspettative e orientamenti culturali
che si andavano acquisendo e sviluppando.
L'ambiente della scuola, sottolinea il Tar, partecipa alla
crescita e alla maturazione dell'individuo, captando le
aspettative di vita che, spesso, sfuggono a un dibattito in
ambito strettamente familiare. Più delicato è il problema
dell'informativa che spetta a chi subisce la richiesta di
accesso (cioè al giovane studente): l'articolo 3 del Dpr
184/2006 impone infatti l'informazione di chi subisca la
richiesta di accesso, per evitare indagini su argomenti
riservati. Ma, nel caso specifico, la richiesta di accesso
era stata formulata dal titolare della potestà genitoriale e
non vi erano contrasti tra coniugi.
Più agevole è il compito del giudice nei casi in cui venga
chiesto l'accesso ai compiti di altri studenti, per
ricostruire ipotetiche disparità di trattamento:
l'orientamento è infatti uniforme e sfavorevole (Consiglio
di Stato, sentenza 7650/2010), escludendo un controllo
generalizzato sulla scuola.
Si sottolinea infatti che la funzione docente non è diretta
alla scelta dei più meritevoli, bensì alla formazione dei
ragazzi e alla verifica dei risultati da ognuno conseguiti.
Sempre nell'ambito scolastico, il Tar Toscana (sentenza
6266/2004) limita l'accesso dei genitori al testo integrale
dei registri di una seconda classe liceale, finalizzato a
verificare un presunto clima di ostilità nei riguardi del
figlio: l'accesso è stato limitato alle parti del registro
che riguardavano il singolo studente.
L'accesso diventa più ampio dopo l'età scolastica, cioè nei
concorsi: se le procedure diventano comparative, è infatti
possibile ipotizzare una disparità di trattamento. Per tale
motivo il Tar Lazio (Sezione III, sentenza 6450/2008)
ammette la visione degli elaborati altrui, perché i
concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno
implicitamente acconsentito a misurarsi in una competizione.
Quando poi si dubita dell'operato della commissione e si
chieda l'accesso ad appunti, brogliacci o pro-memoria, la
pubblicità diminuisce, perché tali atti sono destinati a
rimanere nella sfera interna e privata dell'autorità
procedente, senza diritto di accesso (Consiglio di Stato,
sentenza 6019/2009).
Il diritto di accesso si riafferma quando l'interesse è
concreto, come nel caso dei criteri in base ai quali siano
stati predisposti test psicoattitudinali: non vi sono
infatti ostacoli che possano derivare da copyright o licenze
d'uso della Società che predispone i test (Consiglio di
Stato, sentenza 5467/2007). In sintesi, l'aspirante
ufficiale dei carabinieri (come nel caso da ultimo citato) e
i genitori dello studente leccese hanno diritto di conoscere
giudizi o aspetti della personalità che emergano da dati in
possesso dell'amministrazione. Ma senza sguardi su dati
altrui o su chi è chiamato a giudicare (articolo Il Sole 24 Ore del
26.10.2014). |
APPALTI:
Per i c.d. “piccoli Comuni”, secondo i riferiti
indici normativi, è obbligata la gestione associata delle
gare ad evidenza pubblica mediante la “centrale di
committenza unica” che è, a termini dell’art. 3, cc. 25 e
34, D.Lgs. 163/2006 “amministrazione aggiudicatrice” che
acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni
aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, o aggiudica
appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori,
forniture o servizi destinati ad amministrazioni
aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, in aderenza alla
Direttiva 18/2004 UE, e, in quanto tale, necessaria
destinataria della notifica del ricorso avverso gli atti da
essa emessi, in quanto soggetto responsabile della gara.
---------------
I comuni che aderiscono alla convenzione che istituisce la
centrale unica di committenza sono meri beneficiari della
procedura indetta ed espletata dalla centrale di committenza
e sono vincolati alle vicende anche giudiziarie della gara,
sicché, mentre gli effetti e i risultati di questa sono
imputati al Comuni, l’imputazione formale degli atti,
rilevante ai fini della notifica del ricorso impugnatorio,
non può che ricadere sulla centrale di committenza,
contraddittore necessario dello stesso, in quanto competente
in via esclusiva all’indizione, regolazione e gestione della
gara e responsabile della stessa.
---------------
Anche secondo taluna dottrina e giurisprudenza
apparentemente favorevole alla tesi di parte ricorrente, che
ha configurato la centrale di committenza come “modulo
organizzativo e strumento di raccordo tra Amministrazioni
privo di una propria individualità e non centro formale di
imputazione autonoma”, gli atti della procedura vanno
imputati “non solo” alla capofila, ma anche alle altre
Amministrazioni che lo compongono, che dovranno
singolarmente formalizzare il rapporto con l’aggiudicatario
mediante la redazione di appositi contratti, così imponendo
comunque la notifica quantomeno “anche” alla centrale di
committenza.
... per l'annullamento della nota prot. 228 del 09.08.2014,
con cui la centrale unica di committenza di Tossicia
notificava ai ricorrenti l'esclusione dalla gara di appalto
indetta mediante procedura negoziata previa pubblicazione di
un bando di gara, relativa all'affidamento dell'incarico di
progettazione dei piani di ricostruzione per il comune di
Fano Adriano ambito n° 1 denominato "capoluogo e
localita' Villa Moreni".
...
- Considerato che i ricorrenti hanno proposto il ricorso in
esame, che impugna l’aggiudicazione dell’appalto de quo
disposta con atto della Centrale Unica di Committenza di
Tossicia, notificandolo solo al Comune di Fano Adriano, che
è, alla stregua della convenzione esibita in data odierna
(in atti), uno dei Comuni convenzionati per la gestione
della “centrale di committenza unica” per
l’acquisizione di lavori, forniture e servizio o la
conclusione di accordi quadro di lavori, forniture o
servizi, ai sensi dell’art. 30 del T.U. sull’Ordinamento
degli Enti Locali D.Lgs. n.267/2000 e secondo il disposto
dell’art. 33, comma 3, del D.lgs. 12.04.2006, n.163;
- Ritenuto che per i c.d. “piccoli Comuni”, secondo i
riferiti indici normativi, è obbligata la gestione associata
delle gare ad evidenza pubblica mediante la “centrale di
committenza unica” che è, a termini dell’art. 3, cc. 25
e 34, D.Lgs. 163/2006 “amministrazione aggiudicatrice”
che acquista forniture o servizi destinati ad
amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, o
aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di
lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni
aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, in aderenza alla
Direttiva 18/2004 UE, e, in quanto tale, necessaria
destinataria della notifica del ricorso avverso gli atti da
essa emessi, in quanto soggetto responsabile della gara
(cfr. Cons. di Stato, n. 3639/2013 e 3402/2012, TAR Lazio –
Roma, nn. 6575/012 e 2705/2013);
- Ritenuto, in proposito, e conformemente alla citata
giurisprudenza, che i Comuni che aderiscono alla convenzione
che istituisce la centrale unica di committenza sono meri
beneficiari della procedura indetta ed espletata dalla
centrale di committenza e sono vincolati alle vicende anche
giudiziarie della gara, sicché, mentre gli effetti e i
risultati di questa sono imputati al Comuni, l’imputazione
formale degli atti, rilevante ai fini della notifica del
ricorso impugnatorio, non può che ricadere sulla centrale di
committenza, contraddittore necessario dello stesso, in
quanto competente in via esclusiva all’indizione,
regolazione e gestione della gara e responsabile della
stessa (cfr. Cons. di Stato n. 3402/2012);
- Ritenuto che, anche secondo taluna dottrina e
giurisprudenza apparentemente favorevole alla tesi di parte
ricorrente, che ha configurato la centrale di committenza
come “modulo organizzativo e strumento di raccordo tra
Amministrazioni privo di una propria individualità e non
centro formale di imputazione autonoma”, gli atti della
procedura vanno imputati “non solo” alla capofila, ma
anche alle altre Amministrazioni che lo compongono, che
dovranno singolarmente formalizzare il rapporto con
l’aggiudicatario mediante la redazione di appositi
contratti, così imponendo comunque la notifica quantomeno “anche”
alla centrale di committenza;
- Ritenuto, per le ragioni che precedono, che il ricorso
avrebbe dovuto essere notificato alla Centrale unica di
committenza di Tossicia, in quanto contraddittore necessario
(“pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato”,
a termini dell’art. 41, co. 2, c.p.a.), e che, in mancanza
di detto adempimento, il ricorso si appalesa inammissibile (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza
16.10.2014 n. 721 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Integra il reato di esercizio abusivo di una
professione (art. 348 cod. pen.), il compimento senza titolo
di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via
esclusiva a una determinata professione, siano univocamente
individuati come di competenza specifica di essa, allorché
lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per
continuatività onerosità e organizzazione, da creare, in
assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive
apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto
regolarmente abilitato.
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va ribadito che integra il reato di esercizio abusivo di una
professione (art. 348 cod. pen.), il compimento senza titolo
di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via
esclusiva a una determinata professione, siano univocamente
individuati come di competenza specifica di essa, allorché
lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per
continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in
assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive
apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto
regolarmente abilitato (Cass. SU, 15.12.2011-23.3.2012 n.
11545; cfr. anche Cass. Sez. 5, 06.11.2013-10.01.2014 n.
646).
Va anche aggiunto che nel caso in esame, per come risulta
dalla sentenza impugnata, il ricorrente ha compiuto attività
tipica professionale (oggetto di indicazione tabellare nel
regolamento di determinazione degli onorari, dei diritti e
delle indennità) costituita dalle “sessioni” con i
clienti. La teste D.P. ha precisato di aver trattato sempre
ed esclusivamente con lui. Analoghe dichiarazioni ha reso P.
(Corte di
Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 14.10.2014 n. 42933 -
link a http://renatodisa.com). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla legittimità della scelta di un sindaco di
predisporre una procedura di affidamento in via d'urgenza
del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a causa
della situazione di dissesto in cui era precipitata la
propria società in house.
E' legittima la scelta di un sindaco che, constatata
l'impossibilità per la propria società in house di
proseguire nel servizio di raccolta e smaltimento dei
rifiuti a causa della situazione di dissesto in cui era
precipitata, ha incaricato il competente dirigente di
predisporre una procedura di affidamento del servizio in via
d'urgenza, al fine di assicurare la continuità dello stesso
nelle more dell'espletamento di una procedura aperta.
Nel caso di specie, malgrado l'incontestabile circostanza
che la società fosse una società in house del Comune, la
conoscenza da parte dell'ente pubblico partecipante della
situazione economica, patrimoniale e finanziaria della
propria affidataria è ufficialmente soggetta alle forme
previste dal codice civile.
In particolare, è all'interno della struttura corporativa
tipica della società per azioni, contraddistinta dalla
separazione tra proprietà ed amministrazione dell'ente, che
la prima è in grado di apprendere l'andamento della gestione
e più in generale la situazione della società. Ciò è proprio
quanto risulta essere avvenuto all'assemblea dei soci, in
cui l'amministratore unico ha riferito dello stato di
decozione della società.
Peraltro, nulla impedisce che, stante la peculiarità del
fenomeno dell'in house providing, in cui il dominio
dell'amministrazione partecipante sull'ente societario
partecipato può ordinariamente estrinsecarsi in forme più
penetranti rispetto a quelle poc'anzi esposte, previste per
le società per azioni di diritto comune (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 14.10.2014 n. 5124 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Una società può essere considerata in house
quando l'amministrazione partecipante sia titolare del
potere di nomina e revoca quanto meno della maggioranza dei
componenti degli organi di amministrazione e di controllo.
Sulla partecipazione privata al capitale di società
asseritamente in house.
L'attività della società in house pluripartecipate deve
essere limitata allo svolgimento dei servizi pubblici nel
territorio degli enti pubblici che ne risultino soci.
Una società può essere considerata in house quando
l'amministrazione partecipante sia titolare del potere di
nomina e revoca quanto meno della maggioranza dei componenti
degli organi di gestione, di amministrazione e di controllo.
Infatti, solo con la nomina della maggioranza degli organi
di direzione l'ente pubblico partecipante è posto nelle
condizioni di indirizzare l'attività dell'ente partecipato
verso il raggiungimento di finalità di pubblico interesse
affidate alla sua cura, e che invece correrebbero il rischio
di non potere essere attuate laddove il 'governo
societario' fosse attribuito ai soci privati.
Anche una partecipazione di minoranza di un soggetto privato
al capitale di una società in mano pubblica esclude in ogni
caso che tale amministrazione possa esercitare su detta
società un controllo analogo a quello che essa svolge sui
propri servizi. Inoltre, la partecipazione privata al
capitale di società asseritamente in house comporta, da un
lato, una deviazione rispetto al fine pubblico cui questa
dovrebbe tendere (e, dall'altro lato, un indebito beneficio
concorrenziale per il socio privato conseguente agli
affidamenti disposti in via diretta dall'amministrazione
partecipante (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.10.2014 n. 5079 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla verifica della regolarità contributiva
mediante DURC.
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza
n. 8 del 04.05.2012, ha attribuito al DURC carattere
vincolante quanto al requisito della gravità
dell'irregolarità contributiva: la nozione di "violazione
grave" non è rimessa alla valutazione caso per caso
della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina del
documento unico di regolarità contributiva; ne consegue che
la verifica della regolarità contributiva delle imprese
partecipanti a procedure di gara per l'aggiudicazione di
appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli
istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si
impongono alle stazioni appaltanti che non possono
sindacarne il contenuto.
A diverse conclusioni si perviene, invece con riguardo al
requisito del carattere definitivo di dette irregolarità,
richiesto in aggiunta a quello della gravità delle stesse.
Decisivo in questo senso è l'esame degli artt. 5 e 7 del
d.m. lavoro e previdenza sociale 24.10.2007 (relativo
appunto al d.u.r.c.). La prima delle citate disposizioni
regolamentari enumera i casi di regolarità contributiva al
ricorrere dei quali è consentito il rilascio del documento,
mentre la seconda, al c. 3, obbliga l'ente previdenziale ad
invitare l'impresa a regolarizzare la propria posizione in
caso di mancanza dei requisiti di cui all'art. 5. L'invito
alla regolarizzazione è stato quindi recepito a livello di
legislazione primaria con l'art. 31, c. 8, d.l. n. 69/2013
("Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia",
conv. con l. n. 98/2013).
Sebbene non applicabile ratione temporis, nel caso di
specie, la norma primaria costituisce la conferma di un
preciso indirizzo di politica legislativa volto a favorire
la massima partecipazione alle procedure di affidamento di
contratti pubblici.
Pertanto, la stazione appaltante avrebbe dovuto procedere ad
accertare in via autonoma la sussistenza di una irregolarità
definitiva del rapporto previdenziale, e non già limitarsi
ad una presa d'atto di irregolarità meramente formali, non
conseguenti ad una consapevole volontà della società di
sottrarsi al pagamento degli oneri contributivi nei
confronti dei propri dipendenti (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.10.2014 n. 5064 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Alla valutazione sul merito della dinamica
negoziale tra le parti contrattuali non può sostituirsi il
giudice amministrativo o un terzo estraneo al rapporto
(fattispecie concernente l’affidamento del servizio di
gestione di un rifugio alpino).
Il giudice
amministrativo nell'esercizio della giurisdizione di
legittimità e nel rapportarsi all'esercizio della
discrezionalità amministrativa non può sostituirsi
all'amministrazione, dovendosi limitare alla verifica "dall'esterno"
dell'esercizio della discrezionalità stessa. Con specifico
riferimento al requisito di ammissione alla pubblica gara ex
art. 38, lett. f), del d. lgs. n. 163/2006, la valutazione
sull'affidabilità dell'impresa in relazione al pregresso
rapporto contrattuale costituisce espressione dei poteri
tecnico-discrezionali della p.a.: l'amministrazione, in
quanto parte contrattuale del pregresso rapporto, è in grado
di valutare se l'errore o la colpa grave del precedente
affidatario sia tale da compromettere l'affidabilità e
precludere la stipula di qualsiasi altro nuovo rapporto
negoziale.
Ne consegue che in tema di appalti pubblici, in presenza di
una ragionevole scelta legislativa [art. 38, c. 1, lett. f)
del codice degli appalti] di consentire il rifiuto di
aggiudicazione per ragioni di inaffidabilità dell'impresa
-indicate in ipotesi di mala fede o colpa grave emerse nella
esecuzione del pregresso rapporto o di serie carenze di
professionalità emergenti dal passato aziendale- il
sindacato di legittimità del g.a. nello scrutinio di un uso
distorto di tale rifiuto deve prendere atto della chiara
scelta di rimettere alla stessa stazione appaltante la
individuazione del 'punto di rottura'
dell'affidamento nel pregresso o futuro contraente, in
quanto il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve
essere mantenuto sul piano della verifica della non
pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto
esibiti.
In conclusione, la mera non condivisibilità della
valutazione dell'amministrazione o la formulazione da parte
del giudice degli apprezzamenti e accertamenti demandati
all'amministrazione, ove si traduca in una sostituzione nel
momento valutativo riservato all'amministrazione, determina
non già un mero errore di giudizio, ma uno sconfinamento
nell'area ex lege riservata all'amministrazione e,
quindi, vizia di per sé la decisione.
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Si ispira al principio di buona amministrazione la stazione
appaltante che -pendendo un contenzioso con una società
senza che emergano ictu oculi suoi inadempimenti
inescusabili- ammetta la medesima società ad una gara
ulteriore (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.10.2014 n. 5063 - link a
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INCARICHI
PROFESSIONALI: Per difendere il Comune basta la procura.
Tar Lecce. Il compenso deve essere proporzionato
all'importanza dell'incarico.
Per difendere un Comune
non occorre un contratto: all'avvocato basta la procura
rilasciata dal sindaco.
Lo afferma il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la
sentenza 14.10.2014 n. 2500.
Un legale chiedeva
compensi per oltre un decennio di liti gestite per
l'amministrazione: il Comune ha riconosciuto l'esistenza dei
crediti, inserendo le somme tra i debiti fuori bilancio, ma
ha quantificato il dovuto utilizzando i minimi tariffari
(all'epoca in vigore). L'ente affermava infatti che la
mancanza di un contratto di patrocinio o di altro atto
scritto non potesse generare un debito superiore ai minimi.
Il Tribunale arriva a diversa conclusione esaminando i
principi sui contratti tra professionisti ed enti pubblici:
primo punto fermo è che il contratto deve avere forma
scritta (Cassazione 7297/2009), perché è inapplicabile la
norma sui contratti conclusi a distanza con imprese
commerciali. Occorre poi distinguere l'affidamento dei
servizi legali (che esige una gara: Tar di Salerno,
1383/2014) dal conferimento di incarichi individuali.
Nel secondo caso basta la procura alla lite, cioè la firma
del sindaco a margine della procura sull'atto giudiziario.
La procura è infatti un negozio unilaterale: quando è
conferita per iscritto dal cliente, ex articolo 83 del
Codice di procedura civile, è accettata dal professionista
con il concreto esercizio della rappresentanza in giudizio
mediante atti difensivi e soddisfa il requisito della forma
scritta ad substantiam, perché sono presenti tutti i
requisiti necessari: a) incontro di volontà tra ente
pubblico e difensore; b) funzione economico-sociale (causa)
del negozio; c) oggetto e, d) forma scritta, consentendo di
identificare il contenuto negoziale e di rendere possibili i
controlli dell'autorità tutoria.
Il contratto di patrocinio,
invece, è un negozio bilaterale con il quale il Comune dà
incarico al professionista per un'attività extragiudiziaria
svolta, con la logica del mandato, sulla base di un rapporto
interno di natura extraprocessuale (Cassazione 18450/2014).
Una volta superato lo scoglio della forma scritta, il Tar di
Lecce ha poi annullato la delibera comunale nella parte in
cui riconosceva solo i minimi tariffari: tutti gli incarichi
conferiti per un decennio, infatti, avevano uno specifico
spessore e corrispondevano a specifiche utilità conseguite
dal Comune, senza che vi fossero ragioni per reputare gli
importi richiesti come incongrui, trattandosi oltretutto di
controversie non seriali e ultradecennali.
Con questo ragionamento si supera l'indirizzo espresso dalla
Corte dei conti, sezione Basilicata, nella sentenza
180/2011, secondo la quale vi è responsabilità contabile
dell'ente che paghi una parcella legale sovrastimata
rispetto alla reale utilità della prestazione resa: se –come nel caso deciso a Lecce– l'incarico giudiziale è
conferito con la semplice procura, senza prevedere specifici
limiti minimi, il professionista può far valere il diritto a
un compenso adeguato all'importanza dell'opera (articolo
2233 Cc) sulla base della tariffa professionale (Cassazione
10190/2014) e avendo riguardo al valore della causa
(articoli 9 Dl 1/2012 e 13 legge 247/2012, Dm 10.03.2014, n.
55) (articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2014).
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Il formale
conferimento della procura alla lite ed il concreto
esercizio della rappresentanza processuale della parte
configurano anche il perfezionamento in forma scritta del
sottostante contratto di patrocinio nell’ipotesi in cui
parte conferente sia l’organo rappresentativo di un ente
pubblico -il sindaco-, determinatosi in merito secondo
conforme Deliberazione dell’organo collegiale -giunta
municipale- preposto allo scopo.
La procura alla lite, infatti, quale negozio unilaterale di
conferimento della rappresentanza in giudizio, si distingue
sì dal contratto di patrocinio, negozio bilaterale, con il
quale viene conferito l’incarico al professionista, ma,
quando la stessa, conferita per iscritto dal cliente, ai
sensi dell’art. 83 c.p.c., è accettata dal professionista
con il concreto esercizio della rappresentanza giudiziale
tramite atto difensivo sottoscritto, può configurare il
contratto di patrocinio tra ente pubblico e professionista,
soddisfacendone anche il requisito della forma scritta ad
substantiam, perché del contratto di patrocinio con la
pubblica Amministrazione sono presenti tutti i requisiti
necessari: dall’incontro di volontà tra ente pubblico e
difensore alla funzione economico-sociale (causa) del
negozio, all’oggetto e alla forma scritta, requisito proprio
di tutti i contratti stipulati dalla P.A., che risponde
all’esigenza di identificarne il contenuto negoziale e di
rendere possibili i controlli dell’autorità tutoria.
Esigenza che, nella specie, è soddisfatta dal collegamento
necessario, funzionale e di contenuto tra la procura alla
lite, sottoscritta dal rappresentante dell’Ente, e l’atto di
difesa (citazione, ricorso o comparsa) sottoscritto dal
difensore.
Può, quindi, essere affermato il seguente principio: In tema
di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad
substantiam per iscritto, il requisito della forma del
contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al
difensore della procura ex art. 83 cod. proc. civ., atteso
che, il relativo esercizio della rappresentanza giudiziale,
tramite la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo
perfeziona -con l’incontro di volontà fra le parti l’accordo
contrattuale in forma scritta, che, rendendo possibile
l’identificazione del contenuto negoziale e i controlli
dell’Autorità tutoria, risponde ai requisiti previsti per i
contratti della P.A..
