e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABBAINO
14-
ABUSI EDILIZI
15-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
16-AGIBILITA'
17-ANAC (già AVCP)
18
-APPALTI
19-ARIA
20-ASCENSORE
21-ASL + ARPA
22-ATTI AMMINISTRATIVI
23-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
24-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
25-BARRIERE ARCHITETTONICHE
26-BOSCO
27-BOX
28-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
29-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro
30-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
31-CARTELLI STRADALI
32-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
33-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
34
-COMPETENZE GESTIONALI
35
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
36-CONDIZIONATORE D'ARIA
37-CONDOMINIO
38-CONSIGLIERI COMUNALI
39-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
40-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
41-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
42-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
43-DEBITI FUORI BILANCIO
44-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
45-DIA e SCIA
46-DIAP
47-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
48-DISTANZA dai CONFINI
49-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA
50-DISTANZA dalla FERROVIA

51-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
52-DURC
53-EDICOLA FUNERARIA
54-EDIFICIO UNIFAMILIARE
55-ESPROPRIAZIONE
56-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
57-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
58-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
59-INCENTIVO PROGETTAZIONE
60-INDUSTRIA INSALUBRE
61-L.R. 12/2005
62-L.R. 23/1997
63-LEGGE CASA LOMBARDIA
64-LICENZA EDILIZIA (necessità)
65-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
66-LOTTO INTERCLUSO
67-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
68-MOBBING
69-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
70-OPERE PRECARIE
71-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
72-PATRIMONIO
73-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU
74-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
75-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
76-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
77-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
78-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
82
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
83-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
84-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
85-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
86-PISCINE
87-PUBBLICO IMPIEGO
88-RIFIUTI E BONIFICHE
89-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
90-RUDERI
91-
RUMORE
92-SAGOMA EDIFICIO
93-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
94-SCOMPUTO OO.UU.
95-SEGRETARI COMUNALI
96-SIC-ZPS - VAS - VIA
97-SICUREZZA SUL LAVORO
98
-
SILOS
99-SINDACATI & ARAN
100-SOPPALCO
101-SOTTOTETTI
102-SUAP
103-SUE
104-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
105-
TELEFONIA MOBILE
106-TENDE DA SOLE
107-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
108-TRIBUTI LOCALI
109-VERANDA
110-VINCOLO CIMITERIALE
111-VINCOLO IDROGEOLOGICO
112-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
113-VINCOLO STRADALE
114-VOLUMI TECNICI

115-ZONA AGRICOLA

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

simone.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link ISTAT
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2 - link 3
link 4 - link 5
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
delle PP.AA.
delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di NOVEMBRE 2014

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 22.11.2014

aggiornamento al 17.11.2014

aggiornamento al 14.11.2014

aggiornamento al 12.11.2014

aggiornamento al 03.11.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 22.11.2014 (ore 16,15)

ã

LUTTO

     Prematuramente il nostro Amico e Collega ALESSIO GEOM. ALFREDO (del Comune di Bonate Sotto - BG) a soli 52 anni è salito al cielo, lasciando nello sconforto i famigliari e tutti coloro che gli hanno voluto bene e lo hanno stimato professionalmente.
     Altre parole, in questo momento, potrebbero apparire banali e di circostanza ... ma queste le vogliamo scrivere: "Caro ALFREDO, la Tua dignità e consapevolezza nel contare i giorni e, nel contempo, la Tua voglia di vivere e di rinfrancare chi Ti conosceva anziché ricercare compassione, le sofferenze indicibili che hai patito sono bastevoli per credere che Ti sei meritato il Paradiso e per confermare (semmai ce ne fosse stato bisogno) che "bella" persona" Tu sei".
     Per chi vorrà partecipare all'estremo saluto, le esequie si terranno

LUNEDI' 24.11.2014 ORE 10,00

 nella Parrocchiale di Presezzo (BG).
     Alfredo, questo è solo un arrivederci da tutti coloro che Ti hanno conosciuto, stimato e voluto bene.

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Sblocca Italia – perplessità – nuovo art. 3-bis DPR 380/2001 (18.11.2014 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI: L. Sergio, Incarico per prestazione professionale con corrispettivo subordinato al finanziamento dell’opera. La posizione della Corte di Cassazione civile (12.10.2014 - link a www.studiocataldi.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEA decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, devono fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un accordo integrativo decentrato, da recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).

Fino all’entrata in vigore della L. 11.08.2014, n. 114, n. 90, possono trovare applicazione le previgenti disposizioni (la novella costituisce disposizione non applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica).
--------------
Dal compimento dell’attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non hanno alcuna efficacia retroattiva.
Né rileva, in contrario avviso, che alla rigorosa applicazione del criterio della spettanza dell’incentivo nella misura vigente all’atto del compimento della specifica attività, possa conseguire una differente consistenza del beneficio in ordine alla stessa opera per la quale è stanziata la somma da ripartire, a seconda se la stessa attività sia stata compiuta prima o dal 19.08.2014.
Ciò perché, ai fini della nascita del diritto quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta
”: con la conseguenza che “il “quantum” del diritto al beneficio, quale spettante sulla base della somma da ripartire nella misura vigente al momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle attività incentivate, non possa essere modificato per effetto di norme che riducano per il tempo successivo l’entità della somma da ripartire”.
---------------
L’ente, rimanendo per il resto libero nell’esercizio della propria attività discrezionale, nel periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai presupposti e ai beneficiari dell’incentivo, alla previgente disciplina mentre, per quel che concerne l’ammontare complessivo delle risorse destinabili al singolo beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con riferimento al trattamento economico spettante al momento dell’erogazione.
---------------

La richiesta mira a conseguire chiarimenti in merito all'applicazione degli artt. 92 e 93 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici), come modificati dagli artt. 13 e 13-bis della l. 11.08.2014, n. 144, di conversione del d.l. 24.06.2014, n. 90, che hanno abrogato i commi 5 e 6 del citato art. 92 e aggiunto i commi da 7-bis a 7-quinquies all'art. 93.
Rilevato che il nuovo provvedimento legislativo non contiene alcuna precisa disposizione in merito (a differenza di quanto comminato per i diritti di rogito dei segretari comunali e provinciali e per i compensi professionali degli avvocati interni), in particolare, è richiesto:
i) come si attuino, con riferimento a opere e lavori pubblici che alla data di entrata in vigore delle sopra citate disposizioni siano in corso di realizzazione (in fase di progettazione o già aggiudicate) e, in generale, alle attività tecniche già concluse o ancora in corso prima di tale data ma non ancora liquidate, le norme che prevedono la costituzione di un "fondo per la progettazione e l'innovazione" (nuovo comma 7-bis dell'art. 93 del codice) a cui ogni amministrazione deve fare confluire le risorse finanziarie da destinare, per l'80%, a remunerare l'attività di progettazione, e per il restante 20%, all'innovazione (nuovi commi 7-ter e 7-quater);
ii) se sia possibile, stante il disposto del nuovo comma 7-ter, ultimo periodo, corrispondere ancora ai dirigenti l'incentivo inerente ad attività di progettazione e direzione lavori, concluse o ancora in corso alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni ed eventualmente in base a quali criteri;
iii) se il limite degli incentivi che possono essere corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, pari al 50% del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo, operi anche con riferimento a prestazioni, sia concluse che in corso, rese anteriormente alla vigenza delle norme sopravvenute ma non liquidate.
...
Come più volte messo in evidenza dalla Sezione (cfr. da ultimo parere 01.10.2014 n. 246), il c.d. incentivo alla progettazione (denominazione risalente all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994), in costanza del previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, oggetto di costante attenzione da parte della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259, parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453) costituiva eccezione al principio di onnicomprensività della retribuzione, finalizzato ad incentivare il ricorso alle professionalità interne dell’Ente.
A fronte di un’abrogazione secca dei commi 5 e 6 dell’articolo 92 del codice dei contratti pubblici, in materia di incentivi per la progettazione, disposta dall’art. 13 del decreto legge, l’art. 13-bis, introdotto in sede di conversione, ha previsto l’istituzione, a carico delle stazioni appaltanti e per le finalità descritte, di un fondo per la progettazione e l’innovazione, destinato alle risorse umane e strumentali necessarie per tali finalità
In particolare, in base alle conferenti disposizioni, le amministrazioni pubbliche destineranno a un fondo per la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, secondo modalità determinate da un regolamento adottato dall’amministrazione.
Sempre tale regolamento dovrà definire i criteri di riparto di tali somme, ferme restando le ripartizioni direttamente disposte dall’atto normativo.
Di conseguenza (parere 01.10.2014 n. 246)
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un accordo integrativo decentrato, da recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
Sul punto si veda Emilia Romagna, parere 19.09.2014 n. 183, secondo cui,
fino all’entrata in vigore della L. 11.08.2014, n. 114, n. 90, possono trovare applicazione le previgenti disposizioni (la novella costituisce disposizione non applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica).
Punto essenziale, e pregiudiziale alla risoluzione di tutti e tre i quesiti, è invece la questione della cesura applicativa tra la vecchia e la nuova normativa; vale a dire, in sintesi, se essa trovi applicazione con riferimento alle sole attività successive o anche a quelle precedenti, ma non remunerate all’atto dell’entrata in vigore del decreto.
Come noto, in ambito dottrinario e giurisprudenziale due orientamenti si dividono il campo: la teoria dei c.d. “diritti quesiti”, secondo cui, al fine di connotare come non retroattiva una disposizione, elemento essenziale è il dato che non intacchi situazioni giuridiche già maturate; e quella del c.d. “fatto compiuto”, secondo cui, fatta salva l’eventuale illegittimità dell’atto normativo per lesione dell’affidamento, l’utilità può considerarsi intangibile solo dopo che sia stata acquisita dal soggetto interessato.
Al di là di tale considerazione di carattere generale, tuttavia, è possibile ricavare una soluzione interpretativa al quesito posto dalla deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sez. autonomie che, affrontando altra precedente riformulazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del codice dei contratti pubblici (in relazione alla riduzione introdotta dall’art. 18, comma 4-sexies, del d.l. 29.11.2008, n. 185, convertito dalla l. 28.01.2009, n. 2, che ha novellato l’art. 61 del d.l. 25.06.2008, n. 112, convertito dalla l. 06.08.2008, n. 133, con un comma 7-bis) ha precisato che “
dal compimento dell’attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non hanno alcuna efficacia retroattiva. Né rileva, in contrario avviso, che alla rigorosa applicazione del criterio della spettanza dell’incentivo nella misura vigente all’atto del compimento della specifica attività, possa conseguire una differente consistenza del beneficio in ordine alla stessa opera per la quale è stanziata la somma da ripartire, a seconda se la stessa attività sia stata compiuta prima o dopo il 31.12.2008. Ciò perché, ai fini della nascita del diritto quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta”: con la conseguenza che “il “quantum” del diritto al beneficio, quale spettante sulla base della somma da ripartire nella misura vigente al momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle attività incentivate, non possa essere modificato per effetto di norme che riducano per il tempo successivo l’entità della somma da ripartire”.
A diverse conclusioni deve invece addivenirsi con riferimento al terzo quesito, in considerazione del dato che la norma effettua un chiaro riferimento al momento della corresponsione e che non condiziona la possibilità di erogare l’incentivo, ma si limita a determinarne (per relationem rispetto al trattamento economico fruito) l’ammontare massimo.
In conclusione,
l’ente, rimanendo per il resto libero nell’esercizio della propria attività discrezionale, nel periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai presupposti e ai beneficiari dell’incentivo, alla previgente disciplina mentre, per quel che concerne l’ammontare complessivo delle risorse destinabili al singolo beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con riferimento al trattamento economico spettante al momento dell’erogazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.11.2014 n. 300).

INCENTIVO PROGETTAZIONENei contratti misti di lavori e forniture l’incentivo di progettazione di cui all’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici, vigente all’epoca del provvedimento e oggi sostituito dall’art. 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in legge 11.08.2014, n. 114, che ha inserito all’art. 93 del medesimo Codice dei contratti i commi 7-bis e 7-ter, non può essere conteggiato sul prezzo a base d’asta rappresentante il valore del contratto interamente considerato, bensì sul valore della sola parte lavori nel suo importo posto a base d’asta.
---------------
2. Sugli incentivi di progettazione riconosciuto dal provvedimento in esame.
L’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti, recentemente abrogato dall’art. 13, comma 1, del d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in l. 11.08.2014, n. 114, ma vigente all’epoca dei fatti, prevedeva l’erogazione di incentivi di progettazione a favore del responsabile del procedimento, degli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché dei loro collaboratori, che avessero prestato la propria opera nella progettazione di lavori pubblici, in deroga al principio dell’onnicomprensività degli emolumenti dei pubblici dipendenti.
La ratio della disposizione (che rimane ferma nella nuova norma introdotta dal d.l. n. 90/2014 cit. mediante l’inserimento dell’art. 93, comma 7-bis nel Codice dei contratti), era sostanzialmente da individuare nella valorizzazione della professionalità dei dipendenti pubblici e, al contempo, nel risparmio di spesa nella progettazione, in quanto in tal modo l’Amministrazione evita di ricorrere a consulenti esterni, certamente più onerosi. Peraltro, la norma si poneva in coerenza logica con il divieto per le Amministrazioni, che fossero dotate di personale dipendente tecnicamente competente, di conferire incarichi esterni, come codificato all’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni e integrazioni (cfr. Corte dei conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Come è noto, l’importo erogabile a titolo di incentivo era previsto in termini percentuali non superiori al 2% del valore del progetto (la nuova disposizione in tema di incentivi inserita dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014 succitato, contenuta nell’art. 93, al comma 7-ter, del Codice dei contratti pubblici, dispone invece che sia istituito un Fondo per la progettazione e l’innovazione da ripartirsi “con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis”).
La disciplina delle modalità di calcolo della percentuale effettiva da destinare agli incentivi di progettazione era rimessa dall’art. 92 sopra citato a regolamento ministeriale.
Pertanto, il Ministero delle Infrastrutture emanava a tal fine il D.M. 17.03.2008, n. 84 (“Regolamento recante norme per la ripartizione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”).
L’art. 1, comma 2, del D.M. citato, all’epoca vigente, disciplinava la fattispecie dei contratti misti, così disponendo “In caso di appalti misti l’incentivo… è corrisposto per la redazione della progettazione relativa alla componente lavori e per il corrispondente importo degli stessi.”.
*****
Alla luce del quadro normativo così delineato il Collegio osserva che
il criterio di quantificazione adottato dall’Amministrazione per il conteggio degli incentivi da riconoscere ai progettisti ai sensi dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti e sancito dal decreto in esame non si dimostra conforme a legge.
Infatti, l’Amministrazione risulta aver conteggiato l’importo del 2% spettante agli incaricati per la progettazione prendendo a base di calcolo l’intero valore del contratto, come indicato alla voce sub A – 1) del decreto in esame, denominata “Lavori a misura” e recante l’importo di € 188.535,62, destinando un totale di € 3.770,71 per l’incentivo in questione. Il dato, peraltro, non è stato contestato dall’Amministrazione.
Così operando, il Provveditorato non ha calcolato l’incentivo per la progettazione sulla base del valore dei lavori, che, come visto, nel cottimo in considerazione è percentualmente molto inferiore al valore dei gruppi frigo acquistati. Al contrario, ha effettuato il calcolo sulla base del valore dei lavori sommato al valore dei gruppi frigo, così aggiungendo alla componente “lavori”, sulla quale, sola, per legge, deve essere quantificata la percentuale destinata all’incentivo, anche la diversa componente di “forniture”, che corrisponde al valore del bene “gruppi frigo”.
Tuttavia il Collegio, conclusivamente valutando la vicenda amministrativa sottoposta all’esame, è dell’avviso che il vizio rilevato presenti i caratteri della marginalità, pertanto, non sia tale da invalidare il provvedimento all’esame (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, deliberazione 20.10.2014 n. 174).

APPALTI FORNITURE E LAVORI PUBBLICI: In tema di qualificazione del contratto misto di lavori e forniture e di conseguente conformità a legge della selezione del contraente a mezzo di cottimo fiduciario con procedura d’urgenza.
In caso di contratti pubblici misti la disciplina da applicare è quella del contratto con causa prevalente, a nulla rilevando la definizione –nel caso di specie di lavoro o di fornitura– che ne sia stata data dall’amministrazione.
L’individuazione della prevalenza causale è compito del giudice e deve essere effettuata caso per caso secondo un criterio funzionale, ritenuto anche dalla giurisprudenza amministrativa preponderante rispetto a quello meramente economico, basato sul valore monetario della parte lavoro rispetto alla parte forniture.
In particolare, quando l’appalto è funzionale alla realizzazione o alla modificazione di un’opera di ingegneria civile si applica la normativa dei lavori pubblici, quale sia l’importo economico della fornitura e del lavoro.
---------------

1. Sui presupposti dell’affidamento in economia secondo le forme del cottimo fiduciario:
1.1. Natura del contratto affidato.
Considerato che il contratto di affidamento approvato nelle sue procedure dal decreto in esame è da qualificare contratto misto, di lavori e forniture, il Collegio osserva in via preliminare che il nomen iuris ad esso dato dall’Amministrazione non è in alcun modo determinante della sua effettiva natura. Al contrario, questa è rimessa alla valutazione del giudice in concreto. In tal senso soccorre anche la giurisprudenza amministrativa, costante nell’affermare che “l’interpretazione degli atti amministrativi soggiace alle stesse regole dettate dagli artt. 1362 c.c. per l’interpretazione dei contratti, fra le quali ha carattere preminente quella collegata all’elemento letterale, centrale restando comunque l’obbligo del giudice d’individuare l’intento perseguito dall’Amministrazione ed il potere che ha inteso effettivamente esercitare in base al contenuto complessivo dell’atto, e ciò privilegiando gli aspetti sostantivi della vicenda, indipendentemente dal nomen iuris attribuito ad esso da parte dell’Amministrazione procedente” (cfr., ex multis, Trga Trento, 09.02.2010, n. 50; Cons. St., sez. IV, 30.05.2001, n. 2953, e sez. V, 15.10.2003, n. 6316).
Peraltro, “nei contratti misti la fusione delle cause fa sì che gli elementi distintivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi di un negozio unico, a mezzo del quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, il che comporta che l’entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale debbano essere considerate in relazione all’interesse perseguito dal soggetto appaltante” (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 12.09.2011, n. 2204).
Osserva, inoltre, il Collegio, che la disciplina da applicare alle fattispecie di contratti pubblici misti è quella riferita al contratto con causa prevalente.
In particolare, sul punto la Corte di giustizia delle Comunità europee si è pronunciata affermando che “nel caso di contratto misto l’operazione di cui trattasi deve essere esaminata nel suo insieme, in modo unitario, ai fini della sua qualifica giuridica, e dev’essere valutata sulla base delle regole che disciplinano la parte che costituisce l’oggetto principale, o l’elemento preponderante del contratto” (CG, sez. IV, 06.05.2010, n. 149. Nello stesso senso, CG 05.12.1989, causa C-3/88, Commissione c. Italia; 19.04.1994, causa C- 331/92, Gestion Hotelera Internacional, 18.01.2007, causa C-220/05, Auroux e a.; 21.02.2008, causa C-412/2004 Commissione c. Italia). Identico orientamento si registra in ambito nazionale ove il criterio della prevalenza “secondo le caratteristiche specifiche del contratto” e della valutazione dell’”accessorietà” della prestazione è riconosciuto sia a livello normativo, (art. 14, comma 1, lett. a) e comma 3, del Codice dei contratti pubblici), che giurisprudenziale, nel momento in cui si afferma che, nel caso di contratti misti, la disciplina applicabile è quella del “tipo contrattuale prevalente”, da individuare caso per caso, in base all’analisi approfondita della documentazione di gara (Cfr. TAR Puglia, Bari, sez. I, 10.03.2011, n. 418).
Detta prevalenza deve essere valutata sia dal punto di vista economico che funzionale, assicurando maggiore rilievo a quest’ultimo.
Al riguardo, viene in considerazione il disposto dell’art. 14 del Codice dei contratti. La norma, da un lato, fa riferimento alla valutazione della “accessorietà”, e in tal caso privilegia l’elemento funzionale del contratto, secondo un approccio di valutazione sostanziale. Dall’altro lato, richiama anche il criterio della valutazione della percentuale di costo, che tuttavia, viene utilizzato, nel contratto misto di lavori e forniture, per introdurre una presunzione a favore del contratto di lavori ove questi impegnino economicamente l’Amministrazione per oltre il 50% del valore dell’appalto.
*****
Venendo al caso di specie, osserva il Collegio che, dal computo metrico estimativo del progetto esecutivo si evince che i due gruppi frigo sono iscritti per un valore complessivo pari a € 149.177,90, su un totale dei lavori, a lordo del ribasso (non muta l’incidenza percentuale), pari a € 188.535,62. L’incidenza della fornitura sui lavori è pari al 79% (e, di converso, dei lavori sulla fornitura pari al 21%).
Poiché le percentuali sono inverse rispetto a quelle di cui all’art. 14, comma 3, del Codice dei contratti, la disposizione ivi contenuta potrebbe essere letta “a contrario” e, cioè, per escludere la presunzione di prevalenza dei lavori ivi sancita per i casi, opposti a quello in esame, in cui siano i lavori ad essere percentualmente prevalenti nel costo rispetto alla fornitura dei beni.
Tuttavia, rivolgendosi all’applicazione del criterio qualitativo-funzionale, il Collegio afferma la necessità di verificare in concreto se la fornitura dei gruppi frigo, così economicamente preponderante rispetto al lavoro di posa in opera, sia o meno elemento accessorio rispetto all’attività di installazione.
Al riguardo soccorre il principio invocato dal Provveditorato in sede istruttoria e sancito dall’AVCP con la delibera n. 81/2011, come riletto alla luce della documentazione depositata e delle dichiarazioni rese dallo stesso Provveditorato nel corso dell’Adunanza pubblica.
Nel caso richiamato, l’AVCP ribadisce la preferenza del criterio funzionale rispetto a quello economico ai fini della valutazione di prevalenza tra lavori e forniture nei contratti misti.
In particolare, osserva l’Autorità, “quando l’appalto è funzionale alla realizzazione o alla modificazione di un’opera di ingegneria civile si applica la normativa dei lavori pubblici, quale sia l’importo economico della fornitura e del lavoro. Viceversa è configurabile un contratto di fornitura con posa in opera nel caso in cui con il contratto di fornitura si intenda conseguire una prestazione avente per oggetto una merce, un prodotto, che autonomamente soddisfano il bisogno per la loro stessa natura. In tal caso gli eventuali lavori di posa e istallazione del bene fornito sono di carattere accessorio e strumentale rispetto all’uso dello stesso”.
Pertanto, conclude per la natura di contratto di lavori della procedura sottoposta al suo esame, motivando in base alla sua qualità specifica, di realizzazione di opere e impianti “inseriti in un organismo di ingegneria civile, commerciale, industriale”. In casi simili a questo, osserva l’Autorità, non è consentito dare rilievo alle forniture, anche se di valore superiore al 50%. “Ciò in quanto in ogni appalto di lavori vi è una componente, talora economicamente prevalente, di forniture, ma detto appalto non muta natura quando l’opera si realizza o si modifica per consentire un’attività che costituisce finalità della iniziativa della pubblica Amministrazione” (Deliberazione AVCP n. 81 del 06.10.2011).
Tale ricostruzione dei criteri da seguire nell’individuazione della disciplina da applicare ai contratti misti di lavori e forniture resa dall’AVCP appare al Collegio conforme alla legge e all’interpretazione della giurisprudenza nella materia “de qua” e, conseguentemente, condivisibile.
Pertanto, ritiene il Collegio di dover tenere in considerazione la natura specifica dell’oggetto della fornitura, la cui denominazione di “gruppi frigo” indicata nel provvedimento in esame potrebbe essere in sé sola fuorviante.
Infatti, come chiarito dall’Amministrazione più puntualmente in sede di adunanza pubblica, nel caso di specie non si trattava semplicemente di fornire al Tribunale civile condizionatori caldo/freddo, bensì si trattava di realizzare il nuovo impianto di condizionamento/raffreddamento, al fine di consentire il servizio pubblico di amministrazione della giustizia in uno stabile che, per sua struttura (realizzato interamente a vetrate non apribili), non avrebbe permesso lo svolgimento della funzione in assenza di locali resi agibili.
Alla luce di tali chiarimenti il Collegio ritiene applicabile il principio di prevalenza nei termini espressi dall’AVCP con la determinazione succitata, rilevando che, nel caso di specie, sussiste una preponderanza solo economica del materiale fornito rispetto ai costi dei lavori di costruzione del sistema di condizionamento dell’intero stabile, mentre questi ultimi risultano, invece, prevalenti dal punto di vista funzionale.
Conclude perciò il Collegio per la conformità a legge della procedura adottata secondo le forme del cottimo fiduciario, stante il rispetto dei limiti di valore di cui all’art. 125, comma 8, del Codice dei contratti applicabile nei casi di contratti di lavori.
*****
Ritiene, invece, il Collegio di dover precisare che non appare in alcun modo dirimente la considerazione addotta dal Provveditorato in ordine ad una qualche portata argomentativa della necessità di attestazione SOA per lo svolgimento dei lavori in questione, quasi che la richiesta di detta attestazione alla ditta affidataria sia elemento idoneo a dimostrare la prevalenza della parte “lavori” su quella “forniture”.
Infatti, proprio in punto di qualificazione e capacità economica e tecnica, l’ordinamento positivo fa eccezione al principio della prevalenza sin qui illustrato, e dispone che “l’operatore economico che concorre alla procedura di affidamento di un contratto misto, deve possedere i requisiti di qualificazione e capacità prescritti dal presente codice per ciascuna prestazione di lavori, servizi, forniture prevista dal contratto” (art. 15 del Codice dei contratti).
Ne discende che nel caso in esame, per quanto riguarda la parte relativa ai lavori, rimane comunque ferma la necessità delle attestazioni SOA, a prescindere dal fatto che questi si presentino come prevalenti o meramente accessori alla fornitura (cfr. Cons. St. sez. V, 28.02.2012, n. 1153). Pertanto, il fatto di avere richiesto il possesso dello specifico requisito non incide sull’interpretazione data circa la natura del contratto all’esame (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, deliberazione 20.10.2014 n. 174).

LAVORI PUBBLICILa procedura di somma urgenza non può configurarsi in caso di inerzia dell’amministrazione, mentre essa può ricorrervi quando dimostri di essersi tempestivamente attivata.
---------------
1.2. Il presupposto della somma urgenza.
Osserva il Collegio che il legislatore ha individuato tra i presupposti che legittimano il ricorso ad affidamenti in economia quello della situazione di urgenza o di somma urgenza anche a prescindere dalla qualificazione del contratto misto come contratto di forniture o di lavori.
In particolare, per le forniture, l’art. 125, comma 10, del Codice dei contratti, afferma che il ricorso all’acquisizione in economia “è… consentito nell’ipotesi di…. d) urgenza, determinata da eventi oggettivamente imprevedibili, al fine di scongiurare situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l’igiene e la salute pubblica…”. Per i lavori pubblici, lo stesso art. 125, al comma 6, individua le ipotesi di affidamento in economia in una serie di categorie generali di fattispecie che si caratterizzano per l’imprevedibilità e la non programmabilità degli interventi. Più specificamente, poi, gli artt. 175 e 176 del d.P.R. n. 207/2010 prevedono i casi dell’urgenza e della somma urgenza, indicando la procedura da seguire.
Osserva, peraltro, il Collegio che la nozione di urgenza trova radici ben più remote nel tempo, individuandosi una simile categorizzazione anche ai sensi del precedente d.P.R. n. 554/1999, secondo linee interpretative sin da allora consolidate in giurisprudenza.
In particolare, il principio espresso dalla giurisprudenza amministrativa, e che nella fattispecie rileva, appare al Collegio adeguatamente riassunto dall’AVCP nella determinazione resa il 05.04.2000, n. 18, ove si afferma che “l’urgenza deve essere qualificata e non generica, deve corrispondere ad esigenze eccezionali e contingenti e deve essere tale da far ritenere che il rinvio dell’intervento comprometterebbe irrimediabilmente il raggiungimento degli obiettivi che la stazione appaltante si è posta mediante la realizzazione dell’intervento stesso, non deve essere imputabile all’inerzia della stazione appaltante stessa che deve attuare una corretta pianificazione degli interventi da eseguire”.
*****
Invero, sin dalla fase istruttoria, il maggiore dubbio in ordine alla sussistenza, nel caso di specie, del presupposto della procedura di affidamento in economia, dato dall’urgenza di provvedere, ha riguardato il carattere dell’imprevedibilità degli eventi e, insieme ad esso, della non riconducibilità della situazione di urgenza all’inerzia dell’Amministrazione.
Infatti, sulla base degli atti, in precedenza allegati il venir meno della funzionalità dei gruppi frigo appariva fatto ampiamente prevedibile dall’Amministrazione dato che risultavano essere decorsi più di vent’anni dalla data delle loro istallazione. Peraltro, la necessità della sostituzione avrebbe ben potuto essere presa in considerazione anche a prescindere dalla vetustà dell’impianto, dato che con Regolamento (CE) 1005/2009 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16.09.2009, il gas R22, utilizzato per il funzionamento dei gruppi frigo in questione, era stato riconosciuto tra le sostanze che riducono lo strato di ozono e, pertanto, dichiarato utilizzabile solo fino a 2015.
Il Collegio ritiene che, grazie all’integrazione documentale e alle dichiarazioni rese dall’Amministrazione in sede di adunanza pubblica, i suddetti dubbi di legittimità possano ritenersi superati.
Al riguardo, infatti, il Collegio ritiene che assuma fondamentale rilevanza il documento di programmazione intitolato “Adeguamento d.lgs. 81/2008 –prevenzione antisismica- altro”, depositato nella sede della pubblica adunanza dei 21.07.2014 dal Provveditorato interregionale.
Detto documento, prodotto nella versione finale del 12.07.2010, dimostra che i lavori di sostituzione dei gruppi frigo erano stati programmati a valere sul capitolo di bilancio 7200 già per l’esercizio finanziario 2009, sin da allora, peraltro, con i caratteri della somma urgenza.
L’Amministrazione ha, poi, dato conto dell’incapienza, all’epoca, del capitolo di bilancio, con conseguente impossibilità oggettiva di poter procedere ai lavori richiesti.
Alla luce di tale nuova prospettazione dei fatti, il Collegio ritiene che si debba considerare venuto meno il rilievo della mancanza dei presupposti della somma urgenza sub specie di inerzia dell’Amministrazione nel provvedere, ravvisandosi piuttosto la doverosa attivazione della stessa in tempi utili e l’ascrivibilità del ritardo nel provvedere a ragioni di oggettiva impossibilità ad assumere le decisioni del caso (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, deliberazione 20.10.2014 n. 174).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIIl termine di decadenza per procedere all’impugnazione di atti amministrativi, di sessanta giorni (art. 29 c.p.a.), decorre dal momento in cui la parte legittimata all’impugnativa riceva la notifica dell’atto impugnato, dalla scadenza del periodo di pubblicazione se previsto (art. 41 co. 2 c.p.a.); in mancanza, il termine decorre dalla piena conoscenza dell’atto.
Per piena conoscenza dell’atto si intende, con orientamento tradizionale e consolidato, la conoscenza degli elementi essenziali dell’atto ed essi vanno individuati nell'autorità emanante, nell'oggetto, nel contenuto dispositivo e nel suo effetto lesivo.
L’orientamento che ritiene conseguita la piena conoscenza dell’atto solo qualora si conoscano anche le sue motivazioni, così da poterne anche apprezzare gli eventuali vizi, pur rappresentato in talune pronunce, resta largamente minoritario.
Il descritto orientamento maggioritario, cui la Sezione aderisce, è declinato, quanto all’impugnativa dei titoli edilizi, nel senso che il termine per impugnare decorra dal momento in cui divenga percepibile la piena portata dell'intervento medesimo onde poterne apprezzare l’eventuale lesività dei propri interessi; di regola, tale conoscenza è conseguita con l’ultimazione dei lavori, salvo che non sia provato, a cura di chi ha sollevato l’eccezione, che già in un momento precedente la costruzione realizzata rivelasse in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente.

Com’è noto, il termine di decadenza per procedere all’impugnazione di atti amministrativi, di sessanta giorni (art. 29 c.p.a.), decorre dal momento in cui la parte legittimata all’impugnativa riceva la notifica dell’atto impugnato, dalla scadenza del periodo di pubblicazione se previsto (art. 41 co. 2 c.p.a.); in mancanza, ed è il caso che ci occupa, il termine decorre dalla piena conoscenza dell’atto.
Per piena conoscenza dell’atto si intende, con orientamento tradizionale e consolidato, la conoscenza degli elementi essenziali dell’atto ed essi vanno individuati nell'autorità emanante, nell'oggetto, nel contenuto dispositivo e nel suo effetto lesivo (ex multis, v. Cons. St., IV, 02.09.2011, n. 4973 e Cons. St. VI, n. 5116/2007). L’orientamento che ritiene conseguita la piena conoscenza dell’atto solo qualora si conoscano anche le sue motivazioni, così da poterne anche apprezzare gli eventuali vizi, pur rappresentato in talune pronunce, resta largamente minoritario (per una attenta ricostruzione degli orientamenti sul punto si veda Consiglio di Stato, sez. III 23/05/2012, n. 2993 che, comunque, aderisce al menzionato orientamento maggioritario).
Il descritto orientamento maggioritario, cui la Sezione aderisce (v., ad es., Sent. n. 1603/2014; v. anche TAR Napoli, sez. VIII, n. 03240/2013), è declinato, quanto all’impugnativa dei titoli edilizi, nel senso che il termine per impugnare decorra dal momento in cui divenga percepibile la piena portata dell'intervento medesimo onde poterne apprezzare l’eventuale lesività dei propri interessi (v., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 12/02/2013, n. 844); di regola, tale conoscenza è conseguita con l’ultimazione dei lavori, salvo che non sia provato, a cura di chi ha sollevato l’eccezione, che già in un momento precedente la costruzione realizzata rivelasse in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente (oltre ai precedenti già richiamati, si vedano: TAR Napoli, sez. II 18/03/2013,n. 1502; Consiglio di Stato, sez. IV 07/11/2012, n. 5657; Consiglio di Stato, sez. IV 26/11/2013, n. 5633; Consiglio di Stato, sez. IV 16/04/2014, n. 1890; Consiglio di Stato, sez. IV 19/12/2012, n. 6557) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 14.11.2014 n. 5902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione .
In siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell'assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con segnalazione certificata di inizio attività.

Ma a rilevare ancora qui con valore dirimente, è il principio, dal Collegio pienamente condiviso, secondo cui in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 29.10.2013 n. 4817; 05.06.2013 n. 2910; 02.05.2012 n. 2006; 11.05.2011 n. 2624; 25.02.2011 n. 1218; 03.12.2010 n. 26788; Cass. Penale, Sezione III, 24.10.2008 n. 45070).
In siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell'assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con segnalazione certificata di inizio attività (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 11.12.2012 n. 5084, 02.05.2012 n. 2006, 11.05.2011 n. 2626; Sez. VII, 14.01.2011 n. 160)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.11.2014 n. 5899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di ordine di demolizione non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
---------------
E’ inoltre priva di riscontro probatorio la risalenza dei manufatti al periodo antecedente all’entrata in vigore della L. 06.08.1967 n. 765 che, come noto, ha esteso all’intero territorio comunale l’obbligo di munirsi di titolo abilitativo ad edificare, con ciò innovando l’art. 31 della L. 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica) che, in precedenza, circoscriveva tale obbligo esclusivamente agli immobili situati nei centri urbani.

Si aggiunga che, nel caso specifico, l’ordine demolitorio si giustifica anche in ragione della natura vincolata dell’area interessata dalle costruzioni abusive.
Com'è noto nelle zone soggette a vincoli di cui al D.Lgs. n. 42/2004 ogni intervento non rientrante tra quelli di cui all'art. 149 deve essere preceduto da specifica autorizzazione paesaggistica e, in assenza di quest'ultima, le opere senza titolo devono essere ridotte in pristino ai sensi dell'art. 167 dello stesso decreto legislativo.
Allo stesso modo l'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che "il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi".
Nel caso di specie è incontestata la presenza del vincolo paesaggistico sull'area in questione così come l'insussistenza di un titolo per le opere realizzate e, pertanto, correttamente ne è stata ordinata demolizione con riduzione in pristino dello stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, peraltro, in caso di ordine di demolizione non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Puglia, Lecce, 04.02.2012 n. 227; TAR Campania, Napoli, VIII, 09.02.2012 n. 693).
E’ inoltre priva di riscontro probatorio la risalenza dei manufatti al periodo antecedente all’entrata in vigore della L. 06.08.1967 n. 765 che, come noto, ha esteso all’intero territorio comunale l’obbligo di munirsi di titolo abilitativo ad edificare, con ciò innovando l’art. 31 della L. 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica) che, in precedenza, circoscriveva tale obbligo esclusivamente agli immobili situati nei centri urbani
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.11.2014 n. 5899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che, nei procedimenti ad istanza di parte, l’adozione di un provvedimento negativo sia preceduta dalla comunicazione agli interessati dei motivi che ostano all'accoglimento della domanda.
Tale disposizione, avente portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti diretti alla realizzazione degli impianti di telefonia mobile disciplinati dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003, fermo restando ovviamente che la comunicazione delle ragioni ostative interrompe il termine per concludere il procedimento, ovvero per la formazione del silenzio assenso, fino alla presentazione delle osservazioni da parte degli interessati o in mancanza fino alla scadenza dei dieci giorni per l’esercizio del diritto di partecipazione al contraddittorio.
Ne consegue che l'omissione del preavviso di rigetto comporta l'illegittimità del provvedimento conclusivo emesso in violazione dei diritti di partecipazione procedimentale del destinatario.
---------------
Gli artt. 86 e 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 disciplinano il rilascio dei titoli abilitativi relativi alle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici, con un procedimento semplificato ai fini urbanistici, edilizi ed igienico sanitari, destinato a prevalere sulla disciplina edilizia dettata dal d.P.R. n. 380 del 2001, assorbendo e sostituendo i procedimenti ordinari per il rilascio dei titoli abilitativi.
Nel contempo, in base all’art. 86, co. 4, del citato d.lgs. n. 259, sono fatte espressamente salve le disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali, ora contenute nel d.lgs. n. 42 del 2004.
Pertanto in presenza di un immobile o di un’area di interesse paesaggistico, l’intervento è comunque subordinato all’autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, con il parere vincolante della competente Soprintendenza ai sensi dell’art. 146 del citato d.lgs. n. 42.
---------------
I gestori di impianti di telefonia mobile sono tenuti ad allegare esclusivamente i documenti indicati dal Codice delle Comunicazioni, ferma restando comunque l’esigenza di fornire un'appropriata dimostrazione della disponibilità dell’immobile interessato dall’intervento.
Infatti il procedimento dettato dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003 per l’installazione di impianti di telefonia mobile è improntato a finalità essenzialmente acceleratorie e semplificatorie, per cui è da escludere che l’autorità amministrativa possa aggravare il procedimento esigendo documentazione diversa e ulteriore da quella prevista dall'allegato 13, modello A o B, del d.lgs. n. 259 del 2003, per lo scrutinio in ordine al rilascio del titolo abilitativo secondo le previsioni regolamentari in materia edilizia.

Sull’argomento vanno innanzitutto esaminate le censure relative a vizi del procedimento.
L'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che, nei procedimenti ad istanza di parte, l’adozione di un provvedimento negativo sia preceduta dalla comunicazione agli interessati dei motivi che ostano all'accoglimento della domanda.
Tale disposizione, avente portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti diretti alla realizzazione degli impianti di telefonia mobile disciplinati dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003, fermo restando ovviamente che la comunicazione delle ragioni ostative interrompe il termine per concludere il procedimento, ovvero per la formazione del silenzio assenso, fino alla presentazione delle osservazioni da parte degli interessati o in mancanza fino alla scadenza dei dieci giorni per l’esercizio del diritto di partecipazione al contraddittorio.
Ne consegue che l'omissione del preavviso di rigetto comporta l'illegittimità del provvedimento conclusivo emesso in violazione dei diritti di partecipazione procedimentale del destinatario (cfr. TAR Piemonte, 08/01/2014, n. 18).
Le considerazioni di seguito svolte nel paragrafo 3.1 escludono che il procedimento in questione debba concludersi necessariamente con una determinazione di diniego, per gli effetti previsti dall’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990.
E’ inoltre da osservare che gli artt. 86 e 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 disciplinano il rilascio dei titoli abilitativi relativi alle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici, con un procedimento semplificato ai fini urbanistici, edilizi ed igienico sanitari, destinato a prevalere sulla disciplina edilizia dettata dal d.P.R. n. 380 del 2001, assorbendo e sostituendo i procedimenti ordinari per il rilascio dei titoli abilitativi.
Nel contempo, in base all’art. 86, co. 4, del citato d.lgs. n. 259, sono fatte espressamente salve le disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali, ora contenute nel d.lgs. n. 42 del 2004. Pertanto in presenza di un immobile o di un’area di interesse paesaggistico, l’intervento è comunque subordinato all’autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, con il parere vincolante della competente Soprintendenza ai sensi dell’art. 146 del citato d.lgs. n. 42 (cfr., Cons. St., sez. III, 13/01/2014, n. 96).
Sennonché non risulta che l’istanza di autorizzazione paesaggistica, risalente al 10.06.2011, sia stata inoltrata alla Soprintendenza, accompagnata da una relazione istruttoria e da una proposta di provvedimento in ordine alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento.
---------------
Per il resto, è opportuno osservare che i gestori di impianti di telefonia mobile sono tenuti ad allegare esclusivamente i documenti indicati dal Codice delle Comunicazioni, ferma restando comunque l’esigenza di fornire un'appropriata dimostrazione della disponibilità dell’immobile interessato dall’intervento (cfr. TAR Campania, sez. VII, 20/12/2006, n. 10647).
Infatti il procedimento dettato dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003 per l’installazione di impianti di telefonia mobile è improntato a finalità essenzialmente acceleratorie e semplificatorie, per cui è da escludere che l’autorità amministrativa possa aggravare il procedimento esigendo documentazione diversa e ulteriore da quella prevista dall'allegato 13, modello A o B, del d.lgs. n. 259 del 2003, per lo scrutinio in ordine al rilascio del titolo abilitativo secondo le previsioni regolamentari in materia edilizia (cfr., TAR Campania, sez. VII, 21/4/2009, n. 2077)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.11.2014 n. 5886 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIGli istituti di partecipazione procedimentale, per quanto ispirati a esigenze di trasparenza e democraticità dell’azione amministrativa -corollari, a loro volta, dei principi di buon andamento e imparzialità della stessa (art. 97 Cost.)- non godono di applicazione indiscriminata, potendo risultare recessivi rispetto ad altre esigenze, del pari dotate di analogo rilievo costituzionale.
Con la conseguenza che si è esclusa l’annullabilità del provvedimento in caso di violazioni di ordine formale, tutte le volte in cui la natura vincolata del provvedimento sia tale da escludere che il contenuto dello stesso avrebbe potuto essere differente (art. 21-octies, 2 co., prima parte), o nell’ipotesi di atti discrezionali, tutte le volte in cui il provvedimento adottato non avrebbe, comunque, potuto avere un contenuto diverso da quello oggetto di impugnazione (art. 21-octies, 2 co, seconda parte).
Cioè il legislatore ha ritenuto irrilevanti gli accertati vizi di natura formale, ove ininfluenti sul bene della vita richiesto dall’istante.

Peraltro, va in ogni caso anche ricordato che -come costantemente precisato dalla giurisprudenza- gli istituti di partecipazione procedimentale, per quanto ispirati a esigenze di trasparenza e democraticità dell’azione amministrativa -corollari, a loro volta, dei principi di buon andamento e imparzialità della stessa (art. 97 Cost.)- non godono di applicazione indiscriminata, potendo risultare recessivi rispetto ad altre esigenze, del pari dotate di analogo rilievo costituzionale.
Con la conseguenza che si è esclusa l’annullabilità del provvedimento in caso di violazioni di ordine formale, tutte le volte in cui la natura vincolata del provvedimento sia tale da escludere che il contenuto dello stesso avrebbe potuto essere differente (art. 21-octies, 2 co., prima parte), o nell’ipotesi di atti discrezionali, tutte le volte in cui il provvedimento adottato non avrebbe, comunque, potuto avere un contenuto diverso da quello oggetto di impugnazione (art. 21-octies, 2 co, seconda parte).
Cioè il legislatore ha ritenuto irrilevanti gli accertati vizi di natura formale, ove ininfluenti sul bene della vita richiesto dall’istante (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 14.11.2014 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa decadenza dalla concessione edilizia non implica la demolizione delle opere realizzate, ma comporta solo la necessità di chiedere un nuovo permesso per la esecuzione delle ulteriori opere.
La circostanza, invero, che il provvedimento di decadenza della concessione edilizia abbia carattere dichiarativo e che l’effetto di decadenza del titolo edilizio si verifica automaticamente ope legis a causa del semplice decorso dei termini stabiliti per l’inizio e per il completamento dei lavori, comporta la conseguente legittimità dell’ordine di demolizione solo per quanto realizzato “successivamente” alla intervenuta decadenza, ma non per quanto realizzato in precedenza.
In estrema sintesi, la decadenza del titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori ha efficacia ex nunc e non ex tunc, per cui le opere edilizie realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio non possono di certo essere ritenute abusive; di conseguenza, l’ordine di demolizione di tali opere può essere disposto solo in presenza di un interesse pubblico particolarmente rilevante e non per il semplice fatto che il titolo edilizio è nel frattempo decaduto.
Va, invero, al riguardo ricordato che -così come del resto già precisato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St., sez. IV, 13.02.2007, n. 804)- la decadenza dalla concessione edilizia non implica la demolizione delle opere realizzate, ma comporta solo la necessità di chiedere un nuovo permesso per la esecuzione delle ulteriori opere. La circostanza, invero, che il provvedimento di decadenza della concessione edilizia abbia carattere dichiarativo e che l’effetto di decadenza del titolo edilizio si verifica automaticamente ope legis a causa del semplice decorso dei termini stabiliti per l’inizio e per il completamento dei lavori, comporta la conseguente legittimità dell’ordine di demolizione solo per quanto realizzato “successivamente” alla intervenuta decadenza (Cons. giust. amm. Reg. Sic., 16.09.1998, n. 474), ma non per quanto realizzato in precedenza.
In estrema sintesi, la decadenza del titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori ha efficacia ex nunc e non ex tunc, per cui le opere edilizie realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio non possono di certo essere ritenute abusive; di conseguenza, l’ordine di demolizione di tali opere può essere disposto solo in presenza di un interesse pubblico particolarmente rilevante e non per il semplice fatto che il titolo edilizio è nel frattempo decaduto
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 14.11.2014 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di approvazione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratte in via generale al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l’espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che “particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni”;
In sostanza, le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date, oltre che da superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Le scelte urbanistiche, invero, costituiscono valutazioni connotate da amplissima discrezionalità, sottratte come tali al sindacato di legittimità, per cui la valutazione dell’idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell’esercizio del potere discrezionale rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.

Giova, invero, sul punto ricordare che -come costantemente e pacificamente affermato dalla giurisprudenza- le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di approvazione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratte in via generale al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l’espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che “particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni”; in sostanza, le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date, oltre che da superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Le scelte urbanistiche, invero, costituiscono valutazioni connotate da amplissima discrezionalità, sottratte come tali al sindacato di legittimità, per cui la valutazione dell’idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell’esercizio del potere discrezionale rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 14.11.2014 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Insidie stradali: Se il pedone scivola su un 'cubetto instabile' non segnalato il Comune deve risarcire il danno.
Una vera e propria tiratina d’orecchie arriva dalla Cassazione, nei confronti del giudice d’appello, in tema di responsabilità della P.A. ex art. 2051 c.c.
Chiamata a pronunciarsi in una vicenda riguardante un sinistro stradale, occorso ad un pedone, il quale scivolando su un cubetto instabile della pavimentazione della strada, non visibile e non segnalato, riportava lesioni personali alla caviglia sinistra, la Corte di Cassazione - Sez. IV civile (sentenza 23.10.2014 n. 22528) ha colto l’occasione per richiamare la Corte d’Appello di Napoli, per l’errato “ragionamento giuridico compiuto”, sulla base di una “giurisprudenza ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e del trabocchetto” (vedi: la raccolta di articoli e sentenze in tema di insidie stradali).
Accolta in primo grado, infatti, la richiesta di risarcimento danni avanzata dal pedone veniva rigettata in secondo grado, dal giudice territoriale che dava ragione al Comune di Guardia Sanframondi.
Per la Cassazione, invece, rispetto alla fattispecie, il caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui all’art. 2051 c.c.
Pertanto, ricordando la sequenza consolidata di decisioni in materia (tra cui Cass. n. 9546 /2010) -basata su una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della P.A. in relazione alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni– la Cassazione ha affermato che “la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell'art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato”.
Presunzione che può essere superata solo dalla prova del caso fortuito che, ha sottolineato la Cassazione, non sussiste nel caso di specie, giacché il danneggiato è caduto “in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo”.
Così disponendo, pertanto, la S.C. ha cassato con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione con il vincolo di attenersi ai principi di diritto enunciati (commento tratto da www.studiocataldi.it).
---------------
MASSIMA
La presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato.
La presunzione in tali circostanze resta superata dalla prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo (nel caso di specie un pedone scivola su un cubetto instabile della pavimentazione stradale non visibile, né segnalato, determinando la caduta lesioni personali alla caviglia sinistra)
(tratta da http://renatodisa.com).

INCARICHI PROGETTUALI: Sull'affidamento di incarichi progettuali condizionati al finanziamento (futuro) dell'opera pubblica.
La Corte rimette gli atti al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite Civili, circa le questioni sollevate con il ricorso principale e con il secondo ed il terzo motivo del ricorso incidentale che hanno ad oggetto la validità dei contratti di prestazione d'opera professionale stipulati dagli enti pubblici territoriali nei quali il pagamento del compenso dovuto al professionista sia condizionato al finanziamento dell'opera la cui progettazione costituisce oggetto dell'incarico conferito.
Si discute in particolare se tale condizione valga a sottrarre il contratto al disposto dell'art. 23, commi terzo e quarto, del decreto-legge n. 66 del 1989 (abrogato dall'art. 123, comma primo, lett. n, del d.lgs. 25.02.1995, n. 77, e sostituito dall'art. 35 del medesimo decreto, a sua volta abrogato dall'art. 274, lett. hh, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, e sostituito dall'art. 191 del medesimo decreto), applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, che subordina l'effettuazione di qualsiasi spesa alla sussistenza di una delibera autorizzativa ed alla registrazione del relativo impegno contabile sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai
terzi interessati, prevedendo che, in mancanza, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano consentito la fornitura
(Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 17.03.2014 n. 6123).
---------------
Per un commento all'ordinanza de qua cliccare qui (link a www.studiolegalepadula.it).

AGGIORNAMENTO AL 17.11.2014

ã

IN EVIDENZA

Oramai, è imminente la scadenza del 31.12.2014 entro cui completare la gestione associata delle funzioni comunali!! E pare che di ulteriore proroga non se ne parli ...

ENTI LOCALI: Gestioni associate e basta. Niente proroga ai comuni sotto 5 mila abitanti. Il chiarimento del ministero degli affari regionali a un convegno.
Nessuna ulteriore proroga sulle gestioni associate dei piccoli comuni.

Questa è la posizione del governo, stando a quanto dichiarato dal capo della segreteria tecnica del ministero degli affari regionali, Francesco Zito, in un convegno svoltosi ieri presso la Scuola umbra di amministrazione pubblica.
L'obbligo è stato previsto dall'art. 14 del dl 78/2010 e interessa tutti i comuni inferiori a 5.000 abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane.
Le funzioni da associare sono quelle identificate come fondamentali dalla legge statale: al momento, il relativo elenco è dettato dall'art. 14, comma 27, del dl 78, come sostituito dall'art. 19, comma 1, del dl 95/2012.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue proroghe: al momento, tre funzioni sono state associate entro il 31.12.2012, altre tre avrebbero dovuto esserlo entro il 30 settembre, mentre per le restanti la scadenza è fissata al 31.12.2014.
I nodi, però, stanno venendo al pettine solo ora, dato che funzioni già devolute a livello sovracomunale o erano già gestite in forma associata (per esempio, servizi sociali) o sono piuttosto «leggere» (per esempio, protezione civile o catasto). Il vero core business include le funzioni «pesanti» (come, per esempio, amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed è ancora tutto da trasferire. Così come le procedure di acquisto, che tutti i comuni non capoluogo (anche se con più di 5.000 abitanti) devono centralizzare sempre entro fine anno per i beni e i servizi, entro il 30.06.2015 per i lavori.
Questa è la tempistica, ha detto Zito. Ma sul territorio è alta l'attesa per un nuovo rinvio. Opzione che, però, al momento non è sul tavolo dell'esecutivo.
Naturalmente, non è escluso che il correttivo possa arrivare dal parlamento, magari in sede di approvazione del ddl stabilità 2015.
Il problema, puntualmente evidenziato da Zito, è che le sanzioni per gli enti inadempienti sono di dubbia efficacia. In teoria, passata inutilmente la scadenza, il prefetto dovrebbe fissare un termine perentorio e quindi nominare un commissario ad acta. Ma quest'ultimo (ammesso che sia individuato) non potrà far altro che svolgere una funzione di stimolo. Servirebbero sanzioni più forti, accompagnate anche da incentivi reali per chi si aggrega (articolo ItaliaOgi del 12.11.2014).

     Comunque, la Prefettura di Avellino ricorda che, ai sensi del comma 31-quater del D.L. 78/2010 convertito nella legge n. 122/2010, in caso di inadempimento è previsto l'intervento del Prefetto che assegna ai Comuni un termine per provvedere, decorso il quale opera l'azione sostitutiva del Governo, ai sensi dell'art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. legge la loggia).

ENTI LOCALI: Oggetto: Gestione associata delle funzioni fondamentali degli enti locali ex art. 14, D.L. 31.05.2010, n. 79, convertito con modificazioni, dalla legge 30.07.2010 e dai commi da 25 a 31-quater della legge n. 122/2010 e successive modifiche, in base al testo come integrato dall'art. 19 della legge n. 135/2012 (Prefettura di Avellino, nota 12.11.2014 n. 1256 di prot.).

     Forse, è il caso di ricordare quali siano le funzioni comunali oggetto di gestione associata siccome elencate dall'art. 14, comma 27, del D.L. 78/2010:
27. Ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione, sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione:
   a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo;
   b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale;
   c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente;
   d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale;
   e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;
   f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi;
   g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione;
   h) edilizia scolastica, per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;
   i) polizia municipale e polizia amministrativa locale;
   l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali e statistici, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale.
     Certamente, per quanto qui interessa, la funzione più "delicata" è quella di cui alla lett. d) ed un interrogativo ci sorge spontaneo: se un comune con meno di 5.000 abitanti non si associa con un altro (per raggiungere il minimo demografico di legge) entro fine c.a., cosa succede se dal 1° gennaio 2015:
1) rilascia un permesso di costruire?? oppure istruisce una DIA/SCIA??
2) adotta/approva un piano attuativo??
e tutto ciò nonostante l'enorme mole di tempo messa a disposizione dal legislatore per conformarsi al precetto normativo??
     Gli atti sono legittimi?? C'è il concreto rischio di un eventuale risarcimento del danno laddove, magari, l'atto amministrativo fosse annullato per le più disparate motivazioni?? L'inerzia dell'amministrazione comunale costituisce colpa grave?? Il responsabile dell'UTC ha debitamente informato (per iscritto) la Giunta Comunale circa l'adempimento da osservare?? E se non vi ha provveduto??

17.11.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

SICUREZZA LAVORORuolo e responsabilità del committente, la guida pratica per la sicurezza nei cantieri.
Al fine di prevenire gli incidenti che quotidianamente si verificano in cantiere è utile informare e sensibilizzare non solo i tecnici, ma anche tutti i cittadini: chiunque, infatti, decida di ristrutturare il proprio appartamento o di costruire una nuova casa assume il ruolo di committente e diventa il primo responsabile della catena della sicurezza.
Questo è il presupposto su cui si basa la guida “Ruolo e responsabilità del committente” realizzata dall’Ordine degli Ingegneri di Bologna.
La pubblicazione pone l’attenzione sulla figura di “primo responsabile” che assume il committente e le sue responsabilità in materia di sicurezza e prevenzione, nonché sugli obblighi normativi in materia e alle relative sanzioni.
Il documento costituisce una raccolta di utili consigli sulla sicurezza che guidano i committenti prima, durante e a fine lavori, come ad esempio:
● rivolgersi ad un professionista che ricopra la carica di Responsabile dei lavori, se non si possiede una formazione tecnica in materia di edilizia e di sicurezza nei cantieri
● individuare la figura del Coordinatore della sicurezza sulla base di una comprovata esperienza e serietà professionale
● scegliere l’impresa di fiducia e di riconosciuta capacità tecnico-professionale anche nell’applicazione delle misure di sicurezza e salute dei lavoratori in cantiere (13.11.2014 - link a www.acca.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

SEGRETARI COMUNALI: OGGETTO: richiesta di parere in merito all'applicazione dell'art. 9, commi 1 e 21, del D.L. 78/2010 ai segretari comunali collocati nella fascia professionale B (nota 28.10.2014 n. 60480 di prot.).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: OGGETTO: semplificazione degli oneri formali nella partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici (Consorzio dei Comuni Trentini, circolare 05.11.2014 n. 62/2014).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modificazioni ed integrazioni - risposta al quesito relativo ai costi di manutenzione degli apprestamenti (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 04.11.2014 n. 25/2014).

INCARICHI PROGETTUALIOggetto: Formazione continua ingegneri (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 31.10.2014 n. 445).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: istanze di autorizzazione ai sensi del codice della strada per la posa di cartelli pubblicitari sul territorio comunale (Consorzio dei Comuni Trentini, circolare 29.10.2014 n. 54/2014).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DIFFERIMENTO DEL TERMINE DI ENTRATA IN VIGORE DELLA NUOVA CLASSIFICAZIONE SISMICA (Regione Lombardia, nota 15.10.2014 n. 7424 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 17.11.2014, "Determinazioni in merito ai tempi ed alle modalità di presentazione e/o aggiornamento, per l’anno 2015, della comunicazione per l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e degli altri fertilizzanti azotati prevista dalle d.g.r. n. 2208/2011 allegato I (zone vulnerabili) e n. 5868/2007 – Allegato 2 (zone non vulnerabili) e modifiche al d.d.g. n. 386/2012 (deroga nitrati)" (decreto D.G. 13.11.2014 n. 10588).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., caos sulla spesa per i lavori flessibili. Corte conti campana contro quella lombarda.
È caos sulla portata dei nuovi limiti alla spesa per i contratti di lavoro flessibili introdotti dal recente decreto sulla p.a. I giudici contabili sono divisi sull'interpretazione della novella e sfornano parere contrastanti: l'ultimo è quello della Sezione regionale di controllo per la Campania, che ha dato ragione a quella pugliese e torto a quella lombarda.

Il problema riguarda la previsione di cui all'art. 11, comma 4-bis, del dl 90/2014, introdotto dalla l. 114/2014. In base a essa, agli enti locali che hanno sempre rispettato l'obbligo di riduzione delle spese di personale previsto dai commi 557 (enti soggetti al Patto) e comma 562 (enti non soggetti al Patto) dell'art. 1 della legge 296/2006 non si applicano le limitazioni previste dall'art. 9, comma 28, del dl 78/2010 per le assunzioni a tempo determinato, collaborazioni coordinate e le altre forme di lavoro flessibile, pari 50% delle spesa impegnata con le medesime finalità nel 2009.
Il dubbio riguarda l'ulteriore precisazione (contenuta nel medesimo art. 9, comma 28, già prima della modifica), secondo cui «resta fermo che comunque la spesa complessiva non può essere superiore alla spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009».
La prima a esprimersi sul punto è stata la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Puglia con il parere 09.10.2014 n. 174, affermando che l'obbligo di non oltrepassare la spesa 2009 si impone anche agli enti «virtuosi».
Il medesimo orientamento restrittivo è stato espresso nei giorni scorsi dalla omologa Sezione per la Campania, che con il parere 06.11.2014 n. 232 ha confermato in pieno la tesi dei colleghi pugliesi.
Di avviso contrario, invece, la Sezione per la Lombardia, il cui parere 17.10.2014 n. 264 ha ritenuto che la novella introdotta dal dl 90 determini la disapplicazione di tutte le limitazioni previste dal citato comma 28, ivi compresa quella in parola.
Tale lettura, invero, pare quella maggiormente coerente con la ratio del più recente intervento modificativo. Come sembra ricavabile anche dagli atti preparatori della disposizione in esame, esso è volto a consentire agli enti locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562 una maggiore flessibilità, riconoscendo loro la facoltà di incrementare la spesa di personale da compensarsi comunque con corrispondente riduzione di altre voci di bilancio, fermi restando naturalmente i vincoli del Patto di stabilità interno (articolo ItaliaOggi dell'11.11.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti pubblici, il rinnovo può evitare il concorso. Corte dei conti. Le deroghe possibili.
Il rinnovo di un incarico dirigenziale pubblico di seconda fascia può essere deciso anche senza passare dal concorso pubblico, a patto che ci siano «peculiari esigenze di funzionamento» scritte nero su bianco nel provvedimento di conferma; tra queste «peculiari esigenze» non può rientrare un'urgenza che mal si concilierebbe con il calendario lungo delle procedure concorsuali, dal momento che la scadenza dell'incarico è nota fin dall'inizio e consente alla Pubblica amministrazione di attrezzarsi in tempo, mentre la deroga potrebbe essere sostenuta «dall'alto livello di specializzazione dei compiti assegnati all'ufficio, dalla particolare competenza posseduta e dai buoni risultati raggiunti dal dirigente preposto».
A dettare le istruzioni per i rinnovi degli incarichi dirigenziali è la Corte dei conti, che con la deliberazione 29.10.2014 n. 24/2014 della sezione centrale di controllo sugli atti del Governo, diffusa ieri, apre un varco negli obblighi di concorso previsti dall'articolo 19 del Testo unico sul pubblico impiego (Dlgs 165/2001) e rafforzati dalla riforma Brunetta. La regola impone la selezione pubblica per il conferimento di incarichi dirigenziali, e in genere il rinnovo è considerato alla pari di un nuovo conferimento (così, per esempio, la delibera 180/2014 della sezione Emilia Romagna).
La selezione serve a tutelare gli aspiranti al posto e ad assicurare «la trasparenza e la neutralità nell'assegnazione delle funzioni», ma questi interessi possono rivelarsi «recessivi rispetto a peculiari esigenze di funzionamento» dell'amministrazione. Entrambi questi aspetti, dunque, vanno messi sulla bilancia, e possono portare a scelte diverse rispetto all'obbligo di concorso.
Scelte, però, che oltre a essere limitate dalle «peculiari esigenze» indicate dalla Corte (ma comunque rimesse ai giudizi della stessa Pa) devono fare i conti con le regole anti-corruzione, che chiede di fissare criteri di rotazione per gli incarichi più a rischio: un insieme di parametri che non è facile tenere insieme quando si decide di rinnovare un incarico senza concorso (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.20).
---------------
Massima:
Per l’adozione del provvedimento di conferma nelle funzioni dei dirigenti di seconda fascia, non è obbligatoria l’applicazione della procedura di cui all’art. 19, comma 1-bis, del d.lgs n. 165/2001, in quanto la specifica fattispecie del rinnovo può essere considerata una casistica a sé, sottratta agli obblighi di pubblicità introdotti in via generale da parte del d.lgs. n. 150 del 2009.
Le particolari esigenze di servizio atte a giustificare il provvedimento di conferma devono essere rese ostensive nel provvedimento stesso, costituendo il presupposto che consente di fare ricorso a tale istituto, alternativo al nuovo conferimento, che implica la conseguenza di procedere in deroga al generale criterio della concorsualità.

SEGRETARI COMUNALI: La Corte dei conti riassegna i diritti ai segretari di fascia A. Decreto Pa. Lettura estensiva dalla sezione Lombardia.
L’accesso ai diritti di segreteria da parte del segretario comunale continua a operare se il servizio viene prestato in Comuni privi di personale con qualifica dirigenziale o se i segretari stessi non hanno la qualifica dirigenziale.
Lo precisa la Corte dei Conti Lombardia con il parere 29.10.2014 n. 275.
La magistratura contabile ha precisato che, nel caso di segretario di fascia A (e quindi equiparato al dirigente dall’articolo 32 del contratto nazionale del 16.05.2001) titolare di una convenzione di segreteria tra più enti con popolazione complessiva compresa tra 10.001 e 65mila abitanti, dove in nessun ente sono presenti dipendenti con qualifica dirigenziale, è possibile attribuire i diritti di segreteria, anche dopo il Dl 90/2014 che ne ha limitato l’attribuzione al personale interessato.
L’articolo 10 del Dl 90 prevede che «negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale», i diritti di segreteria sono erogati in misura non superiore al quinto dello stipendio in godimento. La lettura dei giudici risulta a favore della categoria ma con questa interpretazione solo i segretari che prestano servizio presso enti locali con dirigenti si vedrebbero preclusa la possibilità di accedere dal provento. La norma salva anche i segretari non aventi qualifica dirigenziale, che sono quelli iscritti alla fascia C, prescindendo dalla classe demografica del Comune.
Una lettura diversa della stessa norma porterebbe ad affermare l’accesso ai diritti di segreteria da parte dei segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale e di conseguenza il provento potrebbe essere attribuito solo ai segretari di fascia C, cioè quelli che possono ricoprire sedi fino a 3mila abitanti. Sarebbero esclusi dai compensi i segretari in Comuni privi di dirigenti, se hanno una qualifica dirigenziale (di fascia A e B), e i segretari -anche privi della qualifica dirigenziale perché di fascia C- che prestano la loro attività in enti con i dirigenti.
D’altronde il trattamento dei "dirigenti" è per legge da considerare onnicomprensivo delle funzioni attribuite dall’ordinamento. Secondo la relazione tecnica del Ddl di conversione del Dl 90/2014, la nuova norma, meno severa rispetto a quella prevista prima della conversione che aboliva tout court il diritto, attenua alcuni effetti per i segretari che non hanno la qualifica dirigenziale e per quelli che lavorano in enti privi di dirigenti. La lettera della norma non aiuta a comprendere quali fossero le reali intenzioni e forti sono i dubbi di incostituzionalità, anche perché si incide su un ambito attualmente disciplinato dal contratto nazionale che secondo il Dlgs 165/2001 non può che essere demandato alla contrattazione collettiva.
Inoltre con la nuova formulazione i diritti vengono attribuiti per intero al segretario rogante, a differenza di prima quando era ammesso a riparto il 75 percento del 90 percento spettante all’ente
 (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

PATRIMONIOIl taglio dei canoni d'affitto si applica anche agli enti.
La riduzione del 15% sui canoni di locazione degli immobili adibiti ad uffici pubblici, prevista dall'articolo 3, comma 4 del dl n. 95/2012, non opera soltanto nell'ipotesi in cui il proprietario sia un privato, ma anche quando a possedere l'immobile è un ente territoriale. Infatti, allo stato attuale, nelle previsioni normative vigenti non si rinviene alcuna deroga che comporti l'esclusione dei predetti gli enti dall'applicazione della riduzione dei fitti passivi.

Sì è così espressa la sezione regionale di controllo della Corte dei conti Lombardia, nel testo del parere 27.10.2014 n. 273, con cui ha fornito un interessante chiarimento alle disposizioni contenute all'articolo 3 del dl n. 95/2012, come modificate dall'articolo 24 del dl n. 66/2014.
Norma che prevede che dallo scorso 1° luglio, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale, stipulati da amministrazioni centrali, i relativi canoni devono essere ridotti del quindici per cento di quanto sino ad allora corrisposto.
Su questo punto, il sindaco del comune di Broni (Pv) ha richiesto l'intervento consultivo della Corte lombarda per sapere se le disposizioni sopra richiamate avessero efficacia anche nei confronti degli enti territoriali, in veste di soggetti proprietari di detti immobili. Il dubbio del sindaco del comune pavese, infatti, si fonda sul fatto che un'eventuale riduzione del canone di locazione comporterebbe minori entrate in bilancio comunale e questo sarebbe «in contrasto» con la ratio della spending review che «non sembrerebbe contemplare la riduzione della spesa pubblica a danno di un'altra articolazione della pubblica amministrazione».
Secondo la Corte lombarda la norma si applica anche alle altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001. Vi è di più. La Corte aggiunge nel parere che, quando il legislatore ha voluto escludere il comparto degli enti territoriali dall'applicazione di norme sui tagli alle locazioni passive, lo ha espressamente fatto.
Quindi, posto che la norma si riferisce in generale ai contratti di locazione passiva stipulati dalle p.a. centrali «senza fornire ulteriori precisazioni», è pacifico che i tagli devono essere disposti anche nelle ipotesi di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche, proprietarie dell'immobile locato. Queste ultime, subendo la riduzione del canone, possono tuttavia esercitare il diritto di recesso dal contratto
(articolo ItaliaOggi del 15.11.2014).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli a guida interna. L'assessore esterno non presiede l'assemblea. Nei piccoli comuni la presidenza sarà assunta dal consigliere anziano.
Un assessore esterno può esercitare le funzioni di vicesindaco se, secondo lo statuto comunale, ciò comporta avere automaticamente la supplenza della presidenza del consiglio comunale in caso di assenza o impedimento del sindaco?

Nel caso di specie lo statuto dell'ente prevede che «il vice sindaco sostituisce in tutte le funzioni il sindaco temporaneamente assente, impedito o sospeso dalla carica»; inoltre stabilisce che, «in caso di assenza o impedimento anche del vicesindaco, alla sostituzione del sindaco provvede l'assessore più anziano di età». Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale disciplina in maniera specifica la fattispecie della presidenza dell'organo, stabilendo che il consiglio comunale è presieduto dal sindaco ed in caso di sua assenza od impedimento la convocazione e la presidenza spettano all'assessore delegato ed in sua assenza all'assessore anziano, individuato nel candidato che ha riportato il maggior numero di voti individuali; in caso di sua assenza o impedimento, le relative funzioni sono svolte da colui che, nella graduatoria di anzianità, occupa il posto successivo.
Premesso, pertanto, che occorrerebbe applicare la normativa regolamentare che disciplina la supplenza del presidente del consiglio, non essendovi obbligatoria corrispondenza tra l'assessore vicesindaco e assessore delegato, nella fattispecie in esame le disposizioni statutarie e regolamentari in materia mantengono una coerenza fino all'intervenuta modifica dello statuto che ha introdotto la possibilità di nomina, all'interno della giunta, anche di assessori esterni.
La nomina di assessori esterni all'assemblea nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, attiene al contenuto facoltativo dello statuto, ai sensi dell'art. 47, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000. Rientra, pertanto, nella discrezionalità del sindaco l'assegnazione delle funzioni di vicesindaco ad un assessore esterno piuttosto che a un assessore interno. Vi sono però taluni limiti alle prerogative del vicesindaco esterno al consiglio, evidenziati dal Consiglio di stato, sez. I, nel parere n. 94/1996 reso nell'adunanza del 21.02.1996. In tale parere, il Supremo consesso ha ritenuto che il vicesindaco esterno al consiglio non possa svolgere le funzioni di componente, con diritto di voto, nel consiglio comunale, in quanto «appare difficilmente concepibile che esse vengano esercitate di volta in volta dal sindaco o da chi ne fa occasionalmente le veci», considerato che «nel nostro ordinamento non è ammessa la delega o sostituzione nelle funzioni di componente delle assemblee elettive».
Per quanto concerne le funzioni di presidente del consiglio comunale che spettano al sindaco nei comuni sino a 15.000 abitanti (salvo che l'ente si sia avvalso della facoltà di prevedere nello statuto la figura del presidente del consiglio) il Consiglio di stato ha distinto l'ipotesi che il vicesindaco sia anche consigliere comunale, da quella in cui è, viceversa, esterno al consiglio. In merito, l'art. 64, comma 3, del dlgs. n. 267/2000 dispone che nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore nella rispettiva giunta, per cui non è operante la previsione del precedente comma 2, che dispone l'automatica cessazione dalla carica di consigliere all'atto dell'accettazione dell'incarico assessorile, ovvero l'obbligo, per il consigliere che sia nominato assessore, di «dimettersi» dalla carica di consigliere.
Orbene, nel primo caso deve reputarsi ammissibile la possibilità di sostituire il sindaco anche nelle funzioni presidenziali, mentre nel secondo caso il vicesindaco non può presiedere il consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un soggetto che non ne fa parte. La presidenza sarà, invece, assunta dal membro del collegio che ne ha titolo in base alle consuete regole dell'anzianità».
Anche l'articolo 39 del decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina la figura del presidente del consiglio e del vice presidente, fatta salva la prerogativa propria del sindaco, consente l'affidamento dell'ufficio in parola esclusivamente ai consiglieri comunali. Qualora l'ente non disponga di assessori interni che cumulino anche il ruolo di consiglieri comunali, nell'impossibilità di assegnazione della delega prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, dovrà pertanto procedersi alle opportune modifiche statutarie e regolamentari -assegnando il potere sostitutivo del presidente a un consigliere in carica- al fine di non incorrere in possibili interruzioni dell'attività del consiglio nell'ipotesi di impedimento del sindaco-presidente (articolo ItaliaOgi del 14.11.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto di accesso di un consigliere comunale. Delega ad un terzo dell'esercizio del diritto. Inammissibilità.
Il diritto di accesso riconosciuto dall'art. 43 TUEL ai consiglieri comunali è strumentale all'espletamento del mandato elettivo. Pertanto, così come non è possibile delegare l'esercizio del munus pubblico, allo stesso modo non può essere oggetto di delega l'esercizio di un diritto che è espressione di tale carica pubblica.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità per un consigliere comunale di delegare un terzo all'esercizio del diritto di accesso allo stesso riconosciuto dall'articolo 43 del TUEL.
Sentito il servizio elettorale si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 recita: 'I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge'.
Come rilevato, in diverse occasioni dalla giurisprudenza, si tratta di un diritto che «ha in realtà una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della L. 07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all'esercizio delle loro funzioni, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente locale (Cons. Stato, sez. IV, 21.08.2006, n. 4855) ai fini della tutela degli interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (Cons. Stato, sez. V, 08.09.1994, n. 976)»
[1].
Si tratta, dunque, di un diritto riconosciuto all'amministratore locale, strumentale all'espletamento del mandato elettivo. Per il suo tramite, infatti, il consigliere può 'valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché [per] esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e [per] promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale [...]. Il diritto in argomento non opera unicamente in relazione alle competenze amministrative del consiglio comunale ma, essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus in tutte le sue potenziali implicazioni per consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale[...]'.
[2]
Alla luce delle considerazioni che precedono segue che, così come non è possibile delegare l'esercizio del munus pubblico, allo stesso modo non può essere oggetto di delega l'esercizio di un diritto che è espressione di tale carica pubblica.
Tale conclusione si ritiene non venga contraddetta dall'esistenza, nel regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, della norma ai sensi della quale 'ciascun gruppo, prima dell'inizio della prima seduta del neo eletto Consiglio comunale, comunica per iscritto al Segretario Comunale il nome del Consigliere che assume le funzioni di Capogruppo, nonché i suoi componenti e il nominativo del Consigliere al quale affidare, in caso di assenza o impedimento del Capo gruppo medesimo, l'esercizio delle funzioni attribuite dal Regolamento'.
Trattasi, infatti, di disposizione volta a disciplinare il funzionamento dei gruppi consiliari prevedendo che, in caso di mancanza del soggetto designato quale Capogruppo ve ne sia un altro, anch'esso consigliere comunale, legittimato ad esercitare le 'funzioni attribuite dal Regolamento'. Senza addentrarsi sulla interpretazione della norma regolamentare, attività per la quale questo Ufficio non è competente,
[3] si rileva che, comunque, l'esercizio del diritto di accesso degli amministratori locali non può essere annoverato tra le 'funzioni attribuite dal Regolamento' ai Capigruppo consiliari trattandosi di un diritto personale il cui fondamento risiede nella legge.
--------------
[1] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 05.09.2014, n. 4525.
[2] TRGA, Trentino Alto Adige, sentenza del 12.02.2008, n. 29.
[3] L'interpretazione della norme del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale spetta, infatti, all'organo che lo ha approvato
(11.11.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Nomina di un amministratore comunale a direttore di un museo. Incompatibilità.
In caso di nomina di un consigliere comunale a direttore, mediante affidamento di incarico professionale, di un museo istituito dal Comune in cui esercita il suo mandato elettivo, si ritiene possa venire in rilievo la causa di incompatibilità di cui all'articolo 63, comma 1), num. 2), del D.Lgs. 267/2000 nonché quella prevista dall'art. 12 del D.Lgs. 39/2013.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità di nominare un consigliere comunale quale direttore del museo comunale sotto il profilo dell'eventuale insorgenza per lo stesso di una causa di incompatibilità.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti considerazioni.
La legge regionale 18.11.1976, n. 60 recante 'Interventi per lo sviluppo dei servizi e degli istituti bibliotecari e museali e per la tutela degli immobili di valore artistico, storico od ambientale, degli archivi storici e dei beni mobili culturali del Friuli - Venezia Giulia', all'articolo 19 prevede che: 'Alle attività del museo pubblico presiede una apposita Commissione nominata dall'ente locale proprietario e disciplinata dallo Statuto del museo stesso'. Il quarto comma dispone, poi, che, 'Della Commissione è membro di diritto il direttore del museo o il conservatore preposto ad esso'.
In attuazione della norma di legge, lo statuto del Museo dell'Ente all'articolo 4, secondo comma, prevede che: 'Della Commissione è inoltre membro di diritto il direttore del Museo, nominato dal Consiglio Comunale, mediante incarico, tenendo presente la preparazione culturale, la capacità professionale, nonché il possesso dei titoli di studio ritenuti adeguati alle mansioni da svolgere'.
Atteso che la norma statutaria prevede che il ruolo di direttore del museo venga attribuito mediante affidamento di un incarico professionale, si ritiene che lo stesso, qualora venisse dato ad un consigliere comunale, porterebbe all'insorgenza a suo carico della causa di incompatibilità di cui all'articolo 63, comma 1), num. 2), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale sancisce l'incompatibilità dell'amministratore locale che, in qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento abbia parte, direttamente o indirettamente, in servizi nell'interesse del comune.
Nel termine servizi si suole ricomprendere 'qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia in grado di determinare conflitto di interessi.'
[1] La giurisprudenza ha, altresì, specificato che l'ampia espressione di 'servizi nell'interesse del comune' si riferisce 'a tutte quelle attività che l'ente locale, nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante l'esercizio dei poteri normativi ed amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie [...]'. [2]
Si sono, al riguardo, ricondotti a tale categoria i professionisti che svolgono, con continuità, attività per conto del Comune.
[3]
In altri termini, la causa di incompatibilità in riferimento si riferisce a tutte le ipotesi di prestazioni d'opera anche professionali o comunque di collaborazione, nell'interesse del Comune, al di fuori di un rapporto d'impiego o di lavoro. Riguarda, cioè, tutti coloro che abbiano posto in essere con il Comune un rapporto giuridico, con carattere di relativa durata, in virtù del quale essi sono tenuti ad effettuare al Comune, o a terzi nell'interesse o per conto del Comune, prestazioni che si ripetono nel tempo, in modo che si determini un conflitto potenziale, fra i propri interessi e quelli dell'ente, nel corso dell'adempimento degli obblighi rispettivamente assunti.
Con riferimento alla fattispecie in esame si ritiene necessario prendere in considerazione anche il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante 'Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190' e, in particolare, l'articolo 12, comma 1, ai sensi del quale: 'Gli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico sono incompatibili con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, della carica di componente dell'organo di indirizzo nella stessa amministrazione o nello stesso ente pubblico che ha conferito l'incarico [...]'.
Si ritiene, in particolare, che l'incarico di direttore del museo possa essere inquadrato tra gli 'incarichi dirigenziali esterni' secondo la definizione datane dall'articolo 1, comma 2, lett. k) del D.Lgs. 39/2013 che li qualifica quali 'incarichi di funzione dirigenziale, comunque denominati, che comportano l'esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione [...]'.
L'espressione 'componente di organi di indirizzo politico' è, invece, fornita dall'articolo 1, comma 2, lett. f) del D.Lgs. 39/2013 nel cui novero vanno ricomprese 'le persone che partecipano, in via elettiva o di nomina, a organi di indirizzo politico delle amministrazioni [...] locali, quali [...] Sindaco, assessore o consigliere [...] nei comuni [...]'.
Ai sensi dell'articolo 17 del D.Lgs. 39/2013: 'Gli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle diposizioni del presente decreto e i relativi contratti sono nulli'.
---------------
[1] Saporito, Pisciotta, Albanese, 'Elezioni regionali ed amministrative', Bologna, 1990, pag. 115.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550.
[3] Cassazione civile, sez. I, sentenze del 14.01.1980, n. 327 e dell'08.09.1980, n. 5160. Interessante è, anche, la sentenza della Cassazione civ., sez. I, del 22.12.2011, n. 28504 ove, con riferimento all'indicata causa di incompatibilità, si afferma che in essa vanno ricompresi 'anche soggetti, non menzionati dal legislatore, ma assimilabili a quelli nominati dalla citata disposizione, in ragione della loro posizione personale verso l'ente e del potenziale conflitto di interessi' (La S.C. ha affermato detto principio con riguardo al professionista autore del progetto di variante generale del programma di fabbricazione)
(11.11.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Giunte, decide la legge. Sul numero degli assessori lo statuto non conta. Il Viminale ha chiarito che la materia rientra nelle prerogative statali
In caso di mancato adeguamento statutario alla vigente normativa in materia di composizione della giunta, si deve applicare la norma transitoria di cui all' art. 47, comma 5, del dlgs n. 267/2000, che prevede, per i comuni con popolazione compresa tra 10 mila e 100 mila, che la giunta sia composta nella misura massima di sei assessori?

L'art. 11, comma 7, della legge 03.08.1999, n. 265, confluito nell'art. 47 del Tuel n. 267/2000, ha modificato la disciplina dettata dalla legge n. 142/1990 in tema di composizione delle giunte, demandando allo statuto la determinazione del numero degli assessori sulla base di un nuovo sistema di calcolo ancorato all'entità numerica dei consiglieri piuttosto che alla fascia demografica di appartenenza dell'ente locale, come previsto in precedenza
Tali disposizioni sono state, inoltre, integrate dalla citata disciplina «transitoria», di immediata applicazione fino all'adozione di una specifica norma statutaria. I parametri indicati dal richiamato art. 47, comma 5, si sostituivano automaticamente alle disposizioni statutarie esistenti
Nel caso di specie, lo statuto comunale è stato modificato successivamente all'entrata in vigore della legge 265/99, tant'è che l'ente si è adeguato, individuando il numero massimo di dieci assessori che corrispondono esattamente ad un terzo dei consiglieri spettanti al comune secondo la previsione dell'originario comma 1 dell'art. 47.
I successivi interventi normativi del legislatore, finalizzati a disciplinare la composizione numerica delle giunte (art. 2, comma 23, della legge n. 244/2007; art. 2, comma 185, della legge n. 191/2009, come modificato dall'art. 1, comma 1-bis, del dl n. 2/2010 convertito nella legge n. 42/2010, che ha ridotto il numero massimo degli assessori a un quarto dei consiglieri; art. 16, comma 17, del dl n. 138/2011, convertito in legge n. 148/2011; art. 1, comma 135, della legge n. 56/2014), hanno inciso in maniera significativa sull'autonomia delle amministrazioni locali, in quanto immediatamente precettivi, sia in carenza di una modifica espressa del Tuel che in assenza dell'adeguamento statutario da parte dell'ente interessato, e rendono, ormai, sostanzialmente inapplicabile sia il comma 1 che il comma 5 dell'art. 47 del dlgs n. 267/2000.
In merito, la circolare del ministero dell'interno n. 2379 del 16/02/2012, ha chiarito che la determinazione numerica degli assessori rientra nella materia «organi di governo» dei comuni rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p) della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello stato. Pertanto le disposizioni statutarie, allorché incompatibili con intervenute modifiche normative, non trovano applicazione anche in relazione a quanto disposto dall'art. 1, comma 3, del Tuel n. 267, per il quale «l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per l'autonomia normativa dei comuni e delle province abroga le norme statutarie con essi incompatibili. I consigli comunali e provinciali adeguano gli statuti entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette».
Nella fattispecie, lo statuto del comune prevede un numero massimo di dieci assessori, pertanto il mancato adeguamento dello stesso alla più recente normativa rende comunque applicabile il parametro massimo previsto dalla legge che consente, ai comuni della medesima fascia demografica, la presenza di un numero massimo di sette assessori (articolo ItaliaOggi del 07.11.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Avviso al primo dei non eletti.
L'avviso di convocazione della prima seduta del consiglio comunale, in caso di dimissioni di un consigliere, avrebbe dovuto essere notificato anche al candidato risultato primo dei non eletti, chiamato a surrogare il consigliere dimessosi, successivamente alla proclamazione dei risultati?

In merito alla regolarità della convocazione della prima adunanza del consiglio comunale, con la circolare del ministero dell'interno n. 5 del 13.09.2005 stabilisce che i consiglieri surroganti non devono essere convocati per la seduta in cui si procede alla surroga, in quanto i medesimi entrano in carica, ai sensi dell'art. 38 del decreto legislativo n. 267/2000, solo «dopo l'adozione della delibera di surroga» (articolo ItaliaOggi del 07.11.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Turni e festività infrasettimanale.
L'ARAN ha chiarito che, se il turno è stato organizzato sui giorni lavorativi della settimana (cinque o sei secondo la specifica organizzazione del tempo di lavoro adottato), esso ricomprende anche le eventuali festività infrasettimanali ricadenti in tale arco temporale e che, conseguentemente, tali giornate per i turnisti devono considerarsi lavorative.
Il Comune ha chiesto di conoscere se il personale della polizia locale, che lavora in turno dal lunedì al sabato, in caso di festività infrasettimanale debba prendere servizio come stabilito dall'organizzazione dei turni stessi. L'Ente si è posto l'ulteriore questione se, qualora detto personale non intenda lavorare in tale giornata festiva, l'assenza debba essere considerata come ferie.
Si osserva, a tal proposito, che l'Aran ha precisato che: 'Se il turno è stato articolato sui giorni lavorativi della settimana (cinque o sei, secondo la specifica organizzazione del tempo di lavoro adottata), esso ricomprende anche le eventuali festività infrasettimanali ricadenti in tale arco temporale e che, conseguentemente, tali giornate per i turnisti devono considerarsi lavorative (...)'
[1].
Pertanto, si è chiarito che, in detta giornata di festività infrasettimanale, sulla base delle caratteristiche dell'organizzazione del turno adottata dalle singole amministrazioni, i dipendenti turnisti sono tenuti ordinariamente a prestare servizio.
Si è inoltre specificato che l'attività prestata in turno nei giorni festivi infrasettimanali non può essere, per le ragioni sopra esposte, considerata quale lavoro straordinario
[2].
In conclusione, la mancata prestazione di attività lavorativa nella giornata di festività infrasettimanale ricompresa nel turno dovrà essere giustificata mediante il ricorso agli istituti contrattuali previsti dalla vigente contrattazione (ferie, festività soppresse, ecc.), previa autorizzazione da parte dell'amministrazione di appartenenza.
---------------
[1] Cfr. pareri RAL 1077 e 1305, consultabili sul sito: www.aranagenzia.it.
[2] Cfr. parere RAL 764
(06.11.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un amministratore locale. Associazione intercomunale.
Non sussiste la causa di incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, n. 2) del TUEL per un consigliere comunale che sia rappresentante legale della società cooperativa che svolge la sua attività anche nell'interesse del Comune nel quale lo stesso esercita il proprio mandato elettivo, qualora la società cooperativa sia iscritta nei pubblici registri, stante l'esclusione dell'incompatibilità disposta dal comma 2 del medesimo art. 63 TUEL.
Il Comune, il quale fa parte di una associazione intercomunale, riferisce di avere affidato, in qualità di responsabile dell'ufficio comune del servizio tecnico, ad una società cooperativa, l'appalto del servizio di pulizia di alcuni edifici pubblici, di proprietà e/o tenuti in uso dai Comuni associati. Atteso che il rappresentante legale dell'indicata società è consigliere comunale in uno dei comuni facenti parte dell'associazione intercomunale, chiede se per lo stesso sussista una qualche causa di incompatibilità prevista dalla legge. Precisa, altresì, che il comune presso il quale il consigliere comunale esercita il proprio mandato elettivo ha una partecipazione 'di poco inferiore al 3%' nella società cooperativa in questione.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti considerazioni.
Si osserva innanzitutto come un esame delle eventuali cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di legge in materia posta dall'articolo 51 della Costituzione.
Ciò premesso, con riferimento al caso prospettato potrebbe venire in rilievo il disposto dell'articolo 63, comma 1, num. 2) del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 il quale prevede che non possa ricoprire la carica di consigliere comunale 'colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune o della provincia, [...]'.
Ratio della norma 'risiede nell'esigenza di impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di interessi configgenti con quelli del comune o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità'.
[1] In altri termini, la norma è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l'ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
Il comma 2 dell'articolo 63 TUEL prevede, tuttavia, che: 'L'ipotesi di cui al numero 2) del comma 1 non si applica a coloro che hanno parte in cooperative o consorzi di cooperative, iscritte regolarmente nei registri pubblici'.
Segue che, per quanto attiene alla posizione del consigliere comunale -rappresentante legale della società cooperativa che svolge la sua attività anche nell'interesse del Comune nel quale lo stesso esercita il proprio mandato elettivo- si applica la disposizione di cui all'articolo 63, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, a condizione che la società cooperativa di cui trattasi sia iscritta nei pubblici registri.
Al riguardo, si cita la sentenza della Cassazione civile, sez. I, del 30.04.2005, n. 9028 la quale ha rilevato che l'iscrizione nei 'registri pubblici'
[2] è indispensabile per l'applicazione della deroga, ciò in quanto si tratta di «disposizione che intende dare rilevanza alla mutualità in quanto è proprio in forza della causa mutualistica che l'impresa cooperativa si differenzia dall'impresa individuale o collettiva caratterizzata dalla causa di lucro sicché nel testo dell'art. 63 la cooperativa è contrapposta (come fondamento dell'esclusione della causa di incompatibilità) alle 'società ed imprese volte al profitto di privati' menzionate al comma primo n. 2 e tenute in considerazione, proprio in quanto volte a realizzare lo scopo di lucro, che è visto come possibile fonte di un conflitto di interessi».
Come rilevato dal Ministero dell'Interno,
[3] 'resta, comunque, ferma la personale responsabilità politica e deontologica del consigliere, tenuto, come tutti i pubblici amministratori, ad adottare comportamenti improntati all'imparzialità ed al principio di buona amministrazione e ad astenersi, pertanto, dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti propri interessi, in virtù di quanto espressamente disposto dall'art. 78, commi 1 e 2, del T.U.E.L.'.
-------------
[1] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550.
[2] Si segnala che la sentenza citata si riferisce al registro prefettizio ed allo schedario generale della cooperazione di cui agli artt. 13 e 15 del D.L. 1577/1947 quali registri ufficiali della mutualità organizzata. In luogo degli stessi vi è attualmente l'Albo Nazionale delle Società cooperative tenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico e gestito con modalità telematiche dalle Camere di commercio.
[3] Ministero dell'Interno, parere dell'08.09.2004
(06.11.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PATRIMONIO: Utilizzo veicoli comunali a guida di amministratori o privati cittadini per attività istituzionali dell'amministrazione. Copertura assicurativa.
Gli amministratori comunali possono essere autorizzati alla guida di autoveicoli di proprietà dell'Ente in occasione di attività istituzionali.
La modalità legittima attraverso cui privati cittadini possono essere posti alla guida di veicoli comunali, per le suddette finalità, passa attraverso l'adesione di detti cittadini alle organizzazioni di volontariato.
In entrambe le ipotesi, presupposto necessario è che i veicoli comunali siano coperti da assicurazione RCA non limitata a determinate categorie di conducenti.

Il Comune pone la questione della guida di veicoli di proprietà comunale, in occasione di attività istituzionali dell'Ente, da parte di amministratori comunali o singoli cittadini volontari. In particolare, il Comune chiede se sia sufficiente una copertura assicurativa RCA (polizza guida libera) o se debba stipulare apposita convenzione con le organizzazioni di volontariato, che preveda la copertura assicurativa dei soggetti che prestano attività di volontariato, o se, in alternativa, possa stipulare in proprio la copertura assicurativa dei soggetti che prestano attività di volontariato contro gli infortuni e le malattie connesse con lo svolgimento dell'attività, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.
In via preliminare, si ritiene di evidenziare l'opportunità che l'Ente si doti di un regolamento per l'uso degli automezzi comunali, in cui disciplini la gestione e l'uso dei veicoli di sua proprietà, compreso l'aspetto relativo ai soggetti che -previa, ovviamente, autorizzazione dell'Ente- possono guidare i mezzi e quello inerente alla copertura assicurativa.
Ciò premesso, la questione posta dall'Ente, relativa specificamente all'aspetto assicurativo, va esaminata distintamente a seconda che alla guida degli automezzi comunali siano posti amministratori o cittadini privati.
Posto che l'Ente specifica che l'uso dei veicoli comunali avviene per finalità istituzionali, il caso in cui alla guida di detti automezzi, per tali finalità, siano posti amministratori si ritiene possa essere assimilato a quello della guida a mezzo dei dipendenti comunali. In entrambi i casi si tratta, infatti, di attività di guida strumentale all'esercizio delle funzioni proprie dell'Ente. Al riguardo, si ritiene che l'Ente possa stipulare una polizza assicurativa RC auto, anche per il caso di utilizzo dei veicoli da parte degli amministratori.
Per quanto concerne, invece, il caso in cui alla guida degli automezzi comunali vengano posti cittadini privati (non dipendenti dell'Ente), si ritiene che la fattispecie debba essere inquadrata nell'ambito della disciplina relativa all'attività di volontariato.
La normativa vigente non contempla, infatti, la possibilità che il singolo cittadino svolga attività in favore della pubblica amministrazione se non attraverso l'adesione ad organizzazioni di volontariato, con le modalità di cui appresso
[1].
La disciplina del volontariato è contenuta nella L. n. 266/1991
[2], che considera attività di volontariato quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro ed esclusivamente per fini di solidarietà (art. 2).
In ambito regionale, la L.R. n. 23/2012
[3] prevede la possibilità per le organizzazioni di volontariato, in possesso dei requisiti previsti, di stipulare convenzioni con gli enti pubblici, tra cui gli enti locali, per lo svolgimento di attività a vantaggio della collettività, indicando nel dettaglio i criteri di priorità nella scelta delle organizzazioni medesime, nonché il contenuto obbligatorio della convenzione (art. 14).
In particolare, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4 e 7, comma 3, L. n. 266/1991, elemento essenziale della convenzione è la copertura assicurativa dei soggetti che prestano attività di volontariato contro gli infortuni e le malattie connesse con lo svolgimento dell'attività, nonché per la responsabilità civile verso i terzi. Gli oneri relativi a dette coperture sono a carico dell'ente che usufruisce dell'attività.
Del pari in ambito regionale, l'art. 14, L. R. n. 23/2012, richiamato, prevede che le convenzioni regolino le coperture assicurative di cui all'art. 4 della L. n. 266/1991.
Pertanto, in relazione alla circostanza che, in occasione di attività istituzionali dell'Ente (quali incontri, gemellaggi, attività sociali e culturali), mezzi comunali siano guidati da cittadini privati, si ritiene che il Comune debba attivarsi in base alla normativa vigente in materia, che non contempla la possibilità per l'ente locale di stipulare rapporti diretti con il singolo cittadino, ma solo con le organizzazioni di volontariato iscritte nel registro di cui all'art. 5, L.R. n. 23/2012, previa stipula della convenzione di cui al successivo art. 14.
Ciò significa che la modalità legittima attraverso cui cittadini privati possono essere posti alla guida di veicoli comunali, per finalità istituzionali dell'ente, passa attraverso l'adesione di detti cittadini alle organizzazioni di volontariato.
-----------
[1] Si segnala, peraltro, che ciò nonostante alcune amministrazioni comunali della nostra regione hanno previsto, con proprio regolamento, l'istituzione di un proprio albo di volontari e l'organizzazione dell'apporto fornito dagli stessi all'interno dell'ente. Tali enti provvedono, tra l'altro, alle coperture assicurative dei volontari e alla fornitura di tutti i mezzi e le attrezzature necessari allo svolgimento del servizio.
[2] Legge 11.08.1991, n. 266, recante: 'Legge-quadro sul volontariato'.
[3] Legge regionale 09.11.2012, n. 23, recante: 'Disciplina organica sul volontariato e sulle associazioni di promozione sociale'
(03.11.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

APPALTI - LAVORI PUBBLICI: Responsabile unico del procedimento. Momento della nomina.
Sia la normativa statale che quella regionale in materia di lavori pubblici collocano il momento della nomina del responsabile unico del procedimento (RUP) in un momento antecedente a quello dell'avvio della fase di progettazione.
Il Comune chiede un parere con riferimento al momento in cui deve avvenire la nomina del responsabile unico del procedimento (RUP). In particolare chiede se sia più corretto conferire l'incarico 'nella fase di approvazione del progetto preliminare ovvero in quelle, successive, di approvazione del progetto definitivo od ancora di quello esecutivo, momento nel quale la volontà dell'amministrazione di andare a realizzare l'opera pubblica diviene concreta e attuale'.
Attesa la specifica competenza in materia del Servizio lavori pubblici della Direzione centrale infrastrutture, mobilità, pianificazione territoriale, lavori pubblici, università, si esprimono in via collaborativa alcune osservazioni di carattere generale, rimettendosi alle eventuali ulteriori considerazioni che detto Servizio vorrà esprimere.
Come noto, il responsabile unico del procedimento viene nominato dalla stazione appaltante per ogni singolo appalto: ad esso sono attribuiti specifici compiti e funzioni nelle fasi della progettazione, dell'affidamento e dell'esecuzione dell'appalto.
La figura del RUP è disciplinata dall'art. 10 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti) e dagli articoli 9 e 10 del relativo regolamento di esecuzione e attuazione, il dPR 05.10.2010, n. 207. Per la Regione Friuli Venezia Giulia occorre inoltre fare riferimento alla legge regionale 31.05.2002, n. 14, art. 5, e al decreto del Presidente della Regione 05.06.2003, n. 0165/Pres., articoli 3 e 4.
Il Codice dei contratti stabilisce che per ogni singolo intervento da realizzarsi attraverso un contratto pubblico le amministrazioni aggiudicatrici devono individuare un responsabile unico del procedimento, e ne elenca i compiti e le caratteristiche.
L'art. 9 del regolamento fornisce ulteriori indicazioni sul responsabile del procedimento per la realizzazione di lavori pubblici. In particolare, dispone, al comma 1, che la nomina del RUP avvenga 'prima della fase di predisposizione dello studio di fattibilità o del progetto preliminare da inserire nell'elenco annuale di cui all'articolo 128, comma 1, del codice; per lavori non assoggettati a programmazione ai sensi dell'articolo 128 del codice, il responsabile del procedimento è nominato contestualmente alla decisione di realizzare i lavori'.
L'art. 3, comma 1, del Regolamento di attuazione della legge regionale 14/2002 dispone inoltre che 'L'Amministrazione aggiudicatrice nomina il Responsabile unico del procedimento di attuazione di ogni singolo intervento previsto dal programma di cui all'articolo 7 della legge prima dell'avvio della fase di progettazione'.
L'AVCP (ora ANAC) ha affermato che il responsabile unico del procedimento riveste un ruolo propositivo-pianificatore, al punto da arrivare addirittura a suggerire alla propria amministrazione l'opera e studiarne la convenienza e la fattibilità: 'il codice infatti e l'attuale regolamento indicano che il RUP deve essere nominato ancor prima della fase di predisposizione dello studio di fattibilità', o comunque prima dell'avvio della progettazione
[1].
Pertanto, sia la normativa statale che quella regionale collocano la nomina del RUP in un momento antecedente a quello dell'avvio della fase di progettazione.
---------------
[1] Deliberazione n. 93, Adunanza del 07.11.2012 (20.10.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione ordinanza demolizione manufatto abusivo e allontanamento coattivo degli animali ivi ricoverati.
Nell'ipotesi in cui il Comune debba procedere d'ufficio alla demolizione di un manufatto abusivo nel quale siano ricoverati animali, nel caso di inerzia del proprietario l'Ente può procedere all'allontanamento degli stessi con ordinanza di sgombero, contingibile ed urgente, rivolgendosi al servizio veterinario dell'ASL territorialmente competente.
Il Comune riferisce di aver ordinato, ai sensi dell'art. 48, L.R. n. 19/2009
[1], la demolizione di una tettoia abusiva realizzata su area comunale da privato cittadino e da questi usata per il ricovero di un certo numero di animali da allevamento. Nell'eventualità che si debba procedere all'esecuzione d'ufficio della demolizione, ai sensi del comma 2 dell'art. 48 richiamato, e il proprietario del manufatto abusivo non provveda, dopo esservi stato invitato, alla rimozione degli animali, il Comune chiede un parere in ordine alla sorte degli stessi.
Sentito il Servizio sanità pubblica veterinaria dell'Area promozione salute e prevenzione della Direzione centrale salute, integrazione sociosanitaria, politiche sociali e famiglia, si esprimono le seguenti considerazioni.
Ai sensi dell'art. 48, L.R. n. 19/2009, qualora sia accertata la realizzazione di interventi abusivi su suoli di proprietà dello Stato o di altri Enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell'ufficio comunale ordina al responsabile dell'abuso la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (comma 1); in caso di inottemperanza, la demolizione è eseguita a cura del Comune e a spese del responsabile dell'abuso (comma 2).
Nell'ipotesi che si debba procedere d'ufficio alla demolizione di manufatto abusivo nel quale si trovino animali, si pone la necessità del loro allontanamento, qualora il proprietario a ciò sollecitato rimanga inerte.
A tal fine, trattandosi di allevamento abusivo, l'Ente può procedere con ordinanza sindacale di sgombero, specificamente con ordinanza contingibile ed urgente: infatti, in caso di emergenze sanitarie e di igiene pubblica (art. 50, comma 5, D.Lgs. n. 267/2000) e al fine di prevenire gravi pericoli che minaccino l'incolumità pubblica (art. 54, comma 4, D.Lgs. n. 267/2000)
[2], è previsto il potere del Sindaco di provvedere d'ufficio, in caso di inottemperanza del soggetto cui ha rivolto l'ordine e a spese di questo (art. 54, co. 7, TUEL).
Nel caso di specie, l'Ente potrà rivolgersi al servizio veterinario dell'ASL territorialmente competente affinché ponga in essere l'allontanamento coattivo degli animali e il loro ricovero in struttura adeguata, nel rispetto della dignità e del benessere degli animali, valori tutelati dal diritto comunitario
[3].
---------------
[1] Legge regionale 11.11.2009, n. 19, recante: 'Codice regionale dell'edilizia'.
[2] Ai sensi dell'art. 54, co. 4, D.Lgs. n. 267/2000, le ordinanze contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo presuppongono una situazione di pericolo effettivo in cui si possono configurare anche situazioni non tipizzate dalla legge e ciò giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi, la possibilità di deroga rispetto alla disciplina vigente e la necessità di motivazione congrua e peculiare (Cons. St., Sez. V, n. 904/2012).
Presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile ed urgente ai sensi dell'art. 50 è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave ed imminente per l'incolumità pubblica e per l'igiene, a nulla rilevando che la situazione di pericolo sia nota da tempo (cfr. Cons. St., sez. V, 19.09.2012, n. 4968), essendo a tale riguardo sufficiente la permanenza al momento dell'emanazione dell'atto della situazione di pericolo (cfr. Cons. St., Sez. V, n. 3077/2012).
[3] I doveri delle autorità competenti in tema di protezione degli animali sono posti a tutela della loro salute e del loro benessere. Il Regolamento CE 29.04.2004, n. 882/2004, relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali, dispone al quinto considerando che 'La salute e il benessere degli animali sono fattori importanti che contribuiscono alla qualità e alla sicurezza degli alimenti, alla prevenzione della diffusione delle malattie degli animali e a un trattamento umano degli animali'
(16.10.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Comando.
Il Dipartimento della funzione pubblica ha precisato che l'art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. 165/2001, per la sua portata generale, costituisce attualmente la norma di riferimento nei casi in cui il dipendente sia chiamato a prestare servizio, per esigenze di carattere temporaneo, presso un'altra amministrazione.
Ad avviso del predetto Dipartimento, non è da escludere la possibilità di rinnovo dell'assegnazione temporanea del dipendente alla scadenza di quella precedentemente disposta, anche successivamente al triennio, salva la necessità di effettuare una nuova valutazione del fabbisogno professionale da parte dell'amministrazione di destinazione e delle esigenze organizzative da parte dell'amministrazione di appartenenza.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine al limite di spesa applicabile nel 2014 per missioni del personale, in relazione al disposto dell'art. 12, commi 21-24, della l.r. 22/2010.
Il comma 21 della richiamata norma stabilisce che, per gli anni 2011, 2012 e 2013 le Amministrazioni del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale di cui all'articolo 127 della l.r. n. 13/1998, possono effettuare spese per missioni, anche all'estero, per un ammontare annuo non superiore a quello del 2009, ridotto del 10 per cento.
Si osserva che, allo stato attuale, tale previsione non è stata riproposta in successivi provvedimenti legislativi per l'anno 2014.
Pertanto, a partire dalla predetta annualità, gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, per quanto riguarda le spese per missioni effettuate dai dipendenti, sono assoggettati agli stessi limiti in vigore per le altre amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, quelli cioè contemplati all'art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010, convertito dalla l. 122/2010.
La richiamata norma prevede che, a decorrere dall'anno 2011, le predette amministrazioni non possono effettuare spese per missioni, anche all'estero, con esclusione delle missioni internazionali di pace e delle Forze armate, delle missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale di magistratura, nonché di quelle strettamente connesse ad accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare la partecipazione a riunioni presso enti e organismi internazionali o comunitari, nonché con investitori istituzionali necessari alla gestione del debito pubblico, per un ammontare superiore al 50 per cento della spesa sostenuta nell'anno 2009.
La disposizione in esame precisa altresì che gli atti e i contratti posti in essere in violazione di tale prescrizione costituiscono illecito disciplinare e determinano responsabilità erariale.
Si stabilisce inoltre che il limite di spesa fissato può essere superato in casi eccezionali, previa adozione di un motivato provvedimento adottato dall'organo di vertice dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente.
Si specifica altresì che il limite introdotto non si applica alla spesa effettuata per lo svolgimento di compiti ispettivi e che, a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo d.l. 78/2010, gli articoli 15 della l. 836/1973
[1] e 417/1978 [2] e relative disposizioni di attuazione non si applicano al personale contrattualizzato di cui al d.lgs. 165/2001 e cessano di avere effetto eventuali analoghe disposizioni contenute nei contratti collettivi.
Si rinvia da ultimo alle indicazioni fornite in materia dalla Ragioneria Generale dello Stato
[3].
---------------
[1] Trattamento economico di missione e di trasferimento dei dipendenti statali.
[2] Adeguamento trattamento economico di missione e di trasferimento dei dipendenti statali.
[3] Cfr. circolare n. 2 del 05.02.2013
(14.10.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Modalità di convocazione del consiglio comunale.
In sede regolamentare, l'ente può prevedere, per la convocazione del consiglio comunale, la comunicazione in via telematica come modalità aggiuntiva a quella ordinaria.
Circa la possibilità di usare in via esclusiva strumenti telematici ai fini della comunicazione dell'avviso di convocazione, si ritiene che tale utilizzo sia ammissibile qualora il regolamento preveda il consenso espresso dei consiglieri in relazione a detta modalità.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità di modificare il proprio regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, prevedendo che la convocazione del consiglio avvenga esclusivamente in forma telematica (mail o fax) e se, in tale caso, il consigliere possa rifiutarsi di ricevere la notifica in tale forma.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si osserva che l'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede che le modalità di convocazione sono disciplinate dal regolamento sul funzionamento del consiglio.
Di conseguenza, si ritiene che rientri nell'ambito dell'autonomia normativa del Comune individuare le modalità considerate più idonee a garantire la conoscibilità da parte dei consiglieri comunali della convocazione dell'organo assembleare.
Al contempo va ricordato che l'avviso di convocazione assume una funzione informativa primaria tale da consentire al consigliere comunale di poter attivamente seguire i lavori dell'adunanza e documentarsi sugli argomenti posti all'ordine del giorno. La ratio dell'avviso è quella di garantire una 'pre-informazione' che risponde ad un'esigenza di trasparenza e pubblicità finalizzata ad una partecipazione consapevole all'attività dell'Amministrazione.
In tal senso, è necessario che vengano predisposte delle modalità di invio dell'avviso di convocazione, con il relativo ordine del giorno, tali da consentire che detti atti giungano nella sfera di conoscenza del destinatario. Si consideri, al riguardo, come la giurisprudenza abbia affermato che, in materia di convocazione, 'vale il principio per cui le modalità per la comunicazione e la formazione della convocazione (il c.d. avviso di convocazione), quando non sono fissate dalla legge, dai regolamenti o dagli statuti, seguono il principio di libertà delle forme, purché la forma adottata sia idonea al raggiungimento dello scopo'.
[1]
Le considerazioni che precedono devono, inoltre, essere necessariamente inquadrate nell'ambito dello sviluppo tecnologico e della connessa riduzione della spesa pubblica, in una prospettiva di amministrazione 'aperta e digitale', e più in generale del c.d. 'governo elettronico', di talché l'ente locale deve utilizzare delle modalità informatiche per tutte le proprie comunicazioni, rimanendo residuale l'utilizzo della 'posta ordinaria'.
Dalle considerazioni che precedono seguirebbe che, a parere di chi scrive, è possibile prevedere la comunicazione in via telematica come modalità aggiuntiva a quella ordinaria.
Non sarebbe, invece, possibile la previsione generale dell'utilizzo in via esclusiva di strumenti telematici ai fini della comunicazione dell'avviso di convocazione, atteso che non si può avere la certezza che tutti i consiglieri siano dotati di tale strumentazione.
Peraltro, nulla osterebbe alla previsione in sede regolamentare della possibilità di utilizzare unicamente strumenti telematici, qualora vi sia il consenso espresso dei consiglieri, i quali dichiarino per iscritto di volersi avvalere di tale forma di comunicazione, da effettuarsi all'indirizzo specificato dal richiedente.
[2]
Merita, tuttavia, segnalare un diverso orientamento espresso dal Ministero dell'Interno il quale pare, invece, ammettere l'utilizzo esclusivo della convocazione del consiglio comunale tramite strumenti informatici, se prevista nel regolamento dell'Ente. Afferma, in particolare, il parere ministeriale
[3] come: «la vigente legislazione sia orientata al conseguimento da parte delle pubbliche amministrazioni della più ampia diffusione delle applicazioni informatiche sia nei rapporti con l'utenza e sia nelle proprie comunicazioni interne. In particolare, l'art. 12, comma 2 [rectius: comma 1] del decreto legislativo n. 82/2005 (codice dell'amministrazione digitale) stabilisce che 'le pubbliche amministrazioni nell'organizzare la propria attività utilizzano tali tecnologie per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità anche nei rapporti interni'. [...] Il vigente regolamento adottato da codesto comune prevede (art. 43) che la consegna dell'avviso per la convocazione del consiglio comunale è effettuata dal messo comunale nel luogo di residenza o nel domicilio eletto dallo stesso consigliere. Al riguardo si esprime l'avviso che, poiché non è stata prevista alcuna modalità alternativa nel regolamento, sia necessario apportare le relative modifiche al regolamento dell'ente che recepiscano quanto indicato dal d.lgs.vo n. 85/2005 relativo all'utilizzo dei sistemi informatici». [4]
Aderendo all'impostazione ministeriale dovrebbe seguire la non necessità da parte dell'Ente di modificare l'attuale norma regolamentare atteso che la stessa parrebbe porre la convocazione per posta elettronica o via fax come alternativa, e non aggiuntiva, a quella tramite consegna al domicilio del consigliere a mezzo di un messo comunale o via raccomandata A.R.
[5]
Tuttavia, atteso che rientra nell'esclusiva competenza dell'organo che ha elaborato la norma regolamentare fornire un'interpretazione della stessa, valuti l'Ente, alla luce delle considerazioni sopra espresse, la formulazione normativa più adeguata da adottare.
---------------
[1] TAR Liguria, Genova, sez. II, sentenza del 14.10.2010.
[2] Un eventuale rifiuto immotivato del consigliere di ricevere le comunicazioni informatiche potrebbe, tuttavia, concretizzare una violazione di «quei doveri minimi di 'collaborazione e lealtà' in danno del 'buon andamento' (senza tralasciare i profili erariali), che si traduce nei principi di economicità, di efficacia, di efficienza che governa la P.A. sotto i profili generali, di cui agli articoli 54 e 97 della Costituzione, e stratificati in una serie di norme nel TUEL» (così, M. Lucca, 'Avviso di convocazione del consiglio comunale via pec, fax, sms', citato in nota 3).
[3] Ministero dell'Interno, parere del 12.11.2010.
[4] A conclusioni analoghe a quelle ministeriali addiviene anche certa dottrina: così, M. Lucca, 'Avviso di convocazione del consiglio comunale via pec, fax, sms', in Lexitalia, 2013, n. 4) ove si afferma che: ' [...] la norma non prescrive che si sia raggiunta l'effettiva conoscenza del consigliere comunale, ma che sia perfezionato il procedimento con cui portare a conoscenza l'avviso di convocazione secondo la norma regolamentare allo scopo prestabilita. Non essendovi l'obbligo giuridico di notifica dell'avviso di convocazione delle sedute del consiglio comunale nelle forme degli atti giudiziari, l'onere di 'consegna' può ritenersi adempiuto anche quando l'invio è avvenuto via pec, fax, sms'.
[5] Recita, in particolare, l'articolo 26, comma 1, del regolamento del consiglio comunale: 'L'avviso di convocazione del Consiglio, con l'ordine del giorno, è consegnato al domicilio dei Consiglieri, a mezzo di un messo comunale. È possibile, altresì, utilizzare la raccomandata A.R., il telegramma, la posta elettronica, il fax. Si dà luogo comunque all'affissione all'Albo Pretorio indipendentemente dalle modalità usate per la convocazione'
(29.09.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

VARIRicetta medica in busta chiusa. I certificati non devono essere alla portata di chiunque. PRIVACY/ Il Garante chiarisce gli accorgimenti in una lettera alla Federazione medici.
Ricette mediche e certificati a disposizione del paziente, in farmacia o dal medico di famiglia, ma sempre in busta chiusa. Invece viola la privacy lasciare ricette e certificati alla portata di chiunque o perfino incustodite, in vaschette poste sui banconi delle farmacie o sulle scrivanie degli studi medici.

Lo chiarisce in garante della privacy con la nota 12.11.2014 n. 31914/96341 di prot., diffusa ieri, al presidente della Federazione italiana medici di medici generale (Fimmg).
Il Garante ha voluto sfatare una leggenda metropolitana e ha precisato che non contrasta con il codice della privacy la prassi degli studi medici di lasciare a disposizione del paziente ricette e i certificati presso le sale d'attesa dei propri studi o presso le farmacie, senza doverglieli necessariamente consegnare di persona.
La normativa sulla tutela della riservatezza impone, però, una precauzione per scongiurare la possibile conoscibilità da parte di estranei di dati delicati, come quelli sanitari.
L'accorgimento non è oneroso, trattandosi di inserire ricette e certificati in busta chiusa. Questa precauzione è da rispettarsi sempre, anche in considerazione del fatto che a ritirare i documenti non è sempre il paziente, ma spesso è un'altra persona da questi appositamente delegata per iscritto.
Pertanto il documento va imbustato e, se si presenta un soggetto diverso dall'interessato, si deve controllare che lo stesso sia stato incaricato al ritiro.
Lasciare aperti il certificato o la ricetta espone a responsabilità per trattamento illecito dei dati e anche alla possibilità di essere chiamati i risarcire i danni, anche non patrimoniali, che il paziente dimostri di avere subito.
Il trattamento illecito dei dati può esporre a responsabilità amministrative (articolo 162, comma 2-bis del codice della privacy) e, nei casi più gravi, anche a responsabilità penali (articolo 167).
La regola della busta chiusa non vale solo per i medici di famiglia.
In effetti i referti diagnostici, le cartelle cliniche, i risultati delle analisi e i certificati rilasciati dagli organismi sanitari possono essere consegnati, ma in busta chiusa anche a persone diverse dai diretti interessati purché munite di delega scritta.
Quanto alle comunicazioni sanitarie si deve aggiungere la regola per la sanità elettronica.
A questo proposito va ricordato che i risultati di analisi cliniche, radiografie e referti medici possono anche essere inviati direttamente sulla e-mail del paziente o possono essere resi consultabili online dal computer di casa. L'adesione al servizio deve però essere facoltativa e il referto cartaceo deve rimanere comunque disponibile.
Ci vuole il consenso dell'interessato. L'assistito dovrà dare il suo consenso sulla base di una informativa chiara e trasparente che spieghi tutte le caratteristiche del servizio di consultazione o consegna on-line dei referti.
Le strutture che offrono la possibilità di archiviare e continuare a consultare via web i referti dovranno fornire una ulteriore specifica informativa e acquisire un autonomo consenso (articolo ItaliaOggi del 15.11.2014).

SEGRETARI COMUNALI: Congelati gli aumenti dei segretari comunali. Parere della Funzione pubblica al ministero dell'interno.
Niente aumenti di stipendio ai segretari comunali che dalla fascia C passino alla B a seguito del corso di specializzazione, se non ottengono un incarico di segreteria in un comune con oltre 3000 abitanti.

Secondo il dipartimento della Funzione pubblica, che in proposito ha espresso al Ministero dell'interno un parere con nota 28.10.2014 n. 60480 di prot., il congelamento dei trattamenti economici previsto dall'articolo 9, commi 1 e 21, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010, colpisce anche i segretari comunali.
Ai sensi del comma 1 del citato articolo 9, il trattamento economico fondamentale dei dipendenti pubblici non può superare quello in godimento nel corso del 2010, salvo il conseguimento di funzioni diverse in corso d'anno.
Il comma 21, invece, impedisce la produzione di effetti economici alle ipotesi di «progressione di carriera».
Il dubbio avanzato dal Viminale era se la partecipazione ai corsi di specializzazione disciplinati dalla contrattazione collettiva dei segretari comunali per consentire loro il passaggio dalla fascia C alla fascia B configurasse o meno un'ipotesi, appunto, di passaggio di carriera rientrante, come tale, nei vincoli imposti dalla manovra estiva del 2010.
Palazzo Vidoni sul punto è tranciante e ritiene che l'articolo 9, comma 21, «risulta sicuramente applicabile anche ai segretari comunali all'atto dell'iscrizione, a seguito del superamento dei corsi di specializzazione, alla superiore fascia professionale».
Né vale, in contrario, enfatizzare che tali corsi abbiano natura selettiva: infatti, spiega il parere, non si tratta di procedure concorsuali aperte dall'esterno, ma di passaggi da una fascia professionale ad un'altra superiore riservati ai soli segretari comunali.
Dunque, si tratta di una vera e propria «progressione di carriera» largamente intesa, come stabilito dalla circolare 15.04.2011, n. 12, del ministero dell'economia e delle finanze.
Di conseguenza, il semplice superamento del corso di specializzazione «Spes» comporta il mero inquadramento dei segretari nella fascia professionale B, ma non consente l'acquisizione dello stipendio tabellare corrispondente. L'iscrizione alla fascia B, insomma, ha effetti solo giuridici, ma non economici.
Invece, spetta ai segretari comunali il trattamento fondamentale corrispondente alla fascia professionale B, quando ottengano un incarico in una sede comunale corrispondente a tale fascia, cioè in comuni con popolazione compresa tra i 3001 e i 65.000 abitanti. Infatti, in questo caso, secondo il parere della funzione pubblica, si determina un «mutamento di funzione del segretario comunale, che assume effettivamente la titolarità di un comune di dimensioni maggiori».
Sicché, si determina la fattispecie del «conseguimento di funzioni diverse in corso d'anno» che, ai sensi dell'articolo 9, comma 1, del dl 78/2010, permette di sforare il tetto retributivo del 2010 (articolo ItaliaOggi del 15.11.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAPiù facile riutilizzare gli scarti. E gli estetisti potranno trasportare rifiuti con semplicità. Le novità del Collegato ambiente alla legge di Stabilità per il 2014 varato dalla camera.
Stretta sulla valutazione degli impatti prodotti da grandi impianti di combustione, sulla gestione di terre da scavo e di rifiuti di rame. Ma anche semplificazione su riutilizzo di determinati materiali, compostaggio di residui verdi, trasporto di rifiuti di estetisti, smaltimento di reflui.
E' un intervento a largo campo quello previsto dal ddl recante «Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali» approvato lo scorso 13 novembre dalla Camera, ora all'esame del Senato (si veda ItaliaOggi di ieri).
Valutazione di impatto sanitario. Previsto l'obbligo di valutazione di impatto sanitario (cd. «Vis») per i progetti di centrali termiche e altri impianti di combustione con potenza termica superiore a 300 Mw. La valutazione, da effettuarsi nell'ambito della procedura di «Via» (valutazione di impatto ambientale), dovrà essere condotta secondo le linee guida dell'Istituto superiore di sanità.
Sottoprodotti. Saranno inseriti nell'elenco dei sottoprodotti utilizzabili negli impianti a biomasse e biogas (ai fini dell'accesso agli incentivi per produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e previo rispetto delle norme ambientali ex dlgs 152/2006) i sottoprodotti da trasformazione di zuccheri tramite fermentazione.
Plastica compostabile. I rifiuti in plastica compostabile certificata (a norma Uni/en 13432:2002), ad esclusione dei prodotti assorbenti per la persona, saranno ammessi al riutilizzo come ammendanti e fertilizzanti.
Materiali da scavo. Esclusi tra i materiali da scavo riutilizzabili come sottoprodotti ex dm 161/2012 (ossia provenienti da grandi opere) i residui di lavorazione di materiali lapidei (come marmi, graniti, pietre) anche non contenenti sostanze pericolose.
Sistri. Confermata l'operatività del sistema, con proroga però al 31.12.2015 del cd. «doppio binario», ossia del periodo durante il quale i soggetti obbligati al sistema telematico devono osservare anche le tradizionali regole di tracciamento, godendo unicamente di una sospensione delle sanzioni per le violazioni del Sistri.
Rifiuti di rame. Obbligo per produttori iniziali e detentori che non provvedono direttamente al loro trattamento di consegnare i rifiuti di rame ad imprese autorizzate alla gestione.
Compostaggio. Sarà sufficiente la mera dichiarazione di inizio attività per realizzazione di impianti di compostaggio aerobico e di digestione anaerobica di capacità massima di 80 tons/anno di rifiuti biodegradabili di cucine, mense, mercati, giardini, parchi.
Oli e grassi vegetali. Circoscrizione degli obblighi di adesione al Consorzio nazionale di raccolta e trattamento oli e grassi vegetali ed animali esausti alle sole imprese che li producono, importano o detengono.
Smaltimento in discarica. Abrogazione definitiva del divieto di conferire in discarica rifiuti con «Pci» superiore a 13mila kJ/kg.
Rifiuti di estetisti. Semplificazione per i soggetti esercenti attività di barbiere, parrucchiere, manicure, tatuaggio ed analoghi (codici «Ateco» 96.02.01, 96.02.02 e 96.09.02) per trasporto e tracciamento ambientale dei propri rifiuti pericolosi (compresi quelli aventi codice Cer 18.01.03, relativi ad aghi, siringhe e oggetti taglienti usati). Il trasporto in conto proprio ad impianto di gestione autorizzato sarà liberamente consentito fino a 30 kg di residui giornalieri previa corretta tenuta del formulario di trasporto (anche tramite associazioni imprenditoriali o società di servizi). Tale adempimento comporterà per gli stessi soggetti esonero da ogni altro tipo di tracciamento sui rifiuti.
Reflui da frantoi. Saranno assimilate alle acque reflue domestiche quelle da frantoi oleari, purché generate da olive prodotte in regione da aziende site in terreni ostativi a smaltimento tramite fertirrigazione, previo trattamento per assicurare rispetto di valori limite locali e salvo bando del Comune per criticità del sistema di depurazione.
---------------
Nuova authority per i rifiuti Il riciclo è servizio pubblico.
Una nuova Autorità vigilerà sulla materia dei rifiuti con competenze «vere» sulla determinazione dei costi standard nel supremo tariffario e verifica sul raggiungimento degli obiettivi di riciclo. I Consorzi di filiera che riciclano gli imballaggi rimangono senza fini di lucro ma diventano «incaricati» di pubblico servizio.
Le due novità sono contenute nel Collegato ambientale (rispettivamente art. 12-quinquies e art. 13-bis) alla legge di stabilità 2014 approvato il 12 novembre dalla Camera e ora al Senato (si veda ItaliaOggi di ieri). Ma non basta. L'art. 13-bis prevede che l'attività degli stessi Consorzi è «sussidiaria e non può in alcun modo limitare le attività di soggetti che operano secondo le regole del mercato nel rispetto delle norme in materia di gestione dei rifiuti». E ancora tale «attività deve garantire il riciclaggio e il recupero dei rifiuti di imballaggio, con priorità per quelli provenienti dalla raccolta differenziata, indipendentemente dalle contingenti condizioni di mercato
Si tratta di un cambio a «360 gradi» del sistema nato nel 1997 con il c.d. decreto Ronchi secondo il quale lo Stato indicava gli obiettivi, lasciando agli operatori una certa autonomia nel raggiungerli. Se a ciò aggiungiamo che il decreto 29 aprile sugli Statuti Tipo (il cui iter è nuovamente sospeso per effetto di un provvedimento cautelare assunto dal Consiglio di Stato nei giorni scorsi) che prevede la presenza di un componente ministeriale nel Consiglio di Amministrazione e di un ministeriale nel collegio dei revisori, il quadro appare totalmente diverso da quello immaginato nel 1997.
Seguono altre disposizioni, sempre all'art. 13-bis, che danno al contributo ambientale riscosso dal sistema Conai Consorzi altre finalità, tre cui «assicurare il trattamento e la selezione dei rifiuti di imballaggio provenienti dalla raccolta differenziata al fine di favorire il riciclaggio, incluso il materiale con specifiche caratteristiche di compostabilità».
Molto più generose le norme sugli obiettivi della raccolta differenziata dei rifiuti urbani a cui sono tenuti i Comuni (art. 14): l'obiettivo del 60 per cento da raggiungere entro il 31.12.2012 viene prorogato al 2020! Anche se poi al fine di favorire la raccolta differenziata di rifiuti urbani e assimilati, la misura del tributo in discarica è modulata in base alla quota percentuale di superamento del livello di raccolta differenziata.
Infine, ma non meno importante, novità in vista per le tipologie di imballaggio destinate all'uso alimentare. Al fine di prevenire la produzione di rifiuti di imballaggio e di favorire il riutilizzo degli imballaggi usati, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, si applica (ma in via sperimentale) il sistema del vuoto a rendere su cauzione per per ogni imballaggio contenente birra e acqua minerale servito al pubblico da alberghi e residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e altri (art. 14). La parola passa ora al Senato (articolo ItaliaOggi del 15.11.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Multe a chi getta la cicca a terra. Fino a 150 a chi butta sigarette e gomme. Pure in acqua. La camera approva il collegato ambiente alla legge di stabilità 2014. Ora parola al senato.
Dal prossimo mese di luglio chi butterà chewing gum e mozziconi di sigarette per strada o nei fiumi rischierà una multa da 30 a 150 euro; i comuni dovranno però installare appositi raccoglitori per le sigarette e le gomme da masticare; fondi per campagne di informazione; 10 milioni nel 2014 ai comuni che devono far demolire immobili e opere abusive realizzate in zone a rischio idrogeologico; sanzioni fino a 20.000 per chi si oppone alla demolizione; sconti fino al 30% sulle garanzie per partecipare ad appalti pubblici se l'impresa ha certificazioni Emas o Ecolabel o Iso; inserimento dei criteri ambientali minimi negli atti di gara; sperimentazione dell'applicazione del sistema del vuoto a rendere su cauzione per bottiglie in plastica; proroga della moratoria Sistri fino al 31.12.2015; introdotta la valutazione di impatto sanitario per le raffinerie e gli impianti di gassificazione.
Sono queste alcune delle principali novità contenute nel corposo disegno di legge «Collegato ambientale» alla legge finanziaria per il 2014, approvato ieri in prima lettura alla camera.
Il provvedimento, che passa al senato per il seguito dell'esame, prevede l'applicazione di multe da 30 a 150 euro per i fumatori che gettano i mozziconi di sigarette e i chewing gum per strada, nelle acque e negli scarichi. Dal canto loro, però, i comuni saranno tenuti a predisporre nelle strade, nei parchi pubblici e nei luoghi di alta aggregazione sociale appositi raccoglitori dove lasciare mozziconi e gomme da masticare.
Infine, anche i produttori di sigarette e di gomme da masticare dovranno provvedere a sensibilizzare i consumatori sui danni ambientali derivanti dall'abbandono dei mozziconi e delle gomme da masticare. Il disegno di legge stabilisce che la metà dei proventi derivanti dalla riscossione delle multe dovrà essere convogliato in un Fondo istituito presso il ministero dell'ambiente, mentre l'altro 50% servirà ai comuni per lanciare campagne di informazione e di sensibilizzazione anche per la «pulizia del sistema fognario urbano».
Un importante intervento riguarda poi le zone a rischio idrogeologico con la possibilità di procedere alla demolizione di immobili e opere abusive attingendo a un apposito fondo (10 milioni per il 2014). Se, però, i comuni non realizzeranno gli interventi entro quattro mesi, saranno tenuti a restituire i fondi al ministero. Prevista anche una multa (da 2.000 a 20.000 euro) per il proprietario dell'immobile che si rifiuta di rimuovere il manufatto abusivo in zona ad alto rischio idrogeologico.
Molto corposa la parte che riguarda gli appalti pubblici per i quali si punta a incentivare i concorrenti muniti di registrazione Emas (che certifica la qualità ambientale dell'organizzazione aziendale) o di marchio Ecolabel (che certifica la qualità ecologica di «prodotti», comprensivi di beni e servizi). Il beneficio consiste in una riduzione del 30% per i possessori di registrazioni Emas; del 20% per i possessori della certificazione Uni En Iso 14001, o del marchio Ecolabel, della cauzione «provvisoria» a corredo dell'offerta.
Il disegno di legge dispone inoltre che nella formulazione delle graduatorie costituisca elemento di preferenza la registrazione Emas delle organizzazioni pubbliche e private e la richiesta di contributi per l'ottenimento della certificazione Ecolabel di prodotti e servizi, per l'assegnazione di contributi, agevolazioni e finanziamenti in materia ambientale (la misura si applicherà nella programmazione dei fondi comunitari 2014-2020). Per gli appalti di forniture di beni e di servizi, si dovranno sempre prevedere le specifiche tecniche e le clausole contrattuali contenute nei «Criteri ambientali minimi «(Cam) per l'acquisto di servizi energetici per gli edifici, di attrezzature per l'ufficio e di lampade. Sarà poi l'Osservatorio dei contratti a monitorare l'applicazione dei criteri ambientali minimi che, peraltro, saranno elementi premianti nei punteggi attribuiti in sede di gara.
Nelle gare d'appalto per la realizzazione di pavimentazioni stradali e barriere acustiche, anche ai fini dell'esecuzione degli interventi di risanamento acustico dovranno essere previsti negli atti di gara punteggi premianti per i prodotti contenenti materiali post consumo nelle percentuali fissate in sede di definizione di criteri ambientali minimi. Viene previsto che la presidenza del consiglio gestisca la messa a punto della «Strategia nazionale delle green community», come strumento per istituire un «nuovo rapporto sussidiario e di scambio» tra comunità rurali e di montagna e comunità urbane e metropolitane.
Prevista la predisposizione della Valutazione di impatto sanitario (Vis), in conformità alle linee guida predisposte dall'Istituto superiore di sanità, per alcuni progetti di raffinerie di petrolio greggio, impianti di gassificazione e liquefazione, terminali di rigassificazione. Non sono invece passate alcune norme del disegno di legge che prevedevano l'istituzione della commissione tecnica unificata per i procedimenti di valutazione impatto ambientale e autorizzazione integrata e l'esclusione dalla verifica di assoggettabilità alla Vis della parte dei piani di gestione del rischio alluvionale.
Sarà sperimentato il sistema del «vuoto a rendere» anche per le bottiglie di plastica. Viene infine prevista la proroga fino al 31.12.2015 della moratoria sulle sanzioni Sistri (Sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti speciali e pericolosi) a carico delle imprese e degli artigiani, commercianti e agricoltori (articolo ItaliaOggi del 14.11.2014).

APPALTI: Dal prefetto per l'Antimafia. Rilascio nella provincia dove c'è la sede dell'impresa. La novità scatta dal 26 novembre ed è prevista dal correttivo del dlgs 159/2011.
Semplificata la norma sulla competenza territoriale per il rilascio della documentazione antimafia. Dal 26 novembre il rilascio dei documenti antimafia sarà esclusivamente di competenza del prefetto della provincia dove l'impresa ha sede legale o la secondaria con rappresentanza stabile (per i soli operatori economici ex art. 2508 c.c.). Solo per le società estere, prive di una rappresentanza stabile nello Stato, la competenza verrà ancorata al luogo di sede legale delle amministrazioni richiedenti.

Tutto questo lo prevede il dlgs. 13.10.2014, n. 153 (pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale del 27.10.2014 n. 250), che contiene disposizioni integrative e correttive al dlgs. 06.09.2011, n. 159 (recante il codice delle leggi antimafia), con diverse misure volte a rendere più efficace l'azione di controllo preventivo antimafia.
Il nuovo correttivo nella parte concernente i controlli amministrativi sugli appalti e sulle concessioni di erogazioni e dei finanziamenti pubblici, tiene alto il livello di vigilanza su tale settore e, anzi, ne rafforza l'incisività consentendo di emettere una documentazione interdittiva in tutti i casi in cui siano interessate imprese border-line, che oggi eludono gli accertamenti antimafia più rigorosi, operando sotto soglia.
Il provvedimento semplificherà alcuni passaggi della procedura, eliminando oneri amministrativi superflui, come ad esempio gli accertamenti a carico dei figli minori e semplificando alcuni termini procedimentali per il rilascio della documentazione antimafia, specie nei casi di urgenza. Verrà, inoltre, semplificata la norma sulla competenza territoriale.
Con l'approvazione del decreto legislativo sarà esclusivamente competente al rilascio della documentazione antimafia il prefetto del luogo ove ha sede l'operatore economico, a tutto vantaggio della completezza, dell'efficacia e dell'approfondimento dei riscontri informativi (articolo ItaliaOggi del 13.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAVarianti urbanistiche a richiesta. Vincolo di un contributo ai Comuni - Permessi in deroga per nuove destinazioni d'uso. Dl Sblocca-Italia. Le misure del decreto legge sul rilancio del settore edilizio introducono snellimenti ma lasciano invariate le penalità.
Per il rilancio dell'edilizia il decreto Sblocca-Italia (Dl 133/2014) accelera e snellisce gli interventi più semplici e le destinazioni d'uso. Per alcuni interventi non sono più necessari titoli edilizi: bastano comunicazioni o segnalazioni e le sanzioni sono solo pecuniarie, di 1000 euro o poco più (probabilmente lo Stato conta sui professionisti coinvolti, cui sono richieste relazioni ed elaborati progettuali, e sull'attenzione dei vicini). Con le destinazioni d'uso semplificate e agevolate si potrà misurarsi l'orientamento del mercato tra le destinazioni residenziali e ufficio (oggi unificate), da tempo indicatore della crisi economica. I vincoli ambientali non paiono seriamente minacciati: restano le forti sanzioni per chi eccede.
Nelle pieghe del decreto vi sono prospettive anche molto ampie: sono possibili permessi "in deroga" per nuove destinazioni d'uso, che consentiranno un rilancio delle ristrutturazioni anche in aree industriali dismesse, con potenziali effetti a cascata. Si pensi ad esempio alla recente eliminazione, per liberalizzazione, dell'ampliamento degli esercizi commerciali (decreto Salva Italia, 201/2011).
Ma è soprattutto con la tassazione del maggior valore delle varianti urbanistiche (articolo 17 del Dl 133, ora articolo 16 del Dpr 380/2001) richieste dai privati, che si completa il quadro: a ogni variante che avvenga in deroga alla destinazione precedente o con cambio di destinazione d'uso, il maggior valore viene diviso in due. Almeno la metà spetta al Comune sotto forma di contributo straordinario per interventi da realizzare «nel contesto» (cioè nel quartiere).
Sembra tornarsi al contributo di miglioria previsto dal Testo unico della finanza locale del 1931, all'epoca connesso alla realizzazione di nuove strade. Oggi tale contributo è invece riscosso un monte, a carico della parte privata (imprenditore) che ottiene la variante, mentre un secolo fa era carico dei "frontisti" beneficiati da una nuova strada. Il contributo oggi sarà finanziario oppure consistere in aree, immobili da destinare ai servizi di pubblica utilità, edilizia sociale ed opere pubbliche.
Si evolve così un principio di extra fiscalità già presente nel piano urbanistico di Roma: passando dalle aule giudiziarie (Consiglio di Stato, sentenza 119/2012), la pianificazione è stata abbinata a procedure definite «rapide e collaborative» per ottenere aree ed immobili (nonché progetti e finanziamenti) da destinare all'ente locale.
C'è da augurarsi che questi meccanismi siano applicati con adeguati controlli, per moderare intuibili rischi: mentre recenti innovazioni tendono a un'equa fiscalità sugli immobili (catasto), c'è il rischio che le varianti urbanistiche non abbiano argini, tanto più se decise nel solo ambito comunale. E sarebbe un peccato se l'attenzione degli enti locali si concentrasse sugli interventi di manutenzione e ristrutturazione che portano cassa, tralasciando modifiche urbanistiche di maggior calibro
 (articolo Il Sole 24 Ore del 13.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Responsabilità solidale in archivio. Da definire gli effetti della nuova disciplina sulle vecchie irregolarità. Decreto semplificazioni. Cancellata la disposizione che finora vincolava gli appaltatori e i committenti.
L'abrogazione integrale della disciplina sulla responsabilità tributaria in caso di irregolarità nei versamenti riguardanti le prestazioni di appalto e subappalto, prevista dal decreto Semplificazioni (definitivamente approvato dal Governo ed in attesa della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale), evita alle imprese una serie di adempimenti e accelera i pagamenti, anche se resta il problema delle violazioni già commesse.
L'articolo 28, comma 1, del Decreto semplificazioni, sopprime i commi da 28 a 28-ter dell'articolo 35 del Dl 223/2006, eliminando quindi dal sistema le conseguenze negative sul committente e sull'appaltatore nel caso in cui uno o più subappaltatori (ovvero l'appaltatore stesso) non abbiano versato regolarmente le ritenute sui redditi di lavoro dipendente dovute in relazione al contratto di appaltato/subappalto.
Ricordiamo, infatti, che l'analogo obbligo per i versamenti Iva era stato abrogato dall'articolo 50 del Dl n. 69/2013, che ha chiuso la procedura sorta in seno alla Ue per la denunce di infrazione presentate da Confindustria e dell'Associazione Dottori Commercialisti. E che l'unico modo per evitare di essere chiamati in causa era costituito dall'ottenere, prima di versare il corrispettivo dovuto, la prova che la controparte e tutti gli altri "anelli" della catena avessero regolarmente adempiuto ai propri obblighi di versamento.
Se l'entrata in vigore del Decreto libererà i futuri versamenti dalla burocrazia introdotta da queste norme, occorre chiedersi se, ed eventualmente in quale misura, possano essere sanzionate violazioni commesse in questi mesi. Ipotizzando che in sede di verifica emerga che il committente o l'appaltatore hanno pagato le prestazioni senza premunirsi della prescritta documentazione ed il subappaltatore (ovvero l'appaltatore stesso) non ha versato i tributi dovuti, quali sono le conseguenze? E cosa accade ai provvedimenti sanzionatori eventualmente già in essere e non ancora definiti?
Il problema, che riguarda le ritenute sino a quando sarà efficace il Decreto, ma anche l'Iva sino al 22.06.2013 (entrata in vigore del Dl n. 69/13), assume una diversa connotazione a seconda che la posizione interessata sia quella del committente o dell'appaltatore. Il primo, infatti, era destinatario di una sanzione pecuniaria (da 5.000 a 200.000 euro), per cui si applica il principio del favor rei (articolo 3, comma 2, Dlgs n. 472/1997), in base al quale «salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile». Inoltre, «se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato».
Il "colpo di spugna" è quindi completo e, come conferma la Cassazione (sentenze 1656/2013 e 17069/2009), può essere applicato anche dal giudice, d'ufficio, e in ogni stato e grado del giudizio, a condizione che via sia un procedimento ancora in corso e che il provvedimento impugnato non sia definitivo. Questo principio, secondo consolidata giurisprudenza, non si applica automaticamente alle sanzioni amministrative, ma è la stessa agenzia delle Entrate, con circolare n. 2/E/2013, a riconoscere la natura tributaria della sanzione, per cui l'applicabilità del favor rei non sembra poter generare dubbi.
Dubbi che, invece, suscita la posizione dell'appaltatore, il quale, nella vigenza della disciplina in via di abrogazione, veniva assoggettato non ad una sanzione ma alla responsabilità solidale per gli irregolari versamenti del subappaltatore "infedele". Il favor rei, in linea di principio, non opera al di fuori dell'ambito sanzionatorio, ma la previsione legislativa della responsabilità solidale ha una evidente (e sostanziale) natura "punitiva", quale penalizzazione che si è voluto attribuire all'appaltatore per la mancata verifica documentale anteriore al pagamento. L'applicabilità dell'articolo 3, comma 2, Dlgs n. 472/1997 al caso di specie, è quindi un tema che, a partire da eventuali contestazioni in corso e non ancora definite, Agenzia e Commissioni tributarie dovranno affrontare
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIRiforma catasto, primo passo. Commissioni censuarie ridisegnate. Spazio ai proprietari. Via libera definitivo al decreto dal consiglio dei ministri. Sezione ad hoc per gli estimi.
Primo passo per la riforma del catasto. Il consiglio dei ministri ha dato ieri il via libera definitivo al dlgs sulle nuove commissioni censuarie locali e centrale, interamente rinnovate quanto a composizione e compiti, in attuazione della legge 23/2014 (articolo 2, comma 3). Ne faranno parte anche esperti indicati dalle associazioni di categoria del settore immobiliare.
Mentre una sezione ad hoc si occuperà della revisione degli estimi dei fabbricati. Le commissioni censuarie giocheranno un ruolo essenziale nel passaggio al nuovo catasto (basato, oltre al resto, sulla superficie e non sui vani dei fabbricati) e la rinnovata composizione con esperti provenienti dal mondo delle professioni e dalle associazioni di categoria dovrà garantire che non ci saranno sperequazioni sul territorio nazionale.
Quanto ai fabbricati, ad esempio, la stima deve utilizzare il metro quadrato come unità di consistenza, specificando i criteri di calcolo della superficie dell'unità immobiliare e deve utilizzare funzioni statistiche per parametrare il valore di mercato alla localizzazione e alle caratteristiche edilizie dei beni per ciascuna destinazione catastale e per ciascun ambito territoriale anche all'interno di uno stesso comune. Le commissioni locali sono divise in sezioni: una competente per il catasto terreni, una competente per il catasto urbano e una specializzata sulla revisione del sistema estimativo del catasto dei fabbricati.
Quanto alla composizione, sia in quelle locali sia in quella centrale, il decreto legislativo bilancia l'appartenenza istituzionale, professionale o alle associazioni di categoria. Accanto a componenti dell'agenzia delle entrate e degli enti locali sono previsti esperti indicati dagli ordini e collegi professionali e dalle associazioni di categoria operanti nel settore immobiliare. Ai componenti delle commissioni, peraltro, non spetterà nessun compenso. Esse si insedieranno entro un anno dall'entrata in vigore del dlgs.
Le attribuzioni delle commissioni locali in materia di catasto terreni vanno dalla approvazione dei quadri delle qualità e classi dei terreni e dei prospetti delle tariffe dei comuni al concorso alle operazioni di revisione e di conservazione del catasto terreni. Peraltro la revisione generale degli estimi è condizionata alla ratifica da parte della commissione censuaria centrale.
In materia di catasto edilizio urbano, le commissioni locali hanno il compito di approvare prospetti integrativi dei quadri tariffari per le unità immobiliari urbane dei comuni. Inoltre concorrono alle operazioni di revisione e di conservazione del catasto edilizio urbano. Le commissioni censuarie locali, infine, nell'operazione di revisione del sistema estimativo del catasto dei fabbricati, hanno il compito di validare le funzioni statistiche utilizzate per comporre i nuovi estimi La commissione centrale ha funzioni di secondo grado.
In materia di catasto terreni, decide sui ricorsi dell'Agenzia delle entrate, dei comuni direttamente interessati e delle associazioni di categoria operanti nel settore immobiliare contro le decisioni delle commissioni locali in merito ai prospetti delle qualità e classi dei terreni ed ai rispettivi prospetti delle tariffe d'estimo di singoli comuni. In materia di catasto edilizio urbano, la commissione centrale decide in secondo grado sulle questioni relative al quadro delle categorie e delle classi delle unità immobiliari urbane e ai rispettivi prospetti delle tariffe d'estimo di singoli comuni. La commissione centrale interviene a sostituire quelle locali in caso di loro inerzia. Per svolgere i loro compiti le commissioni censuarie possono richiedere dati e informazioni agli uffici del fisco e dei comuni.
«Il testo del decreto», commenta Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia, «è stato rimesso in carreggiata per effetto dell'azione dei presidenti delle Commissioni finanze di Camera e Senato, Capezzone e Marino, che hanno preteso che il provvedimento si conformasse alle previsioni della legge delega approvata dal Parlamento. Si è trattato di una vittoria della politica sulla burocrazia, considerato che quest'ultima aveva predisposto un testo improponibile. Cosa che non è certo di buon auspicio per i prossimi decreti attuativi della delega per la riforma del catasto» (articolo ItaliaOggi dell'11.11.2014).