Con riguardo, poi, al tema concernente l’assenza, ritenuta
dal Comune, della ‘forma scritta’, il Collegio
osserva che la questione deve reputarsi anch’essa ‘superata’
in ragione dei principi più volte espressi, sul punto, dalla
S.C., secondo la quale <<il formale conferimento della
procura alla lite ed il concreto esercizio della
rappresentanza processuale della parte configurano anche il
perfezionamento in forma scritta del sottostante contratto
di patrocinio nell’ipotesi in cui parte conferente sia
l’organo rappresentativo di un ente pubblico -il sindaco-,
determinatosi in merito secondo conforme Deliberazione
dell’organo collegiale -giunta municipale- preposto allo
scopo (Cass. 16.06.2006 n. 13963; cass. 05.05.2004 n. 8500).
La procura alla lite, infatti, quale negozio unilaterale di
conferimento della rappresentanza in giudizio, si distingue
sì dal contratto di patrocinio, negozio bilaterale, con il
quale viene conferito l’incarico al professionista, ma,
quando la stessa, conferita per iscritto dal cliente, ai
sensi dell’art. 83 c.p.c., è accettata dal professionista
con il concreto esercizio della rappresentanza giudiziale
tramite atto difensivo sottoscritto, può configurare il
contratto di patrocinio tra ente pubblico e professionista,
soddisfacendone anche il requisito della forma scritta ad
substantiam, perché del contratto di patrocinio con la
pubblica Amministrazione sono presenti tutti i requisiti
necessari: dall’incontro di volontà tra ente pubblico e
difensore alla funzione economico-sociale (causa) del
negozio, all’oggetto e alla forma scritta, requisito proprio
di tutti i contratti stipulati dalla P.A., che risponde
all’esigenza di identificarne il contenuto negoziale e di
rendere possibili i controlli dell’autorità tutoria.
Esigenza che, nella specie, è soddisfatta dal collegamento
necessario, funzionale e di contenuto tra la procura alla
lite, sottoscritta dal rappresentante dell’Ente, e l’atto di
difesa (citazione, ricorso o comparsa) sottoscritto dal
difensore.
Può, quindi, essere affermato il seguente principio: In tema
di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad
substantiam per iscritto, il requisito della forma del
contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al
difensore della procura ex art. 83 cod. proc. civ., atteso
che, il relativo esercizio della rappresentanza giudiziale,
tramite la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo
perfeziona -con l’incontro di volontà fra le parti l’accordo
contrattuale in forma scritta, che, rendendo possibile
l’identificazione del contenuto negoziale e i controlli
dell’Autorità tutoria, risponde ai requisiti previsti per i
contratti della P.A. (v. anche Cass. 05.05.2004 n. 8500;
Cass. 18.07.2002 n. 10454)>> (Cassazione civile, VI,
16.02.2012, n. 2266). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’esercizio
di un bar non costituisce un mestiere di per sé rumoroso,
sicché i rumori molesti provocati in occasione di spettacoli
di cabaret o, comunque, durante l’ordinaria attività del bar
integrano la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o
del riposo delle persone di cui al 1° comma dell’art. 659
c.p. (e non ai sensi del secondo comma dello stesso
articolo).
I motivi di ricorso si risolvono, per la gran parte, in
censure in punto di fatto della decisione impugnata, con le
quali si richiede una nuova e diversa valutazione delle
risultanze processuali riservata al giudice del merito e non
consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque
infondato.
Innanzitutto, esattamente il giudice del merito ha ritenuto
applicabile la disposizione di cui al primo comma
dell’articolo 659 c.p., e non quella di cui al secondo
comma, avendo accertato che i rumori molesti non erano
prodotti dall’utilizzazione dei normali mezzi di esercizio
del mestiere, bensì da emissioni sonore aggiuntive, non
strettamente connesse all’esercizio dell’attività (in
particolare musica ad alto volume, in orario notturno, anche
a mezzo di altoparlanti posti all’esterno del locale).
Non si rientra quindi nell’ipotesi dell’esercizio di un
mestiere di per sé rumoroso, esercitato contro le
disposizioni di legge o contro le prescrizioni della
autorità.
Del resto, la giurisprudenza ha più volte ritenuto che
l’esercizio di un bar non costituisce un mestiere di per sé
rumoroso, sicché i rumori molesti provocati da tale
esercizio possono integrare la fattispecie di cui
all’articolo 659 c.p., comma 1, (Sez. 1, 05.12.2006, n. 1561
del 2007, Rey, m. 235883, in una fattispecie relativa ad una
orchestrina che si esibiva all’interno di un bar; Sez. 1,
28.03.2003, n. 16686, Massazza, m. 224802; Sez. 1,
02.05.1994, n. 7188, Sereni, m. 199730, in un caso di
abnorme propagazione di strepiti, schiamazzi, rumori di
cucina, “chiamate”, aggiuntivi alla necessaria
diffusione, nei locali del canto e della musica connessa
alla gestione di un “piano bar”; Sez. 6, 24.05.1993,
n. 7980, Papez, m. 194904, relativamente ai continui
schiamazzi e rumori provocati, con disturbo delle persone,
dagli avventori di un bar).
Il giudice del merito, poi, con un apprezzamento di fatto
adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non
censurabile in questa sede, ha ritenuto provato il fatto che
i rumori in questione arrecassero disturbo al riposo delle
persone sulla base delle concordi dichiarazioni dei testi
residenti nella zona, i quali avevano più volte richiesto
l’intervento dell’autorità, oltre che della documentazione
acquisita. In base a tali elementi ha altresì ritenuto
provato anche che le emissioni sonore in questione
superavano i limiti della normale tollerabilità e non erano
strettamente connesse all’esercizio dell’attività di bar,
consistendo in particolare in musica ad alto volume, anche
di notte oltre il normale orario di apertura.
La circostanza che vi sia stato un solo accertamento da
parte dell’Arpa è irrilevante, perché nella specie si tratta
della fattispecie di cui all’articolo 659 c.p., comma 1, in
relazione alla quale assume rilievo il superamento dei
limiti di normale tollerabilità, superamento che è stato
ritenuto accertato dal giudice del merito, con congrua ed
adeguata motivazione, sulla base delle dichiarazioni dei
testi escussi. E’ quindi anche irrilevante la circostanza,
dedotta con il ricorso, che vi sarebbe stato nel tempo un
unico spettacolo di cabaret. Il giudice del merito ha anche
motivatamente accertato, poi, che i tentativi posti in
essere dall’imputata per limitare le conseguenze
dell’emissione dei rumori non si sono dimostrati sufficienti
ed idonei ad evitare il disturbo ai vicini.
Il giudice, sempre con congrua ed adeguata motivazione, ha
anche ritenuto, sulla base delle dichiarazioni dei testi,
che i rumori non si erano verificati solo in occasione dello
spettacolo di cabaret, ma erano continuati anche in seguito
“con permanenza fino ad oggi” (ossia fino alla data
della sentenza di primo grado, emessa il 23.11.2012).
Esattamente, quindi, ha ritenuto che non potesse
considerarsi maturato il termine di prescrizione del reato,
termine che, pertanto, non è spirato nemmeno alla data
odierna.
E’ infine congrua ed adeguata la motivazione con la quale è
stato determinato, in via equitativa, il danno liquidato in
euro 1.500 in favore di ciascuna parte civile costituita
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.10.2014 n. 41992 - link a http://renatodisa.com). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Il funzionario o l’amministratore comunale che
consentano lo svolgimento di una prestazione in assenza di
un regolare contratto ne rispondono in proprio.
Non è dunque necessario che essi siano parte attiva o
comunque abbiano determinato in prima persona la
prestazione, essendo sufficiente che non si siano opposti
all’esecuzione.
La disposizione di cui al Decreto Legge n. 66 del 1989,
articolo 23, (convertito, con modificazioni, in Legge
24.04.1989, n. 144, e riprodotta nel Decreto Legislativo n.
77 del 1995, articolo 35) prevede che nel caso in cui vi sia
stata l’acquisizione di beni o servizi in violazione
dell’obbligo indicato nel comma 3 (che richiede la
sussistenza della deliberazione autorizzativa nelle forme
previste dalla legge e divenuta esecutiva, nonché
dell’impegno contabile registrato sul competente capitolo
del bilancio di previsione), il rapporto obbligatorio
intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro
effetto di legge tra il privato fornitore e l’amministratore
o il funzionario che abbiano consentita la fornitura.
Questa norma è stata interpretata dalla Corte di appello nel
senso che per configurarne l’operatività sia necessario che
il funzionario assuma un ruolo attivo e decisionale
nell’affidamento dell’incarico di svolgere le prestazioni
professionali. Questa lettura è contraria al senso fatto
palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse (articolo 12 preleggi) e alla finalità
della normativa, indiscutibilmente volta a prevenire il
formarsi di debiti fuori bilancio a carico delle
amministrazioni.
3.1) L’uso del verbo “consentire” descrive infatti il
comportamento di chi, trovandosi privo del potere
decisionale sul conferimento dell’incarico o l’acquisizione
del bene, nell’esercizio delle sue funzioni permetta che
avvenga l’acquisizione della prestazione o della fornitura,
senza opporvisi per quanto dovuto nei limiti delle sue
attribuzioni. Il disposto normativo è volto a far sì che un
contratto non perfezionatosi secondo legge non pervenga alla
fase esecutiva.
A questo fine viene responsabilizzato l’amministratore o il
funzionario che, chiamato ad operare, a cagione del suo
ufficio, per la conclusione e l’attuazione del contratto,
cooperi, lasci che la prestazione venga eseguita. Il
legislatore vuole invece, lo si desume dalla scelta
dell’espressione verbale, che il funzionario neghi il suo
consenso e comunque non presti, per quanto possibile,
l’opera che sarebbe suo dovere compiere se il contratto
fosse stato formato a norma di legge.
Lasciar fare in luogo di ostacolare; assecondare; cooperare:
sono manifestazioni di quel comportamento consenziente che
il legislatore ha voluto vietare e dal quale fa scaturire
conseguenze a carico del funzionario o dell’amministratore.
3.2) Ha dunque errato la Corte di appello nel descrivere il
comportamento configurato dal legislatore, cioè il “consentire”,
alla stregua di un ruolo di “iniziativa o determinante
intervento”.
Ed è quindi fondato il ricorso nella parte in cui invoca,
tra l’altro, il precedente costituito da Cass. 10640/2007,
secondo cui si ha l’insorgenza del rapporto obbligatorio, ai
fini del corrispettivo, direttamente con l’amministratore o
il funzionario che abbia consentito la prestazione in tutti
i casi in cui manchi una valida ed impegnativa obbligazione
dell’ente locale, e quindi anche quando, approvata dal
Comune la proposta di conferimento dell’incarico
professionale con lo schema di disciplinare, sia mancata la
stipulazione del contratto e quando in mancanza del
prescritto impegno contabile, l’esecuzione di fatto del
rapporto sia stata tuttavia consentita dall’amministratore o
dal funzionario.
4) Fondato è anche il motivo di ricorso che denuncia
l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata,
laddove nega portata “consenziente” alle missive
trasmesse dal resistente ai professionisti.
Per la Corte di appello trattavasi di attività meramente di
“contenuto amministrativo”, di semplice trasmissione
delle determinazioni della P.A. ai suoi fornitori.
La sentenza, nelle sue brevissime proposizioni, non spiega
però come sia possibile attribuire questo contenuto,
puramente esecutivo, quasi alla stregua di adempimento
coatto, in presenza di comunicazioni come quelle dettagliate
in ricorso.
4.1) In particolare si segnalano, per il tenore del tutto
opposto (e quindi bisognoso di ben più penetranti
spiegazioni):
a) quella del 19.03.1992, in cui, dopo aver comunicato
l’approvazione dell’affidamento dell’incarico, il resistente
invitava i ricorrenti a “provvedere con urgenza a dare
corso al disciplinare di incarico”.
b) i telegrammi del 01.04.1992, del 06.04.1992 e del
04.06.1992 in cui, senza alcun riferimento a mandato di
alcun altro soggetto sopraordinato, il dirigente di settore
(OMISSIS) “ordinava” a ciascuno dei due
professionisti “l’immediata consegna” degli
elaborati.
Il tutto, si badi, come sottolinea il ricorso, con la
presumibile consapevolezza, posto il ruolo dirigenziale,
dell’incompletezza della fattispecie contrattuale, nonché in
presenza di noti “problemi connessi al finanziamento
dell’opera” (ricorso pag. 15, riferito a lettera
(OMISSIS) del 17.04.1992 riprodotta a pag. 12).
Questi scritti sono apparentemente segno di esplicazione del
ruolo dirigenziale in piena sintonia con. l’ente comunale e
i suoi amministratori.
Vi è dunque insufficiente spiegazione (pur astrattamente
possibile, previa un’analisi di atti e comportamenti del
funzionario che dimostrino una qualche forma di dissenso
dall’operato dell’ente) di come si possa ritenere che
espressioni quali quelle descritte possano essere intese in
modo diverso da quel “consentire”, che e’ stato
delineato dal legislatore. Discende da quanto esposto
l’accoglimento del ricorso. La sentenza impugnata va cassata
e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di
appello di Trieste per nuovo esame dell’appello e la
liquidazione delle spese di questo giudizio.
La Corte si atterrà al seguente principio di diritto: “In
tema di spese dei Comuni (e, più in generale, degli enti
locali) ai fini dell’interpretazione del disposto dal
Decreto Legge 02.03.1989, n. 66, articolo 23, comma 4,
(convertito, con modificazioni, in Legge 24.04.1989, n.
144), che stabilisce l’insorgenza del rapporto obbligatorio,
quanto al corrispettivo, direttamente con l’amministratore o
il funzionario che abbia consentito la prestazione, va
escluso che l’attività di consentire la prestazione debba
consistere in un ruolo di iniziativa o di determinante
intervento del funzionario, essendo sufficiente che questi
ometta di manifestare il proprio dissenso e presti invece la
sua opera come se fosse in presenza di una valida ed
impegnativa obbligazione dell’ente locale” (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 09.10.2014 n. 21340 -
link a http://renatodisa.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il dipendente pubblico che –cedendo a terzi il
badge– attesti falsamente la sua presenza in ufficio,
riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza,
commette il reato di truffa aggravata, ed il danno economico
va rinvenuto nell’indebita percezione della porzione di
retribuzione conseguita in difetto di prestazione
lavorativa.
Il ricorso risulta manifestamente infondato. Quanto
all’intervenuta produzione documentale, infatti,
contrariamente a quanto affermato dal ricorrente il
Tribunale del riesame si è soffermato sul punto ritenendo
tale produzione non decisiva.
Nell’impugnata ordinanza si legge, infatti, “l’indagato
non ha offerto e comprovato alcun significativo elemento in
senso contrario anche l’asserita –ma non provata– esistenza
di altri ingressi non appare almeno allo stato decisiva nel
senso della carenza di un quadro di gravità indiziaria,
posto che sovente il (OMISSIS) timbrava anche per il
(OMISSIS), consentendo a quest’ultimo di eludere il
controllo sull’orario di ingresso ben prima che il
coindagato entrasse in ufficio proprio dal medesimo ingresso
sorvegliato dalle telecamere poste dalla PG".
Dunque i giudici del riesame hanno dato logica spiegazione
della ritenuta sussistenza di un quadro indiziario
sufficiente a giustificare l’adozione della misura cautelare
in esame. Per quanto concerne l’ulteriore aspetto di aver
preso in considerazione periodi successivi perché le
telecamere erano state installate solo nel marzo, anche con
riguardo a tale profilo di censura il Collegio ha ampiamente
e correttamente motivato.
In particolare, i giudici del riesame hanno affermato che “il
Tribunale della Libertà, al fine di controllare la gravità
degli indizi e la conformità della contestazione allo schema
legale della fattispecie, può prendere in considerazione
tutti gli elementi fattuali desumibili dalla motivazione del
provvedimento impugnato, quando la condotta criminosa
contestata all’indagato, pur commessa entro un lasso
temporale non formalmente ricompreso nella data del
provvisorio capo di imputazione, sia stata oggetto di
valutazione nella motivazione dell’ordinanza cautelare (e
nel caso di specie, poiché il Gip, nel provvedimento
impugnato, ha valutato anche condotte tenute dall’odierno
indagato fino all’aprile scorso, pure queste ultime possono
essere prese in considerazione ai fini del giudizio
afferente la gravità indiziaria”.
Pertanto nessuna omessa motivazione appare ravvisabile. Il
Tribunale del riesame ha infatti motivato ampiamente anche
in ordine alla apprezzabilità del danno economico cagionato.
In particolare, precisa il giudice del riesame, dagli
elementi acquisiti dalla PG risulta come il suddetto
meccanismo fraudolento, concordato tra il (OMISSIS) ed il
(OMISSIS), ha consentito a ciascuno di costoro di
assentarsi, ogni mese, dal luogo di lavoro per un
consistente numero di ore che, però, grazie al meccanismo
medesimo, venivano comunque loro remunerate dal datore di
lavoro pubblico.
In considerazione della durata nel tempo di tale meccanismo
fraudolento, dal carattere quasi quotidiano del raggiro e
del numero di ore lavorative mensilmente evase, conclude il
Tribunale del riesame, deve ritenersi che la condotta degli
indagati abbia realizzato un apprezzabile danno economico
alla PA di appartenenza
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.10.2014 n. 41935 - link a http://renatodisa.com). |
APPALTI:
Sull'operazione di verifica dell'integrità dei
plichi contenenti l'offerta tecnica.
In tema di apertura delle buste contenenti l'offerta
tecnica, l'operazione di verifica dell'integrità dei plichi
non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli
stessi non abbiano subito manomissioni o alterazioni,
dovendo essere garantito altresì che "il materiale
documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di
gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde
all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento
dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare
gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti
prodotti e di avere così la garanzia che non siano
successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche
dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità
dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli
ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato"
(sent. n. 13 del 28.07.2011 dell'Ad. Plenaria).
Ciò costituisce corretta interpretazione dei principi
comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e
di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti, inoltre,
l'Adunanza Plenaria ha aggiunto che "…tale operazione (id
est, apertura dei plichi contenenti l'offerta tecnica),
infatti, come per la documentazione amministrativa e per
l'offerta economica, costituisce passaggio essenziale e
determinante dell'esito della procedura concorsuale, e
quindi richiede di essere presidiata dalle medesime
garanzie, a tutela degli interessi privati e pubblici
coinvolti dal procedimento" (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.10.2014 n. 5009 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il soggetto privato, non titolare di una impresa
e non titolare di un ente, che abbandoni in modo
incontrollato un proprio rifiuto, e che a tal fine lo
trasporti occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà
abbandonato, risponderà solo dell’illecito amministrativo di
cui all’art. 255 d.lgs. 03.04.2006, n. 152, per l’abbandono
e non anche del reato di trasporto abusivo di cui all’art.
256, comma 1, in quanto la condotta di trasporto si
esaurisce nella fase meramente preparatoria e preliminare
rispetto alla condotta finale e principale di abbandono, e
non assume autonoma rilevanza ai fini penali.
Il ricorso è fondato.
Dalla motivazione della sentenza impugnata emerge che il
fatto si sarebbe svolto nel seguente modo.
L’imputato, il 20.2.2011, stava trasportando, sul rimorchio
trainato da un trattore agricolo appartenente alla madre
Pe.Ir., circa 2 (due) mq. di rifiuti non pericolosi
(cemento, calcestruzzo, mattonelle, provenienti da
demolizione, e in particolare dalla abitazione della madre),
al fine di abbandonarli in un posto non precisato. A un
certo punto il trattore uscì di strada ed, essendosi
ribaltato il rimorchio, i rifiuti si sversarono sul terreno
adiacente. Stante l’ora tarda e l’oscurità, il P. abbandonò
sul posto il rimorchio ed i rifiuti, col proposito di
recuperarli il giorno seguente, ma l’indomani mattina i
vigili urbani scorsero il rimorchio ribaltato con i rifiuti
e denunciarono l’imputato per il reato contestato. La
sentenza impugnata, oltre ad accertare che la piccola
quantità di rifiuti da demolizione proveniva
dall’appartamento della madre ottantenne dell’imputato, ha
anche accertato che costui non svolgeva alcuna attività
imprenditoriale e non era titolare di impresa o titolare di
ente, né si occupava di smaltimento, trasporto o gestione di
rifiuti, in quanto svolgeva l’attività di fornaio.
L’imputato, quindi, era stato chiamato a rispondere della
condotta contestata quale semplice privato e non quale
titolare di impresa o titolare di un ente.
La difesa aveva eccepito che l’abbandono dei rifiuti in
questione in quel terreno, a seguito del ribaltamento del
rimorchio, non costituiva comunque reato ma illecito
amministrativo ai sensi dell’art. 255 d.lgs. 03.04.2006, n.
152, poiché l’imputato non aveva appunto la qualità
personale richiesta dall’art. 256, comma 2.
Il giudice ha riconosciuto che effettivamente l’imputato non
era un titolare di impresa (nemmeno di demolizione) e non
esercitava una attività imprenditoriale e che quindi la
condotta di abbandono dei rifiuti (sul terreno) non
integrava il reato di cui all’art. 256, comma 2.
Ha però ritenuto che l’imputato andasse dichiarato colpevole
per la condotta (precedente e finalizzata all’abbandono) di
trasporto dei detti rifiuti ai sensi dell’art. 256, comma 1,
il quale non prevede un reato proprio potendo essere
commesso da “chiunque”.
In sostanza il giudice ha ritenuto che il reato di trasporto
abusivo di rifiuti, di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs.
03.04.2006, n. 152, sia integrato anche nell’ipotesi in cui
si tratti di un trasporto meramente occasionale, effettuato
da un privato non titolare di impresa e non responsabile di
un ente, che abbia ad oggetto solo rifiuti di sua proprietà
destinati unicamente all’abbandono.
In altre parole, secondo il principio di diritto
implicitamente applicato dalla sentenza impugnata senza
ulteriori specificazioni, qualora un privato abbandoni
(tanto per fare un esempio) un vecchio mobile o un
elettrodomestico fuori del portone di casa, commetterebbe
solo l’illecito amministrativo di cui all’art. 255, mentre
qualora li abbandoni all’angolo della strada a qualche
decina (o centinaia) di metri di distanza, commetterebbe,
oltre all’illecito amministrativo, anche il reato di
trasporto abusivo di rifiuti di cui all’art. 256, comma 1.
Si tratta di una interpretazione che attribuirebbe al
sistema normativo delle conseguenze manifestamente illogiche
(il che mostra anche la sua erroneità), se non altro perché
in tale modo il sistema, così interpretato, attribuirebbe
alla fase preparatoria (trasporto) del comportamento tenuto
dal privato una gravità maggiore della fase finale e
conclusiva (abbandono incontrollato).
In realtà, nel caso in esame, il giudice è giunto a questa
conclusione con una motivazione, oltre che manifestamente
illogica e contraddittoria, anche meramente apparente, e
quindi mancante, in quanto non ha valutato se sussistevano
due presupposti della decisione adottata: uno di fatto,
relativo alla valutazione della natura della condotta
addebitata all’imputato; ed uno di diritto, consistente
nell’ambito di applicazione del reato ritenuto.
Sotto il primo profilo, invero, non risulta chiaro se alla
condotta nella specie contestata e per la quale è
intervenuta condanna, ossia il trasporto dei residui di
demolizione, dovesse, nel caso in esame, attribuirsi, per
una qualche ragione, natura diversa e rilevanza autonoma
rispetto alla condotta finale e conclusiva di abbandono
incontrollato ovvero se la stessa avesse natura meramente
preparatoria della condotta di abbandono e come tale fosse
priva di autonomo rilievo penale.
Sotto il secondo profilo, attribuita al trasporto
finalizzato all’abbandono rilevanza autonoma, il giudice non
ha poi spiegato perché esso nella specie integrerebbe il
reato. Difatti è vero che la giurisprudenza di questa Corte,
richiamata dalla sentenza impugnata, afferma che il reato di
trasporto non autorizzato di rifiuti di cui all’art. 256,
comma 1, si può configurare anche in presenza di una
condotta occasionale, ma è anche vero che le massime citate
si riferiscono tutte a soggetti che in realtà svolgevano una
“attività di trasporto” (anche se non di rifiuti) o
una attività di impresa nella quale erano stati prodotti i
rifiuti trasportati o comunque a soggetti che avevano
compiuto un trasporto per conto di terzi. In altri termini,
sembra che in detti casi l’occasionalità sia stata ritenuta
irrilevante proprio perché si trattava comunque di condotta
tenuta nell’ambito di una “attività di trasporto”, e
comunque non di un trasporto occasionale e finalizzato
esclusivamente all’abbandono di un proprio rifiuto.
Questo Collegio è a conoscenza che dottrina e giurisprudenza
sono discordi sulla questione se il reato di “attività
di… trasporto… di rifiuti in mancanza della prescritta
autorizzazione, iscrizione o comunicazione” di cui
all’art. 256, comma 1, costituisca o meno un reato proprio,
che possa essere commesso da chiunque ovvero solo dai
soggetti in favore quali, in forza dell’art. 212, può essere
effettuata la relativa iscrizione nell’albo.
Ritiene però che in questa sede non debba essere affrontata
tale questione perché, quale che sia la sua corretta
soluzione, deve ritenersi che il reato non sia comunque
integrato dalla condotta di un soggetto privato (che non
agisca nell’ambito di una attività di impresa) il quale
abbandoni occasionalmente in modo incontrollato un proprio
rifiuto e che, a questo scopo, lo porti nel luogo dove poi
lo abbandonerà. Ciò perché, a prescindere della natura del
trasporto richiesta dalla norma incriminatrice, deve
ritenersi che in una tale fattispecie ciò che rilevi è solo
la condotta principale e finale costituita dall’abbandono
del rifiuto, mentre il suo trasporto sul luogo di abbandono
costituisce solo una fase preliminare e preparatoria che non
acquista autonomo rilievo sotto il profilo penale, rimanendo
appunto assorbita nella condotta di abbandono. Quindi, se
l’abbandono incontrollato del rifiuto venga commesso da un
soggetto non titolare di una impresa e non responsabile di
un ente e pertanto costituisca illecito amministrativo
punito ai sensi dell’art. 255, il trasporto del rifiuto
stesso per abbandonarlo in quel luogo rientrerà nella
condotta punita dalla sanzione amministrativa e non
integrerà un autonomo e distinto reato di trasporto di
rifiuti senza iscrizione o autorizzazione.
Questa soluzione, invero, corrisponde non solo ad una
esegesi adeguatrice (in riferimento soprattutto al principio
costituzionale di ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost.,
stante la manifesta irragionevolezza, come dianzi rilevato,
della soluzione contraria, che considera più grave la fase
preparatoria rispetto a quella finale) ma anche ad una
interpretazione sia letterale della disposizione (che parla
di “attività di trasporto”) sia sistematica, che
tenga conto della ratio del sistema punitivo.
Altrimenti, si dovrebbe, ad esempio, ritenere razionale un
sistema che per una ipotesi di detenzione di sostanza
stupefacente finalizzata allo spaccio, punisse lo spaccio
con una sanzione amministrativa e punisse altresì in modo
autonomo anche la detenzione con una sanzione penale.
Va dunque affermato il principio che il soggetto privato,
non titolare di una impresa e non titolare di un ente, che
abbandoni in modo incontrollato un proprio rifiuto, e che a
tal fine lo trasporti occasionalmente nel luogo ove lo
stesso verrà abbandonato, risponderà solo dell’illecito
amministrativo di cui all’art. 255 d.lgs. 03.04.2006, n.
152, per l’abbandono e non anche del reato di trasporto
abusivo di cui all’art. 256, comma 1, in quanto la condotta
di trasporto si esaurisce nella fase meramente preparatoria
e preliminare rispetto alla condotta finale e principale di
abbandono, e non assume autonoma rilevanza ai fini penali.
Nel caso di specie il giudice ha erroneamente seguito un
diverso principio di diritto attribuendo autonoma valenza
penale a qualsiasi condotta di trasporto di rifiuti, anche
compiuta da un privato, anche meramente occasionale, ed
anche meramente preparatoria e unicamente finalizzata
all’abbandono. Di conseguenza, ha omesso di esaminare e
valutare se nel caso in esame la concreta condotta tenuta
dall’imputato avesse effettivamente una propria autonoma
finalità ovvero si inserisse in un’unica condotta finale di
abbandono come una fase meramente preparatoria e
preliminare.
Ciò impone che la sentenza impugnata debba essere annullata
con rinvio per nuovo esame al tribunale di Treviso, che si
uniformerà al principio di diritto dianzi enunciato,
restando assorbito il secondo motivo di ricorso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.10.2014 n. 41352 -
link a http://renatodisa.com). |
APPALTI: Oneri sicurezza, l'appalto si salva.
Non conta la mancata indicazione.
Legittimo affidamento. Deve essere confermata
l'aggiudicazione dell'appalto all'impresa che ormai conta di
avere il diritto a eseguire i lavori, anche se all'esito
della procedura si scopre che come concorrente non ha
indicato nell'offerta gli oneri di sicurezza per rischi
specifici. E ciò soprattutto perché nel codice dei contratti
pubblici non c'è alcun riferimento all'esclusione dalla gara
per chi non provvede. E ciò a maggior ragione quando
l'incombente non risulta previsto dal bando di gara.
È
quanto emerge dalla
sentenza
06.10.2014 n. 1624, pubblicata dal TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II, che interviene su di una questione tutt'altro che
pacifica.
Interpretazione sostanzialistica. Niente da fare per
l'azienda che ha perso la gara d'appalto: è escluso che
possa ottenere la revoca dell'aggiudicazione. Deve
prevalere, spiegano i giudici, un'interpretazione
sostanzialistica: non c'è in generale alcuna norma di legge
che commina l'esclusione dalla gara a chi non indica gli
oneri di sicurezza per rischi specifici.
E in effetti può
ben capitare che in un certo tipo di appalto il pericolo sia
pari a zero, come accade nella specie dove la gara riguarda
la fornitura di beni per laboratorio da cucina, secondo le
precisazioni offerte dalla stessa azienda in sede di
verifica. Si applica stavolta il principio secondo cui
bisogna favorire e non ostacolare la partecipazione delle
imprese alla gara laddove la specificazione dell'impresa
interessata è stata ritenuta congrua e ragionevole
dall'amministrazione in relazione al tipo di gara.
Verifica ampia. La materia, comunque, resta controversa:
secondo l'orientamento giurisprudenziale più rigoroso
l'esclusione dalla gara deriva dalla natura precettiva e
imperativa delle norme che disciplinano gli oneri di
sicurezza da rischi specifici.
Un altro indirizzo interpretativo più flessibile ritiene che
l'estromissione dell'azienda dalla procedura può avvenire
soltanto in seguito a una verifica più ampia sulla serietà e
sulla sostenibilità dell'offerta economica nel suo insieme (articolo ItaliaOggi del
29.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il reato di concussione e quello di induzione
indebita a dare o promettere utilità si differenziano dalle
fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti
richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva
del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti
che assume, a costringere o a indurre l’extraneus, comunque
in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa
indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par
condicio contractualis ed evidenzia l’incontro libero e
consapevole della volontà delle parti.
Le censure sono infondate.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno recentemente chiarito
che il delitto di concussione, di cui all’articolo 317 c.p.,
nel testo modificato dalla Legge n. 190 del 2012, è
caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso
costrittivo del pubblico agente che si attua mediante
violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno
contra ius da cui deriva una grave limitazione della
libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun
vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte
all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la
dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue
dal delitto di induzione indebita, previsto dall’articolo
319-quater c.p., introdotto dalla medesima Legge n. 190, la
cui condotta si configura come persuasione, suggestione,
inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in
un’induzione in errore), pressione morale con più tenue
valore condizionante della libertà di autodeterminazione del
destinatario il quale, disponendo di più ampi margini
decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla
richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata
dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che
giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez.
U, Sentenza n. 12228 del 24/10/2013, Rv. 258470, Maldera e
altri).
Nella motivazione di questa Sentenza, le Sezioni Unite hanno
precisato che, nei casi ambigui, l’indicato criterio
distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito
va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata
valutazione del fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più
qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda
concreta. Inoltre si avuto cura di affermare che il reato di
concussione e quello di induzione indebita a dare o
promettere utilità si differenziano dalle fattispecie
corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono,
entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del
funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che
assume, a costringere o a indurre Vextraneus,
comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla
promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la
par candido contractualis ed evidenzia l’incontro
libero e consapevole della volontà delle parti.
In definitiva, il delitto di induzione indebita, di cui
all’articolo 319-quater c.p., è caratterizzato, sotto il
profilo oggettivo, da una condotta di pressione non
irresistibile da parte del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di pubblico servizio, che lascia al
destinatario un margine significativo di autodeterminazione
e si coniuga con il perseguimento di un indebito vantaggio
per lo stesso, distinguendosi da quello di concussione, il
quale si configura quando la condotta del pubblico
ufficiale, prospettando un male ingiusto, limita
radicalmente la libertà di autodeterminazione del soggetto
passivo (Sez. 6, Sentenza n. 5496 del 07/11/2013, Rv.
259055, Moretti) (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 03.10.2014 n. 41110 -
link a http://renatodisa.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
La falsità ideologica può essere consumata anche
mediante un’attestazione incompleta, ogniqualvolta il
contenuto espositivo dell’atto sia, comunque, tale da far
assumere all’omissione dell’informazione, relativa ad un
determinato fatto, il significato di negazione della sua
esistenza. Integra il reato di falso ideologico in atto
pubblico la condotta del pubblico ufficiale che, formando
un’attestazione, tace dati la cui omissione, non ultronea
nell’economia dell’atto, produca il risultato di una
documentazione incompleta e comunque contraria, anche se
parzialmente, ai vero.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
La difesa sostiene che non dovrebbe tenersi conto della
specifica finalità della dichiarazione sottoscritta dall’I.,
alla luce delle previsioni del bando: dovrebbe piuttosto
verificarsi se la dichiarazione de qua, pertinente o
meno a quanto richiesto dalla pubblica amministrazione
nell’ambito del procedimento di ammissione al concorso,
fosse o no difforme dal vero. Si tratta di argomentazioni
non condivisibili.
È chiaro che, trovandosi in imbarazzo davanti ad una
modulistica che gli imponeva di precisare se avesse o meno
procedimenti penali in corso, e sapendo di averne, l’I. si
ingegnò di trovare una “via di mezzo”, mutuando
dall’altra attestazione che gli si chiedeva (concernente le
condanne, e non le pendenze) il riferimento alla potenziale
valenza preclusiva ad un rapporto d’impiego; così facendo,
si inventò una sorta di tertium genus di
dichiarazione fra quelle che erano prescritte dal bando,
curando di non attestare circostanze difformi dal vero in
senso letterale.
In concreto, il bando richiedeva al candidato di fare
presenti le condanne eventualmente ostative al rapporto di
lavoro, perché non tutte lo sarebbero state: e l’I., con la
prima parte della propria dichiarazione, fece presente di
non aver mai riportato condanne di sorta. Lo stesso bando
imponeva però ai partecipanti al concorso, pena
l’esclusione, di dare al contempo contezza dei procedimenti
penali in atto –senza distinguere fra le pendenze in ragione
dell’addebito– ovvero a rappresentare di non averne: e qui
l’imputato introdusse un distinguo non pertinente, mirando a
nascondere una verità per lui scomoda.
Deve pertanto ritenersi ravvisabile un falso per omissione,
a nulla rilevando la circostanza della più o meno immediata
esclusione dell’imputato dal concorso giacché il delitto in
rubrica ha evidente natura di reato di pericolo: l’I. era
tenuto a comunicare tutti i carichi pendenti e –aggiungendo,
alla attestazione di non averne, una specificazione non
richiesta– realizzò il risultato di dire di non avere
pendenze con determinate caratteristiche, omettendo di
rappresentare (come gli era invece imposto di fare, ed
essendosi obbligato in tal senso sottoscrivendo un modello
che richiamava le previsioni in tema di dichiarazioni
sostitutive di atti notori) che ne aveva invece di altre.
La giurisprudenza di questa Corte ha già più volte affermato
che “la falsità ideologica può essere consumata anche
mediante un’attestazione incompleta, ogniqualvolta il
contenuto espositivo dell’atto sia, comunque, tale da far
assumere all’omissione dell’informazione, relativa ad un
determinato fatto, il significato di negazione della sua
esistenza” (Cass., Sez. V, n. 6244 del 14/01/2004,
Bongioanni, Rv 228077; v. anche, nello stesso senso, Cass.,
Sez. V, n. 18191 del 09/01/2009, De Donno).
In una fattispecie concreta relativa ad una pratica per
l’erogazione di contributi post-terremoto, dove era stata
attestata la pendenza di un’ordinanza di sgombero di un
immobile, senza aggiungere che la stessa era già stata
revocata, si è affermato che “integra il reato di falso
ideologico in atto pubblico la condotta del pubblico
ufficiale che, formando un’attestazione, tace dati la cui
omissione, non ultronea nell’economia dell’atto, produca il
risultato di una documentazione incompleta e comunque
contraria, anche se parzialmente, ai vero” (Cass., Sez.
VI, n. 21969 del 14/12/2012, Bardi, Rv 256544).
Ancor più di recente, è stato precisato che “la falsità
In atto pubblico può integrare il falso per omissione
allorché l’attestazione incompleta –perché priva
dell’informazione su un determinato fatto– attribuisca al
tenore dell’atto un senso diverso, cosi che l’enunciato
descrittivo venga ad assumere nel suo complesso un
significato contrario ai vero” (Cass., Sez. V, n. 45118
del 23/04/2013, Di Fatta, Rv 257549).
Nel caso oggi sub judice, solo in apparenza si
registra – piuttosto che l’omissione di una informazione
idonea a dare completezza all’atto -(Inserimento di una
informazione ulteriore, non conferente: come detto,
dichiarando di non avere “procedimenti penali in corso
che Impediscano la costituzione dei rapporto di lavoro con
amministrazioni pubbliche”, l’I. omise di attestare di
avere un carico pendente per abuso d’ufficio e turbata
libertà degli incanti, quando invece avrebbe avuto l’obbligo
di darne contezza (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 02.10.2014 n. 40982 -
link a http://renatodisa.com). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Divieto quota lite circoscritto.
L'argine si applica solo alle attività di tipo difensivo.
La Corte di cassazione ammette l'accordo del cliente con un
semplice consulente.
Il divieto del patto di quota lite si applica solo ai
difensori e non anche ai consulenti del lavoro che prestino
attività amministrativo-contabile volta all'accertamento del
diritto del cliente a godere di agevolazioni fiscali e al
recupero di eventuali somme indebitamente versate
all'erario.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione con la
sentenza
02.10.2014 n. 20839.
La vicenda controversa trae origine da un contratto
stipulato tra un consulente del lavoro e una società del
Mezzogiorno. In base all'accordo, il professionista si è
impegnato a verificare la presenza di eventuali indebiti
versati dalla società all'erario in rapporto
all'introduzione, per via normativa, di alcune agevolazioni
fiscali; la provvigione per l'attività in questione è stata
indicata nel 25% delle somme che il consulente avrebbe
recuperato in favore del cliente.
Ebbene, il professionista, nell'adempiere il suo incarico, è
riuscito a spuntare in favore della società una somma pari a
quasi un miliardo del vecchio conio. E tuttavia, quando è
stato il momento di dividere il «tesoretto», il cliente ha
eccepito un secco diniego. Di più, questi si è rivolto al
tribunale per ottenere l'annullamento del contratto di
consulenza a cagione del patto di quota lite in esso
previsto. Il giudice di primo grado, e tanto ha ritenuto
anche la Corte d'appello, ha accolto, non prima di averla
riqualificata, la domanda della società dichiarando la
nullità parziale dell'accordo, e riconoscendo al consulente
una somma di gran lunga inferiore all'originario 25% del
«recuperato». Secondo i giudici di merito, infatti, il
contratto intervenuto tra i litiganti si poneva in contrasto
col «divieto di patto di quota lite», di cui all'art. 2233,
terzo comma, del codice civile.
Il professionista si è dunque rivolto in ultima istanza alla
Corte di cassazione, ivi censurando l'apprezzamento svolto
dai giudici della Corte territoriale nella parte in cui
ebbero a ritenere applicabile al caso di specie il divieto
di strutturare il compenso in percentuale ai risultati
ottenuti.
La Corte, nell'accogliere il ricorso, ha fatto chiarezza sul
perimetro della norma, relegandone l'applicazione ai soli
difensori (avvocati, procuratori o patrocinatori legali) e,
comunque, ai soli soggetti che assumano le vesti di
difensore.
Spiegano i giudici come l'art. 2233, terzo comma, codice
civile, già prima dell'intervento di riforma a opera
dell'art. 2, comma 2-bis, del dl n. 223/2006, convertito in
legge n. 248/2006, disponeva che «gli avvocati, i
procuratori e i patrocinanti non possono, neppure per
interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto
relativo ai beni che formano oggetto delle controversie
affidate al loro patrocinio sotto pena di nullità e dei
danni». Secondo la Corte, la norma in questione riguardava e
riguarda tuttora «l'attività difensiva prestata nell'ambito
di una controversia, e cioè, non ogni attività
professionale, ma esclusivamente l'esercizio dell'attività
di patrocinio affidata a un difensore in una controversia o
in vista di una controversia».
La nullità (parziale) del contratto è stata concepita solo
per il «negozio bilaterale stipulato dal professionista
investito del patrocinio legale con il cliente relativamente
ai beni oggetto della controversia a lui affidata»; e
integra un'«eccezione al principio generale della libertà
negoziale», fondata sull'esigenza di assoggettare a
disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare
rapporto di opera intellettuale, al dichiarato intento di
tutelare l'interesse del cliente e la dignità e la moralità
della professione forense, la quale risulterebbe lesa tutte
le volte in cui nella convenzione concernente il compenso
possano ravvisarsi forme di partecipazione del
professionista agli interessi economici finali ed esterni
alla prestazione, giudiziale o stragiudiziale, richiestagli.
Da ultimo, la Corte non manca di fornire una precisazione
importante: è vero, come ha osservato la difesa della
società, che la norma in passato è stata ritenuta
applicabile anche a ragionieri e commercialisti; tuttavia,
in quelle ipotesi detti professionisti avevano pur sempre
svolto attività di patrocinio dinnanzi alle commissioni
tributarie.
Sulla base di quanto premesso, gli ermellini hanno ritenuto
legittima la clausola contrattuale inserita dal consulente
del lavoro proprio alla luce dell'attività prestata, di tipo
amministrativo-contabile e non già difensiva. Per l'effetto
hanno annullato la sentenza della Corte d'appello e
riconosciuto il pieno diritto del professionista a ricevere
il compenso nella sua interezza
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Si ha difformità totale di un manufatto edilizio
allorché i lavori riguardino un’opera diversa da quella
prevista dall’atto di concessione: diversa per
conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione;
mentre si configura la difformità parziale quando le
modificazioni incidano su elementi particolari e non
essenziali della costruzione e si concretizzino in
divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle
strutture essenziali dell’opera.
1. I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza.
2. Quanto al primo ed al secondo motivo di gravame, comune a
tutti i ricorrenti, essi possono essere congiuntamente
esaminati essendo tra loro strettamente collegati.
Per entrambi, le ragioni della doglianza fondano su un
ritenuto travisamento delle risultanze istruttorie e
l’evidente erronea applicazione della normativa di settore.
2.1. Si assume come, da un lato, la sanatoria non sia
affatto passata attraverso la completa eliminazione di quasi
tutte le opere difformi (posto peraltro che anche la
realizzazione dell’autorimessa interrata era consentita
dagli strumenti urbanistici vigenti nella zona attinta
dall’intervento edilizio e che il progetto di sanatoria ne
aveva previsto la demolizione, non anche la sanatoria,
soltanto per ragioni di opportunità e, in particolare, per
non affrontare le difficoltà relative all’impatto estetico
ambientale della rampa di accesso) con la conseguenza che la
Corte territoriale avrebbe errato nel non riconoscere
l’effetto estintivo ex articolo 45 TUE e come, dall’altro,
l’esame delle singole difformità contestate, pur senza voler
eludere il principio della valutazione unitaria
dell’intervento edilizio, avrebbe dovuto portare alla
conclusione che, tenuto conto della proiezione finalistica
nella quale si sarebbero dovuti valutare taluni interventi,
le singole difformità non fossero tali da comportare la
realizzazione di un edificio integralmente diverso da quello
assentito, con la conseguenza che gli interventi stessi
avrebbero dovuto essere valutati, anche alla luce della
legislazione regionale, come variazioni non essenziali del
progetto e suscettibili, come tali, di integrare, a tutto
concedere, la fattispecie di cui dell’articolo 44 TUE,
lettera a).
2.2. I riassunti rilievi, formulati nei medesimi termini con
l’atto di appello, sono stati disattesi dalla Corte
territoriale avendo l’istruttoria dibattimentale dimostrato
come il manufatto fosse stato realizzato in modo del tutto
diverso, per caratteristiche planivolumetriche rispetto a
quanto previsto dal permesso di costruire rilasciato
dall’autorità amministrativa nel 2006.
Ciò è stato ritenuto in considerazione del fatto che il
rialzamento del piano di calpestio ha comportato, di per sé
stesso, un consistente incremento volumetrico, rispetto a
quanto assentito dal Comune, incremento esattamente
quantificato in circa metri cubi 71 (per la precisione me.
70,96), pari al 40% del volume assentito (volume oggetto di
concessione: me. 168,56; volume realizzato: me. 239,52) ed
il dato probatorio e’ stato acquisito anche attraverso la
deposizione dell’arch. (OMISSIS), tecnico incaricato dal
proprietario (OMISSIS) di predisporre una seconda pratica di
sanatoria, dopo quella del 16 giugno 2009, dalla quale e’
scaturita l’imputazione di falsità ideologica ex articolo
481 c.p..
A questa difformità, come emerso sempre dalla deposizione
dell’arch. (OMISSIS), va aggiunta quella relativa alla
realizzazione dell’autorimessa seminterrata, estranea al
permesso di costruire, consistente in un locale esterno alla
sagoma del fabbricato, autonomamente accessibile (attraverso
una rampa carrabile), che aveva una superficie di circa 17
mq. per una altezza di m. 2,50 con conseguente ulteriore
volumetria non assentita di circa 40 me.