VARI: Biciclette pubblicitarie messe all'angolo.
Sono fuori legge i piloti delle biciclette pubblicitarie che svolgono attività promozionale per conto terzi a titolo oneroso salvo che si tratti di veicoli a noleggio con conducente. In ogni caso i limiti dimensionali per la circolazione di velocipedi muniti di eventuale rimorchio sono fissi e stabiliti dal codice stradale.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con l'inedito parere 25.09.2014.
Una persona ha richiesto chiarimenti sulle autorizzazioni necessarie per allestire biciclette pubblicitarie da noleggiare ai soggetti interessati alle loro promozioni commerciali. A parere del ministero però, trattandosi di veicoli a tutti gli effetti, anche la disciplina della pubblicità da effettuare con i velocipedi è soggetta a particolari restrizioni. Ovvero alle previsioni dell'art. 57 del codice che vieta espressamente la pubblicità stradale conto terzi a titolo oneroso. O meglio riserva questa ipotesi solo ai mezzi pubblici come tram, autobus, taxi e noleggio con conducente.
Con la recente modifica innestata nell'art. 85 del codice ora anche i velocipedi possono essere adibiti a noleggio con conducente. Si tratta per lo più dei tricicli a pedali che iniziano a diffondersi in alcune città turistiche per permettere una mobilità ecologica nel rispetto delle aree ad alto flusso pedonale. In ogni caso anche le biciclette hanno dei limiti geometrici stabiliti dalla legge e non possono eccedere, compreso un eventuale rimorchio, i tre metri di lunghezza.
La massa trasportabile non può superare i 50 kg. Per la circolazione notturna il rimorchio deve essere poi equipaggiato con i dispositivi di segnalazione visiva posteriore e laterale previsti per i velocipedi all'articolo 224 del regolamento. Nell'ipotesi residuale di pubblicità consentita su veicolo a due ruote a propulsione muscolare ovvero di promozione di iniziative per conto proprio, attenzione alle condizioni previste dall'articolato in materia di installazioni pubblicitarie.
In particolare, specifica il parere centrale, se la pubblicità viene realizzata con pannelli aggiuntivi gli stessi non dovranno sporgere di oltre 3 cm rispetto alla superficie sulla quale sono applicati (articolo ItaliaOggi dell'11.11.2014).

ENTI LOCALI - VARIBocciato il comune che non vuole i camperisti.
Il sindaco non può limitare la sosta degli autocaravan adducendo potenziali pericolo per la salute, l'igiene pubblica e la sicurezza urbana.

Lo ha messo nero su bianco il Ministero dei trasporti bocciando l'ordinanza adottata dal primo cittadino di un comune veneto con la nota 03.10.2014 n. 4680 di prot..
Con l'avvicinarsi dei periodi di festa si riaccende l'interesse sulla questione degli autocaravan spesso limitati nella circolazione e nella sosta per motivazioni diverse, non necessariamente conformi alla legge. L'autocaravan viene individuato dal codice stradale come un mezzo dedicato al trasporto e alloggio di persone. La sosta, ove consentita, non costituisce campeggio se il veicolo poggia solamente sulle ruote e non sono previste installazioni.
Nel centro abitato la sosta dei veicoli può essere vietata permanentemente per determinate categorie di utenti solo in presenza di particolari condizioni. In difetto di queste motivazioni il comune può in ogni caso vietare permanentemente la sosta dei veicoli in generale. Nel caso di autocaravan, in assenza di particolari esigenze, il divieto di sosta limitato a questa singola categoria di utenti appare illegittimo.
Spesso i sindaci limitano la sosta e la circolazione dei camper rappresentando inafferrabili motivi di ordine e sicurezza pubblica. Ma neppure la tutela dell'igiene e della sanità pubblica possono essere normalmente aggravate dalla circolazione e dalla sosta di questi veicoli. Nel caso sottoposto all'esame del ministero un comune del litorale veneziano ha vietato la sosta degli autocaravan evidenziando ragioni di igiene e sicurezza pubblica.
Questa disposizione a parere dell'organo centrale di coordinamento è fuori legge e deve essere annullata. La sosta di questi veicoli non può costituire infatti genericamente un potenziale pericolo per la salute e la sicurezza. Caravan e autocaravan, infatti, sono necessariamente allestiti con serbatoi per la raccolta delle acque di scarico e il loro uso incongruo può essere sanzionato. Non può essere poi un autocaravan a rappresentare un pericolo per la sicurezza urbana, conclude il parere. Sbarre e limitazioni devono quindi essere rimossi (articolo ItaliaOggi dell'11.11.2014).

EDILIZIA PRIVATASBLOCCA ITALIA/ L'edilizia segue regole standard. Sì allo schema tipo in particolare su sicurezza ed energia. Il regolamento unico è solo una delle novità nel settore delle costruzioni e ristrutturazioni.
Per frazionare e accorpare gli immobili basta la Scia. Introdotto un contributo straordinario per le varianti urbanistiche; sanzioni da 2 mila a 20 mila euro per chi non adempie l'ingiunzione di demolizione per abusi edilizi. E ancora: i cambi di destinazione d'uso, quando ammessi, non potranno comportare aumento delle superfici dell'immobile.

Sono questi alcuni degli interventi normativi per il settore dell'edilizia contenuti nel decreto legge cosiddetto «Sblocca Italia», convertito in legge dal Parlamento il 5 novembre, che prevede diverse modifiche al testo unico dell'edilizia (dlgs 380/2001).
Fra le novità viene stabilito, per gli interventi di manutenzione straordinaria per i quali si può procedere con comunicazione di inizio lavori (peraltro aumenta da 258 a 1.000 euro la sanzione per mancata comunicazione), che il professionista incaricato di redigere la Cil attesti che le modifiche da apportare siano in linea con le norme sul rendimento energetico e anti sismiche e produca gli «elaborati progettuali» relativi.
Viene inoltre stabilito che, in caso di permesso di costruire rilasciato «in deroga» (peraltro non più ammissibile per interventi di ristrutturazione urbanistica), il cambio di destinazione d'uso di un immobile non può mai determinare un aumento della superficie coperta, rispetto allo stato di fatto precedente l'intervento. Inoltre gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità immobiliari non saranno più soggetti a permesso di costruire, ma a semplice Scia.
Per quel che riguarda l'efficacia temporale del permesso di costruire, la norma del testo unico viene modificata chiarendo che il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore a un anno dal rilascio del titolo, mentre quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga, accordabile motivatamente soltanto per «fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari».
Ma la principale novità nel settore dell'edilizia riguarda il regolamento unico edilizio. In particolare dovranno essere il governo, le regioni e le autonomie locali a mettere a punto, in sede di Conferenza unificata, ad accordi o intese per adottare uno schema di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti. Il regolamento edilizio-tipo, che indica i requisiti prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico, dovrà poi essere adottato dai comuni.
Di particolare interesse è anche la disposizione che agevola l'approvazione di alcuni interventi di valorizzazione urbana, dando priorità di valutazione, fra gli interventi oggetto di accordi di programma per il recupero di immobili demaniali inutilizzati, ai progetti di recupero di immobili a fini di edilizia residenziale pubblica, da destinare a nuclei familiari utilmente collocati nelle graduatorie comunali per l'accesso ad alloggi di edilizia economica e popolare e a nuclei sottoposti a provvedimenti di rilascio per morosità incolpevole, nonché agli immobili da destinare ad auto recupero, affidati a cooperative composte esclusivamente da soggetti aventi è requisiti per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica.
In questo ambito è altrettanto interessante la disposizione sul cosiddetto contributo straordinario per le varianti urbanistiche. La norma stabilisce, ai fini del calcolo degli oneri di urbanizzazione relativi alle varianti urbanistiche per interventi su aree o immobili in variante, in deroga o con cambio di destinazione d'uso, che il maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, dovrà essere suddiviso in misura non inferiore al 50% tra il comune e la parte privata. Sarà poi il privato a erogare al comune l'importo, sotto forma di contributo straordinario, dando così atto dell'interesse pubblico.
In particolare il soggetto privato dovrà effettuare un versamento finanziario che sarà a sua volta vincolato alla realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, o alla cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, o ad edilizia residenziale sociale od opere pubbliche in senso più ampio.
Un intervento ad hoc viene riservato anche alle demolizioni, con la previsione di sanzione in caso di inottemperanza dell'ingiunzione a demolire che potrà variare da 2 mila a 20 mila euro, con la precisazione che per le aree a rischio idrogeologico elevato, la sanzione sarà sempre e comunque di 20 mila euro (articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVISBLOCCA ITALIA/ Calamità, udienze di merito flash.
Corsia preferenziale per i ricorsi al Tar per appalti connessi a eventi calamitosi; l'udienza di merito dovrà essere fissata entro 30 giorni; la sospensiva potrà essere accordata soltanto in caso di prevalenza dell'interesse del ricorrente rispetto alle esigenze di incolumità pubblica. Previste, inoltre, deroghe al codice appalti per rischio idrogeologico, anti sismica, tutela ambientale; per la messa in sicurezza delle scuole possibile l'affidamento diretto dei lavori fino a 200 mila euro.

Sono alcune delle misure previste nell'articolo 9 del decreto legge «Sblocca Italia», convertito in legge, che detta una disciplina acceleratoria e semplificata per i lavori di estrema urgenza in materia di vincolo idrogeologico, antisismica e di messa in sicurezza.
In particolare il provvedimento stabilisce che dovranno intendersi come connaturate da esigenze imperative connesse a un interesse generale anche «quelle funzionali alla tutela dell'incolumità pubblica». Da questa qualificazione dell'interesse si fa discendere che in tutte le procedure di appalto («avviate o da avviarsi») e nelle procedure conseguenti alla redazione di un verbale di somma urgenza per interventi conseguenti alla dichiarazione dello stato di calamità naturale, il Tar può accogliere un ricorso cautelare soltanto se i requisiti di estrema gravità e urgenza previsti dal codice del processo amministrativo «siano ritenuti prevalenti rispetto alle esigenze di incolumità pubblica evidenziate dalla stazione appaltante».
La regola potrebbe quindi essere quella di salvezza del contratto in essere con un rapido rinvio all'udienza di merito; infatti, la stessa norma impone al giudice di fissare l'esame del merito del ricorso entro trenta giorni, saltando quindi la fase cautelare e con una decisione che potrebbe giungere entro un massimo di 30/40 giorni dalla presentazione del ricorso.
In via generale, poi, la legge Sblocca Italia prevede deroghe al codice dei contratti pubblici per messa in sicurezza degli edifici scolastici, per interventi di mitigazione del rischio idrogeologico, di adeguamento alla normativa antisismica e di tutela ambientale e del patrimonio culturale. Le norme derogabili determineranno quindi meno limiti alle varianti, l'accelerazione sui termini di gara e la semplificazione della fase di approvazione dei progetti.
Non potranno invece essere derogate le disposizioni relative ai servizi di progettazione e agli appalti integrati. Per gli interventi di messa di sicurezza delle scuole sarà possibile l'affidamento diretto dei lavori fino a 200 mila euro (articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASBLOCCA ITALIA/ Terre da scavo, regole ad hoc. Alleggeriti anche iter di bonifica e spostamento di rifiuti. Il pacchetto di misure contenuto nella legge di conversione del decreto 133/2014.
Riscrittura della disciplina sulla gestione delle terre e rocce da scavo con razionalizzazione delle norme, introduzione di nuove regole per piccoli cantieri e disposizioni ad hoc per il deposito temporaneo.

Questo l'ambizioso obiettivo della legge di conversione del dl 133/2014 (c.d. «Sblocca Italia») approvata in via definitiva dal senato il 05.11.2014, che affida a un decreto del presidente della Repubblica (previsto entro il febbraio 2015) il restyling della complessa disciplina stratificatasi dal 2006 a oggi.
L'esordiente legge incide però anche nell'immediato, riscrivendo le regole del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») su campo di applicazione della disciplina dei rifiuti, procedure semplificate di bonifica e funzionamento degli impianti di trattamento.
Restyling disciplina materiali da scavo. Con il citato dpr, da adottarsi entro 90 giorni dall'entrata in vigore della legge di conferma dello «Sblocca Italia», arriverà dunque il riordino e la semplificazione della (complessa) disciplina vigente sulla gestione delle «terre e rocce da scavo», locuzione a oggi non diversamente denotabile se non ricorrendo alla definizione di «materiali da scavo» dettata dal dm 162/2012 (ed elevata a rango di norma primaria dal dl 69/2013) coincidente con «il suolo o sottosuolo, con eventuali presenze di riporto, derivanti dalla realizzazione di un'opera».
Il futuro decreto dovrà, secondo i criteri direttivi della nuova legge: stabilire regole procedurali proporzionali all'entità degli interventi da realizzare; dettare norme ad hoc per la cessazione della qualifica di rifiuto di materiali da scavo (c.d. «end of waste»); sancire disposizioni per il riutilizzo in situ di materiali da scavo provenienti da cantieri di piccole dimensioni ex articolo 266, comma 7, dlgs 152/2006 (ossia con produzione non superiore ai seimila metri cubi di materiale) finalizzati a costruzione o manutenzione di reti e infrastrutture, con esclusione delle terre provenienti da siti contaminati; integrare la definizione di «deposito temporaneo» (quale raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti) prevista dall'articolo 183, dlgs 152/2006 mediante l'introduzione di specifici criteri e limiti quantitativi per lo stoccaggio delle terre e rocce da scavo.
Riutilizzo nei siti di bonifica. Sempre in materia, la legge di conversione del dl 133/2014 conferma le nuove regole introdotte dall'articolo 34 dell'originario provvedimento d'urgenza sulla possibilità di riutilizzo nello stesso sito dei terreni escavati per interventi di bonifica anche se aventi valori inquinanti superiori alle «concentrazioni soglia di contaminazione» (c.d. «Csc») a condizione che: non siano comunque superate le più alte «concentrazioni soglia di rischio» (c.d. «Csr»); i materiali siano reimpiegati nella medesima area assoggettata all'analisi di rischio e questa sia presidiata, nel caso, da sistemi di barrieramento fisico o idraulico di comprovata efficienza ed efficacia.
L'incidenza sull'attuale disciplina. La promessa riscrittura della disciplina sui materiali da scavo inciderà, come avvenuto per citate e confermate nuove regole sul loro riutilizzo nei siti contaminati (che per coerenza con l'annunciato spirito di riordino avrebbero però dovuto trovare diretta collocazione nel Titolo V del «Codice ambientale»), su un articolato sistema normativo attualmente composto: dalle disposizioni recate dagli articoli 184-bis (gestione dei materiali da scavo come «sottoprodotti») e 185 (esclusione dalla disciplina dei rifiuti di determinate terre escavate) del dlgs 152/2006; dalle norme ex dm 161/2012 (sul reimpiego in altro sito, come sottoprodotti, delle terre e rocce da scavo provenienti da attività o opere di grandi dimensioni e soggette a valutazione di impatto ambientale o autorizzazione integrata ambientale, a esclusione dei materiali ex articolo 109, dlgs 152/2006); dalle prescrizioni del dl 2/2012 sui «materiali di riporto» (quali miscele eterogenee di materiali antropici e terreno presenti nel suolo); dalle regole recate dall'articolo 41-bis del dl 69/2013 sul riutilizzo come sottoprodotti dei materiali da scavo provenienti da piccoli cantieri ex (citato) articolo 266, comma 7, dlgs 152/2006 (articolo che il dpr prevede di declinare ulteriormente, come più sopra accennato, stabilendo regole specifiche per attività di costruzione o manutenzione di reti e infrastrutture).
Nuove deroghe al regime dei rifiuti. Con la conversione del dl 133/2014 arrivano anche nuove esclusioni dal regime dei rifiuti. Mediante la novella dell'articolo 185 del dlgs 152/2006 escono infatti dal campo di applicazione della Parte IV del «Codice ambientale», oltre ai sedimenti spostati in acque superficiali, gli stessi residui che confluiscono nelle pertinenze idrauliche.
Impianti di trattamento rifiuti. La legge di conferma dello «Sblocca Italia» incide altresì sugli impianti di recupero energetico e di smaltimento rifiuti. Nei primi l'aumento del carico dei rifiuti processabili potrà essere portato fino a «saturazione del carico termico» solo all'esito positivo della compatibilità ambientale (qualità dell'aria compresa) di tale regime di operatività.
Gli stessi impianti dovranno altresì assicurare il trattamento in via prioritaria dei rifiuti urbani prodotti dal proprio territorio regionale fino al raggiungimento del relativo fabbisogno, e solo in via residua il processo di quelli provenienti da altre regioni (previo pagamento di relativo contributo all'Ente di accoglienza) e di quelli, dietro rispetto del principio di prossimità e di misure di sicurezza, speciali pericolosi a solo rischio infettivo.
Con un ulteriore intervento sull'articolo 182 del dlgs 152/2006 la nuova legge riduce anche il divieto di smaltire i rifiuti urbani non pericolosi in regioni diverse da quelle di origine (fino a oggi consentito da accordi regionali o internazionali giustificati da aspetti territoriali e opportunità tecnico-economica di livelli ottimali) ammettendolo ogni qual volta il presidente dell'Ente territoriale di produzione lo riterrà necessario per fronteggiare situazioni di emergenza dichiarate dalla Protezione civile.
Nuove semplificazioni per bonifiche. Con la rivisitazione dell'articolo 242-bis del dlgs 152/2006 viene infine ulteriormente alleggerita la procedura semplificata di bonifica introdotta dal dl 91/2014 (c.d. dl «Competitività) nel «Codice ambientale»: caratterizzazione e relativo progetto d'intervento non avranno più bisogno di approvazione ma saranno sottoposti a mero controllo pubblico di verifica del conseguimento dei valori di «Csc» nei suoli per la specifica destinazione d'uso; l'attuazione dei progetti di bonifica di siti con estensione superiore a 15 mila metri quadri potrà essere portata fino a 3 fasi (ognuna della quali da completare entro 18 più eventuali altri sei mesi di proroga), la realizzazione di quelli superiori a 400 mila metri quadri dovrà rispettare un crono-programma concordato con le autorità competenti (articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl ritiro di Raee porta business. L'attività promette crescita occupazionale ed economica. Le prospettive del settore secondo l'Associazione italiana dei rivenditori di elettrodomestici.
Il mondo (ancora) «inesplorato» dei rifiuti elettrico-elettronici che «dà la possibilità a tutti gli operatori che abbiano i requisiti di legge necessari (in linea, cioè, con le disposizioni del decreto recente legislativo 49/2014) di contattare direttamente i negozi, sia grandi che piccoli, proponendosi come coloro che possono ritirare gratuitamente» tali scarti.
A raccontarne potenzialità e prospettive è Davide Rossi, direttore generale dell'Aires (l'Associazione italiana retailer elettrodomestici specializzati, che riunisce le aziende e i gruppi distributivi specializzati di elettrodomestici ed elettronica di consumo) che a ItaliaOggi Sette spiega come «usciti ormai normativamente da una zona grigia» il business possa decollare.
E, fra gli effetti positivi che intuisce, quello (fondamentale, nell'attuale stagione di crisi) di «generare nuove, concrete opportunità di lavoro, non soltanto, come si potrebbe immaginare, per autisti e trasportatori, bensì anche per personale specializzato, con competenze specifiche nella raccolta e nelle pratiche di smaltimento e riutilizzo del materiale che verrà prelevato».
Domanda. Si spalanca, dunque, un mercato liberalizzato e proficuo, una volta spazzate via le incertezze normative?
Risposta. Proprio così: si afferma il principio dell'«all actors», in cui tutte le parti si fanno carico di gestire bene il rifiuto, che sia un caricabatterie per il telefonico cellulare, o un piccolo «robot» da cucina. E si trasforma quello che sembrava un problema in una risorsa, perché la distribuzione adesso gioca un ruolo primario all'interno del processo, giacché le rivendite diventano centri di raccolta.
D. Dunque, alla vecchia logica dell'uno contro uno, che vincolava la distribuzione soltanto a ritirare gratuitamente il grande elettrodomestico all'acquisto del nuovo, si aggiunge l'uno contro zero, ossia l'obbligo per gli esercizi di oltre 400 metri quadrati di prendere i «vecchi» prodotti anche senza che ne sia stato comperato un altro, purché di dimensioni inferiori ai 25 centimetri (si veda altro servizio in pagina, ndr). E quali saranno le ricadute?
R. Per noi si tratta di una frustata di competitività, frutto unicamente della concorrenza che si va a sviluppare in tutto il sistema. Il principio della direttiva europea da cui nasce il dlgs 49/2014 è metter tutti coloro che si occupano del recupero e del trattamento dei Rifiuti elettrico-elettronici (Raae) gli uni contro gli altri, in maniera tale che soltanto i migliori prevalgano, perché ciascuno è tenuto ad avere alti standard.
D. È vero che, in moltissimi casi, per il rivenditore era una seccatura doversi far carico di tali materiali?
R. Verissimo. La sensazione era quella di essere costretti a svolgere un adempimento burocratico in più, o di dover pagare una tassa. Fortunatamente, ora lo scenario sui Raae sembra ben diverso, si guarda con fiducia alle prospettive.
D. Sicuramente, gli obiettivi di tale riutilizzo intelligente e ecologico sono ambiziosi: la norma prevede che, nell'arco del prossimo quinquennio, si raccolgano 720 mila tonnellate, pari a circa l'85% di tutti i rifiuti generati, equivalenti a circa 12 kg a cittadino. Lei che cosa ne pensa?
R. Certamente si tratta di traguardi ambiziosi. Vedremo cosa si riuscirà a realizzare. Mi preme, però, metter in risalto un'altra conseguenza dell'ampliamento del business.
D. Ossia?
R. La fresca opportunità di raduno e gestione degli elettrodomestici potrà tradursi in nuove chance lavorative. Valide conseguenze sotto il profilo occupazione le avremo senza ombra di dubbio. Vede, banalmente abbiamo dinanzi a noi la necessità di prendere in carico tonnellate e tonnellate di materiali.
D. E quali figure potranno essere protagoniste di questo processo?
R. Non soltanto gli autisti e i trasportatori, così come i magazzinieri, bensì ci sarà anche bisogno di professionisti qualificati, che sappiano impostare con esattezza la logistica e la redistribuzione di quanto verrà radunato. Per non parlare, poi, dell'affare legato alla commercializzazione delle cosiddette «materie prime secondarie». Vedo molte analogie con quanto avvenuto sul fronte delle energie rinnovabili: invece di continuare ad estrarre petrolio dal nostro povero Pianeta, si utilizzano i pannelli solari. Quanto sta alla base del reimpiego dei Raee è, allo stesso modo, all'insegna della sostenibilità. Insomma, un versante quasi del tutto inedito su cui applicarsi, che s'inquadra nell'ambito delle «economie green», che generano risorse fondamentali. E da cui si potranno trarre perfino non poche chance d'inserimento in azienda per tantissimi giovani che, magari, pur di operare in questi settori produttivi, sarebbero andati all'estero.
---------------
Gli obblighi dei distributori di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Dal 12.04.2014, data di entrata in vigore del nuovo Dlgs 49/2014 sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. «Raee»), i distributori di nuove apparecchiature (c.d. «Aee») hanno visto affiancarsi allo storico obbligo di ritiro «one on one» dei rifiuti conferiti dagli utilizzatori (previsto fin dal 2010, sotto lo storico dlgs 151/2005) il nuovo sistema «one on zero». Pur essendo finalizzati entrambi ad assicurare la corretta gestione dei tecno-rifiuti, i due sistemi si differenziano per ambito di applicazione e relativi adempimenti.
- Raee ritirati «one on one». Il sistema «uno contro uno» consiste nel ritiro a titolo gratuito di una Aee usata di tipo domestico all'atto della fornitura di nuova ed equivalente apparecchiatura elettrica ed elettronica. Il ritiro è obbligatorio per i distributori di nuove apparecchiature, indifferentemente dalle dimensioni del punto vendita, ma può essere rifiutato in caso di rischio di contaminazione del personale incaricato, di Aee priva di componenti essenziali o contenente rifiuti diversi dai Raee. I distributori possono utilizzare (anche per Aee professionali ritirati in nome dei produttori) un regime semplificato (ex articolo 11, comma 1, dlgs 49/2014 e dm 65/2010) che consente loro di effettuare sia il deposito dei Raee presso propri locali sia il successivo trasporto verso centri di raccolta o impianti di trattamento in deroga all'ordinario regime sulla gestione dei rifiuti ex dlgs 152/2006.
Tale regime semplificato permette di condurre le suddette attività senza necessità di autorizzazione per il deposito, di tenuta dei registri di carico/scarico, di formulario di trasporto e dichiarazione Mud a condizione che: il deposito dei Raee sia effettuato entro i parametri quantitativi, temporali e di sicurezza previsti dalle suddette norme; siano rispettati il divieto di miscelazione tra rifiuti di diversa pericolosità e tra rifiuti pericolosi e non pericolosi (articolo 187, «Codice ambientale») e l'integrità delle apparecchiature; vi sia iscrizione ad apposita Sezione dell'Albo gestori ambientali; vengano tenuti «schedario di carico e scarico» e «documento di trasporto».
- Raee ritirati «one on zero». Il sistema «uno contro zero» coincide con il ritiro a titolo gratuito di piccolissimi Raee (dimensioni esterne inferiori a 25 centimetri) provenienti da nuclei domestici senza il contestuale acquisto di nuove Aee da parte dei conferenti. Tale ritiro è obbligatorio per i distributori con superficie di vendita di Aee superiore ai 400 metri quadri e può essere rifiutato negli stessi casi critici previsti per il sistema «one on one». Dal punto di vista degli adempimenti ambientali, il dlgs 49/2014 (articolo 11, comma 3) si limita a escludere l'obbligo di autorizzazione ex dlgs 152/2006 per i punti di raccolta dei Raee presso i distributori, rinviando a un futuro decreto ministeriale le «modalità semplificate» per ritiro, deposito e trasporto (ma stabilendo, nelle more, l'obbligo di raccolta separata e di conservazione dell'integrità dei Raee di illuminazione).
Nell'immediato, le altre prescrizioni ambientali che tali distributori sono chiamati a osservare sono dunque da rintracciare nel più generale dlgs 152/2006, ossia: in qualità di detentori di rifiuti, divieto miscelazione rifiuti (ex articolo 187 citato) e disassemblaggio; obbligo di tenuta formulario di trasporto per movimentazione; in qualità di (eventuali) trasportatori in proprio dei Raee dal verso centro di raccolta o impianto di trattamento, iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, tenuta di registri carico/scarico e formulario di trasporto.
Qualsiasi altra operazione fuori da quelle consentite dai citati due regimi semplificati che i distributori vorranno effettuare sui Raee ritirati necessiterà, al fine di non incorrere in pesanti sanzioni, di specifica autorizzazione alla gestione dei rifiuti secondo le ordinarie regole del dlgs 152/2006
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Caldaie e condizionatori allineati al nuovo libretto. Adeguamento da effettuare al primo controllo periodico. Impianti domestici. Responsabilità e sanzioni per l’obbligo in vigore dal 15 ottobre.
L’obbligo del nuovo modello di libretto per le caldaie, i sistemi di riscaldamento e i condizionatori, sulla carta, è scattato il 15 ottobre. Ma condomini, uffici e famiglie non dovranno affannarsi per mettersi in regola: potranno farlo in occasione del primo controllo utile sull’efficienza dei propri dispositivi.
L’adempimento deriva dal Dm 10.02.2014 (che a sua volta attua il Dpr 74/2013) e prevede che le caldaie tradizionali, già in passato dotate di un libretto, debbano rinnovarlo con la compilazione del nuovo modello. Inoltre, la stessa documentazione è estesa in via obbligatoria anche ai condizionatori (in Lombardia, per effetto della legge regionale, solo quelli sopra i 12 kW) e all’intero universo dei sistemi di riscaldamento, dalle pompe di calore ai cogeneratori, dal teleriscaldamento ai dispositivi alimentati da fonte rinnovabile.
Gli unici impianti “dispensati” sono gli scaldacqua per uso igienico-sanitario a servizio di singole unità immobiliari, purché siano a uso abitativo. Se si parla, ad esempio, di un apparecchio installato in una palestra o in un centro sportivo, allora il libretto è necessario.
Che cosa è il libretto
È la carta di identità dell’impianto, lo segue dalla prima accensione alla fine del servizio e alla successiva demolizione, registra tutte le modifiche, sostituzioni di apparecchi e componenti, interventi di manutenzione e di controllo, valori di rendimento nel corso della vita utile, cambi di proprietà. Rispetto all’edizione in uso fino a oggi, il modello in vigore dal 15 ottobre non si fonda più su due tipologie di moduli (uno riferito alle centrali e l’altro al singolo impianto) ma su un modulo unico, personalizzabile, costituito da tante schede, usate e assemblate in funzione delle componenti dell’impianto.
Chi compila il libretto
La responsabilità della compilazione iniziale (per un impianto termico nuovo) è della ditta installatrice. Al contrario, l’aggiornamento, così come (ad esempio nel caso di un condizionatore) la compilazione ex novo per un sistema già esistente, spetta al responsabile dell’impianto, cioè, nel caso di un appartamento, la persona che fisicamente ci abita o, nel caso di un condominio, l’amministratore (che a sua volta può delegare a un terzo responsabile). «Il modello può essere scaricato dal sito del Mise» –spiega Giorgio Bighelli, della società di consulenza e-training. «Tuttavia, visto che si presenta identico, sia che riguardi un apparato da 20kW sia uno di 300 kW, è troppo complesso perché il singolo cittadino possa predisporlo senza l’aiuto di un tecnico».
Per questa ragione, lo stesso Ministero ha chiarito che l’adeguamento dei documenti potrà essere effettuato in occasione del primo controllo, obbligatorio, sull’efficienza energetica dell’impianto (fissato ogni due o ogni quattro anni, in genere dalle Regioni). Ma per chi ha un contratto di manutenzione di caldaie e condizionatori, l’adeguamento può essere effettuato anche prima, in occasione della prima ispezione programmata.
«È sempre buona norma comunque per il cittadino che ha la responsabilità dell’impianto –conclude Bighelli– farsi spiegare dal manutentore come è compilato il modello e fare una verifica con le istruzioni allegate al modello in bianco. Perché, alla fine, la responsabilità è sempre sua».
In Lombardia, per i condizionatori sotto i 12kW, non è richiesta la compilazione di un libretto: una differenza sostanziale rispetto allo Stato, tenendo anche conto che gli impianti domestici in genere oscillano fra 1 e 6 kW.
Il vecchio libretto
Il vecchio libretto, già in uso per le caldaie tradizionali, non va buttato. Anzi, deve essere conservato. Così era già accaduto nel 2003, quando il modello di libretto era stato aggiornato la prima volta. Un apparato installato nel 2002, ad esempio, dovrà avere tre versioni di libretto, quella che fa capo al modello del 1993, quella del 2003 e quella del 2014.
L’efficienza energetica
Tra le novità del Dm del 10.02.2014 c’è anche l’aggiornamento della modulistica per inviare il rapporto di controllo al termine delle verifiche di efficienza dell’impianto. Questo documento si distingue in 4 tipologie (riscaldamento a fiamma e combustione, condizionamento, teleriscaldamento, co e trigenerazione) e scatta solo nel caso di impianti di riscaldamento con potenza maggiore di 10 kW e di condizionamento con potenza maggiore di 12 kW. La compilazione spetta ai tecnici, che inviano il rapporto all’ente preposto a tenere il catasto degli impianti, pagando l'importo del bollino, secondo un tariffario che cambia persino da Comune a Comune.
Le sanzioni
Le sanzioni stabilite dal Dlgs 192/2005, vanno da 500 a 3mila euro a carico di proprietario, conduttore, amministratore di condominio o terzo responsabile che non ottemperino ai propri obblighi. «Il rischio reale che scattino le verifiche –prosegue Bighelli– è comunque proporzionato all’esistenza o meno, a livello regionale, del catasto degli impianti termici e all’operatività degli enti preposti a effettuare gli accertamenti. In Lombardia, ad esempio, l’assenza di libretto comporta una multa da 100 a 600 euro».
----------------
Termini & vincoli
Il libretto D’IMPIANTO
Il libretto di impianto, fino a ieri in vigore per le caldaie tradizionali (legge 10/91 e Dm 17.03.2003) oggi è esteso a tutti gli impianti termici, installati per la climatizzazione invernale ed estiva degli ambienti.
Riguarda, pertanto, anche condizionatori e sistemi di climatizzazione più vari, dalle pompe di calore ai cogeneratori, dal teleriscaldamento ai dispositivi alimentati da fonte rinnovabile. Sono esclusi gli scaldacqua per uso igienico-sanitario installati in unità ad uso abitativo, così come le stufe o altri dispositivi non fissi
Il rapporto di controllo
Il rapporto (cioè l’obbligo dell’invio di un documento tecnico che attesta la verifica di efficienza effettuata all’ente preposto su ogni territorio alla gestione del catasto impianti) scatta solo per impianti di riscaldamento con potenza maggiore di 10 kW e di condizionamento con potenza maggiore di 12 kW. A differenza del libretto si distingue in 4 tipologie (riscaldamento a fiamma e combustione, condizionamento, teleriscaldamento, co- e trigenerazione). In Lombardia è previsto anche un rapporto di controllo per gli impianti a biomassa
LA manutenzione PERIODICA
La manutenzione è la revisione periodica dell’impianto termico, che viene svolta conformemente alle prescrizioni e con la periodicità contenute nelle istruzioni tecniche dell’apparato. In genere, è definita all’atto dell’installazione dall’impresa esecutrice. Le informazioni relative alla manutenzione sono contenute in un documento separato rispetto al libretto e che viaggia in parallelo. Normalmente, specie nei condomini, viene firmato un contratto di manutenzione che prevede una serie di controlli in date stabilite
La verifica di efficienza
La verifica dell’efficienza è fissata per legge e serve a controllare che, nel tempo, l’impianto continui a consumare una stessa quantità di energia a fronte del fabbisogno necessario per garantire un uso standard.
La periodicità delle verifiche è prevista dal Dpr 74/2013, a seconda della potenza e tipologia dell’impianto. Le Regioni, che hanno legiferato con proprie leggi in materia, hanno via via stabilito sui territori periodicità di controllo diverse da quelle statali
---------------
Sul territorio. In Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte modelli diversi da quello nazionale
Passaggio obbligato in Regione.

Non tutti gli italiani devono connettersi al sito del Mise per scaricare il libretto di impianto. Alcuni devono infatti collegarsi alla pagina predisposta dalla propria Regione, se quest’ultima ha deciso di fare per sé.
Il nodo è, ancora una volta, quello dei poteri concorrenti fra lo Stato e i Governi locali, in materia di energia. Facendo valere i diritti acquisiti con la «clausola di cedevolezza» dell’articolo 17 del Dlgs 192/2005, alcune amministrazione regionali sono infatti scese in campo con propri libretti. Intervenendo anche al di là del “consentito”, visto che il Dm 10.02.2014 lasciava ai territori solo la possibilità di aggiungere eventuali schede peculiari a uno strumento che, nel suo complesso, avrebbe dovuto presentarsi ovunque uniforme.
La prima amministrazione che si è mossa è stata la Lombardia, con un decreto del direttore generale che attua la delibera X/1118 del 20.12.2013. Il libretto, scaricabile dal sito del Catasto regionale unico degli impianti termici, presenta una serie di differenze, così come i rapporti di efficienza, diversi da quelli nazionali e in numero di cinque anziché quattro, perché la Regione tratta a parte i dispositivi a biomassa.
La scelta di correre per sé ha contraddistinto anche il Veneto, dove il libretto “regionale” è stato introdotto dalla delibera 1363 del 28.07.2014 (inizialmente entrato in vigore con una serie di refusi, successivamente corretti). Particolarità locale è quella di aver creato un proprio vademecum di istruzioni, differente da quello del Mise, su come compilare il documento. Inoltre viene richiesta a livello locale l’integrazione obbligatoria della periodicità delle manutenzioni (aspetto che, invece, secondo la normativa nazionale deve essere trattato a parte, in altro format ad hoc e non ancora predisposto).
In Emilia Romagna, il libretto contiene 15 schede al posto delle 14 stabilite dal ministero dello Sviluppo: la Regione, infatti, richiede una serie di dettagli aggiuntivi, non previsti a livello centrale. Siccome la delibera con cui è stato introdotto il modello regionale è datata 13 ottobre (appena due giorni prima rispetto all’entrata in vigore del Dm 10.02.2014), l’amministrazione consente però, per ora e a chi già si è dotato di un modello di libretto simile a quello nazionale, di aggiungere le informazioni peculiari all’interno delle 14 schede precedenti.
Il Piemonte, infine, ha istituito con la recente delibera 13-381/2014 il catasto degli impianti, che mancava, e ha adottato un modello locale di libretto. Dimenticando nella prima stesura di inserire la parte dedicata ai controlli sugli ossidi di azoto, che sul territorio sabaudo sono obbligatori per via di quanto disposto dalla legge regionale.
Lo stesso modello di libretto nazionale, infine, presenta una serie di limiti che vengono messi in luce dagli operatori. Il documento, infatti, era stato pensato per essere supportato nella compilazione da strumenti informatici, invece quasi in tutte le Regioni è gestito su carta. Con tutti i limiti che ne derivano
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2014).

APPALTIAppalti, impossibile «regolarizzare» istanze e offerte. Anac. Il documento di consultazione.
La mancanza, l’incompletezza o l’irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive e di vari documenti che i concorrenti devono presentare in sede di gara sono assoggettate a una sanzione pecuniaria, ma devono essere ammesse alla regolarizzazione.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha sottoposto a consultazione una bozza di determinazione che fornisce importanti interpretazioni per l’applicazione del nuovo comma 2-bis dell’articolo 38 del codice dei contratti, introdotto dall’articolo 39 del Dl 90/2014, evidenziando che la norma ha ampliato il perimetro di utilizzo del soccorso istruttorio nelle procedure degli appalti.
Rispetto alla norma, tuttavia, l’Anac individua alcune importanti eccezioni alla regola dell’integrazione, non ammettendo che questa possa essere applicata in caso di mancata sottoscrizione dell’istanza di partecipazione o dell’offerta da parte del legale rappresentante del concorrente.
Assodata la sottoposizione alla sanzione (che le stazioni appaltanti devono determinare nel bando entro un range tra l’uno per mille e l’uno per cento del valore della gara) della mancanza e dell’incompletezza delle dichiarazioni, la bozza di determinazione focalizza l’attenzione sulle irregolarità essenziali.
Sotto il profilo contenutistico risultano riconducibili al parametro dell’essenzialità tutte le irregolarità che non consentono di individuare il requisito oggetto della dichiarazione, mentre sotto quello soggettivo vanno ricondotte nella categoria le carenze della dichiarazione che attengono all’individuazione dei soggetti responsabili della stessa (ad esempio l’omessa produzione del documento di identità a corredo della dichiarazione).
L’Anac rileva anche una terza fattispecie, derivandola dalla disposizione, nella quale sono riconducibili ipotesi di completamento o chiarimento delle dichiarazioni e dei documenti presentati, sui quali deve ritenersi possibile per la stazione appaltante attivare il soccorso istruttorio, senza irrogare alcuna sanzione pecuniaria, per dati o documenti non essenziali, ma indispensabili ai fini della verifica dei requisiti (ad esempio i dati relativi alle posizioni dell’operatore economico presso gli enti previdenziali, necessari per consentire alla stazione appaltante la richiesta del Durc).
Sull’articolo 46, comma 1-ter, l’Autorità evidenzia che la norma estende il soccorso istruttorio non solo alle dichiarazioni, ma anche ad altri elementi, ricomprendendo in questo novero un’ampia serie di documenti da produrre in gara.
L’Anac evidenzia come questa soluzione sia riferibile (seppure con alcune cautele) alla cauzione provvisoria e all’attestazione del versamento del contributo gare, precisando peraltro che i relativi adempimenti devono essere stati comunque soddisfatti entro il termine di presentazione delle offerte.
Non possono essere invece assoggettate alla regolarizzazione la sottoscrizione dell’istanza di partecipazione e dell’offerta, in quanto rappresentative degli impegni dell’operatore economico, così come la dichiarazione di avvalimento dei requisiti (mentre è sanabile la documentazione correlata) e la dichiarazione di subappalto nei lavori quando sia necessaria per consentire all’operatore economico subappaltante di partecipare alla gara. L’Anac precisa infine che nemmeno gli adempimenti finalizzati a consentire l’identificazione del concorrente e ad assicurare il principio di segretezza delle offerte possono essere sottoposti alla regolarizzazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2014).

EDILIZIA PRIVATASulle strade. I cartelloni abusivi subito rimossi.
Gli impianti pubblicitari abusivi devono essere rimossi con urgenza anche in caso di ricorso perché godono di una disciplina ad hoc. Specialmente quelli posizionati sul suolo demaniale o degli enti proprietari delle strade, anche in assenza di un pericolo imminente.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 06.10.2014 n. 4746 di prot..
La pubblicità abusiva è disciplinata dall'art. 23 del codice stradale il quale prevede specificamente una multa di 419 euro per i trasgressori e di 1.376 euro per chi viola le prescrizioni indicate nella licenza. I verbali devono poi essere trasmessi agli enti proprietari delle strade che provvederanno alla rimozione degli impianti.
Questa ulteriore misura punitiva a parere del ministero dovrà essere attivata anche in caso di ricorso e senza attinenza con la disciplina delle sanzioni accessorie di cui all'art. 211 del codice stradale. In caso di installazione abusiva su demanio o terreno degli enti proprietari delle strade la rimozione del manufatto dovrà essere veloce (articolo ItaliaOggi del 08.11.2014).

PUBBLICO IMPIEGOAlla mobilità dei dipendenti non si applica il dl Madia.
Alla mobilità dei dipendenti delle province non si applica il decreto Madia, il dl 90/2014. La disciplina dei trasferimenti dei lavoratori che saranno interessati (ancora non si sa come) dai trasferimenti delle funzioni provinciali, infatti, trova integralmente ed esclusivamente regolazione nella legge 56/2014.

A seguito della presentazione della legge di stabilità 2015 che prevede tagli alla spesa delle province dimostratamente insostenibili e in nessun modo collegabili agli effetti della riforma Delrio in quanto solo lineari e forfettari, si iniziano a evidenziare le conseguenze difficilmente controllabili di una serie di riforme mal congegnate. Molti osservatori insistono nell'indicare che ai dipendenti provinciali da mandare in mobilità verso gli enti che subentrerebbero alle province nella gestione delle funzioni non fondamentali si applicherebbe la nuova disciplina della mobilità obbligatoria, quella entro i 50 chilometri per intendersi, introdotta dal dl 90/2014.
Le cose, tuttavia, non stanno così. Il nuovo comma 2 dell'articolo 30 del dlgs 165/2001, come modificato dalla riforma Madia, costituisce una norma «generale» sulla mobilità dei dipendenti pubblici, volta principalmente a semplificare i trasferimenti da una sede all'altra delle medesime amministrazioni. Tra amministrazioni diverse occorrerebbero specifiche e preventive convenzioni. Nel caso delle mobilità dei dipendenti provinciali, in assenza di dette convenzioni, che fin qui nessuno ha intravisto, la mobilità obbligatoria della riforma Madia nemmeno si può applicare, visto che i dipendenti transiterebbero senz'altro verso altre amministrazioni.
Non basta. Punto centrale della mobilità obbligatoria dell'articolo 30, comma 2, novellato, è l'incentivo economico riconosciuto agli enti che acquisiscono personale in mobilità. Si tratta di risorse corrispondenti al cinquanta per cento del trattamento economico spettante al personale trasferito, per evitare che l'effetto della mobilità riduca le quote individuali di trattamento accessorio dei dipendenti dell'ente di destinazione. Per assicurare queste risorse incentivanti la mobilità, il decreto Madia ha introdotto una sorta di fondo di rotazione, dell'ammontare di 30 milioni a decorrere dal 2015.
I dipendenti provinciali da trasferire oscillano, secondo le stime possibili, tra i 12 mila e i 15 mila. Il costo medio dei dipendenti provinciali è circa 30 mila euro l'anno. Facendo brevi e facili conti, si comprende che il fondo potrebbe assicurare incentivi alle amministrazioni per non più di 1.000 dipendenti e, dunque, risulterebbe del tutto insufficiente e inutile per la riforma delle province. La regolazione del trasferimento dei dipendenti provinciali, invece, sta tutta nell'articolo 1, comma 96, lettera a), della legge Delrio.
Si prevede che il personale trasferito mantenga la posizione giuridica ed economica, con riferimento alle voci del trattamento economico fondamentale e accessorio, in godimento all'atto del trasferimento, nonché l'anzianità di servizio maturata. Per assicurare che l'ente destinatario non si veda ridotte le disponibilità per la spesa di personale, la citata norma impone alle province di trasferire le risorse che finanziano il trattamento economici dei dipendenti provinciali agli enti di destinazione. Ciò, in modo che le risorse destinate a finanziare le voci fisse e variabili del trattamento accessorio, nonché la progressione economica orizzontale vanno a costituire specifici fondi, distinti da quello contrattuale previsto per la generalità dei dipendenti, e destinati esclusivamente al personale trasferito.
Pertanto, la legge 56/2014 prevede una disciplina totalmente diversa e un finanziamento del 100% della spesa del personale da trasferire, stimabile, se i dipendenti da mandare in mobilità fossero 12 mila, in 360 milioni di euro, più gli oneri, per giungere a più di 400 milioni. Il che significa, per le province, un ulteriore taglio alle proprie disponibilità, che si aggiunge al taglio a regime, nel 2017, di 3,585 miliardi conseguente ai dl 66/2014 e alle disposizioni della legge di Stabilità, se rimarrà confermata nell'attuale testo, che condanna senza appello le province al default (articolo ItaliaOggi del 07.11.2014).

ENTI LOCALIObblighi di trasparenza per tutti. Le partecipate devono applicare le norme anticorruzione. Il dlgs 33/2013 va esteso a tutti i soggetti che operano con risorse pubbliche.
L'Anac ha recentemente reso pubblico un report sugli esiti dell'attività di vigilanza in materia di trasparenza, che evidenzia gli inadempimenti in cui sono incorsi molti enti pubblici tenuti ad osservare le disposizioni del dlgs 33/2013.
Le verifiche sono state attivate sia d'ufficio, che in seguito alle 258 segnalazioni ricevute dall'Autorità dall'inizio dell'anno fino al 24 ottobre scorso. Ogni segnalazione è stata soggetta a una verifica della sua fondatezza mediante accesso al sito web istituzionale dell'amministrazione segnalata; successivamente, nei casi in cui si sia reso necessario, l'Autorità ha chiesto all'ente inadempiente di adeguarsi alle previsioni di legge entro un termine prestabilito. Nel 55% dei casi è stato rilevato un completo adeguamento alle prescrizioni, nel 30% dei casi un adeguamento parziale e nel rimanente 15% un mancato adeguamento.
Secondo quanto previsto dal Piano nazionale anticorruzione, la trasparenza rappresenta uno strumento essenziale per assicurare i valori costituzionali dell'imparzialità e del buon andamento delle pubbliche amministrazioni, cosi come sanciti dall'art. 97 della Costituzione, per favorire il controllo sociale sull'azione amministrativa e per promuovere la diffusione della cultura della legalità e dell'integrità nel settore pubblico.
La trasparenza è quindi un metodo fondamentale per il controllo da parte del cittadino e/o utente delle decisioni della pubblica amministrazione e, quindi, e uno strumento di deterrenza contro la corruzione, concetto che comprende tutte quelle situazioni in cui, nel corso dell'attività amministrativa, si riscontri l'abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati.
Le situazioni rilevanti sono dunque più ampie della fattispecie penalistica che e disciplinata negli artt. 318 e seguenti del codice penale.
Spesso però si commette l'errore di considerare la lotta alla corruzione e gli obblighi di trasparenza come obiettivi non collegati fra loro; in realtà, invece, essi sono intrinsecamente uniti, in quanto gli obblighi di trasparenza previsti dal dlgs 33/2013, insieme alle disposizioni sulle incompatibilità e inconferibilità degli incarichi di cui al dlgs 39/2013, sono il mezzo principale, ancorché non esclusivo, attraverso il quale si persegue l'obiettivo della lotta alla corruzione sancito dalla legge 190/2012.
È quindi del tutto logico che l'obiettivo della lotta alla corruzione non debba essere perseguito solo dalle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 del dlgs 165/2001, ma anche da tutti quei soggetti che operano prevalentemente con risorse pubbliche a prescindere dalla forma giuridica che assumono, come enti pubblici economici, enti di diritto privato in controllo pubblico, società partecipate dalle amministrazioni pubbliche e da quelle da esse controllate.
Tuttavia, anche a causa di un testo normativo piuttosto articolato e di non immediata comprensione, nonostante le interpretazioni fornite dalla Civit (oggi Anac) e dal dipartimento della funzione pubblica con la circolare n. 1 del 14/02/2014, solo recentemente molti organismi partecipati dalle amministrazioni pubbliche hanno iniziato ad assumere le iniziative necessarie per dare concreta attuazione alle disposizioni anticorruzione.
Una recente spinta verso l'adeguamento è giunta dalle prefetture che, in base del protocollo sottoscritto fra l'Anac e il ministero dell'interno, hanno invitato gli enti locali a fornire chiarimenti in merito all'adozione da parte dei loro organismi controllati degli atti previsti dalla legge 190/2012. Inoltre, l'art. 19, comma 5 del dl 90/2014, convertito con modificazioni dalla legge 114/2014, ha previsto che, salvo che il fatto costituisca reato, in caso di omissione dell'adozione dei piani triennali di prevenzione della corruzione, dei programmi triennali di trasparenza o dei codici di comportamento, l'Anac applica una sanzione amministrativa compresa fra 1.000 e 10.000, che verrà comminata al termine del procedimento individuato dal regolamento dell'Autorità che è stato approvato lo scorso 9 settembre.
Inoltre, l'art. 24-bis del dl 90/2014 ha risolto i dubbi che erano sorti in merito all'ambito soggettivo di applicazione degli obblighi sulla trasparenza, riconfermando di fatto quanto già sostenuto dal dipartimento delle funzione pubblica nella circolare n. 1/2014 sopra richiamata.
Il nuovo art. 11 del dlgs 33/2013, riformato dal dl 90/2014, prevede che le regole sulla trasparenza devono essere applicate dalle pubbliche amministrazioni individuate all'art. 1, comma 2 del dlgs 165/2001, ivi comprese le Autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione, ma anche ai seguenti soggetti:
I) enti di diritto pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l'incarico, ovvero, i cui amministratori siano da questa nominati;
II) limitatamente all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea, agli enti di diritto privato in controllo pubblico, ossia, alle società e agli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell'art. 2359 del codice civile da parte di pubbliche amministrazioni;
III) enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi, limitatamente all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea;
IV) società a partecipazione pubblica minoritaria, limitatamente all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea (a questi soggetti si applicano solo le disposizioni dell'art. 1, commi 15-33 della legge 190/2012).
È quindi logico aspettarsi che anche il complesso mondo delle società a partecipazione pubblica, siano esse strumentali, di gestione dei servizi pubblici locali o di altra tipologia, finirà, seppur con qualche ritardo, per adeguarsi alla normativa vigente in materia di anticorruzione e trasparenza (articolo ItaliaOggi del 07.11.2014).

INCARICHI PROFESSIONALIPos, sanzioni se inadempienti. Pagamenti elettronici verso obblighi più stringenti. Tavolo tecnico aperto anche a esercenti e professionisti. Allo studio un credito d'imposta.
Sui pagamenti elettronici in arrivo sanzioni e interdizioni in caso di inadempienze. Mentre è allo studio del governo un credito di imposta per incentivare l'utilizzo dei Pos (allo stato obbligo dal 01.07.2014 per i commercianti e i professionisti non sanzionato di non rifiutare pagamenti elettronici per importi superiori ai 30 euro) da parte dei commercianti e, in questo modo, abbattere i costi fissi del terminale.
Anche se sull'agevolazione allo studio pesa il reperimento delle coperture finanziarie che influenzerà l'intensità dell'agevolazione.
A fare il punto sullo stato dei pagamenti elettronici è stato, ieri, in commissione finanze della Camera, il sottosegretario al ministero dell'economia, Enrico Zanetti, rispondendo a una interrogazione di Giovanni Paglia (Sel). Nell'interrogazione, il deputato di sinistra ecologia e libertà chiedeva lo stato delle misure adottate, alla luce di impegni assunti dal governo con la risoluzione 8-00070, approvata il 29 luglio, per quanto riguarda l'abbattimento dei costi fissi dei terminale Pos e per quanto riguarda la gratuità per ulteriori 12 mesi delle transazioni effettuate presso impianti di distribuzione di carburante.
Sul capitolo dei costi di gestione dei Pos e delle relative transazioni, il sottosegretario fa riferimento ai lavori del tavolo sulla diffusione delle transazioni con carte di pagamento, istituito presso il ministero dello sviluppo economico, con Banca d'Italia e ministero dell'economia e che ha visto coinvolti anche Abi, Consorzio bancomat, Aiip (Associazione italiana istituti di pagamento e di moneta elettronica) e i gestori Visa e Mastercard. I lavori in atto porteranno, secondo il sottosegretario, alla realizzazione di un monitoraggio sugli effetti sul mercato sia in termini di volumi sia di prezzi.
Intanto, allo stato attuale, chi si dota di terminali più innovativi (con collegamento via internet) risparmia sui costi fissi, rispetto a quelli tradizionali, essendo i primi meno costosi. Il costo fisso infatti si aggira intorno ai 2-5 euro mensili per una spesa annuale intorno ai 25-60 euro; mentre le apparecchiature più tradizionali costano in media 10-15 euro al mese, per un esborso annuale di 120-180 euro. C'è poi il capitolo dei costi variabili legati ai volumi delle transazioni. In questi casi Zanetti non fornisce cifre, evidenziando che sono legate al numero e all'ammontare delle transazioni effettuate dalla clientela.
Per Zanetti comunque i Pos consentono la riduzione dei costi legati all'utilizzo del denaro contante intorno all'1-1,5% dell'entità delle transazioni. Il sottosegretario valuta che «la crescita del numero di transazioni che ci si attende come risultato dell'entrata in vigore del decreto consentirà lo sviluppo di economie di scala e l'intensificazione delle pressioni concorrenziali in grado di ridurre ulteriormente i costi». Tornando ai lavori del tavolo, oltre che al coinvolgimento in futuro dei rappresentanti delle associazioni di categoria di commercianti e professionisti, Zanetti precisa che «il menzionato tavolo potrà essere anche l'occasione per valutare la possibile introduzione di sanzioni o interdizioni in caso di inadempienza».
Infine, il sottosegretario apre alla richiesta di Paglia annunciando che è «allo studio un'ipotesi di proposta normativa agevolativa che potrebbe essere strutturata attraverso il meccanismo del credito di imposta (a regime)». Ma la misura di defiscalizzazione dovrà superare lo scoglio della copertura finanziaria degli oneri, la cui entità dipenderebbe anche dall'intensità dell'agevolazione. Sul regime di gratuità dei pagamenti con carta di credito per i carburanti, il sottosegretario all'economia congela le speranze di un periodo ulteriore di gratuità delle commissioni per i pagamenti con carta di credito alla pompa di benzina.
In particolare Zanetti spiega che: «L'articolo 12, comma 10-bis del dl 20172011 dispone la cessazione dell'efficacia della disposizione, facendola decorrere dalla data di pubblicazione del dm 14.02.2014 n. 51» (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 31/03/2014 e che è entrato in vigore il 29.07.2014).
Per Zanetti la tecnica legislativa adottata «in cui la legge dispone la disapplicazione di una norma di pari rango, individuando tuttavia il dies ad quem non direttamente, ma nella data di pubblicazione di un provvedimento secondario, che definisce le regole generali per la riduzione delle commissioni a carico degli esercenti in relazione alle transazioni effettuate mediante carte di pagamento, ricomprendendo tra essi anche i distributori di carburanti» ha portato come conseguenza la cessazione dell'efficacia del regime di gratuità» (articolo ItaliaOggi del 06.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, quando la forma è tutto. Fuori dalla gara chi commette irregolarità insanabili. Un vademecum dell'Anac elenca i casi di esclusione automatica dalla procedura.
Determinano l'esclusione automatica da una gara di appalto pubblico, e quindi non sono neanche sanabili con il pagamento di una sanzione amministrativa, le irregolarità che non consentono alla stazione appaltante di individuare con chiarezza il contenuto e la provenienza dell'offerta (per esempio, la mancata sottoscrizione dell'offerta) e il principio di segretezza dell'offerta (assenza dei sigilli sulla busta contenente l'offerta); non sanabile anche l'omissione del versamento del contributo dovuto all'Anac per partecipare alle gare.
In questi casi l'irregolarità «essenziale» non è sanabile neanche con il pagamento di una sanzione (compresa fra 1/1000 e 1/100 del valore dell'appalto, con il limite di 50.000 euro), come prevede l'art. 39 del decreto 90/2014.

Sono queste alcune delle precisazioni contenute nel vademecum che l'Autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone ha varato in questi giorni e ha messo in consultazione pubblica.
L'intervento dell'Autorità chiarisce alle stazioni appaltanti come applicare l'art. 39 del decreto 90/2014 (legge 114/2014) che ha stabilito l'innovativo principio per cui è in generale sanabile ogni carenza, omissione o irregolarità «essenziale» dell'offerta, con l'unico limite derivante dall'esigenza di garantire l'inalterabilità del contenuto dell'offerta, la certezza sulla provenienza e sulla segretezza dell'offerta, nonché le situazioni in cui versano i concorrenti alla scadenza del termine di partecipazione alla gara.
Rispetto al passato, quando si poteva soltanto integrare e regolarizzare quanto già dichiarato o prodotto in sede di gara, adesso si può quindi sanare ogni omissione o incompletezza documentale (precisa l'Authority «tutti i documenti»). L'Anac interviene per chiarire quali irregolarità essenziali non siano comunque mai sanabili.
Il primo punto fermo che mette l'Anac è che l'istituto novellato dal decreto 90 si applica a tutti i documenti presentati in gara dal concorrente, ma non può essere utilizzato (si tratta quindi di irregolarità essenziali non sanabili) «per supplire a carenze dell'offerta» o per l'assenza di un requisito (ben diverso è invece il caso in cui manchi il documento relativo al requisito, che invece esiste in concreto).
Sono quindi non sanabili irregolarità essenziali come: la mancata sottoscrizione dell'offerta da parte del titolare dell'impresa; il mancato sopralluogo, la mancata indicazione del riferimento di gara sulla busta esterna o il mancato inserimento in due diverse buste dell'offerta tecnica e di quella economica; la mancata sigillatura dei plichi; l'assenza della dichiarazione di ricorso all'avvalimento; l'omissione del versamento del contributo dovuto all'Anac per partecipare alle gare.
Viceversa sono regolarità essenziali ma sanabili quelle relative a «irregolarità nella redazione della dichiarazione, oltre l'omissione e l'incompletezza, che non consentano alla stazione appaltante di individuare con chiarezza il soggetto e il contenuto della dichiarazione stessa, ai fini dell'individuazione dei singoli requisiti di ordine generale che devono essere posseduti dal concorrente» (per esempio, aver fatto il sopralluogo, ma non aver dichiarato la data di effettuazione le documento di gara).
Vi è poi, dice l'Anac, «un tertium genus che riguarderebbe irregolarità non essenziali ma che tuttavia afferiscono a elementi indispensabili» (per esempio, l'indicazione della posizione Inps, Inail, Cassa edile, ai fini della verifica della regolarità contributiva). In queste ipotesi la stazione appaltante invita a sanare l'irregolarità ma non esige la sanzione amministrativa (articolo ItaliaOggi del 06.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVOROCantieri. Nei costi le spese dei bagni.
La spesa dei «baraccamenti» (bagni, spogliatoi, refettori, dormitori ecc.), da includere nella voce di costo per la sicurezza, comprende non solo la posa in opera (montaggio e smontaggio) ma anche le spese di utilizzo sul cantiere, quale per esempio quello di pulizia, di riscaldamento e di condizionamento.
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 04.11.2014 n. 25/2014, rispondendo a un quesito dell'associazione nazionale costruttori edili (Ance).
L'Ance, in particolare, ha appunto chiesto di sapere se tra le voci di costo per la sicurezza degli apprestamenti, elencate nell'allegato XV del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008) con riferimento al piano di sicurezza e coordinamento (Psc), debbano essere ricomprese oltre alle spese per la loro installazione iniziale (fornitura, trasporto, realizzazione piano di appoggio, realizzazione sottoservizi di allacciamento, montaggio e smontaggio) anche quelle relativa a riscaldamento, condizionamento, pulizia e manutenzione. Gli apprestamenti includono, tra l'altro, i cosiddetti «baraccamenti», di norma costituiti da monoblocchi prefabbricati e che assolvono a funzioni di gabinetti, spogliatoi, refettori, locali di ricovero e riposo, di bagni per lavarsi, di dormitori ecc.
La risposta della commissione è affermativa. Stando alle disposizioni del T.u. sicurezza (punto 4.1.3 dell'allegato XV), il quale stabilisce che «le singole voci dei costi della sicurezza vanno calcolate considerando il loro «costo di utilizzo» per il cantiere interessato che comprende, in quanto applicabile, la posa in opera e il successivo smontaggio, l'eventuale manutenzione e l'ammortamento», se ne deduce che le spese di manutenzione dei baraccamenti vanno incluse tra i costi della sicurezza. E tra queste le spese di riscaldamento, di condizionamento, nonché quelle di pulizia le quali, risultando necessarie al corretto «utilizzo» degli stessi baraccamenti, dovranno essere ricomprese tra i costi della sicurezza (articolo ItaliaOggi del 06.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVOROIl servizio di prevenzione affidabile a consulenti. Interpello del ministero del lavoro sui responsabili del Spp.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) interno all'azienda non deve essere necessariamente un «dipendente» dell'impresa, purché sia un lavoratore incardinato nell'ambito dell'organizzazione aziendale.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell
'interpello 04.11.2014 n. 24/2014 a risposta di un quesito della Confcommercio sulla corretta interpretazione dell'art. 31, comma 6, del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza) relativo all'istituzione del servizio di prevenzione e protezione (Spp) all'interno dell'azienda.
Il servizio di prevenzione. Il T.u. prevede che sia il datore di lavoro a organizzare il servizio di prevenzione e protezione all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva ovvero incaricando persone o servizi esterni, costituiti anche presso associazioni dei datori di lavoro o presso gli organismi paritetici. In via alternativa, il datore di lavoro può anche assumere personalmente le funzioni.
Il dl n. 69/2013 (convertito dalla legge n. 98/2013) fa obbligo al datore di lavoro di organizzare il Spp in via «prioritaria» all'interno dell'azienda. In questo modo, il legislatore ha sottratto al datore di lavoro la facoltà di optare liberamente fra servizi esterni e interni, favorendo per la scelta di quest'ultimo.
L'interpello. La Confcommercio ha chiesto di sapere se, in caso di servizio di prevenzione e protezione che sia istituito necessariamente all'interno dell'azienda (caso di ricorrenza di una delle ipotesi previste dal comma 6, dell'art. 31, del T.u. sicurezza: aziende industriali a rischio di incidente rilevante; centrali termoelettriche; aziende per la fabbricazione e deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni; aziende industriali con oltre 200 lavoratori; aziende estrattive con oltre 50 lavoratori; strutture di ricovero e cura, pubbliche e private, con oltre 50 lavoratori ecc.), il responsabile del servizio debba essere obbligatoriamente un dipendente del datore di lavoro o possa essere anche un professionista in possesso dei requisiti di legge.
I chiarimenti. Per la commissione ministeriale non c'è esclusiva, può essere un dipendente come può essere un professionista: ciò che conta è il possesso dei requisiti professionali. In particolare, per la commissione il responsabile è da ritenersi «interno» quando «gli sia incardinato nell'ambito dell'organizzazione aziendale e coordini un servizio di prevenzione e protezione interno, istituito in relazione alle dimensioni e alle specificità dell'azienda». E ciò «a prescindere dalla tipologia contrattuale che lega tale soggetto (il Rspp) al datore di lavoro, in linea con il dettato dell'art. 2, comma 1, lettera a) del dlgs n. 81/2008».
Pertanto, aggiunge la commissione, «sarà cura del datore di lavoro rendere compatibili le diverse tipologie dei rapporti di lavoro» (per esempio co.co.co., lavoro a progetto, ma anche un rapporto di consulenza professionale) «e la durata della prestazione di lavoro con le esigenze che il Rspp deve tenere presenti per portare a termine pienamente i compiti che è chiamato a svolgere».
In tale quadro, dunque, conclude la commissione, il termine «interno» non va inteso equivalente a «dipendente», ma riferito a un lavoratore che assicuri una presenza adeguata per lo svolgimento della propria attività (articolo ItaliaOggi del 06.11.2014).