Altra difformità e’ stata desunta dalla chiusura della
loggia prevista sul fronte principale del fabbricato,
chiusura che ha inciso, secondo la Corte territoriale, non
soltanto sulla disciplina delle distanze ma anche sulla
sagoma e sui prospetti dell’immobile in corso di
realizzazione, prospetti che con detta trasformazione sono
stati modificati in modo sensibile.
Infine, è stata ritenuta pacifica la difformità relativa
alla realizzazione del manufatto in una posizione diversa,
sia pure di pochi metri, da quella prevista nel permesso di
costruire del 2006.
2.3. Al cospetto di tali complete valutazioni, pienamente
logiche e conformi alle risultanze di causa, supportate da
una doppia conforme decisione, la doglianza dei ricorrenti
circa l’illogicità della motivazione per travisamento delle
risultanze istruttorie difetta di qualsiasi fondamento e
ignora, per questa parte, che il giudizio di legittimità
rappresenta lo strumento di controllo della corretta
applicazione della legge sostanziale e processuale e non può
costituire un terzo grado di giudizio diretto alla
ricostruzione dei fatti oggetto di contestazione.
Peraltro i vizi logici devono essere manifesti, non potendo
essere ravvisati nel fatto che il ricorrente abbia ritenuto
non soddisfacenti le argomentazioni con le quali la sentenza
impugnata ha risposto ai rilievi formulati nei motivi di
gravame.
Questa Corte ha affermato che può aversi vizio di
travisamento della prova quando l’errore sia in grado di
disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo
illogica la motivazione e che questo può avvenire solo nei
casi in cui si introduce in motivazione un’informazione
rilevante che non esiste nel processo, oppure si omette la
valutazione di una prova decisiva ai fini della decisione
(Sez. 2 , n. 23419 del 23/05/2007, P.G. in proc. Vignaioli,
RV 236893; Sez. 1 , n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, RV
237207).
Nulla di tutto ciò è riscontrabile nell’apparato
argomentativo della Corte territoriale la cui motivazione si
segnala anche per la corretta applicazione della legge
sostanziale.
2.4. Sul punto, quanto alla doglianza circa la negata
valenza del permesso in sanatoria come causa estintiva del
reato urbanistico, la Corte di appello si è attenuta alla
giurisprudenza di questa Corte secondo la quale non
determina l’estinzione del reato edilizio, ai sensi del
combinato disposto del Decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, articoli 36 e 45, il rilascio
di un permesso di costruire in sanatoria con effetti
temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi
abusivi realizzati o, ancora, subordinato all’esecuzione di
opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli
elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali
presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la
loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Sez.
3 , n. 19587 del 27/04/2011, Montini ed altro, Rv. 250477).
Nella specie, il permesso di costruire in sanatoria è stato
concesso con specifiche prescrizioni, è poi pacifico che
l’autorimessa seminterrata, ipoteticamente sanabile, sia
stata esclusa dalla sanatoria stessa, essendone stata
prevista la demolizione e, a dimostrazione
dell’inammissibilità di una sanatoria parziale o
condizionata alla demolizione di una parte degli interventi,
la Corte di appello ha anche correttamente rilevato come,
dall’esame della pratica di sanatoria, anche altre opere
siano state sottratte all’accertamento di conformità essendo
stata prevista anche l’eliminazione dei muri di chiusura
della loggia e la risistemazione esterna del terreno, così
da incidere sull’altezza del piano di calpestio del
fabbricato rispetto al piano di campagna.
2.5. Corretto deve ritenersi anche l’approdo cui i Giudici
dell’appello sono pervenuti nel ritenere configurata la
fattispecie della difformità totale procedendo ad
valutazione concernente l’opera nel suo insieme e
stigmatizzando il contrario approccio pronosticato dai
ricorrenti e diretto a valutare singolarmente le varie
difformità parcellizzando l’esame critico degli interventi.
Dalla valutazione unitaria dell’immobile realizzato, la
Corte ha tratto corretto e logico argomento per desumere la
realizzazione di un organismo integralmente diverso da
quanto previsto nell’atto di assenso sul rilievo del
macroscopico incremento volumetrico comportante la
realizzazione di un immobile di dimensioni molto più ampie,
traslato sul terreno, con un’autorimessa seminterrata non
prevista dal permesso di costruire.
Il concetto della totale difformità è antitetico rispetto a
quello della parziale difformità e ciò giustifica il diverso
approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità,
che deve essere eseguita su base normativa, dell’una o
dell’altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un intervento
costruttivo, specificamente individuato, che, quantunque
contemplato dal titolo abilitativo, venga tuttavia
realizzato secondo modalità diverse da quelle fissate a
livello progettuale.
Il concetto di totale difformità presuppone invece un
intervento costruttivo che esclude una valutazione
frammentaria di esso e che perciò va riguardato
unitariamente e nel suo complesso posto che il Decreto del
Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 31,
descrive le opere eseguite in totale difformità dal permesso
di costruire come quelle “che comportano la realizzazione
di un organismo edilizio integralmente diverso per
caratteristiche tipologiche, planivolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso…”.
Come è stato esattamente evidenziato, l’articolo 31, comma
1, TUE richiama un concetto di “totale difformità”
ancorato, più che al confronto tra la singola difformità e
le previsioni progettuali dell’intervento edilizio, alla
comparazione sintetica tra l’organismo programmato nel
progetto assentito e quello che e’ stato realizzato con
l’intervento edilizio scaturito dall’attività costruttiva,
con la conseguenza che, mentre il metodo valutativo
utilizzabile per definire il concetto di “parziale
difformità” ha carattere analitico, quello destinato ad
accertare la “totale difformità” si fonda su una
valutazione di sintesi collegata alla rispondenza o meno del
risultato complessivo dell’attività edilizia rispetto a
quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali,
le uniche prese in considerazione in fase di assenso
amministrativo.
A tale significativa conclusione era infatti già pervenuta
la giurisprudenza di questa Corte quando, nel previgente e
non antitetico assetto normativo, aveva chiarito che si ha
difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori
riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di
concessione: diversa per conformazione, strutturazione,
destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità
parziale quando le modificazioni incidano su elementi
particolari e non essenziali della costruzione e si
concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non
incidenti sulle strutture essenziali dell’opera (Sez. 3, n.
1060 del 07/10/1987, dep. 30/01/1988, Ferrari Rv. 177490).
2.6. A questo punto, appare chiaro come sia del tutto
irrilevante il richiamo nelle doglianze dei ricorrenti alla
legislazione regionale per desumere, rispetto alle singole
difformità e non alle anomalie nel loro complesso, il
carattere di variazione non essenziale dei singoli
interventi (come ad esempio dell’autorimessa) e ciò sulla
base del disposto dell’articolo 32 TUE e del rinvio alla
legislazione regionale integrativa.
Nel caso di specie, attesa la clausola di salvezza posta in
apertura delle disposizione, l’articolo 32 TUE non è
applicabile stante la natura totale delle difformità
edilizie unitariamente riguardate e di conseguenza alcun
effetto giuridico produce la legislazione regionale nella
determinazione integrativa delle variazioni essenziali in
presenza appunto di conclamate totali difformità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.10.2014 n. 40541 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
In tema di gestione dei rifiuti, il reato di
abbandono incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari
di enti ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il
profilo della omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti
che hanno posto in essere la condotta di abbandono.
1. Il ricorso è manifestamente infondato e va, pertanto,
dichiarato inammissibile.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 3,
Sentenza n. 23971 del 25/05/2011 Ud. dep. 15/06/2011 Rv.
250485; Cass. pen. sez. 3 n. 6420 del 07.11.2007, dep.
11.2.2008) “il Decreto Legislativo n. 22 del 1997,
articolo 2, comma 3, già prevedeva la responsabilizzazione e
la cooperazione di tutti i soggetti “coinvolti”, a qualsiasi
titolo, nel ciclo di gestione non soltanto dei rifiuti ma
anche degli stessi “beni da cui originano i rifiuti” e il
Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 178, comma 3,
ha puntualmente ribadito il principio di
“responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti
coinvolti nella produzione, nella distribuzione,
nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i
rifiuti”.
Sul punto, pertanto, si è affermato (Sez. 3, 24.02.2004, n.
7746, Turati ed altro) che, in tema di gestione dei rifiuti,
le responsabilità per la sua corretta effettuazione, in
relazione alle disposizioni nazionali e comunitarie gravano
su tutti i soggetti coinvolti nella produzione,
distribuzione, utilizzo e consumo dei beni dai quali
originano i rifiuti stessi, e le stesse si configurano anche
a livello di semplice istigazione, determinazione,
rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli
illeciti. Il concetto di “coinvolgimento” trovava
specificazione nelle disposizioni poste dal Decreto
Legislativo n. 22 del 1997, articolo 10, ed attualmente
Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 188 (fatte
salve le ipotesi di concorso di persone nel reato), ma la
giurisprudenza di questa Corte Suprema ha specificato che
anche la mera osservanza delle condizioni di cui
all’articolo 10 non vale ad escludere la responsabilità dei
detentori e/o produttori di rifiuti allorquando costoro si
siano “resi responsabili di comportamenti materiali o
psicologici tali da determinare una compartecipazione, anche
a livello di semplice facilitazione, negli illeciti commessi
dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti” (vedi
Cass., Sez. 3, 06.02.2000, n. 1767, Riva). I principi sopra
richiamati risultano sostanzialmente ribaditi anche alla
luce del Decreto Legislativo 03.12.2010, n. 205 (articoli 2
e 16).
Come pure affermato in giurisprudenza (cfr. sentenza sez. 3
n. 23971/2011 cit.), non c’e’ dubbio che il reato di cui
all’articolo 256 cit., comma 1, non sia un reato proprio non
dovendo necessariamente essere integrato da soggetti
esercenti professionalmente l’attività di gestione rifiuti,
dal momento che la norma fa riferimento a “chiunque”.
E’ altrettanto indubitabile, però, che in presenza di una
attività di gestione svolta da un’impresa vigono i principi
sopra richiamati in ordine alla individuazione dei soggetti
responsabili.
Si è così affermato che “in tema di rifiuti la
responsabilità per l’attività di gestione non autorizzata
non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza
e volontarietà della condotta, potendo scaturire da
comportamenti che violino i doveri di diligenza per la
mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare
illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si
richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell’azienda”
(in applicazione di tali principi la Corte ha ritenuto "la
responsabilità dei titolari di una impresa edile produttrice
di rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi,
con automezzo di proprietà della società, in assenza delle
prescritte autorizzazioni” cfr. Cass. pen. sez.
3/11.12.2003, n. 47432).
Anche successivamente e’ stato ribadito (cfr. Cass. pen.
sez. 3, n. 24736 del 18.05.2007) che “in tema di gestione
dei rifiuti, il reato di abbandono incontrollato di rifiuti
e’ ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai
responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa
vigilanza sull’operato dei dipendenti che hanno posto in
essere la condotta di abbandono (fattispecie riguardante un
autocarro adibito al trasporto di rifiuti abbandonati in
modo incontrollato e condotto da un dipendente del titolare
dell’impresa)” (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.10.2014 n. 40530 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Per aversi disturbo delle occupazioni e del
riposo delle persone punito ai sensi dell’art. 659 c.p. è
necessario che i rumori, gli schiamazzi e le altre fonti
sonore indicate nella norma superino la normale
tollerabilità ed abbiano attitudine a disturbare un numero
indeterminato di persone.
Il ricorso, risultato fondato, deve, pertanto, essere
accolto.
Osserva, infatti il Collegio che, per consolidata e
temporalmente radicata giurisprudenza di questa Corte, ai
fini della integrazione del reato di cui all’articolo 659
c.p., è necessario che i rumori, gli schiamazzi e le altre
fonti sonore indicate nella norma superino la normale
tollerabilità ed abbiano, anche in relazione allo loro
intensità, l’attitudine a propagarsi ed a disturbare un
numero indeterminato di persone, e ciò a prescindere dal
fatto che, in concreto, alcune persone siano state
effettivamente disturbate; invero, trattandosi di reato di
pericolo, è sufficiente che la condotta dell’agente abbia
l’attitudine a ledere il bene giuridico protetto dalla norma
incriminatrice, ed è indifferente che la lesione del bene si
sia in concreto verificata (Corte di cassazione, Sezione 1
penale, 07.06.1996, n. 5714).
Come è stato più di recente rilevato da questa Corte,
l’elemento essenziale della fattispecie di reato di disturbo
delle occupazioni o del riposo delle persone è l’idoneità
del fatto ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di
persone e non già l’effettivo disturbo arrecato alle stesse
(Corte di cassazione, Sezione 1 penale, 07.01.2008, n. 246).
Deve, peraltro, osservarsi che il reato in questione, pur
essendo caratterizzato, come sopra evidenziato, dal fatto di
essere un reato di pericolo, e’, tuttavia, un reato di
pericolo concreto, nel senso che, sebbene non sia necessaria
ai fini della integrazione della fattispecie penale la
concreta lesione del bene interesse protetto dalla norma
incriminatrice –da individuarsi nel diritto alla quiete
nelle proprie occupazioni ed al riposo di una pluralità
tendenzialmente ampia ed indeterminata di soggetti e non
solo del singolo e ristretto gruppo di individui che per
avventura si trovino a soggiornare nei pressi del luogo dal
quale originano gli schiamazzi, i rumori o comunque le
emissioni sonore di cui alla predetta norma– è, tuttavia,
necessario che siffatta idoneità potenziale alla lesione di
una indeterminata pluralità di persone si presenti e sia
dimostrata in termini di concreta sussistenza.
E’ di tutta evidenza che tale dimostrazione, oltre a poter
essere data attraverso misurazioni strumentali che, per la
loro obbiettiva pregnanza, potranno essere di per sé
indicative della idoneità della fonte sonora a diffondersi
in termini di intollerabilità, presso un numero imprecisato
di soggetti, potrà essere offerta attraverso la analisi di
diversi dati fattuali, quali la ubicazione della fonte
sonora, in particolare con riferimento al fatto se la stessa
si trovi in un luogo isolato ovvero densamente abitato;
l’esistenza o meno di un rilevante rumore di fondo che elida
in misura più o meno significativa l’idoneità a diffondere i
suoi effetti propria della fonte sonora oggetto della
ipotesi accusatoria; il fatto che si tratti di una emissione
costante ovvero ripetuta, nel qual caso se siffatta
ripetizione è soggetta a periodi costanti, più o meno brevi,
ovvero se sia occasionale e sporadica.
E’ sulla base dell’analisi di questi elementi, ed altri di
tale genere che sarà compito del giudice del merito di volta
in volta enucleare attraverso l’esame del caso di specie,
che e’ possibile verificare nel concreto l’attitudine,
ancorché solo potenziale, della fonte sonora ad arrecare,
oltre il limite della normale tollerabilità, la lesione
della quiete e del riposo di un numero indeterminato di
persone, rimanendo, invece, eventualmente confinata nel
diverso ambito dell’illecito civile, l’ipotesi in cui la
lesione dei predetti beni concerna una ridotta ed
numericamente ben individuata categoria di soggetti.
A tal proposito è stato rilevato che significativo indice di
rilevazione della predetta potenziale idoneità lesiva è dato
dalla incidenza del fenomeno “in rapporto alla media
sensibilità del gruppo sociale in cui (esso) si verifica,
mentre sono irrilevanti e di per sé insufficienti le
lamentele di una o più singole persone” (Corte di
cassazione, Sezione 3 penale, 31.01.2006, n. 3678).
Nel caso di specie la sentenza impugnata ha fatto derivare
la configurabilità del reato esclusivamente ed
apoditticamente, nella affermata assenza della necessità di
procedere a misurazioni strumentali, dal fatto che presso il
cortile della imputata soggiornasse un solo cane –peraltro
di taglia e razza imprecisata, sebbene sia di comune
esperienza il fatto che la intensità, e pertanto, la
attitudine ad arrecare molestia, dei latrati di un cane sia,
di regola, direttamente rapportabile alla sua stazza– il
quale usava abbaiare al passaggio sulla via di persone o di
altri animali.
La inadeguatezza della motivazione della impugnata sentenza
emerge in tutta la sua chiarezza ove si rifletta sul dato
che in essa non è affatto chiarito se, oltre alla abitazione
del querelante-parte civile, ci fossero, limitrofe al
cortile della (OMISSIS), altre abitazioni (sulla esigenza,
ai fini della integrazione del reato, che il disturbo non
riguardi la sola abitazione immediatamente limitrofa a
quella ove e’ ubicata la fonte sonora, ma incida su un
ambito più ampio, si veda, decisa prima della presente
sentenza, sebbene con motivazioni pubblicate
successivamente, Corte di cassazione, Sezione 3 penale,
05.06.2014, n. 23529), quale fosse, ovviamente anche solo in
termini di assoluta, ma significativa, approssimazione, la
stessa estensione di tale cortile, dato anch’esso certamente
non trascurabile ai fini della valutazione della efficacia
lesiva dei rumori che dall’interno di esso provenivano, né,
infine, è dato conto del fatto se la via sulla quale
affacciava tale cortile era o meno caratterizzata da un
frequente transito, posto che, essendo i latrati del cane
motivati dal passaggio di individui, umani o animali, nei
pressi di tale cortile, la loro reiterazione nel tempo non
doveva essere indipendente dal numero e dalla frequenza di
detti passaggi.
In sostanza nella sentenza impugnata non e’ stata fatta
alcuna obbiettiva vantazione sulla entità del fenomeno
rumoroso, in relazione alla media sensibilità del gruppo
sociale di riferimento, ne’ sulla esistenza di un concreto
superamento dei limiti della normale tollerabilità e sulla
potenziale idoneità dei rumori a disturbare un numero
indeterminato di persone, delle quali è, anzi, in maniera
del tutto immotivata stante la apparente assenza di altre
lamentele oltre a quella del querelante, affermata la
derivante avvenuta “esasperazione”.
Il Tribunale si è, infatti, limitato ad asseverare le
indicazioni rivenienti dalla, unica, denunzia-querela
presentata dalla parte civile, attribuendo ad essa, in
assenza di qualsivoglia elemento corroborante, piena
efficacia ai fini della affermazione della penale
responsabilità della imputata, senza che il contenuto di
tali dichiarazioni sia stato sottoposto a quella penetrante
verifica che, secondo l’insegnamento delle Sezioni unite di
questa Corte, ne consente la piana acquisizione come
elemento decisivo di prova (Corte di cassazione, Sezioni
unite penali, 24.10.2012, n. 41461).
La impugnata sentenza deve, pertanto, essere annullata, con
rinvio al Tribunale di Oristano che, nel motivare nuovamente
in diversa composizione la propria decisione, si atterrò
agli esposti principi di diritto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.09.2014 n. 40329 -
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APPALTI:
L’evento naturalistico del reato di turbata
libertà degli incanti può essere costituito oltre che
dall’impedimento della gara anche da un suo turbamento,
situazione quest’ultima che si verifica quando la condotta
fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla
regolare procedura della gara medesima, essendo irrilevante
che si produca un’effettiva alterazione dei risultati di
essa.
L’ipotesi di cui all’art. 353, comma 2, cod. pen.
(concernente la turbata libertà degli incanti commessa da
una persona che vi è “preposta dalla legge o
dall’autorità”), ha natura di circostanza aggravante del
reato, per la quale trova applicazione la disciplina
ordinaria del concorso di circostanze di cui all’art. 69
cod. pen..
2. In merito al primo motivo di doglianza, deve essere
evidenziato che, secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, l’evento naturalistico del reato di turbata
libertà degli incanti può essere costituito oltre che
dall’impedimento della gara anche da un suo turbamento,
situazione quest’ultima che si verifica quando la condotta
fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla
regolare procedura della gara medesima, essendo irrilevante
che si produca un’effettiva alterazione dei risultati di
essa (Cass. Sez. 6, n. 28970 del 24/04/2013, Sonn, Rv.
255625; Cass. Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami Rv.
254906; Sez. 6, n. 18161 del 05/04/2012, Rv. 252638).
Nella motivazione della ricordata pronuncia n. 28970/2013,
resa a seguito di ricorso dell’imputato in procedimento
connesso S.B. (che, diversamente da L. , optava per la
definizione del procedimento con il rito abbreviato), questa
Corte ha svolto le considerazioni di seguito testualmente
riportate, che il Collegio ritiene di condividere appieno e
di poter fare integralmente proprie, afferendo alla medesima
vicenda oggetto del presente procedimento.
“Va premesso in diritto che ai fini della integrazione
del reato di cui all’art. 353 cod. pen. si richiede (per
quello che qui interessa), la realizzazione di una condotta
collusiva, sempre che questa produca l’effetto di impedire o
di turbare l’andamento di una gara indetta da una pubblica
amministrazione. La fattispecie in esame potrebbe dunque
concepirsi come reato di pericolo solo dal punto di vista
secondo cui essa è integrata anche senza l’effettivo
conseguimento del risultato perseguito dai soggetti agenti
colludenti, essendo sufficiente che gli accordi collusivi
siano idonei a influenzare l’andamento della gara" (v.
tra le altre Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami, Rv.
254906; Sez. 6, n. 12298 del 16/01/2012, Citarella, Rv.
252555; Sez. 6, n. 6883 del 24/06/2011, Actis, n.m.); ma più
correttamente essa dovrebbe essere inquadrata nei reati di
evento (inteso in senso naturalistico) dovendo essere
accertato il verificarsi dell’impedimento della gara o del
suo turbamento, e quindi la potenziale incidenza di una
simile fraudolenta condotta sul futuro risultato della gara
(contra, ma senza considerazione del necessario elemento del
“turbamento” della gara, espressamente contemplato
dall’art. 353 cod. pen., Sez. 6, n. 20619 del 18/07/2012,
Mingoia, n.m.).
Per “collusione” –condotta che viene in rilievo nella
concreta fattispecie in esame deve intendersi
qualsiasi rapporto clandestino, intercorrente tra soggetti
privati in qualsiasi modo interessati alla gara o tra questi
e i preposti alla gara, diretto a influire sull’esito della
stessa (Sez. 6, n. 12298 del 16/01/2012, Citarella, cit.;
Sez. 6, n. 8443 del 08/05/1998, Misuraca, Rv. 212223).
Per “turbamento” –per quello che si è già notato deve
intendersi la influenza della condotta collusiva sulle
regolari procedure di gara, essendo irrilevante che il
risultato di essa sia o meno conforme a quello che si
sarebbe prodotto senza tali interferenze (v. anche Sez. 6,
n. 9845 del 16/04/1991, Sciuto, Rv. 188414), perché, come
riconosciuto dallo stesso giudice di primo grado, ciò che
conta ai fini della configurabilità del reato è “lo
sviamento del processo decisionale a individuazione del
vincitore”.