SICUREZZA LAVOROPrevenzione e protezione, incarico anche a un «esterno». Sicurezza. In un interpello del Lavoro si chiarisce che non è necessario il vincolo di dipendenza.
Per la valida istituzione, quando prevista, del Servizio di prevenzione e protezione prioritariamente all'interno dell'azienda non si richiede necessariamente che il soggetto responsabile (Rspp) abbia un rapporto di dipendenza con l'impresa stessa.
È quanto chiarito dalla Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro presso il Ministero del lavoro, con l'
interpello 04.11.2014 n. 24/2014.
Il parere ministeriale è stato fornito in seguito ad un quesito posto per conoscere se nell'ipotesi di cui all'articolo 31, comma 6, del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), recentemente modificato dall'articolo 32 del Dl 69/2013, il responsabile del servizio, di cui al successivo comma 7, debba essere necessariamente un dipendente del datore di lavoro.
Occorre a questo proposito precisare che la modifica di cui al Decreto legge 69 ha reso più incisivo l'obbligo in capo al datore di lavoro di organizzare il servizio in questione, prevedendo che esso debba essere istituito, appunto, prioritariamente, all'interno dell'azienda.
Si tratta di un obbligo che ricorre quando l'attività svolta si riferisca: a quella di cui al Dlgs 334/1999, comportante rischi rilevanti; a centrali termoelettriche; ad impianti e installazioni di cui al Dlgs 230/1995 con esposizione a radiazioni ionizzanti; alla fabbricazione e/o deposito di esplosivi polveri e munizioni; alle aziende industriali con oltre 200 lavoratori; alle aziende estrattive con oltre 50 lavoratori; alle strutture di ricovero pubbliche e private con oltre 50 lavoratori.
Tale previsione è motivata dalla necessità di assicurare una presenza costante e continuativa del servizio all'interno dell'azienda.
Ciò posto, a prescindere dalla tipologia del rapporto, il Rspp dovrà essere conoscitore delle dinamiche organizzative e produttive dell'azienda, per cui sarà necessariamente incardinato nell'ambito dell'organizzazione aziendale provvedendo a coordinare il servizio interno. Si deve tenere presente, però, secondo l'interpello in esame, che il termine «interno» non equivarrà alla definizione di «dipendente», per cui l'incarico potrà ben essere affidato a un professionista che assicuri, tuttavia, una presenza adeguata allo svolgimento della propria attività.
Con un secondo interpello 04.11.2014 n. 25/2014, la stessa Commissione, chiamata ad esprimersi in merito alla esatta individuazione di alcune voci riguardanti il costo per la sicurezza di cui all'allegato XV del Tu, sottolinea invece che nel costo delle singole voci per il cantiere interessato vanno comprese quelle per il loro utilizzo.
Più in particolare, con riferimento ai cosiddetti «baraccamenti» (gabinetti, locali per lavarsi, spogliatoi, refettori, locali di ricovero e di riposo, dormitori) vanno compresi la posa in opera ed il successivo smontaggio, manutenzione e ammortamento, assieme a quelle per il loro riscaldamento/condizionamento e pulizia, risultando tutte necessarie per il loro corretto utilizzo
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2014).

GIURISPRUDENZA

VARI: Anche il pedone investito può avere colpa. Incidenti stradali. Se si attraversa in modo non corretto va valutato il concorso di responsabilità.
Il pedone non ha sempre ragione: anche lui può avere colpa (in tutto in parte) in un incidente stradale nel quale viene investito e tutto dipende da dove e come attraversa la strada.
Lo ha confermato la III Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 13.11.2014 n. 24204.
La pronuncia riguarda la complessa vicenda di un pedone investito nel 1992, mentre era malato di Alzheimer in fase iniziale e morto per questo morbo nel 1997; un esito accelerato dal trauma dell'incidente.
Oltre a confermare la decurtazione del risarcimento per invalidità permanente alla vittima in ragione del fatto che l'Alzheimer lo avrebbe comunque condotto alla demenza totale (per cui il danno riportato nell'incidente va valutato in modo inferiore a quanto si farebbe con una persona sana), la Cassazione ha ribadito e rafforzato i suoi orientamenti più recenti sulla responsabilità del pedone.
Infatti, è stata ricordata la sentenza 5399/2013 che tenne conto dell'imprevedibilità del comportamento di chi aveva scavalcato improvvisamente un guard-rail su una strada a scorrimento veloce. Il caso della sentenza di ieri è più sfumato: al momento dell'impatto, il pedone si trovava sulla carreggiata a due metri dal ciglio, una posizione pericolosa ma che avrebbe potuto consentire una manovra d'emergenza per evitarlo.
Inoltre, c'erano lavori in corso e quindi il conducente avrebbe dovuto guidare con più prudenza. La Corte ha convalidato la tesi secondo cui la posizione pericolosa del pedone costituisce una sua responsabilità, anche se minore. Così è stato confermato il concorso di colpa, col 25% al pedone
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.11.2014).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALINon è configurabile, in capo agli Enti che decidano di stipulare una convenzione per l’esercizio associato delle funzioni di segreteria, alcun obbligo di individuare, accanto al Segretario, anche la figura del vicesegretario.
La scelta se prevedere o meno un vicesegretario per coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di vacanza, assenza o impedimento, è rimessa all’autonomia regolamentare del singolo Ente, ai sensi dell’art. 97, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000.
Orbene, ritiene il Collegio che in virtù di tale autonomia, e in assenza di previsioni normative espresse di segno contrario (tale non potendo considerarsi la deliberazione del Consiglio nazionale di amministrazione dell’ex Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei segretari comunali e provinciali, richiamata dall’Amministrazione resistente), i Comuni che addivengano, come nel caso di specie, alla stipula di una convenzione per l’esercizio delle funzioni di segreteria, restino liberi di decidere non solo se individuare o meno la figura del vicesegretario, ma anche, in caso affermativo, se attribuirne le funzioni ad un unico soggetto per entrambi, oppure a soggetti diversi, in possesso dei necessari requisiti.
In quest’ottica, risulta valida e pienamente efficace la disposizione di cui all’art. 18 del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune, secondo la quale “il Sindaco ha la facoltà di attribuire, con apposito decreto, le funzioni di Vice Segretario Comunale Generale, sentito il Segretario, ad uno dei Responsabili di settore in possesso dei titoli per l’accesso alla carriera dei Segretari Comunali e Provinciali, nonché dell’esperienza decennale maturata alle dipendenze di un Ente Locale”.

3.1. Con gli atti impugnati la Prefettura ha invitato i Comuni di Biassono e Carugate a modificare la convenzione, tra gli stessi sottoscritta per istituire un comune servizio di Segreteria, invitandoli ad indicare il Vice Segretario comunale che avrebbe sostituito il Segretario titolare nei casi di assenza o impedimento, “in applicazione della delibera n. 175/2004 del C.d.A. nazionale, la quale dispone: «… la sede di segreteria convenzionata realizza un unico soggetto giuridico, per il quale deve essere previsto un unico preposto all’ufficio e, quindi, un unico sostituto nell’ipotesi di assenza o impedimento del titolare»”.
3.2. La nota prefettizia in questione implica l’esistenza, in capo ai Comuni interessati, di un obbligo alla individuazione di un unico soggetto al quale attribuire i compiti del vicesegretario.
Tale obbligo, tuttavia, non è previsto da alcuna norma.
3.3. Al riguardo, è utile richiamare le disposizioni contenute in materia nel D.lgs. n. 267/2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e nel D.P.R. n. 465/1997 (Regolamento recante disposizioni in materia di ordinamento dei segretari comunali e provinciali, a norma dell'articolo 17, comma 78, della L. 15.05.1997, n. 127).
In generale, con riferimento alla figura del vicesegretario, l’art. 97, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 stabilisce che “il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, può prevedere un vicesegretario per coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di vacanza, assenza o impedimento”.
Più specificamente, con riguardo alla possibilità di esercitare in forma associata tra più Enti il servizio di segreteria comunale, l’art. 98, comma 3, del D.lgs. n. 267/2000 si limita a prevedere che “i comuni possono stipulare convenzioni per l'ufficio di segretario comunale comunicandone l'avvenuta costituzione alla Sezione regionale dell'Agenzia”.
Sul tema, inoltre, l’art. 10 del D.P.R. n. 465/1997 (rubricato significativamente “Convenzioni di segreteria”) così dispone: “1. I comuni, le cui sedi sono ricomprese nell’ambito territoriale della stessa sezione regionale dell’Agenzia, con deliberazione dei rispettivi consigli comunali, possono anche nell’ambito di più ampi accordi per l’esercizio associato di funzioni, stipulare tra loro convenzioni per l’ufficio di segreteria.
2. Le convenzioni stabiliscono le modalità di espletamento del servizio, individuano il sindaco competente alla nomina e alla revoca del segretario, determinano la ripartizione degli oneri finanziari per la retribuzione del segretario, la durata della convenzione, la possibilità di recesso da parte di uno o più comuni ed i reciproci obblighi e garanzie. Copia degli atti relativi è trasmessa alla competente sezione regionale dell’Agenzia.
… omissis
”.
3.4. Alla luce del quadro normativo così delineato emerge che:
- non è configurabile, in capo agli Enti che decidano di stipulare una convenzione per l’esercizio associato delle funzioni di segreteria, alcun obbligo di individuare, accanto al Segretario, anche la figura del vicesegretario;
- la scelta se prevedere o meno un vicesegretario per coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di vacanza, assenza o impedimento, è rimessa all’autonomia regolamentare del singolo Ente, ai sensi dell’art. 97, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000.
3.5. Orbene, ritiene il Collegio che in virtù di tale autonomia, e in assenza di previsioni normative espresse di segno contrario (tale non potendo considerarsi la deliberazione del Consiglio nazionale di amministrazione dell’ex Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei segretari comunali e provinciali, richiamata dall’Amministrazione resistente), i Comuni che addivengano, come nel caso di specie, alla stipula di una convenzione per l’esercizio delle funzioni di segreteria, restino liberi di decidere non solo se individuare o meno la figura del vicesegretario, ma anche, in caso affermativo, se attribuirne le funzioni ad un unico soggetto per entrambi, oppure a soggetti diversi, in possesso dei necessari requisiti.
In quest’ottica, risulta valida e pienamente efficace la disposizione di cui all’art. 18 del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune di Carugate, secondo la quale “il Sindaco ha la facoltà di attribuire, con apposito decreto, le funzioni di Vice Segretario Comunale Generale, sentito il Segretario, ad uno dei Responsabili di settore in possesso dei titoli per l’accesso alla carriera dei Segretari Comunali e Provinciali, nonché dell’esperienza decennale maturata alle dipendenze di un Ente Locale”.
In ragione delle suesposte considerazioni, le note prefettizie impugnate sono illegittime e vanno pertanto annullate (TAR Lombardia-MIlano, Sez. I, sentenza 10.11.2014 n. 2700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIONulla la servitù di parcheggio. La possibilità di sosta dei veicoli crea un vantaggio personale ma non ha utilità fondiaria.
Cassazione. Invalidato il contratto di compravendita che costituisce o riconosce una situazione di beneficio a favore di un terzo
Un contratto che intenda riconoscere come già esistente, oppure costituire ex novo, una servitù di parcheggio di autovetture, è nullo per impossibilità dell'oggetto: il caso esaminato dalla Cassazione è di grande rilevanza perché le situazioni del genere, nei condomìni e non solo, sono molte.
Così la suprema Corte, II Sez. civile (Presidente ed estensore Triola), con sentenza 06.11.2014 n. 23708, ha concluso dopo aver esaminato un atto di vendita che conteneva una clausola in cui i contraenti affermavano che il terreno compravenduto era «gravato da servitù di parcheggio limitatamente a due auto» in favore della proprietà di un terzo.
Nel negare la validità di questa scrittura, la Cassazione chiarisce che il parcheggio di autovetture non può mai essere posto a contenuto di un diritto di servitù, in quanto fa ad esso difetto la "realità", cioè la riferibilità dell'utilità al fondo dominante, come anche la riferibilità del corrispondente peso al fondo servente (si vedano anche le sentenze della Cassazione del 28.04.2004, n. 8137; del 21.01.2009, la quale negava l'azione di spoglio del possesso di servitù, proposta dai condomini di un fabbricato nei confronti di un soggetto che aveva recintato un'area condominiale da quelli utilizzata a fini di parcheggio; e del 07.03.2013, n. 5769).
La semplice comodità di parcheggiare l'auto per specifiche persone (anche numericamente limitate) equivale insomma, per la Corte, all'attribuzione di un vantaggio personale per costoro, vantaggio che è però estraneo alla funzione di utilità fondiaria essenziale per la configurabilità di una servitù prediale. Diverso discorso sarebbe ipotizzare, in base al principio dell'autonomia contrattuale di cui all'articolo 1322 Codice civile, che le parti, semmai in quanto proprietarie di fondi confinanti, diano luogo ad un rapporto di natura meramente personale, che non consista, perciò, nell'imposizione di un peso su un fondo (servente) per l'utilità di un altro (dominante), ovvero in una relazione di asservimento del primo al secondo, quanto nella pattuizione di un obbligo e di un corrispettivo diritto di parcheggio, previsto per il vantaggio della persona o delle persone indicate nel relativo atto costitutivo.
---------------
Il vantaggio per un terreno «passa» sempre al proprietario.
Il quadro interpretativo. La pronuncia solleva più di una perplessità.

Con una motivazione di appena una decina di righe la Cassazione liquida come "nullo" a causa di «impossibilità dell'oggetto» il negozio con il quale venga costituita una servitù di parcheggio; e giunge a questa conclusione affermando che non si può parlare in tal caso di servitù in quanto «difetta la realitas, intesa come inerenza al fondo dominante dell'utilità, così come al fondo servente del peso», trattandosi invero di una situazione di «mera commoditas di parcheggiare l'auto per specifiche persone» e cioè di un «vantaggio affatto personale dei proprietari».
La sentenza è sorprendente non solo al cospetto delle decine di migliaia di casi di servitù di parcheggio esistenti in ogni parte del territorio nazionale ma anche perché appare assai stridente il ragionamento che la Suprema Corte compie in punto di puro diritto. Infatti, la servitù è il «peso imposto sopra un fondo per l'utilità di un altro fondo» appartenente a diverso proprietario (articolo 1027 del Codice civile).
Per esempio: la servitù di attingimento di acqua potabile consiste nel prelevare l'acqua dal fondo servente affinché la si possa bere nel fondo dominante (e la beve il proprietario del fondo dominante e chiunque vi si trovi); la servitù di passaggio consiste nel poter transitare sul fondo servente per uscire dal fondo dominante (chi transita è il proprietario del fondo dominante e chiunque altro vi si trovasse); e così via.
L'utilità cui la legge fa riferimento, è bensì del fondo dominante ma, evidentemente, è una utilità a vantaggio del proprietario del fondo dominante. È sempre un soggetto, insomma, che se ne avvantaggia: un soggetto non in quanto tale, ma in quanto titolare di un fondo. È proprio questa la differenza tra una servitù di passaggio e un diritto di passaggio privo delle caratteristiche della servitù: in tanto si può esercitare un diritto di servitù in quanto si abbia la titolarità del fondo dominante; mentre, il diritto di passaggio senza caratteristiche di realità (e che quindi non integra una servitù) prescinde dalla titolarità del fondo dominante e quindi, non inerisce a un fondo, ma alla persona del titolare del diritto di transitare.
Non appare dubbio che un identico ragionamento sia ripetibile, pari pari, con il diritto di parcheggio. Se Tizio è proprietario di un' area e concede a Caio di parcheggiarvi, quello è senz'altro un diritto di credito. Ma se il diritto di parcheggio è concesso a chiunque sia proprietario del fondo dominante (oppure a Caio in quanto titolare del fondo dominante), questo è un lampante esempio di servitù: con la conseguenza della necessità dell'atto scritto per costituirla, della sua trascrivibilità, della sua conseguente opponibilità ai terzi per il fatto che la servitù si imprime sui beni cui inerisce e li "segue" qualunque sorte giuridica essi abbiano a titolo derivativo (tutte caratteristiche che non sono invece ripetibili per il diritto "personale" di parcheggio).
E anche il ragionamento secondo cui la servitù di parcheggio non sarebbe tale perché conferirebbe solo una commoditas al titolare del diritto lascia il tempo che trova: non solo perché la lettera del Codice civile è esplicita nel senso che "l'utilità" della servitù «può consistere anche nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante» (articolo 1028) ma anche perché altrettanta commoditas allora potrebbe esserci nell'attingere acqua dal fondo dominante o nel potervene scaricare, nel potervi transitare, nel potervi prelevare cubatura, nel poterne pretendere la non edificazione, nel potervi far passare cavi e tubazioni, eccetera: tutti i casi in cui non è invero contestabile che si tratti di servitù se tali "pretese" siano non connesse alla proprietà di un fondo.
La sentenza lascia perplessi, infine, perché, se le caratteristiche di realità non fossero state ravvisabili nella fattispecie esaminata, si sarebbe potuto pianamente concludere per una sua qualificazione in termini di servitù "irregolare" (e cioè di un diritto personale di chi parcheggia) piuttosto che percorrere questa impervia strada della nullità per impossibilità dell'oggetto
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2014).

APPALTIAppalti, esclusione per i «dubbi» penali sul direttore tecnico. Corte Ue. Serve una documentazione completa.
È legittima l'esclusione di un'impresa da una procedura di aggiudicazione di appalto se non è allegata la dichiarazione che il direttore tecnico non è oggetto di procedimenti o condanne penali.
Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell'Unione europea nella sentenza 06.11.2014 causa C-42/13, che fa chiarezza sugli effetti della mancata presentazione di documenti nel settore degli appalti.
È stato il Tribunale amministrativo della Lombardia a rivolgersi alla Corte Ue per alcuni chiarimenti sulla direttiva 2004/18 sul coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (recepita in Italia con Dlgs 163/2006).
Al centro della vicenda la decisione di un'amministrazione aggiudicatrice di escludere un'impresa da un appalto perché non aveva allegato la dichiarazione sull'assenza di procedimenti penali del direttore tecnico. L'azienda esclusa aveva inviato successivamente la dichiarazione e il Tar le aveva dato ragione, mentre il Consiglio di Stato torto. Nel procedimento per ottemperanza, il giudice ha rimesso la questione interpretativa agli eurogiudici.
Prima di tutto, la Corte di giustizia ha precisato che, malgrado si fosse formato il giudicato in base al diritto nazionale, il giudice, anche nel procedimento di ottemperanza, può rivolgersi a Lussemburgo se ritiene che la sentenza «possa essere contraria al diritto dell'Unione». Poi, la Corte è passata a verificare se il diritto dell'Unione consente all'offerente di rimediare a una lacuna nella documentazione. Gli eurogiudici, precisato che l'amministrazione aggiudicatrice deve «osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati», ha concluso che se l'operatore economico non comunica un documento richiesto nell'appalto, deve essere escluso.
È vero -osserva la Corte- che si tratta di un sistema rigoroso, ma esso è funzionale ad assicurare il principio della parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza alla base della direttiva Ue, che impone di formulare le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione «in maniera chiara, precisa e univoca», per consentire agli offerenti di comprenderne la portata e all'amministrazione aggiudicatrice di verificare con obiettività la rispondenza ai criteri individuati.
Questo porta la Corte a concludere che, se non è allegata la dichiarazione sui procedimenti penali richiesta dal Dlgs 163/2006, l'amministrazione aggiudicatrice può escludere l'impresa offerente.
Una conclusione che non è intaccata dall'art. 51 della direttiva che consente all'amministrazione di invitare gli operatori all'integrazione di documenti, perché questa norma non può essere interpretata nel senso di consentire qualsiasi rettifica
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Stretta Ue su requisiti d'appalto.
Obbligatorio escludere da un appalto pubblico l'impresa che non ha prodotto la dichiarazione attestante il possesso dei requisiti di partecipazione alla gara.

Lo afferma la
sentenza 06.11.2014 causa C-42/13 della Corte di giustizia con un dispositivo che sembra andare in senso diametralmente opposto a quanto previsto di recente dal legislatore italiano con il decreto 90/2014, che consente previo pagamento di una sanzione di sanare entro dieci giorni l'irregolarità producendo il documento mancante (vedi Italia Oggi del 06.11.2014 sul vademecum Anac).
A questo punto si porrebbe quindi anche una questione di compatibilità comunitaria della novella apportata dall'articolo 39 del decreto 90/2014, che potrebbe essere ritenuta non in linea con le norme europee. La sentenza europea risolve una questione pregiudiziale posta dal Tar Lombardia rispetto alla conformità alla direttiva appalti 2004/18 dell'esclusione di un concorrente per omessa produzione dell' autodichiarazione sull'assenza di condanne definitive, senza possibilità di rettifica dell'omissione. La Corte ricorda che la stazione appaltante è tenuta ad escludere dall'appalto un operatore che non abbia comunicato un documento o un'informazione la cui produzione era prevista a pena di esclusione.
Tale obbligo rientra nel principio di parità di trattamento e nell'obbligo di trasparenza che ne deriva. Il principio di parità di trattamento impone infatti che tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione dei termini delle loro offerte e implica quindi che queste siano soggette alle medesime condizioni per eliminare i rischi di favoritismo e di arbitrarietà da parte della stazione appaltante.
L'esclusione del concorrente che non aveva prodotto una dichiarazione sull'assenza di sentenze passate in giudicato è quindi conforme alla direttiva che ammette tale esclusione «anche qualora, a una data successiva alla scadenza del termine stabilito per il deposito delle offerte, una siffatta dichiarazione sia stata comunicata all'amministrazione» (articolo ItaliaOggi del 07.11.2014).

INCARICHI PROFESSIONALIIl ricorso non decorre dalla sentenza via Pec. La decorrenza dipende dall'atto di impulso di controparte. Cassazione. Anche l'invio «integrale» non ha effetti sui termini brevi di impugnazione.
Processo telematico sì, ma senza esagerare. La comunicazione digitale della sentenza, anche del testo integrale e non solo del suo dispositivo sulla base della norma in vigore da quest'estate, non ha effetti sui termini di impugnazione.
Lo ricorda, ed è la prima pronuncia in merito, l'ordinanza 05.11.2014 n. 23526 della VI Sez. civile della Corte di Cassazione.
La Corte si è trovata a fare i conti con la nuova versione dell'articolo 133 del Codice di procedura civile, modificato quest'estate dal decreto legge n. 90. La norma prevede la possibilità per la cancelleria di comunicare via Pec all'avvocato l'integralità della sentenza. Si tratta, ricorda la Cassazione, dell'utilizzo in via ordinaria da parte della cancelleria del canale digitale, attraverso posta elettronica certificata, come modalità generalizzata di messa a conoscenza delle parti.
Si è però posto il problema se le nuove materiali modalità di trasferimento della sentenza tutta e non più del solo dispositivo siano anche idonee a considerare l'interessato pienamente informato della totalità dell'atto e a fare decorrere i termini brevi di impugnazione. Una questione sulla quale si è interrogato in realtà anche il legislatore in sede di conversione del decreto su sollecitazione allarmata degli addetti ai lavori. E che è stata risolta chiarendo che la sostituzione della comunicazione per estratto o del solo dispositivo, con quella, anche integrale, del documento via Pec non ha effetto sui termini di impugnazione, In questo modo ricorda la Cassazione, si sono volute sterilizzare le conseguenze della piena conoscenza della sentenza, derivanti dalla nuova modalità digitale di comunicazione. In questo senso, la decorrenza del termine breve per impugnare il giudizio continua a decorrere dall'atto di impulso della controparte.
L'ordinanza però fa un passo ulteriore sul punto e chiarisce anche che la nuova versione dell'articolo 133 del Codice non ha però abrogato quelle numerose norme speciali di deroga al regime ordinario che ancorano, per ragioni di velocità del processo, la decorrenza del termine breve non all'iniziativa della controparte, ma comunque alla comunicazione proprio della cancelleria del provvedimento da impugnare. E l'ordinanza li elenca tutti, dalle impugnazioni del pubblico ministero al reclamo contro le ordinanze di estinzione dei processi di cognizione e di esecuzione.
Altro profilo rilevante dell'ordinanza depositata ieri è quello conclusivo, dove da una parte si ammette la compensazione delle spese di giudizio vista la novità delle questioni trattate, ma poi, data l'inammissibilità del ricorso, si condanna nello stesso tempo la parte che aveva impugnato a una sanzione pari al contributo unificato come impone la norma del 2012
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2014).

APPALTINelle procedure di appalti pubblici non vi è una incompatibilità assoluta e insuperabile tra le funzioni di responsabile del procedimento e quelle di componente di commissione di gara, poiché le prime non attengono a compiti di controllo, ma soltanto a verifica interna della correttezza del procedimento, di guisa che non vi è sovrapposizione né identità tra controllato e controllante e le due funzioni restano compatibili tra loro.
È stato infatti ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza di questo Consiglio che nell’ambito degli enti locali non sussiste un rigido divieto di partecipazione dei dirigenti alle commissioni di gara.
Il rafforzamento del modello della responsabilità dirigenziale innescato dal processo di privatizzazione del pubblico impiego, infatti, valorizza l’opposta esigenza che il dirigente segua direttamente le procedure del cui risultato è tenuto a rispondere.
In questa logica va annoverato il disposto dell’art. 107 del T.U.E.L., che prevede tra le attribuzioni di competenza dirigenziale il potere di presiedere le commissioni di gara e di stipulare i contratti in correlazione con la responsabilità per l’esito delle gare medesime.
Così come non vi è incompatibilità tra le funzioni di presidente della commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, quindi, “analogamente deve ritenersi nel caso in cui al dirigente di un ente locale che ha svolto di responsabile del procedimento sia stato anche attribuito il compito di approvare gli atti della commissione di gara, atteso che detta approvazione non può essere ricompresa nella nozione di controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione interna della correttezza del procedimento connessa alla responsabilità unitaria del procedimento spettante alla figura dirigenziale”.
Tale principio vale a fortiori nel caso di specie ove, come si è accennato, alla dott.ssa R., quale responsabile unico del procedimento, non spetta alcuna funzione amministrativa connessa all’esecuzione del contratto, attribuita, invece, al dott. D.S..

25. Non merita altresì condivisione il secondo motivo di appello, con il quale la Cooperativa ha lamentato, in primo grado, e ribadisce, in questa sede, che la dott.ssa Ricco, già responsabile del procedimento, era stata inserita tra i membri della commissione giudicatrice in violazione dell’art. 84, comma 4, del d.lgs. 163/2006 e del principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost..
26. Sarebbe evidentemente illegittima, ad avviso dell’appellante, la situazione di incompatibilità della dott.ssa Ricco, svolgente la funzione di responsabile unico del procedimento e di membro della commissione.
27. Il TAR ha disatteso tale censura con il rilievo che la dott.ssa Ricco, già responsabile del procedimento, era stata sostituita dal precedente Dirigente nella sua funzione di responsabile, ma l’appellante deduce l’erroneità di tale rilievo, poiché assume che, dalla semplice lettura della documentazione e delle difese del Comune, la Dirigente Di Palma, contestando la nomina del nuovo responsabile De Sario, ribadiva che la dott.ssa Ricco era l’unica responsabile del procedimento.
28. Anche tale censura, tuttavia, è destituita di fondamento, pur con le precisazioni che seguiranno, atteso che, pur volendo prescindere dal rilievo, evidenziato a p. 9 della memoria depositata dal Comune nel giudizio di primo grado, che il responsabile del procedimento, dott.ssa Anna Ricco, non si occupa delle questioni inerenti all’esecuzione del contratto, di competenza del dott. Carmine De Sario che, invece, era stato impropriamente indicato quale componente della commissione approvata con determina n. 454 del 19.03.2012, appare dirimente, sul piano giuridico, la considerazione che nelle procedure di appalti pubblici non vi è una incompatibilità assoluta e insuperabile tra le funzioni di responsabile del procedimento e quelle di componente di commissione di gara, poiché le prime non attengono a compiti di controllo, ma soltanto a verifica interna della correttezza del procedimento, di guisa che non vi è sovrapposizione né identità tra controllato e controllante e le due funzioni restano compatibili tra loro (Cons. St., sez. V, 23.10.2012, n. 5408).
29. È stato infatti ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza di questo Consiglio che nell’ambito degli enti locali non sussiste un rigido divieto di partecipazione dei dirigenti alle commissioni di gara.
30. Il rafforzamento del modello della responsabilità dirigenziale innescato dal processo di privatizzazione del pubblico impiego, infatti, valorizza l’opposta esigenza che il dirigente segua direttamente le procedure del cui risultato è tenuto a rispondere.
31. In questa logica va annoverato il disposto dell’art. 107 del T.U.E.L., che prevede tra le attribuzioni di competenza dirigenziale il potere di presiedere le commissioni di gara e di stipulare i contratti in correlazione con la responsabilità per l’esito delle gare medesime.
32. Così come non vi è incompatibilità tra le funzioni di presidente della commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, quindi, “analogamente deve ritenersi nel caso in cui al dirigente di un ente locale che ha svolto di responsabile del procedimento sia stato anche attribuito il compito di approvare gli atti della commissione di gara, atteso che detta approvazione non può essere ricompresa nella nozione di controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione interna della correttezza del procedimento connessa alla responsabilità unitaria del procedimento spettante alla figura dirigenziale” (v., sul punto, Cons. St., sez. V, 22.06.2010, n. 3890).
33. Tale principio vale a fortiori nel caso di specie ove, come si è accennato, alla dott.ssa Ricco, quale responsabile unico del procedimento, non spetta alcuna funzione amministrativa connessa all’esecuzione del contratto, attribuita, invece, al dott. De Sario.
34. Ne segue che il secondo motivo di appello, seppure con le esposte integrazioni motivazionali e alla luce dell’orientamento giurisprudenziale seguito da questo Consiglio con particolare riferimento alle figure dirigenziali negli enti locali, deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.11.2014 n. 5456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella nozione di nuova costruzione di cui all’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150 rientrano non solo l’edificazione di un manufatto su un’area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, come nel caso di specie, anche in ragione dell’entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendono l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.
La disposizione contenuta nel predetto art. 41-sexies “…opera come norma di relazione nei rapporti privatistici e come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la p.a., non potendo quest’ultima autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di dette aree, giacché l’osservanza della norma costituisce condizione di legittimità della concessione edilizia, e spettando esclusivamente alla stessa p.a. l’accertamento della conformità degli spazi alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della idoneità a parcheggio delle aree, con la conseguenza che il trasferimento del vincolo di destinazione su aree diverse da quelle originarie può avvenire soltanto mediante il rilascio di una concessione in variante”, chiarendosi anche che, mentre gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 costituiscono aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione d standard, quelli di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni e come tali escluse (ex art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968, n. 1444) dal computo del calcolo della misura degli standards.

Del resto, diversamente da quanto dedotto dall’appellante, nella nozione di nuova costruzione di cui all’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, rientrano non solo l’edificazione di un manufatto su un’area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, come nel caso di specie, anche in ragione dell’entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendono l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (Cass. civ., sez. II, 03.03.2008, n. 5741; così anche Cons. St., sez. VI, 12.04.2013, n. 1995).
E’ stato anche precisato che la disposizione contenuta nel predetto art. 41-sexies “…opera come norma di relazione nei rapporti privatistici e come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la p.a., non potendo quest’ultima autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di dette aree, giacché l’osservanza della norma costituisce condizione di legittimità della concessione edilizia, e spettando esclusivamente alla stessa p.a. l’accertamento della conformità degli spazi alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della idoneità a parcheggio delle aree, con la conseguenza che il trasferimento del vincolo di destinazione su aree diverse da quelle originarie può avvenire soltanto mediante il rilascio di una concessione in variante” (Cass. civ., sez. II, 13.01.2010, n. 378), chiarendosi anche che, mentre gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 costituiscono aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione d standard, quelli di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni e come tali escluse (ex art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968, n. 1444) dal computo del calcolo della misura degli standards (Cons. St., sez. IV, 08.01.2013, n. 32) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.11.2014 n. 5444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISi deve osservare che l'art. 84 del D.Lgs. n. 163/2006, relativo alla composizione della commissione giudicatrice, pel caso di aggiudicazione di un appalto con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, al comma 4 prevede che i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcuna altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta.
Come evidenziato da ricorrente giurisprudenza, l'incompatibilità mira a garantire l'imparzialità dei commissari di gara che abbiano svolto incarichi relativi al medesimo appalto, quali compiti di progettazione, di verifica della progettazione, di predisposizione della legge di gara e simili e non incarichi amministrativi o tecnici genericamente riferiti ad altri appalti.
L'ottavo comma dell'art. 84 citato, prevede che i commissari diversi dal presidente siano selezionati fra i funzionari della stazione appaltante e che, in caso di accertata assenza nell'organico di adeguata professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, siano scelti tra i funzionari di amministrazioni aggiudicatrici a termini dell'art. 3, comma venticinquesimo, ovvero con criterio di rotazione tra gli appartenenti alle categorie dei professionisti, con almeno 10 anni di iscrizione nei rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali e dei professori universitari di ruolo.
E' evidente, quindi, che l'incompatibilità riguarda i componenti dipendenti dalla stazione appaltante e non gli esterni, fermo restando che anche per questi ultimi, quando occorra fare ricorso ad essi, la norma mira a disciplinarne la nomina secondo un criterio di imparzialità, quale predicato all'articolo 97 della Costituzione, obiettivizzando, per quanto possibile, la scelta dei componenti delle commissioni,per sottrarla a possibili elementi di eccessiva discrezionalità o di arbitrio dell'amministrazione aggiudicatrice che possano pregiudicarne proprio la trasparenza e l'imparzialità.
---------------
Questo Consiglio di Stato, con sentenza dell'adunanza plenaria n. 13 del 07.05.2014, ha evidenziato che la previsione di legge di cui al comma 4, come il precedente storico contenuto nell'art. 21, comma 5, della legge n. 109 del 1994, è evidentemente destinata a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti disfunzionali derivanti dalla partecipazione alle commissione giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale.
E dalla suddetta sentenza si ricava che l'interesse pubblico rilevante nella problematica de qua è, non tanto e non solo quello della imparzialità cui è in ogni caso esso è riconducibile (anche se la deroga per il presidente ne costituisce evidente attenuazione), ma anche la volontà di assicurare che la valutazione sia il più possibile "oggettiva" e cioè non "influenzata" dalle scelte che l’hanno preceduta, se non per ciò che è stato dedotto formalmente negli atti di gara.
Nella sentenza, l'Adunanza Plenaria evidenzia, poi, che "è naturale che, secondo i principi generali, la caducazione della nomina, ove si accerti, come nella specie, essere stata effettuata in violazione delle regole di cui all'art. 84, commi 4 e 10, comporterà in modo caducante il travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti successivi della procedura di gara fino all'affidamento del servizio ed impone quindi la rinnovazione dell'intero procedimento".
1. Con determinazione n. 66 del 29.03.2013 il Comune di Anzano di Puglia bandiva una gara per l'aggiudicazione, secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, dei "lavori di realizzazione dell'intervento di efficientamento energetico e miglioramento della sostenibilità ambientale della palestra della scuola secondaria di 1° grado".
La commissione giudicatrice, composta dal presidente ing. Domenico Ianniciello, responsabile del settore tecnico del Comune di Anzano di Puglia, dall’arch. Luigi Troso, responsabile del IV settore del Comune di Accadia, componente, e dal geom. Giuseppe Di Paola, dipendente del settore tecnico del Comune di Anzano di Puglia, componente e segretario verbalizzante, redigeva la graduatoria finale, nella quale l’impresa individuale del sig. Pietro Antonio Capuano risultava al primo posto, con punti 81,20 su 100 e un ribasso del 5,48% sul prezzo a base d’asta, con conseguente aggiudicazione definitiva dei lavori in suo favore.
1a. Con nota del luglio 2013, il Comune comunicava al sig. Capuano l’avvio del procedimento di annullamento in autotutela della gara per asserita violazione dell’art. 84, comma 4, D.Lgs. 163/2006, avendo il geom. Di Paola svolto le funzioni di R.U.P. (responsabile unico del procedimento) e di componente della commissione giudicatrice e, dopo avere esaminato le osservazioni presentate dall’impresa ricorrente, con provvedimento n. 146 del 31.07.2013 venivano annullati gli atti della procedura.
2. Avverso la comunicazione di avvio del procedimento, il successivo provvedimento comunale n. 146/2013, a firma del responsabile del settore tecnico del Comune di Anzano di Puglia di annullamento in autotutela della procedura di gara e di tutti gli atti connessi, presupposti e consequenziali, il sig. Pietro Antonio Capuano ricorreva al TAR per la Puglia chiedendone l'annullamento.
Il sig. Capuano eccepiva, anche, l'illegittimità costituzionale dell’art. 84, comma 4, D.Lgs. 163/2006 per contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost.. e, in via subordinata rispetto alle domande principali, la condanna al risarcimento del danno ingiusto cagionato dalla condotta del Comune.
3. Il TAR per la Puglia con sentenza n. 388 del 30.01.2014, depositata il 27.03.2014, ha respinto il ricorso.
4. Avverso la sentenza il sig. Pietro Antonio Capuano, quale titolare della omonima ditta individuale, ha proposto appello, avanzando quattro motivi di censura sostanzialmente ripetitivi di quelli già esaminati dal TAR.
Il Comune di Anzano di Puglia si è costituito in giudizio ed ha chiesto il rigetto dell'appello.
Con il primo motivo l'appellante censura la sentenza lamentando la violazione dell’art. 84, comma 4, del D.lgs. n. 163/2006, avendo il Tribunale ritenuto che i dipendenti comunali che hanno diretto o collaborato all'istruttoria del procedimento siano incompatibili con le funzioni di componenti della commissione di gara per l'aggiudicazione del relativo appalto.
Sul punto l'impresa sostiene che la richiamata norma non riguarderebbe i componenti dipendenti della stazione appaltante, ma solo i componenti esterni.
Con il secondo motivo di censura l'appellante sostiene che la sentenza impugnata non avrebbe rilevato il difetto di motivazione da cui sarebbe affetto il provvedimento di auto annullamento del Comune, perché la motivazione addotta, di annullare la gara "in maniera da non esporre la procedura a contenziosi il cui esito … sarebbe pressoché scontato", non sarebbe sufficiente, mancando l'indicazione di un "interesse specifico, diverso da tale esigenza …".
L'appellante lamenta, altresì, violazione del principio di leale collaborazione, non avendo l’amministrazione preso in esame le osservazioni formulate a seguito della comunicazione di avvio del procedimento di annullamento in autotutela.
Con il terzo motivo di censura l'appellante lamenta eccesso di potere per sviamento, avendo il Comune intrapreso il procedimento in autotutela solo su segnalazione di una delle imprese partecipanti.
Con il quarto motivo di censura l'appellante lamenta eccesso di potere per sviamento, violazione dell’art. 78 D.Lgs. 267/2000, violazione dell’obbligo di imparzialità e terzietà, essendo stato il provvedimento di annullamento emesso dal presidente della commissione che, quale dirigente del Comune, ha anche nominato la commissione stessa e diretto i lavori. L'appellante lamenta, inoltre, che il TAR avrebbe disatteso la domanda subordinata di annullamento non dell'intera procedura, ma solo degli atti successivi alla nomina della commissione, con sostituzione del componente in condizione di incompatibilità.
L'appellante, infine, chiede la riforma della sentenza impugnata, quanto alla reiezione della domanda risarcitoria da lui avanzata in via subordinata e ripropone la eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 84, comma 4, D.Lgs. 163/2006 per presunto contrasto con gli artt. 3 e 97 Costituzione.
...
6. Orbene, diversamente da quanto ritenuto dall'appellante, si deve osservare che l'art. 84 del D.Lgs. n. 163/2006, relativo alla composizione della commissione giudicatrice, pel caso di aggiudicazione di un appalto con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, al comma 4 prevede che i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcuna altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta.
Come evidenziato da ricorrente giurisprudenza, l'incompatibilità mira a garantire l'imparzialità dei commissari di gara che abbiano svolto incarichi relativi al medesimo appalto, quali compiti di progettazione, di verifica della progettazione, di predisposizione della legge di gara e simili e non incarichi amministrativi o tecnici genericamente riferiti ad altri appalti (Consiglio di Stato, sez. VI, 29.12.2010, n. 9577; sez. V, 22.06.2012, n. 3682).
L'ottavo comma dell'art. 84 citato, prevede che i commissari diversi dal presidente siano selezionati fra i funzionari della stazione appaltante e che, in caso di accertata assenza nell'organico di adeguata professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, siano scelti tra i funzionari di amministrazioni aggiudicatrici a termini dell'art. 3, comma venticinquesimo, ovvero con criterio di rotazione tra gli appartenenti alle categorie dei professionisti, con almeno 10 anni di iscrizione nei rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali e dei professori universitari di ruolo.
E' evidente, quindi, che l'incompatibilità riguarda i componenti dipendenti dalla stazione appaltante e non gli esterni, fermo restando che anche per questi ultimi, quando occorra fare ricorso ad essi, la norma mira a disciplinarne la nomina secondo un criterio di imparzialità, quale predicato all'articolo 97 della Costituzione, obiettivizzando, per quanto possibile, la scelta dei componenti delle commissioni,per sottrarla a possibili elementi di eccessiva discrezionalità o di arbitrio dell'amministrazione aggiudicatrice che possano pregiudicarne proprio la trasparenza e l'imparzialità (Consiglio Stato, sez. V, 25.07.2011, n. 4450).
Come evidenziato dal TAR nella sentenza appellata, il geom. Di Paola ha pacificamente svolto il ruolo di responsabile unico del procedimento, proprio con riferimento alla procedura di gara in cui è stato nominato come componente della commissione giudicatrice, in difformità dalla norma, che ammette il cumulo delle responsabilità della gara di appalto solo con riferimento alla "presidenza" della commissione in capo ai "dirigenti" degli enti locali.
Il Comune ha, quindi, correttamente tenuto conto della norma ed a essa si è attenuto nell'adottare il provvedimento di autotutela.
6b. Diversamente da quanto ritenuto dall'appellante, il legislatore, con le disposizioni in questione, ha inteso evitare che nella commissione fosse presente il R.U.P., che nella fase propedeutica alla gara è stato il primo partecipe delle opere da eseguire.
Non può quindi sostenersi che il provvedimento in autotutela del Comune pecchi di motivazione, trovando fondamento nell'esigenza di non adottare provvedimenti illegittimi, con danno materiale e di tempo per l'ente, ma anche per gli stessi concorrenti.
A nulla rileva che l'amministrazione si sia determinata anche in relazione ad una segnalazione di un’ impresa partecipante alla gara, stante la necessità, comunque, che il provvedimento fosse adottato.
6c. Parimenti inconferente è la ritenuta disparità di trattamento che l'art. 78 del D.lgs. n. 267/2000 determinerebbe, tra la posizione del componente semplice della commissione e il presidente, dirigente del Comune, perché l'art. 84 del codice dei contratti esclude qualsiasi incompatibilità per tale figura nell'ambito della burocrazia, mentre l'art. 78 evocato riguarda solo ipotesi d’incompatibilità degli amministratori degli enti locali.
6d. Correttamente, ancora, il provvedimento di auto annullamento è stato adottato dal dirigente dell'area tecnica, essendo egli competente al riguardo alla luce della distinzione dei poteri e attribuzioni tra amministratori elettivi, cui sono riservati compiti di indirizzo e funzionari cui competono, come nel caso di specie, compiti di gestione e di amministrazione attiva.
La legge di riferimento all'art. 107 ribadisce, del resto, il principio della distinzione tra funzione politica e funzione amministrativa, già previsto dall'art. 97 della Costituzione e affermato dalla legge n. 142/1990.
L'appellante insiste, infine, in via subordinata, nella richiesta di annullamento parziale degli atti di gara, sostenendo che "la sentenza appellata … oblitera la ben più pregnante motivazione contenuta nella decisione dell'Adunanza Plenaria n. 30/2012 che ha fatto giustizia di una concezione formalistica del principio di segretezza; per non dire che la soluzione avallata dalla sentenza appellata conduce allo stesso risultato perché i concorrenti alla nuova gara non faranno altro che calibrare la propria offerta su quella che era risultata vincitrice dell'aggiudicazione annullata".
8. Anche tale tesi non può essere condivisa.
8a. Questo Consiglio di Stato, con sentenza dell'adunanza plenaria n. 13 del 07.05.2014, ha evidenziato che la previsione di legge di cui al comma 4, come il precedente storico contenuto nell'art. 21, comma 5, della legge n. 109 del 1994, è evidentemente destinata a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti disfunzionali derivanti dalla partecipazione alle commissione giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale.
E dalla suddetta sentenza si ricava che l'interesse pubblico rilevante nella problematica de qua è, non tanto e non solo quello della imparzialità cui è in ogni caso esso è riconducibile (anche se la deroga per il presidente ne costituisce evidente attenuazione), ma anche la volontà di assicurare che la valutazione sia il più possibile "oggettiva" e cioè non "influenzata" dalle scelte che l’hanno preceduta, se non per ciò che è stato dedotto formalmente negli atti di gara.
Nella sentenza, l'Adunanza Plenaria evidenzia, poi, che "è naturale che, secondo i principi generali, la caducazione della nomina, ove si accerti, come nella specie, essere stata effettuata in violazione delle regole di cui all'art. 84, commi 4 e 10, comporterà in modo caducante il travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti successivi della procedura di gara fino all'affidamento del servizio ed impone quindi la rinnovazione dell'intero procedimento".
Da ciò la doverosità, per il Comune, di agire tempestivamente in tali termini, in via di autotutela, per evitare che la prosecuzione della procedura di gara comportasse ben più gravi conseguenze e, sotto questo profilo, nessun comportamento colposo può essere addebitato al Comune di Anzano di Puglia.
8b. Sul piano della legittimità costituzionale dell'art. 84, comma 4, del D.lgs. n. 163/2006, nessun fraintendimento è, infine, ascrivibile al TAR, atteso che il Tribunale, quanto all'eventuale contrasto della norma con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, ha evidenziato "che la medesima questione è stata già esaminata e respinta dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 401/2007, e si palesa, pertanto, inammissibile" (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.11.2014 n. 5441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' affidata alla Soprintendenza una compiuta valutazione di legittimità, anche sotto il profilo del ponderato bilanciamento degli interessi tutelati, quale espressione di un potere non di mero controllo formale, ma di vera e propria attiva cogestione del vincolo, funzionale all’“estrema difesa” dello stesso, con conseguente riferibilità dell’eventuale annullamento dell’autorizzazione paesaggistica a qualsiasi vizio di legittimità, ivi compreso l’eccesso di potere in ogni figura sintomatica (sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta).
Quanto al merito del giudizio, deve essere sottolineato –sulla base di ampia e consolidata giurisprudenza– come sia affidata alla Soprintendenza una compiuta valutazione di legittimità, anche sotto il profilo del ponderato bilanciamento degli interessi tutelati, quale espressione di un potere non di mero controllo formale, ma di vera e propria attiva cogestione del vincolo, funzionale all’“estrema difesa” dello stesso (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437), con conseguente riferibilità dell’eventuale annullamento dell’autorizzazione paesaggistica a qualsiasi vizio di legittimità, ivi compreso l’eccesso di potere in ogni figura sintomatica (sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta: cfr. in tal senso Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, nonché, fra le tante, Cons. Stato, VI, 25.03.2009, n. 1786 e 3557, 11.06.2012, n. 3401, 23.02.2010, n. 1070, 21.09.2011, n. 5292; Cons. Stato, V, 03.12.2010, n. 8411) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.11.2014 n. 5430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita, può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.
Si tratta, in particolare, di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione, che non possono essere ubicati all'interno di essa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica.
-----------------
Nel caso in esame, si è accertato che l’ordine di demolizione riguarda un fabbricato, già sul piano dimensionale (6,30 mt X 5,40 mt e di altezza pari a mt 2,90), ex se di consistente impatto e nient’affatto accessorio o servente rispetto all’abitazione principale.
La stessa destinazione principale a ricovero di biciclette ed altri mezzi, riconosciuta dai proprietari (unitamente alle altre destinazioni proprie dei volumi tecnici), non fa altro che corroborare la correttezza della tesi dell’amministrazione, a ragione condivisa dai giudici di primo grado, secondo cui si tratta in realtà di un manufatto potenzialmente (ma anche in fatto) autonomo rispetto a quello principale, pienamente compatibile, anche in ragione della sua altezza con destinazioni d’uso di differente tipologia e perciò non qualificabile alla stregua di un volume tecnico.
Pertanto, è pacifico che non si tratti di locale tecnico, ma al più di locale di sgombero, potenzialmente destinato ad altra destinazione d’uso.
---------------
In assenza di leggi regionali e di altre disposizioni normative urbanistico-edilizie specificamente applicabili, si deve tenere conto nella materia della circolare del Ministero dei lavori pubblici 31.01.1973, n. 2474, che ha ammesso la possibilità di non computare nella volumetria assentibile i volumi tecnici, soltanto quando si tratti di un manufatto ancora da realizzare e l'amministrazione abbia effettuato ex ante le valutazioni inerenti alle sue esigenze tecnico-funzionali.
Quando, invece, sia stato realizzato abusivamente un nuovo volume, rispetto a quello legittimamente assentito, nessuna disposizione consente di effettuare le medesime valutazioni: il solo fatto che si tratti di un nuovo manufatto abusivo preclude all'amministrazione di considerarlo irrilevante.
Inoltre, nella stessa circolare si legge che, sentito il Consiglio Superiore dei lavori pubblici, si propone la seguente definizione di volume tecnico: "Devono intendersi per volumi tecnici, ai fini della esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, i volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l'accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche. A titolo esemplificativo il Consiglio Superiore fa presente che sono da considerare "volumi tecnici" quelli strettamente necessari a contenere i serbatoi idrici, l'extracorsa degli ascensori, i vasi di espansione dell'impianto di termosifone, le canne fumarie e di ventilazione, il vano scala al di sopra delle linee di gronda. Non sono invece da intendere come volumi tecnici i bucatai, gli stenditoi coperti, i locali di sgombero e simili”.

Osserva, infatti, il Collegio che, in base ad una consolidata giurisprudenza da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi "la nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita, può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa; si tratta, in particolare, di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione, che non possono essere ubicati all'interno di essa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica" (Cons. di Stato, Sez. IV, 04.05.2010, n. 2565).
Nel caso in esame, si è accertato che l’ordine di demolizione riguarda un fabbricato, già sul piano dimensionale (6,30 mt X 5,40 mt e di altezza pari a mt 2,90), ex se di consistente impatto e nient’affatto accessorio o servente rispetto all’abitazione principale. La stessa destinazione principale a ricovero di biciclette ed altri mezzi, riconosciuta dai proprietari (unitamente alle altre destinazioni proprie dei volumi tecnici), non fa altro che corroborare la correttezza della tesi dell’amministrazione, a ragione condivisa dai giudici di primo grado, secondo cui si tratta in realtà di un manufatto potenzialmente (ma anche in fatto) autonomo rispetto a quello principale, pienamente compatibile, anche in ragione della sua altezza con destinazioni d’uso di differente tipologia e perciò non qualificabile alla stregua di un volume tecnico.
In ogni caso, giova qui ricordare che, come statuito da questa sezione nella sentenza 05.08.2013 n. 4086, in assenza di leggi regionali e di altre disposizioni normative urbanistico-edilizie specificamente applicabili, si deve tenere conto nella materia della circolare del Ministero dei lavori pubblici 31.01.1973, n. 2474, che ha ammesso la possibilità di non computare nella volumetria assentibile i volumi tecnici, soltanto quando si tratti di un manufatto ancora da realizzare e l'amministrazione abbia effettuato ex ante le valutazioni inerenti alle sue esigenze tecnico-funzionali. Quando, invece, sia stato realizzato abusivamente un nuovo volume, rispetto a quello legittimamente assentito, nessuna disposizione consente di effettuare le medesime valutazioni: il solo fatto che si tratti di un nuovo manufatto abusivo preclude all'amministrazione di considerarlo irrilevante.
Inoltre, nella stessa circolare si legge che, sentito il Consiglio Superiore dei lavori pubblici, si propone la seguente definizione di volume tecnico: "Devono intendersi per volumi tecnici, ai fini della esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, i volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l'accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
A titolo esemplificativo il Consiglio Superiore fa presente che sono da considerare "volumi tecnici" quelli strettamente necessari a contenere i serbatoi idrici, l'extracorsa degli ascensori, i vasi di espansione dell'impianto di termosifone, le canne fumarie e di ventilazione, il vano scala al di sopra delle linee di gronda. Non sono invece da intendere come volumi tecnici i bucatai, gli stenditoi coperti, i locali di sgombero e simili.

Nel caso di specie è pacifico, alla luce della definizione dianzi esposta, che non si tratti di locale tecnico, ma al più di locale di sgombero, potenzialmente destinato ad altra destinazione d’uso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.11.2014 n. 5428 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: In materia di mobbing.
- per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo.
A tal fine, la condotta di mobbing del datore di lavoro va esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice Amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione;
- non si ravvisano gli estremi del mobbing nell'accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche. In particolare nel lavoro "pubblico", per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a cui sono normalmente diretti;
- la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quante volte la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singolarmente, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
Segue da ciò che, nel verificare l'integrazione del mobbing è necessario, anche in ragione della indeterminatezza normativa della figura, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l'altro, da un lato, l'idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione) e, dall'altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta;
- non si può addebitare un disegno persecutorio qualora non sia possibile desumere elementi di prova dalla illegittimità dei provvedimenti, non essendo stati, tali atti, impugnati, e non siano state provate condotte personali dei superiori del dipendente tali da manifestare il connotato della vessatorietà, delle minacce, della violenza e delle ingiurie.
Di conseguenza, la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo.

Al riguardo, non sussiste presupposto alcuno per discostarsi dalle coordinate giurisprudenziali di questo Consiglio di Stato in materia ed alle quali si rinvia:
- per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo.
A tal fine, la condotta di mobbing del datore di lavoro va esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice Amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (Sez. IV, 06.08.2013, n. 4135; Sez. VI, 12.03.2012, n. 1388);
- non si ravvisano gli estremi del mobbing nell'accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche. In particolare nel lavoro "pubblico", per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a cui sono normalmente diretti (Sez. IV, 19.03.2013, n. 1609; Sez. VI, 15.06.2011, n. 3648);
- la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quante volte la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singolarmente, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
Segue da ciò che, nel verificare l'integrazione del mobbing è necessario, anche in ragione della indeterminatezza normativa della figura, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l'altro, da un lato, l'idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione) e, dall'altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta (Sez. VI, 17.02.2012, n. 856; Sez. IV, 10.01.2012, n. 14);
- non si può addebitare un disegno persecutorio qualora non sia possibile desumere elementi di prova dalla illegittimità dei provvedimenti, non essendo stati, tali atti, impugnati, e non siano state provate condotte personali dei superiori del dipendente tali da manifestare il connotato della vessatorietà, delle minacce, della violenza e delle ingiurie.
Di conseguenza, la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo (Sez. V, 27.05.2008, n. 2515) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.11.2014 n. 5419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare, i «precedenti» nel curriculum. Obbligo di correttezza ampio: gli uffici valuteranno poi caso per caso. Tar Bologna. L'impresa deve indicare errori o inadempimenti anche con Pa diverse da quella appaltante.
Chi partecipa a una gara deve dichiarare lealmente di avere precedenti, eventuali inadempimenti contrattuali, anche se questi errori siano avvenuti in rapporti con amministrazioni diverse da quella che ha bandito la gara di appalto.

Il principio è posto dalla sentenza 31.10.2014 n. 1041 del TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, che impone alle imprese una correttezza di fondo, con l'obbligo di dichiarare comunque l'esistenza di situazioni dubbie. Sarà poi l'amministrazione a dare o meno peso a queste situazioni. Chi concorre a una gara deve infatti dichiarare tutti gli aspetti del proprio curriculum, perché sarà poi l'amministrazione a esprimere un giudizio, ammettendo l'impresa alla gara nel caso in cui valuti veniali o risalenti nel tempo le contestazioni avvenute nel l'esecuzione di altre opere o servizi pubblici.
Il principio interessa sia le imprese, che possono essere indotte a non dichiarare eventuali precedenti errori nel timore di essere escluse, sia le Pa, che hanno l'onere specifico di apprezzare le dichiarazioni delle imprese concorrenti, dando a ogni episodio, seppur remoto, un corretto peso.
Nel caso specifico, si discuteva di una gara per la gestione triennale di una residenza temporanea notturna, cui aveva partecipato un'impresa che aveva in precedenza subito, da altro Comune, una risoluzione contrattuale per gravi inadempienze. Nel partecipare, l'impresa aveva omesso qualsiasi accenno all'episodio, risultando poi aggiudicataria. Su ricorso di altro concorrente, il Tar ha espresso un parere diverso dall'amministrazione, annullando l'esito della gara e disponendo la modifica della graduatoria. Il principio applicato obbliga quindi ogni partecipante a una pubblica gara a dichiarare le eventuali pregresse risoluzioni contrattuali, senza possibilità che il concorrente depuri in modo autonomo il proprio curriculum.
La norma che obbliga a una dichiarazione completa è l'articolo 38, comma 1, lettera f), Dlgs 163/2006, che esclude da gare le imprese (e professionisti) che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nel l'esecuzione delle prestazioni affidate o che hanno commesso un errore grave nel l'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante. La nozione di errore grave si legge in una determina (n. 1 del 2010) dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici (oggi, Anticorruzione): l'errore grave attiene indistintamente a tutta la precedente attività professionale dell'impresa, in quanto elemento sintomatico della perdita del requisito di affidabilità e capacità professionale e influente sull'idoneità dell'impresa a fornire prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo pubblico che la stazione appaltante persegue.
L'accertamento dell'errore grave può risultare sia da fatti certificati in sede amministrativa o giurisdizionale, sia da fatti attestati da altre stazioni appaltanti o anche da fatti noti. La casistica più recente riguarda la pulizia di stazioni ferroviarie (Consiglio Stato n. 4174/2013), e non dà rilievo alla circostanza che successivamente all'episodio di inadempimento la Pa abbia disposto ulteriori proroghe contrattuali. Errori gravi possono esservi nel servizio di accertamento e riscossione di imposte sulla pubblicità e sulle pubbliche affissioni (Consiglio Stato n. 6614/2012), rilevanti anche se, nel precedente rapporto, l'impresa esclusa era mandataria di un raggruppamento verticale.
Altri errori possono capitare nella fatturazione di gas (Consiglio di Stato n. 6951/2011) o nella archiviazione di cartelle cliniche (Consiglio di Stato n. 5866/2011), e in tali casi insieme al singolo infortunio possono essere valutati altri numerosi rapporti contrattuali e l'episodicità dell'inconveniente verificatosi (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Atti riservati se la gara è «chiusa». Il concorrente potrebbe imitare le tecniche utilizzate dal vincitore. Tar Milano. L'accesso ai documenti resta limitato se non è possibile ribaltare l'esito della selezione.
Nuovi limiti all'accesso agli atti di gara da parte di un concorrente, se non c'è possibilità di ribaltare il risultato.
Li pone il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 30.10.2014 n. 2587, che applica la riservatezza anche a servizi di pulizia.
L'accesso è un diritto generale previsto dalla legge 241/1990 per favorire la partecipazione e assicurare imparzialità e trasparenza dei procedimenti, ma a condizione che ci sia un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata (articoli 22 e 24). Poi sono sopravvenute più norme, che hanno applicato il principio con intensità diversa di volta in volta, allargando o limitando l'accesso (si veda la scheda sulla destra). Punto di equilibrio tra restrizioni e ampliamenti è l'articolo 3 del Dpr 184/2006, che obbliga le amministrazioni ad informare i controinteressati (cui si riferiscono i dati oggetto di accesso), affinché esprimano o meno il proprio consenso.
Per il Tar di Milano, la norma sull'accesso civico (il Dlgs 33/2012, articolo 3) non amplia i diritti che spettano ai partecipanti alle gare: per questi ultimi l'accesso è garantito, ma deve collegarsi a un'esigenza di difesa in giudizio. Ciò significa che l'ente pubblico che ha gestito la gara deve effettuare un accurato controllo in ordine all'effettiva utilità, per il richiedente, della documentazione richiesta.
Nel caso specifico, poiché l'impresa di pulizie che chiedeva l'accesso alla documentazione si era classificata sesta e non aveva impugnato l'esito della gara, non è emerso un interesse concreto ed attuale a conoscere l'analisi dei costi dell'offerta della prima classificata. Quando le gare si svolgono sulla base dell'offerta economicamente più vantaggiosa (e non sulla base del prezzo più basso), può essere utile conoscere soluzioni, innovazioni e specifiche tecniche delle offerte risultate aggiudicatarie. Con un accesso agli atti di gara si possono conoscere fornitori, sistemi di organizzazione, tecnologie utili per successive gare. Per ottenere ciò occorre tuttavia motivare l'istanza di esibizione, affermando di aver intenzione di rivolgersi ad un organo giurisdizionale per tutelare i propri interessi.
Quando vi è una richiesta del genere, cioè un cosiddetto accesso difensivo, l'unico argomento che può tutelare la riservatezza dei dati delle imprese vincitrici è il diritto alla riservatezza commerciale dei dati tecnologici, dei brevetti o dei segreti commerciali o industriali. In particolare se si tratta di forniture, migliorie e tecniche di manutenzione. La fonte di questo diritto alla riservatezza dei dati è la Direttiva comunitaria 93/36 (articolo 9, numero 3), che limita la pubblicazione di informazioni successive ad una gara che possano pregiudicare interessi commerciali o generare una concorrenza sleale.
Il chiarimento più utile su questa norma comunitaria proviene dalla Corte di giustizia della Ue (sentenza della causa C-450/06, resa nel 2008), che riguardava una controversia relativa alla gara per fornire le maglie dei cingoli destinati ai carri armati di tipo Leopard. Respingendo –nella sostanza– l'istanza di accesso di un produttore che voleva conoscere le tecniche costruttive di altri concorrenti, la Corte ha sottolineato che la commissione di gara deve garantire la riservatezza ed il rispetto dei segreti commerciali.
Anche alle imprese di pulizie, nel caso deciso dal Tar di Milano, è stato applicato lo stesso principio di riservatezza. L'argomentazione è stata che l'azienda interessata potrebbe imitare tecniche altrui attraverso la scorciatoia dell'accesso alle offerte di gara
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIVa pagato anche il parere del legale.
Spetta il giusto compenso, secondo il tariffario forense, all'avvocato che si è impegnato, investendo tempo e proprie competenze professionali, nello studio di un atto giudiziario, anche in assenza di un successivo conferimento di incarico formale.

Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con ordinanza 27.10.2014 n. 22737.
I giudici di piazza Cavour si sono espressi su un caso in cui un Tribunale aveva respinto l'appello proposto da una società circa una decisione del Giudice di pace, con la quale veniva rigettata l'istanza di revoca del decreto con cui veniva ingiunto alla società stessa il pagamento degli onorari a compenso delle prestazioni professionali fornite da un legale.
Secondo gli Ermellini, alla luce degli atti, quello tra il legale e la società non fu un semplice colloquio informativo, ma vennero sottoposti all'attenzione del professionista atti giudiziali prodotti in giudizio, al fine di ottenere un parere ed in vista di un futuro mandato professionale.
Chiaramente, pertanto, si andava a profilare la sussistenza di un rapporto professionale tra la società e l'avvocato e il conferimento di un incarico, dalla società al legale, avente ad oggetto un parere professionale in merito ad una causa già pendente presso il Tribunale. Pertanto correttamente, a parere della Cassazione, il Tribunale ha ritenuto che il professionista avendo impegnato il proprio tempo e le proprie competenze professionali andava compensato secondo il tariffario forense.
Si tratta, quindi, di una più ampia lettura dell'art. 4 del dm 55/2014 in cui si legge che: «Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell'affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell'affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali (...)» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.201).
---------------
MASSIMA
La visita allo studio di un avvocato per sottoporgli un atto di citazione fa scattare il diritto alla parcella anche se poi il cliente decide di non affidargli l’incarico di difesa in giudizio (tratta da http://renatodisa.com).

APPALTIPer l'accesso basta l'aggiudicazione provvisoria. Consiglio di Stato. Possibile rinviare l'accesso solo per la verifica sull'anomalia dell'offerta.
In tema di procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, la Pa può rimandare il diritto di accesso agli atti di gara soltanto per il procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, ma non per la restante documentazione che invece è accessibile già dopo l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 27.10.2014 n. 5280.
I giudici hanno respinto l'appello di un Comune che aveva negato a una società di servizi informatici di visionare i documenti di un contratto di fornitura di software poiché al momento della richiesta era stato aggiudicato solo in via provvisoria.
Secondo i giudici, esclusi i casi di appalti segretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, il differimento del diritto d'acceso previsto dal Codice dei contratti pubblici (articolo 13, Dlgs n. 163/2006) in relazione alle offerte fino all'approvazione dell'aggiudicazione (comma 2, lettera c) e in relazione al procedimento di verifica della anomalia dell'offerta fino all'aggiudicazione definitiva (comma 2, lettera c-bis) «deve essere interpretato in modo restrittivo, rappresentando una norma eccezionale, derogatoria rispetto alle ordinarie regole in materia di accesso».
In altre parole, per il Collegio, prima dell'ok definitivo «non sussiste alcun divieto legale di divulgare i dati concernenti le "offerte" (cioè: documentazione amministrativa, tecnica, offerta economica e tecnica) presentate dai concorrenti» poiché «il legislatore, quando ha ritenuto rilevante attendere che si fosse realizzata la conclusione della procedura selettiva (attraverso, appunto, l'aggiudicazione definitiva), lo ha detto espressamente. L'espressione generica "aggiudicazione" deve essere riferita all'aggiudicazione "provvisoria", e ciò in applicazione del criterio interpretativo ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, non dixit».
All'azienda, classificatasi penultima in graduatoria, andava quindi subito garantito il diritto d'accesso per controllare l'elenco degli operatori economici realizzato dall'Amministrazione, l'eventuale avviso di presentazione di candidature, le lettere dei soggetti che avevano chiesto di partecipare e tutta l'altra documentazione, allegati inclusi
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2014).

URBANISTICA: Decreto del fare: la proroga dei termini delle convenzioni si applica solo a quelle formalmente stipulate.
Con ordinanza 24.10.2014 n. 1417 Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, interviene in tema di interpretazione e applicazione dell'art. 30, comma 3-bis, D.L. n. 69/2013.
La previsione, convertita con Legge n. 98/2013, introduce un meccanismo di proroga triennale dei termini di validità nonché di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione e simili.
Per espressa previsione normativa, la proroga si applica agli accordi "stipulati sino al 31.12.2012": "3-bis. Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre anni.".
Nel ricorso in commento, la società ricorrente invoca l'applicazione della norma ad una bozza di convenzione che, pur approvata dall'amministrazione comunale con delibera consiliare, non era mai stata sottoscritta dalle parti e perciò non risultava essere stata "stipulata", formandosi la volontà .
In applicazione del canone letterale di cui all'art. 12 Preleggi, il Comune ha ritenuto che l’incontro delle volontà tra le parti non possa che sostanziarsi nel momento della sottoscrizione della convenzione, non essendo dati accordi della Pubblica Amministrazione privi della caratteristica della ritualità. Per tale motivo ha negato la richiesta di riconoscimento della proroga automatica avanzata dalla società e quest'ultima ha impugnato il provvedimento.
Il sede cautelare il TAR Lombardia aderisce a tale interpretazione della norma e respinge la domanda di sospensione, affermando che "l’interpretazione dell’art. 30, c. 3-bis, d.l. n. 69/2013, accolta nel provvedimento impugnato - secondo cui la proroga non può operare con riferimento a bozze di convenzioni, pur approvate dall’amministrazione comunale, ma che non siano state stipulate dalle parti - appare legittima in quanto conforme alla lettera della norma" (link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATALe controversie relative alla determinazione dei contributi urbanistici involgono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione.
Rileva altresì il Collegio che non appare convincente sostenere che ciò vale quando si discute di un profilo di quantum, cioè della determinazione dell’ammontare degli oneri dovuti, e non quando sia in considerazione una questione di an, cioè di assoggettabilità dell’intervento edilizio al pagamento degli oneri medesimi ovvero di sua gratuità, trattandosi comunque di questioni ontologicamente assimilabili, riguardanti diritti soggettivi.
Diverso il discorso nell’ipotesi in cui vi sia un atto a monte (una convenzione urbanistica, un piano di lottizzazione o uno strumento attuativo) che già disciplina il profilo della gratuità o onerosità di specifici interventi edilizi e che dà copertura ai successivi atti attuativi, ipotesi nella quale è corretto affermarsi che occorre la contestazione nel termine decadenziale della previsione a monte.

L’eccezione è infondata.
Osserva il Collegio che le controversie relative alla determinazione dei contributi urbanistici involgono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons. Stato, sez. 4^, 28.11.2012, n. 6033).
Rileva altresì il Collegio che non appare convincente sostenere che ciò vale quando si discute di un profilo di quantum, cioè della determinazione dell’ammontare degli oneri dovuti, e non quando sia in considerazione una questione di an, cioè di assoggettabilità dell’intervento edilizio al pagamento degli oneri medesimi ovvero di sua gratuità, trattandosi comunque di questioni ontologicamente assimilabili, riguardanti diritti soggettivi.
Diverso il discorso nell’ipotesi in cui vi sia un atto a monte (una convenzione urbanistica, un piano di lottizzazione o uno strumento attuativo) che già disciplina il profilo della gratuità o onerosità di specifici interventi edilizi e che dà copertura ai successivi atti attuativi, ipotesi nella quale è corretto affermarsi che occorre la contestazione nel termine decadenziale della previsione a monte (Cons. di Stato, sez. 5^, 30.04.2009, n. 2768, parla di atti che “assumono il significato sostanziale di una rinuncia alla prescrizione”).
Il citato precedente della Sezione (sentenza n. 1083 del 2013) riguardava una fattispecie nella quale la onerosità dell’intervento edilizio era espressamente prevista dalle convenzioni stipulate tra le parti ed era quindi accettata dalla parte privata ed è su questa base che in detto pronunciamento si giunge a richiedere l’attivazione nel termine decadenziale di chi voglia contestare la onerosità medesima.
Nel caso qui in esame, al contrario, l’onerosità dell’intervento non risultava prescritta dalla convenzione del 26.03.1998, con il risultato che nella proposta azione giudiziaria parte ricorrente fa valere un diritto soggettivo al quale necessariamente si correla l’ordinario termine prescrizionale
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2014 n. 1596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAÈ vero che la giurisprudenza estende l’applicazione dell’art. 9, comma 1, lett. f), parte prima, della legge n. 10 del 1977 anche oltre i confini soggettivi dell’ente pubblico, ma richiedendo che il soggetto privato non agisca per fini di lucro e abbia un “legame istituzionale con l’azione amministrativa volta alla cura di interessi pubblici”.
La censura è infondata.
La invocata disposizione normativa collega la gratuità dell’intervento edilizio, oltre che al profilo oggettivo, che non pare nella specie difettare, ad un preciso connotato soggettivo, cioè essere l’opera stessa realizzata da “enti istituzionalmente competenti”.
Appare evidente che nella specie non si è in presenza di un “ente pubblico” né ricorre la figura del “concessionario di opera pubblica”, che realizza una traslazione di funzioni pubbliche su soggetto privato; ad avviso di parte ricorrente sarebbe tuttavia sufficiente la convenzione stipulata tra la società medesima e il Comune di Prato a garantire la funzionalizzazione dell’operato della società e ad escludere che si abbia mero perseguimento del fine di lucro, in tal modo meritando l’applicazione della invocata norma sulla gratuità. Tale percorso interpretativo, tuttavia, non pare convincente.
È vero che la giurisprudenza estende l’applicazione dell’invocato art. 9, comma 1, lett. f), parte prima, della legge n. 10 del 1977 anche oltre i confini soggettivi dell’ente pubblico, ma richiedendo che il soggetto privato non agisca per fini di lucro e abbia un “legame istituzionale con l’azione amministrativa volta alla cura di interessi pubblici” (Cons. Stato, sez. 4^, 28.10.2011, n. 5799; id. 08.11.2011, n. 5903); nella specie questo “legame istituzionale” non pare sussistere, non risultando idonei a crearlo gli impegni che la società ricorrente ha assunto con la convenzione del 26.03.1998, che prevedono la libera accessibilità degli interessati alla struttura ma senza più pregnanti obbligazioni in punto di erogazione delle prestazioni e costi delle stesse; in altre parole, la richiamata convenzione del 26.03.1998, valutata con riferimento alla prima fattispecie di cui all’art. 9, comma 1, lett. f) cit., non risulta idonea a creare vincoli così intensi con il soggetto pubblico da far rientrare il soggetto privato attuatore tra gli “enti istituzionalmente competenti
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2014 n. 1596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sconta l'esenzione di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977, riferita a “opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”, la realizzazione di un’opera di urbanizzazione secondaria (edificazione di RSA) avvenuta in attuazione di previsione dello strumento urbanistico.
Con il secondo mezzo parte ricorrente contesta il mancato riconoscimento della seconda ipotesi di esenzione di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977, riferita a “opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”, essendo in presenza della realizzazione di un’opera di urbanizzazione secondaria (edificazione di RSA) avvenuta in attuazione di previsione dello strumento urbanistico.
La censura è fondata e merita accoglimento.
La evocata seconda fattispecie di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 (oggi riprodotta dall’art. 17, comma 3, lett. c] del DPR n. 380 del 2001) esonera dal pagamento dei contributi concessori la realizzazione di “opere di urbanizzazione” allorquando essa, pur realizzata da privati, avvenga “in attuazione di strumenti urbanistici”.
Nella specie appaiono sussistere entrambi i requisiti previsti dalla legge. Siamo in presenza di “opere di urbanizzazione secondaria”, requisito questo non contestato dall’Amministrazione resistente (si legge a pag. 10 della memoria del 28.03.2014 che “per predicare il regime di gratuità, infatti, non basta che l’opera realizzata rientri nel novero delle opere di urbanizzazione, in questo caso secondaria, come è innegabile che sia la struttura oggetto della concessione”) e che rientra nella previsione dell’art. 4, comma 2, lett. g), della legge n. 847 del 1964 (“centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie”), trattandosi dell’edificazione di “una struttura extra ospedaliera finalizzata a fornire accoglimento, prestazioni sanitarie, assistenziali e di recupero a persone anziane prevalentemente non autosufficienti non assistibili a domicilio” (Relazione tecnica di cui al doc. 2 del deposito comunale del 19.03.2014).
In secondo luogo, l’opera è senz’altro eseguita “in attuazione di strumenti urbanistici”. L’appezzamento di terreno della società ricorrente rientra infatti nella previsione di cui all’art. 35 delle NTA dello strumento urbanistico comunale (doc. 7 dell’Amministrazione comunale) ed è dunque destinato ad “attrezzature di interesse comune”, tra cui anche, a mente del comma 2 dello stesso articolo, “centri sociali”, “attrezzature sanitarie” e “residenze protette”; il successivo comma 5 dello stesso art. 35 stabilisce poi che “è ammessa l’attuazione delle previsioni di PRG da parte di privati (singoli, Enti) subordinatamente alla stipula di una convenzione col Comune che ne stabilisca le modalità della gestione nell’interesse comune”.
La società ricorrente e il Comune di Prato hanno stipulato la convenzione attuativa dell’art. 35 cit. in data 26.03.1998 (doc. 4 della documentazione di parte ricorrente); in essa si legge che il terreno della ricorrente “è destinato dal vigente PRG comunale ad <aree per attrezzature di interesse comune destinate a centri sociali, centri culturali, ricreativi, attrezzature sanitarie e residenze protette>, come disciplinato dall’art. 35 delle NTA” e che la “società Immobiliare Senior s.r.l. intende attuare le previsioni di PRG realizzando sul predetto terreno una Residenza sociale protetta per anziani, ai sensi della L.R. 16.04.1980 n. 28”, iniziativa che “appare compatibile con il disposto dell’art. 35 delle NTA del PRG sopra richiamato, che offre facoltà ad Enti e privati a dare diretta esecuzione alle previsioni del PRG <subordinatamente alla stipula di una convenzione con il Comune che ne stabilisca le modalità della gestione nell’interesse comune>”.
Non può dunque esserci dubbio che quella del 26.03.1998 sia convenzione attuativa dell’art. 35, comma 5, delle NTA del PRG e che dunque quello realizzato sia intervento eseguito “in attuazione di strumenti urbanistici”. L’Amministrazione comunale evidenzia però che la disciplina legislativa regionale richiede comunque, ai fini dell’esonero, la stipula di una convenzione con l’Amministrazione che “assicuri l’interesse pubblico”, mentre la convenzione presente nella specie niente dice circa le modalità di svolgimento del servizio e quindi non è idonea ad integrare la previsione normativa.
Il richiamo effettuato dal Comune di Prato è all’art. 23, comma 1, lett. b), della legge regionale Toscana n. 52 del 1999 che, nel riprodurre la previsione di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977, aggiunge il riferimento ad una specifica convenzione: dice infatti la norma regionale che l’esenzione spetta “per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati o privato sociale, in attuazione di strumenti urbanistici, previa, in questo caso, convenzione con il comune che assicuri l'interesse pubblico”.
Osserva tuttavia il Collegio che, in disparte la considerazione che la individuazione dei presupposti legittimanti la gratuità di un intervento edilizio pare rientrare nella legislazione di principio di competenza statale (sicché la legge regionale non può aggiungerne ulteriori rispetto a quelli stabiliti dalla norma statale, nella specie tutti esistenti), in ogni caso nella specie la convenzione c’è, ed è stata valutata dalla stessa Amministrazione comunale che l’ha sottoscritta come idonea a soddisfare l’art. 35, comma 5, delle NTA del PRG comunale che parla, anch’esso, di convenzione che “stabilisca le modalità di gestione nell’interesse comune”, col risultato che non può poi l’Amministrazione comunale, al diverso fine di dare applicazione all’art. 23 della legge regionale n. 52 del 1999, ritenere che la stessa convenzione non soddisfi il requisito di “assicurare l’interesse pubblico
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2014 n. 1596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAParcheggi, la legge Tognoli ko se l'immobile è tutto fuori terra
Non può trovare applicazione la legge Tognoli, quando l'immobile è costruito totalmente fuori terra, sebbene si sia utilizzato un volume preesistente, ma con un ampliamento, per cui non si tratta di un recupero, ma di una nuova costruzione.

Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. del TAR Piemonte, con sentenza 18.09.2014 n. 1490.
La c.d. «legge Tognoli» (legge 24.03.1989, n. 122) stabilisce che i proprietari di immobili possono realizzare parcheggi nel sottosuolo o al piano terreno, con determinate agevolazioni. E precisa (art. 9, 5° comma): «I parcheggi realizzati ai sensi del presente articolo non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli».
Secondo i giudici amministrativi: «Indipendentemente dalla qualificazione dell'intervento, è pacifico che il fabbricato sia fuori terra, per cui correttamente l'Amministrazione non ha ritenuto applicabile la disciplina derogatoria della legge Tognoli, ed in particolare dell'art. 9, che consente di realizzare parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliare nel sottosuolo per l'intera altezza, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti. La disposizione -osservano i giudici- è di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione. In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, legge 24.03.1989 n. 122, opera solo ed esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto dell'originario piano attuale di campagna, senza alcuna tolleranza di sorta, mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Resta agricolo il terreno con impianti fotovoltaici. Le conclusioni della Commissione tributaria di Brindisi.
Qualora sopra un terreno agricolo sia realizzato un impianto fotovoltaico, la sua destinazione urbanistica rimarrà agricola e non subirà variazione ai fini delle imposte locali.

Sono le interessanti conclusioni a cui giunge la sezione seconda della Commissione tributaria provinciale di Brindisi nella sentenza 16.09.2014 n. 1032/2/14.
La vicenda riguarda un accertamento ai fini Ici notificato a una società dal comune di San Pietro Vernotico (Br) per l'anno 2011 sul terreno agricolo da questa condotto in locazione; la vicenda riguarda specificatamente l'Ici, ma rileva anche ai fini dell'Imu e della Tasi. La stessa società conduttrice, oltre all'edificazione di servitù relative a un elettrodotto, aveva realizzato, con diritto di superficie, impianti di produzione elettrica fotovoltaica e provveduto ad accatastare il nuovo fabbricato con procedura Docfa nel febbraio 2011. L'ente impositore riteneva che il terreno oggetto di locazione, in quanto edificabile, dovesse essere oggetto di tassazione Ici secondo due diverse modalità:
a) una prima tassazione relativa al terreno oggetto delle opere, tassato come terreno edificabile;
b) una tassazione seguente relativa alle opere eseguite.
La società locataria, titolare del diritto di superficie, aveva, invece, corrisposto l'imposta solo dopo aver accatastato il fabbricato relativo all'impianto fotovoltaico, relativamente cioè, ai soli dieci mesi del 2011, successivi al censimento dell'impianto (febbraio 2011).
Dopo aver verificato che i terreni oggetto di tassazione ricadono tutti in zona agricola, i giudici provinciali pugliesi, accogliendo sul punto il ricorso, hanno stabilito che il terreno agricolo mantiene la sua destinazione urbanistica originaria (agricola) e non sconta l'imposta locale. La Commissione ha raggiunto la decisione rilevando come l'articolo 12, comma 7, del dlgs n. 387/2003 disponga che «gli impianti di produzione di energia elettrica... possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici».
La Commissione aggiunge che, anche l'articolo 5, comma 9, del dm 19.02.2007, attuativo di tale disposizione prevede «ai sensi dell'articolo 12, comma 7, del dlgs n. 387/2003 anche gli impianti fotovoltaici possono essere realizzati in aree classificate agricole dai vigenti piani urbanistici senza necessità di variazione della destinazione urbanistica». Valga, infine, aggiungere che le stesse conclusioni sono state raggiunte anche dal Notariato in un recente Studio n. 24/2012/T (articolo ItaliaOggi del 12.11.2014).

EDILIZIA PRIVATANon sufficiente la Pec del tecnico ai fini del permesso di costruire
Galeotta fu la Pec: il messaggio incompleto di posta elettronica certificata mandato dal tecnico di fiducia fa sfumare per la società committente l'opportunità di ottenere il permesso di costruire con le premialità del decreto sviluppo. Il punto è che il silenzio-assenso del Comune non può formarsi quando all'email con valore legale non sono allegati l'atto di conferimento dell'incarico al professionista e la copia del documento di identità della società richiedente: valgono i principi dell'autoresponsabilità e dell'autocertificazione e senza le carte che diano certezze sulla provenienza le dichiarazioni contenute nel messaggio di posta elettronica non hanno valore.

È quanto emerge dalla sentenza 15.07.2014 n. 347, pubblicata dalla I Sez. del TAR Abruzzo-Pescara.
Niente da fare per l'azienda, anche se il Comune ha fatto di tutto per «boicottare» il ricorso al digitale, facendosi mandare tutti i documenti in formato cartaceo per «l'impossibilità» di gestire il materiale in formato elettronico.
In effetti si scopre che la Pec spedita dal tecnico è insufficiente: intendiamoci, il permesso di costruire ben può essere richiesto con l'email col «bollino blu», ma servono riferimenti certi sui soggetti in campo. Altrimenti fa bene l'amministrazione a disporre l'archiviazione della pratica, come in questo caso.
L'azienda dovrà probabilmente rivalersi sul tecnico: l'atto non risulta in grado di dispiegare gli effetti di certificazione previsti perché manca una forma essenziale prescritta dalla legge e non sanabile in altro modo. Il silenzio-assenso, spiegano i giudici, non può infatti formarsi senza la documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio: l'eventuale inerzia dell'amministrazione nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che non potrebbero mai conseguire con un provvedimento espresso.
Il professionista, fra l'altro, manca di apporre la sua firma digitale su alcuni atti. Ma bisogna comunque cancellare dagli atti di causa il riferimento alla «scarsa professionalità» del progettista. Spese compensate per la complessità e la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 08.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Un'area inutilizzata non paga la tassa rifiuti.
Un'area inutilizzata, per quanto grande, non paga la tassa rifiuti. Anche se lo spazio è adibito al transito degli automezzi o al deposito di materiali inerti. L'imposizione può scattare solo laddove vi sia una produzione, anche minima, di rifiuti da conferire al servizio di smaltimento comunale.

È quanto affermato dalla Ctp Reggio Emilia con la sentenza 07.07.2014 n. 313/3/14.
Il caso in esame era quello di un frantoio, che era stato raggiunto da una rettifica Tarsu per l'anno 2009 dal valore di oltre 40 mila euro. Il comune aveva applicato la tassa a una superficie scoperta di oltre 13 mila metri quadrati, utilizzati solo in parte dal contribuente come deposito e per il resto vuota. L'azienda presentava ricorso in Ctp sostenendo peraltro che già dal 1997 il piazzale era stato indicato come area non produttrice di rifiuti. La Tarsu non era mai stata applicata su tale porzione.
 Risultava pertanto piuttosto irrazionale, osservava la difesa del ricorrente, che dopo oltre dieci anni dalla presentazione della dichiarazione di occupazione, senza che nel frattempo fossero intervenute modifiche, l'ente avesse deciso di iniziare ad applicare il prelievo.
Diversa l'interpretazione del municipio. Il quale, facendo riferimento alle disposizioni del regolamento comunale in materia di smaltimento rifiuti, ribadiva la legittimità della propria pretesa.
Tesi però non condivisa dai giudici reggiani. «Non si può ragionevolmente sostenere che sia l'area destinata a deposito di materiali inerti, sia quella riservata al transito degli automezzi e, soprattutto, quella inutilizzata possano produrre rifiuti da smaltire», si legge nella sentenza. La Tarsu colpisce invece «soltanto l'area destinata alla operatività della società» (pari, in questo caso, a circa 640 mq).
Da qui l'annullamento parziale dell'accertamento e la rideterminazione del tributo dovuto al comune da parte del frantoio (articolo ItaliaOggi del 12.11.2014).

AGGIORNAMENTO AL 14.11.2014

ã

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Informativa in materia di Autorizzazione Unica Ambientale (AUA) ai fini dell'applicazione del Regolamento AUA sul territorio regionale ai sensi del DPR 59/2013 (Regione Lombardia, Direzione Generale Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile, nota 30.10.2014 n. 51381 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 13.11.2014 "Testo dell’allegato «Direttiva per il controllo degli scarichi degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, ai sensi dell’allegato 5 alla parte terza del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 e s.m.i.» del d.d.g. 15.03.2013 n. 2365, coordinato con le modifiche approvate con decreto del direttore generale della Direzione generale Ambiente, energia e sviluppo sostenibile n. 10356 del 07.11.2014" (comunicato regionale 10.11.2014 n. 132).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 13.11.2014 "Modifica parziale dell’allegato al d.d.g. 15.03.2013 n. 2365 avente per oggetto “Modifica parziale all’allegato alla d.g.r. 28.12.2012 n. IX/4621 di approvazione della “Direttiva per il controllo degli scarichi degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane””" (decreto D.G. 07.11.2014 n. 10356).

ENTI LOCALI: G.U. 12.11.2014 n. 263 "Criteri per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse con l’esercizio delle funzioni provinciali" (D.P.C.M. 26.09.2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCARICHI PROFESSIONALI: C. Isoni e P. Elia, Risarcimento per lite temeraria per l'avvocato che "ignora" il tentativo di mediazione (11.11.2014 - link a www.diritto.it).

APPALTI: G. F. Celentano, L’azione di ingiustificato arricchimento contro la P.A. e i debiti fuori bilancio (11.11.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra le costruzioni nei rapporti di vicinato (2010 - tratto da www.acqua-spa.it).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing.
Domanda
Quale norma è alla base della responsabilità per mobbing lavorativo?
Risposta
Nella disciplina del rapporto di lavoro, dove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l'integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.), ma deve altresì rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti.
Fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate rientra il mobbing che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso di causalità tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Alla base della responsabilità per mobbing lavorativo si pone normalmente l'art. 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost. (articolo ItaliaOggi Sette del 03.11.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Demansionamento.
Domanda
Nelle cause per demansionamento quali prove deve fornire il lavoratore?
Risposta
In tema di demansionamento e relativo onere probatorio, il lavoratore può reagire al potere direttivo che assume esercitato illegittimamente prospettando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia e, quindi, con un onere di allegazione di elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio, mentre il datore di lavoro, convenuto in giudizio, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda (art. 416 cpc) e può allegarne altri, indicativi per converso, del legittimo esercizio del potere direttivo.
Il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo, ma la sua dimostrazione in giudizio può essere fornita con tutti i mezzi offerti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, alla luce della complessiva valutazione di precisi elementi in tal senso significativi -quali le ragioni dell'illegittimità del provvedimento di revoca, le caratteristiche, durata, gravità e conoscibilità nell'ambiente di lavoro dell'attuato demansionamento, la frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione di carriera, le eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale- la cui isolata considerazione si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico e valutativo seguito dal giudice di merito (articolo ItaliaOggi Sette del 03.11.2014).

NEWS

APPALTIAppalti, committente vincolato. Resta la responsabilità per il versamento delle ritenute. Il decreto sulle semplificazioni fiscali non ha abrogato gli obblighi da sostituto di imposta.
 Appalti: resta la responsabilità fiscale del committente. Se l'appaltatore o il subappaltatore non pagano lo stipendio ai propri dipendenti è il committente che, oltre a doverne rispondere, è responsabile del versamento delle relative ritenute d'acconto Irpef all'Erario.

È quanto si ricava dalla lettura dell'art. 28, comma 2, del decreto delegato sulla semplificazione fiscale, appena approvato dal Consiglio dei ministri e prossimo alla pubblicazione in G.U., in base al quale il Committente, qualora sia direttamente obbligato a eseguire il pagamento dei trattamenti retributivi ai dipendenti dell'appaltatore e/o dei subappaltatori impegnati nell'appalto per effetto della solidarietà, «è tenuto ove previsto ad assolvere gli obblighi del sostituto d'imposta ai sensi delle disposizioni di cui al dpr n. 600/1973».
La precisazione giunge proprio mentre con il 1° comma del suddetto art. 28 si è proceduto ad abrogare la responsabilità solidale in ambito fiscale tra appaltatore e subappaltatore, nonché a cancellare la pesante sanzione amministrativa gravante sul Committente qualora non abbia ottenuto idonea documentazione circa la correttezza del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente dovute dall'appaltatore e dal subappaltatore.
Ma andiamo con ordine.
L'art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003 stabilisce che in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi in relazione al periodo di esecuzione dell'appalto.
Malgrado i ripetuti interventi legislativi che si sono susseguiti senza soluzione di continuità dal 2003 ad oggi (dlgs 251/2004, legge 276/2006, legge 35/2012, legge 92/2012) e che hanno profondamente modificato a più riprese il suddetto art. 29 a dispetto della necessità di dare stabilità e certezza giuridica a un quadro normativo già di per sé ostico e da più parti osteggiato, non è mai stato chiarito se «i trattamenti retributivi dovuti» debbano essere considerati al lordo o al netto dei contributi previdenziali e delle ritenute fiscali conto dipendente, né tanto meno specificati gli obblighi del committente quale sostituto d'imposta. Il sospetto che la normativa potesse lasciare adito a incertezze interpretative deve pertanto aver indotto il legislatore a intervenire, precisando che il Committente deve assolvere gli obblighi di sostituto d'imposta.
Con l'abrogazione dell'art. 35 della legge n. 248/2006, commi da 28 a 28-ter, la responsabilità solidale in ambito fiscale che coinvolge tutta la catena dell'appalto smette quindi di vivere di luce propria per essere «inglobata» in quella prevista dall'art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003: di fatto, se l'appaltatore e/o il subappaltatore non pagano i propri dipendenti impegnati nell'appalto non solo deve provvedervi il committente; ma quest'ultimo ha anche l'obbligo di effettuare le ritenute fiscali sulle
retribuzioni erogate, a versarle all'Erario, a certificare le somme erogate attraverso il modello CU e la dichiarazione mod. 770. Esattamente come per i suoi dipendenti (articolo ItaliaOggi del 04.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALICompetenza finanziaria potenziata, segretari in campo. L'analisi/la riforma della contabilità.
Hanno poco meno di due mesi di tempo a disposizione per informare tutta la struttura sul nuovo concetto di competenza finanziaria potenziata, introdotto dal dlgs 118/2011 come integrato e corretto dal dlgs 126/2014: sono i responsabili dei servizi finanziari dei comuni, ma anche quelli delle province e delle regioni, alle prese con la riforma del sistema contabile che va in vigore dal 01.01.2015.
Accanto a comuni schemi di bilancio, un unico piano dei conti integrato e una classificazione della spesa che prevede la medesima classificazione funzionale per Missioni e Programmi adottata dallo Stato, l'armonizzazione dei bilanci della pubblica amministrazione passa anche e soprattutto per regole contabili uniformi i cui aspetti applicativi sono analiticamente normati dai principi generali, allegato n. 1 del dlgs 126/2014 e dai quattro principi applicati, allegati da 4.1 a 4.4 del medesimo decreto, che riportano le disposizioni di dettaglio concernenti la programmazione, la contabilità finanziaria, la contabilità economica e il bilancio consolidato.
Dal 2 gennaio tutte le determinazioni di impegno e di accertamento dovranno essere conformi alle disposizioni normative richiamate e, in particolare, all'allegato 4.2 relativo al principio contabile applicato della contabilità finanziaria affinché il responsabile del servizio finanziario possa apporre il visto di regolarità contabile ai sensi dell'art. 153 del dlgs 267/2000. Tale principio applicato prevede la registrazione delle obbligazioni giuridiche al momento della loro nascita con l'imputazione delle stesse nel momento in cui scadono. Ciò comporta per i responsabili dei servizi individuare, nel momento in cui sorge l'obbligazione che porta alla registrazione di accertamenti e di impegni, l'esigibilità dell'obbligazione, aspetto determinante per l'imputazione dell'accertamento o dell'impegno nell'anno in cui la stessa obbligazione scade .
In tal modo, l'analisi contabile della rilevazione del fatto gestionale si scinde andando a verificare, oltre alla nascita dell'obbligazione giuridica, anche la sua scadenza: è questo il cuore della riforma della contabilità, il nuovo concetto di competenza finanziaria potenziata, rafforzata, cioè, dall'esigibilità dell'obbligazione.
Il principio contabile applicato, dopo aver fatto proprio un concetto espresso dalla Corte di cassazione in merito alla scadenza delle obbligazioni, per il quale un'obbligazione è scaduta quando nulla osta al suo adempimento, specifica analiticamente per ogni fattispecie di entrata e di spesa il concetto di esigibilità, individuando in tal modo il periodo di imputazione degli accertamenti e degli impegni.
Il perché dell'adozione del criterio della competenza finanziaria potenziata è presto detto: i bilanci della pubblica amministrazione, oltre a essere idonei a permettere il consolidamento dei conti pubblici, devono essere trasparenti, rispecchiare obbligazioni giuridiche effettive, esigibili, scadute. Si comprende, pertanto, come l'adozione di tale criterio sia il reale fulcro della riforma della contabilità, condizione necessaria affinché le intenzioni del legislatore in tema di armonizzazione di sistemi contabili degli enti territoriali non vadano vanificate.
È per questo motivo che il principio contabile applicato della contabilità finanziaria, così come gli altri tre principi applicati più sopra citati, non costituisce una semplice raccomandazione ma essendo un allegato al dlgs 126/2014 ha la medesima forza di legge e quindi idoneo, capace, a innovare nell'ordine legislativo preesistente, con tutte le conseguenze che derivano anche dalla sua inosservanza. Basti pensare, ad esempio, che uno dei criteri a cui la Ragioneria generale dello Stato, durante i controlli ispettivi di finanza pubblica sui bilanci degli enti locali, nonché la stessa Corte dei conti dovranno attenersi per verificare l'accertamento della sana gestione finanziaria dell'ente locale, dal primo gennaio 2015 sarà proprio il rispetto delle disposizioni applicative contenute nel principio contabile applicato della contabilità finanziaria seguite per la rilevazione dei fatti di gestione.
Emerge pertanto l'indispensabile attività di formazione a cui tutta la struttura dedicata alla gestione delle risorse e all'acquisizione delle entrate dovrà necessariamente sottoporsi con il ruolo guida e di coordinamento delle diverse fasi da assegnarsi al segretario generale, l'unica figura che, in assenza di direttore generale, all'interno dell'ente sovrintende alle funzioni dei dirigenti, coordinandone le attività.
Il processo di armonizzazione è già partito: sottovalutarne gli effetti e gli obblighi adempimentali non trova giustificazioni accoglibili da parte degli organi deputati al controllo sugli enti locali proprio perché la violazione delle disposizioni aventi forza di legge contenute nei principi generali e applicati compromette il consolidamento e la trasparenza dei nostri conti pubblici (articolo ItaliaOggi del 04.11.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

CONDOMINIODanni in casa, risponde l'impresa. L'appaltatore risarcisce in proprio solo se è stato davvero autonomo nell'esecuzione. Responsabilità. Azione possibile per il condòmino danneggiato dai lavori eseguiti su parti comuni.
Quando i lavori condominiali creano un danno al singolo appartamento, si crea una complessa catena di responsabilità. Ma con la sentenza 20557/2014 la Cassazione mette ordine in una vicenda che aveva visto coinvolti, da una parte, un condomino che richiedeva il risarcimento dei danni subiti nell'unità immobiliare di sua proprietà, a causa della cattiva esecuzione di opere di bonifica e di impermeabilizzazione del tetto del palazzo e, dall'altro, quali soggetti ai quali era stata indirizzata tale richiesta di risarcimento danni, il condominio stesso, l'amministratore dello stabile, nonché l'impresa che aveva svolto i lavori.
Nel corso dei primi due gradi di giudizio, a evidenziare la difficoltà di giungere a una soluzione uniforme, il Tribunale aveva ritenuto responsabile (e condannato quindi al risarcimento dei danni) la sola impresa, rigettando quindi la domanda svolta sia nei confronti del condominio che in proprio dell'amministratore, mentre la Corte d'appello aveva ribaltato la decisione estendendo la condanna, in solido tra loro, a impresa costruttrice, condominio e amministratore in proprio.
La Cassazione chiariva anzitutto come normalmente sia l'appaltatore che risponde dei danni provocati a terzi: questo a causa della autonomia con cui egli svolge la sua attività nell'esecuzione dell'opera o del servizio appaltato.
A tale responsabilità dell'appaltatore si può poi affiancare (con possibilità di condanna in solido), sia la responsabilità del condominio quale committente, o per aver dato un ordine all'appaltatore tale da privare quest'ultimo di ogni possibile autonomia nell'esecuzione dello stesso, o per la cosiddetta «culpa in eligendo», e cioè per aver demandato l'esecuzione dei lavori (in questo caso su parti condominiali) a un soggetto palesemente non idoneo ad adempiervi con efficacia.
È poi possibile, come argomenta la Suprema Corte nella sentenza esaminata, che alla responsabilità dell'impresa esecutrice dei lavori, o del condominio, si aggiunga quella in proprio dell'amministratore del condominio (che si chiama «culpa in vigilando»), qualora questi sia venuto meno al suo dovere, quale delegato dello stabile, di controllare la regolare e corretta esecuzione dei lavori.
A tale condanna dell'amministratore, ed è questo il punto centrale e decisivo della sentenza della Cassazione, si può solo arrivare, tuttavia, qualora l'amministratore sia effettivamente venuto meno al suo dovere di vigilanza sulla corretta esecuzione dei lavori, ma non certo quando il danno sia stato causato, come nel caso di specie, da una libera iniziativa presa dall'impresa che aveva coperto (con dei teloni di plastica evidentemente rivelatisi inadatti) il tetto durante i lavori di scopertura e successiva ricostruzione.
In sostanza, non esiste una responsabilità oggettiva dell'amministratore per i danni causati ai condòmini dall'impresa costruttrice che intervenga sulle parti comuni: essendo viceversa necessario, perché l'amministratore possa essere ritenuto responsabile in proprio nei confronti del condominio, che tali danni si siano verificati per un comportamento dell'impresa che l'amministratore, se avesse correttamente vigilato, avrebbe potuto evitare.
Particolarmente rilevante, nella decisione in oggetto, è il richiamo della Cassazione a una sua precedente decisione (sentenza 25251/2008) che aveva introdotto un indirizzo «tendenzialmente più rigoroso» valutando le eventuali responsabilità dell'amministratore condominiale nel vigilare sulla corretta esecuzione di opere sulle parti comuni.
A tale indirizzo, che secondo la Corte è espressione «dell'evoluzione della figura dell'amministratore di condominio, i cui compiti vanno viepiù incrementandosi sia da far ritenere che gli stessi possano venire assolti in modo più efficace dalle società di servizi all'interno delle quali operano specialisti in settori diversi, in grado di assolvere alle numerose e gravi responsabilità ascritte allo stesso amministratore dalle leggi speciali», la più recente decisione pone in qualche modo un limite, precisando che l'amministratore (che pure rimane custode delle parti comuni nonostante la presenza di un appaltatore che debba eseguirvi degli interventi) risponderà dei danni derivati dalla cattiva esecuzione dei lavori da parte di un'impresa terza, solo qualora effettivamente egli vigilando con attenzione potesse accorgersene ed evitarli.
---------------
Il quadro
01|RISPONDE L'IMPRESA
In caso di danni agli alloggi privati nel corso di lavori di rifacimento di parti condominiali, ne risponde l'impresa quando l'appaltatore svolge la propria prestazione normalmente in piena autonomia, utilizzando i mezzi che ritiene adeguati, quindi (a meno che si limiti a eseguire senza possibilità di margine le istruzioni che riceve dall'appaltante) risponde dei danni causati a terzi
02|IL CONDOMINIO
Il condominio (appaltante) risponde per «culpa in eligendo», per aver affidato i lavori a un'impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche
03|L'AMMINISTRATORE
L'amministratore risponde dei danni per «culpa in vigilando», quando venga meno al proprio dovere di controllare la corretta esecuzione dei lavori da parte dell'impresa; non risponde qualora i danni siano stati causati da una scelta propria dell'impresa che l'amministratore non poteva evitare neppure utilizzando la normale diligenza nello svolgimento delle proprie mansioni
04|SOLIDARIETÀ
È poi inoltre possibile che i soggetti interessati: impresa condominio e amministratore, rispondano dei danni verso terzi in solido tra loro
 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2014).

EDILIZIA PRIVATASeminterrati, ok al recupero in sette Regioni. Ammesso il riutilizzo versando gli oneri di urbanizzazione e rispettando condizioni minime di luci e volume.
Per contenere il consumo del suolo le Regioni consentono anche il recupero dei locali interrati o seminterrati.
Con un livello di dettaglio differente, hanno disciplinato la materia in sette: Basilicata, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Con la sola eccezione della Basilicata e del Molise -che consentono il recupero dei volumi non del tutto fuori terra solo per destinarli ad attività terziarie o commerciali- tutte le altre prevedono la realizzazione di interventi per ricavarne locali a uso misto o esclusivamente abitativo.
I requisiti
Le definizioni adottate sono le stesse: sono considerati seminterrati i piani che hanno la superficie laterale dei muri contro terra per non più dei 2/3. Superata questa proporzione i locali sono classificati interrati. Naturalmente sono proporzioni medie.
Per la fattibilità degli interventi, le definizioni sono importanti: in Sardegna e in Sicilia è possibile trasformare i seminterrati unicamente in abitazioni; anche in Friuli Venezia Giulia i locali possono essere trasformati solo in case, ma questa operazione è possibile sia per gli interrati che per i seminterrati. In Sardegna i locali devono essere ubicati nelle zone omogenee B (di completamento residenziale), C (di espansione residenziale) ed E (agricole), mentre il recupero è vietato nelle aree dichiarate di pericolosità elevata o molto elevata oppure a rischio elevato di frana.
In queste tre Regioni tra i vincoli ai quali è condizionata la realizzazione degli interventi non è prevista quello dell’altezza minima standard prevista per le abitazioni: in Friuli sono sufficienti 2,20 metri, mentre nelle due isole il soffitto deve crescere di 20 centimetri (si veda anche l'articolo a fianco).
I costi
Per molti altri vincoli non si fanno differenze in base alla destinazione d’uso. È il caso del contributo da pagare per il rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione dell’intervento e delle dotazioni degli standard urbanistici. Dal loro onere dipende anche la convenienza a trasformare il volume. Sia il contributo relativo al costo di costruzione che gli oneri di urbanizzazione variano da zona a zona. La Sicilia sembra, però, la Regione in cui l’operazione è più costosa: per ottenere il permesso di costruire o la Scia, oltre a pagare questi due oneri a tariffa normale, occorre anche versare una cifra pari al 20% dell’incremento di valore del locale a seguito della trasformazione.
Le leggi della Sardegna e della Calabria non forniscono indicazioni su questi oneri, mentre quelle di tutte le altre Regioni -comprese quelle che prevedono destinazioni ulteriori rispetto al residenziale- prevedono l’applicazione delle tariffe ordinarie previste per gli interventi di ristrutturazione edilizia, che è la classificazione attribuita, in genere, al recupero degli interrati e dei seminterrati. In Lucania la trasformazione di un volume superiore al 15% della volumetria dell’intero edificio è possibile solo attribuendo al locale la quantità minima di spazi per parcheggi prevista dalla legge 122/1989.
L’esistenza di quegli spazi è vincolante: se non si riesce a reperirli non si può ricorrere alla loro monetizzazione, cioè superare il problema con il pagamento di una somma al comune. Niente monetizzazione anche in Puglia. Questa alternativa è, invece, prevista dalla legge del Molise, la quale richiede che il titolare dell’intervento di recupero conferisca al Comune le superfici idonee a compensare gli standard urbanistici mancanti, nel caso si operi in deroga ai limiti previsti dal Dm 1444/1968, sulla densità edilizia, l’altezza e la distanza tra fabbricati; la cifra da versare è calcolata in base ai costi correnti di esproprio dell’area da conferire.
La legge sarda demanda, invece, ai consigli comunali la determinazione della cifra da corrispondere, nei casi in cui la mancanza di spazi dimostri l’impossibilità di destinare a parcheggi una superficie di almeno 10 metri quadri
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGODal 2015 rischio azzeramento per i «premi» degli avvocati. Personale. Vanno adeguati i contenuti, ma sono «congelati».
Il nuovo restyling delle regole per i compensi degli avvocati pubblici, intervenuto nel Dl 90/2014 appena sette mesi dopo la disciplina introdotta con la legge di stabilità dell'anno scorso, rischia di bloccare del tutto il meccanismo dei “premi”.
Andando oltre la riduzione dei diritti di toga, l’articolo 9 del decreto differenzia il trattamento da riservare ai legali dell’Avvocatura dello Stato da quello che si deve riconoscere agli avvocati delle altre Pubbliche amministrazioni, ma un presupposto li accomuna: le nuove disposizioni «si applicano a decorrere dall’adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi», così prescrive il comma 8. Nello stesso senso si può leggere il comma 5, che indica le medesime fonti normative deputate alla individuazione dei criteri per il riparto dei compensi fra i legali.
Nulla quaestio per la revisione del regolamento: già i contratti collettivi nazionali di lavoro rimettevano a un atto adottato dalle singole amministrazioni la disciplina di dettaglio dell'emolumento. La modifica del quadro legislativo di riferimento fa scaturire, quale diretta e immediata conseguenza, la necessità di revisionare il regolamento interno.
Il problema è rappresentato dall’adeguamento dei contratti collettivi. Molte amministrazioni e i loro rappresentanti, in primis l’Anci, si chiedono se la norma si riferisca ai contratti collettivi di livello nazionale oppure possa bastare un contratto decentrato. Se l’interpretazione corretta dovesse abbracciare la prima ipotesi, si entrerebbe in un circolo vizioso, che non vede una via di uscita. I contratti nazionali sono infatti bloccati a tutto il 2014 e il testo del disegno di legge di stabilità per il prossimo anno, presentato dal Governo al Parlamento lo scorso 23 ottobre, prevede già una proroga a tutto il 2015.
Orizzonte che potrebbe essere ulteriormente spostato in avanti nel tempo. In sostanza, ciò significherebbe, in linea teorica, spostare sine die l’entrata in vigore della nuova normativa. Anche il far rivivere le disposizioni già contenute nei contratti nazionali sottoscritti prima dell'entrata in vigore del decreto 90 non appare una strada percorribile. Questi contratti (si veda, ad esempio, l’articolo 27 del contratto nazionale del 14.09.2000 per Regioni e autonomie locali) rimandavano, come detto, ad una disciplina interna dell’amministrazione, vale a dire a quel regolamento già indicato dal nuovo testo come fonte che deve essere adeguata. In altre parole, perderebbe di significato il rinvio al contratto collettivo.
La questione non è di poco conto, considerato che lo stesso comma 8 prevede una scadenza per l'adeguamento di regolamenti e contratti collettivi. Un primo termine è fissato in tre mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, allo spirare del quale, però, in caso di inadempimento, non è prevista alcuna sanzione. Più preoccupante è sicuramente la seconda scadenza, fissata nel 31 dicembre di quest'anno. Dal 01.01.2015, persistendo il mancato adeguamento, nessun compenso può essere riconosciuto agli avvocati dell’ente
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2014).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAcquisti, piccoli enti verso nuovi blocchi. Beni e servizi. A due mesi dal debutto.
A pochi mesi dal via, ci si interroga sull’effettiva applicabilità della centralizzazione degli acquisti disposta dall’articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, modificato dai decreti legge 66 e 90 del 2014.
È ormai assodato che gli obblighi riguardano l'intero processo gestionale e non solo la fase di gara, nonostante alcune rilevanti perplessità sulla centralizzazione integrale dell'affidamento dei servizi pubblici e delle nuove opere, prestazioni poco standardizzabili e bisognose di competenze specialistiche non sempre disponibili nelle centrali uniche; per queste fattispecie si potrebbero utilizzare semmai le forme di “committenza ausiliaria” previste dalla Direttiva 24/2014/UE.
Ma il nodo essenziale riguarda le spese in economia. In base alla disciplina in esame, i Comuni con più di 10mila abitanti possono procedere autonomamente agli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a 40mila euro; gli enti sotto soglia sono invece costretti a ricorrere alla Centrale Unica per ogni spesa (a parte quelle effettuate tramite economato).
La scelta rischia di rivelarsi iniqua e controproducente; non ha molto senso infatti “burocratizzare” le spese di importo limitato, come la sostituzione di una finestra rotta nelle scuole, che un ente potrebbe effettuare rapidamente in base all'articolo 125 del Codice dei contratti. In questi casi il costo della centralizzazione supera ogni possibile economia di scala e -a ben vedere- mette a repentaglio la condivisione stessa del disegno riformatore generale.
Sarebbe utile quindi esentare tutti gli enti dall’obbligo di accentrare le spese d'importo inferiore a 40mila euro, oltre agli interventi di somma urgenza, per ragioni di efficienza e di snellimento amministrativo. Ciò alla luce anche della Direttiva 2014/24/UE, che pur implementando il percorso per la centralizzazione degli acquisti precisa al considerando 59: «l’aggregazione e la centralizzazione delle committenze dovrebbero essere attentamente monitorate per evitare un’eccessiva concentrazione del potere d’acquisto e collusioni, nonché di preservare la trasparenza e la concorrenza e la possibilità di accesso al mercato per le Pmi».
Senza una deroga del genere, i Comuni fino a 10mila abitanti si troverebbero ancora una volta in uno stato di totale paralisi (come è accaduto già nel luglio scorso). Proprio per l’importanza degli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, è necessario che vengano adottati per tempo gli opportuni correttivi anziché l'ennesima proroga di fine anno
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2014).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, ha efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765.
Ne consegue che, poiché il citato art. 9 dispone l’inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati –in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici– a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.

2.1. – Il secondo motivo censura la sentenza la quale –dopo avere formulato considerazioni fuorvianti sulla presunta ripartizione delle distanze ritenuta dal tribunale– aveva erroneamente escluso l’applicazione del d.m. n. 1444 del 1968 le cui disposizioni trovano applicazione anche quando il regolamento edilizio, di cui il Comune si sia successivamente dotato, non sia conforme alle relative prescrizioni.
Nella specie, prima della delibera consiliare n. 417 del 1979, con la quale aveva recepito le disposizioni di cui al d.m. n. 1444 del 1968, il Comune si era dotato del piano regolatore generale, che era stato approvato con decreto del Ministro lavori pubblici del 1971, con l’effetto che, se anche in esso non era previsto il distacco di metri dieci, lo stesso doveva ritenersi automaticamente inserito.
2.2. - Il motivo è fondato In tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, ha efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765; ne consegue che, poiché il citato art. 9 dispone l’inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati –in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici– a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.
Nella specie, può ritenersi pacifico che il regolamento vigente al momento della costruzione realizzata dai convenuti era stato adottato nel 1967 (prima dell’entrata in vigore del decreto del 1968) ma venne approvato nel 1971.
Orbene, al fine di stabilire se lo stesso dovesse osservare le prescrizioni di cui al citato decreto ministeriale e se dovessero prevalere le disposizioni di quest’ultimo in caso di contrasto, va considerata la natura del procedimento di formazione dello strumento urbanistico, che è un atto complesso, il quale si conclude con l’approvazione da parte dell’organo di controllo di guisa che, prima di tale atto, esso è improduttivo di effetti. Ne consegue che la circostanza che lo stesso fosse stata adottato in data anteriore al decreto n. 1444 del 1968 è irrilevante, posto che la normativa alla quale esso doveva conformarsi era quella vigente al momento della sua approvazione.
Pertanto, la sentenza ha erroneamente ritenuto che, essendo il regolamento locale preesistente all’entrata in vigore del d.m. n. 1444 del 1968, non trovassero applicazioni le più restrittive norme in materia di distanze tra fabbricati previste dal suddetto decreto (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.11.2014 n. 24013 - link a http://renatodisa.com).

PUBBLICO IMPIEGO: In caso di uso indebito, per scopi personali, dell’utenza telefonica di cui il pubblico ufficiale abbia la disponibilità per ragioni d’ufficio, ciascuna telefonata compiuta con l’apparecchio di servizio integra un’autonoma condotta di peculato d’uso, rispetto alla quale dovrà dunque essere compiuta la verifica di offensività e, quindi, di rilevanza penale del fatto; ciò salvo che, per l’unitario contesto spaziotemporale, le plurime chiamate non possano ritenersi integrare un’unica ed indivisibile condotta.
È invero connaturale alla fattispecie di peculato d’uso che l’agente agisca all’esclusivo fine di fare un uso momentaneo della cosa e che questa, dopo l’uso, sia stata immediatamente restituita. L’elemento della “fisica” sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione non è essenziale, in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal legislatore, di tal che il peculato d’uso risulta configurabile anche nel caso in cui l’apparecchio non esca mai dalla materiale disponibilità della pubblica amministrazione e, nondimeno, il telefono assegnatogli per le esigenze dell’ufficio sia utilizzato dal pubblico agente per fini personali.
Tuttavia, proprio la struttura della fattispecie del peculato d’uso, presupponendo l’uso momentaneo, è inconciliabile con un uso prolungato della cosa altrui.

1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
2. A prescindere dalla inammissibilità delle deduzioni in fatto compiute dal difensore (laddove ha elencato le telefonate compiute dalla ricorrente verso la (…), cioè quelle che secondo l’ipotesi d’accusa dovrebbero essere le più costose, indicandone l’ammontare complessivo di 20 Euro circa, ed ha sollecitato una rivalutazione delle emergenze processuali, improponibile nella sede di legittimità), ritiene il Collegio che la sentenza in verifica non sia adeguatamente motivata, ed anzi si appalesi generica ed assertiva, nella parte in cui ha ritenuto che la condotta delittuosa serbata da B.L. abbia cagionato un apprezzabile danno alla pubblica amministrazione.
Al riguardo, occorre premettere che, come questa Corte ha avuto modo di chiarire pronunciandosi a Sezioni Unite, in tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei casi d’urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative (Cass. Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, Vattani e altro, Rv. 255296).
Nella diffusa motivazione della citata pronuncia, si è in particolare evidenziato che “non può non rilevarsi, giusta quanto già segnalato nell’analisi generale del peculato (ma la sottolineatura è qui particolarmente doverosa), che il raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l’offensività del fatto, che, nel caso del peculato d’uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a. o di terzi ovvero con una concreta lesione della funzionalità dell’ufficio: eventualità quest’ultima che potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo nelle situazioni regolate da contratto c.d. “tutto incluso”. L’uso del telefono d’ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo, deve considerarsi, quindi (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dall’art. 10, comma 3, del d.m. 28.11.2000, o di eventuali specifiche e legittime autorizzazioni), penalmente irrilevante. Considerata, poi, la struttura del peculato d’uso (che implica l’immediata restituzione della cosa), la valutazione in discorso non può che essere riferita alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l’unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile”.
3. Ritiene il Collegio che la Corte territoriale non abbia fatto buon governo dei principi affermati da questa Corte a Sezioni Unite, laddove non ha proceduto ad una commisurazione puntuale del danno economico cagionato alla pubblica amministrazione, così da poter affermare che la condotta abbia superato la soglia di rilevanza penale. In particolare, il giudice di secondo grado non ha verificato se l’utilizzo da parte dell’imputata del telefono presente nel suo alloggio di servizio abbia cagionato un apprezzabile danno al patrimonio della p.a., non ricorrendo, nella specie, i presupposti per ravvisare una concreta lesione della funzionalità dell’ufficio (stante la plurioffensività alternativa del delitto di peculato ribadita anche dalle Sezioni Unite), in quanto si trattava di situazione regolata da contratto “a consumo” e non “tutto incluso”.
Ed invero, pur a fronte di una specifica doglianza mossa con l’atto d’appello, la Corte territoriale si è limitata ad osservare sul punto che “È dunque da considerare certo che, nell’unitario spazio temporale preso in considerazione, che per il costante plurimo utilizzo giornaliero fatto del telefono di servizi a fini privati, non può che essere individuato in tutto il periodo preso in considerazione, l’appellante abbia comunque procurato un danno economico stimabile in varie decine di Euro, che, ovviamente, non può essere considerato trascurabile e, comunque, stimabile al di sotto della soglia minima di rilevanza penale”.
Tale passo della motivazione si appalesa censurabile sotto un triplice profilo.
3.1. Sotto un primo aspetto, la Corte territoriale si è limitata ad affermare che il danno procurato alla amministrazione è “stimabile in varie decine di Euro” e, “ovviamente, non può essere considerato trascurabile”, senza, in effetti, quantificarne in modo esatto l’ammontare, così da consentire –anche in questa sede di legittimità– la verifica in ordine alla correttezza della valutazione in termini di non irrilevanza del danno cagionato e, quindi, di obbiettiva offensività del fatto.
3.2. Sotto diverso e più rilevante profilo, va evidenziato come la Corte abbia proceduto alla commisurazione del danno economico cagionato alla pubblica amministrazione nell’intero ed unitario spazio temporale preso in considerazione, cioè dall’ottobre 2007 al maggio 2008 (come dato atto alle pagine 7 e 9 della impugnata sentenza), e ciò tenuto conto del “costante plurimo utilizzo giornaliero fatto del telefono di servizio a fini privati”.
Il che si pone –almeno per come è stato argomentato nella decisione in verifica– in evidente contrasto con le chiare indicazioni di questa Suprema Corte a Sezioni Unite, che al riguardo hanno evidenziato che la struttura del peculato d’uso, che implica l’immediata restituzione della cosa, impone la valutazione del danno economico cagionato alla pubblica amministrazione come “riferita alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l’unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile”.
In altri termini, secondo l’insegnamento dato dalle Sezioni Unite, in caso di uso indebito, per scopi personali, dell’utenza telefonica di cui il pubblico ufficiale abbia la disponibilità per ragioni d’ufficio, ciascuna telefonata compiuta con l’apparecchio di servizio integra un’autonoma condotta di peculato d’uso, rispetto alla quale dovrà dunque essere compiuta la verifica di offensività e, quindi, di rilevanza penale del fatto; ciò salvo che, per l’unitario contesto spaziotemporale, le plurime chiamate non possano ritenersi integrare un’unica ed indivisibile condotta.
È invero connaturale alla fattispecie di peculato d’uso che l’agente agisca all’esclusivo fine di fare un uso momentaneo della cosa e che questa, dopo l’uso, sia stata immediatamente restituita. Come chiarito dalle Sezioni Unite nella già ricordata sentenza, l’elemento della “fisica” sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione non è essenziale, in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal legislatore, di tal che il peculato d’uso risulta configurabile anche nel caso in cui l’apparecchio non esca mai dalla materiale disponibilità della pubblica amministrazione e, nondimeno, il telefono assegnatogli per le esigenze dell’ufficio sia utilizzato dal pubblico agente per fini personali. Tuttavia, proprio la struttura della fattispecie del peculato d’uso, presupponendo l’uso momentaneo, è inconciliabile con un uso prolungato della cosa altrui (Cass. Sez. 6, n. 1862 del 20/10/1992, Riggio Rv. 193529).
Cercando di esemplificare, potrà allora ravvisarsi un’unitaria condotta di peculato d’uso allorché le plurime telefonate siano state compiute nello stesso giorno o in un arco temporale ristretto o ancora se, pur in un intervallo più ampio, l’utilizzo dell’apparecchio di servizio da parte dell’agente sia così intenso e senza soluzioni di continuità da poter considerare le diverse chiamate, in quanto cosi ravvicinate nel tempo, espressione di una condotta unitaria.
3.3. In ossequio a tali condivisibili principi, la Corte siciliana avrebbe pertanto dovuto argomentare, in modo puntuale e con specifico ancoraggio alle risultanze obbiettive del traffico telefonico fornito dal gestore, la ragione per la quale –sebbene, in linea generale, debbano ritenersi consumate tante condotte di peculato d’uso quante sono le telefonate fatte dall’agente con l’apparecchio di servizio– nel caso specifico, stante l’unitario contesto spazio-temporale, le diverse chiamate effettuate dall’imputata dovessero stimarsi integrare un’unica ed inscindibile condotta.
Onere argomentativo che non può ritenersi assolto in modo adeguato mediante l’apodittica e del tutto generica asserzione fatta sul punto dalla Corte territoriale, laddove ha commisurato il danno economico procurato alla pubblica amministrazione (ritenendolo appunto non trascurabile e quindi rilevante ai fini della integrazione del reato) “nell’unitario spazio temporale preso in considerazione” “per il costante plurimo utilizzo giornaliero fatto del telefono di servizi a fini privati”.
Il giudice d’appello avrebbe, infatti, dovuto rigorosamente: 1) verificare, lasciandone circostanziata traccia argomentativa nel provvedimento, se, nel lasso temporale di nove mesi sotto lente, potesse ravvisarsi, in taluni giorni o periodi, una concentrazione di chiamate tale da consentirne una valutazione unitaria; 2) accertare quale danno economico tali “grappoli” di conversazioni telefoniche integranti peculato d’uso avessero cagionato all’amministrazione; 3) evidenziare se le condotte così unitariamente considerate superassero la soglia di rilevanza penale.
4. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo perché proceda ad un nuovo giudizio, tenendo conto dei principi e criteri valutativi sopra precisati (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 10.11.2014 n. 46282 - link a http://renatodisa.com).

CONDOMINIO: Il parcheggio di autovetture costituisce manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo, non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, del quale difetta la realitas, intesa come inerenza al fondo dominante dell’utilità, così come al fondo servente del peso, mentre la mera commoditas di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale dei proprietari.
Con il primo motivo la società ricorrente deduce sostanzialmente che i giudici di merito hanno riconosciuto a favore della attrice una servitù di parcheggio che, invece, secondo la costante giurisprudenza di questa S.C. non è configurabile.
La doglianza è fondata.
Questa S.C., infatti, ha anche di recente avuto occasione di affermare che il parcheggio di autovetture costituisce manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo, non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, del quale difetta la realitas, intesa come inerenza al fondo dominante dell’utilità, così come al fondo servente del peso (sent. 07.03.2013 n. 5760), mentre la mera commoditas di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale dei proprietari (sent. 28.04.2004 n. 8137)..
Ne consegue che sia che si voglia ritenere che nella specie non rileva accertare se la Corte di appello nella sua confusa motivazione ha inteso affermare che le parti con il contratto in data 21.08.1990 avevano dato vita ad un riconoscimento di una servitù già esistente oppure che avevano costituito una servitù a favore di terzo, essendo in entrambi i casi nulla la volontà negoziale per impossibilità dell’oggetto. Tale nullità, poi, poteva essere dedotta per la prima volta anche in questa sede ai sensi dell’art. 1421 cod. civ.
Vengono ad essere assorbiti il secondo ed il terzo motivo, con i quali la società ricorrente censura la motivazione con la quale la Corte di appello ha ritenuto che nella specie le parti, nel citato contratto del 21.08.1990 avevano inteso riconoscere una servitù già esistente oppure costituire una servitù a favore di terzo (come già osservato non si comprende a quale delle due possibilità i giudici di secondo grado abbiano inteso riferirsi.
In considerazione della nullità per impossibilità dell’oggetto dell’atto di riconoscimento o di costituzione di servitù, non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, questa S.C., ritiene di poter decidere la causa nel merito con il rigetto della domanda.
In considerazione del fatto che, da un lato, la nullità di cui sopra risulta dedotta per la prima volta in questa sede e non è stata rilevata di ufficio nei precedenti gradii di giudizio, ritiene il collegio di compensare le spese dell’intero giudizio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 06.11.2014 n. 23708 - link a http://renatodisa.com)

EDILIZIA PRIVATA: Se la costruzione non rispetta la distanza legale e il vicino fa causa il progettista paga i danni che il suo cliente subisce.
La Corte d’Appello di Venezia stabilisce che
sussiste la responsabilità professionale del progettista e/o direttore lavori se le opere realizzate non sono conformi alla diposizioni legislative /o comunali in materia di distanze e il vicino vince una causa per la demolizione. In queste casi, infatti, il cliente ha diritto di essere tenute indenne dal professionista di tutte le spese (processuali e non) collegate alla realizzazione dell’opera abusiva, salvo che il professionista abbia agito come mero esecutore degli ordini impartiti (nudus minister) ovvero il cliente abbia mantenuto un costante controllo (di fatto e/o tecnico) sulla realizzazione del manufatto.
Nella sentenza 04.11.2014 n. 2430 si legge: “secondo risalente, ma condivisibile giurisprudenza di legittimità, il fatto illecito, consistente nella realizzazione di un edificio in violazione delle distanze legali dal fondo del vicino, deve ritenersi legato da nesso causale con il comportamento del professionista, che abbia predisposto il progetto e diretto i lavori, al fine dell’obbligo di quest’ultimo di rivalere il committente delle conseguenze della sua responsabilità verso il proprietario di quel fondo, qualora quella irregolare ubicazione del fabbricato sia conforme al progetto, e non sia stata impedita dal professionista medesimo in sede di direzione dei lavori. (Cass. n. 5699 del 03/11/1979)” ed ancora che: “va osservato che in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale il cliente non può imputare alcunché al professionista, progettista e direttore dei lavori, quando è stato lui stesso a chiedere la progettazione in un determinato modo e quando, essendo nella possibilità di controllare agevolmente il rispetto delle più comuni norme di legge e di regolamentari in tema di distanze, ha accettato, facendo acquiescenza al comportamento del professionista stesso, il rischio di una lite con il vicino confinante (Cass. n. 5296 del 07/12/1977).
Nessuna delle ipotesi di esonero da responsabilità, quali sopra evidenziate, sono ravvisabili nel caso di specie.
Va, invero, escluso che …. fosse in grado di controllare in modo agevole il rispetto della normativa in materia di distanze: nella specie non si trattava di un mero controllo di fatto, ma anche di valutazioni di carattere giuridico, delle quali lo … non poteva avere competenza. Che il mancato rispetto delle predette distanze non fosse, poi, così facilmente rilevabile emerge con tutta evidenza se solo si consideri che la decisione di primo grado è stata ribaltata nella presente sede di appello.
Va, altresì, escluso che lo … avesse chiesto che la progettazione avvenisse in un certo modo. Anzi, dall’espleta istruttoria orale di primo grado è emerso che: il geom. … aveva curato la progettazione e la direzione lavori di altra parte del medesimo immobile, colpita da provvedimento giudiziale di abbattimento; che per tale ragione; al momento del conferimento dell’incarico relativamente all’immobile per cui è causa, al geom. … fu ricordata più volte la precedente vicenda che si concluse con il parziale abbattimento; che quindi lo … si raccomandò più volte al geom. … di curare la ristrutturazione con particolare riguardo e attenzione al fatto che si evitasse il ripetersi di situazioni simili; che il geom. … assicurò e garantì più volte che il progetto e l’esecuzione dell’opera sarebbero stati eseguiti in modo inattaccabile sia sotto il profilo urbanistico che civilistico (testi …).
Conseguentemente il … va condannato al risarcimento in favore dello … dei danni dallo stesso patiti e come accertati, consistenti nei costi da sostenersi per la demolizione delle opere realizzate in contrasto con la normativa sulle distanze dai confini e per la ricostruzione a norma di legge
” (tratto da e link a http://venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATALa sopraelevazione costituisce una nuova costruzione.
La Corte d’Appello di Venezia conferma che
la sopraelevazione costituisce una nuova costruzione e, dunque, deve rispettare la distanza dai confini prevista dall’art. 873 c.c. o quella maggiore prevista dai regolamenti comunali.
Nella sentenza 04.11.2014 n. 2430: “va premesso che nell’ambito delle opere edilizie la semplice “ristrutturazione” si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistono e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la “ricostruzione” allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanza vigente al momento della medesima (Cass. Sez. Un., ord. n. 21578 del 19/10/2011).
Si è, infatti, precisato che in tema di opere edilizie, qualora siano venute meno, per eventi naturali o per demolizione, le preesistenti strutture edilizie, di ha “mera ricostruzione” se l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro; in presenza di tali aumento, si verte, invece, in ipotesi di “ nuove costruzioni”, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima (Cass. n. 3391 del 11/02/2009).
D’altro canto è pacifico in giurisprudenza che in tema di rispetto della distanza legali dalle costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è sempre qualificabile come nuova costruzione (per tutte si veda Cass. Sez. Un. 74 del 03/01/2011)”, nonché: “dovendosi qualificare l’intervento di nuova costruzione, ad esso è, pertanto, applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio di priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione (Cass. Sez. Un. n. 74 del 03/01/2011, citata)”.
Nessuna circostanza può rivestire il fatto che la sopraelevazione costituisca un volume tecnico perché: “diverso è il concetto di volume edificabile ai fini urbanistici e di nuova costruzione: il fatto che un sottotetto di una determinata altezza non sia computato nel volume edificabile, non per ciò solo va escluso che si tratti di costruzione, laddove abbia le caratteristiche sopra evidenziate. D’altro canto la ratio delle norme regolamentari che impongono determinate distanze dai confine per le costruzioni è quella di evitare che determinate zone cittadine siano densamente costruite e, per contro, che nella stesse zone le costruzioni siano isolate dai confini del filo stradale e tra loro mediante gli spazi previsti
” (tratto da e link a http://venetoius.it).

VARICondanna per chi non tiene puliti i cani. Animali. Sanzionate anche le emissioni di rumore.
È un reato non impedire le esalazioni maleodoranti provenienti dalle gabbie in cui sono tenuti alcuni cani, arrecando disturbo agli abitanti del condominio vicino.
Questa la decisione presa dalla Corte di cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 03.11.2014 n. 45230.
La vicenda si svolge in un condominio in cui i giudici di merito, anche a seguito di diversi sopralluoghi della Asl, accertavano la presenza dal settembre 2008 al luglio 2011 di cinque cani tenuti in gabbia, la cui incuria generava la violazione dei seguenti due reati a carico del proprietario: l'articolo 674 «Getto pericoloso di cose» (tra cui l'imbrattamento), per la pulizia non adeguata dei recinti, con conseguenti esalazioni maleodoranti; e l'articolo 659 «Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone» per il continuo abbaiare di giorno e di notte.
La Corte, per quanto riguarda il primo reato, ha specificato che in tema di «molestie olfattive», quando non esiste una predeterminazione normativa dei limiti delle emissioni, si fa riferimento alla normale tollerabilità disciplinata dall'articolo 844 del Codice civile. Sul reato di cui all'articolo 659, invece, ha chiarito che basta che la situazione sia «potenzialmente idonea» a danneggiare un «numero indeterminato di persone», anche se (come nel caso) il condominio nel suo complesso non aveva intrapreso azioni giudiziarie
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di sospensione dei lavori ha natura di provvedimento cautelare e provvisorio, inteso ad evitare che l'attività costruttiva abusivamente condotta possa essere portata ad ulteriori conseguenze e ha efficacia temporalmente limitata, spirando al decorso del quarantacinquesimo giorno dalla sua adozione: e ciò sia che venga soppiantata dal provvedimento definitivo di demolizione, sia che quest'ultimo non venga adottato.
In ambedue i casi, infatti, l'ordinanza di sospensione dei lavori consuma la sua efficacia e l'eventuale sua impugnazione, quand’anche proposta prima del decorso dei quarantacinque giorni dalla sua notificazione, diviene improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse a motivo della postuma perdita di effetti dell'ordinanza stessa.

L'ordinanza di sospensione dei lavori, secondo l’orientamento della prevalente giurisprudenza, “ha natura di provvedimento cautelare e provvisorio, inteso ad evitare che l'attività costruttiva abusivamente condotta possa essere portata ad ulteriori conseguenze e ha efficacia temporalmente limitata, spirando al decorso del quarantacinquesimo giorno dalla sua adozione: e ciò sia che venga soppiantata dal provvedimento definitivo di demolizione, sia che quest'ultimo non venga adottato. In ambedue i casi, infatti, l'ordinanza di sospensione dei lavori consuma la sua efficacia e l'eventuale sua impugnazione, quand’anche proposta prima del decorso dei quarantacinque giorni dalla sua notificazione, diviene improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse a motivo della postuma perdita di effetti dell'ordinanza stessa” (cfr. TAR Lazio, Sez. I-quater, 02.05.2013, n. 4373; TAR Puglia Bari, sez. III, sent. n. 269 del 19.02.2014).
La sopravvenuta carenza di interesse al ricorso va pronunciata non solo nel caso di perdita di efficacia dell'ordinanza di sospensione dei lavori per mero decorso del termine finale di efficacia della stessa, ma anche per il caso in cui la perdita di efficacia dell'ordinanza di sospensione consegua non già alla mera inerzia provvedimentale dell'Ente locale, bensì all'emanazione dell'ordinanza di demolizione definitiva, in aderenza alla sequenza procedimentale delineata dagli artt. 27 e 31, D.P.R. n. 380 del 2001
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 29.10.2014 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il presupposto essenziale per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi edilizi, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, è che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione, relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale.
Ne consegue che il termine per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia carente della documentazione prevista dalla legge.
Occorre, in altri termini, che l'amministrazione procedente sia posta in condizioni di esaminare compiutamente la domanda, in quanto integrata la documentazione necessaria richiesta ex lege all'interessato dall'amministrazione.

In base al costante indirizzo giurisprudenziale, il presupposto essenziale per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi edilizi, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, è che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione, relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale (cfr. ex multis Consiglio Stato, sez. IV, 16.02.2011, n. 1005; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2010 n. 4174; TAR Lombardia Milano,sent. n. 127 del 22.01.2010).
Ne consegue che il termine per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia carente della documentazione prevista dalla legge (cfr. TAR Basilicata, sez. I, sent. n. 552, del 22.08.2014; TAR Trentino Alto Adige Trento, sent. n. 4 del 07.01.2010).
Occorre, in altri termini, che l'amministrazione procedente sia posta in condizioni di esaminare compiutamente la domanda, in quanto integrata la documentazione necessaria richiesta ex lege all'interessato dall'amministrazione (cfr. TAR Lazio Latina, 03.03.2010 n. 204; TAR Puglia, Lecce, sez. III, sent. n. 16 del 10.01.2012)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 29.10.2014 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I vincoli di inedificabilità sopravvenuti alla realizzazione dell'intervento edilizio non sono privi di rilevanza, ma costituiscono comunque vincoli relativi ai sensi dell'art. 32 della l. n. 47 del 1985, che impongono in ogni caso un apprezzamento concreto di compatibilità.
In ogni caso, il Collegio richiama l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i vincoli di inedificabilità sopravvenuti alla realizzazione dell'intervento edilizio non sono privi di rilevanza, ma costituiscono comunque vincoli relativi ai sensi dell'art. 32 della l. n. 47 del 1985, che impongono in ogni caso un apprezzamento concreto di compatibilità (Cons. St., Sez. IV, 04.12.2012, n. 2576)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 29.10.2014 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La visita allo studio di un avvocato per sottoporgli un atto di citazione fa scattare il diritto alla parcella anche se poi il cliente decide di non affidargli l’incarico di difesa in giudizio.
- Rilevato che il Consigliere designato, Dott. A. Scalisi, ha depositato ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c., la seguente proposta di definizione del giudizio: “Preso atto che La società (OMISSIS) srl proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo 752/2008 emesso dal Giudice di Pace di Pisa con il quale veniva ingiunta alla società (OMISSIS) la somma di euro 738,20 oltre interessi e spese per prestazioni professionali asseritamente fornite alla ricorrente. La società (OMISSIS) chiedeva la revoca del DI. in quanto contestava che all’avv. (OMISSIS) fosse mai stato conferito alcun mandato professionale ne’ che mai la stessa avesse effettuato prestazioni professionali in favore della stessa.
Il Giudice di Pace, con sentenza n. 2305/2009 rigettava l’opposizione.
Avverso tale sentenza proponeva appello la società (OMISSIS) srl lamentando essenzialmente l’erroneità e la contraddittorietà della motivazione per aver ritenuto come provato l’incarico professionale all’avvocato (OMISSIS) da parte del legale rappresentante della società (OMISSIS).
Il Tribunale di Pisa con sentenza n. n. 863 del 2012, rigettava l’appello e confermava la sentenza impugnata. Secondo il Tribunale di Pisa la decisione del Giudice di Pace andava confermata posto che era stato evidenziato come alcuni incaricati della (OMISSIS) in data 05.07.2004 si recarono presso lo studio del legale (OMISSIS) al fine di far esaminare allo stesso un atto di citazione per una causa già pendente dinnanzi al Tribunale di Pisa.
Successivamente seguiva una missiva da parte del legale alla (OMISSIS) srl con la quale l’avvocato (OMISSIS) invitava la società a prendere contatti con lo studio legale al fine di formalizzare l’incarico professionale.
Per quanto, poi, non sia effettivamente seguito il conferimento formale dell’incarico non vi era dubbio che il professionista aveva impegnato il proprio tempo e le proprie competenze professionali.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dalla società (OMISSIS) con ricorso affidato a due motivi. L’avv. (OMISSIS) in questa fase non ha svolto attività giudiziale.
Considerato che:
1.- La società Immobiliare srl lamenta:
a) Con il primo motivo la violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c., e dell’articolo 360, n. 3, per vizio di ultra petizione su fatto controverso e decisivo.
Secondo la ricorrente il Tribunale di Pisa non avrebbe tenuto presente che la stessa attrice aveva dichiarato di avere svolta solamente attività prodromica all’incarico chiedendo poi compenso per attività giudiziale che non si mai effettuata.
b) Con il secondo motivo la violazione dell’articolo 360, n. 5, per omesso esame circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Secondo la ricorrente il Tribunale di Pisa non avrebbe prestato alcuna attenzione alle diverse prospettazioni fatte dall’avv. (OMISSIS) omettendo un accurato esame delle diverse ricostruzioni della stessa, in particolare sul fatto controverso dell’affidamento dell’incarico dell’accettazione dello stesso e dell’attività che nel caso di avvenuta accettazione non risulta sia stata svolta dalla controparte.
1.1.- Entrambi i motivi, che vanno esaminati congiuntamente per l’innegabile connessione che esiste tra gli stessi, sono infondati e non solo perché si risolvono nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle risultanze istruttorie non proponibile nel giudizio di legittimità se, come nel caso in esame, la valutazione effettuata dal Giudice del merito non presenta vizi logici o giuridici, ma, anche perché il Tribunale non ha omesso di valutare tutti i dati e/o, comunque, i dati essenziali, acquisiti agli atti del giudizio. In particolare il Giudice di Pace prima e il Tribunale dopo hanno avuto modo di chiarire che in data 05.07.2004 incaricati della (OMISSIS) si recavano presso lo studio del legale (OMISSIS) al fine di fare esaminare un atto di citazione per una causa già pendete dinanzi al Tribunale di Pisa. E, di più, il Tribunale ha avuto modo di chiarire che non si trattò di un mero colloquio informativo ma vennero sottoposti all’attenzione del legale atti giudiziali ancora in possesso in copia dell’Avvocato (OMISSIS) e prodotti in giudizio, al fine di ottenere un parere ed in vista di un futuro mandato professionale. Emerge con chiarezza, dunque, la sussistenza di un rapporto professionale tra la società (OMISSIS) e il legale (OMISSIS) e il conferimento di un incarico, dalla società (OMISSIS) al legale (OMISSIS), avente ad oggetto un parere professionale in merito ad una causa già pendente presso il Tribunale di Pisa.
Pertanto correttamente il Tribunale ha ritenuto che il professionista avendo impegnato il proprio tempo e le proprie competenze professionali andava compensato secondo il tariffario forense.
In definitiva, si propone il rigetto del ricorso
";
- Tale relazione veniva comunicata al PM ed ai difensori delle parti costituite.
- Il Collegio, condivide argomenti e proposte contenute nella relazione ex articolo 380-bis c.p.c., alla quale non sono stati mossi rilievi critici. Evidenzia, altresì, che il ricorso difetta, comunque, di autosufficienza dato che il ricorrente, pur facendo riferimento ad una prova testimoniale ha omesso di indicare i capitoli di prova non ammessi funzionali alla dimostrazione della propria difesa.
- In definitiva, il ricorso va rigettato: Non occorre provvedere alla liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione dato che l’avv. (OMISSIS), regolarmente intimato, in questa fase non ha svolto attività giudiziale.
- Il Collegio, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 27.10.2014 n. 22737 - link a http://renatodisa.com)

ENTI LOCALI  -VARICompiti vigili. No avvisi? La multa si straccia.
Se il vigile non avverte l'interessato della facoltà di farsi assistere dal difensore prima dell'effettuazione dell'alcoltest e non lo indica nel verbale il conseguente decreto penale di condanna rischia di diventare carta straccia.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con l'ordinanza 21.10.2014 n. 43847 che ha rinviato alle sezioni unite la decisione finale.
Un automobilista condannato con decreto penale per guida alterata dall'alcol ha proposto con successo opposizione al tribunale evidenziando la lacuna formale realizzata dagli organi di vigilanza che al momento del controllo non lo hanno informato della facoltà di farsi assistere da un legale.
Contro questa decisione la procura ha avanzato censure ai giudici del Palazzaccio. L'omesso avviso all'indagato per guida alterata della facoltà di farsi assistere da un difensore configura una nullità a regime intermedio, facilmente sanabile se non eccepita tempestivamente.
Sul punto esistono però due distinti orientamenti, specifica il collegio. Il primo, più restrittivo, comporta la necessità di sollevare l'eccezione molto velocemente ai sensi dell'art. 121 cpp..
Il secondo invece giunge all'opposta conclusione di considerare tempestiva l'eccezione di nullità sollevata con il primo atto procedimentale utile che spesso coincide anche con l'opposizione al decreto penale di condanna. Spetterà alle sezioni unite chiarire definitivamente la questione (articolo ItaliaOggi Sette del 03.11.2014).