3. Ora, va premesso che nella specie non è stato ipotizzato
un effetto di “impedimento” della gara, ma solo un
suo “turbamento”, e che la condotta contestata, come
appena detto, è stata specificamente individuata in
un’attività collusiva (intercorrente tra il ricorrente e il
L. , esponente di una ditta concorrente), esclusa dunque –e
comunque non contestata– ogni altra condotta riconducibile
genericamente al genus dei “mezzi fraudolenti”
(quali minacce, doni, promesse, o altro); e va ribadito,
sulla scorta della costante giurisprudenza, che per la
realizzazione del reato non occorre che la condotta
collusiva produca effettivamente un risultato di alterazione
dei risultati della gara, bastando che questa sia stata “turbata”
nel suo regolare svolgimento. Va dunque verificato se sulla
base dei dati di fatto accertati dai giudici di merito si
sia effettivamente verificata una condotta collusiva, intesa
come condotta concretamente idonea a influire sull’esito
della gara, e, in secondo luogo, se questa abbia prodotto il
contestato turbamento; effetto affermato nella sentenza
impugnata e negato dal ricorrente, il quale per il vero
contesta addirittura che sia stata realizzata una condotta
collusiva, inserendo le iniziative del L. nell’alveo di un
concetto di assoluta legittimità (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 29.09.2014 n. 40304 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’unico caso in cui il mutamento della
destinazione d’uso senza opere può essere liberamente
consentito è quello in cui vi sia una totale omogeneità tra
la categoria urbanistica di partenza e quella conseguente al
mutamento stesso, in modo che non vi sia alcun aggravamento
del carico urbanistico esistente.
Venendo ora all’esame del primo motivo di ricorso –relativo
al fatto se l’uso foresteria costituisse un mutamento d’uso
da alberghiero ad abitativo e se tale mutamento d’uso fosse
compatibile con le previsioni degli strumenti urbanistici
regionali e comunali– deve rilevarsi che lo stesso non è
fondato. Quanto alla compatibilità del mutamento d’uso con
la previsione degli strumenti urbanistici comunali, deve
farsi richiamo a quanto appena sopra rilevato.
Quanto al sistema normativo regionale, deve sottolinearsi
che lo stesso non contiene previsioni che si discostino dai
principi applicabili a livello nazionale, secondo cui il
mutamento di destinazione d’uso senza opere è assoggettato a
d.i.a. (ora s.c.i.a.) purché intervenga nell’ambito della
stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso
di costruire per le modifiche di destinazione che comportino
il passaggio di categoria o, se il cambio d’uso sia eseguito
nei centri storici, anche all’interno di una stessa
categoria omogenea (sez. 3, 13.12.2013, n. 5712/2014, rv.
258686).
Nella Regione Marche, la materia del mutamento della
destinazione d’uso nell’ambito di diverse categorie
urbanistiche – che implichi, in altri termini, una
variazione degli standard previsti dal Decreto Ministeriale
2 aprile 1968, n. 1444, è disciplinata dalla Legge Regionale
n. 14 del 1986, articoli 5 e 6 in senso conforme a quanto
previsto in materia dal Decreto del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, articolo 32, comma 1, lettera
a).
Il richiamato Legge Regionale n. 14 del 1986, articolo 6
prevede, in particolare, che la variazione di destinazione
d’uso può essere consentita dai comuni attraverso la
predisposizione degli strumenti urbanistici in ambiti
determinati dalle singole zone previste dal Decreto
Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 2. E l’ulteriore
disciplina regionale si concentra sul profilo –diverso da
quello in esame– del mutamento di destinazione d’uso
attraverso la realizzazione di opere edilizie, che è
comunque regolamentato in modo analogo (v., in particolare,
la Legge Regionale n. 22 del 2009, articolo 2, comma 4, più
volte modificato, il quale, in tutte le sue diverse
formulazioni, richiama anche per tale fattispecie, la
compatibilità con la destinazione di uso prevista dagli
strumenti urbanistici e il rispetto degli standard
urbanistici di cui al richiamato decreto ministeriale).
Quanto all’evoluzione della disciplina statale riguardante
la materia del cambio di destinazione d’uso di immobili o di
parti di immobili, è sufficiente fare richiamo alla
analitica disamina contenuta nella richiamata sentenza n.
5712 del 2014 (oltre che in sez. 3, 20.01.2009, n. 9894, rv.
243102).
Quanto ai principi attualmente applicabili, va comunque
ribadito che la ragione per la quale il cambio di
destinazione d’uso senza realizzazione di opere non
costituisce un’attività del tutto priva di vincoli risiede
nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le
regole generali finalizzate ad assicurare il corretto e
ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto
inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati della strumentazione urbanistica (Consiglio di
Stato, 25.05.2012, n. 759), potendo risultare pregiudicato
anche l’interesse patrimoniale dell’ente, perché gli
interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere il
rilascio dei titoli edilizi contro il pagamento di un minore
contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare
liberamente e gratuitamente la destinazione originaria senza
corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggiore
carico urbanistico.
Infatti, la destinazione d’uso individua il bene sotto
l’aspetto funzionale, in considerazione della
differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e
disciplinata dagli strumenti urbanistici in base a standard
diversi sotto il profilo qualitativo e quantitativo proprio
seconda della diversità delle destinazioni di zona. L’unico
caso in cui il mutamento della destinazione d’uso senza
opere può essere liberamente consentito è, dunque, quello in
cui vi sia una totale omogeneità tra la categoria
urbanistica di partenza e quella conseguente al mutamento
stesso, in modo che non vi sia alcun aggravamento del carico
urbanistico esistente.
Ed è evidente che la modificazione della destinazione d’uso
da alberghiera a foresteria non interviene affatto fra due
categorie urbanistiche omogenee, perché la locazione ad uso
foresteria rientra in tutto e per tutto nella destinazione
abitativa, pur rispondendo ad esigenze di destinazione
dell’immobile al temporaneo alloggio di soggetti diversi dal
conduttore.
Infatti, la distinzione fra locazione abitativa e locazione
ad uso foresteria fatta propria dalla disciplina civilistica
risponde ad esigenze di tipo sociale legate al “diritto
alla casa” e non assume alcuna rilevanza ai fini penali,
perché si tratta comunque in entrambi i casi di locazioni
finalizzate a soddisfare esigenze abitative che si
differenziano solo sul piano soggettivo, con identico carico
urbanistico: da un lato, le esigenze dello stesso
conduttore; dall’altro, le esigenze di ospiti o dipendenti
del conduttore (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2014 n. 39897 -
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INCARICHI
PROFESSIONALI: Avvocati, onorari ingabbiati.
Conta il valore della lite, non quello della domanda.
CASSAZIONE/ I giudici sottolineano l'orientamento
consolidato in giurisprudenza.
Circa le modalità di determinazione dell'onorario
dell'avvocato, il giudice deve rapportarsi al valore
effettivo della controversia e non a quello della domanda
azionata in giudizio.
Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. della Corte di
Cassazione, con
sentenza 25.09.2014 n. 20302.
I giudici di piazza Cavour hanno sottolineato come
l'applicazione del predetto criterio trova conforto
nell'orientamento consolidato della giurisprudenza di
legittimità, secondo cui, a differenza di quanto accade
nella liquidazione delle spese a carico della parte
soccombente (ai fini della quale il comma primo dell'art. 6
della tariffa forense allegata al dm n. 585/1994, impone di
avere riguardo al valore della causa determinato a norma del
codice di procedura civile, ferma restando, nei giudizi
aventi a oggetto il pagamento di somme o la liquidazione di
danni, la necessità di fare riferimento alla somma
attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella
domandata), nei rapporti tra l'avvocato e il cliente
sussiste sempre la possibilità di un concreto adeguamento
degli onorari al valore effettivo e sostanziale della
controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione
rispetto a quello determinato in base alle norme del codice
di rito.
Tale orientamento, a parere della Suprema corte «trova
giustificazione in un'interpretazione sistematica dei commi
secondo e quarto dell'art. 6, conforme al principio generale
di proporzionalità e adeguatezza degli onorari di avvocato
alla opera professionale effettivamente prestata, in virtù
della quale il richiamo della prima disposizione al valore
presunto a norma del codice di procedura civile, da
intendersi riferito a tutte le regole da quest'ultimo
dettate per la determinazione del valore della controversia,
non esclude l'attribuzione al giudice di una generale
facoltà discrezionale di adeguare la misura dell'onorario
all'effettiva importanza della prestazione (...).
L'esercizio della predetta facoltà non incontra un limite
nella diversità della funzione esercitata dal giudice
delegato al fallimento rispetto a quella svolta dal giudice
chiamato a decidere una controversia tra avvocato e cliente,
trattandosi in entrambi i casi di procedere alla
liquidazione del corrispettivo dovuto per l'attività svolta
in esecuzione del contratto di prestazione d'opera
professionale, per la quale la tariffa non prevede criteri
differenziati a seconda del soggetto in favore del quale sia
stata prestata la predetta attività»
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Dichiarazione inizio attività, abuso edilizio, ordine di
demolizione, termine.
L’Amministrazione comunale che, anziché
procedere, come dovrebbe, all’annullamento d’ufficio, ai
sensi dell’art. 21-nonies, L. n. 241 del 1990, della d.i.a.
ritenuta illegittima, provveda direttamente, senza alcuna
motivazione ulteriore rispetto alla ritenuta illegittimità
delle opere eseguite, ad ordinare la sospensione dei lavori
e la rimozione degli interventi realizzati, viola le
garanzie previste dall’art. 19, L. n. 241 del 1990 che, in
presenza di una d.i.a. illegittima, consente certamente
all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine
perentorio di cui all’art. 23, co. 6, d.P.R. n. 380 del
2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento)
cui la legge subordina il potere di annullamento d’ufficio
dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto,
oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei
lavori assentiti per effetto della d.i.a. ormai
perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al
privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque,
esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del
provvedimento repressivo.
---------------
(*) Riferimenti normativi: artt. 19, 21-nonies, L.
07.08.1990, n. 241; artt. 22, co. 2, lett. a)-23, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.09.2014 n. 4780 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
In tema di reati edilizi, la modifica di
destinazione d’uso è integrata anche dalla realizzazione di
sole opere interne come nel caso di realizzazione di
impianti tecnologici comportanti una modifica della
destinazione d’uso.
Tanto precisato, questa Corte ha affermato che, in materia
di impugnazioni cautelari reali, il ricorso per cassazione è
consentito solo per violazione di legge contro le ordinanze
emesse in materia di sequestro preventivo, con la
conseguenza che, in ordine a tali “regiudicande cautelari”,
la motivazione del provvedimento impugnato è sindacabile in
sede di legittimità esclusivamente nei casi in cui essa sia
del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista
dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda
processuale e l’itinerario logico seguito dal giudice nel
provvedimento impugnato.
Affinché sia pertanto predicabile la “violazione di legge”,
è necessario cioè che siano riscontrabili, nel provvedimento
impugnato ai sensi dell’articolo 325 cod. proc. pen., vizi
in iudicando o in procedendo ovvero vizi della
motivazione così radicali da rendere l’apparato
argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto
mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza,
completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere
comprensibile l’iter logico seguito dal giudice (Sez. U, n.
25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692).
Nel caso di specie, la motivazione del tribunale
distrettuale non si sottrae alla censura consentita col
mezzo di impugnazione azionato (articolo 325 cod. proc. pen.)
ed il ricorrente fondatamente lamenta la mancanza assoluta
di motivazione, e dunque la violazione di legge, in presenza
di una ratio decidendi che ha eluso i punti decisivi
sulla cui base il Gip aveva ritenuto di configurare il
fumus commissi delicti.
Nessuna motivazione infatti sul mutamento della destinazione
d’uso in relazione agli aspetti fattuali della vicenda
enunciati nell’imputazione cautelare e tutti sintomatici di
un cambiamento della destinazione d’uso dei locali attinti
dall’intervento (per aumento di volume, di superficie, di
realizzazione di opere interne non consentite e
propedeutiche alla variazione dell’uso).
Si deve allora ricordare che questa Sezione ha chiarito che,
in tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d’uso
e’ integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne
come nel caso di mutamento in abitazione del sottotetto
mediante la predisposizione di impianti tecnologici (Sez. 3,
n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altri, Rv.
247919) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.09.2014 n. 37862 -
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PUBBLICO
IMPIEGO:
Pubblico ufficiale, costrizione, abuso di potere,
concussione, aggravante.
L'abuso è lo strumento attraverso il
quale l'agente pubblico innesca il processo causale che
conduce all'evento terminale: il conseguimento dell'indebita
dazione o promessa con la conseguenza che la condotta tipica
delle due figure criminose della concussione o della
induzione indebita non risiede, quindi, esclusivamente nella
costrizione o nella induzione bensì primariamente
nell'abuso, che è legato da nesso di causalità con lo stato
psichico determinato nel soggetto privato ed è idoneo, in
ulteriore sequenza causale e temporale, a provocare la
dazione o la promessa dell'indebito.
Ne consegue che è configurabile il reato di concussione
quando la costrizione del pubblico ufficiale si concretizzi
nel compimento di un atto o di un comportamento del proprio
ufficio, strumentalizzato per perseguire illegittimi fini
personali, mentre sussiste il delitto di estorsione
aggravata ai sensi dell'art. 61, n. 9 c.p. quando l'agente
ponga in essere, nei confronti di un privato, minacce
diverse da quelle consistenti nel compimento di un atto o di
un comportamento del proprio ufficio, sicché la qualifica di
pubblico ufficiale si pone in un rapporto di pura
occasionalità, avente la funzione di rafforzare la condotta
intimidatoria nei confronti del soggetto passivo
(1)
---------------
(*) Riferimenti normativi: artt. 61, n. 9, artt. 317 e
319-quater c.p.
(1) Cfr. Cass. Pen, SS.UU., sentenza 14.03.2014 n. 12228
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.09.2014 n. 37839 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
Il criterio della prevenzione, quale si evince
dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c., è
derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui
questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma
anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta
deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur
imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal
confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in
appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo
costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza
regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica
fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che,
tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha
anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal
confine.
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e
falsa applicazione degli articoli 872, 873 e 875 c.c. e del
regolamento edilizio del Comune di (OMISSIS) emanato
nell’anno 1955.
Adducono che “la circostanza che nella specie il
regolamento edilizio della (OMISSIS) del 1955, dopo la norma
posta dalla Corte genovese a fondamento della sentenza…,
prevedesse che “è permessa la costruzione a muro cieco sul
confine” impone di ricondurre la fattispecie nell’ambito di
applicazione del criterio della prevenzione” (così ricorso,
pag. 8), cosicché “l’attivita’ edilizia degli appellati
(OMISSIS) e (OMISSIS) sarebbe… legittima” (così ricorso,
pag. 8).
Il motivo è destituito di fondamento.
E’ bastevole, da un canto, reiterare gli insegnamenti di
questa Corte (il riferimento è a Cass. 11.08.1990, n. 8222),
alla cui stregua il criterio della prevenzione, quale si
evince dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c.,
è derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui
questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma
anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta
deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur
imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal
confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in
appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo
costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza
regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica
fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che,
tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha
anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal
confine.
E’ bastevole, dall’altro, evidenziare che i medesimi
ricorrenti riconoscono che il piano regolatore generale del
comune di (OMISSIS) –da applicare al caso di specie–
prefigurava la distanza di m. 4 dal confine ed ancora che è
fuor di discussione, siccome il secondo giudice ha
evidenziato, che “l’ampliamento –per una larghezza di cm.
192 dal filo del preesistente fabbricato– si spinge fino a
cm. 173 dal confine col terreno mappale 1237 degli attori”
(così sentenza d’appello, pag. 5) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 15.09.2014 n. 19408 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
L’art. 27 della L. n. 865 del 1971 affida la
gestione ai Comuni che devono recuperare i costi sostenuti
per gli espropri e le urbanizzazioni, sicché il contributo
dovuto non è calcolato sulla base delle tabelle, come assume
il giudice di primo grado, ipotesi che invece si ha per
l’intervento diretto collegato ad un permesso a costruire,
nel quale il Comune deve recuperare integralmente il costo
delle urbanizzazioni ovvero le opere realizzate dai privati
che vengono cedute all’Ente.
Il Comune deve recuperare dai privati gli esborsi affrontati
per l’esproprio delle aree e per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione.
Nella specie il contributo di urbanizzazione è commisurato
al costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi
concretamente nella zona, e differisce dal contributo da
pagare all’atto del rilascio della concessione di
costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un
corrispettivo delle spese che la collettività si addossa per
il conferimento al privato della facoltà di edificazione e
dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della
trasformazione.
Trattandosi di due istituti diversi ne derivano oneri
diversi, l’uno relativo al costo sostenuto per rendere
urbanizzata ed edificabile la singola area, l’altro relativo
ad un contributo, di carattere tributario volto alla
realizzazione del generale assetto urbanistico del
territorio comunale.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, invero, sancito
che il rimborso dei costi reali per le opere di
urbanizzazione realizzate dal Comune è previsto in diritto
di superficie di un lotto P.E.E.P ceduto o assegnato, ma non
come contributo per il rilascio della cessione edilizia, che
segue sempre i parametri tabellari (cfr. dec. n. 462 del
1997 cit.).
Il contributo per il rilascio della concessione edilizia
imposto dalla L. 28.01.1977 n. 10, commisurato agli oneri di
urbanizzazione, ha carattere generale, in quanto prescinde
totalmente dall’esistenza o meno delle singole opere di
urbanizzazione, ha natura di prestazione patrimoniale
imposta e viene determinato senza tener conto dell’utilità
che riceve il beneficiario del provvedimento di concessione
né delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione
delle opere di urbanizzazione relative alla concessione
assentita, mentre ha diversa natura il rimborso delle spese
di urbanizzazione effettivamente sostenute
dall’Amministrazione comunale, ai sensi dell’art. 35, XII
comma, L. 22.10.1971, n. 865, essendo rivolto a determinare
il prezzo di cessione ossia a reintegrare il Comune del
costo sostenuto per l’espropriazione, l’urbanizzazione e
l’ulteriore trasferimento dell’area.
Il motivo è fondato.
La norma regolamentare e la richiesta dell’amministrazione
sono legittime. Invero, l’art. 27 della L. n. 865 del 1971
affida la gestione ai Comuni che devono recuperare i costi
sostenuti per gli espropri e le urbanizzazioni, sicché il
contributo dovuto non è calcolato sulla base delle tabelle,
come assume il giudice di primo grado, ipotesi che invece si
ha per l’intervento diretto collegato ad un permesso a
costruire, nel quale il Comune deve recuperare integralmente
il costo delle urbanizzazioni ovvero le opere realizzate dai
privati che vengono cedute all’Ente.
Il Comune deve recuperare dai privati gli esborsi affrontati
per l’esproprio delle aree e per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione (cfr. Cons. St., Ad. Plen.,
16.12.1983 n. 26; Cons. St., sez. IV, 26.01.2009, n. 421;
Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n. 462; Cass. Civ., sez. I,
07.02.2007, n. 2706).
Nella specie il contributo di urbanizzazione è commisurato
al costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi
concretamente nella zona, e differisce dal contributo da
pagare all’atto del rilascio della concessione di
costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un
corrispettivo delle spese che la collettività si addossa per
il conferimento al privato della facoltà di edificazione e
dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della
trasformazione.
Trattandosi di due istituti diversi ne derivano oneri
diversi, l’uno relativo al costo sostenuto per rendere
urbanizzata ed edificabile la singola area, l’altro relativo
ad un contributo, di carattere tributario volto alla
realizzazione del generale assetto urbanistico del
territorio comunale (cfr. Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n.
462; Cons. St., sez. V, 26.07.1985, n. 263). La
giurisprudenza di questo Consiglio ha, invero, sancito che
il rimborso dei costi reali per le opere di urbanizzazione
realizzate dal Comune è previsto in diritto di superficie di
un lotto P.E.E.P ceduto o assegnato, ma non come contributo
per il rilascio della cessione edilizia, che segue sempre i
parametri tabellari (cfr. dec. n. 462 del 1997 cit.).
Il contributo per il rilascio della concessione edilizia
imposto dalla L. 28.01.1977 n. 10, commisurato agli oneri di
urbanizzazione, ha carattere generale, in quanto prescinde
totalmente dall’esistenza o meno delle singole opere di
urbanizzazione, ha natura di prestazione patrimoniale
imposta e viene determinato senza tener conto dell’utilità
che riceve il beneficiario del provvedimento di concessione
né delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione
delle opere di urbanizzazione relative alla concessione
assentita, mentre ha diversa natura il rimborso delle spese
di urbanizzazione effettivamente sostenute
dall’Amministrazione comunale, ai sensi dell’art. 35, XII
comma, L. 22.10.1971, n. 865, essendo rivolto a determinare
il prezzo di cessione ossia a reintegrare il Comune del
costo sostenuto per l’espropriazione, l’urbanizzazione e
l’ulteriore trasferimento dell’area (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.09.2014 n. 4687 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Vincoli paesistici, con condono procedura ordinaria.
I passaggi procedimentali del vincolo paesistico restano
quelli della procedura ordinaria. Soprattutto il vista del
condono. Nel periodo transitorio (fino al 31 dicembre 2009),
inoltre, questi si articolavano nel parere di compatibilità
espresso dagli uffici comunali (avente funzione di
autorizzazione paesistica postuma) e nel controllo di
legittimità della Soprintendenza.
A stabilirlo, i giudici
della I Sez. del TAR Lombardia-Brescia, con
sentenza
15.09.2014 n. 992.
I giudici bresciani hanno osservato che secondo un
orientamento giurisprudenziale (Tar Brescia, prima sezione,
04.10.2010, n. 3726) è necessario assicurare le garanzie
procedimentali, in particolare, per evitare annullamenti
adottati solo in via cautelativa nei casi dubbi (ad esempio,
a fronte di difficoltà di interpretazione dell'intervento
edilizio o per insufficienza della documentazione allegata),
ammettendo, parallelamente, la prova di resistenza prevista
dall'art. 21-octies, comma 2, secondo periodo della legge
241/1990.
Un altro orientamento (v. Cds Sez. VI, 09.07.2013 n.
3616), invece, sottolinea che il controllo di legittimità
esercitato dalla Soprintendenza ai sensi dell'art. 159, comma
3, del dlgs 42/2004 (nel regime transitorio) è rigidamente
contenuto nei termini assegnati e, dunque, incompatibile con
un'ampia interlocuzione con i privati. Questi ultimi sono
informati soltanto della trasmissione alla Soprintendenza
del provvedimento comunale contenente la valutazione
paesistica e, dunque, sanno che entro un breve termine vi
sarà certezza giuridica sull'ammissibilità (e nello
specifico sulla sanabilità) dell'intervento edilizio.
I giudici amministrativi lombardi hanno, inoltre,
evidenziato che «nel caso di abusi realizzati in aree
vincolate, l'art. 32, comma 1, della legge 28.02.1985
n. 47, subordina il condono al parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo». La
formula usata dal legislatore è generica, in quanto ha la
funzione di richiamare la disciplina di settore relativa a
ogni particolare tipologia di vincolo.
«Il fine della norma», continuano i giudici, «è
evidentemente quello di sottoporre le opere abusive a una
valutazione di compatibilità con i vincoli esistenti in una
determinata zona. L'esito favorevole di tale valutazione
implica il rilascio di un'autorizzazione postuma con effetto
sanante, ferma restando la necessità di versare le somme
stabilite dall'amministrazione a titolo di indennizzo per
l'originaria violazione del vincolo»
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordine di demolizione delle opere abusive è
sottratto alla regola del giudicato, sicché ne è sempre
possibile la revoca (in presenza di atti amministrativi
incompatibili con la sua esecuzione) ovvero la sospensione
(quando sia ragionevolmente prospettabile che, nell’arco di
tempi brevissimi, la P.A. adotterà un provvedimento
incompatibile con la demolizione).
Ne consegue che non è sufficiente a neutralizzarlo la
possibilità che in tempi lontani e non prevedibili potranno
essere emanati atti amministrativi favorevoli al condannato,
in quanto non è possibile rinviare a tempo indeterminato la
tutela degli interessi urbanistici che l’ordine di
demolizione mira a reintegrare.
1. Il ricorso e’ inammissibile per la genericità e la
manifesta infondatezza del motivo dedotto.
2. Il motivo di ricorso, sul presupposto della natura
amministrativa dell’ordine di demolizione, si diffonde
nell’analisi del rapporto di incompatibilità tra detto
ordine e provvedimenti della giustizia amministrativa
incompatibili con la sua esecuzione, evidenziando come la
pendenza del ricorso amministrativo diretto ad ottenere
l’annullamento del provvedimento di demolizione imponga al
giudice penale di sospenderne l’esecuzione o di revocarlo
nel caso di esito favorevole del giudizio promosso innanzi
alla giurisdizione amministrativa e censurando perciò
l’impugnata ordinanza emessa dalla Corte di appello di
Napoli di rigetto dell’istanza.
Sennonché’ il motivo di ricorso è del tutto disancorato
dalla ratio decidendi dell’impugnata ordinanza e non
attacca minimamente il punto della decisione con il quale la
Corte territoriale ha rigettato l’istanza.
Va allora ricordato come la Corte di appello abbia tenuto
ben presente la natura amministrativa dell’ordine di
demolizione ed i riflessi che su di esso possono scaturire
nell’ipotesi di impugnativa innanzi alla giurisdizione
amministrativa, dando atto come la ricorrente avesse
presentato ricorso al TAR Campania, chiedendo la sospensione
della ingiunzione amministrativa emessa in riferimento al
medesimo abuso edilizio già giudiziariamente accertato.
Ha tuttavia precisato come, in tema di reati edilizi,
l’ordine di demolizione si sottragga alla regola del
giudicato e tuttavia non è sufficiente a neutralizzarlo la
possibilità che in tempi lontani e non prevedibili potranno
essere emanati atti amministrativi favorevoli al condannato,
in quanto non è possibile rinviare a tempo indeterminato la
tutela degli interessi urbanistici che l’ordine di
demolizione mira a reintegrare ed ha aggiunto che, nel caso
di specie, il ricorso proposto innanzi alla giurisdizione
amministrativa è stato dichiarato perento, con la
conseguenza che non sussiste alcuna causa di incompatibilità
sopravvenuta tra l’ordine di demolizione emesso dal giudice
penale ed eventuali provvedimenti amministrativi non
allegati e di non prevedibile emissione.
Rispetto a ciò, la ricorrente nulla ha obiettato neppure con
riferimento alla perenzione del ricorso amministrativo.
Da un lato, quindi, il motivo di ricorso è aspecifico perché
non critica il punto centrale della ratio decidendi
dell’ordinanza impugnata, laddove è stato ribadito che non è
possibile rinviare sine die la tutela degli interessi
urbanistici, che l’ordine di demolizione mira a reintegrare,
quando non sia possibile prevedere che in tempo rapidi possa
intervenire una pronuncia in via amministrativa che si ponga
in insanabile contratto con la pronuncia penale, circostanza
peraltro da escludere in considerazione dell’intervenuta
perenzione del ricorso amministrativo, e, dall’altro, è
manifestamente infondato perché la Corte del merito
nell’affermare il richiamato principio di diritto si e’
uniformata alla consolidata giurisprudenza di questa Corte
secondo cui l’ordine di demolizione delle opere abusive è
sottratto alla regola del giudicato, sicché ne è sempre
possibile la revoca (in presenza di atti amministrativi
incompatibili con la sua esecuzione) ovvero la sospensione
(quando sia ragionevolmente prospettabile che, nell’arco di
tempi brevissimi, la P.A. adotterà un provvedimento
incompatibile con la demolizione).
Ne consegue che non è sufficiente a neutralizzarlo la
possibilità che in tempi lontani e non prevedibili potranno
essere emanati atti amministrativi favorevoli al condannato,
in quanto non è possibile rinviare a tempo indeterminato la
tutela degli interessi urbanistici che l’ordine di
demolizione mira a reintegrare (ex multis, Sez. 3, n.
38997 del 26/09/2007, Di Somma, Rv. 237815) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.09.2014 n. 37473 -
link a http://renatodisa.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Sul
piano normativo ai fini dell’art. 323 c.p. rileva la palese
violazione dell’art. 97 Cost. nella parte immediatamente
precettiva, che impone, come si è innanzi sottolineato, a
ogni funzionario pubblico, nell’esercizio delle proprie
funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce
per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti
vantaggi patrimoniali ovvero per realizzare intenzionali
vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni,
come quelli che, secondo la motivata ricostruzione dei
giudici del merito, hanno caratterizzato la vicenda in
questione ad opera dell’imputato.
Sono infondati anche gli altri tre motivi.
Il primo motivo è infondato perché risulta in diritto
corretta la deliberazione d’appello che, dopo aver
attribuito a mero sviamento del potere lo spostamento del M.
ad altro ufficio, lo ha giudicato per sé idoneo ad integrare
la violazione di legge con diretto riferimento al precetto
posto dall’art. 97 Cost. Sul punto, questa Corte condivide e
conferma le ragioni in diritto già con esemplare chiarezza
esposte, tra le altre (v. anche Sez. 6 sent. 12370/2013), in
Sez.6 sent. 34086/2013: “é vero che, per effetto delle
modifiche introdotte dalla L. 16.07.1997, n. 234, art. 1, la
disposizione de qua è stata formulata in termini di maggiore
tassatività, sì da limitare i rischi di letture esegetiche
arbitrarie. Ma è anche vero che, per un verso, il
legislatore della novella non ha inteso limitare la portata
applicativa dell’art. 323 c.p. ai casi di violazione di
legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le
altre situazioni che integrano un vizio dell’atto
amministrativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di
potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva
distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che
avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere,
riconoscibili se il potere pubblico è stato esercitato al di
fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione" (in
questo senso Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi, Rv.
251498).
E che, per altro verso, il legislatore della riforma ha
voluto, comunque, garantire un’adeguata tutela
dell’interesse giuridico protetto in relazione a tutte
quelle condotte che si pongono in contrasto con disposizioni
di legge o di regolamento a contenuto precettivo, con
esclusione, perciò, delle sole disposizioni che si limitano
ad enunciare principi o valori. In tale ottica, secondo
l’orientamento oramai maggioritario di questa Corte il
requisito della violazione di norme di legge ben può essere
integrato anche solo dall’inosservanza del principio
costituzionale di imparzialità della Pubblica
Amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di
ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al
pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una
precisa regola di comportamento di immediata applicazione.
Anche nell’art. 97 Cost., “che pur detta principi di
natura programmatica, è individuabile un residuale
significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione
amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per il
reato di abuso d’ufficio. L’imparzialità a cui fa
riferimento l’art. 97 Cost. consiste, infatti, nel divieto
di favoritismi, nell’obbligo cioè per la Pubblica
Amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di
interessi tutelati alla stessa maniera, conformando
logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle
differenziate posizioni soggettive. In sostanza, il
principio d’imparzialità, se riferito all’aspetto
organizzativo della Pubblica Amministrazione, ha certamente
una portata programmatica e non rileva ai fini della
configurabilità del reato di abuso d’ufficio, in quanto
detto principio generale deve necessariamente essere mediato
dalla legge di attuazione; lo stesso principio, invece, se
riferito all’attività concreta della Pubblica
Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere
favoritismi e di non privilegiare situazioni personali che
confliggono con l’interesse generale della collettività,
assume i caratteri e i contenuti precettivi richiesti
dall’art. 323 c.p., in quanto impone al pubblico ufficiale o
all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di
comportamento di immediata applicazione” (così, tra le
molte, Sez. 6, n. 25180 del 12/06/2012, D’Emma, Rv. 253118;
Sez. 6, n. 27453 del 17/02/2011, Acquistucci, Rv. 250422;
Sez. 2, n. 35048 de. 10/06/2008, Masucci, Rv. 243183; Sez.
6, n. 25162 del 12/2/2008, Sassara, Rv. 239892)”.
Le considerazioni che precedono, prospettate in ipotesi di
condotta finalizzata a favoritismi o privilegi, rilevano
ovviamente anche per quelle finalizzate a realizzare
intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare
ingiusti danni (Sez. 6 sent. 42215/2012: “sul piano
normativo ai fini dell’art. 323 c.p. rileva la palese
violazione dell’art. 97 Cost. nella parte immediatamente
precettiva, che impone, come si è innanzi sottolineato, a
ogni funzionario pubblico, nell’esercizio delle proprie
funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce
per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti
vantaggi patrimoniali ovvero per realizzare intenzionali
vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni,
come quelli che, secondo la motivata ricostruzione dei
giudici del merito, hanno caratterizzato la vicenda in
questione ad opera dell’imputato”)
(Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 09.09.2014 n. 37373
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EDILIZIA
PRIVATA:
Sulla nozione di "edificio circostante".
Circa il D.M. n. 1444 del 1968
l’orientamento qui riproposto
dell’appellante, per cui nel conteggio in questione si debba
invece tenere conto delle altezze unicamente degli edifici
circostanti nel senso di limitrofi, è da ritenersi
preferibile.
In questo senso, anzitutto in applicazione del criterio
letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi), si
osserva che locuzione “edifici circostanti” indica
lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area
oggetto del permesso; per contro, se il pianificatore avesse
voluto riferirsi non solo agli edifici contornanti ma ad
ulteriori e più distanti edifici, avrebbe associato il
termine circostante ad ulteriori concetti come zona o fasce
territoriale o comparto ecc…, indicando peraltro anche
l’estensione del limite da prendere in considerazione, in
assenza del quale, da un punto di vista geometrico, tutto
può definirsi ad esso contornante rispetto al punto di
riferimento.
Ma anche la “ratio” che la giurisprudenza ha individuato in
norme del tipo in esame (e dalla quale il Collegio non
ravvisa ragioni per discostarsi) induce a privilegiare la
tesi sostenuta dall’appello. Ed invero la Sezione, in
analoga fattispecie, ha già affermato che “laddove lo
strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa
zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova
costruzione non possa superare la media dell'altezza di
quelli preesistenti circostanti, tale media non può che
limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a
rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di
qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad
evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze
marcatamente differenti, considerato, peraltro, che
l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti
costruttivi rientranti in zone di limitata estensione”.
L’appello è fondato.
Come riferisce lo stesso giudice di prime cure, in tema di
osservanza delle altezze il ricorso aveva sostenuto la
violazione dell’art. 62 delle N.T.A. del P.R.G., in quanto
tale norma prevedrebbe un’altezza massima degli edifici siti
in zona B2, che deve essere “pari all’altezza media degli
edifici esistenti al contorno e comunque non superiore a
13,50 ml.”.
Poiché detta tale misura media è di ml. 8,44, il permesso di
costruire impugnato avrebbe dovuto essere ritenuto
illegittimo per aver assentito un fabbricato di altezza pari
a ml. 11,88. In altri termini, secondo questa tesi, il
computo dell’altezza, deve prendere in considerazione gli
edifici limitrofi.
Sul punto il TAR ha invece ritenuto che detta disposizione “debba
essere interpretata conformemente alla fonte normativa
statale di riferimento: il D.M. n. 1444 del 1968, che, a sua
volta, proprio in relazione al concetto di “altezza media
degli edifici circostanti”, ha incluso, tra essi, non solo
quelli effettivamente confinanti con quello la cui altezza è
da misurare, ma anche quelli ubicati in prossimità dello
stesso”.
Ad avviso del Collegio, l’orientamento qui riproposto
dell’appellante, per cui nel conteggio in questione si debba
invece tenere conto delle altezze unicamente degli edifici
circostanti nel senso di limitrofi, è da ritenersi
preferibile. In questo senso, anzitutto in applicazione del
criterio letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi),
si osserva che locuzione “edifici circostanti” indica
lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area
oggetto del permesso; per contro, se il pianificatore avesse
voluto riferirsi non solo agli edifici contornanti ma ad
ulteriori e più distanti edifici, avrebbe associato il
termine circostante ad ulteriori concetti come zona o fasce
territoriale o comparto ecc…, indicando peraltro anche
l’estensione del limite da prendere in considerazione, in
assenza del quale, da un punto di vista geometrico, tutto
può definirsi ad esso contornante rispetto al punto di
riferimento.
Ma anche la “ratio” che la giurisprudenza ha
individuato in norme del tipo in esame (e dalla quale il
Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi) induce a
privilegiare la tesi sostenuta dall’appello. Ed invero la
Sezione, in analoga fattispecie, ha già affermato che “laddove
lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una
certa zona di piano, l'altezza massima degli edifici di
nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza
di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che
limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a
rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di
qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad
evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze
marcatamente differenti, considerato, peraltro, che
l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti
costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (così
Consiglio Stato sez. V, 21.10.1995, n. 1448)” (Cons. di
Stato, sez. IV, n. 3184/2013) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 09.09.2014 n. 4553 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
materia di distanze legali fra edifici, la sopraelevazione
di un edificio preesistente, determinando la modifica della
volumetria del fabbricato con aumento della sagoma di
ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta alla
disciplina sulle distanze legali in vigore al momento della
sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale normativa
sia diversa da quella prevista per la costruzione
originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in
allineamento con l’originaria costruzione, non trovando
applicazione il criterio della prevenzione, che –nel caso di
costruzione sul confine– impone a colui che edifica per
primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di
confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a
distanza non inferiore a quella legale, in modo da non
costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile
a linea spezzata.
Fondato e meritevole di accoglimento è il primo motivo
del ricorso principale.
È bastevole reiterare l’insegnamento di questa Corte alla
cui stregua, in materia di distanze legali fra edifici, la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando la
modifica della volumetria del fabbricato con aumento della
sagoma di ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta
alla disciplina sulle distanze legali in vigore al momento
della sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale
normativa sia diversa da quella prevista per la costruzione
originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in
allineamento con l’originaria costruzione, non trovando
applicazione il criterio della prevenzione, che –nel caso di
costruzione sul confine– impone a colui che edifica per
primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di
confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a
distanza non inferiore a quella legale, in modo da non
costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile
a linea spezzata (cfr. Cass. 12.01.2005, n. 400; cfr.
altresì Cass. 03.01.2011, n. 74, secondo cui in tema di
rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile
come nuova costruzione; ad essa, pertanto, è applicabile la
normativa vigente al momento della modifica e non opera il
criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni
originarie, in quanto sostituito dal principio della
priorità temporale correlata al momento della
sopraelevazione).
In questo quadro si da atto che i medesimi controricorrenti
riferiscono e non disconoscono che il “regolamento
edilizio del Comune di Castel S. Angelo, adottato dal Comune
con delibera Consiliare n. 62 del 14/1076 e approvato dalla
Regione Lazio con delibera n. 2452 del 06/06/1978… per la
zona C1 prevede una distanza di m. 5,00 dai confini interni
e di 10 m. dagli altri fabbricati con possibilità di
costruire in aderenza in presenza di una convenzione tra i
privati” (così memoria ex art. 378 c.p.c. diparte
controricorrente, pag. 5).
Ne discende, naturaliter, che del tutto infondato è
l’assunto degli stessi T.B. e R. secondo cui “potevano
senz’altro sopraelevare il proprio fabbricato… in aderenza
in un lotto nel quale si è già costruito sulla linea di
confine” (così memoria ex art. 378 c.p.c. di parte
controricorrente, pag. 6).
Fondato e meritevole di accoglimento è parimenti il
secondo motivo del ricorso principale.
Vero è, certo, che questa Corte spiega che la disposizione
normativa di cui all’art. 873 c.c., dettata in tema di
distanze tra fabbricati e diretta a tutelare interessi
generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitanti (tale,
pertanto, da consentire anche una più rigorosa valutazione
in sede locale), non ha alcuna correlazione con la norma di
cui all’art. 905 c.c., relativa alla distanza delle vedute e
volta, dal suo canto, a salvaguardare il fondo finitimo
dalle indiscrezioni attuabili mediante la realizzazione e
l’uso di un'”opera obbiettivamente destinata a tale scopo”
(cfr. Cass. 26.02.2001, n. 2765).
Nondimeno questa Corte esplicita altresì che siffatto
postulato esegetico opera a condizione che la maggior
distanza tra costruzioni imposta dai regolamenti locali non
sia riferita, specificamente, anche al confine, ma risulti
sancita in via assoluta, indipendentemente dalla
dislocazione delle costruzioni nei rispettivi fondi (cfr.
Cass. 26.02.2001, n. 2765, ove si soggiunge che, al di fuori
dell’ipotesi in cui la distanza sia riferita in modo
specifico anche al confine, la distanza delle vedute dal
confine stesso deve intendersi regolata, in via esclusiva,
dalla norma di cui all’art. 905 c.c., non potendo una norma
sulla distanza sui fabbricati incidere, ex se, su
quelle relative alle vedute; cfr. anche Cass. 27.01.1988, n.
741).
Ebbene si è premesso –in sede di disamina del primo motivo
del ricorso principale– che il regolamento edilizio del
Comune di Castel S. Angelo consente di costruire sul confine
esclusivamente in presenza di un accordo tra i privati
confinanti, sicché, in assenza, impone l’osservanza della
distanza di m. 5 dal confine.
In questi termini risulta del tutto ingiustificato l’assunto
di parte controricorrente secondo cui nella fattispecie non
è utilizzabile la diversa disciplina di cui all’art. 873
c.c. (cfr. memoria ex art. 378 c.p.c. di parte
controricorrente, pag. 7) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.09.2014 n. 18889
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AMBIENTE-ECOLOGIA: Non
risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del
riposo delle persone il gestore del locale che abbia
esercitato correttamente i poteri di controllo e,
ciononostante, non sia riuscito ad impedire gli schiamazzi
avvenuti all’esterno dell’esercizio commerciale.
3. Nella fattispecie in esame non è in discussione che gli
schiamazzi, le urla e le risate dei soggetti che
stazionavano all’esterno degli esercizi pubblici, ubicati in
via (omissis), fossero tali da disturbare, in orario
notturno, il riposo degli abitanti nella zona e quindi ad
offendere la “quiete pubblica”.
La particolarità della fattispecie è però rappresentata dal
fatto che il fumus del reato di cui all’art. 659 c.p.
non è stato ritenuto configurabile nei confronti dei
soggetti “autori” degli schiamazzi e dei rumori, ma a
carico dei gestori degli esercizi pubblici esistenti in via
(omissis).
3.1. La giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente
affermato che il gestore di un esercizio commerciale è
responsabile del reato di cui all’art. 659 comma 1 c.p. per
i continui schiamazzi e rumori provocati dagli avventori
dello stesso, con disturbo delle persone. Infatti la qualità
di titolare della gestione dell’esercizio pubblico comporta
l’assunzione dell’obbligo giuridico di controllare che la
frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in
condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di
sicurezza (cf. Cass. sez. 1 n. 16886 del 28.02.2003; Cass.
sez. 1 n. 17779 del 27.03.2008; Cass. sez. 1 n. 40004 del
30.09.2009). Perché, però, l’evento possa essere addebitato
al gestore dell’esercizio commerciale è necessario che esso
sia riconducibile al mancato esercizio del potere di
controllo e sia quindi collegato da nesso di causalità con
tale omissione.
Laddove gli schiamazzi o i rumori avvengano all’interno
dell’esercizio non c’è dubbio che il gestore abbia la
possibilità di assolvere l’obbligo di controllo degli
avventori, impedendo loro comportamenti che si pongano in
contrasto con le norme di polizia di sicurezza, ricorrendo,
ove necessario, al c.d. ius excludendi.
Si è così ritenuto che risponda del reato di cui all’art.
659 c.p. il gestore di un locale pubblico che ometta di
ricorrere “ai vari mezzi offerti dall’ordinamento come
l’attuazione dello ius excludendi e il ricorso all’autorità”
ad evitare “che la frequenza del locale da parte degli
utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste
a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica”
(Cass. pen. Sez. 1 n. 48122 del 03.12.2008; Cass. Pen. Sez.
6 n. 7980 del 24.05.1993). Se, invece, il disturbo del
riposo e delle occupazioni da parte degli avventori
dell’esercizio pubblico avvenga all’esterno del locale, per
poter configurare la responsabilità del gestore è necessario
provare, rigorosamente, che egli non abbia esercitato il
potere di controllo e che a tale omissione sia riconducibile
la verificazione dell’evento.
3.2. Come ha evidenziato il Tribunale, dagli atti non emerge
neppure il “fumus” del reato ipotizzato, essendo
stato soltanto accertato che, all’esterno dei locali,
stazionavano numerosi giovani che si trattenevano a
consumare bevande, dando luogo a “schiamazzi, urla e
risate” (pag. 6 ordinanza). Ed ha sottolineato il
Tribunale che i gestori non avevano alcun potere per
impedire siffatti schiamazzi sulla pubblica via o almeno a
persuadere i soggetti “a tenere un tono di voce più
moderato”, essendo essi “sforniti di qualsiasi potere
coercitivo in caso di rifiuto”.
Neanche con il ricorso vengono prospettati elementi che
possano ricondurre l’evento alla omissione dei controlli da
parte dei gestori. Il P.M., dopo aver ricordato che
rientrano tra i doveri dei predetti quello di “adottare
tutte le iniziative per lui possibili (ad impossibilia nemo
tenetur) per evitare l’insorgere della situazione
antigiuridica”, si limita ad affermare che una condotta,
rientrante nei poteri dei gestori, che “avrebbe potuto
avere effetti risolutivi” era rappresentata dalla
somministrazione delle bevande in bicchieri di vetro, vale a
dire in recipienti non da asporto (pag. 4 ricorso).
A parte il fatto che trattasi di circostanza fattuale non
emergente dagli atti, non risultando accertato se e a quali
avventori e da parte di quali gestori sia avvenuta la
somministrazione in bicchieri da asporto, del tutto
apoditticamente si assume il carattere risolutivo di tale
comportamento (peraltro lo stesso ricorrente fa ricorso al “condizionale”).
Inoltre, come evidenziano i ricorrenti nelle memorie
depositate, neppure si poteva addebitare ai gestori di non
aver fatto ricorso all’Autorità di P.S. per far cessare le
condotte poste in essere dagli avventori (peraltro
all’esterno del locale), avendo la Polizia municipale di
Firenze effettuato numerosi sopralluoghi e verifiche, senza
però impedire il perpetuarsi di quelle condotte o quanto
meno sanzionarle
(Corte di
Cassazione, Sez. III,
sentenza 05.09.2014 n. 37196
- link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai fini dell’osservanza delle distanze legali tra
costruzioni finitime, non assume rilevanza la circostanza
che il nuovo manufatto non risulti in regola con i permessi
amministrativi bensì il solo fatto che la violazione dei
limiti privatistici ad esso ricondotta sia effettivamente
sussistente.