TRIBUTITassato l'annuncio immobiliare. Il cartello in vetrina non è pari ai prodotti sugli scaffali. La Corte di cassazione: agenzie di mediazione soggette all'imposta sulla pubblicità.
Gli annunci immobiliari esposti nelle agenzie costituiscono pubblicità a tutti gli effetti e, quindi, scontano l'applicazione della relativa imposta comunale. Una nuova tegola si abbatte sui mediatori immobiliari in un periodo non certo facile per il settore.

La Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con ordinanza 16.10.2014 n. 21966, ha infatti stabilito, in maniera per certi versi sorprendente, che i mediatori siano costretti a versare al comune l'imposta sulla pubblicità ogni volta che, come di regola avviene, espongano sulla propria vetrina i cartelli reclamizzanti gli immobili in vendita e/o in locazione.
Il caso in questione nasce dall'annullamento concesso dalla Commissione tributaria provinciale di un avviso di accertamento emesso dal comune di Verona nei confronti del titolare di un'agenzia immobiliare.
Nella specie l'ente locale pretendeva, infatti, di assoggettare all'imposta comunale di pubblicità i cartelli esposti sulle vetrine del mediatore e che raffiguravano gli immobili in vendita con la relativa descrizione. Il contribuente aveva prontamente impugnato l'atto impositivo e in primo grado il giudice tributario aveva accolto le sue ragioni. Lo stesso era avvenuto in appello, in quanto la Commissione tributaria regionale del Veneto aveva confermato la decisione di prime cure, ritenendo che la vetrina di un'agenzia immobiliare, così come lo scaffale di un qualsiasi esercizio commerciale, avrebbe semplicemente lo scopo di esporre i prodotti offerti al pubblico. Di conseguenza il cartoncino contenente il logo dell'agenzia, nonché le foto e la descrizione dell'immobile, non integrerebbe un vero e proprio messaggio pubblicitario.
Di qui il ricorso in Cassazione dell'amministrazione comunale che, del tutto in disaccordo con il giudice tributario, riteneva che i cartelli solitamente affissi nelle agenzie immobiliari non possano affatto essere parificati ai prodotti trattati dagli esercizi commerciali, ma costituiscano delle vere e proprie réclame pubblicitarie, come tali assoggettabili all'imposta locale. Occorre dire che la pervicacia dimostrata dal comune di Verona ha avuto successo perché, come detto, la Suprema corte, ribaltando i precedenti gradi di giudizio, ha stabilito proprio questo principio, che ora probabilmente non farà dormire sonni tranquilli ai titolari delle agenzie immobiliari.
La Cassazione, infatti, ha ritenuto addirittura fuorviante, benché suggestiva, l'equiparazione del cartello al prodotto del commercio al dettaglio perché nel primo caso, a differenza del secondo, il bene esposto in vetrina e offerto in vendita/locazione al pubblico non è presente fisicamente nei locali nei quali viene esercitata l'attività di mediazione ma, appunto, viene semplicemente descritto attraverso immagini e testi. Ciò posto, secondo i supremi giudici, non si può allora che ritenere che i cartelli delle agenzie immobiliari costituiscano dei messaggi pubblicitari, visto che il presupposto per l'applicazione della relativa imposta, ai sensi dell'art. 5 del dlgs n. 507/1993, è la «diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile». Per la Suprema corte è dunque innegabile che l'esposizione in vetrina di un cartello contenente la descrizione di un immobile offerto in vendita o in locazione abbia lo scopo di promuovere l'attività del mediatore immobiliare finalizzata alla conclusione dell'affare e costituisca, dunque, un messaggio pubblicitario.
I giudici di legittimità hanno operato anche un interessante distinguo, mettendo a confronto il caso dell'attività di mediazione svolta tradizionalmente in negozi con vetrine posti sul fronte della strada con quello dell'intermediazione esercitata in locali siti ai piani alti degli edifici, ospitata in veri e propri appartamenti (modalità alternativa di gestione dell'attività che, complice la crisi, sembra attualmente in fase di rilancio).
Ebbene, secondo la Suprema corte in questo secondo caso l'agente immobiliare che lavora ricevendo nel proprio ufficio i soggetti interessati all'acquisto o alla locazione di un immobile, ascoltando le loro esigenze e, quindi, illustrando loro le soluzioni che reputa più adatte, all'occorrenza mostrando loro le relative foto, non espone evidentemente alcun cartello pubblicitario e, quindi, non ricorre alcun presupposto impositivo.
Al contrario, invece, nell'agenzia sita al piano terra e munita di vetrine sulle quali sono affissi i vari annunci il titolare intende proprio pubblicizzare gli immobili in essi descritti al fine di promuovere fra il pubblico la richiesta dei suoi servizi di mediazione. In questo secondo caso, come detto, ci sarebbero quindi tutti i presupposti per l'applicazione dell'imposta comunale sulla pubblicità.
La Corte di cassazione è quindi stata chiamata a valutare se nella specie sussistessero i presupposti per l'esenzione dall'imposta di cui all'art. 17, lett. a) e b), del predetto dlgs n. 507/93. Si tratta di esenzioni previste per i meri avvisi al pubblico, dunque attinenti all'attività esercitata nei locali commerciali, a condizione che gli stessi nel loro insieme non superino la superficie complessiva di mezzo metro quadrato per ciascuna vetrina o ingresso. Anche in questo caso è stata però esclusa la ricorrenza delle predette ipotesi di esenzione. In effetti la finalità dei cartelli contenti la descrizione dell'immobile offerto in vendita o in locazione è cosa diversa da quella degli avvisi al pubblico contenenti informazioni sull'attività esercitata nei locali. Si pensi, per esempio, al cartello che riporti l'orario di apertura dell'esercizio commerciale, o a quelli che evidenzino la possibilità di utilizzare la carta di credito o il bancomat o, ancora, a quelli che indichino la presenza di un parcheggio convenzionato per i clienti oppure l'affiliazione ad associazioni di categoria ecc.
Alla stregua di tale principio, i cartelli contenenti la descrizione degli immobili intermediati dall'agenzia immobiliare non possono ricondursi alla nozione di avvisi al pubblico, perché essi svolgono, come sopra evidenziato, una funzione promozionale, ossia quella di attirare verso un immobile determinato l'attenzione di chi abbia interesse ad acquistarlo o condurlo in locazione.
I cartelli esposti nelle vetrine delle agenzie immobiliari, contenenti l'immagine fotografica o la scheda descrittiva degli immobili, vanno quindi considerati a tutti gli effetti dei mezzi pubblicitari, perché promuovono la vendita o la locazione degli immobili raffigurati e, quindi, pubblicizzano l'offerta dei servizi dell'agenzia che di tali immobili gestisce la mediazione.
In questi casi, in effetti, l'agenzia immobiliare gode dell'effetto promozionale generato dai cartelli in questione, anche indipendentemente dalla riproduzione, sugli stessi, del proprio logo e dei propri recapiti (articolo ItaliaOggi Sette del 03.11.2014).
---------------
MASSIMA
Agenzia immobiliare, vetrina, cartelli pubblicitari, imposta sulla pubblicità.
L'esposizione nella vetrina dei locali di un'agenzia immobiliare di cartelli contenenti fotografie e descrizioni degli immobili offerti in vendita o in locazione integra il presupposto impositivo dell'imposta di pubblicità, perché assolve alla funzione di pubblicizzare (anche senza l'adozione di modalità di rappresentazione di carattere reclamistico) tali immobili, ossia di promuoverne la vendita o la locazione e, quindi e contestualmente, di promuovere l'accesso del pubblico ai servizi di mediazione offerti dall'agenzia; ciò anche a prescindere dalla presenza, su detti cartelli, del logo e dei recapiti dell'agenzia, in quanto la promozione dell'attività di mediazione svolta dall'agenzia costituisce effetto immediato e diretto della promozione dell'affare la cui mediazione sia stata affidata all'agenzia (tratto da www.altalex.com).

APPALTIRicorsi da «girare» alle Centrali uniche. Contenzioso. Prime sentenze dai Tar.
L’articolo 33, comma 3-bis, del Dlgs 163/2006 impone ai Comuni non capoluogo di provincia l'acquisizione di lavori, beni e servizi nell’ambito delle unioni di Comuni, ove esistenti, oppure costituendo un accordo consortile (si ritiene: una convenzione ex articolo 30 del Tuel).
Si tratta tuttavia di un progetto destinato a produrre un drastico impatto per i Comuni -specie di minori dimensioni- che si trovano alle prese con carenze strutturali di organico, e un sovraccarico di procedure amministrative sempre più difficili da gestire. Il modello proposto è una chiara digressione rispetto al modello, che doveva essere solo facoltativo, di committenza centralizzata derivante dalla disciplina comunitaria (15° considerando della Direttiva 2004/18); nella previsione per gli enti locali, al contrario, la facoltà si trasforma in un obbligo.
Il legislatore statale incide sull’autonomia comunale, imponendo scelte organizzative i cui effetti non potranno che essere anche di natura sostanziale e non solo organizzativa; una conferma di ciò viene ora dal TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 16.10.2014 n. 721, per il quale è inammissibile un giudizio avente ad oggetto l’esclusione da una gara di appalto disposta da una Centrale unica di committenza, costituita da più Comuni, quando il ricorso sia stato notificato solo a un Comune facente parte della Centrale di committenza.
Secondo il Tar, i Comuni aderenti sono meri beneficiari della procedura espletata dalla Centrale di committenza: conseguentemente, mentre i risultati della gara sono imputati al Comuni, l’imputazione formale degli atti non può che ricadere sulla Centrale di committenza, contraddittore necessario, in quanto competente in via esclusiva all’indizione, regolazione e gestione della gara e responsabile della stessa (si veda Consiglio di Stato, n. 3639/2013 e 3402/2012).
Nel caso specifico la Centrale unica era stata costituita mediante convenzione ex articolo 30 del Tuel: osserva il Tar che «quand’anche la Centrale di committenza venga qualificata come modulo organizzativo e strumento di raccordo tra amministrazioni privo di una propria individualità e non centro formale di imputazione autonoma, la notifica del ricorso in sede giurisdizionale avverso gli atti di gara vanno notificati quantomeno “anche” alla centrale di committenza».
Il principio vale, a maggior ragione, per le Unioni di comuni (articolo 32 del Tuel) trattandosi di enti dotati di personalità giuridica
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIDopo il lodo il riesame è escluso.
Non può configurarsi come un comune appello avverso la pronuncia l'impugnazione di un lodo arbitrale, poiché esso è circoscritto al solo accertamento dell'illegittimità del lodo stesso, essendo precluso il riesame delle questioni di merito sottoposte agli arbitri.

Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. civile della Corte di Cassazione, Sez. I civile, con sentenza 15.10.2014 n. 21836.
L'arbitrato costituisce una sorta di strumento col quale le parti vanno a sottrarre al giudice ordinario la decisione circa una lite e la affidano agli arbitri, soggetti privati con lo specifico incarico delle parti stesse di esprimersi circa una controversia.
Ebbene: i supremi giudici si sono espressi su un caso in cui un collegio arbitrale, con lodo, dichiarava risolto un contratto di locazione per inadempimento del conduttore, e condannava lo stesso conduttore all'abbandono del locale.
Il conduttore ricorreva in Cassazione denunciando la falsa applicazione dell'art. 829 c.p.c. (casi di nullità), comma 2, dell'art. 1218 c.c. (responsabilità del debitore) e delle nome sulla risoluzione dei contratti, nonché l'insufficiente motivazione. I giudici di piazza Cavour dichiaravano il ricorso privo di fondamento, sottolineando come per consolidata giurisprudenza «la risoluzione di diritto ai sensi dell'art. 1456 c.c., postula non soltanto la sussistenza, ma anche l'imputabilità dell'inadempimento, in quanto la pattuizione di tale modalità di scioglimento del contratto rende superflua l'indagine in ordine all'importanza dell'inadempimento, ma non incide sugli altri principi che disciplinano l'istituto della risoluzione, né da luogo, in particolare, a un'ipotesi di responsabilità senza colpa, sicché, difettando il requisito della colpevolezza dell'inadempimento, la risoluzione non si verifica e non può dunque essere legittimamente dichiarata» (Cass., n. 2553/2007).
E inoltre, la stessa Corte ha ribadito che tale opposizione al lodo non si configura quale comune appello avverso la pronuncia arbitrale, ma è limitato alla verifica dell'illegittimità del lodo, restando precluso, nella fase rescindente, il riesame delle questioni di merito sottoposte agli arbitri (si veda: Cass., n. 13511/2007) (articolo ItaliaOggi Sette del 03.11.2014).
---------------
MASSIMA
L’oggetto del giudizio d’impugnazione del lodo, il quale non si configura come un comune appello avverso la pronuncia arbitrale, ma è limitato alla verifica dell’illegittimità del lodo, in relazione ai vizi previsti dall’art. 829 cit. e dedotti con i motivi d’impugnazione, restando precluso nella fase rescindente il riesame delle questioni di merito sottoposte agli arbitri, il cui apprezzamento è censurabile, ai sensi dell’art. 829 n. 5, soltanto nel caso in cui la motivazione sia completamente assente o risulti a tal punto carente da potersi ritenere insussistente il requisito di cui all’art. 823 n. 5 cod. proc. civ. (tratta da http://renatodisa.com).

CONDOMINIO: Valutazioni tecniche per installare i condizionatori. Sentenza sul decoro architettonico.
L’installazione dei condizionatori può pregiudicare il decoro architettonico degli edifici. Occorre quindi condurre una valutazione caso per caso per stabilire se sia o meno possibile procedere all’intervento.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 06.10.2014 n. 20985.
Nel caso in questione i giudici di legittimità si sono pronunciati sul ricorso presentato da alcuni condomini contro una sentenza che aveva loro imposto di provvedere alla rimozione degli impianti per il condizionamento posti sulla facciata esterna dell’edificio. I proprietari dell’appartamento avevano evidenziato ai giudici che nella specie non esisteva una soluzione tecnica alternativa e che quindi non era possibile allocare diversamente i macchinari. Inoltre, secondo i ricorrenti, gli impianti non pregiudicavano il decoro architettonico ed estetico dello stabile, anche perché gli stessi avevano ottenuto dal comune un provvedimento per la sanatoria delle opere in tal modo realizzate.
Il giudice del merito aveva al contrario ritenuto che l’inserimento di tali macchine sulla facciata dell’edificio avesse spezzato la soluzione di continuità del tetto e si sostanziasse in un utilizzo arbitrario della facciata comune. Sulla base delle foto allegate agli atti di causa si era anche ritenuto che non fosse stata dimostrata l’impossibilità tecnica di adottare soluzioni alternative per consentire ai proprietari dell’appartamento di dotarsi di un impianto di condizionamento.
La Cassazione, nel rilevare in via preliminare che già il fatto che fosse stata necessaria una sanatoria confermasse in qualche modo la natura pregiudizievole dell’installazione, ha quindi confermato la decisione di merito, ritenendo a sua volta che l’apposizione sulla facciata condominiale delle predette apparecchiature avesse comportato una evidente lesione al decoro architettonico dell’edificio, sia per la dimensione dei macchinari che per la loro collocazione.
Con la decisione in commento i supremi giudici hanno quindi chiarito che per valutare la legittimità delle innovazioni apportate a uno stabile condominiale in corrispondenza delle unità immobiliari di proprietà esclusiva è fondamentale una valutazione tecnica sull’inserimento armonico dei nuovi elementi costruttivi nel contesto architettonico dell’edificio (articolo ItaliaOggi Sette del 03.11.2014).
---------------
MASSIMA
Costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull'aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l'edificio e che la relativa valutazione spetta al giudice di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità ove non presenti vizi di motivazione (tratta da www.overlex.com).

TRIBUTI: I garage non dribblano la tassa rifiuti.
I garage sono soggetti al pagamento della tassa rifiuti, anche se in questi immobili i rifiuti vengono prodotti in quantità minore. Naturalmente, per lo stesso motivo sono sottoposti al prelievo anche autorimesse, box, cantine e soffitte.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 15.09.2014 n. 19469.
Per i giudici di piazza Cavour, la legge pone «a carico dei possessori di immobili una presunzione legale relativa di produzione di rifiuti». Dunque, l'impossibilità dei locali o delle aree a produrre rifiuti per la loro natura o per il particolare uso cui sono destinati, «non può essere ritenuta in modo presunto dal giudice tributario, essendo onere del contribuente indicare nella denuncia originaria o di variazione le obiettive condizioni di inutilizzabilità».
Con questa pronuncia la Cassazione dà una mano ai comuni, considerato il gettito che deriva da questi immobili, e va oltre le pronunce dei giudici di merito che hanno ritenuto non tassabili i garage e non applicabili le regole contenute nella disciplina della tassa rifiuti (decreto legislativo 507/1993) perché non in linea con la normativa comunitaria e con il principio «chi inquina paga».
Tra l'altro, questa regola affermata dalla Cassazione vale anche per gli altri immobili che hanno le stesse caratteristiche dei garage, vale a dire autorimesse, box, cantine e soffitte, e si applica a tutti i tributi sui rifiuti che si sono alternati nel corso degli ultimi anni: Tia, Tares e Tari.
In passato la Cassazione ha chiarito che il giudice tributario non ha il potere di disapplicare la normativa nazionale nella parte in cui impone il pagamento del tributo anche per autorimesse e garage. Decisione adottata, per esempio, dalla commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania (XXXIV).
Con la sentenza n. 483 del 12.12.2011, infatti, ha sostenuto che secondo la comune esperienza il garage di uso privato è luogo adibito al ricovero di uno o più veicoli, e, quand'anche la persona vi si trattenga per tempi non brevi, non è plausibile ipotizzare che ne derivino rifiuti. Ex lege, vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati) o improduttivi di rifiuti (articolo ItaliaOggi del 04.11.2014).

CONDOMINIOSottotetto, proprietà dal titolo. Cassazione. Il valore del rogito.
Se il contratto di acquisto parla chiaro non c'è presunzione né destinazione funzionale che tenga: il sottotetto è di proprietà di chi è indicato nell'atto e lo ha acquistato.
Di recente la Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.09.2014 n. 19094, ha applicato tale principio alla fattispecie riguardante alcuni condomini che, al momento dell'acquisto dell'abitazione dal costruttore, avevano rilasciato, in sede di preliminare, una dichiarazione di rinuncia all'acquisto del sottotetto.
Successivamente, preso conoscenza che tali vani potevano essere utilizzabili dai condomini come depositi o stenditoi ovvero per altro servizio di comune interesse, facevano causa al venditore per sentirne dichiarare la natura condominiale, con la condanna del costruttore all'immediata consegna in loro favore delle relative chiavi d'accesso, oltre al risarcimento del danno per mancato uso dei predetti locali.
La domanda venne accolta sia in primo che in secondo grado ma la Cassazione ha, di fatto, ribaltato l'esito del giudizio. Richiamandosi a principi di diritto ormai consolidati, ha riaffermato che la natura del sottotetto di un edificio è, in primo luogo, determinata dai titoli e, solo in difetto di questi ultimi, può ritenersi comune, se esso risulti in concreto, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all'uso comune o all'esercizio di un servizio di interesse comune.
Secondo la Cassazione, proprio leggendo attentamente il titolo, era palese la riserva di proprietà del sottotetto in capo all'originario costruttore-venditore. Prima del rogito, infatti, il venditore aveva comunicato ad alcuni degli acquirenti che «non sarebbe stata loro trasferita anche la proprietà dei sottotetti, se non versando l'ulteriore somma di Lire...» e alcuni avevano perciò rilasciato, in sede di preliminare, una dichiarazione di rinuncia all'acquisto del sottotetti. Questo, per la Cassazione, era sicuro indice della non condominialità dei vani
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2014).

APPALTI SERVIZIRaggruppamenti di imprese, meno formalità. Appalti di servizi/sentenza del consiglio di stato.
Negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni del bando di gara.

È quanto ha stabilito l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 28.08.2014 n. 27.
La vicenda controversa trae origine da una gara indetta da una società pubblica per l'affidamento del servizio di acquisizione delle immagini dei registri cartacei delle conservatorie. All'esito della selezione è risultato aggiudicatario un raggruppamento temporaneo di imprese. Tuttavia la gara ha registrato una brusca battuta d'arresto. Il provvedimento di aggiudicazione, infatti, è stato tempestivamente impugnato innanzi al Tar dall'impresa risultata seconda classificata.
La principale censura avanzata dalla ricorrente è consistita nell'evidenziare l'assenza, in capo alla prima classificata, dei requisiti imposti dal bando con riferimento ai raggruppamenti d'impresa: più precisamente, la legge di gara prevedeva tra i requisiti d'idoneità un fatturato complessivo pregresso di 1.200.000,00 euro; alla mandante del raggruppamento vittorioso è stata riservata l'esecuzione del 30%; sicché, in forza del principio di corrispondenza tra percentuali di qualificazione, partecipazione ed esecuzione, quest'ultima avrebbe dovuto possedere quantomeno un fatturato di 360.000,00 euro, e non già, come appurato, di 357.432,57 euro.
Il giudice adito ha accolto il ricorso, annullando gli atti di gara e aggiudicando il contratto in favore della ricorrente. Secondo il Tar, infatti, l'art. 37, c. 13, dlgs 163/2006, nella versione antecedente alla modifica operata dalla legge n. 135/2012, doveva essere interpretato nel senso dell'obbligatoria corrispondenza tra percentuali di qualificazione, partecipazione ed esecuzione di ogni impresa facente parte del raggruppamento, a prescindere da quanto prevedesse il bando di gara. Né la recente modifica del 2012, che ha relegato espressamente il principio di corrispondenza dei parametri su citati ai soli appalti di lavori, poteva trovare applicazione retroattiva al caso di specie, dato il carattere innovativo, e non già interpretativo della novella.
Considerato il contrasto giurisprudenziale registrato in materia, la lite è finita all'attenzione dell'adunanza plenaria del consiglio di stato, cui è stato rivolto il seguente quesito di diritto: «Se gli artt. 37, 41 e 42 del codice dei contratti, nella formulazione antecedente alla novella di cui alla legge n. 135/2012, consentano, anche per gli appalti di servizi, l'applicazione del principio di corrispondenza fra quota di capacità e quota di esecuzione della prestazione, a prescindere dalle espresse previsioni della lex certaminis».
La Plenaria, nel sciogliere ogni dubbio, ha ribaltato il verdetto del Tar, ritenendo arbitraria l'interpretazione dell'art. 37, offerta dai giudici di primo grado. Nella sentenza, si osserva come il legislatore, con riferimento agli appalti di servizi, chieda alle imprese raggruppate la sola corrispondenza dei requisiti di partecipazione ed esecuzione.
E si aggiunge come l'orientamento che ritiene necessario un parallelismo, in modo congiunto, fra quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote di esecuzione si ponga in contrasto, in primo luogo, «con il tenore testuale delle disposizioni del codice (e segnatamente, i commi 4 e 13 dell'art. 37), che non consentono di avallare una siffatta opzione interpretativa»; e in secondo luogo, «con la sistematica del codice (e del regolamento attuativo), che disciplina in maniera completa e nella sede propria il regime della qualificazione delle imprese anche riunite in a.t.i., per i lavori, mentre affida alla disciplina di gara ogni determinazione in materia per gli appalti di servizi e forniture».
Palazzo Spada ha, altresì, avuto cura di fare ordine generale tenendo conto del recente intervento di modifica ad opera del recente art. 12, comma 8, dl 28.03.2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.05.2014, n. 80, che ha abrogato l'art. 37, c. 13.
Dall'ennesimo intervento correttivo al codice derivano, dunque, le seguenti linee guida:
a) in base al tenore letterale della novella del 2012, e considerata la sua finalità di semplificare gli oneri di dichiarazione incombenti sulle imprese raggruppate operanti nel mercato dei contratti pubblici, l'obbligo di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, sancito dall'art. 37, c. 13, è circoscritto ai soli appalti di lavori fino all'entrata in vigore del dl n. 47/2014, che lo abroga;
b) per gli appalti di servizi e forniture si applica il solo art. 37, c. 4, cit., per cui alle imprese raggruppate è imposto solamente d'indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, e non anche la corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, «fermo restando, però, che ciascuna impresa va qualificata per la parte di prestazioni che s'impegna a eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara»;
c) in entrambi i casi, così conclude la Plenaria, le norme richiamate continuano a esprimere un precetto imperativo da rispettarsi a pena di esclusione e sono dunque capaci di eterointegrare i bandi che nulla dicono sul punto (articolo ItaliaOggi Sette del 03.11.2014).
----------------
MASSIMA
Deve ritenersi, invero, che:
a) giusta il tenore letterale della nuova disposizione e la sua finalità di semplificare gli oneri di dichiarazione incombenti sulle imprese raggruppate operanti nel mercato dei contratti pubblici, l’obbligo di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, sancito dal più volte menzionato comma 13, sia rimasto circoscritto ai soli appalti di lavori, fino all’entrata in vigore del d.l. n. 47/2014 (abrogante il cit. comma 13);
b) per gli appalti di servizi e forniture continua a trovare applicazione unicamente la norma sancita dal comma 4 dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più modesto obbligo d’indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però, che ciascuna impresa va qualificata per la parte di prestazioni che s’impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara;
c) rimane inteso, in entrambi i casi, che le norme in questione continuano ad esprimere un precetto imperativo da rispettarsi a pena di esclusione e sono dunque capaci di etero-integrare i bandi silenti.
In base alle esposte considerazioni va, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: “
Ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito nella legge 07.08.2012 n. 135, negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige ex lege il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara”.

AGGIORNAMENTO AL 12.11.2014

ã

dite la vostra .... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, PENSIONATI EX DIPENDENTI PUBBLICI E PRIVATI & PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI: TUTTO CHIARO DOPO IL DL. 90/2014-L. 114/2014? Non proprio tutto: siamo in Italia! (03.11.2014).

GURI - GUUE - BULR (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 11.11.2014 n. 262  "Disposizioni urgenti di correzione a recenti norme in materia di bonifica e messa in sicurezza di siti contaminati e misure finanziarie relative ad enti territoriali" (D.L. 11.11.2014 n. 165).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 11.11.2014 n. 262, suppl. ord. n. 85/L, "Testo del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, coordinato con la legge di conversione 11.11.2014, n. 164, recante: «Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive»".
---------------
Di particolare interesse si leggano:
Art. 2 (Semplificazioni procedurali per le infrastrutture strategiche affidate in concessione)
Art. 4 (Misure di semplificazione per le opere incompiute segnalate dagli Enti locali e misure finanziarie a favore degli Enti territoriali)
Art. 6 (Agevolazioni per la realizzazione di reti di comunicazione elettronica a banda ultralarga e norme di semplificazione per le procedure di scavo e di posa aerea dei cavi, nonché per la realizzazione delle reti di comunicazioni elettroniche)
Art. 6-ter (Disposizioni per l’infrastrutturazione degli edifici con impianti di comunicazione elettronica)
Art. 7 (Norme in materia di gestione di risorse idriche. Modifiche urgenti al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, per il superamento delle procedure di infrazione 2014/2059, 2004/2034 e 2009/2034, sentenze C-565-0 del 19.07.2012 e C-85-13 del 10.04.2014; norme di accelerazione degli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico e per l’adeguamento dei sistemi di collettamento, fognatura e depurazione degli agglomerati urbani; finanziamento di opere urgenti di sistemazione idraulica dei corsi d’acqua nelle aree metropolitane interessate da fenomeni di esondazione e alluvione)
Art. 8 (Disciplina semplificata del deposito preliminare alla raccolta e della cessazione della qualifica di rifiuto delle terre e rocce da scavo che non soddisfano i requisiti per la qualifica di sottoprodotto. Disciplina della gestione delle terre e rocce da scavo con presenza di materiali di riporto e delle procedure di bonifica di aree con presenza di materiali di riporto)
Art. 9 (Interventi di estrema urgenza in materia di vincolo idrogeologico, di normativa antisismica e di messa in sicurezza degli edifici scolastici e dell’Alta formazione artistica, musicale e coreutica - AFAM)
Art. 13 (Misure a favore dei project bond)
Art. 14 (Disposizioni in materia di standard tecnici)
Art. 16-bis (Disciplina degli accessi su strade affidate alla gestione della società ANAS Spa)
Art. 17 (Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia)
Art. 17-bis (Regolamento unico edilizio)
Art. 21 (Misure per l’incentivazione degli investimenti in abitazioni in locazione)
Art. 22 (Conto termico)
Art. 22-bis (Interventi sulle tariffe incentivanti dell’elettricità prodotta da impianti fotovoltaici)

Art. 24 (Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio)
Art. 25 (Misure urgenti di semplificazione amministrativa e di accelerazione delle procedure in materia di patrimonio culturale)
Art. 26 (Misure urgenti per la valorizzazione degli immobili demaniali inutilizzati)
Art. 31 (Misure per la riqualificazione degli esercizi alberghieri)
Art. 34 (Modifiche al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, per la semplificazione delle procedure in materia di bonifica e messa in sicurezza di siti contaminati. Misure urgenti per la realizzazione di opere lineari realizzate nel corso di attività di messa in sicurezza e di bonifica)
Art. 35 (Misure urgenti per la realizzazione su scala nazionale di un sistema adeguato e integrato di gestione dei rifiuti urbani e per conseguire gli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio. Misure urgenti per la gestione e per la tracciabilità dei rifiuti nonché per il recupero dei beni in polietilene)
Art. 38 (Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali)
---------------
Per una migliore comprensione della ratio sottesa ai vari articoli si leggano anche:
● Camera dei Deputati, dossier 27.10.2014
● Senato della Repubblica, dossier ottobre 2014
● Senato della Repubblica, dossier novembre 2014

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 10.11.2014, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1 dell’Elenco dei Tecnici competenti in Acustica Ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.10.2014, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 03.11.2014 n. 130).

PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 08.11.2014 n. 260 "Protocollo per la definizione del calendario delle votazioni per il rinnovo delle rappresentanze unitarie del personale dei comparti - tempistica delle procedure elettorali" (ARAN, protocollo 28.10.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 dell'08.11.2014, "Riordino dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei canoni di polizia idraulica" (deliberazione G.R. 31.10.2014 n. 2591).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Venezia - Abaco degli interventi in materia edilizia - Rilevanza paesaggistica delle opere - QUESITO (MIBACT Veneto, nota 04.11.2014 n. 18289 di prot.).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGOProvince: più tardi il passaggio di competenze più "sfigati" gli addetti ai lavori (CGIL-FP di Bergamo, nota 05.11.2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: OGGETTO: novità nella disciplina antimafia per la realizzazione di lavori pubblici (Consorzio dei Comuni Trentini, circolare 05.11.2014 n. 61/2014).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, D.Lgs. n. 81/21008 e successive modifiche e integrazioni - risposta al quesito relativo alla corretta interpretazione dell'art. 31, comma 6, del D.Lgs. n. 81/2008 (Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali, interpello 04.11.2014 n. 24/2014).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: FUMANE (Verona) - Accertamento di compatibilità paesaggistica di cui all'art. 167, comma 4, del decreto legislativo 22.01.2014, n. 42 - Interventi di "miglioramento fondiario" (MIBACT Veneto, nota 11.07.2014 n. 11368 di prot. - tratto da http://venetoius.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATALa guida alle case efficienti con aspetti tecnici, indicazioni normative e incentivi fiscali.
La Provincia di Torino ha pubblicato “L’energia di casa mia”, un interessante opuscolo con una serie di informazioni sulle tecnologie costruttive sulle case ad alta efficienza energetica e sugli impianti.
La guida fornisce informazioni su come intervenire sugli elementi costruttivi degli edifici per ridurre la dispersione del calore, come scegliere il miglior impianto di riscaldamento, come individuare la fonte energetica rinnovabile più confacente alle proprie esigenze.
Gli argomenti trattati sono:
● facciate
● finestre
● coperture
● solai e pavimenti
● impianti di riscaldamento
● impianti a fonte rinnovabile
Sono presenti, inoltre, informazioni su costi e incentivi fiscali.
Il documento è certamente utile ai tecnici che possono utilizzarlo come materiale informativo per sensibilizzare i propri clienti (06.11.2014 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROPonteggi, il quaderno tecnico per la sicurezza e la prevenzione del rischio di caduta dall’alto.
Il ponteggio fisso, costituito da tubi e giunti o da elementi portanti prefabbricati collegati fra loro, è tra le opere provvisionali maggiormente utilizzate.
In questo articolo proponiamo un’interessante guida realizzata dall’Inail sui ponteggi fissi, un utile strumento sia per l'informazione e la formazione dei lavoratori e sia per coloro che operano nell’ambito della sicurezza sui cantieri, finalizzato alla riduzione del rischio di caduta dall’alto durante le operazioni di montaggio, uso e smontaggio.
Il documento, adeguatamente illustrato, contiene informazioni riguardanti l’evoluzione legislativa e normativa connessa all’innovazione tecnologica; nel dettaglio è così strutturato:
definizioni
documenti di riferimento
classificazione in base alle classi di carico
classificazione in base agli elementi costruttivi
marcatura
indicazioni essenziali per la scelta, il montaggio, l’uso e lo smontaggio e la manutenzione
faq (frequently asked questions) (06.11.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATALegge di Stabilità 2015, dall’ANCE un’analisi delle novità per il settore dell’edilizia.
Il Disegno di Legge di Stabilità per il 2015 prevede una manovra di finanza orientata alla crescita economica del Paese.
L’ANCE (Associazione Costruttori Edili Italiani) ha pubblicato un documento contenente tutte le osservazioni in merito alle misure previste.
Alcune misure sono ritenute positive, come ad esempio la riduzione dei carichi fiscali e contributivi delle imprese e la proroga degli incentivi fiscali per le ristrutturazioni edilizie e degli ecobonus, tuttavia la manovra, secondo i costruttori, sul piano della crescita rimane sostanzialmente legata alla logica di austerità europea.
Di seguito alcune osservazioni dell’ANCE sul ddl Stabilità 2015:
- si evidenzia una riduzione degli stanziamenti nel 2015 per nuove infrastrutture di circa l’11% rispetto al 2014. Dal 2008 ad oggi, le risorse disponibili per opere pubbliche risultano diminuite del 45%;
- non sono previsti finanziamenti per alcuni programmi di opere diffuse sul territorio, come le opere segnalate dai Comuni e il Piano dei 6.000 campanili
- sono apprezzabili alcune misure fiscali, quali la proroga degli incentivi alla ristrutturazione ed alla riqualificazione energetica e la piena neutralizzazione del costo del lavoro dalla base imponibile IRAP
- non è apprezzabile il raddoppio della ritenuta dal 4% all’8% sui bonifici per le spese agevolate, che ha come unico effetto quello di ridurre la liquidità delle imprese senza migliorare in alcun modo l’efficacia dello strumento di contrasto all’evasione
- preoccupa l’inserimento della disposizione che prevede la possibilità di aumentare, a decorrere dal 01.01.2016, sia l’aliquota IVA ridotta del 10% che quella ordinaria del 22%
il provvedimento andrebbe integrato con misure di più ampio respiro, essenziali per riattivare i processi di riqualificazione urbana (06.11.2014 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Gavioli, Infiltrazioni mafiose negli appalti: come funzionano le white lists (11.11.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

TRIBUTI: T. Lamedica, L'imposta di pubblicità e le vetrine delle agenzie immobiliari (08.11.2014 - tratto da www.ispoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: F. Lorenzorri, L’autorizzazione unica ambientale tra semplificazioni e complicazioni (06.11.2014 - tratto da www.ambientediritto.it).

APPALTI: G. Buscema, Semplificazioni fiscali: soppresso il regime di solidarietà negli appalti (04.11.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E. Abbate, Agibilità dell'immobile e contratto di locazione (04.11.2014 - link a www.filodiritto.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Zaccheo, IL RIESAME CON ESITO CONFERMATIVO: ONERE DI IMPUGNAZIONE PER IL PRIVATO ED ONERE PARTECIPATIVO PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (Gazzetta Amministrativa n. 2/2014).
---------------
La linea distintiva tra la conferma in senso proprio e l’atto meramente confermativo corre lungo il binario della verifica della rinnovazione dell’esercizio del potere amministrativo.
Se l’amministrazione ha aperto un nuovo procedimento amministrativo si tratta di un atto confermativo in senso proprio che deve essere impugnato entro i termini di decadenza.
Viceversa, se l’amministrazione non ha avviato formalmente un procedimento di riesame si tratta un atto meramente confermativo che non deve essere impugnato autonomamente.

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Zaccheo, LE CONSEGUENZE DERIVANTI DALL’INOSSERVANZA DEL TERMINE DI CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO: LA DOPPIA FORMA DI RISTORO CONSEGUIBILE DAL PRIVATO (Gazzetta Amministrativa n. 2/2014).
---------------
L’inosservanza del termine di conclusione procedimentale comporta:
a) in via generale, il risarcimento del danno ingiusto, qualora –con dimostrazione del nesso di causalità- questo consegua alla predetta inosservanza colposa o dolosa della pubblica amministrazione;
b) nei casi espressamente previsti, il riconoscimento di un indennizzo, il cui titolo sorge (nelle condizioni previste dalla legge) per il solo fatto del superamento del termine e che –ove concorra con la distinta obbligazione risarcitoria- è detratto dalla somme complessivamente riconosciute a titolo di risarcimento.

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Sul TAR competente in caso di contestuale impugnazione sia dell'informativa prefettizia che degli atti applicativi adottati dalla stazione appaltante.
Con l'ordinanza dal n. 17 del 2014 l'Adunanza Plenaria ha enunciato il principio di diritto in base al quale esplicando l'informativa prefettizia, alla stregua dello jus superveniens, effetti ultraregionali, competente a conoscere dell'impugnazione della stessa è il TAR del luogo ove ha sede la prefettura che ha adottato l'atto. Detto TAR rimane competente anche in caso di contestuale impugnazione sia dell'informativa che degli atti applicativi adottati dalla stazione appaltante. Non trova, infatti, applicazione il c. 4-bis dell'art. 13 c.p.a. ove è stabilito che "la competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l'interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti allo stesso provvedimento, tranne che si tratti di atti normativi o generali".
L'informativa prefettizia non può considerarsi "atto presupposto" rispetto alle determinazioni della stazione appaltante o dell'ente che ha concesso i benefici economici, stante la sua autonoma efficacia lesiva per gli immediati effetti negativi nei confronti dell'impresa; l'atto prefettizio ha, quindi, effetti ultraregionali per cui, in caso di impugnazione della sola informativa, il TAR territorialmente competente è quello ove ha sede l'autorità che lo ha emesso, ex art. 13, c. 1, primo periodo. Essendo, inoltre, l'informativa atto immediatamente impugnabile, non può trovare applicazione l'art. 13, c. 4-bis c.p.a. e quindi, in caso di impugnazione contestuale di tale atto e dei susseguenti atti applicativi adottati dalla stazione appaltante, è sempre competente il Tribunale ove ha sede l'autorità che ha emesso la misura di prevenzione.
Va riconosciuta la prevalenza del criterio della competenza territoriale, previsto dall'art. 13 c.p.a., rispetto a quello della competenza funzionale, nei casi di affidamento di lavori, servizi e forniture di cui all'art. 119 c.p.a., c. 1, lett. a), in base ai principi di concentrazione dei procedimenti giurisdizionali e del simultaneus processus - garanti dell'effettività della tutela giurisdizionale e dell'economia dei giudizi secondo gli indirizzi segnati dagli artt. 24 e 111 Cost. e dal diritto comunitario.
Assume, pertanto, rilievo -alla stregua del rinvio esterno alle disposizioni del cod. proc. civ. di cui all'art. 39 c.p.a.- l' art. 31 c.p.c. in tema di rapporti di connessione tra causa principale e causa accessoria, che riconosce competente, in caso di pluralità di domande, il giudice cui è rimessa la cognizione della prima.
Si realizza, quindi, una particolare forma di connessione per accessorietà in base alla quale, ai fini della determinazione del giudice competente, la causa principale (avente ad oggetto l'impugnativa prefettizia) attrae a sé quella accessoria (avente ad oggetto gli atti applicativi adottati dalla stazione appaltante), senza che a ciò siano di ostacolo le norme sulla competenza funzionale (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 07.11.2014 n. 30 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: E' legittimo il provvedimento di una stazione appaltante che ha richiesto per la partecipazione alla procedura negoziata per l'affidamento, mediante cottimo fiduciario, dei lavori per la demolizione di una barca porta, la qualificazione SOA OS23.
Non è illegittimo il provvedimento del commissario straordinario dell'autorità portuale che ha deliberato di approvare l'elenco delle imprese in possesso della categoria SOA OS 23 (comprendente la demolizione di opere in generale) da invitare a una procedura negoziata per l'affidamento, mediante cottimo fiduciario, di cui all'art. 125, c. 8, del codice dei contratti pubblici, dei lavori per la demolizione di una barca porta.
Sebbene, infatti, la barca porta sia un galleggiante, costituito da strutture in acciaio al carbonio, destinata ad essere posta a chiusura di un bacino marittimo, costruita in modo da poter galleggiare o affondare in funzione della apertura o chiusura del bacino, al fine di valutare la legittimità del requisito di qualificazione richiesto deve essere considerato, in concreto, il tipo di lavoro oggetto dell'appalto.
In pratica, all'impresa affidataria del lavoro è richiesto di demolire un manufatto composto da parti metalliche e da una zavorra in calcestruzzo; si tratta di una operazione ben diversa dalla demolizione di una vera e propria nave. Non è pertinente, pertanto, il parere dell'autorità di vigilanza dei contratti pubblici con il quale è stato sostenuto che la demolizione di una nave non può essere ricondotta ai lavori per cui è richiesta la qualificazione SOA OS23.
E' corretta, dunque, la valutazione della stazione appaltante di non richiedere, quale requisito di partecipazione, il possesso della qualificazione SOA OG 7, riferita alle opere marittime e ai lavori di dragaggio, dovendosi ritenere che oggetto dell'appalto sia, piuttosto che un'opera marittima, una demolizione di opera, agevolmente riconducibile alla categoria specialistica OS 23 (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 05.11.2014 n. 5696 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI E' legittimo il provvedimento con cui una regione ha confermato la prosecuzione del rapporto contrattuale con l'attuale gestore del trasporto pubblico locale nonostante l'informativa ostativa antimafia.
E' legittimo il provvedimento con cui una regione riscontrando la richiesta del consorzio ricorrente di subentrare nel contratto di trasporto pubblico locale, ha confermato la prosecuzione del rapporto contrattuale con l'attuale gestore colpito da informativa ostativa antimafia.
L'amministrazione resistente ha, infatti, legittimamente applicato il c. 3º dell'art. 94 del d.lvo 159 nel 2011 che consente di non procedere alla revoca delle concessioni o al recesso dai contratti per forniture di beni e servizi con soggetti colpiti da interdittiva antimafia, qualora tali soggetti non siano sostituibili in tempi rapidi e la fornitura o il servizio siano essenziali per il perseguimento dell'interesse pubblico.
Ha ritenuto, invero, che l'interruzione del servizio di trasporto pubblico locale svolto dall'impresa controinteressata avrebbe determinato un sicuro pregiudizio per l'interesse pubblico, nelle more dell'espletamento della procedura di gara per l'affidamento definitivo del servizio, non essendo possibile sostituire immediatamente la concessionaria del servizio pubblico neanche per il tempo strettamente necessario all'espletamento della gara definitiva.
L'amministrazione, con determinazione discrezionale non irragionevole, mostra di aver implicitamente valutato che anche una eventuale procedura ristretta per l'affidamento provvisorio del servizio ad altra impresa avrebbe richiesto un tempo incompatibile con le esigenze di continuità del servizio di trasporto pubblico locale (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 05.11.2014 n. 5692 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

SICUREZZA LAVORO: La mera sollecitazione all’uso dei DPI da parte del direttore tecnico capocantiere non è di per sé fonte di una colpa per assunzione, non essendo tale comportamento di per sé solo sufficiente ad integrare quell’ingerenza che la giurisprudenza di legittimità riconosce poter essere fonte di obblighi prevenzionistici, ossia quella che segnala l’assunzione di poteri decisionali, ai quali sempre si associano le connesse responsabilità.
3. Il ricorso è fondato.
3.1. La trama delle posizioni di garanzia costituite dal legislatore all’interno di un cantiere edile nel quale insistano, ciascuna svolgendo parte dei lavori, più imprese o lavoratori autonomi e’ particolarmente serrata: committente e responsabile dei lavori; coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione, la nuova figura dell’incaricato del datore di lavoro committente, nonché la più risalente schiera di debitori di sicurezza: datore di lavoro, dirigente, preposto, lavoratore autonomo e così seguitando.
Tanto impegna ad una precisa definizione delle rispettive posizioni, in modo da evitare indebite responsabilità penali per fatto altrui.
Nel caso che occupa, secondo l’accertamento condotto nei gradi di merito, il (OMISSIS) era direttore tecnico e capocantiere per conto della (OMISSIS) s.r.l., società che aveva subappaltato alla (OMISSIS) i lavori acquisiti dalla (OMISSIS).
Così indicate le qualifiche del (OMISSIS) risulta ancora indistinta l’effettiva collocazione spettante al medesimo nella costellazione dei soggetti debitori di sicurezza verso i lavoratori impegnati nel cantiere di cui trattasi. E’ noto, infatti, che la legislazione penale, in specie prevenzionistica, al fine di identificare ad esempio il datore di lavoro, il dirigente ed il preposto prende in considerazione i compiti effettivamente assunti o che si sarebbero dovuti svolgere (cfr., da ultimo, Sez. 4 , n. 10704 del 07/02/2012 – dep. 19/03/2012, Corsi, Rv. 252676).
Sotto tale profilo è evidente che, ordinariamente, il direttore tecnico può risultare in concreto un dirigente, mentre il capocantiere può essere di norma assimilato al preposto (così, Sez. 4 , Sentenza n. 39606 del 28/06/2007, Marchesini e altro, Rv. 237879), secondo le definizioni che di tali figure si traggono oggi dal Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 2 e dava, al tempo del sinistro, il Decreto Legislativo n. 626 del 1994. Di certo, il direttore tecnico/capocantiere non è perciò solo titolare degli obblighi che la legge pone in capo al coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione, ove nominati (cfr. Decreto Legislativo n. 494 del 1996, articoli 4 e 5).
Ma più in generale deve osservarsi come il riconoscimento di responsabilità in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro presuppone la prova sicura dell’attribuzione delle funzioni o dell’ingerenza nell’organizzazione del cantiere. La qualifica di direttore tecnico può comportare anche solo compiti di sorveglianza tecnica attinente alla esecuzione del progetto (così, già per il direttore dei lavori, Sez. 4 , n. 12993 del 25/06/1999 – dep. 12/11/1999, Galeotti D, Rv. 215165). Tale prova è tanto più necessaria ove si affermi, come fatto nel caso che occupa dal giudice di primo grado che il (OMISSIS) non esercitò un efficiente controllo sostanziale, e non meramente formale, non avendo prescritto al (OMISSIS) di utilizzare la fune di sicurezza in dotazione, pur essendosi accorto che egli l’aveva dismessa, e comunque di non aver adottato le misure necessarie ad imporre al lavoratore l’uso obbligatorio dei DPI; o, come la Corte distrettuale, che egli non impose lo spostamento della piattaforma mobile, quale misura di sicurezza collettiva.
Né può definirsi ingerenza la sollecitazione al rispetto della normativa prevenzionistica; l’ingerenza che vale ad individuare una posizione di garanzia è evidentemente quella che segnala l’assunzione di poteri decisionali, ai quali sempre si associano le connesse responsabilità.
In conclusione, la sentenza impugnata, come già quella di primo grado, non manifesta quale accertamento sia stato operato in merito alla effettiva posizione di garanzia assunta dal (OMISSIS) nel contesto dei lavori di cui trattasi, al di là delle qualifiche formali; ed erra nell’evocare la sollecitazione all’uso dei DPI come fonte di una colpa per assunzione, non essendo tale comportamento di per sé solo sufficiente ad integra quell’ingerenza che la giurisprudenza di legittimità riconosce poter essere fonte d obblighi prevenzionistici.
Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di appello di Perugia per nuovo esame sul punto messo a fuoco nel precedente capo verso (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 21.10.2014 n. 43836 - link a http://renatodisa.com).

SICUREZZA LAVORO: I verbali degli ispettori del lavoro non costituiscono mera informativa di reato, ai sensi dell’art. 347 c.p.p., poiché contengono l’accertamento o la descrizione di una situazione di fatto suscettibile di modifica nel tempo, per effetto di comportamenti umani o di eventi naturali. Essi vanno, pertanto, annoverati tra gli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria, ai sensi dell’art. 431, lett. b) c.p.p.; come tali, vanno inseriti nel fascicolo per il dibattimento e ne va data lettura a richiesta di parte o su iniziativa del giudice, essendo utilizzabili come fonti di prova.
Il ricorso è infondato.
Il verbale dell’ispettore del lavoro non costituisce mera informativa di reato ai sensi dell’articolo 347 c.p.p., poiché contiene l’accertamento o la descrizione di una situazione di fatto suscettibile di modifica nel tempo, per effetto di comportamenti umani o di eventi naturali. Esso va, pertanto, annoverato tra gli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (articolo 431 c.p.p., lettera b); come tale, va inserito nel fascicolo per il dibattimento e ne va data lettura a richiesta di parte o su iniziativa del giudice (articolo 511 c.p.p., comma 1), essendo utilizzabile come fonte di prova (cfr. Sez. 3 , Sentenza n. 7083 del 26/04/1994 Ud. dep. 16/06/1994 Rv. 199004).
In ogni caso dalla sentenza impugnata risulta che la colpevolezza dell’imputato è stata affermata non esclusivamente sulla base delle dichiarazioni fatte all’ispettore del lavoro in occasione del controllo dalla (OMISSIS) (dichiarata irreperibile all’udienza 25.03.2013 senza peraltro alcuna opposizione del difensore), ma anche sulla scorta delle affermazioni dello stesso imputato nella parte in cui ha ammesso che la ragazza in questione riceveva periodicamente una somma di danaro , mentre invece sono state ritenute prive di riscontro probatorio le ulteriori precisazioni (e cioè che si trattava di un contributo versato per conto di un socio ammiratore della ragazza che non voleva figurare direttamente).
Ciò esclude quindi qualunque violazione del principio di cui all’articolo 526 c.p.p. e di quelli contenuti nell’articolo 6 della CEDU come interpretati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (nel senso che può astrattamente concepirsi una deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio purché, naturalmente, la condanna non si sia basata esclusivamente sulle dichiarazioni rese in fase anteriore al dibattimento su cu, non si è avuto modo di replicare: cfr. tra le varie, sentenza del 03.12.2013 nr. 35842/2005, Vararu e/Romania).
Pertanto, non merita censura la sentenza che, con riferimento alla posizione della (OMISSIS), ha desunto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla scorta delle dichiarazioni rese a verbale dalla donna, e sulle dichiarazioni dell’imputato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.10.2014 n. 43807 - link a http://renatodisa.com).

CONSIGLIERI COMUNALI: Solo eccezionalmente i consiglieri dissenzienti possono impugnare le delibere consiliari.
Nella sentenza in rassegna, incentrata sulla legittimazione dei consiglieri comunali dissenzienti ad impugnare le delibere dell'organo di cui fanno parte, i giudici del Tribunale amministrativo della Calabria estrapolano alcuni principi di diritto, tratti dalle più recenti pronunzie del Consiglio di Stato e suffragati da costante giurisprudenza precedente.
I giudici amministrativi calabresi, innanzitutto, ribadiscono che la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell'organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, come per esempio lo scioglimento dell'organo o la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo rispetto all'organo di cui fa parte.
Riguardo alla legittimazione ad agire del consigliere, gli stessi giudici confermano che non risiede nella deviazione dell'atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una sua prerogativa inerente all'ufficio, occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, alla natura e al contenuto della delibera impugnata e non già delle norme interne relative al funzionamento dell'organo.
La contestazione del componente di un organo collegiale, infine, non può limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di formazione della deliberazione del medesimo organo, senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazioni di forma o di sostanza nell'adozione di un atto deliberativo (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.10.2014 n. 1602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'avvalimento può riferirsi anche alla certificazione di qualità.
I giudici della quarta sezione del Consiglio di Stato hanno stabilito, nella sentenza in commento, che in caso di avvalimento, l'impresa ausiliata può senz'altro utilizzare tutti i requisiti afferenti alla capacità economica e tecnica dell'impresa ausiliaria, non esclusa la certificazione di qualità.
In tal senso è stato chiarito che "nelle gare pubbliche la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrarne la capacità tecnico professionale assicurando che l'impresa, cui sarà affidato il servizio o la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto" (così Cons. Stato, Sez. V, 20.12.2013, n. 6125, vedi anche Sez. V, 06.03.2013, n. 1368).
L'unico limite, concludono i giudici di Palazzo Spada, è rappresentato dalla condizione che l'avvalimento sia effettivo, e non fittizio giacché, come pure osservato, non potrebbe ammettersi che sia "prestata" la sola certificazione di qualità (Cons. Stato, Sez. III, 18.04.2011, n. 2343).
Peraltro, ulteriore conferma della riferibilità dell'avvalimento anche alla certificazione di qualità deve rinvenirsi nell'art. 50 del d.lgs. n. 163/2006, che ammette l'avvalimento nel caso di sistemi di attestazione e sistemi di qualificazione (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2014 n. 4958 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'omessa dichiarazione di precedenti penali non opera il ‘falso innocuo’.
Nella sentenza in commento i giudici del Consiglio di Stato ribadiscono alcuni principi giurisprudenziali consolidati in merito alla dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare d'appalto, ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006.
I giudici di Palazzo Spada riaffermano, innanzitutto, che la valutazione della gravità delle condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro, ciò implicando un giudizio meramente soggettivo inconciliabile con la ratio della norma.
Secondo gli stessi giudici, inoltre, la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresenta lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito proprio con la gara di appalto, così che la sola omessa dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla relativa gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara.
Anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex specialis, stante la sua eterointegrazione con la norma di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale.
In caso di omessa dichiarazione di precedenti penali, in conclusione, non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione, con la precisazione che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del bando non può determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il cottimo fiduciario non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata.
Ad avviso della quinta sezione del Consiglio di Stato il cottimo fiduciario non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata. Spiegano infatti gli stessi giudici che nel contesto dell'art. 125 del d.lgs. n. 163/2006 il principio della "rotazione", imposto con riferimento alla procedura di "cottimo fiduciario", appare concepito dal legislatore come una contropartita, o un bilanciamento, del carattere sommario e "fiduciario" della scelta del contraente. Ed invero, il "cottimo fiduciario" è definito dallo stesso art. 125 come "una procedura negoziata... previa consultazione di almeno cinque operatori economici".
Nel pensiero del legislatore, dunque, il cottimo fiduciario non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata (si veda anche l'art. 3, c. 40, dello stesso codice, che contiene la definizione del termine "procedura negoziata"), quindi una scelta ampiamente discrezionale. Tale discrezionalità, secondo i giudici di Palazzo Spada, si esercita in (almeno) due momenti: primo, l'individuazione delle cinque ditte da "consultare"; secondo, la scelta del contraente fra le ditte consultate.
La discrezionalità è temperata, ma non eliminata, da alcuni princìpi, quali la "trasparenza" (che implica il dovere di una previa formulazione e comunicazione dei criteri della scelta, etc.) e, appunto, la "rotazione" (per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo).
In questa occasione, l'ente appaltante, pur avendo fatto richiamo al citato art. 125 del codice dei contratti, ha impostato la procedura come una gara vera e propria, da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, ai sensi dell'art. 82, c. 2, lett. (b), dello stesso codice, invitando ben 1771 ditte - vale a dire senza alcuna discrezionalità né alcuna negoziazione (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.09.2014 n. 4661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Solo gli atti secretati o sotto sequestro sono sottratti al diritto di accesso.
Su questo argomento, i giudici del Tar di Lecce ricordano, innanzitutto, che la giurisprudenza ha chiarito che l’esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Secondo quanto precisato da Tar Salerno 920/2003, aggiungono i giudici amministrativi pugliesi, "Ai sensi dell'art. 329 c.p.p., l'obbligo di segreto nei procedimenti penali riguarda soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria, di talché gli atti posti in essere da un'azienda sanitaria locale nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990".
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR Campania Napoli, Sez. I, 23.02.1995, n. 38: "La circostanza dell'avvenuta trasmissione degli atti, oggetto della domanda di accesso, al vaglio della magistratura penale, peraltro senza un provvedimento di sequestro, non giustifica il rifiuto o il differimento dell'accesso, né comporta uno specifico obbligo di segretezza che escluda o limiti la facoltà per i soggetti interessati di prendere conoscenza degli atti, anche alla luce della previsione dell'art. 258 c.p.p." (conformi anche Cons. Stato, Sez. IV, 28.10.1996, n. 1170, TAR Bari, sentenza n. 287/2011).
In questa vicenda l’accesso è stato richiesto in relazione ad atti di origine extraprocessuale che non risultavano coperti da segreto o dal vincolo del sequestro, pertanto, i giudici del Tar Puglia, hanno ordinato l’esibizione dei documenti richiesti (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 11.09.2014 n. 2331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Escluso dalla gara il concorrente che non produce le dichiarazioni attestanti l'assenza di condizioni ostative.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, afferma l'obbligo di escludere il concorrente che non ha prodotto le dichiarazioni attestanti l'assenza delle relative condizioni ostative; vengono così prontamente applicate alcune novità introdotte dal D.L. n. 90 del 24.06.2014.
L'art. 39 del D.L. n. 90 del 24.06.2014, spiegano infatti i giudici di Palazzo Spada, ha apportato modifiche all'art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006, semplificando gli oneri formali nella partecipazione a procedure per l'affidamento dei contratti pubblici con disposizioni relative per l'appunto alle dichiarazioni sostitutive volte a valorizzare il potere di soccorso istruttorio e distinguendo, fra l'altro, fra dichiarazioni essenziali e non essenziali.
Orbene il D.L., che, nel caso di specie, al momento della assunzione in decisione dei gravami in esame era nella fase di conversione, prevede che le modifiche si applicano espressamente alle procedure indette successivamente alla loro entrata in vigore (c. 3). Sussiste l'obbligo di escludere il concorrente che non ha comunque prodotto, ai sensi degli artt. 46 e 38 del D.Lgs. n. 163/2006, le dichiarazioni attestanti l'assenza delle relative condizioni ostative, anche se inesistenti.
In conclusione, secondo gli stessi giudici, le procedure concorsuali perseguono il rispetto rigoroso delle regole poste ad assicurare l'imparzialità e la parità di trattamento in tutte le loro fasi, per cui spetta al concorrente il dovere della diligenza nella osservanza delle disposizioni di legge e concorsuali proprio ai fini della tutela dell'interesse al concorso; né tale onere può essere posto a carico dell'Amministrazione, che altrimenti verrebbe a violare proprio quella parità di trattamento, che invece nel caso di specie prevale sul diverso principio del favor partecipationis, dovendosi assicurare certezza agli elementi dell'offerta (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 08.09.2014 n. 4543 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'interesse concorrenziale è requisito idoneo all'accesso ai documenti.
La legge 07.08.1990, n. 241 (legge sul procedimento amministrativo) all'art. 22 prevede che, ai fini di correttamente esercitare il diritto di accesso ai documenti amministrativi, il privato interessato deve dimostrare di essere titolare di un interesse personale, concreto e attuale. L'interessato deve cioè dimostrare che sussiste un collegamento diretto tra la propria posizione e il documento per il quale si richiede l'accesso.
In questa occasione una società esercente trasporto passeggeri e gestione di servizi elicotteristici privati, aveva richiesto al soggetto competente, società gestrice di area pubblica -che aveva proceduto ad assegnazione, in assenza di procedura concorrenziale, del servizio di gestione di ad altra impresa- di poter prendere visione del contratto pluriennale di affidamento in gestione del servizio, nonché degli atti e dei documenti ad esso allegati. Opposto il rifiuto all'accesso, l'impresa interessata aveva proposto ricorso al TAR, il quale tuttavia aveva rigettato la domanda per carenza dei requisiti specifici di interesse, previsti dalla legge.
Secondo il giudice di primo grado il ricorrente si sarebbe limitato ad affermare in via generica le proprie ragioni, richiamando semplicemente la normativa di settore e sottolineando di esercitare attività imprenditoriale specifica.
Il Consiglio di Stato, dopo aver ricordato come "l'accesso ai documenti amministrativi costituisce principio generale dell'attività amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e assicurarne l'imparzialità e la trasparenza, richiedendosi per l'accesso un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" e che, parallelamente, "non sono ammissibili solo le istanze di accesso preordinate a un controllo generalizzato all'operato delle pubbliche amministrazioni, essendo tale controllo estraneo alle finalità perseguite attraverso l'istituto di cui trattasi", giunge a una soluzione diametralmente opposta (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.07.2014 n. 4028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: L'istituto dell'avvalimento si applica anche alle concessione di servizi pubblici.
L'istituto dell'avvalimento (art. 49 del dlvo 12.04.2006 n. 163 (Codice dei contratti pubblici) è espressione di principi generali a tutela della concorrenza, consentendo la partecipazione di soggetti che senza l'ausilio di altra impresa non avrebbero i requisiti richiesti per la partecipazione stessa. Ne consegue che detto istituto si applica anche in presenza di una concessione di servizi pubblici.
In relazione al dovere di soccorso, la giurisprudenza ha affermato che il potere di soccorso -sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione appaltante di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di completarli ma solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti- non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal Codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.07.2014 n. 3905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Concessioni di servizi: non c’è obbligo di indicare gli oneri per la sicurezza.
I giudici del Consiglio di Stato hanno stabilito nella sentenza n. 3864 dello scorso 18 luglio che non sussiste per le concessioni di servizi l'obbligo di indicare gli oneri per la sicurezza.
L'art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006, spiegano i giudici di Palazzo Spada, prevede che le concessioni di servizi siano sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e del codice dei contratti pubblici e che ad esse si applichino i principi desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
I costi sostenuti per la sicurezza, concludono gli stessi giudici, non possono farsi rientrare tra i principi generali a tutela della concorrenza, in quanto perseguono la diversa finalità di tutela dei lavoratori e vengono in rilievo, come sopra rilevato, nella fase di verifica dell'anomalia dell'offerta.
Del resto, se la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha escluso che sussiste finanche per i contratti di appalto di lavori disciplinati dal Codice l'obbligo di indicare nell'offerta gli oneri di sicurezza, non potrebbe sostenersi, che tale obbligo trovi applicazione per le concessioni di servizi (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.07.2014 n. 3864 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.11.2014

ã

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Manuale per la qualificazione SOA (ANCE Bergamo, circolare 31.10.2014 n. 198).

COMPETENZE PROGETTUALI: Ordinanza TRIBUNALE di Avellino n. 395 del 19.02.2014 – Ingegnere junior - Titolo professionale e timbro - Richiesta di omettere l'aggettivo "junior" - Rigetto – Circolare CNI n. 383/2011 – Interpretazione corretta della normativa - Considerazioni  (Consiglio Nazionale Ingegneri, circolare 10.10.2014 n. 434).

INCARICHI PROGETTUALI: Consiglio Nazionale dei Geometri e Geometri Laureati - Regolamento sul professionista affidatario di più di tre tirocinanti e sui corsi di formazione professionale alternativi al tirocinio (con allegato A) (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, delibera 22.07.2014 n. 7).

INCARICHI PROGETTUALI: Consiglio Nazionale dei Geometri e Geometri Laureati - Regolamento per la formazione professionale continua ai sensi del D.P.R. 07.08.2012 n. 137, articolo 7 (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, delibera 22.07.2014 n. 6).

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: Nuova circolare relativa alle competenze dell'architetto junior e del pianificatore junior alla luce di fatti e mutamenti finora intervenuti (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, circolare 07.03.2013 n. 21).

COMPETENZE PROGETTUALI: Titolo accademico e titolo professionale - Informazioni da riportare sul timbro - Continue richieste di chiarimento - Indicazioni circa la distinzione e la corretta dizione con cui chiamare gli iscritti alle sezioni A e B dell'albo - Riepilogo della disciplina (Consiglio Nazionale Ingegneri, circolare 26.01.2011 n. 383).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 03.11.2014, "Rettifica dell’allegato A al decreto n 9768 del 22.10.2014 - Determinazione, per l’anno 2015 dei canoni da porre a base d’asta per l’affidamento dei lavori di sistemazione idraulica mediante escavazione di materiale inerte dagli alvei dei corsi d’acqua" (decreto D.G. 30.10.2014 n. 10067).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2014, "Individuazione dei periodi di divieto di spandimento degli effluenti di allevamento e dei fertilizzanti azotati di cui al d.m. 07.04.2006 per la stagione autunno vernina 2014/2015" (decreto D.G. 28.10.2014 n. 9977).

VARI: G.U. 28.10.2014 n. 251 "Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2013 - secondo semestre" (Legge 07.10.2014 n. 154).

APPALTI: G.U. 27.10.2014 n. 250 "Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13.08.2010, n. 136" (D.Lgs. 13.10.2014 n. 153).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

PUBBLICO IMPIEGO: Tutela del dipendente che effettua segnalazioni di illecito (c.d. whistleblower).
L’Autorità Nazionale Anticorruzione è competente a ricevere (ai sensi dell’art. 1, comma 51, della legge 06.11.2012, n. 190 e dell’art. 19, comma 5, della legge 11.08. 2014, 114) segnalazioni di illeciti di cui il pubblico dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro.
Si intende dare immediatamente attuazione a queste disposizioni normative, aprendo un canale privilegiato a favore di chi, nelle situazioni di cui si è detto, scelga di rivolgersi all’Autorità e non alle vie interne stabilite dalla Pubblica Amministrazione di appartenenza.
E’ perciò istituito un protocollo riservato dell’Autorità, in grado di garantire la necessaria tutela del pubblico dipendente: saranno assicurati la riservatezza sull’identità del segnalante e lo svolgimento di un’attività di vigilanza, al fine di contribuire all’accertamento delle circostanze di fatto e all’individuazione degli autori della condotta illecita.
Quest’attività consentirà inoltre all’Autorità di valutare la congruenza dei sistemi stabiliti da ciascuna Pubblica Amministrazione a fronte delle denunce del dipendente con le direttive stabilite nel Piano Nazionale Anticorruzione (punto 3.1.11) ed evitare, in coordinamento con il Dipartimento per la funzione pubblica, il radicarsi di pratiche discriminatorie nell’ambito di eventuali procedimenti disciplinari.
Seguirà a breve una delibera dell’Autorità per regolare in modo specifico la procedura (22.10.2014 - link a www.