1 – Con il primo motivo del ricorso della (OMISSIS) – che
trova perfetta corrispondenza argomentativa nel primo mezzo
del ricorso incidentale della società (OMISSIS) – si assume
la violazione o la falsa applicazione dei confini
applicativi dell’articolo 872 cod. civ. per aver ritenuto,
la Corte territoriale, da un lato di accogliere il terzo
motivo dell’appello incidentale della esponente –affermando
dunque l’assenza di violazione sulle distanze– salvo poi a
mantener ferma la decisione del Tribunale sul diverso
presupposto della mancata regolarizzazione amministrativa di
tali vedute; erroneamente poi la Corte romana avrebbe
accolto la domanda ripristinatoria che è concessa –a mente
del combinato disposto degli articoli 872 ed 873 cod. civ.–
solo per le violazioni delle distanze tra edifici; mentre le
irregolarità amministrative in edilizia potrebbero, se del
caso, determinare una tutela risarcitoria; dette
considerazioni sarebbero state ancor più evidenti nel capo
di decisione che aveva ordinato l’arretramento del parapetto
del proprio balcone, rispetto al quale, del pari, non era
stata riscontrata alcuna violazione delle distanze.
1a – Il motivo è fondato.
1.a.1 – Pur non essendo in rilievo la violazione
dell’articolo 872 cod. civ. –in quanto, sia pure
confusamente, la Corte di Appello pose a parametro normativo
della misurazione delle distanze l’articolo 905 cod. civ.- è
certo che la semplice mancanza di assenso amministrativo
all’apertura di vedute – che però siano state giudicate (non
importa se, correttamente o meno, mancando ricorso
incidentale sul punto), rispettose delle distanze legali-
non incide sulla legittimità dell’opera con riferimento al
diritto del confinante; le osservazioni contenute nel
controricorso del (OMISSIS) in merito alla sussistenza della
violazione delle distanze –data per accertata come pacifica
a fol 5 del controricorso– non sono idonee ad incidere sulle
divergenti conclusioni della Corte di Appello, in quanto non
assumono la struttura di un motivo di ricorso incidentale
secondo i parametri indicati dall’articolo 366 c.p.c.; ad
identiche conclusioni si deve pervenire in merito alle
articolate contestazioni contenute ai foll 8-10 dello stesso
controricorso in merito ai criteri di calcolo delle distanze
tra le finestre ed il balcone rispetto al terrazzo
sottostante (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.09.2014 n. 18689 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sul piano penale è soltanto l’elemento oggettivo
della strumentalità funzionale del nuovo immobile rispetto a
quello esistente che rileva per stabilire il concetto di
pertinenza valido ai fini urbanistici.
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Con logica ed adeguata motivazione, priva di vizi logici
e pienamente rispondente alle risultanze processuali, la
Corte territoriale ha escluso che le opere realizzate (un
bagno ed un forno) fossero al servizio di una preesistente
baracca di lamiera, osservando come, dai rilievi fotografici
eseguiti nel corso del sopralluogo, fosse visibile la
presenza di una roulotte verso la quale confluivano i fili
di collegamento di un’antenna televisiva.
Da ciò si e’ logicamente desunto che la ricorrente stesse
attrezzando quell’apprezzamento in modo da potervi
risiedere, nonostante si trattasse di zona agricola non
suscettibile di essere adibita all’uso residenziale, per
avervi installato una roulotte, non necessitante di allacci
idrici stabili perché si era ricostruito il bagno, si era
realizzato un forno su una platea in cemento e tutto era
stato predisposto per dotarsi di quanto necessario per
vivere, permanentemente o anche solo transitoriamente, sul
posto.
Secondo la Corte di merito, si era dunque totalmente fuori
da una situazione a carattere pertinenziale, essendosi
realizzata una nuova opera che, unitamente all’installazione
della roulotte, era del tutto scollegata dalla fatiscente
baracca in lamiera, indicata come fabbricato di riferimento
delle supposte pertinenze, e si inquadrava nettamente in un
quadro residenziale, dovendosi escludere la natura
pertinenziale anche in considerazione del fatto che le
pertinenze non possono eccedere il 20% del volume
dell’edificio principale secondo la chiara disposizione del
Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001,
articolo 3, comma 1, lettera e) con la conseguenza che, i
tali casi, è richiesto il permesso di costruire.
Di ciò non solo non era stata fornita alcuna prova ma le
dimensioni del solo bagno (senza neppure calcolare il forno)
rendevano evidente, dai precisi e puntuali calcoli che la
Corte toscana ha riportato in sentenza, come si fosse
ampiamente superata la ricordata percentuale.
Del resto la ricorrente non ha sollevato alcuna obiezione al
riguardo, limitandosi ad invocare il disposto della Legge n.
84 del 1982, articolo 7, disposizione insuscettibile di
applicazione perché abrogata dal Decreto del Presidente
della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 136.
Va allora ricordato che rientrano nel concetto di pertinenza
–per la quale non è necessario il permesso di costruire–
soltanto le opere funzionalmente destinate al servizio
dell’edificio principale, sicché tra l’edificio originario e
la nuova opera deve sussistere un rapporto strettamente
necessario e consequenziale, ossia un vincolo di
strumentalità reale che non può quindi desumersi, a
differenza della nozione civilistica di pertinenza,
esclusivamente dalla destinazione soggettivamente data dal
proprietario o dal possessore.
Sotto tale specifico profilo è stato correttamente ritenuto
che, ai fini della normativa edilizia, la nozione di
pertinenza non è completamente sovrapponibile alla nozione
civilistica enunciata nell’articolo 817 c.c. richiedendosi
che le opere pertinenziali, oltre ad avere una propria
individualità fisica ed una precisa conformazione
strutturale, devono essere preordinate ad un’oggettiva
esigenza dell’edificio principale, così che la pertinenza
sia funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio di
esso, sia sfornita di un autonomo valore di mercato e sia
dotata di un volume minimo (ex articolo 3 TUE) tale da non
consentire, in relazione anche alle caratteristiche
dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e
diversa da quella della migliore utilizzazione dell’immobile
cui accede (Sez. 3, n. 18299 del 17/01/2003, Chiappalone, Rv.
224288).
Ne consegue che ciò che rileva è il nesso funzionale e
strumentale dell’immobile al servizio dell’edificio già
esistente, nel senso che l’opera nuova, oggettivamente, per
la sua normale natura e conformazione, non consente altra
destinazione che quella di essere adibita in modo durevole
al servizio della cosa principale. Sul piano penale, quindi,
è soltanto l’elemento oggettivo della strumentalità
funzionale del nuovo immobile rispetto a quello esistente
che rileva per stabilire il concetto di pertinenza valido ai
fini urbanistici (Sez. 5, n. 9133 del 06/08/1991. Palma ed
altro, Rv. 191191).
E’ del tutto eccentrica allora la tesi della ricorrente con
la quale insiste, al di là delle dimensioni volumetriche di
per sé già sufficienti per radicare l’abuso edilizio,
nell’attribuire una funzione pertinenziale ad opere del
tutto scollegate dal presunto edificio principale,
costituito da una baracca fatiscente ed insuscettibile di
porsi come edificio di riferimento che fosse idoneo a
stabilire un rapporto di durevole subordinazione degli
accessori rispetto al principale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.09.2014 n. 36709 -
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SICUREZZA
LAVORO:
Il Piano Operativo di Sicurezza (POS) è il
documento che il datore di lavoro è tenuto a redigere per
iniziare a operare in un cantiere esterno. Ogni impresa
esecutrice dovrà necessariamente preparare il proprio POS,
da considerarsi come piano complementare al Piano di
Sicurezza e di Coordinamento (PSC).
Per redigere un POS è necessario analizzare e valutare i
rischi per la salute e la sicurezza specifici per l’impresa
e per l’opera, rispetto a caratteristiche proprie del luogo,
alle modalità operative e all’utilizzo di attrezzature. Una
volta individuati i rischi è obbligatorio completare il
piano operativo di sicurezza con l’indicazione delle misure
di sicurezza da adottare nelle varie fasi lavorative.
Il datore di lavoro è tenuto a vigilare sulla sicurezza dei
lavori e sull’applicazione delle disposizioni prevista con
il piano di sicurezza nonché a coordinare gli interventi per
garantire le misure generali di sicurezza.
---------------
In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per la
progettazione, ai sensi del Decreto Legislativo n. 494 del
1996, articolo 4 ha essenzialmente il compito di redigere il
piano di sicurezza e coordinamento (PSC), che contiene
l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi, e
le conseguenti procedure, apprestamenti ed attrezzature per
tutta la durata dei lavori; diversamente, il coordinatore
per l’esecuzione dei lavori, ai sensi dell’articolo 5 cit.
Decreto Legislativo, ha i compiti:
(a) di verificare, con opportune azioni di coordinamento e
di controllo, l’applicazione delle disposizioni del piano di
sicurezza;
(b) di verificare l’idoneità del piano operativo di
sicurezza (POS), piano complementare di dettaglio del PSC,
che deve essere redatto da ciascuna impresa presente nel
cantiere;
(c) di adeguare il piano di sicurezza in relazione
all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche
intervenute, di vigilare sul rispetto del piano stesso e
sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le
singole lavorazioni.
Trattasi di figure le cui posizioni di garanzia non si
sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel
campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano
per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura
unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la
massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori.
3. Il ricorso nell’interesse di (OMISSIS) e’ infondato.
3.1. La Corte territoriale –misurandosi con le ragioni
dell’assoluzione e superandole in punto di fatto e di
diritto– ne ha affermato la corresponsabilità
nell’infortunio occorso allo (OMISSIS) ascrivendogli, quale
datore di lavoro, la omessa previsione – nella redazione del
piano di sicurezza – dei rischi connessi alla caduta di
oggetti all’interno della canalina, durante le lavorazioni
effettuate dai propri dipendenti, tra i quali, appunto,
l’infortunato.
3.2. Il Piano Operativo di Sicurezza (POS) è il documento
che il datore di lavoro è tenuto a redigere per iniziare a
operare in un cantiere esterno. Ogni impresa esecutrice
dovrà necessariamente preparare il proprio POS, da
considerarsi come piano complementare al Piano di Sicurezza
e di Coordinamento (PSC). Per redigere un POS è necessario
analizzare e valutare i rischi per la salute e la sicurezza
specifici per l’impresa e per l’opera, rispetto a
caratteristiche proprie del luogo, alle modalità operative e
all’utilizzo di attrezzature. Una volta individuati i rischi
è obbligatorio completare il piano operativo di sicurezza
con l’indicazione delle misure di sicurezza da adottare
nelle varie fasi lavorative. Il datore di lavoro è tenuto a
vigilare sulla sicurezza dei lavori e sull’applicazione
delle disposizioni prevista con il piano di sicurezza nonché
a coordinare gli interventi per garantire le misure generali
di sicurezza.
3.3. Ritiene la Corte che la natura ed il contenuto del
piano in questione, all’interno del costantemente affermato
obbligo generale di collaborazione antinfortunistica, fonda
la responsabilità del datore di lavoro in generale e del
ricorrente in particolare che aveva l’obbligo di prevedere i
rischi dei propri dipendenti connessi alla realizzazione
delle opere di saldatura secondo il concreto contesto e
andamento che essi assumevano.
3.4. Del tutto correttamente è stata esclusa la rilevanza
della posizione della (OMISSIS) spa nel contesto delle ditte
di primo o secondo livello, versandosi in una inadempienza
propria del datore di lavoro nella fase precedente a quella
esecutiva, profilo che ha fatto, altresì, correttamente
escludere la rilevanza della nomina di un addetto alla
sicurezza.
4. Il ricorso nell’interesse di (OMISSIS) è infondato.
4.1. Il primo e secondo motivo sono infondati.
4.2. In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per la
progettazione, ai sensi del Decreto Legislativo n. 494 del
1996, articolo 4 ha essenzialmente il compito di redigere il
piano di sicurezza e coordinamento (PSC), che contiene
l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi, e
le conseguenti procedure, apprestamenti ed attrezzature per
tutta la durata dei lavori; diversamente, il coordinatore
per l’esecuzione dei lavori, ai sensi dell’articolo 5 cit.
Decreto Legislativo, ha i compiti:
(a) di verificare, con opportune azioni di coordinamento e
di controllo, l’applicazione delle disposizioni del piano di
sicurezza;
(b) di verificare l’idoneità del piano operativo di
sicurezza (POS), piano complementare di dettaglio del PSC,
che deve essere redatto da ciascuna impresa presente nel
cantiere;
(c) di adeguare il piano di sicurezza in relazione
all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche
intervenute, di vigilare sul rispetto del piano stesso e
sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le
singole lavorazioni.
Trattasi di figure le cui posizioni di garanzia non si
sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel
campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano
per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura
unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la
massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori(Sez. 4, n.
18472 del 04/03/2008, Bongiascia, Rv. 240393); ancora, con
riferimento alle attività lavorative svolte in un cantiere
edile, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori e’
titolare di una posizione di garanzia che si affianca a
quella degli altri soggetti destinatari della normativa
antinfortunistica, in quanto gli spettano compiti di “alta
vigilanza”, consistenti:
a) nel controllo sulla corretta osservanza, da parte delle
imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza
e di coordinamento nonché sulla scrupolosa applicazione
delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei
lavoratori;
b) nella verifica dell’idoneità del piano operativo di
sicurezza (POS) e nell’assicurazione della sua coerenza
rispetto al piano di sicurezza e coordinamento;
c) nell’adeguamento dei piani in relazione all’evoluzione
dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute,
verificando, altresì, che le imprese esecutrici adeguino i
rispettivi POS (Sez. 4, n. 44977 del 12/06/2013, Lorenzi e
altri, Rv. 257167); infine, il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori ha non soltanto compiti organizzativi e di
raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione
dell’opera, ma deve anche vigilare sulla corretta osservanza
delle prescrizioni del piano di sicurezza (Sez. 4, n. 32142
del 14/06/2011, Goggi, Rv. 251177).
4.3. La sentenza impugnata –misurandosi con le ragioni
dell’assoluzione e superandole in punto di fatto e di
diritto– si è posta nell’alveo di legittimità richiamato
affermando la corresponsabilità del ricorrente
nell’incidente occorso al lavoratore dovendosi escludere che
la sola segnalazione del 18.08.2006 alla (OMISSIS) in ordine
alle inadeguatezze dei ponteggi rispetto ai pericoli di
caduta dall’alto, esauriva gli obblighi gravanti nei suoi
confronti, dovendosi ricomprendere anche quello della
verifica dell’effettiva e tempestiva predisposizione dei
dispositivi idonei ad evitare la caduta degli oggetti
dall’alto, nei tempi dallo stesso indicati, e dunque prima
dell’accesso degli operai di (OMISSIS) e (OMISSIS) (Corte
di Cassazione, Sez. feriale,
sentenza 01.09.2014 n. 36510 -
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SICUREZZA
LAVORO: Nella
materia della sicurezza del lavoro e della prevenzione
infortuni, la norma dettata dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art.
7, (ora D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26) ha la funzione di
individuare l’ipotesi in cui il committente si debba
ritenere corresponsabile con l’appaltatore per la violazione
di norme antinfortunistiche, nell’ottica di rafforzare la
tutela dei beni giuridici della vita e della salute del
lavoratore, non potendosi ritenere corretta
l’interpretazione secondo la quale la verifica in merito
all’idoneità tecnico-professionale debba intendersi limitata
alle competenze tecniche dell’impresa appaltatrice.
1.1. La prima censura concerne l’interpretazione della norma
dettata in materia antinfortunistica da Decreto Legislativo
n. 626 del 1994, articolo 7, che, nella versione vigente
all’epoca del fatto, prevedeva che il datore di lavoro, in
caso di affidamento dei lavori all’interno dell’azienda,
ovvero dell’unità produttiva, ad un’impresa appaltatrice
verificasse, anche attraverso l’iscrizione alla Camera di
Commercio, industria e artigianato, l’idoneità
tecnico-professionale dell’impresa appaltatrice in relazione
ai lavori da affidare in appalto.
Secondo il ricorrente, tale obbligo di verifica non si
estenderebbe ai profili concernenti la sicurezza dei
lavoratori, sia perché la stessa norma prevede uno specifico
obbligo di informazione gravante sul committente in materia
di sicurezza, sia perché il richiamo all’iscrizione alla
Camera di Commercio riguarda documenti che nulla hanno a che
vedere con la sicurezza.
1.2. La Corte di Appello, richiamando la motivazione del
primo giudice, con particolare riferimento alla posizione di
(OMISSIS), al quale era contestata la violazione del citato
Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 7, per non
avere compiutamente verificato l’idoneità
tecnico-professionale dell’impresa appaltatrice in relazione
ai lavori affidati in appalto, ha affermato che non potesse
che pervenirsi alla conferma della sentenza di primo grado
in quanto era emerso che l’organizzazione della società
croata fosse approssimativa, che lo stesso imputato fosse a
conoscenza delle modalità con le quali “si lavora in
(OMISSIS)”, che la (OMISSIS) tp non solo non aveva
nominato il responsabile del servizio di prevenzione né
elaborato un adeguato documento di valutazione dei rischi,
ma aveva un piano di sicurezza definito fatiscente
dall’ispettore del lavoro; a fronte di questa situazione, la
Corte territoriale ha rimarcato come l’imputato avesse
omesso di esaminare la documentazione relativa alla
sicurezza del lavoro dell’impresa appaltatrice e non avesse
esercitato controlli e verifiche, nonostante le maestranze
utilizzassero macchine e attrezzature dell’azienda
appaltante, omettendo altresì di verificare il grado di
formazione e informazione dei dipendenti della (OMISSIS) tp,
dopo aver scelto come contraente una società che aveva
enormi falle nel sistema di sicurezza. Nella sentenza
impugnata la condotta di tale imputato, che rivestiva la
qualità di delegato per la sicurezza dell’impresa
committente, e’ stata conseguentemente ritenuta colpevole.
1.3. La lettura del testo della norma, nel suo complesso e
nell’ambito del sistema prevenzionistico introdotto in
attuazione di Direttive Europee (89/391/CEE, 89/654/CEE,
89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE,
90/679/CEE, 93/88/CEE, 95/63/CE, 97/42/CE, 98/24/CE,
99/38/CE, 99/92/CE, 2001/45/CE, 2003/10/CE, 2003/18/CE e
2004/40/CE) non consente di condividere la tesi
interpretativa proposta dal ricorrente. Con specifico
riferimento al tenore letterale, l’articolo 7, comma 1,
citato individua due distinti obblighi gravanti sul datore
di lavoro quando intenda avvalersi di un’impresa
appaltatrice per svolgere particolari lavori all’interno
dell’azienda: un obbligo di verifica dell’idoneità
tecnico-professionale dell’impresa in relazione al lavoro
che deve esserle affidato, dal quale si desume la posizione
di garanzia del datore di lavoro in merito alla scelta
dell’impresa, e un obbligo di informazione in merito ai
rischi specifici che l’impresa appaltatrice verrà ad
incontrare nell’ambiente di lavoro del committente.
La norma è posta nel Titolo I, Capo I del Decreto
Legislativo n. 626 del 1994 (attuativo di Direttive
comunitarie riguardanti il miglioramento della sicurezza e
della salute dei lavoratori durante il lavoro) tra le
disposizioni generali; tale collocazione non lascia margini
di dubbio in merito alla finalità della norma di garantire
la sicurezza del lavoro nella particolare situazione in cui
determinate attività vengano affidate in appalto ma si
svolgano nei locali dell’impresa committente, dovendosi
conseguentemente ritenere che la posizione di garanzia del
datore di lavoro in merito alla scelta dell’impresa
appaltatrice trovi la sua ragion d’essere nella finalità di
evitare che, attraverso la stipula di un contratto di
appalto, vengano affidate all’appaltatore lavorazioni o
mansioni che il singolo lavoratore non sia in grado di
svolgere, con incremento del rischio per la sua sicurezza.
1.4. Si può, dunque, desumere dalla norma in esame una
precisa regola di diligenza e prudenza che il committente
dei lavori dati in appalto e’ tenuto a seguire e, in
particolare, l’obbligo di accertarsi che la persona alla
quale affida l’incarico sia, non solo munita dei titoli di
idoneità prescritti dalla legge, come si evince dal
riferimento, comunque non esclusivo, al certificato della
Camera di Commercio, ma anche della capacità tecnica e
professionale proporzionata al tipo di attività che deve
esserle commissionata e alle concrete modalità di
espletamento della stessa.
In altre parole, tale norma svolge funzione integrativa del
precetto penale che sanziona il reato di lesioni colpose
ponendo a carico del committente l’obbligo di garantire che
anche l’impresa appaltatrice che svolge attività nella sua
azienda si attenga a misure di prevenzione della cui
inosservanza lo stesso committente sarà chiamato a
rispondere, ove fosse in grado di percepirne
l’inadeguatezza.
1.5. E nella sentenza di primo grado erano stati indicati
analiticamente i comportamenti omissivi nei quali si sarebbe
sostanziata la condotta colposa del committente: l’impresa
appaltatrice (OMISSIS) tp non aveva le carte in regola
quanto alla valutazione, organizzazione e attuazione delle
misure di prevenzione antinfortunistiche e il piano per
l’organizzazione della sicurezza nel cantiere redatto dalla
(OMISSIS) tp nel maggio 2006, in relazione al contratto di
appalto da eseguire all’interno del cantiere navale della
(OMISSIS) S.p.A., risultava del tutto inadeguato; il
ricorrente si sarebbe potuto rendere conto di tali carenze
se avesse esaminato i documenti redatti dalla (OMISSIS) tp,
ed avrebbe potuto verificare che l’impresa appaltatrice non
aveva nominato un responsabile del servizio di prevenzione e
protezione né aveva elaborato un adeguato documento di
valutazione dei rischi, così come avrebbe agevolmente potuto
verificare la carenza della formazione e informazione fatta
dalla (OMISSIS) tp ai propri dipendenti, specie in ordine
all’utilizzo delle macchine (pag. 9), peraltro fornite dal
committente.
Entrambi i giudici di merito hanno anche sottolineato come
il manuale di uso del trapano fornito al lavoratore non
fosse stato tradotto. Da tali elementi, i giudici di merito
hanno desunto come il ricorrente, già nella fase della
scelta del contraente, avesse modo di verificare le lacune
dell’impresa croata sotto il profilo della sicurezza,
ritenendo che carenze organizzative dell’appaltatore in tema
di misure di sicurezza agevolmente percepibili
coinvolgessero in quanto tali anche la responsabilità del
committente.
1.6. Tale valutazione deve ritenersi conforme alla ratio
della norma, come sopra illustrata, e all’interpretazione
della stessa rinvenibile nella giurisprudenza di questa
Corte, che ha ripetutamente affermato che il dovere di
diligenza del committente non si esaurisce nella scelta di
un’impresa che sia tecnicamente in grado di eseguire il
lavoro da commissionare, estendendosi alla verifica
dell’idoneità dell’impresa appaltatrice a svolgere
determinate lavorazioni in condizioni di sicurezza per i
lavoratori, configurandosi quindi la responsabilità del
committente qualora sia verificato in concreto che fosse da
lui agevolmente percepibile il rischio derivante
dall’inadeguatezza dell’organizzazione dell’impresa
appaltatrice sotto il profilo prevenzionistico (Sez. 4, n.
10608 del 4/12/2012, dep. 07/03/2013, Bracci, Rv. 255282;
Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012, Marangio e altro, Rv.
252672; Sez. 4, n. 37840 del 1/07/2009, Vecchi e altro, Rv.
245275; Sez. 3, n. 1825 del 04/11/2008, dep. 19/01/2009,
Pellegrino e altro, Rv. 242345; Sez. 4, n. 12348 del
29/01/2008, Giorgi, Rv. 239252; Sez. 4, n. 8589 del
14/01/2008, Speckenhauser e altro, Rv. 238965).
1.7. Può, pertanto, affermarsi il seguente principio di
diritto: nella materia della sicurezza del lavoro e della
prevenzione infortuni, la norma dettata dal Decreto
Legislativo n. 626 del 1994, articolo 7, (ora Decreto
Legislativo n. 81 del 2008, articolo 26) ha la funzione di
individuare l’ipotesi in cui il committente si debba
ritenere corresponsabile con l’appaltatore per la violazione
di norme antinfortunistiche, nell’ottica di rafforzare la
tutela dei beni giuridici della vita e della salute del
lavoratore, non potendosi ritenere corretta
l’interpretazione secondo la quale la verifica in merito
all’idoneità tecnico-professionale debba intendersi limitata
alle competenze tecniche dell’impresa appaltatrice
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 27.08.2014 n. 36268
- link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In pendenza di procedimento di condono di un
manufatto, gli unici interventi edilizi consentiti su di
esso sono quelli diretti a garantirne l'integrità e la
conservazione; tali interventi, quindi, di regola non
possono spingersi sino alla demolizione e ricostruzione (né
totale né parziale), salvo che essi risultino in qualche
modo indispensabili (previa, in tal caso, necessaria
preventiva interlocuzione con l'Amministrazione al fine di
consentire a quest'ultima di stabilire quali siano i
caratteri e le esatte dimensioni del manufatto abusivo per
verificarne la condonabilità ed accertare che la successiva
ricostruzione sia effettivamente fedele al manufatto abusivo
preesistente).
La normativa sul condono postula la permanenza dell'immobile
da regolarizzare e non ammette, in pendenza del
procedimento, la demolizione e l'impiego di materiali di
costruzione diversi da quelli originari: la diversità del
materiale costruttivo impiegato comporta la qualificazione
dell'intervento come sostituzione edilizia, mancando la
continuità tra vecchia e nuova costruzione, che caratterizza
gli interventi di consolidamento, e la attuale
riconoscibilità del manufatto originario oggetto
dell'istanza di condono.
E’ quindi legittima l’archiviazione della domanda di condono
relativa ad un primo fabbricato quando sia effettivamente
venuta meno l’opera per cui si riferiva la richiesta,
soprattutto se la ricostruzione sia successiva alla data di
sbarramento fissata all'01.10.1983 dalla l. n. 47 del 1985.
---------------
Come ha chiarito l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n.
20 del 1999, il provvedimento di condono o di sanatoria di
un immobile abusivo va emesso tenendo conto della situazione
di fatto e di diritto esistente alla data della sua
emanazione, sicché rileva anche il vincolo paesaggistico
imposto dopo la data di commissione dell’abuso.
E’ pertanto irrilevante verificare se il medesimo vincolo
sia stato imposto anteriormente o meno al periodo nel corso
del quale sono stati commessi gli abusi presi in
considerazione nel provvedimento impugnato in primo grado.
Invero, in pendenza di procedimento di condono di un
manufatto, gli unici interventi edilizi consentiti su di
esso sono quelli diretti a garantirne l'integrità e la
conservazione; tali interventi, quindi, di regola non
possono spingersi sino alla demolizione e ricostruzione (né
totale né parziale), salvo che essi risultino in qualche
modo indispensabili (previa, in tal caso, necessaria
preventiva interlocuzione con l'Amministrazione al fine di
consentire a quest'ultima di stabilire quali siano i
caratteri e le esatte dimensioni del manufatto abusivo per
verificarne la condonabilità ed accertare che la successiva
ricostruzione sia effettivamente fedele al manufatto abusivo
preesistente).
La normativa sul condono postula la permanenza dell'immobile
da regolarizzare e non ammette, in pendenza del
procedimento, la demolizione e l'impiego di materiali di
costruzione diversi da quelli originari: la diversità del
materiale costruttivo impiegato comporta la qualificazione
dell'intervento come sostituzione edilizia, mancando la
continuità tra vecchia e nuova costruzione, che caratterizza
gli interventi di consolidamento, e la attuale
riconoscibilità del manufatto originario oggetto
dell'istanza di condono (Cass. pen., sez. III, 15.07.2005,
n. 26162).
E’ quindi legittima l’archiviazione della domanda di condono
relativa ad un primo fabbricato quando sia effettivamente
venuta meno l’opera per cui si riferiva la richiesta
(Consiglio di Stato, sez. IV, 24.12.2008, n. 6550),
soprattutto se la ricostruzione sia successiva alla data di
sbarramento fissata all'01.10.1983 dalla l. n. 47 del 1985.
Per di più, il provvedimento impugnato in primo grado si è
basato anche su una ulteriore ragione giustificativa,
costituita dall’incompatibilità del manufatto oggetto di
condono con esigenze di tutela paesaggistica e rispetto dei
corsi d’acqua.
Sotto tale aspetto, al di là delle questioni di ordine
processuale emerse nel corso del giudizio, rileva la Sezione
che del tutto legittimamente l’Amministrazione ha attribuito
rilevanza al vincolo paesaggistico imposto sull’area, poiché
–come ha chiarito l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n.
20 del 1999– il provvedimento di condono o di sanatoria di
un immobile abusivo va emesso tenendo conto della situazione
di fatto e di diritto esistente alla data della sua
emanazione, sicché rileva anche il vincolo paesaggistico
imposto dopo la data di commissione dell’abuso.
E’ pertanto irrilevante verificare se il medesimo vincolo
sia stato imposto anteriormente o meno al periodo nel corso
del quale sono stati commessi gli abusi presi in
considerazione nel provvedimento impugnato in primo grado (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 27.08.2014 n. 4386 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
La manutenzione straordinaria include gli
interventi meramente sostitutivi di parti già esistenti
dell'edificio, tali da non determinare alcuna alterazione di
volumi e superfici o mutamenti di destinazione d’uso degli
edifici.
1. L’appello è fondato.
2. Coglie nel segno la censura contenuta nel primo motivo
d’appello, nella quale l’avv. Martillotti si duole della
contraddittoria motivazione addotta dal TAR a rigetto
dell’impugnativa, laddove, pur qualificando l’intervento
abusivo come manutenzione straordinaria, e perciò
necessitante di autorizzazione edilizia ai sensi dell’art.
48 (in allora vigente) della citata legge n. 457/1978, ha
nondimeno ritenuto legittimo il diniego di sanatoria.
3. Occorre innanzitutto precisare che la manutenzione
straordinaria include gli interventi meramente sostitutivi
di parti già esistenti dell'edificio, tali da non
determinare alcuna alterazione di volumi e superfici o
mutamenti di destinazione d’uso degli edifici (cfr., da
ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1859; in
precedenza: Sez. IV, 13.06.2013, n. 3270).
4. Tanto precisato in diritto, la documentazione agli atti
di questo giudizio conduce a ritenere provata la circostanza
fattuale dedotta dall’odierno appellante a sostegno della
propria impugnativa, e cioè che il tetto del manufatto in
contestazione era preesistente e che, dunque, la sua
ricostruzione aveva finalità manutentiva, comportante la
relativa sostituzione con una nuova copertura.
In primo luogo, la prova in questione si ricava dalla
documentazione fotografica prodotta in sede di riesame della
domanda di sanatoria ex art. 13 l. n. 47/1985, che nondimeno
il Comune di Bacoli ha ritenuto non idonea a suffragare gli
assunti dell’avv. Martillotti, dalla quale emerge
l’esistenza del solaio di copertura.
Assume poi rilievo decisivo, ai sensi dell’art. 654 cod.
proc. pen. l’accertamento compiuto dal giudice penale
(sentenza del Tribunale di Napoli – sez. staccata di
Pozzuoli del 01.04.2003, n. 233), nella medesima vicenda qui
in contestazione. Nell’assolvere l’odierno appellante per
insussistenza delle contravvenzioni edilizie contestategli
[art. 20, lett. c), l. n. 47/1985] all’esito
dell’istruttoria dibattimentale esperita, il Tribunale di
Napoli ha accertato che “l’intervento posto in essere
dall’imputato, mirante ad assicurare la copertura
dell’edificio (evidentemente anch’essa già esistente in
origine) ma lasciando inalterate la superficie, la
dimensione e tutte le altre parti, nonché la stessa
destinazione”, non potesse che essere qualificato come
di tipo manutentivo (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 27.08.2014 n. 4362 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
controversia avente ad oggetto la titolarità di un terreno
che, pacificamente, faceva un tempo parte dell’alveo del
fiume, ma che risulta abbandonato dalle acque da molti anni,
non ponendo alcuna questione, ai fini del decidere, in
ordine alla determinazione dei limiti dell’alveo e delle
sponde, ovvero alla qualificazione dello stesso come alveo,
sia con riferimento al passato che al presente, appartiene
alla competenza per materia del tribunale ordinario e non a
quella del tribunale regionale delle acque pubbliche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- che il Collegio ritiene il ricorso fondato;
- che va fatta applicazione del principio secondo cui la
controversia avente ad oggetto la titolarità di un terreno
che, pacificamente, faceva un tempo parte dell’alveo del
fiume, ma che risulta abbandonato dalle acque da molti anni,
non ponendo alcuna questione, ai fini del decidere, in
ordine alla determinazione dei limiti dell’alveo e delle
sponde, ovvero alla qualificazione dello stesso come alveo,
sia con riferimento al passato che al presente, appartiene
alla competenza per materia del tribunale ordinario e non a
quella del tribunale regionale delle acque pubbliche (Cass.
n. 18333 del 2006; Cass. n. 1916 del 2011);
- che tale è la situazione di specie, giacché non è in
discussione che l’area rivendicata dal privato, appartenente
all’ex alveo del torrente (OMISSIS), oramai da lunghissimo
tempo non è più soggetta allo scorrimento delle acque ed è
delimitata dall’alveo attuale da un argine naturale
ricoperto da folta vegetazione di pini ad alto fusto;
- che è esatto il rilievo del pubblico ministero secondo cui
il Comune e le Amministrazioni dello Stato, nel costituirsi
in giudizio, hanno eccepito la demanialità di tale area;
- che, tuttavia, la detta eccezione è stata sollevata, non
per dedurre l’appartenenza della zona di terreno in
questione al demanio idrico (il che avrebbe imposto la
competenza del tribunale regionale delle acque pubbliche,
giacché la competenza del giudice specializzato scatta
quando la controversia involge questioni sulla demanialità
delle acque pubbliche o incide comunque, direttamente o
indirettamente, sugli interessi pubblici connessi al regime
delle acque: Cass. n. 14906 del 2000 e Cass. n. 2656 del
2012), ma per sostenere che l’area ha natura demaniale
essendo stata utilizzata “per il soddisfacimento di
molteplici esigenze di carattere collettivo/generale”, ossia
per esercitazioni delle Forze armate e per la realizzazione
di un elettrodotto, di un collettore fognario e di un
tracciato per il transito ciclo-pedonale;
- che, pertanto, va dichiarata la competenza del Tribunale
ordinario di Brescia, giacché, pur affermandosi che il
terreno conteso costituiva un tempo l’alveo di un corso
d’acqua, risulta pacifico che esso abbia definitivamente
cessato di farne parte, disputandosi esclusivamente circa
l’appartenenza, al privato ovvero al Comune o all’Agenzia
del demanio, delle porzioni abbandonate, per cause naturali,
del corso acqua, senza che venga in rilievo una attuale
demanialità idrica, ma una proprietà pubblica di diversa
natura
(Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
sentenza 24.07.2014 n. 16807 - link a http://renatodisa.com). |
VARI:
Nella qualificazione ok anche a società miste.
Via libera alle sigle «miste», perché composte anche di
altri professionisti, nell'elenco delle associazioni
maggiormente rappresentative previste dallo statuto
dell'avvocatura e regolamentate dal Consiglio nazionale
forense: non si possono dunque escludere dalla partita della
qualificazione professionale le associazioni non composte di
soli avvocati che, in definitiva, devono solo esprimere
pareri sulla formazione laddove la circostanza non appare
irragionevole ai giudici.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.07.2014 n. 8039, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Nessuna esclusiva
Niente da fare per le associazioni forensi che tentano di
estromettere la sigla mista (il provvedimento del Tribunale
amministrativo regionale è tutto coperto da omissis).
In realtà c'è carenza di interessi per il ricorso anche
perché mentre i giudici si pronunciano il regolamento
ministeriale sulla formazione forense previsto dall'articolo
9 della legge professionale non risulta emanato, per cui la
lesione alla posizione dell'organismo che adisce il Tar è
«meramente eventuale e comunque, allo stato, non attuale».
Ma soprattutto anche la domanda di sospensiva è rigettata.
E
ciò perché l'associazione iscritta dal Consiglio nazionale
forense nell'elenco incriminato mostra di possedere tutti i
requisiti: diffusione territoriale capillare; ordinamento
democratico; consistente e gratuita offerta formativa nelle
materie di competenza. E in effetti né la riforma forense né
il regolamento del Cnf prevedono che tutti gli iscritti alla
sigla debbano essere avvocati presenti nell'albo.
Chi vuole far cancellare la sigla dall'elenco dei sodalizi
più rappresentativi deve dare la prova di una concreta e
attuale lesione della sua sfera giuridica che deriva dagli
atti impugnati o dal comportamento del soggetto che esercita
le funzioni pubblicistiche, elemento da cui consegue
l'utilità effettiva che ricaverebbe dall'annullamento
dell'atto impugnato e comunque dall'accoglimento del ricorso
così come proposto
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il titolo di legittimazione che abilita alla
proposizione del ricorso per l'annullamento di un titolo
edilizio rilasciato a terzi discende unicamente dalla cd.
vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento
giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo
autorizzato.
Detto requisito esime da qualsiasi indagine volta ad
accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto
impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il
soggetto che propone l'impugnazione.
Solo ai fini dell’impugnazione di uno strumento urbanistico
attuativo -a differenza che per l'impugnazione del singolo
titolo edilizio- non è sufficiente la mera vicinitas,
occorrendo anche la prova di uno specifico e concreto
pregiudizio.
Nel merito, non è seriamente dubitabile la sussistenza della
legittimazione ad agire in capo alla ricorrente, fondandosi
la stessa sul pacifico assunto per cui il titolo di
legittimazione che abilita alla proposizione del ricorso per
l'annullamento di un titolo edilizio rilasciato a terzi
discende unicamente dalla cd. vicinitas, cioè da una
situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno
oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato. Detto
requisito esime da qualsiasi indagine volta ad accertare, in
concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto
che propone l'impugnazione (cfr. TAR Napoli, sez. II,
13.09.2013, n. 4265; Cons. Stato, sez. IV, 30.05.2013, n.
2974; id., sez. VI, 01.02.2013, n. 631).
Solo ai fini dell’impugnazione di uno strumento urbanistico
attuativo -a differenza che per l'impugnazione del singolo
titolo edilizio- non è sufficiente la mera vicinitas,
occorrendo anche la prova di uno specifico e concreto
pregiudizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.05.2012, n. 3137;
id. sez. IV, 15.11.2011, nr. 6016; id., 24.01.2011, nr. 485;
id., 29.12.2010, nr. 9537; id., 30.11.2010, nr. 8364; id.,
06.11.2007, nr. 6619)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.07.2014 n. 1199 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il rilascio del permesso di costruire avviene
nell'ambito del rapporto pubblicistico e non si estende ai
rapporti tra privati, in quanto la lesione di diritti dei
terzi non discende direttamente dal rilascio del titolo, ma
solo dalla fisica realizzazione dell’opera, contro la quale
può chiedersi tutela davanti al giudice civile.
Nondimeno, tale affermazione va completata con una serie di
principi correttivi.
a) Il primo è costituito dal fatto che il titolo abilitativo non
può prescindere dal possesso dei titoli proprietari da parte
del richiedente.
È il primo comma dell’art. 11, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, a
prevedere espressamente che il permesso di costruire è
“rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo”.
b) Al contempo, il rilascio del titolo edilizio presuppone la
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria,
pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ivi
incluse le vie di collegamento al sistema viario pubblico.
In relazione a detta tematica scolora la schematica
distinzione tra aspetti civilistici e pubblicistici connessi
all'attività edificatoria, rinvenendosi, al contrario, un
significativo punto di contatto tra i due profili. Si
intende affermare che la stessa situazione di
inaccessibilità assoluta o relativa del fondo, oltre che in
un’eventuale contesa privatistica tra i proprietari
dell’area interclusa e quelli delle porzioni intercludenti,
certamente rileva anche come elemento qualificante ai fini
del rilascio del permesso di costruire, in quanto
strettamente attinente alle dotazioni urbanistiche
essenziali dell’area e all'ordinato assetto urbanistico ed
edilizio del territorio comunale ad essa circostante.
c) Da ciò consegue che la condizione di interclusione assoluta o
relativa del fondo oggetto della richiesta di intervento non
attiene esclusivamente ai rapporti civilistici del
richiedente con i terzi, ma concerne propriamente un
presupposto necessario di legittimazione della parte
richiedente, ai sensi del cit. art. 11. primo comma del
d.P.R. n. 380.
d) Sul piano istruttorio, se deve certamente escludersi un obbligo
del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità
dell'immobile, ovvero a ricercare le limitazioni negoziali
al diritto di costruire; nondimeno deve riconoscersi un
obbligo di verifica sulle “condizioni di ammissibilità, i
requisiti di legittimazione ed i presupposti rilevanti …”
per l’adozione del provvedimento finale, ai sensi dell’art.
6, 1° comma, lett. a), della L. n. 241/1990 e s.m.i..
Qualora, dunque, emergano come già accertati eventuali
vincoli che limitino l'ampiezza e fruibilità del titolo di
proprietà, il Comune non può ignorarli, pena un difetto di
istruttorio..
In conclusione, il difetto della disponibilità di idoneo
passaggio di collegamento alla via pubblica costituisce, ove
appurabile ex actis, un elemento procedimentalmente
ostativo, per il quale legittimamente deve negarsi il
rilascio del permesso di costruire.
Ciò posto, la prima decisiva
questione impone di chiarire se il proprietario dell’area
edificanda debba dimostrare di disporre di un idoneo diritto
di accesso al fondo, ovvero se questo costituisca un
presupposto meramente civilistico, rilevante nei soli
rapporti con i terzi proprietari dei fondi limitrofi e sul
quale l'amministrazione non può e non deve fondare alcuna
preclusione al rilascio del titolo edilizio, se e in quanto
il sottostante intervento sia in sé legittimamente
assentibile in quanto "conforme alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti e della disciplina
urbanistico edilizia vigente".
In un quadro giurisprudenziale segnato da precedenti non del
tutto uniformi, variamente richiamati dagli odierni
contendenti a supporto delle rispettive tesi difensive, il
Collegio ritiene di aderire all’impostazione che annette
alla pubblica amministrazione un più pervasivo ruolo di
controllo sui presupposti legittimanti il rilascio del
titolo edilizio.
Come chiarito da Cons. Stato, sez IV, 08.06.2011 n. 3508
(che ha annullato la sentenza del TAR Veneto, sez. II,
12.01.2011, n. 37), in linea teorica è esatto il richiamo
operato dai resistenti all’orientamento giurisprudenziale
per cui il rilascio del permesso di costruire avviene
nell'ambito del rapporto pubblicistico e non si estende ai
rapporti tra privati, in quanto la lesione di diritti dei
terzi non discende direttamente dal rilascio del titolo, ma
solo dalla fisica realizzazione dell’opera, contro la quale
può chiedersi tutela davanti al giudice civile (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 10.12.2007, n. 6332).
Nondimeno, tale affermazione va completata con una serie di
principi correttivi.
a) Il primo è costituito dal fatto che il titolo abilitativo non
può prescindere dal possesso dei titoli proprietari da parte
del richiedente.
È il primo comma dell’art. 11, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, a
prevedere espressamente che il permesso di costruire è “rilasciato
al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.09.2009, n.
5223; id., sez. IV, 07.09.2007 n. 4703 e 07.07.2005 n.
3730).
b) Al contempo, il rilascio del titolo edilizio presuppone la
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria,
pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ivi
incluse le vie di collegamento al sistema viario pubblico
(Cons. Stato, sez. V, 31.10.2013, n. 5251; id., sez. VI
06.05.2013, n. 2416).
In relazione a detta tematica scolora la schematica
distinzione tra aspetti civilistici e pubblicistici connessi
all'attività edificatoria, rinvenendosi, al contrario, un
significativo punto di contatto tra i due profili. Si
intende affermare che la stessa situazione di
inaccessibilità assoluta o relativa del fondo, oltre che in
un’eventuale contesa privatistica tra i proprietari
dell’area interclusa e quelli delle porzioni intercludenti,
certamente rileva anche come elemento qualificante ai fini
del rilascio del permesso di costruire, in quanto
strettamente attinente alle dotazioni urbanistiche
essenziali dell’area e all'ordinato assetto urbanistico ed
edilizio del territorio comunale ad essa circostante (Cons.
Stato, sez. V, 25.05.1998 n. 683; TAR Parma, sez. I,
16.11.2007, n. 534; TAR Trentino-Alto Adige, sez. I,
12.01.2012, n. 6).
c) Da ciò consegue che la condizione di interclusione assoluta o
relativa del fondo oggetto della richiesta di intervento non
attiene esclusivamente ai rapporti civilistici del
richiedente con i terzi, ma concerne propriamente un
presupposto necessario di legittimazione della parte
richiedente, ai sensi del cit. art. 11. primo comma del
d.P.R. n. 380.
d) Sul piano istruttorio, se deve certamente escludersi un obbligo
del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità
dell'immobile, ovvero a ricercare le limitazioni negoziali
al diritto di costruire; nondimeno deve riconoscersi un
obbligo di verifica sulle “condizioni di ammissibilità, i
requisiti di legittimazione ed i presupposti rilevanti …”
per l’adozione del provvedimento finale, ai sensi dell’art.
6, 1° comma, lett. a), della L. n. 241/1990 e s.m.i..
Qualora, dunque, emergano come già accertati eventuali
vincoli che limitino l'ampiezza e fruibilità del titolo di
proprietà, il Comune non può ignorarli, pena un difetto di
istruttoria (Cons. Stato, sez. IV, 06.03.2012, n. 1270).
In conclusione, il difetto della disponibilità di idoneo
passaggio di collegamento alla via pubblica costituisce, ove
appurabile ex actis, un elemento procedimentalmente
ostativo, per il quale legittimamente deve negarsi il
rilascio del permesso di costruire
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.07.2014 n. 1199 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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