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: L’istituto dell’accesso civico: responsabilità delle pubbliche amministrazioni e opportunità per la società civile (comunicato 15.10.2014 - link a www.anticorruzione.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, La S.r.l. - Società a responsabilità limitata (31.10.2014 - tratto da http://renatodisa.com).
---------------
Rassegna giurisprudenziale e dottrinaria sulla S.r.l. - Normativa di riferimento: Codice civile – Libro V del lavoro – Titolo V delle società - Capo VII della società a responsabilità limitata – artt. 2462 – 2483.

URBANISTICA: D. Tramutoli, Vincoli conformativi ed espropriativi: occhio alle differenze!” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sentenza n. 4976 del 06.10.2014) (29.10.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Caso studio: Regione Lombardia – centro storico - già avvenuto cambio uso in “box” di u.i. esistente con altra destinazione – illegittimità comunicazione (postuma) ex art. 52, comma 2 – applicabilità art. 37 (28.10.2014 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, "C'era una volta un paese senza terremoti": la horror fiaba della riclassificazione delle zone sismiche (28.10.2014 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: C. Volpe, L’affidamento “in house”: situazione attuale e proposte per una disciplina specifica (28.10.2014 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La rilevanza plurima dell’in house. 3. Le ragioni della costruzione dell’in house. 4. I requisiti dell’in house. 5. L’in house modello organizzativo e modalità di affidamento. 6. L’in house nelle nuove direttive: i requisiti. 7. Segue. L’in house nelle nuove direttive: l’in house verticale capovolto, l’in house orizzontale e il controllo limitato ad alcune delle attività della società. 8. Segue. L’in house nelle nuove direttive: l’in house frazionato o pluripartecipato. 9. Le conseguenze in tema di recepimento delle direttive. 10. Considerazioni finali.

EDILIZIA PRIVATA: I. Pagano, In pendenza del rilascio di condono edilizio, l’Amministrazione Comunale deve valutare la possibilità di emettere un certificato di agibilità provvisoria dei manufatti oggetto di istanza di sanatoria (23.10.2014 - link a www.diritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: P. Avitto, La responsabilità degli enti in materia ambientale e i principi generali del d.lgs. n. 231/2001 (24.10.2014 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: A. P. Esposito, Il funzionario di fatto: in particolare, la sorte degli atti adottati (24.10.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vendita forzata e attestato di prestazione energetica (alla luce delle recenti modifiche al D.Lgs. 192/2005 di cui al D.L. 04.06.2013, n. 63, convertito con L. 03.08.2013, n. 90 e di cui al D.L. 23.12.2013, n. 145 convertito in L. 21.02.2014, n. 9) (studio 19-20.06.2014 n. 263-2014/C).
---------------
Sommario:
1. Premessa;
2. Conclusioni raggiunte nel vigore della formulazione del D.lgs. 192/2005 vigente fino al 03.08.2013. Esclusione della vendita forzata dal perimetro di applicazione del D.lgs. 192 del 2005;
3. Le novità apportate dal D.L. n. 63/2013 convertito in L. n. 90/2013 e il bilanciamento degli interessi in gioco da parte del legislatore statale;
4. I nuovi articoli 6 e 15 del D.lgs. 192 del 2005 a seguito delle novità apportate dal D.L. n. 63/2013 convertito in L. n. 90/2013. Argomenti a favore della non applicazione della disciplina prevista alla vendita forzata a mezzo di decreto di trasferimento;
5. Consequenziale irrilevanza rispetto alle vendite forzate attuate a mezzo di decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c. del comma 8 dell’art. 1 del D.lgs. 145/2013;
6. Il D.L. 23.12.2013, n. 145 (c.d. “destinazione Italia”) oggi convertito con L. 21.02.2014, n. 9 e la disciplina attualmente vigente in tema di allegazione dell’APE agli atti di trasferimento a titolo oneroso. Argomenti a favore della non applicazione della disciplina prevista alla vendita forzata a mezzo di decreto di trasferimento;
7. Opportunità della dotazione di attestato di prestazione energetica dei beni posti in vendita in sede esecutiva sotto il profilo della competitività della vendita forzata e opportunità dell’allegazione dell’attestato di prestazione energetica agli atti al decreto di trasferimento (o della sua consegna all’aggiudicatario) sotto il profilo dell’economia del sistema;
8. Conclusioni.

ARAN

SEGRETARI COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI RISULTATO / L’istituto della “Valutazione” è obbligatorio anche per il segretario comunale?
In proposito, si ritiene utile precisare quanto segue:
a) in generale, si deve evidenziare che, base alle previsioni del Titolo II del D.Lgs. n. 150, tutte le amministrazioni adottano metodi e strumenti idonei a misurare, valutare e premiare non solo la performance organizzativa ma anche quella individuale, con riferimento a tutte le categorie di personale presenti nell’ente (dirigenti e non dirigenti);
b) con riferimento poi alla particolare ipotesi del segretario comunale, si deve ricordare anche che allo stesso, l’indennità di risultato non può essere erogata in modo automatico e per il solo servizio prestato; infatti, l’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 16.05.2001, stabilisce che la corresponsione di tale voce retributiva può avvenire solo nel rispetto delle precise condizioni e modalità ivi stabilite e cioè:
1) preventiva determinazione dell’ammontare della retribuzione di risultato che può essere riconosciuta al segretario, nell’ambito delle risorse effettivamente disponibili e nel rispetto della propria capacità di spesa;
2) preventiva fissazione e formale conferimento al segretario di precisi obiettivi, tenendo conto del complesso degli incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione dell’incarico di funzione di Direttore Generale;
3) valutazione annuale degli obiettivi e dei risultati conseguiti dal segretario da parte degli enti che, a tal fine, utilizzano, con gli opportuni adattamenti, la disciplina adottata, in coerenza con le previsioni del Titolo II del D.Lgs. n. 150/2009, in materia di definizione di misurazione, valutazione e trasparenza della performance (parere 14.10.2014 n. SEG-041 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Qualora transiti da un ente (o enti convenzionati) con numero di abitanti tra 10.001 e i 65.000 ad un ente (o enti convenzionati) con numero di abitanti tra i 3.000 ed i 10.000, il segretario continua a percepire la retribuzione di posizione più elevata (€ 15.584,45) oppure gli va riconosciuto l’importo inferiore (7.837,59), di cui all’art. 41 del CCNL del 16.05.2001 e successivo art. 3 del CCNL dell’01.03.2011?
Nel merito del quesito formulato, si ritiene opportuno precisare che disciplina contrattuale vigente stabilisce espressamente la garanzia della conservazione dell’eventuale maggiore importo della retribuzione di posizione precedentemente in godimento del segretario solo per la particolare fattispecie dei segretari che, collocati in disponibilità, accettino successivamente la nomina in un ente di fascia immediatamente inferiore.
Infatti, l’art. 43 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 16.05.2001 chiaramente prevede che, in caso di nomina del segretario in disponibilità presso un ente di fascia immediatamente inferiore a quella di iscrizione, lo stesso conserva il trattamento economico in godimento previsto dal comma 1 del suddetto articolo e, cioè, per quello che qui interessa soprattutto la precedente retribuzione di posizione.
La stessa disciplina contrattuale specifica anche che, in questa particolare situazione, i relativi oneri sono a carico dell’ente di nomina, ad eccezione di quelli relativi alla retribuzione di posizione che rimangono a carico che rimangono a carico dell’ex Agenzia per la gestione dell’Albo nazionale dei segretari, per la quota corrispondente alla differenza tra quella precedentemente in godimento e quella prevista per la fascia di appartenenza dell’ente.
Pertanto, sulla base di tale normativa, la garanzia della conservazione del più elevato importo della retribuzione di posizione in godimento di un segretario, precedentemente titolare di un incarico in un ente di superiore classe demografica e che ha accettato la titolarità in un ente di classe demografica inferiore, può trovare attuazione solo in questa specifica fattispecie.
Trattandosi di una disciplina contrattuale specifica e “speciale” si ritiene che la stessa non possa essere estesa in via analogica a fattispecie diverse da quella espressamente presa in considerazione dalla stessa (parere 11.02.2014 n. SEG-040 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI RISULTATO / E’ possibile erogare la retribuzione di risultato ad un segretario comunale cessato dall’incarico in data 12.08.2012, sostituito da altro segretario in data 27.08.2012, considerato che solo in data 24.09.2012 è stata determinata la misura della suddetta voce retributiva e sono stati stabiliti gli obiettivi ed i criteri di misurazione dei risultati per l’anno 2012?
Il segretario non è titolare di un autonomo e preciso diritto alla percezione dell’indennità di risultato; la predetta, indennità, infatti, non può essere erogata in modo automatico e per il solo servizio prestato;
1) l’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 16.05.2001, stabilisce che la corresponsione dell’indennità di risultato può avvenire solo nel rispetto delle precise condizioni e modalità ivi stabilite e cioè:
a) preventiva determinazione dell’ammontare della retribuzione di risultato che può essere riconosciuta al segretario, nell’ambito delle risorse effettivamente disponibili e nel rispetto della propria capacità di spesa;
b) preventiva fissazione e formale conferimento al segretario di precisi obiettivi, tenendo conto del complesso degli incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione dell’incarico di funzione di Direttore Generale;
c) valutazione annuale degli obiettivi e dei risultati conseguiti dal segretario da parte degli enti che, a tal fine, utilizzano, con gli opportuni adattamenti, la disciplina adottata, in coerenza con le previsioni del Titolo II del D.Lgs. n. 150/2009, in materia di definizione di misurazione, valutazione e trasparenza della performance;
d) poiché si tratta di un emolumento da corrispondere solo a seguito della positiva verifica e certificazione del conseguimento degli obiettivi annuali assegnati al segretario, è possibile anche l’ eventuale riduzione della retribuzione di risultato allo stesso riconosciuta, in presenza di una valutazione dei risultati parzialmente negativa.
Gli adempimenti di cui ai punti 1 e 2, e soprattutto la preventiva fissazione degli obiettivi e dei risultati che il segretario deve conseguire, sono, come detto, un presupposto indefettibile per la corretta applicazione dell’istituto.
Pertanto, la mancanza della preventiva assegnazione al segretario degli obiettivi e dei risultati non consente in alcun modo l’erogazione della retribuzione di risultato al segretario (parere 24.10.2013 n. SEG-036 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / ORARIO DI LAVORO / E’ possibile dotare il Segretario comunale di un apposito badge per la rilevazione automatica della presenza in servizio?
La materia dell’orario di lavoro dei segretari comunali trova la sua fondamentale regolamentazione nell’art.19 del CCNL del 16.05.2001 che ha previsto una disciplina sostanzialmente identica a quella già prevista per la dirigenza del Comparto Regioni-Autonomie Locali del 10.04.1996. Tale clausola contrattuale ha introdotto, come è noto, un sistema basato sulla autoresponsabilizzazione del segretario.
In tale ambito, non è prevista alcuna quantificazione complessiva dell’orario di lavoro del segretario, neppure attraverso la sola definizione di un limite massimo di durata delle prestazioni lavorative dovute. Spetta, invece, al segretario la organizzazione complessiva del proprio tempo di lavoro, in modo da assicurare il completo soddisfacimento dei compiti affidati e degli obiettivi assegnati.
In analogia a quanto sempre sostenuto con riferimento alla corrispondente disciplina della dirigenza, si ritiene che, anche se il nuovo sistema è basato sulla autoresponsabilizzazione del segretario nell’organizzazione del proprio orario di lavoro, non è comunque preclusa all’ente la possibilità di assumere iniziative per l’adozione di sistemi di rilevazione ed accertamento delle presenze e delle assenze del segretario, anche ai fini della valutazione annuale dello stesso e dell’erogazione della retribuzione di risultato nonché per la gestione degli altri istituti connessi al rapporto di lavoro (ferie, malattia, ecc.).
E’ evidente che la rilevazione, per i fini di cui si è detto, riguarderà solo le presenze e le assenze e non anche la quantità oraria delle prestazioni giornaliere, dato che, come si è detto, non è prevista per i segretari alcuna quantificazione dell’orario di lavoro dovuto settimanalmente.
Si ricorda anche che la previsione di un controllo di tipo automatico dell’osservanza dell’orario di lavoro è contenuta direttamente nell’art. 22, comma 3, della legge n. 724/1994 (parere 24.10.2013 n. SEG-034 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / SEGRETERIE CONVENZIONATE / La retribuzione aggiuntiva di cui all’art. 45, comma 1, del CCNL del 16.05.2001, riconosciuta ai segretari comunali in caso di servizio di segreteria convenzionata, è dovuta anche nei casi di astensione dal lavoro di durata elevata (maternità o malattia)? Qual è la normativa di riferimento?
Ai fini della determinazione dell’ammontare della retribuzione aggiuntiva per segreteria convenzionata che può essere riconosciuta al segretario comunale, la disciplina contrattuale (art. 45 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 16.05.2001, relativo al quadriennio normativo 1998-2001 ed al biennio economico 1998-1999), prevede un sistema di calcolo incentrato sull’applicazione di una predefinita percentuale su un insieme di voci retributive, tra le quali sono ricompresi anche compensi accessori. Si ritiene che venga in considerazione un emolumento comunque riconducibile al trattamento stipendiale piuttosto che a quello accessorio.
A sostegno di tale interpretazione, si possono richiamare i seguenti profili:
a) il compenso si può qualificare come trattamento economico fondamentale di attività, in quanto finalizzato a remunerare i particolari e più gravosi compiti che il segretario è chiamato a svolgere presso più enti, con assunzione di maggiore responsabilità;
b) il dato formale rappresentato dalla circostanza che, pure in mancanza di previsioni espresse nel testo dell’art.45 del CCNL del 16.05.2001, la clausola contrattuale qualifica il suddetto emolumento come “retribuzione mensile aggiuntiva” e, quindi, come tale non può non essere ricondotta al trattamento stipendiale;
c) la circostanza che, ai fini della determinazione si faccia riferimento anche a voci del trattamento economico accessorio, non acquista, per quel che interessa, uno specifico rilievo ai fini della riconduzione del compenso al trattamento economico accessorio del segretario, in quanto si tratta di un mero criterio di calcolo: la definizione della base di calcolo su cui applicare la prevista percentuale del 25%.
Occorre, infatti, considerare che nelle previsioni dell’art. 45, comma 1, del CCNL del 16.05.2001, attraverso il riferimento all’art. 37, comma 1, del medesimo CCNL, vengono inserite nella suddetta base di calcolo anche voci retributive, in godimento del segretario, di natura evidentemente stipendiale: lett. a) - trattamento stipendiale; lett. b) - indennità integrativa speciale; lett. c) - la retribuzione individuale di anzianità, ove acquisita; lett. e) e) maturato economico annuo, ove spettante. Proprio il rinvio anche a voci retributive stipendiali evidenzia ulteriormente la riconduzione del compenso al trattamento economico fondamentale di attività;
d) le modalità di computo della tredicesima mensilità. Infatti, pure in mancanza di previsioni espresse nel testo del CCNL del 16.05.1001, proprio perché trattasi di “retribuzione” aggiuntiva e, quindi, di trattamento stipendiale, l’avviso della scrivente Agenzia è sempre stato nel senso che, nella determinazione dell’ammontare della tredicesima mensilità del segretario incaricato di segreteria convenzionata, dovesse tenersi conto anche del rateo relativo alla retribuzione aggiuntiva allo stesso corrisposta, ai sensi dell’art. 45 del CCNL del 16.5.2001;
e) l’ulteriore elemento di sostegno della ricostruzione fatta è rappresentato anche dalla circostanza che l’INPDAP nella sua circolare applicativa del 2002 sul CCNL dei segretari comunali del 2001, considera tale particolare voce retributiva come fissa e ricorrente e, quindi, utile ai fini della quota A della pensione;
f) l’elemento di natura tecnico–sistematica utilizzata dalle parti negoziali nella stesura del testo contrattuale con riferimento alle voci che compongono il trattamento economico, fondamentale ed accessorio, del segretario comunale. Infatti, quando le stesse hanno inteso compensare una specifica funzione o responsabilità solo in sede di trattamento economico accessorio, lo hanno fatto espressamente. Cosi, ad esempio, per le eventuali funzioni aggiuntive attribuite al segretario, l’art. 41, comma 4, del CCNL del 16.05.2001, è stata prevista espressamente solo una maggiorazione della retribuzione di posizione del segretario, sia pure demandandone la effettiva attuazione alla contrattazione decentrata integrativa di livello nazionale di questa particolare categoria di personale.
g) pertanto, se le parti avessero voluto compensare le funzioni connesse alle sedi di segreteria convenzionata solo in sede di trattamento economico accessorio, avrebbero fatto riferimento semplicemente alle previsioni del citato art. 41, comma 4, del CCNL del 16.05.2001.
Pertanto, se si tratta di una voce retributiva riconducibile al trattamento stipendiale, come sopra evidenziato, in caso di assenza per malattia o di astensione per maternità essa sarà assoggettata alle stesse regole previste per quest’ultimo (parere 24.10.2013 n. SEG-032 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / In presenza del conglobamento nello stipendio tabellare del segretario di una quota della retribuzione di posizione, con conseguente rideterminazione in diminuzione del valore della stessa con decorrenza dal 31.12.2009, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del CCNL dell’01.03.2011, ove nel periodo 31.12.2009–01.03.2011, si sia proceduto alla decurtazione del trattamento accessorio per malattia del segretario (art. 71 della legge 133/2008), con riferimento quindi al precedente e più elevato importo della retribuzione di posizione, l’ente può procedere al conguaglio della trattenuta operata, adeguandola al nuovo importo della retribuzione di posizione prevista con decorrenza dal 31.12.2009?
L’art. 3, commi 4 e 5, del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 01.03.2011, relativo al biennio 2008-2009, come è noto, ha operato il conglobamento di una quota della retribuzione di posizione del segretario ai fini della realizzazione dell’allineamento dello stipendio tabellare di tale categoria di personale con quello della dirigenza del Comparto Regioni-Autonomie Locali.
Conseguentemente, dalla medesima data del 31.12.2009, la retribuzione di posizione dei segretari è stata ridefinita nel più basso importo previsto per i tre livelli dall’art. 3, comma 6, del medesimo CCNL del 01.03.2011.
Attraverso la previsione espressa della decorrenza della nuova disciplina al 31.12.2009, è indubbia l’efficacia retroattiva della stessa.
Pertanto, poiché la decurtazione del trattamento accessorio per malattia del segretario è stata operata nel periodo temporale successivo al 31.12.2009, e quindi sulla base del precedente e più elevato importo della retribuzione di posizione allo stesso spettante, e considerata la retroattività della nuova disciplina contrattuale sopra richiamata, si ritiene che l’ente non possa non procedere al conguaglio della trattenuta già posta in essere, adeguandola cioè al nuovo importo della retribuzione di posizione prevista con decorrenza appunto dal 31.12.2009 (parere 13.08.2012 n. SEG-037 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI RISULTATO / E’ possibile fare riferimento alle tabelle ACI per il rimborso delle spese di viaggio sostenute dal segretario titolare di segreterie convenzionate, ai sensi dell’art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001?
L’art. 45, comma 2 del CCNL del 16.05.2001 stabilisce che “al segretario titolare di segreterie convenzionate, per l'accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute e documentabili” e non contiene alcun riferimento alle tabelle chilometriche elaborate dall’ACI che, pertanto, non possono essere utilizzate.
E’ onere del Segretario fornire la documentazione delle spese effettivamente sostenute (parere 05.12.2011 n. SEG-029 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / SEGRETERIE CONVENZIONATE / Quali spese possono essere rimborsate al segretario titolare di segreterie convenzionate ai sensi dell’art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001?
Non possiamo che rinviare alla chiara previsione dell’art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001, secondo il quale “al segretario titolare di segreterie convenzionate, per l'accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute e documentabili”.
Si tratta di una previsione che non necessita, a nostro modo di vedere, di alcun ulteriore chiarimento: o le spese effettivamente sostenute per l’accesso alle diverse sedi sono documentabili, e allora il segretario avrà diritto al loro rimborso (negli importi documentati); o esse non sono documentabili, in tutto o in parte, e allora non sarà possibile alcun rimborso o sarà possibile il loro rimborso solo per la parte documentata.
Precisiamo, infine, che la citata disposizione contrattuale consente di rimborsare le spese sostenute dal segretario per recarsi nella seconda sede di segreteria anche quando egli non passi per la prima sede di segreteria ma parta direttamente dal suo domicilio (parere 05.12.2011 n. SEG-028 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / SEGRETERIE CONVENZIONATE / E’ possibile liquidare nel 2010 la retribuzione di risultato del segretario comunale relativa al 2006?
A tal fine si evidenzia che:
a) il comune capofila della convenzione di segreteria intende procedere alla liquidazione dell’intero importo, con conseguente ripartizione della quota a carico di ciascun comune convenzionato;
b) non risultano agli atti preventivi accordi tra i comuni convenzionati, non vi è impegno di spesa, né risultato assegnati gli obiettivi, di cui all’art. 42 del CCNL del 16.05.2001.
Nel caso in cui l’ente capofila debba corrispondere la retribuzione di risultato, lo stesso è obbligato per la quota parte o deve anticipare anche la quota eventualmente a carico degli altri comuni in convenzione?
Il segretario non è titolare di un autonomo e preciso diritto alla percezione dell’indennità di risultato e che questa, comunque, non può essere erogata in modo automatico e per il solo servizio prestato.
L’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 16.05.2001, stabilisce che la corresponsione dell’indennità di risultato può avvenire solo nel rispetto delle precise condizioni e modalità ivi stabilite e cioè:
1.preventiva fissazione e formale conferimento al segretario di precisi obiettivi, tenendo conto del complesso degli incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione dell’incarico di funzione di Direttore Generale;
2.valutazione annuale degli obiettivi e dei risultati conseguiti dal segretario da parte degli enti che, a tal fine, utilizzano, con gli opportuni adattamenti, la disciplina adottata ai sensi del D.Lgs. n. 286/1999, relativo alla definizione di meccanismi e strumenti di monitoraggio dei costi, dei rendimenti e dei risultati.
Pertanto, la mancanza dei presupposti sopra indicati non consente in alcun modo l’erogazione della retribuzione di risultato al segretario. Come specificato dal citato art. 42 del CCNL del 16.05.2001, in tale ambito di valutazione, non si deve tenere conto degli obiettivi e dei risultati attinenti all’incarico di direttore generale.
Inoltre, si deve precisare anche che:
a) la stessa possibilità di erogare la retribuzione di risultato al segretario e la misura della stessa sono rimesse integralmente alle autonome valutazioni dell’ente, dato che l’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 16.05.2001, in materia, non prevede alcun criterio specifico, (fatto salvo quanto specificato nel successivo punto b) limitandosi solo stabilire che tale determinazione debba avvenire: “….nell’ ambito delle risorse disponibili e nel rispetto della propria capacità di spesa.”;
b) in base all’art. 42 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 16.05.2001, l’ammontare della retribuzione di risultato dei segretari non può superare la percentuale del 10% del monte salari riferito a ciascun segretario;
c) la nozione di “monte salari”, ampiamente diffusa nell’esperienza applicativa di tutti i comparti di contrattazione collettiva, come base di calcolo per la definizione delle risorse finanziarie disponibili per i rinnovi contrattuali, ricomprende tutte le somme corrisposte nell’anno di riferimento, determinate sulla base dei dati inviati da ciascun ente, ai sensi dell’art. 60 del D.Lgs. n. 165/2001, in sede di rilevazione dei dati per il conto annuale, e con riferimento ai compensi corrisposti al personale destinatario del CCNL in servizio in tale anno;
d) tali somme ricomprendono quelle corrisposte a titolo di trattamento economico sia principale che accessorio, ivi comprese le incentivazioni, al netto degli oneri accessori a carico dell’ente e con esclusione degli emolumenti non correlati ad effettive prestazioni lavorative (assegni per il nucleo familiare, indennità di trasferimento, indennità di mensa, somme corrisposte a titolo di equo indennizzo, ecc.);
e) tra le diverse voci retributive da considerare non sembra possibile inserire anche l’indennità per funzioni di direttore generale, di cui all’art. 44 del citato CCNL del 16.05.2001; in tal senso, si deve evidenziare che la formulazione testuale dell'articolo 42, comma 1, del CCNL del 16.05.2001, secondo la quale la retribuzione di risultato è correlata al conseguimento degli obiettivi assegnati e "...tenendo conto del complesso degli incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione dell'incarico di direttore generale", esclude, all'origine, l’indennità per funzioni di direttore generale dal computo del monte salari sul quale calcolare la suddetta retribuzione di risultato del segretario. Diversamente ritenendo, si determinerebbe una evidente violazione del citato art. 42, comma 1, del CCNL del 16.05.2001.
Poiché si tratta di un emolumento da corrispondere solo a seguito della positiva verifica e certificazione del conseguimento degli obiettivi annuali assegnati al segretario, nel caso in cui siano stati posti in essere tutti gli adempimenti sopra indicati, qualora la valutazione prevista sia integralmente o parzialmente non positiva, si avrà la non corresponsione o l’ eventuale riduzione della retribuzione di risultato del segretario.
Gli adempimenti richiamati, e soprattutto la preventiva fissazione degli obiettivi e dei risultati che il segretario deve conseguire, sono, come detto, un presupposto indefettibile per la corretta applicazione dell’istituto.
Pertanto, la scrivente Agenzia non ritiene possibile una erogazione “a posteriori”, a sanatoria, della retribuzione di risultato al segretario, sulla base di una valutazione, ora per allora, di prestazioni e risultati già resi e conosciuti. Un tale comportamento, in contrasto con le regole contrattuali, potrebbe essere censurato dai Servizi ispettivi del Ministero dell’Economie ed essere considerato fonte di possibile responsabilità per danno erariale dalla Corte dei Conti, che in passato ha già stigmatizzato tali prassi, con riferimento alla retribuzione di risultato sia della dirigenza sia dei titolari di posizione organizzativa (sezione giurisdizionale per il Veneto, decisione n. 1158/2006; Sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo, decisione 239/06/E.L).
Nel senso dell’impossibilità di un riconoscimento “a posteriori” depone anche la circostanza che, ai fini dell’erogazione della retribuzione di risultato, l’art. 42, comma 2, del CCNL del 16.05.2001 richiede all’ente il preventivo accertamento della effettiva sussistenza delle risorse a tal fine necessarie nel rispetto della propria capacità di spesa.
Proprio perché tale verifica doveva essere fatta in via preventiva per l’anno in cui si decideva l’erogazione della voce retributiva di cui si tratta (con riferimento alla situazione dell’ente stesso, anche con riferimento alle risorse ed alla propria capacità di bilancio, quale era all’epoca), si esclude che essa possa intervenire “ora per allora”, per consentire il pagamento della stessa con efficacia retroattiva.
Relativamente alle segreterie convenzionate, ai fini della ripartizione degli oneri, come regola generale, occorre fare riferimento ai contenuti della convenzione di segreteria.
Infatti, questa dovrebbe prevedere modalità di ripartizione degli oneri di segreteria convenzionata tali da garantire, comunque, l’autonomia decisionale di ciascun ente (valutazione dei risultati conseguiti dal segretario presso la singola sede) e, soprattutto, il rispetto delle previsioni dell’art. 42, comma 2, del CCNL del 16.05.2001, che, come detto, ai fini dell’attribuzione e della corresponsione della retribuzione di risultato, fa riferimento alle "risorse disponibili" ed al "rispetto della capacità di spesa" degli Enti (parere 05.12.2011 n. SEG-026 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALI: SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / SEGRETERIE CONVENZIONATE / Come si calcola l'importo della retribuzione di risultato dei segretari comunali in convenzione?
La eventuale retribuzione di risultato dei segretari comunali e provinciali, ai sensi dell’art. 42, comma 2, del CCNL del 16.05.2001, deve essere determinata in un importo non superiore al 10% del “monte salari” riferito a “ciascun segretario”.
Questa chiara previsione contrattuale impone agli enti di far riferimento, come base di calcolo, all’effettivo “monte salari” che costituisce la retribuzione di “ciascun segretario”.
Nel caso di servizi in convenzione, il “monte salari” corrisponde all’insieme dei compensi che il segretario effettivamente percepisce a carico di bilanci dei diversi enti convenzionati; l’eventuale retribuzione di risultato (nella misura unica del 10%) ci sembra corretto che venga ripartita tra gli stessi enti, in proporzione alla distribuzione degli oneri prevista dalla convenzione.
In altri termini, non sono consentite valutazione di “basi retributive virtuali” (parere 05.12.2011 n. SEG-025 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / La retribuzione di posizione del segretario generale da tenere in considerazione per operare il c.d. "galleggiamento", previsto dall’art. 41 comma 5, del CCNL 16/05/2001 è quella di base prevista contrattualmente o quella maggiorata, ai sensi dell’art. 41, comma 4, del medesimo contratto?
Ai fini dell’applicazione della regola contrattuale del cosiddetto “galleggiamento”, ai sensi dell’art. 41, comma 5, del CCNL dei segretari comunali del 16.05.2001, si deve tenere conto dell’importo della retribuzione di posizione effettivamente corrisposta al segretario generale e, quindi, anche della eventuale maggiorazione della retribuzione di posizione allo stesso riconosciuta, ai sensi dell’art. 41, comma 4, del CCNL del 16.05.2001 e dello specifico CCDI del 22.12.2003.
A tal fine si evidenzia che la regola del “galleggiamento”, ai fini della sua applicazione, presuppone una necessaria comparazione dei valori della retribuzione di posizione stabilita per la funzione dirigenziale più elevata presente nell’ente e di quella prevista per il segretario.
Conseguentemente, non può non tenersi conto degli effetti dell’art. 41, comma 4, che, in presenza di determinate condizioni e requisiti, prevede una maggiorazione proprio della retribuzione di posizione al di sopra degli importi per questa stabiliti dalla disciplina contrattuale (art. 41, comma 3, del CCNL del 16.05.2001, relativo al quadriennio normativo 1998-2001 ed art. 3 del CCNL del 16.05.2001, relativo al biennio economico 2000-2001).
Gli enti possono riconoscere o meno detta maggiorazione, ma se la attribuiscono essa non può essere considerata una voce distinta dalla retribuzione di posizione. Pertanto, poiché la maggiorazione è sempre parte integrante della retribuzione di posizione in godimento del segretario, essa non può non essere computata ai fini del “galleggiamento” (parere 05.12.2011 n. SEG-020 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Alla luce del principio di onnicomprensività della retribuzione sancito dell’art. 24, comma 3, del D.Lgs. 165/2001, è possibile attribuire uno specifico compenso al Segretario Generale nominato componente del nucleo di valutazione interno dell’ente?
Premesso che l’art. 24, comma 3, del D.Lgs. 165/2001 non è direttamente applicabile al Segretario Generale, figura sui generis equiparata ai dirigenti solo a talune finalità e solo in alcune ipotesi (v. art.32 CCNL 16.5.2001), questa Agenzia ha già avuto modo di chiarire che problemi come quello in esame devono essere risolti valutando se le prestazioni correlate all’incarico attribuito rientrano o meno nelle ordinarie competenze del dipendente interessato.
Nella prima ipotesi, esse rientrano nei normali obblighi di lavoro (sono svolte "ratione officii"), vengono svolte durante l'orario di lavoro e sono retribuite unicamente con il trattamento economico fondamentale e accessorio previsto dal CCNL (v. art.41, comma 6 del CCNL del 16.5.2001, secondo il quale “la retribuzione di posizione … assorbe ogni altra forma di compenso connessa alle prestazioni di lavoro…”).
Se, invece, dette prestazioni si collocano al di fuori delle competenze ordinarie, e quindi non sono svolte "ratione officii", esse possono essere svolte solo su incarico (o preventiva autorizzazione) dell'ente, ai sensi dell'art. 53 del D.Lgs.165/2001, devono essere svolte al di fuori e non a carico dell'orario di lavoro e solo in tal caso possono essere percepiti eventuali compensi o gettoni ulteriori rispetto al trattamento economico fondamentale e accessorio previsto dai contratti collettivi.
La soluzione del problema va ricercata quindi nel contenuto delle regole adottate dal vostro ente per la istituzione e il funzionamento del nucleo di valutazione (parere 05.12.2011 n. SEG-019 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / L’art. 42 del CCNL dei Segretari comunali e provinciali stabilisce che la retribuzione di risultato non deve essere superiore al 10% del monte salari riferito a ciascun segretario nell’anno di riferimento. Come si calcola tale monte salari? Comprende anche i diritti di segreteria?
a) la nozione di “monte salari” ha carattere generale nel settore pubblico in quanto rappresenta un elemento utilizzato in tutti i contratti per la quantificazione delle risorse da destinare al fondo per l’erogazione dei trattamenti accessori al personale;
b) tale nozione, sotto il profilo applicativo, ha una portata molto ampia in quanto ricomprende tutte le somme corrisposte nell’anno di riferimento al personale, rilevate dai bilanci consuntivi delle singole amministrazioni e con riguardo ai compensi corrisposti al personale destinatario del CCNL in servizio nello stesso anno (tali somme ricomprendono quelle corrisposte sia a titolo di trattamento economico principale che accessorio, ivi comprese le incentivazioni, al netto degli oneri accessori a carico delle amministrazioni e con esclusione dei soli emolumenti aventi carattere indennitario, risarcitorio o rimborso spese);
c) pertanto tale nozione non può avere una diversa e minore valenza nel caso del CCNL dei segretari comunali e provinciali;
d) conseguentemente, ai fini della determinazione della retribuzione di risultato del segretario, il monte salari non può non ricomprendere tutte le voci retributive che compongono la retribuzione dello stesso, tenendo conto delle indicazioni contenute negli artt. 42 e 43 del CCNL del 16.05.2001; in particolare, esso ricomprende anche la voce “diritti di segreteria” (parere 05.12.2011 n. SEG-018 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / E’ possibile attribuire i compensi ISTAT al segretario comunale responsabile dell’area amministrativa?
Riteniamo che i compensi ISTAT non possano essere attribuiti al segretario comunale responsabile dell’area amministrativa. Infatti, tale possibilità non è in alcun modo prevista nell’ambito della disciplina del trattamento economico di segretari comunali e provinciali contenuta nei CCNL del 16.05.2001.
Inoltre, non è neppure estensibile al segretario comunale, destinatario di una propria specifica regolamentazione contrattuale (ai sensi dell’art. 97, comma 6, del D.Lgs. n. 267/2000 e dell’art. 14 del DPR n. 465/1997), la disciplina dell’art. 14, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, dell’art. 39, comma 2, del CCNL del 14.09.2000 che consente di erogare i compensi ISTAT all’altro personale che sia titolare di posizione organizzativa. Analogo criterio è valido anche per il personale con qualifica dirigenziale (parere 05.12.2011 n. SEG-017 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / La disciplina sulla 'parificazione' della retribuzione di posizione del Segretario con quella della posizione organizzativa più elevata dell'ente, con quale decorrenza deve essere applicata?
In relazione ai quesiti formulati con la lettera cui rispondiamo, dobbiamo ancora una volta confermare il principio secondo il quale la disciplina dei contratti collettivi di lavoro, compreso quello dei segretari comunali e provinciali stipulato il 16.05.2001, può trovare applicazione solo dal giorno successivo a quello della sottoscrizione definitiva; nel caso specifico dal 17.05.2001.
Sono fatte salve, naturalmente, tutte le diverse decorrenze, anche retroattive, che fossero espressamente consentite dallo stesso CCNL.
In particolare l’espressione usata dall’art. 2, comma 1, del CCNL in parola, secondo la quale “il presente contratto concerne il periodo 01.01.1998–31.12.2001, non può in alcun modo essere intesa come fissazione alla data dell’01.01.1998 degli effetti applicativi delle diverse clausole contrattuali".
Basta, infatti, tener conto anche del contenuto del secondo comma del citato art. 2, per trovare la conferma esplicita del principio sopra affermato.
Naturalmente anche la disposizione relativa alla “parificazione” della retribuzione di posizione del Segretario a quella stabilita per la più elevata posizione organizzativa dell' ente (art. 37, comma 5) non può non trovare applicazione che dalla ripetuta data del 17.05.2001.
Riteniamo utile chiarire, ancora, per evitare equivoci interpretativi, che il valore di L. 25.00.000 deve corrispondere ad una posizione organizzativa che viene effettivamente retribuita con un compenso pari a quell’importo (parere 05.12.2011 n. SEG-016 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Con quali criteri deve essere applicata la disciplina dell'art. 41, comma 5, del CCNL dei Segretari per la 'parificazione' con la retribuzione di posizione della posizione dirigenziale più elevata dell'ente? Si deve tener conto del valore effettivo o di quello massimo teorico (L. 82.000.000)?
La disciplina dell’art. 41, comma 5, del CCNL dei segretari comunali e provinciali, sottoscritto il 16.05.2001, debba essere correttamente interpretata e applicata nel senso che il confronto tra la retribuzione di posizione del segretario e quella della posizione dirigenziale più elevata dell'ente, deve essere effettuata sulla base dell’effettivo valore “stabilito” per detta ultima posizione ed effettivamente corrisposto al dirigente titolare della posizione medesima.
In altri termini non deve farsi riferimento ad un dato teorico, meno che mai al valore teorico massimo di L. 82.000.000, ma all’importo reale che la singola amministrazione ha determinato per la posizione dirigenziale al massimo livello di responsabilità.
Più banalmente possiamo convenire che il termine “stabilito” debba essere inteso come equivalente di “percepito”.
Naturalmente la citata disciplina dell’art. 41, comma 5, può trovare applicazione solo dal giorno successiva alla data di definitiva sottoscrizione del CCNL (parere 05.12.2011 n. SEG-015 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Con quali decorrenze deve essere corrisposta la retribuzione di posizione ai Segretari? La retribuzione di posizione è interamente utile ai fini pensionistici e previdenziali? E’ possibile compensare eventuali incarichi per la partecipazione a commissioni o ad altri organismi?
In relazione al quesito specifico riteniamo utile fornire i seguenti elementi di chiarimento:
◦ la disciplina dei contratti collettivi di lavoro, come regola generale, trova applicazione dalla data di definitiva sottoscrizione del documento da parte dell’ARAN e delle organizzazioni sindacali; sono fatte salve, naturalmente, le eventuali diverse decorrenze, anche retroattive, espressamente previste nel testo del CCNL;
◦ per i nuovi valori della retribuzione di posizione, la tabella n. 2 allegata al CCNL prevede tre specifiche decorrenze cui sono correlati tre diversi importi, in crescendo, della stessa retribuzione: 31.12.1997, dicembre 99 e 31.12.1999;
◦ con effetto dalle date suindicate ai segretari interessati devono essere corrisposti i corrispondenti valori, con il conseguente conguaglio rispetto agli analoghi compensi fruiti in precedenza.
Riteniamo utile aggiungere che, nella determinazione degli eventuali conguagli, occorre tener conto di quanto eventualmente già percepito come compensi per lavoro straordinario, ai sensi dell’art. 41, comma 6, del CCNL del 16.05.2001 (parere 05.12.2011 n. SEG-013 - link a www.aranagenzia.it).

SEGRETARI COMUNALISEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI / RETRIBUZIONE DI POSIZIONE / Oltre alla retribuzione di posizione e di risultato, possono essere corrisposti ulteriori compensi ai segretari per altri incarichi organizzativi conferiti nell'ente?
L’attuale CCNL relativo ai segretari comunali e provinciali prevede una organica ed esaustiva disciplina della retribuzione di posizione che assorbe ogni altro compenso connesso alle prestazioni di lavoro.
Al di fuori delle disposizioni, anche di favore, contenute nell’art. 41 del citato CCNL, non riteniamo, pertanto, che possano essere posti in essere ulteriori incrementi dei compensi contrattualmente definiti, anche se correlati a specifici incarichi organizzativi o gestionali (parere 05.12.2011 n. SEG-012 - link a www.aranagenzia.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEL’analisi complessiva delle varie pronunce di Sezioni regionali di controllo già intervenute in materia consente altresì di enucleare gli specifici caratteri e condizioni che devono ricorrere nei casi di interventi di manutenzione perché ad essi possa ritenersi applicabile il sistema incentivante considerato.
E' stato unanimemente acclarato che la possibilità di corrispondere l’incentivo in parola è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori, i cui connotati sono normativamente definiti negli artt. 7 e 8 del Codice dei contratti pubblici, con conseguente divieto di estensione agli appalti di fornitura o servizi.
---------------

Il c.d. “incentivo alla progettazione” non può essere riconosciuto per qualunque intervento di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di manutenzione riferiti alla realizzazione di un’opera pubblica.
---------------
Il regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice, approvato con d.p.r. 05.10.2010, n. 207,
definisce la manutenzione come “la combinazione di tutte le azioni tecniche, specialistiche ed amministrative, incluse le azioni di supervisione, volte a mantenere o a riportare un'opera o un impianto nella condizione di svolgere la funzione prevista dal provvedimento di approvazione del progetto” (art. 3, co. 1, lett. n).
Elementi essenziali perché possa parlarsi di lavori di manutenzione appaiono quindi l’inerenza ad un’opera, la finalità di ripristino funzionale, l’approvazione di un progetto. In ogni caso, dovrà porsi attenzione ai criteri distintivi affermati dalla giurisprudenza (specialmente amministrativa) da cui deriva, tra l’altro, la precisazione per cui la manutenzione può rientrare nell’ambito dei lavori –e non in quello dei servizi– sempre che l’attività dell’appaltatore comporti la creazione di un aliquid novi, vale a dire un’azione prevalente ed essenziale di modificazione della realtà fisica, con l’utilizzazione, la manipolazione e l’installazione di materiali aggiuntivi e sostitutivi non inconsistenti sul piano strutturale e funzionale.
---------------
Si è affermato che presupposto per l’applicazione dell’incentivo è che alla base dei lavori di manutenzione riferiti ad un’opera pubblica vi sia una necessaria attività di progettazione.

Tale assunto è stato anche precisato nel senso che
l’attività di progettazione richiesta ai fini in esame è quella cui si riferiscono gli articoli 90, 91 e 93 del Codice dei contratti pubblici, articolata in varie fasi secondo differenti livelli di successivi approfondimenti tecnici. Se in regime ordinario tali livelli sono i tre corrispondenti alla progettazione, rispettivamente, preliminare, definitiva ed esecutiva, va ricordato che, in base all’art. 105 del già citato regolamento attuativo del Codice, in taluni casi l’esecuzione dei lavori di manutenzione può prescindere dall’avvenuta redazione ed approvazione del progetto esecutivo (comma 1), mentre i contratti di lavori di manutenzione ordinaria possono essere affidati sulla base di un progetto definitivo costituito almeno da una relazione generale, dall’elenco dei prezzi unitari delle lavorazioni previste, dal computo metrico-estimativo, e dal piano di sicurezza e di coordinamento (comma 2).
Fatta salva quest’ultima eccezione (e comunque entro i termini in cui essa è prevista),
ciò che va escluso è che, ai fini del riconoscimento dell’incentivo, all’attività di progettazione come sopra identificata possano essere assimilati atti di altra natura, quali ad esempio gli studi di fattibilità oppure quelli comunemente denominati “elaborati progettuali”, come la stima sommaria delle opere da eseguire, l’elenco dei prezzi, la bozza di contratto, eccetera.
In presenza di lavori di manutenzione che assai difficilmente possono comportare problematiche progettuali di particolare complessità, i dipendenti dell’ente coinvolti nelle attività considerate dall’art. 92, co. 5, Codice dei contratti pubblici, non hanno titolo a vedersi attribuito l’incentivo previsto se l’espletamento di tali attività è ricompreso negli ordinari compiti d‘ufficio che gli stessi sono tenuti ad assolvere, posto che per la relativa remunerazione vale in tal caso il trattamento fondamentale ed accessorio contrattualmente previsto.
Tale assunto, essenzialmente ispirato a un criterio di ragionevolezza, risulta oggi suffragato dalla posizione su cui si è attestata altra articolazione regionale della Corte dei conti secondo cui, con espresso riferimento (esemplificativo) a taluni lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria,
sarebbe lecito attendersi che i regolamenti interni delle amministrazioni fissino una soglia minima di rilevanza tecnica dei lavori e delle opere (in termini di entità dell’importo e/o di complessità), al di sotto della quale non sia prevista la corresponsione di alcun incentivo aggiuntivo, trattandosi di fattispecie in cui obiettivamente non è richiesta un’attività di progettazione quale richiamata negli artt. 90-93 del Codice.
In base all’art. 125, co. 6, Codice dei contratti pubblici, la manutenzione di opere od impianti rientra tra i lavori eseguibili in economia.
---------------

Nei casi di lavori di manutenzione eseguiti in economia l’art. 92, co. 5, del Codice dei contratti pubblici non trova applicazione ove venga meno il necessario presupposto di una procedura ad evidenza pubblica, ove cioè non vi sia svolgimento di una gara alla cui base sia posto l’importo cui è normativamente commisurato l’incentivo in questione.
Solamente gli organi dell’Ente deputati ad assumere le determinazioni previste sono in grado di disporre di tutti gli elementi informativi e di giudizio relativi alla fattispecie amministrata e di stabilire di conseguenza se sussistono le condizioni per l’erogazione dell’incentivo.
Gli spazi per il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione in caso di attività manutentive appaiono in concreto alquanto ristretti, specialmente per quanto concerne la manutenzione ordinaria che, infatti, in diverse delle pronunce segnalate è esclusa tout court dal novero dei lavori incentivabili ex art. 92, co. 5.
Non appare casuale, a questo proposito, che la nuova disciplina della materia, come visto introdotta dall’art. 13-bis, d.l. n. 90/2014, pur ricalcando in linea di massima quella dell’art. 92, co. 5 in esame, tuttavia esclude espressamente le attività manutentive dalle opere che i regolamenti degli enti possono considerare ai fini del riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione (art. 93, co. 7-ter, d.lgs. n. 163/2006).
---------------

Un’ultima notazione viene riservata all’incarico di coordinatore della sicurezza nella fase dell’esecuzione che nella richiesta di parere viene ricompreso tra quelli per cui è viene ipotizzato il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione.
Tale tipo di figura, infatti, non rientrerebbe in realtà nell’elenco dei possibili beneficiari previsto dall’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006.

---------------
Il Sindaco del Comune di Rapallo ha formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta applicazione dell’articolo 92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, concernente il riconoscimento di incentivi alla progettazione di opere pubbliche a favore del personale dipendente dell’amministrazione.
In essa si legge che, per l’esecuzione di diverse opere di manutenzione ordinaria e straordinaria di immobili, strade ed aree pubbliche, l’Amministrazione Comunale, nell’ottica di ridurre le spese per consulenze, ha affidato a propri dipendenti gli incarichi rispettivamente di, responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, coordinatore della sicurezza e collaudatore.
Tra le opere in questione vengono menzionate, a titolo esemplificativo, gli interventi per la manutenzione di murature, intonaci e pitturazioni di edifici pubblici, implicanti l’uso di ponteggiature per lavorazioni in elevazione, nonché lavori stradali quali scarifiche, asfaltature, ricostruzione di muri e sostegni di protezione stradale, comportanti l’uso di macchinari complessi in cantieri ad alta responsabilità in termini di sicurezza e gestione della viabilità.
Ciò premesso, il Sindaco del Comune chiede specificamente se l’incentivo di cui al citato art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006 possa essere riconosciuto anche in relazione a lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria riguardanti la realizzazione di opere pubbliche alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione e che comportano l’allestimento di cantieri edili o stradali nonché l’affidamento di incarichi procedurali/esecutivi di responsabilità, tipo quelli esemplificativamente indicati.
...
3. Nel merito, occorre anzitutto premettere che la disposizione di cui si discute, ovvero l’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006 (così come il successivo comma 6 relativo agli incentivi per la redazione di atti di pianificazione), è stata recentemente abrogata dall’articolo 13, comma 1, del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114. La disciplina relativa alla incentivazione della progettazione interna è stata quindi oggetto di riconsiderazione ad opera del successivo articolo 13-bis, d.l. n. 90/2014, che ha a tal fine inserito all’art. 93, d.lgs. n. 163/2006, in particolare, i nuovi commi 7-bis e 7-ter.
In ogni caso,
tanto la suddetta abrogazione quanto la nuova disciplina (che non interviene a titolo di interpretazione autentica della precedente) non hanno effetto retroattivo e pertanto non valgono che per l’avvenire. Tale evenienza è nota al Comune istante che, infatti, nelle premesse, riferisce la richiesta di parere alle attività compiute in vigenza della disposizione oggi soppressa, in relazione alle quali sopravvive appunto l’interesse del Comune ad ottenere i chiarimenti invocati a questa Sezione.
4. Il tema dei presupposti e delle modalità applicative dell’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) è già stato diffusamente affrontato dalla giurisprudenza contabile in sede consultiva e numerose pronunce hanno riguardato, in particolare, proprio la questione della possibilità di ricomprendere nell’ambito di operatività della norma anche ipotesi di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria fatti eseguire dagli enti locali (oltre a Sezione controllo Lombardia parere 06.03.2013 n. 72, Sezione controllo Liguria
parere 10.05.2013 n. 24 e Sezione controllo Piemonte parere 28.02.2014 n. 39, ricordate dal Comune nell’istanza di parere, si menzionano altresì Sezione controllo Lombardia parere 15.10.2013 n. 442 e parere 28.05.2014 n. 188, Sezione controllo Piemonte parere 16.01.2014 n. 8 e parere 21.05.2014 n. 97, Sezione controllo Toscana parere 13.11.2012 n. 293, parere 12.12.2012 n. 459 e parere 19.03.2013 n. 15).
Ne emerge un orientamento essenzialmente consolidato anzitutto per quanto attiene all’inquadramento dei profili generali della materia.
Come noto, l’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006, allo scopo di contenere i costi di realizzazione delle opere pubbliche mediante la valorizzazione nelle varie fasi dell’apporto di professionalità interne alle amministrazioni, prevede e disciplina la corresponsione di un incentivo al personale dipendente delle amministrazioni impegnato in specifiche attività collegate alle procedure di affidamento ed esecuzione di appalti pubblici, e cioè, al responsabile del procedimento e agli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché ai loro collaboratori.
E’ stato chiarito che in questo caso il legislatore, riconoscendo un compenso ulteriore e speciale per prestazioni comunque rientranti nell’attività d’ufficio del dipendente, opera in via di eccezione rispetto ai generali principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione dei dipendenti pubblici.
Come tale, la disposizione in esame si presta a stretta interpretazione e, in base all’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, non può applicarsi in via analogica.
Secondo il disposto normativo, la definizione della disciplina di dettaglio per la ripartizione e l’attribuzione dell’incentivo ai dipendenti beneficiari è rimessa alla contrattazione decentrata i cui esiti sono assunti in un regolamento adottato da ciascuna amministrazione. Sulla base delle indicazioni offerte dal dettato legislativo, la giurisprudenza contabile ha individuato i punti fermi che devono essere rispettati nel regolamento interno: per l’esame complessivo degli stessi si rimanda semplicemente alle pronunce sopra segnalate, oltre che per ragioni di brevità espositiva anche perché essi sono in tutto condivisi da questa Sezione e verosimilmente conosciuti dall’Ente istante come risulterebbe dal tenore della richiesta di parere.
5. Venendo al tema oggetto di tale richiesta,
l’analisi complessiva delle varie pronunce di Sezioni regionali di controllo già intervenute in materia consente altresì di enucleare gli specifici caratteri e condizioni che devono ricorrere nei casi di interventi di manutenzione perché ad essi possa ritenersi applicabile il sistema incentivante considerato.
5.1. In linea generale, muovendo dal dato letterale offerto dagli artt. 90, co. 1 e 92, co. 1, d.lgs. n. 163/2006, in cui è fatto espresso riferimento ai concetti di “opera” e “lavori”,
è stato unanimemente acclarato che la possibilità di corrispondere l’incentivo in parola è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori, i cui connotati sono normativamente definiti negli artt. 7 e 8 del Codice dei contratti pubblici, con conseguente divieto di estensione agli appalti di fornitura o servizi.
Con riferimento al campo di attività che qui interessa, il suddetto approdo interpretativo è stato specificato anzitutto nel senso che
il c.d. “incentivo alla progettazione” non può essere riconosciuto per qualunque intervento di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di manutenzione riferiti alla realizzazione di un’opera pubblica.
E’ chiaro che, al riguardo, viene in primo luogo in rilievo la distinzione dei lavori di manutenzione rispetto ai servizi di manutenzione.
Il Codice dei contratti pubblici si limita a comprendere la manutenzione tra i lavori di cui al già menzionato art. 3, comma 8, ed allo stesso tempo, nel successivo comma 10 dell’art. 3, ai fini della definizione degli appalti pubblici di servizi rinvia per l’oggetto alle prestazioni indicate nell’allegato II in cui sono menzionati anche i servizi di manutenzione e riparazione (Allegato II A, categoria 1).
Il regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice, approvato con d.p.r. 05.10.2010, n. 207, definisce la manutenzione come “la combinazione di tutte le azioni tecniche, specialistiche ed amministrative, incluse le azioni di supervisione, volte a mantenere o a riportare un'opera o un impianto nella condizione di svolgere la funzione prevista dal provvedimento di approvazione del progetto” (art. 3, co. 1, lett. n). Elementi essenziali perché possa parlarsi di lavori di manutenzione appaiono quindi l’inerenza ad un’opera, la finalità di ripristino funzionale, l’approvazione di un progetto. In ogni caso, dovrà porsi attenzione ai criteri distintivi affermati dalla giurisprudenza (specialmente amministrativa) da cui deriva, tra l’altro, la precisazione per cui la manutenzione può rientrare nell’ambito dei lavori –e non in quello dei servizi– sempre che l’attività dell’appaltatore comporti la creazione di un aliquid novi, vale a dire un’azione prevalente ed essenziale di modificazione della realtà fisica, con l’utilizzazione, la manipolazione e l’installazione di materiali aggiuntivi e sostitutivi non inconsistenti sul piano strutturale e funzionale (Cons. Stato, Sez. V, 31.01.2006, n. 348).
Si ritiene poi che, sotto questo specifico profilo, possano altresì assumere rilevanza i differenti caratteri che qualificano la manutenzione in ordinaria o straordinaria. Sul piano normativo, ad esempio, sebbene riferito a specifico settore, si rinviene in proposito l’articolo 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico in materia edilizia) che distingue la manutenzione straordinaria per il fatto che gli interventi riguardano opere e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti strutturali degli edifici, mentre quella ordinaria consiste in attività di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture e in quelle volte ad integrare o mantenere l’efficienza di impianti.
5.2. In base agli stessi riferimenti normativi dianzi considerati
si è poi affermato che presupposto per l’applicazione dell’incentivo è che alla base dei lavori di manutenzione riferiti ad un’opera pubblica vi sia una necessaria attività di progettazione.
Tale assunto è stato anche precisato nel senso che
l’attività di progettazione richiesta ai fini in esame è quella cui si riferiscono gli articoli 90, 91 e 93 del Codice dei contratti pubblici, articolata in varie fasi secondo differenti livelli di successivi approfondimenti tecnici. Se in regime ordinario tali livelli sono i tre corrispondenti alla progettazione, rispettivamente, preliminare, definitiva ed esecutiva, va ricordato che, in base all’art. 105 del già citato regolamento attuativo del Codice, in taluni casi l’esecuzione dei lavori di manutenzione può prescindere dall’avvenuta redazione ed approvazione del progetto esecutivo (comma 1), mentre i contratti di lavori di manutenzione ordinaria possono essere affidati sulla base di un progetto definitivo costituito almeno da una relazione generale, dall’elenco dei prezzi unitari delle lavorazioni previste, dal computo metrico-estimativo, e dal piano di sicurezza e di coordinamento (comma 2).
Fatta salva quest’ultima eccezione (e comunque entro i termini in cui essa è prevista),
ciò che va escluso è che, ai fini del riconoscimento dell’incentivo, all’attività di progettazione come sopra identificata possano essere assimilati atti di altra natura, quali ad esempio gli studi di fattibilità oppure quelli comunemente denominati “elaborati progettuali”, come la stima sommaria delle opere da eseguire, l’elenco dei prezzi, la bozza di contratto, eccetera.
5.3. Già con il citato
parere 10.05.2013 n. 24, peraltro adottato in esito ad istanza di codesto Comune di Rapallo, questa Sezione si è espressa nel senso che, in presenza di lavori di manutenzione che assai difficilmente possono comportare problematiche progettuali di particolare complessità, i dipendenti dell’ente coinvolti nelle attività considerate dall’art. 92, co. 5, Codice dei contratti pubblici, non hanno titolo a vedersi attribuito l’incentivo previsto se l’espletamento di tali attività è ricompreso negli ordinari compiti d‘ufficio che gli stessi sono tenuti ad assolvere, posto che per la relativa remunerazione vale in tal caso il trattamento fondamentale ed accessorio contrattualmente previsto.
Tale assunto, essenzialmente ispirato a un criterio di ragionevolezza, risulta oggi suffragato dalla posizione su cui si è attestata altra articolazione regionale della Corte dei conti secondo cui, con espresso riferimento (esemplificativo) a taluni lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria,
sarebbe lecito attendersi che i regolamenti interni delle amministrazioni fissino una soglia minima di rilevanza tecnica dei lavori e delle opere (in termini di entità dell’importo e/o di complessità), al di sotto della quale non sia prevista la corresponsione di alcun incentivo aggiuntivo, trattandosi di fattispecie in cui obiettivamente non è richiesta un’attività di progettazione quale richiamata negli artt. 90-93 del Codice (Sezione controllo Puglia parere 06.02.2014 n. 33 e parere 28.05.2014 n. 114).
5.4.
In base all’art. 125, co. 6, Codice dei contratti pubblici, la manutenzione di opere od impianti rientra tra i lavori eseguibili in economia.
Come noto, in linea generale la previsione della possibilità per le amministrazioni di operare, sia pur entro importi e per categorie di prestazioni legislativamente predeterminati, mediante procedure semplificate quali sono quelle con cui si effettuano le c.d. “spese in economia”, risponde alle esigenze emerse dalla constatazione che il ricorso sistematico a procedure di evidenza pubblica, di regola implicanti costi non trascurabili in capo alle stazioni appaltanti per l’espletamento di gare, finirebbe in taluni casi per contrastare con i principi di economicità e buon andamento dell’attività amministrativa.
Ebbene, secondo l’orientamento comune maturato nella giurisprudenza contabile in sede consultiva,
nei casi di lavori di manutenzione eseguiti in economia l’art. 92, co. 5, del Codice dei contratti pubblici non trova applicazione ove venga meno il necessario presupposto di una procedura ad evidenza pubblica, ove cioè non vi sia svolgimento di una gara alla cui base sia posto l’importo cui è normativamente commisurato l’incentivo in questione.
6. Ciò riferito, si evidenzia tuttavia che la verifica del ricorrere dei presupposti sopra ricostruiti è rimessa, nei singoli casi, a ciascun ente, il quale può già conformare alle indicazioni fornite la propria regolamentazione in materia. D’altronde, anche nel caso in esame, per quanto siano forniti diversi dettagli delle tipologie di lavori di manutenzione sottoposte alla valutazione di questo Collegio,
solamente gli organi dell’Ente deputati ad assumere le determinazioni previste sono in grado di disporre di tutti gli elementi informativi e di giudizio relativi alla fattispecie amministrata e di stabilire di conseguenza se sussistono le condizioni per l’erogazione dell’incentivo (a titolo dimostrativo si osserva, ad esempio, che, in base alla richiesta di parere esaminata, non è dato sapere se l’attività di progettazione svolta risponda ai requisiti sopra indicati, oppure se i lavori siano eseguiti in economia).
Quello che questa Sezione può aggiungere è che, dalla ricostruzione operata,
gli spazi per il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione in caso di attività manutentive appaiono in concreto alquanto ristretti, specialmente per quanto concerne la manutenzione ordinaria che, infatti, in diverse delle pronunce segnalate è esclusa tout court dal novero dei lavori incentivabili ex art. 92, co. 5.
Non appare casuale, a questo proposito, che la nuova disciplina della materia, come visto introdotta dall’art. 13-bis, d.l. n. 90/2014, pur ricalcando in linea di massima quella dell’art. 92, co. 5 in esame, tuttavia esclude espressamente le attività manutentive dalle opere che i regolamenti degli enti possono considerare ai fini del riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione (art. 93, co. 7-ter, d.lgs. n. 163/2006).
8.
Un’ultima notazione, sebbene non risponda all’oggetto di un quesito posto dal Comune, viene riservata all’incarico di coordinatore della sicurezza nella fase dell’esecuzione che nella richiesta di parere viene ricompreso tra quelli per cui è viene ipotizzato il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione. Tale tipo di figura, infatti, non rientrerebbe in realtà nell’elenco dei possibili beneficiari previsto dall’art. 92, co. 5, d.lgs. n. 163/2006.
Al riguardo, per l’individuazione dei limiti e delle condizioni alla cui presenza il sistema incentivante si ritiene nondimeno applicabile anche per lo svolgimento di tale mansione si rinvia al già menzionato parere 28.05.2014 n. 114 Sezione controllo Puglia le cui conclusioni al riguardo sono pienamente condivise da questo Collegio (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 24.10.2014 n. 60).

PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative vincolate ai tetti del Dl 78. Precisazione dalla Corte conti.
La retribuzione dei dipendenti incaricati di posizione organizzativa rientra nei limiti dell'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010.
Quattro anni dopo l'entrata in vigore della norma, la Sezione Autonomie della Corte conti, con la deliberazione 21.10.2014 n. 26, chiude definitivamente il dibattito: la retribuzione di posizione e la retribuzione di risultato, a prescindere dall'imputazione sul fondo o sul bilancio, va contingentata nel tetto del trattamento accessorio del 2010 e rientra nel conteggio della riduzione proporzionale sulla base dei dipendenti che cessano dal servizio.
Mentre non vi era dubbio sulle posizioni organizzative negli enti con la dirigenza, rimaneva aperta la discussione in quelli di minori dimensioni, in quanto tali emolumenti sono finanziati da risorse proprie di bilancio. Ma secondo la Corte dei conti delle Autonomie la norma non lascia margini per escludere tali emolumenti, in quanto il riferimento è al «trattamento accessorio» e non al fondo, così come molto genericamente si era finora ritenuto.
Emergono a questo punto alcune difficoltà applicative. Se, infatti, fin dal 2010, rientravano nel limite dell'articolo 9, comma 2-bis, anche le posizioni organizzative, si dovrà necessariamente rifare i calcoli, con effetti anche spiacevoli. I rischi maggiori li avranno i Comuni che, nonostante quanto previsto dall'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006, hanno in questi anni incrementato le posizioni organizzative e/o le relative retribuzioni. Lo sforamento del tetto è praticamente immediato, a meno che non si possa compensare con un fondo del salario accessorio mantenuto a livelli più bassi rispetto al 2010 (situazione, peraltro, rara).
Come affrontare, poi, il superamento del limite? Se, da sempre, le posizioni organizzative avrebbero dovuto essere inserite nella verifica, si potrebbe pensare che le somme "in più" nei fondi costituiscano superamento dei vincoli finanziari, sui quali l'articolo 4 del Dl 16/2014 ha previsto il recupero sul fondo degli anni successivi. A meno che non si possa operare, interamente nel 2014, una compensazione sui tagli da operare in questo esercizio, ancora in vigenza dell'articolo 9, comma 2-bis, Dl 78/2010.
Altre domande riguardano la modalità di verifica del rispetto del limite sia rispetto al kit di Excel diffuso dall'Aran e condiviso con la RgS, sia rispetto alla compilazione delle tabelle del conto annuale, le quali finora si riferivano esclusivamente al fondo del salario accessorio, non includendo quindi i compensi per le posizioni organizzative.
Da ultimo, vista la lettura della Corte dei conti, dovrebbero a questo punto rientrare nel limite anche i trattamenti accessori corrisposti ai segretari comunali e provinciali, nonché il fondo per il lavoro straordinario, ex articolo 14 Ccnl 01.04.1999 (articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La pigrizia del dipendente comunale è danno erariale.
Responsabile dell'Ufficio tecnico comunale condannato dal giudice contabile per aver dato ascolto alle chiacchiere e dicerie degli abitanti di un comune sardo, anziché effettuare accertamenti serie e compiuti.

L’approssimazione non porta mai a grandi risultati, anzi, talvolta, conduce ad un risultato assolutamente mediocre, di cui ci si trova inevitabilmente a dover pagare le conseguenze.
A tale conclusione dovrebbe essere giunto, dati i fatti, il Sig. V.C. -il quale nel lontano 1997 svolgeva le funzioni di responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune di San Vero Milis, in provincia di Oristano- che a distanza di 17 anni dai fatti è stato condannato dalla Corte dei Conti –Sez. giurisdiz. per la Regione Sardegna- con la sentenza 17.10.2014 n. 205, a rifondere il detto Comune della somma di € 1.240,00 a titolo di risarcimento del danno erariale dallo stesso arrecato alle casse dell’ente locale.
La vicenda trae le sue origini nell’ormai lontano 1997, quando il detto responsabile aveva disposto con ordinanza la demolizione di opere abusive asseritamente realizzate da una cittadina del Comune di San Vero Milis, la quale, alquanto sorpresa per aver ricevuto un simile ordine, aveva impugnato la detta ordinanza, opponendo di non essere la proprietaria dell’immobile di cui si era intimata la demolizione, né la titolare di diritti reali di godimento sul medesimo bene.
In seguito alle indagini svolte dal giudice amministrativo in sede di ricorso, era emerso che effettivamente la ricorrente non possedesse alcuna delle qualifiche necessarie per essere destinataria di un ordine di demolizione, e che un tale errore fosse riconducibile alla sola condotta del responsabile dell’Ufficio tecnico dell’ente locale.
Quest’ultimo infatti, in una relazione resa dallo stesso e assunta in tale giudizio, specificava che l’errore commesso nell’indicare l’ignara cittadina quale proprietaria dell’immobile, era dovuto al fatto che in tutte le informazioni assunte in loco da numerose persone che in quel periodo abitavano nei fabbricati vicini, il nome della signora era stato indicato in modo chiaro ed esplicito. In concreto, il responsabile dell’Ufficio comunale, affidandosi alle dicerie della gente circa la riconducibilità della proprietà dell’immobile in capo alla signora, aveva omesso di procedere ad ulteriori riscontri documentali al fine di verificare la fondatezza di tali informazioni.
Tale leggerezza ha così comportato l’accoglimento del ricorso proposto dalla destinataria dell’ordine di demolizione, con il conseguente annullamento dello stesso e la condanna del Comune di San Vero Milis al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in € 2.000,00.
La Corte dei Conti, adita dal Procuratore Regionale della Sardegna a seguito di tali fatti, con la sopra citata sentenza ha ritenuto che il detto esborso, oltre a costituire danno erariale poiché costituente una spesa priva di qualsiasi utilità per l’Ente locale, debba essere addebitato alla sola responsabilità del dipendente dell’Ufficio comunale.
Difatti la Corte dei Conti, nel caso di specie, ha rinvenuto tutti i presupposti previsti dalla legge ai fini della sussistenza di una responsabilità erariale in capo al dipendente pubblico, ossia l’esistenza di un rapporto di servizio, la riconducibilità causale del danno alla condotta del medesimo ed infine l’elemento psicologico del dolo o la colpa grave.
Qualificando pressoché come pacifica la sussistenza dei primi due requisiti, la Corte ha tenuto a precisare come la pigrizia dimostrata dal funzionario comunale, portasse inevitabilmente a qualificare gravemente colposa la condotta del medesimo, avendo egli omesso di effettuare i dovuti e necessari riscontri, sul piano documentale, di una realtà erroneamente e superficialmente assunta a base del provvedimento poi giudicato illegittimo dal giudice amministrativo, con soccombenza del Comune e liquidazione, a carico dell’Ente, delle spese di giudizio.
Alla luce di tali considerazioni, il giudice contabile ha ritenuto responsabile il dirigente pubblico del danno di € 1.240,00, somma che, si spera, possa costituire un monito per lo stesso a lasciare da parte nel futuro la pigrizia e l’approssimazione che ha dimostrato di avere in questa vicenda nel suo lavoro (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).

ESPROPRIAZIONE: Condannati Sindaco e responsabile ufficio tecnico che non concludono l'esproprio.
I giudici contabili fanno chiarezza sulla condotta omissiva dell'Amministrazione.

Una procedura espropriativa ha causato un danno consistente alla casse comunali. La giunta municipale aveva deciso di iniziare i lavori di una strada ma poi non aveva concluso l’iter con l’adozione del provvedimento di esproprio.
Il proprietario del terreno, vista la trasformazione irreversibile del suolo, adiva il Tribunale civile per essere risarcito. Il processo si concludeva con una sentenza di condanna per l’Amministrazione comunale pari a € 21.150,00.
Secondo quanto affermato dalla Procura presso la Corte dei Conti il pagamento di questa somma poteva essere evitato e, pertanto, si configura un danno erariale indiretto imputabile al Sindaco e al responsabile dell’ufficio tecnico.
A nulla sono valse le argomentazioni difensive dei convenuti. Infatti, affermano i giudici contabili, l’ipotesi di mancato espletamento della procedura espropriativa rende responsabile il Sindaco che ha la potestà provvedimentale in materia. Il capo dell’Amministrazione e, come tale, responsabile diretto degli affari del comune, è “titolare di un dovere di sovrintendenza sul funzionamento dei servizi e degli uffici”.
Così anche l’Ufficio tecnico ha “l’indubbio compito di curare tutti gli aspetti tecnico-amministrativi relativi alle procedure espropriative (redigere lo stato di consistenza, i decreti, le occupazioni definitive e le retrocessioni, i frazionamenti e gli accatastamenti). In particolare, è l’apparato cui è affidato l’espletamento di tutta l’attività strumenta e propedeutica all’adozione, da parte dell’organo politico, del provvedimento finale d’esproprio”.
Nella vicenda in esame quindi vi sono stati inadempimenti rispetto a doveri normativamente previsti.
La condotta omissiva del Sindaco –secondo i giudici contabili– è “manifestazione di grave trascuratezza e non curanza” ed ancora di un “disinteresse totale degli obblighi e dei doveri istituzionali”. Il primo cittadino, con questo comportamento, ha violato i doveri di attenzione sugli affari del Comune, trascurando in maniera grave “i principi normativi di buon andamento dell’azione amministrativa e, soprattutto una marcata inosservanza delle norme specifiche in materia di espropriazione”.
Pertanto, con la sentenza 15.10.2014 n. 238, la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. per la Regione Calabria, ha condannato sia il Sindaco (nella quota del 60%) a risarcire il danno per una somma pari a € 1.800 che il responsabile tecnico per € 253, per quest’ultimo nella quantificazione del danno si è tenuto conto dei giorni (563) in cui svolse l’attività lavorativa (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCorte conti divisa sui limiti alla spesa per contratti flessibili.
Giudici contabili divisi sui nuovi limiti alla spesa per i contratti di lavoro flessibili.

Il problema riguarda la previsione di cui all'art. 11, comma 4-bis, del dl 90/2014, convertito dalla legge n. 114/2014. In base ad essa, agli enti locali che hanno sempre rispettato l'obbligo di riduzione delle spese di personale previsto dai commi 557 (enti soggetti al Patto) e comma 562 (enti non soggetti al Patto) dell'art. 1 della legge 296/2006 non si applicano le limitazioni previste dall'art. 9, comma 28, del dl 78/2010 per le assunzioni a tempo determinato, collaborazioni coordinate e le altre forme di lavoro flessibile, pari al 50% delle spesa impegnata con le medesime finalità nel 2009.
Il dubbio riguarda l'ulteriore precisazione (contenuta nel medesimo art. 9, comma 28, già prima della modifica), secondo cui «resta fermo che comunque la spesa complessiva non può essere superiore alla spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009».
Secondo la Sez. regionale di controllo della Corte dei conti per la Puglia (parere 09.10.2014 n. 174), l'obbligo di non oltrepassare la spesa 2009 si impone anche agli enti virtuosi.
Un avviso contrario è stato espresso più recentemente dalla omologa sezione per la Lombardia. Quest'ultima, con il parere n. 264/2014, ha ritenuto che la novella introdotta dal dl 90 determini la disapplicazione di tutte le limitazioni previste dal citato comma 28, ivi compresa quella in parola.
Tale lettura, evidenzia lo stesso consesso lombardo, è quella maggiormente coerente con la ratio del più recente intervento modificativo.
Come sembra ricavabile anche dagli atti preparatori della disposizione in esame, esso è volto a consentire agli enti locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562 una maggiore flessibilità, riconoscendo loro la facoltà di incrementare la spesa di personale da compensarsi comunque con corrispondente riduzione di altre voci di bilancio, fermi restando naturalmente i vincoli del Patto di stabilità interno.
A questo punto, pare inevitabile un intervento chiarificatore da parte delle sezioni riunite o quanto meno della sezione autonomie.
Nel frattempo, vale comunque la pena ribadire quanto sottolineato dalla sezione Lombardia in ordine alle cautele che ciascuna amministrazione dovrà adottare onde evitare il possibile effetto negativo che l'aumento delle spese di personale potrebbe determinare in termini di irrigidimento dei bilancio, con la conseguente minore manovrabilità delle spese ai fini del concorso al risanamento della finanza pubblica (articolo ItaliaOggi del 24.10.2014).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco fa numero. Per determinare il numero degli assessori. Il primo cittadino va annoverato tra i componenti del consiglio.
Qual è la corretta interpretazione di una norma statutaria che definisce il numero di assessori nominabili dal sindaco, non avendo esplicitamente previsto che nel numero dei consiglieri vada computato anche il sindaco?

L'ente in questione ha una popolazione superiore ai 10.000 abitanti e ha rinnovato i propri organi a seguito delle ultime elezioni amministrative, eleggendo 16 consiglieri. In ordine all'individuazione del numero degli assessori occorre far riferimento all'art. 2, comma 185, della legge n. 191/2009 e successive modifiche e integrazioni, il quale stabilisce che il numero massimo degli assessori è determinato in misura pari a un quarto del numero dei consiglieri del comune, con arrotondamento all'unità superiore, disponendo, che ai fini del suddetto computo, nel numero dei consiglieri del comune è computato anche il sindaco.
Inoltre l'art. 47, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda agli enti la facoltà di fissare statutariamente il numero degli assessori, ovvero il numero massimo degli stessi, sempre nell'ambito dei limiti previsti dalla legge. Nel caso di specie, lo Statuto del comune dispone che la giunta è composta dal sindaco e da un minimo di quattro a un massimo di un quarto dei consiglieri del comune.
La previsione statutaria potrebbe ingenerare qualche dubbio circa il corretto calcolo dei componenti la giunta in quanto, non avendo esplicitamente previsto che nel numero dei consiglieri vada computato anche il sindaco, verrebbe a determinarsi una coincidenza tra il numero massimo e minimo degli assessori, individuabile in quattro unità.
Tuttavia, occorre richiamare l'art. 37, comma 1, del Tuel il quale include il sindaco tra i «componenti» del consiglio, mentre il successivo art. 46 utilizza per il sindaco l'espressione «membro del consiglio». Considerato che, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso annoverare il sindaco o il presidente della provincia tra i componenti del consiglio lo ha indicato espressamente, usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia», la disposizione statutaria può essere interpretata nel senso di computare, ai fini del calcolo degli assessori, anche l'organo di vertice.
Ciò posto, si rende opportuna una diversa formulazione della norma statutaria da parte dell'ente, che potrà procedere alle relative modifiche ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 31.10.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Convalida.
Qualora l'atto di convocazione della prima adunanza del consiglio comunale sia inficiato da vizio di legittimità, è possibile ricorrere all'istituto della convalida ex art. 21-nonies, comma 2, della legge 241/1990, oppure l'ente deve procedere all'annullamento, in autotutela, di ogni atto assunto nella seduta?

Nel caso di specie, l'avviso di convocazione della prima adunanza del consiglio comunale, fissata in una data, non è stato notificato a un consigliere, risultato assente alla relativa riunione; pertanto lo stesso consigliere ha inoltrato al protocollo dell'ente una formale richiesta di annullamento in autotutela di ogni atto assunto dal consiglio nella seduta. Al fine di sanare la suddetta irregolarità potrebbe essere impiegato l'istituto della convalida amministrativa.
Nell'ipotesi di un atto illegittimo, la p.a., in virtù del principio di conservazione degli atti giuridici, può decidere di mantenerlo in vita, rimuovendo i vizi che lo inficiano attraverso l'espressione di una manifestazione di volontà finalizzata a eliminare il vizio ravvisato. La convalida si sostanzia in una nuova e autonoma manifestazione di volontà che, collegandosi all'atto originario, ne mantiene gli effetti fin dal momento della sua emanazione. La legge n. 15/2005 ha modificato la legge n. 241/1990 introducendo l'art. 21-nonies che, al comma 2, prevede la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di pubblico interesse ed entro un termine ragionevole.
Giova a tale proposito richiamare la sentenza n. 566 del 2007, con la quale il Tar Lazio, sez. Latina, ha osservato che «l'istituto della convalida è applicabile anche con riferimento alla irrituale convocazione della seduta di un organo collegiale proprio perché va riconosciuta al comune la facoltà di convalidare i propri atti affetti da vizi di legittimità, con una manifestazione di volontà intesa a eliminare il vizio da cui l'atto stesso è inficiato».
Il Consiglio di stato, con sentenza n. 1228 del 2013, ha ricordato che la convalida attiene alla rimozione ex ufficio del vizio di un atto invalido, mentre l'annullamento in autotutela sottintende la cura di «interessi ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità» (articolo ItaliaOggi del 31.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego.
Domanda
Vorrei sapere se una Pubblica amministrazione può indire un nuovo concorso in pendenza di precedente graduatoria.
Risposta
Con sentenze n. 14/2011 e 6247/2013 il Consiglio di stato ha sancito il principio che prevede, in capo all'Amministrazione, l'obbligo di fornire una compiuta motivazione dell'eventuale scelta di indire un nuovo concorso anziché attingere fra i soggetti iscritti in una graduatoria già esistente.
La giurisprudenza si riferisce all'ipotesi in cui la Pubblica amministrazione disponga di una pregressa graduatoria, ancora in corso di validità, risultante da un concorso bandito su presupposti e requisiti analoghi a quelli richiesti nella nuova procedura di concorso.
Sebbene non sussista, in capo agli idonei, un diritto soggettivo all'assunzione, l'Amministrazione deve considerare che lo scorrimento delle preesistenti graduatorie deve costituire la regola generale, mentre l'indizione del concorso rappresenta un'eccezione.
Pertanto la p.a., nel provvedimento di indizione di una nuova procedura di concorso, deve fornire puntuale motivazione «sul perché si debba seguire un procedimento amministrativo di rilevante complessità e accompagnato a oneri di bilancio come un nuovo concorso pubblico, piuttosto che la chiamata di soggetti già scrutinati e dichiarati idonei a quelle determinate funzioni».
Questi principi, precisano i giudici, potrebbero essere disapplicati solo qualora la precedente graduatoria fosse conseguente a un concorso bandito su presupposti diversi da quello nuovo (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

APPALTI: Comunicazioni via Pec.
Domanda
In caso di aggiudicazione comunicata via Pec, quando inizia a decorrere il termine per impugnare?
Risposta
L'art. 79 del dlgs 163/2006, comma 5-bis, prevede che le comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione «sono fatte per iscritto, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o mediante notificazione o mediante posta elettronica certificata»
Sulla base di tali disposizioni normative il Tar Lombardia, con sentenza 2677/2013, ha precisato che la posta elettronica certificata costituisce uno strumento di comunicazione di per sé idoneo a determinare la conoscenza rilevante per la decorrenza del termine di impugnazione.
L'art. 6, comma terzo, del Dpr n. 68/2005 precisa che «la ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione».
Pertanto, la comunicazione dell'aggiudicazione effettuata a mezzo di posta elettronica certificata, si intende avvenuta nella data indicata nella ricevuta di avvenuta consegna fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata.
La ricevuta di avvenuta consegna è rilasciata contestualmente alla consegna del messaggio di posta elettronica certificata e il momento in cui il destinatario legge il messaggio è irrilevante ai fini della conoscenza legale del documento trasmesso (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto amministrativo.
Domanda
Istanza di annullamento in autotutela
Risposta
Vorrei sapere se, in caso di istanza di annullamento di un provvedimento in autotutela, sussiste un obbligo di provvedere in capo all'Amministrazione pubblica.
Il Consiglio di stato, sez. V, con sentenza n. 322/2014 ha stabilito che «nel caso in cui venga proposta una istanza del privato intesa a sollecitare l'esercizio del potere di autotutela dell'Amministrazione non sussiste da parte della stessa alcun obbligo di provvedere in ragione della discrezionalità dell'attività in tema di atti di ritiro, cui il riesame è di norma finalizzato, nonché della esigenza di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell'agire della Pubblica amministrazione e che verrebbero a trovare detrimento da una ritenuta doverosità del riesame».
Pertanto, anche in presenza di un vizio di legittimità o di merito, riguardante un provvedimento amministrativo, rimane in capo all'Amministrazione la discrezionalità di decidere se procedere all'annullamento o alla revoca in ragione del prevalente interesse pubblico (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Requisito della contiguità.
Domanda
Nel campo delle pertinenze, il requisito oggettivo della contiguità come va individuato?
Risposta
La Corte di cassazione, con la sentenza del 10.06.2011, numero 12855, ha affermato che, ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e ben accessorio, è necessaria la presenza del requisito soggettivo dell'appartenenza di entrambi al medesimo soggetto nonché del requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale è necessario che il bene accessorio arrechi un'utilità al bene principale e non al proprietario di esso.
Inoltre, sempre per la Corte di cassazione (sentenza del 13.11.2009, numero 24104), affinché il vincolo pertinenziale tra due beni autonomi e distinti, siano essi beni mobili o immobili, possa costituirsi ed il relativo regime, che postula l'esclusività della funzione accessoria, possa funzionare, è necessario che il proprietario della cosa principale abbia la piena disponibilità, anche della cosa accessoria e che la destinazione pertinenziale, specie quando essa derivi da un atto non negoziale, sia attuale ed effettiva e non meramente potenziale, dovendo risultare da un comportamento oggettivamente valutabile.
Pertanto, per i Supremi giudici, non ricorre un vincolo pertinenziale, ma semmai un rapporto di comproprietà o di servitù, nell'ipotesi di un immobile contemporaneamente adibito a servizio di diversi altri immobili appartenenti a proprietari diversi, né tale vincolo sussiste quando il collegamento funzionale sia previsto solo in prospettiva futura, come in un progetto finalizzato all'edificazione con riguardo a immobili poi venuti ad esistenza in capo a diversi proprietari.
Inoltre il comproprietario della cosa accessoria, anche se titolare esclusivo di quella principale, non può costituire il vincolo pertinenziale senza l'assenso degli altri contitolari. E ciò al fine precipuo di evitare la creazione di un limite in pregiudizio di tutti i comproprietari (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

TRIBUTI: Sottotetti.
Domanda
La mia abitazione principale, oltre ad avere la cantina e il sottotetto, ha un altro locale di deposito, di natura pertinenziale. Per detto locale posso godere dell'esenzione Imu, prima casa? Lettera firmata.
Risposta
Come si è avuto modo di scrivere, la legge numero 147, del 2013 (legge di Stabilità per l'anno 2014), puntualizzando meglio la normativa che regolamenta l'Imposta municipale propria (Imu), portata dall'articolo 13 del decreto legge numero 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge numero 214, del 2011, ha affermato che la suddetta imposta non si applica al possesso dell'abitazione principale e delle pertinenze.
Ha aggiunto, poi, che per pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6, C/7 (C/2..Magazzini e locali di deposito; C/6...Stalle, scuderie, rimesse, autorimesse; C/7..Tettoie chiuse o aperte), nella misura massima di una unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità ad uso abitativo.
Pertanto, la presenza di un locale indicato nella planimetria catastale dell'abitazione principale come cantina o sottotetto viene ad eliminare la possibilità che un'unità immobiliare autonoma, iscritta in categoria C/2, possa assurgere al ruolo di pertinenza dell'abitazione principale anche quando sussistono tutti gli elementi per l'uso funzionale all'abitazione.
Peraltro, lo stesso ministero dell'economia e delle finanze, con la circolare numero 3/DF del 18.05.2012, emanata dopo l'entrata in vigore dell'imposta municipale propria (Imu), ebbe ad affrontare l'ipotesi di «due pertinenze, di solito la soffitta e la cantina, accatastate unitamente all'unità ad uso abitativo. In tale caso, in base alle norme catastali, la rendita attribuita all'abitazione principale ricomprende la redditività di tali porzioni immobiliari non connesse. Pertanto, poiché dette pertinenze, se fossero accatastate separatamente, sarebbero entrambe classificate in categoria C/2, per rendere operante la disposizione in esame, si ritiene che il contribuente possa usufruire delle agevolazioni per l'abitazione principale solo per un'altra pertinenza classificata in categoria C/6 o C/7».
Interpretazione questa che, anche se esplicitata prima dell'entrata in vigore della citata legge numero 147, del 2013 (legge di Stabilità per l'anno 2014), ha valenza (si ritiene) anche dopo l'entrata in vigore di quest'ultima legge.
È naturale che per detti spazi (soffitta, cantina), integrati nell'abitazione principale, deve sussistere la possibilità di una loro potenziale iscrivibilità catastale autonoma (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali sono le nuove regole della classificazione dei rifiuti ai sensi della legge n. 116/2014? (27.10.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RAEE: è obbligatoria l'iscrizione al centro di coordinamento? (27.10.2014 - link a www.ambientelegale.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il no all'indennità vincola. Vietato erogare il gettone a chi vi ha rinunciato. Gli enti devono stanziare in anticipo le somme per gli amministratori.
È possibile erogare ad alcuni ex amministratori locali l'indennità da essi maturata e non ricevuta per formale espressa rinuncia al percepimento della stessa?
L'art. 82 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, stabilisce il diritto degli amministratori alle indennità e gettoni di presenza per l'impegno da essi sostenuto per l'esercizio del mandato, nelle misure dalla stessa previste.
La riscossione di detti emolumenti si configura quale diritto soggettivo disponibile, conseguentemente è consentito che gli stessi amministratori possano rinunciare al loro percepimento.
Da tale disposizione discende che ordinariamente, in sede di programmazione, l'ente prevede per ciascun esercizio le indennità spettanti agli amministratori e stanzia in bilancio le somme necessarie, erogandole poi mensilmente agli aventi diritto, previa assunzione dei relativi provvedimenti d'impegno e degli ulteriori atti che ne conseguano, e senza bisogno di una specifica richiesta da parte degli interessati (vedasi Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Campania, parere n. 3/2010 del 15.01.2010, nonché parere n. 5/2009 cit.).
Conseguentemente, come affermato dalla Corte dei conti con il parere n. 3 citato, la mancanza di stanziamenti riferiti alle predette indennità nei bilanci di previsione dei rispettivi esercizi di competenza costituisce un elemento ostativo per qualsiasi corrispondente (e peraltro inammissibilmente tardiva) assunzione di impegno contabile e per il conseguente pagamento degli emolumenti stessi.
La caratteristica peculiare del bilancio di previsione è infatti costituita dal contenuto autorizzatorio dei singoli stanziamenti di spesa per i quali, con l'eccezione degli stanziamenti delle «spese per conto terzi», non è possibile assumere «impegni» che eccedano gli importi autorizzati, e ciò in quanto l'autorizzazione degli stanziamenti rappresenta sia una garanzia del rispetto dell'equilibrio finanziario del bilancio, sia uno strumento a supporto degli organi competenti per esplicare correttamente il governo della gestione (cfr. Corte dei conti Campania, sez. contr., delibera n. 119/2010) (articolo ItaliaOggi del 24.10.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Assessori esterni.
Quali norme disciplinano la nomina degli assessori esterni di un comune?

L'articolo 46, comma 2 del decreto legislativo n. 267/2000 dispone che il sindaco nomina, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della giunta, tra cui un vicesindaco. Il successivo articolo 47, ai commi 1 e 2, rinvia agli statuti la possibilità di fissare il numero degli assessori, ovvero il numero massimo degli stessi, nei limiti stabiliti dalla normativa. Il comma 3 del citato articolo 47, stabilisce che nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti gli assessori sono nominati dal sindaco anche al di fuori dei componenti del consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere.
Per quel che concerne i comuni con popolazione compresa tra 10.000 e 30.000 abitanti, la legge (art. 2, comma 185, legge n. 191 del 23.12.2009, come modificata dalla legge n. 42/2010) stabilisce il tetto massimo di cinque assessori.
Ai sensi dell'art. 64, comma 1, del Tuel, la carica di assessore è incompatibile con quella di consigliere comunale. Il successivo comma 2 stabilisce, infatti, che qualora un consigliere comunale assuma la carica di assessore nella rispettiva giunta (eventualmente anche con la funzione di vicesindaco), cessa dalla carica di consigliere all'atto di accettazione della nomina, e al suo posto subentra il primo dei non eletti (articolo ItaliaOggi del 24.10.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Albo Gestori Ambientali: come avviene l'iscrizione alla categoria 3-bis? (20.10.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L'attività tecnicamente connessa che viene considerata parte dell'installazione ricade nell'obbligo di presentazione dell'Aia? (20.10.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quale comunicazione deve presentare l'impresa che intende iscriversi alla categoria 2bis dell'Albo ai sensi del D.M. n. 120/2014? (13.10.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Cosa prevede il collegato ambientale alla legge di stabilità 2014? (13.10.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come deve essere inteso il divieto di miscelazione all'indomani della legge n. 116/2014? (06.10.2014 - link a www.ambientelegale.it).

SEGRETARI COMUNALIOggetto: Retribuzione di posizione del Segretario comunale in caso di segreteria convenzionata (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, nota 29.09.2014 n. 76063 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RAEE: quali sono gli obblighi del produttore riguardo al marchio? (29.09.2014 - link a www.ambientelegale.it).

CONSIGLIERI COMUNALIComposizione della Giunta comunale. – Quesito.
Si fa riferimento alla nota sopra distinta con la quale codesta Prefettura ha chiesto il parere circa la legittimità della rotazione nella nomina di uno dei due assessori nell’ambito della Giunta municipale del comune di …, programmata dal sindaco, il quale, al termine di ogni seduta di Giunta, procede alla revoca dell’assessore e alla contestuale nomina alla stessa carica di un diverso consigliere, con riserva di comunicazione al primo consiglio comunale utile.
In particolare, nella delibera di consiglio comunale n. 13 dell’11.06.2014, viene specificato che il sindaco, “ha deciso di dare stabilità alla figura del Vicesindaco, mentre per l’altro assessore di fatto la nomina sarà ripartita tra più consiglieri, alternandoli”.
Al riguardo, si rappresenta che l’articolo 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 dispone che il sindaco nomina, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, i componenti della Giunta, tra cui un vicesindaco, e ne dà comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva alla elezione.
Il successivo comma 3 prevede che entro il termine fissato dallo statuto, il sindaco, sentita la giunta, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato, mentre il comma 4 dà facoltà al sindaco di revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio.
Ciò premesso, si osserva che in tema di revoca degli assessori, la giurisprudenza ha sempre affermato l’obbligo di motivazione del relativo provvedimento sindacale, in virtù di quanto previsto dal sopra citato comma 4.
Il Consiglio di Stato, Sez. V con sentenza 12.10.2009 n. 6253, ha affermato che “l'obbligo di motivazione del provvedimento di revoca dell'incarico di un singolo assessore (o di più assessori) … può senz'altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrative, rimesse in via esclusiva al sindaco”.
Anche il TAR della Puglia–Bari, Sez. I, con sentenza 29.05.2012 n. 1067, ha affermato che è “noto il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell’incarico di assessore consente di ritenere ammissibile una motivazione basata sulle più ampie valutazioni di opportunità politica ed amministrativa, rimesse in via esclusiva al vertice dell’ente locale, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23.02.2012 n. 1053 ed i numerosi precedenti ivi richiamati)”.
In ordine alla specifica fattispecie, assume tuttavia particolare rilevanza l’ordinanza n. 788/2009 del 21.10.2009 con la quale il TAR della Puglia–Lecce, Sez. I, ha affermato che il decreto di revoca della nomina ad Assessore adottato dal Sindaco …. non può certamente trovare giustificazione nell’accordo in ordine all’alternanza alla carica di assessore raggiunto in seno ad una delle forze politiche che sostengono il Sindaco ….; inoltre, la validità di un simile accordo si presenta altamente problematica, in considerazione dell’innegabile contrasto con interessi pubblicistici di indubbio rilievo, come quello al buon andamento dell’amministrazione o al rispetto della volontà del corpo elettorale.
Condividendo le perplessità evidenziate dal TAR Puglia con la citata ordinanza n. 788/2009, si ricorda che la Giunta, secondo la previsione dell’articolo 36 del decreto legislativo n. 267/2000, è uno degli organi di governo del Comune, ed in quanto tale assume una responsabilità di tipo collegiale di fronte al consiglio, ai sensi dell’articolo 48 dello stesso decreto, il quale tra l’altro, al comma 2 assegna, sempre alla Giunta, compiti di collaborazione con il sindaco nell’attuazione degli indirizzi generali del consiglio, rispondendo allo stesso organo con cadenza annuale in merito alla propria attività espletata e svolgendo compiti di proposta e di impulso nei confronti sempre del medesimo organo consiliare.
Peraltro, la continua rotazione degli assessori, richiedendo sempre la conseguente comunicazione al consiglio, comporterebbe un gravoso appesantimento delle procedure formali e non agevolerebbe il lavoro collegiale della Giunta ed impedirebbe di risalire con chiarezza ad eventuali responsabilità in caso di non corretta gestione degli assessorati di competenza.
Inoltre nell’eventualità del mancato rispetto del patto politico all’interno del Consiglio, l’eventuale revoca di un assessore, non supportata da adeguata motivazione nei termini surriferiti richiesti dalla giurisprudenza, potrebbe esporre l’Ente a possibili contenziosi (12.08.2014 - link a http://incomune.interno.it).

NEWS

APPALTI: Appalti, restyling a 360°. Testo unico coordinato con le norme Ue. Lo schema di ddl che porterà al nuovo codice dei contratti pubblici.
Rivisitazione completa dell'intera disciplina degli appalti pubblici e sulle concessioni. Compilazione di un unico testo normativo coordinato con le disposizioni europee. Revisione del sistema di qualificazione delle imprese di costruzioni, da rendere più omogeneo e trasparente. Riduzione delle stazioni appaltanti, razionalizzazione e estensione del partenariato pubblico-privato.
Trasparenza e pubblicità delle procedure di gara e riduzione degli oneri documentali.

Sono queste le linee indicate nella nuova bozza del disegno di legge delega che dovrà portare, entro aprile 2016, all'emanazione dei decreto delegato che sostituirà l'attuale codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) recependo le direttive Ue n. 23, 24 e 25/2014.
Nel nuovo testo vi è la conferma dell'attribuzione alla Presidenza del consiglio dei ministri, di intesa con il Ministero delle infrastrutture, del compito di avviare una ampia consultazione con le categorie interessate, che avverrà dopo l'approvazione della delega e prima della redazione del decreto attuativo, compito, quest'ultimo, che dovrebbe essere confermato in capo al Ministero delle infrastrutture.
Una precedente bozza era già stata esaminata dal consiglio dei ministri del 29 agosto, senza però che il testo definitivo arrivasse in parlamento (dove sarebbe già stato deciso di avviare l'esame del disegno di legge partendo dal Senato). Le nuove disposizioni dovranno essere trasmesse al parlamento per essere discusse e approvate. Poi scatterà la consultazione delle categorie interessate, si perverrà alla redazione di uno schema di decreto sul quale andranno raccolti i pareri di diversi dicasteri, della Conferenza unificata, delle commissioni parlamentari e del Consiglio di stato.
Un iter indubbiamente lungo per un recepimento delle tre direttive europee che vede impegnati, attualmente, oltre alla Commissione Nencini presso il Ministero delle infrastrutture, la Presidenza del consiglio, sia pure con un target diverso, e una Commissione Anac insediatasi il 18 settembre 2014 con il compito di seguire, «attraverso proposte al governo e al parlamento, l'iter di formazione del disegno di legge di recepimento».
Nel merito dei criteri si conferma che il nuovo decreto delegato dovrà portare ad una razionalizzazione del quadro normativo attuando i principi della semplificazione e armonizzazione delle disposizioni in materia di affidamento, della trasparenza e pubblicità delle procedure di gara, della riduzione degli oneri documentali a carico dei soggetti partecipanti e della semplificazione delle procedure di verifica da parte delle stazioni appaltanti.
Fra gli obiettivi da conseguire anche la riduzione delle stazioni appaltanti e razionalizzazione delle loro attività e alla razionalizzazione ed estensione delle forme di partenariato pubblico privato. Viene inserito anche un criterio, non del tutto pertinente, relativo alla «trasparenza nella partecipazione dei portatori qualificati di interessi nell'ambito dei processi decisionali», come se si volesse arrivare a quella legge sulle lobby finora mai portata avanti dagli ultimi governi (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale, spesa calcolata sul 2011-2013.
È il triennio 2011-2013 la base per il calcolo della media triennale della spesa di personale da ridurre progressivamente per gli enti locali, valevole come uno dei principali vincoli da rispettare ai fini della corretta gestione.

L'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014 ha modificato in modo piuttosto rilevante il diritto sostanziale e le procedure per tenere sotto controllo e, anzi, diminuire costantemente la spesa di personale degli enti locali, in particolare con l'abolizione dell'articolo 76, comma 7, del dl 112/2008, convertito in legge 133/2008.
Ciò ha comportato l'eliminazione di tre «fardelli»: l'obbligo di mantenere il rapporto tra spesa di personale e totale della spesa corrente più basso del 50%, per non incorrere nel blocco assoluto delle assunzioni; la modifica del contenimento del turnover (ora disciplinato appunto dall'articolo 3, comma 5, della riforma della p.a., in modo che sia pari al 60% della costo del personale di ruolo cessato per gli anni 2014-2015, 80% negli anni 2016-2017 e 100 dal 2018); eliminazione dell'obbligo di computare nella spesa di personale anche quella del personale delle società ed enti partecipati.
È rimasto vigente, invece, l'obbligo fissato dall'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006, di abbassare anno dopo anno la spesa complessiva del personale, attraverso una serie di misure, dall'accorpamento degli uffici al contenimento del numero dei dirigenti, dalla riduzione della dinamica salariale legata alla contrattazione decentrata all'attenzione appunto al turnover.
Dopo, però, l'intervento di riforma del dl 90/2014 era opportuno ridefinire quale fosse lo stock di spesa di personale da ridurre progressivamente. A questo pensa il comma 5-bis dell'articolo 3 del dl 90/2014, a mente del quale «ai fini dell'applicazione del comma 557, a decorrere dall'anno 2014 gli enti assicurano, nell'ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione».
Dunque, la base di calcolo non è più un anno specifico, ma una media triennale. Il che appare corretto, perché la media corregge distorsioni derivanti da elementi accidentali (ad esempio, un picco di pensionamenti) che possono caratterizzare una certa annualità in modo troppo negativo o positivo, ai fini della gestione.
Il problema che si pone è quello di identificare il triennio, visto che l'articolo 5-bis non è, sul punto, troppo chiaro. È un triennio «scorrevole» cioè il triennio che precede la programmazione triennale delle assunzioni? Oppure un triennio «fisso»?
La soluzione da considerare corretta è la seconda. Lo dimostrano una considerazione logica e l'altra di stretta interpretazione letterale.
Sul piano logico, è facile intuire come non sia possibile ancorare una riduzione progressiva e costante della spesa di personale a una base di calcolo sempre variabile, quale sarebbe la media di trienni «scorrevoli» Sul piano della mera lettura della norma, il legislatore specifica che il triennio da considerare è quello precedente alla data di entrata in vigore della legge 114/2014. Ma, detta legge entra in vigore solo nel 2014: dunque, il triennio da considerare è solo e soltanto il 2011-2013 (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sblocca Italia, i rifiuti anche fuori regione, le bonifiche semplificate.
Rimodulazione delle regole sullo spostamento dei rifiuti da una regione all'altra, aumento del carico massimo dei residui processabili da impianti energetici condizionato a compatibilità ambientale, ulteriore semplificazione delle procedura di bonifica dei siti inquinati e promessa di analoghe norme per la gestione delle terre e rocce da scavo.

Queste le novità ambientali licenziate il 30.10.2014 dalla Camera dei deputati con l'approvazione del ddl (blindato da fiducia governativa) di conversione del dl 133/2014 (c.d. «Sblocca Italia») ora in viaggio verso il Senato per il placet definitivo.
Smaltimento rifiuti fuori Regione. Ridotto il divieto ex dlgs 152/2006 di smaltire i rifiuti urbani in regioni diverse da quelle di origine che sarà invece possibile ogni qual volta il presidente dell'Ente territoriale di produzione lo riterrà necessario per fronteggiare situazioni di emergenza dichiarate dalla Protezione civile.
Impianti di recupero energetico. Gli impianti di valorizzazione energetica dovranno sempre assicurare il trattamento in via prioritaria dei rifiuti urbani prodotti dal proprio territorio regionale fino al raggiungimento del relativo fabbisogno, solo in via residuale il processo di quelli provenienti da altre Regioni e, previo rispetto dei principi di prossimità e sicurezza, di quelli speciali pericolosi a rischio infettivo.
Per il trattamento di rifiuti urbani extra-regionali gli stessi impianti dovranno corrispondere alla propria Regione un contributo fino a 20 euro per tonnellata di «indifferenziati». Ridotto invece rispetto alla versione originaria del dl 133/2014 l'aumento del carico dei rifiuti processabili: il funzionamento fino a «saturazione del carico termico» sarà possibile solo all'esito positivo della compatibilità ambientale (qualità dell'aria compresa) di tale regime di operatività.
Procedura semplificata bonifiche. Con la legge di conversione arrivano ulteriori alleggerimenti alla procedura semplificata di bonifica ex articolo 242-bis dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale»): caratterizzazione e relativo progetto di bonifica non saranno più sottoposti ad approvazione ma a mero controllo pubblico del rispetto dei valori di contaminazione ammissibili. Ma la bonifica di siti con estensione superiore a 15 mila metri quadri dovrà avvenire in non più di tre fasi, quella di aree di oltre 400 mila metri secondo un crono-programma concordato con le Autorità competenti.
Riutilizzo materiali da scavo. Oltre a confermare le norme dell'originario dl 133/2014 che consentono il riutilizzo delle terre e rocce da scavo con alta presenza di sostanze inquinanti nei siti oggetto di bonifica, la legge licenziata dalla Camera affida ad un decreto del presidente della repubblica il riordino di tutte le disposizioni sui materiali da scavo, la determinazione di regole ad hoc per il «deposito temporaneo» degli stessi nonché la disciplina semplificata per la loro gestione da parte di cantieri di piccole dimensioni (disciplina originariamente affidata dal dlgs 152/2006 a un decreto del Minambiente) (articolo ItaliaOggi dell'01.11.201).

EDILIZIA PRIVATASblocca Italia, cambia l'edilizia. Incentivi alle ristrutturazioni, stretta sull'abusivismo. La camera ha dato l'ok al decreto che ora passa al senato. Imu ridotta a chi riduce l'affitto.
Paga una multa (fino a 20 mila euro) l'autore dell'abuso edilizio che non rispetta l'ordine di demolizione. I comuni possono deliberare, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, che i costi di costruzione siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni. Non è più necessario il permesso di costruire per gli interventi di ristrutturazione edilizia, che comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del volume o delle superfici senza intaccare però la volumetria complessiva degli edifici.

Sono alcune delle novità contenute nel decreto legge Sblocca Italia (n. 133/2014), approvato ieri dalla camera dei deputati (278 voti favorevoli, 161 contrari e sette astenuti). Il testo passa ora al senato anche se difficilmente palazzo Madama potrà metterci mano visti i tempi stretti (il provvedimento va convertito definitivamente in legge entro l'11 novembre).
Per gli enti locali arrivano sconti sul Patto di stabilità. Ne beneficeranno le amministrazioni virtuose nel pagamento dei debiti o che hanno investito in opere pubbliche. Ma vediamo i punti di maggiore interesse per le amministrazioni locali.
Edilizia. Come detto, il decreto Sblocca Italia modifica la definizione di manutenzione straordinaria, ritenendo sufficiente per questi interventi, il rispetto della volumetria complessiva degli edifici, e comprendendo, quindi, anche il frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari. Non è più necessario, quindi, il permesso di costruire per gli interventi di ristrutturazione edilizia, che comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del volume o delle superfici.
Si introduce la definizione di «interventi di conservazione» e si introduce una nuova ipotesi di permesso di costruire in deroga anche alle destinazioni d'uso per gli interventi di ristrutturazione edilizia attuati anche in aree industriali dismesse.
I termini per il rilascio del permesso di costruire sono raddoppiati nei soli casi di progetti particolarmente complessi.
Si codifica la disciplina del permesso di costruire convenzionato, ispirato alla normativa regionale. Vengono introdotte sanzioni pecuniarie da 2 mila a 20 mila euro in caso di inottemperanza dell'ordine di demolizione degli abusi edilizi. La mancata o tardiva emanazione dell'ordine di demolizione implica responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente. Le somme sono di competenza comunale e saranno destinate esclusivamente alla demolizione/rimessione in pristino delle opere abusive e alla acquisizione/attrezzatura di aree a verde pubblico. Si prevede che le varianti siano eseguibili mediante Scia e sono classificati i mutamento d'uso urbanisticamente rilevanti.
Altra disposizione precisa che la Dia (ad eccezione della super- Dia) viene sostituita dalla Scia. Si introduce il Regolamento unico edilizio al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti.
Tutela del territorio. I comuni potranno definire criteri e condizioni per la realizzazione da parte di cittadini, singoli o associati, di interventi pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade. In cambio si otterrà la riduzione o un'esenzione di tributi locali.
Procedimento amministrativo. Viene limitata, nelle ipotesi di Segnalazione certificata di inizio attività (Scia), la possibilità per l'amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela. La revoca del provvedimento amministrativo per mutamento della situazione di fatto sarà possibile solo se il mutamento fosse «non prevedibile al momento dell'adozione del provvedimento» e, per le ipotesi di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, è esclusa la revoca per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici. Esclusa la possibilità di annullamento di ufficio quando il dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Meno Imu se il locatore riduce l'affitto. Si stabilisce che i comuni possano riconoscere un'aliquota Imu ridotta al locatore che concordi una riduzione del canone di affitto con l'inquilino. In ogni caso gli atti di riduzione dei canoni di locazione beneficeranno dell'esenzione dalle imposte di registro e di bollo. La richiesta di abbassare il canone potrà essere avanzata dallo stesso conduttore che però dovrà motivarne le ragione.
Sconti sul Patto di stabilità. Il dl stabilisce l'esclusione dal Patto di stabilità interno dei pagamenti effettuati dai comuni per gli investimenti in opere, oggetto di segnalazione entro il 15.06.2014 alla presidenza del consiglio dei ministri. La deroga è concessa nel limite di 250 milioni di euro per l'anno 2014. Viene anche disposta l'esclusione dai vincoli del patto di stabilità interno per gli anni 2014 e 2015, per un importo complessivamente pari a 300 milioni di euro (di cui 200 milioni per il 2014 e 100 milioni per il 2015), dei pagamenti dei debiti in conto capitale certi, liquidi ed esigibili alla data del 31.12.2013 sostenuti successivamente all'entrata in vigore del decreto-legge (articolo ItaliaOggi del 31.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATASulle varianti ai permessi un pasticcio da risolvere.
Il decreto Sblocca Italia approvato alla Camera contiene una modifica riguardante il regime normativo delle varianti ai permessi di costruire: quasi sblocca le varianti con la Scia.
L'articolo 17, comma 1, lettera m), infatti, sostituisce le parole «dichiarazione di inizio attività» con «segnalazione certificata di inizio attività» nel comma 2 dell'articolo 22 e introduce, nello stesso articolo, un nuovo comma 2-bis. In base a quest'ultimo comma sono realizzabili, mediante Scia (per giunta comunicata, poco comprensibilmente, a fine lavori), le varianti ai permessi di costruire che non configurino una variazione essenziale, a condizione che, tra le altre condizioni, siano attuate dopo l'acquisizione degli eventuali atti di assenso prescritti dalla normativa sui vincoli paesaggistici.
La contraddizione con quanto disposto dal comma 2 dello stesso articolo 22 (come contestualmente modificato) e dal comma 4 del successivo articolo 23-bis è evidente. In base al riformulato comma 2 dell'articolo 22, possono essere realizzate con Scia le varianti ai permessi di costruire qualora, tra l'altro, non modifichino la sagoma degli edifici vincolati. In base al comma 2-bis, invece, la Scia può essere utilizzata anche per una variante al permesso di costruire comportante la modifica della sagoma di un edificio vincolato, dato che in presenza di una modifica della sagoma non si può parlare, necessariamente (si veda l'articolo 32 del dpr n. 380/2001), di variazione essenziale, e dunque escludere il ricorso alla stessa Scia.
L'utilizzabilità della Scia per interventi comportanti modifiche della sagoma anche rispetto a edifici vincolati è confermata dal fatto che lo stesso comma 2-bis subordina l'eseguibilità di interventi di questo tipo all'acquisizione delle autorizzazioni previste dalla normativa sui vincoli paesaggistici. L'estensore del decreto sembra essersi dimenticato anche delle modifiche al dpr n. 380/2001 apportate con il decreto-legge n. 69/2013 e in particolare dell'articolo 23-bis che, al comma 4, dispone la delimitazione, a cura dei comuni, delle parti delle zone territoriali omogenee A. In esse si esclude il ricorso alla segnalazione certificata per realizzare varianti ai permessi di costruire comportanti modifica alla sagoma, prevedendo, in caso di inerzia dei comuni, l'esercizio di poteri sostitutivi da parte delle regioni ovvero del ministro delle Infrastrutture, e stabilendo comunque che, in assenza della delimitazione, non è possibile utilizzare la Scia per le stesse varianti all'interno dell'intera zona A.
Se, come appare probabile, i tempi stretti non consentiranno al Senato di apportare modifiche al testo del decreto sblocca Italia, di certo non scomparirà la dichiarazione di inizio attività, ma molto probabilmente compariranno dubbi sull'utilizzabilità della segnalazione certificata di inizio attività per realizzare varianti ai permessi di costruire relativi agli edifici vincolati nonché a quelli che si trovano all'interno dei centri storici. Se n'è accorto, pur tardivamente, anche il governo che, al riguardo, ha accolto a Montecitorio un ordine del giorno (n. 153), con l'impegno ad armonizzare il contenuto dell'articolo 22, comma 2-bis, con le altre disposizioni richiamate (articolo ItaliaOggi del 31.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Sblocca-Italia, sì della Camera. Il Senato non dovrebbe modificare il testo che destina 3,9 miliardi alle grandi opere.
Giro di boa con assetto da considerare definitivo per il decreto Sblocca Italia. Dopo la fiducia votata al governo una settimana fa, ieri la legge di conversione del decreto ha ottenuto il via libera finale della Camera, al termine di un tormentatissimo iter parlamentare, concluso dall'approvazione di ben 50 emendamenti richiesti dalla commissione Bilancio sul testo uscito dalla commissione Ambiente.
L'ok finale di Montecitorio consegna al Senato un testo praticamente blindato. L'esame in Aula a Palazzo Madama inizierà martedì 4 novembre. Difficile, se non impossibile, immaginare nuove correzioni (dopo le oltre 200 apportate alla Camera) a meno di non rischiare la decadenza del provvedimento, da convertire in legge entro martedì 11 novembre.
Il passaggio parlamentare ha confermato i pilastri del provvedimento, ma non sono mancate le correzioni di rilievo: alcune imposte peraltro dalla cronaca, come nel caso degli interventi mirati a sbloccare gli appalti per la messa in sicurezza di Genova, congelati dai ricorsi al Tar. In futuro, prima di accordare una sospensiva i giudici dovranno valutare anche le esigenze di incolumità pubblica connesse alla realizzazione degli interventi.
Confermati i fondi destinati allo sblocco delle grandi opere (3,9 miliardi, di cui una prima tranche di 1,7 miliardi già individuata dal ministero delle Infrastrutture) così come i poteri da super-commissario attribuiti all'amministratore delegato delle Ferrovie Michele Elia per accelerare l'avvio dei cantieri per la Napoli-Bari e la Palermo-Messina. Completamente riscritto, invece, dopo i rilievi Ue, il capitolo dedicato all'accorpamento (con proroga) delle concessioni autostradali. Rispetto alla corsia preferenziale disegnata dal decreto andato in Gazzetta il 12 settembre sono stati ripristinati una serie di passaggi formali (come il parere dell'Autorità Trasporti e l'ok preventivo Ue) oltre all'impossibilità di "defiscalizzare" gli investimenti previsti con la rivisitazione dei piani.
Qualche correzione di rilievo è arrivata anche sul corposo capitolo delle semplificazioni edilizie. Torna innanzitutto l'obiettivo di disegnare un regolamento edilizio standard valido per tutti i Comuni italiani: la quadra andrà trovata in Conferenza unificata. Confermata la possibilità di frazionare o accorpare le unità immobiliari con una semplice Scia, senza più necessità di richiedere un permesso di costruire. Le semplificazioni sono state accompagnate da un inasprimento delle sanzioni. Per chi "dimentica" di comunicare l'avvio dei lavori (Cil) la multa sale da 258 a mille euro.
Confermata la deduzione Irpef del 20% per l'acquisto di case da destinare all'affitto per almeno otto anni. Si deve trattare però di abitazioni nuove invendute o ristrutturate. Da luglio 2015, poi, gli edifici nuovi o ristrutturati dovranno essere predisposti alla banda larga.
Modifiche di minor impatto per il corposo capitolo dedicato alle bonifiche. In larga parte mantenute anche le deroghe al codice appalti per gli interventi di difesa del suolo (con la possibilità di progetti in house) e per le opere urgenti su scuole, antisismica e beni tutelati. Saltato all'ultimo minuto il raddoppio del fondo emergenze, rimandato (forse) alla legge di stabilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.10.2014).

SEGRETARI COMUNALISegretari, stipendi ancorati al capofila. Comuni. Gli emolumenti di chi opera in più enti convenzionati.
Tempi duri per i segretari comunali. Dopo l'annuncio del superamento della figura storica degli enti locali e del loro ruolo, in discussione al Senato (AS 1577), la nota 29.09.2014 n. 76063 di prot. della Ragioneria generale dello Stato frena gli stipendi dei segretari comunali in convenzione tra più enti (si veda «Il Sole 24 Ore» del 27 ottobre).
Nel dettaglio una parte dello stipendio –chiamata retribuzione di posizione– è legato alla fascia demografica dell'ente dove si presta servizio, secondo quanto previsto dai Ccnl. Tuttavia, poiché è noto che i segretari in servizio sono in numero inferiore rispetto alle sedi presenti su tutto il territorio nazionale, per garantire la copertura delle sedi vacanti, gli enti possono convenzionare il servizio di segreteria comunale cosicché il segretario di un ente (detto capofila) possa ricoprire lo stesso incarico in altri comuni, potendo così gli enti conseguire economie grazie al riparto dei costi.
Ciò garantisce agli interessati l'attribuzione di un trattamento economico più favorevole grazie alla maggiorazione del 25% che remunera le maggiori attività richieste. Tuttavia la Ragioneria generale, rispondendo al quesito di un ente, ha precisato che non è ammissibile parametrare la retribuzione di posizione alla fascia demografica derivante dalla somma degli abitanti degli enti in convenzione presso cui il segretario presta servizio, non potendosi determinare –con il semplice atto di convenzione– alcuna modifica nella retribuzione di posizione che resta ancorata alla fascia professionale di appartenenza del segretario stesso e alla tipologia del singolo ente inizialmente ricoperto.
Tale aspetto riguarda tutti i segretari comunali che operano in sedi capofila di dimensioni demografiche inferiori alla classe di appartenenza della segreteria convenzionata. Per un segretario di fascia B che opera in una segreteria di classe II, ma dove l'ente capofila è di classe III, il taglio dello stipendio sfiora i 10mila euro annui. Per i segretari che sono transitati dalla fascia C alla fascia B grazie all'ultimo corso-concorso Spes, il cui esito è stato pubblicato lo scorso 4 settembre, la differenza è minima (circa 600 euro annui).
Il semplice superamento del corso-concorso non costituisce motivo di attribuzione del trattamento economico stipendiale relativo alla fascia per la quale si è conseguita l'idoneità, se a ciò non segue la presa di servizio in un ente dove è richiesta la qualifica superiore. Pertanto il segretario di fascia C che ha conseguito l'idoneità di fascia B, ma che rimane titolare in un ente di classe IV non potrà vantare alcun diritto di attribuzione del trattamento economico della classe superiore.
Nel caso in esame, oltre a essere diversa la retribuzione di posizione, lo stipendio subirebbe un incremento di oltre 8mila euro annui, arrecando un evidente danno alle casse dell'ente. A tal fine si ricorda che in materia di attribuzione del trattamento economico fondamentale dei segretari comunali l'organismo competente alla definizione dello stesso è l'ex Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali, confluita nel ministero dell'Interno ad opera del Dl 78/2010, e pertanto eventuali decreti sindacali, adottati (o fatti adottare) a tal fine, sono nulli.
Inoltre dopo l'ultimo Spes si è posto il problema dell'applicabilità del congelamento degli stipendi dei pubblici dipendenti (articolo 9 del Dl 78/2010) poiché la norma avevo previsto che le progressioni di carriera comunque denominate e i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011/2014 avessero effetto esclusivamente a fini giuridici. Di tale problematica è stato investito il dipartimento della Funzione pubblica con nota 3391 del 22 ottobre
 (articolo Il Sole 24 Ore del 31.10.2014).

APPALTI: Dall'Anac, manuale ad hoc per opere sopra 150 mila.
Manuale sulla qualificazione per l'esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150 mila euro.

Arriva dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) che ne ha dato notizia con un comunicato pubblicato in G.U. n. 251 del 28.10.2014. Il Manuale, i cui contenuti sono stati illustrati su ItaliaOggi del 15 ottobre scorso, è operativo da oggi e individua una serie di criteri per l'utilizzo delle cessioni di rami di azienda ai fini del rilascio dell'attestato di qualificazione.
Fornisce, inoltre, elementi stringenti per la valutazione dei lavori privati; introduce verifiche più puntuali ai fini dell'accertamento dell'indipendenza di giudizio delle Soa (Società organismi di attestazione) e della vigilanza sulla loro attività.
Il Manuale sulla attività di qualificazione per l'esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150 mila, inoltre aggiorna, integra e razionalizza circa 300 atti tra determinazioni, comunicati e deliberazioni, emanati negli ultimi 15 anni, dal 1999 ad oggi, dall'Autorità (articolo ItaliaOggi del 29.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAVendita forzata senza attestato «verde». Notariato. La disciplina dell'Ape vale solo per le compravendite consensuali.
L'attestato di prestazione energetica (Ape) non occorre per i trasferimenti immobiliari disposti con provvedimenti dell'autorità giudiziaria in procedure di vendita forzata: è quanto sostenuto dal Consiglio nazionale del notariato nello studio 19-20.06.2014 n. 263-2014/C, intitolato «Vendita forzata e attestato di prestazione energetica».
Nello studio si osserva che la disciplina della certificazione energetica, contenuta nel Dlgs 192/2005, origina dalla necessità di dare attuazione a quanto prescritto dalla normativa europea che, perseguendo una maggiore efficienza energetica degli edifici sul territorio degli Stati membri, è certamente rivolta a disciplinare la circolazione dei beni immobili mediante un'attività contrattuale, lasciando invece al diritto interno dei singoli Stati la regolamentazione della materia in termini di procedimenti giudiziari.
Nel nostro ordinamento, la vendita coattiva per l'attuazione di un diritto di credito insoddisfatto è tradizionalmente regolata da una disciplina speciale: quanto al contenuto, alla forma, ai mezzi di impugnazione e alla stabilità del provvedimento giudiziale che la attua; pertanto, una disciplina destinata a regolare una vendita negoziale e a sanzionare una sola o entrambe le parti di una compravendita consensuale non può considerarsi automaticamente applicabile ad essa, in assenza di espressi e inequivocabili indici normativi.
Ebbene, né nell'originaria formulazione dell'articolo 6 del Dlgs 192/2005 né nelle riformulazioni che si sono succedute, fino a quella attualmente vigente sarebbero rinvenibili sicuri indici della volontà del legislatore nazionale di attrarre e includere nella disciplina prevista (e adeguatamente sanzionata) anche le vendite forzate attuate a mezzo di decreto di trasferimento.
La legge in effetti obbliga all'allegazione dell'Ape agli «atti di trasferimento a titolo oneroso» e quindi utilizza un'espressione che allude ad atti di natura contrattuale. Inoltre, esistono diversi indizi nel senso della non estensione alle vendite forzate giudiziali degli obblighi e delle sanzioni previsti Dlgs 192/2005:
a) il riferimento espresso a una «clausola» contenente una certa dichiarazione dell'acquirente;
b) il riferimento espresso al "contratto" a proposito dell'obbligo di allegazione;
c) il principio di legalità e tipicità delle sanzioni amministrative in generale e, quindi, la loro non estensibilità a soggetti diversi da quelli indicati nella norma di legge (vale a dire le parti contraenti del contratto di compravendita) le quali, però, nel caso di vendita forzata, non possono ritenersi in alcun modo responsabili del contenuto del provvedimento del giudice con cui viene effettuato il trasferimento (in forma di decreto)
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2014).

APPALTIDocumenti antimafia snelliti. L'informazione scatta solo per familiari maggiorenni. In G.U. il decreto correttivo che semplifica alcuni adempimenti degli imprenditori.
Documentazione antimafia snellita per le imprese. L'informazione antimafia dovrà essere resa non per tutti i familiari conviventi del titolare ma solo per quelli maggiorenni e residenti in Italia. Inoltre tale documentazione è utilizzabile e produce i suoi effetti anche in altri procedimenti, diversi da quello per il quale è stata acquisita, riguardanti i medesimi soggetti.
Lo prevede, tra l'altro, il decreto legislativo 13.10.2014, n. 153 «Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13.08.2010, n. 136», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 250 del 27.10.2014 e in vigore dal 26.11.2014.
Il nuovo correttivo interviene nella parte del Codice concernente i controlli amministrativi sugli appalti e su concessioni, erogazioni e finanziamenti pubblici, consentendo di emettere una documentazione interdittiva in tutti i casi in cui siano interessate imprese border-line, che oggi, spiegano dalla Presidenza del consiglio dei ministri, eludono gli accertamenti antimafia più rigorosi, operando sotto soglia.
Il provvedimento semplifica alcuni passaggi della procedura, eliminando oneri amministrativi superflui, come ad esempio (come visto sopra) gli accertamenti a carico dei figli minori e semplificando alcuni termini procedimentali per il rilascio della documentazione antimafia, specie nei casi di urgenza. Viene, inoltre, semplificata la norma sulla competenza territoriale.
Con l'approvazione del decreto legislativo sarà esclusivamente competente al rilascio della documentazione antimafia il prefetto del luogo ove ha sede l'operatore economico.
L'intervento normativo, ha annunciato Palazzo Chigi, troverà il suo completamento con la prossima pubblicazione del regolamento sul funzionamento della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, che ha concluso il suo iter formativo (articolo ItaliaOggi del 28.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAAll'asta senza Ape. Obbligatorio solo con contratto. Il notariato sulla necessità dell'attestato energetico.
Niente attestato di prestazione energetica per gli immobili venduti all'asta.

Lo ha precisato il Consiglio nazionale del notariato (studio 19-20.06.2014 n. 263-2014/C) che analizza la disciplina da seguire nel caso di vendita forzata.
Nello studio si affronta il problema della estensione alle vendite coattive della normativa sulla qualità energetica degli immobili. Lo studio evidenzia che né nell'originaria formulazione dell'art. 6 del dlgs 192/2005 né nelle riformulazioni successive, fino a quella attualmente vigente risulta la volontà del legislatore di estendere le regole sull'attestato energetico anche le vendite forzate attuate a mezzo di decreto di trasferimento giudiziale. La normativa di settore, infatti, fa riferimento a clausole con le dichiarazioni dell'acquirente e richiama espressamente il contratto. Nulla di tutto ciò si riscontra nelle vendite forzate.
Inoltre, sarebbe impraticabile applicare le sanzioni previste per la mancata dichiarazione e allegazione agli acquirenti all'asta, che non possono ritenersi in alcun modo responsabili del contenuto del decreto del giudice con cui viene effettuato il trasferimento. In ogni caso, prosegue lo studio dei notai, anche se si ritenesse applicabile anche al trasferimento in ambito giudiziale coattivo la normativa in tema di dotazione e di allegazione dell'attestato di prestazione energetica, le eventuali violazioni non potrebbero, comunque, mai determinare l'applicabilità delle sanzioni amministrative. Non può applicarsi al debitore esecutato la sanzione la sanzione prevista per la violazione dell'obbligo di dotazione dell'attestato, a carico del solo proprietario nel caso di vendita.
Inoltre, non sono applicabili agli organi della procedura o al creditore procedente le responsabilità civili conseguenti alla violazione degli obblighi di informativa precontrattuale previsti in ambito energetico, in quanto, una volta esaurite le eventuali contestazioni su presunte irregolarità della vendita, non è data la responsabilità per vizi nella vendita forzata. Infine, non sono irrogabili alle parti della vendita le sanzioni amministrative previste per la violazione dell'obbligo di inserimento della clausola o dell'obbligo di allegazione al contratto dell'attestato di prestazione energetica: il decreto di trasferimento è, infatti, atto del giudice delle esecuzioni sul cui contenuto le parti non possono incidere.
Quanto, infine, all'obbligo di inserimento delle caratteristiche energetiche del bene offerto in vendita in caso di annuncio con i mezzi di pubblicità commerciali, secondo lo studio, è opportuno che il professionista delegato alla vendita, prima di effettuare gli adempimenti pubblicitari, verifichi sempre se l'attestato di prestazione energetica sia agli atti e ne tenga conto nella redazione dell'avviso di vendita. Il giudice, infatti, potrebbe, dare indicazioni specifiche di diverso tenore (articolo ItaliaOggi del 28.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIRevisori locali, si riparte. Iscrizioni dal 3/11 al 16/12. Solo online. Decreto Viminale. Anche chi è già in elenco dovrà presentare domanda.
Dal 3 novembre e sino al 16 dicembre prossimo, i soggetti già iscritti nell'elenco dei revisori dei conti degli enti locali e chi, possedendone i requisiti, fosse interessato a iscriversi, devono trasmettere, rispettivamente, la domanda di mantenimento nell'elenco e le nuove istanze di iscrizione.
È quanto viene previsto nel decreto Mininterno di ieri con cui si approva l'avviso 27.10.2014 per il mantenimento dell'iscrizione nell'elenco dei revisori dei conti degli enti locali delle regioni a statuto ordinario, nonché la presentazione di nuove domande di iscrizione nello stesso a far data dal prossimo 01/01/2015.
L'istanza di mantenimento nell'elenco, infatti, è una condizione prevista dal dm Interno 15/02/2012, che richiede, a pena di cancellazione, l'autocertificazione del mantenimento dei requisiti che permettono l'iscrizione, come, ad esempio l'iscrizione nel registro dei revisori legali o all'Ordine dei dottori commercialisti e il conseguimento di crediti formativi. Dichiarazioni su cui l'amministrazione dell'interno si riserva di effettuare dei controlli a campione in merito alla veridicità delle informazioni contenute.
Soggetti non iscritti. Le istanze andranno presentate in forma esclusivamente telematica attraverso la sezione «elenco revisori enti locali» del sito internet http://finanzalocale.interno.it, previa registrazione al sistema con userid e password. Una volta completata questa fase, verrà generata un'istanza che gli interessati dovranno firmare digitalmente ed inviare al Viminale attraverso la Pec del dipartimento della finanza locale. Nell'istanza sarà altresì richiesto di non trovarsi nelle condizioni ex art. 236 Tuel, vale a dire di non essere interdetto, inabilitato o interdetto, anche temporaneamente, ai pubblici uffici.
Soggetti già iscritti. Chi, invece, risultasse già iscritto alla data dell'1/1/2014, dovrà dichiarare che a data della domanda permangono i requisiti che permettono l'iscrizione all'elenco. Sul versante dell'acquisizione dei crediti formativi, l'avviso pubblico allegato al Dm in osservazione prescrive che l'interessato dovrà procedere all'inserimento dei crediti conseguiti dall'01/01/2014 al 30/11/2014 e completare la domanda. Se la procedura è stata correttamente eseguita, l'interessato riceverà una comunicazione, entro 12 ore, in merito al buon esito dell'acquisizione della domanda.
Disposizioni comuni. Tutti i soggetti che al termine della procedura di iscrizione risultassero iscritti nell'elenco, sono tenuti a versare al Mininterno un contributo annuo di 25 euro entro e non oltre il 30.04.2015. Tale versamento, così come prevede il dm 21/06/2013, dovrà essere effettuato sul conto corrente postale n. 1013096209 (Iban: IT60 C076 0114 5000 0101 3096 209) intestato alla Tesoreria Viterbo- Ministero interno – indicando come causale «Contributo Art 4 Bis dl 79/2012».
Estrazioni. Dall'elenco così formato, per ogni ente locale verranno estratti, con una procedura «random» presso le Prefetture competenti per territorio, tre nominativi. Nei casi di organi «monocratici», il primo nominativo è il designato per la funzione, mentre gli altri due, in ordine di estrazione, subentrano in caso di rinuncia del titolare. Nei casi di organi collegiali, i primi tre nominativi sono coloro che svolgeranno la funzione, mentre gli altri, (dal quarto al nono estratto) potranno subentrare sempre in caso di rinuncia di un componente (articolo ItaliaOggi del 28.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAEnti, oneri concessori fai-da-te.
Durante l'esame parlamentare del decreto sblocca Italia è stato approvato un emendamento, poi confluito nel testo sul quale il governo ha ottenuto la fiducia, che modifica l'articolo 16 del dpr 380/2001. Esso impone alle regioni e ai comuni di rivedere i parametri per il calcolo del contributo di costruzione che gli operatori privati versano alle amministrazioni locali a fronte del rilascio del titolo abilitativo.
Siamo arrivati al federalismo dei prelievi.
Finora la quota parte del contributo commisurata all'incidenza degli oneri di urbanizzazione è stata calcolata tenendo conto delle caratteristiche e della tipologia dell'intervento edilizio da realizzare e del diverso carico urbanistico indotto. Quest'ultimo fattore rappresenta il parametro tecnico che consente di stimare il costo per la collettività (in termini di attrezzature e servizi domandati) che l'intervento implica e del quale si chiede all'operatore di farsi carico. La ricerca di strumenti con i quali catturare una quota delle plusvalenze incassate dagli operatori privati, da sempre al centro del dibattito, è divenuta più pressante, anche perché è cresciuta la richiesta dalle amministrazioni locali di altre risorse.
Un simile tema è davvero affrontabile con un emendamento approvato nella conversione in legge di un decreto, e con la formulazione scelta? Per effetto della modifica, regioni e comuni dovranno rielaborare parametri di calcolo degli oneri, tenendo conto del «maggior valore determinato da interventi in variante/deroga o da cambi di destinazione d'uso», e non meno del 50% di questo «maggior valore» (calcolato dagli stessi comuni) dovrà essere versato a titolo di contributo straordinario. Gli oneri concessori diventano, dunque, un altro strumento (in aggiunta a quelli esistenti) con il quale prelevare una quota (non meno della metà) del ritorno economico derivante da investimenti immobiliari e dunque dalle forme di utilizzo della proprietà privata. E ciò avverrà sulla base di parametri e metodi di calcolo definiti dalle regioni e dai comuni, senza alcuna indicazione ulteriore da parte dello stato.
Spetterà al singolo comune inventarsi il metodo attraverso il quale accertare, o meglio prevedere, quale possa essere il ritorno economico di un investimento immobiliare che, come è noto, può avere tempi di esecuzione dell'operazione, riferiti agli interventi e alla gestione, anche commerciale, molto lunghi. I comuni sono in grado di fare un'operazione di questo tipo? Sanno stabilire la quota parte del ritorno economico che va versata ovvero a fronte della quale devono essere realizzate opere pubbliche per un valore economico corrispondente?
Ci si chiede, poi, perché si facciano salve le previsioni contenute nelle leggi regionali e negli strumenti urbanistici vigenti, indipendentemente da quali siano il campo di applicazione, gli interventi per i quali è dovuto e l'entità dello stesso contributo previsti da quelle disposizioni. È già molto difficile capire un Paese nel quale esistono una ventina di leggi urbanistiche regionali. Bisogna ora aggiungere centinaia e centinaia di forme di trattamento del diritto di proprietà (articolo ItaliaOggi del 28.10.2014).

INCARICHI PROGETTUALIProgettisti anche costruttori. Niente obbligo di astensione se non c'è un vantaggio concorrenziale. Legge europea. Riordinate le procedure per gli incarichi - Cade l'incompatibilità per l'esecuzione dell'opera.
La legge comunitaria riordina le procedure di affidamento degli incarichi di progettazione: l'articolo 25, modificando il testo unico degli appalti 163 del 2006 (articolo 90, comma 8), consentirà l'affidamento di appalti e concessioni di lavori pubblici anche a chi sia stato affidatario di precedenti incarichi di progettazione.
Dalla pubblicazione della legge comunitaria, chi ha progettato non sarà soggetto all'obbligo di astensione dal partecipare ad appalti concessioni sulle stesse opere, né opererà l'attuale dubbio (articolo 90, comma 8) che esperienze e competenze specifiche, maturate durante la progettazione, possano travasarsi a favore dell'impresa che intenda partecipare alla gara per l'esecuzione dell'opera con l'ausilio del progettista predetto.
Il principio che obbliga l'astensione dei progettisti è presente da tempo nella legislazione tecnica: la legge urbanistica 1150 del 1942 (articolo 41-bis) impone infatti ai redattori di piani urbanistici il divieto di progettare singoli interventi attuativi del piano da loro progettato, prima che l'iter di approvazione sia concluso. Secondo la stessa logica, dapprima la legge del 1994 (articolo 17, comma 10, della legge 109) e oggi l'articolo 90 del Dlgs 163/2006 sterilirizzano il progettista rispetto alle procedure di gara e di esecuzione dell'opera. Per di più, l'incompatibilità si estende anche a soggetti controllati, controllanti o collegati all'affidatario di incarichi di progettazione, con una previsione che quindi allarga l'incompatibilità non solo alle società professionali ma anche a chi avesse continuità di rapporti con imprese concorrenti in gara.
Oggi questa barriera è destinata a venir meno perché si potrà essere dapprima progettista e poi coinvolti nell'affidamento di appalti e concessioni di lavori pubblici. Il confine tra la possibilità di partecipare e il divieto non è più collocato nella presunzione di una commistione d'interessi, cioè nel dubbio che una serie di dati, elementi di progettazione e valutazioni tecniche possano trasmigrare dalla conoscenza del progettista all'offerta in gara formulata da un 'appaltatore che fruisca dei servizi del progettista.
La legge comunitaria inserisce infatti un comma 8-bis all'articolo 90 del Dlgs 163/2006, prevedendo che possa partecipare a gare di appalto concessione di lavori pubblici chi, pur avendo espletato incarichi di progettazione (per quell'opera), dimostri che l'esperienza acquisita nell'espletamento dell'incarico non è tale da determinare un vantaggio che possa falsare la concorrenza con gli altri operatori. In tal modo si inserisce, a carico del progettista (e dell'impresa che intende giovarsene) un onere di provare che le altre imprese concorrenti, anche senza fruire di un progettista che ha collaborato "a monte" all'ideazione dell'opera, possano essere in grado di raggiungere gli stessi risultati).
In altri termini: quando qualche impresa scoprirà che il progettista incaricato di studiare la fase precedente la gara partecipa tra le fila di un'impresa avversaria, potrà contestare tale partecipazione, ma dovrà dimostrare che l'impresa avversaria si è effettivamente avvantaggiata grazie all'esperienza acquisita dal progettista.
Attingendo dall'esperienza, si ricorda quindi che l'affidatario della progettazione preliminare a una gara può partecipare all'affidamento della progettazione definitiva ed esecutiva perché il vantaggio concorrenziale che deriva dal previo espletamento dell'incarico finalizzato alla redazione del progetto preliminare non supera la soglia del normale vantaggio di cui gode, ad esempio, l'appaltatore che ha già eseguito lotti adiacenti o che opera in ambiti territoriali limitrofi (Tar Piemonte 1510/2008, Consiglio di Stato 561/2004)
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAStandard Ue contro il rumore. Inquinamento acustico. Entro 18 mesi il Governo dovrà stabilire i nuovi parametri.
Nuovo regole sul contenimento dei rumori, sulle emissioni sonore per le attività industriali e per quelle sportive, semplificazioni per i requisiti acustici degli edifici.
Sono queste alcune delle novità contenute nell'articolo 19 della delega, contenuta nella legge europea, che recepirà norme di matrice comunitaria sul contrasto all'inquinamento acustico.
Il Governo, entro 18 mesi dovrà quindi riordinare la normativa per un più efficace contrasto all'inquinamento acustico. L'intervento riguarda tutte le fonti di produzione sonora presenti negli edifici o nelle infrastrutture (ferrovie, autostrade), ovvero in fonti mobili come i veicoli, destinati ad avare un impatto sull'ambiente. Si profilano quindi una standardizzazione delle soglie di rilevanza del rumore, uniformità dei requisiti acustici, delle professionalità tecniche e infine adeguamenti del regime sanzionatorio.
Vi è una pluralità di settori e rapporti (civili, penali e amministrativi) che la normativa influenzerà, ad esempio in tema di soglie generali di tolleranza del rumore. Ciò significa che la delega riguarda le regole pubblicistiche della materia come gli ambienti esterni (ad esempio, per gli impianti industriali) e interni (per la conformità degli edifici). Su un piano diverso, ma parallelo, corre invece il concetto di "normale tollerabilità" nelle immissioni sonore (ex articolo 844 del Codice civile ) prodotte, ad esempio, da un vicino di casa rumoroso o dal ristoratore del piano sottostante.
Questi casi attengono al rapporto tra privati e la norma di riferimento (articolo 844 del Codice civile) deve osservare parametri generati dal caso concreto (Cassazione 9434/2012, relativo al suono di un pianoforte in un contesto condominiale), e non quelle generali imposti dalle pubbliche amministrazioni. L'articolo 659 del Codice penale punisce inoltre il disturbo arrecato alla quiete pubblica, distinguendo tra violazioni commesse da privati o da coloro che esercitano una professione.
In tale situazione si puniscono quelle condotte che, anche se rispettose dei livelli previsti dalla normativa antirumore (legge 447/1995), sono realizzate minando la tranquillità pubblica (ad esempio, perché esercitata in orari notturni). La nuova disciplina riguarderà, quindi, soprattutto gli operatori economici (costruttori, imprenditori, tecnici del suono), i quali dovranno rispettare i livelli ispirati dal legislatore comunitario. A criteri di diritto interno si ricorrerà invece per definire le soglie di tolleranza del rumore tra vicini (articolo 844 del Codice civile) e per quelle che sorvegliano il disturbo della quiete pubblica (articolo 659 del Codice penale).
In attesa dei decreti, nell'edilizia continuerà ad applicarsi l'articolo 15 della legge 96/2010, che nei rapporti tra privati (costruttori-venditori-acquirenti di alloggi) consente un generico riferimento alle soglie del Dpcm del 05.12.1997 (Tribunale Roma 13550/2014): al di sotto di tali soglie, il livello di rumore è accettabile, ma anche al di sopra, se per pochi decibel, occorre dimostrare la reale lesività del rumore
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIRevisori locali, aperte le candidature. Professionisti. Termine al 16 dicembre per i debutti e i rinnovi.
Si apre la nuova stagione delle iscrizioni all'elenco dei revisori dei conti degli enti locali, passaggio indispensabile per poter essere estratti per i posti da revisore che si renderanno disponibili nel 2015.
A fissare regole e calendario è il decreto con l'avviso ufficiale pubblicato ieri dal ministero dell'Interno: la finestra per presentare la domanda si aprirà il 3 novembre per chiudersi alle 18.30 del 16 dicembre (termine perentorio, che non ammette deroghe).
Al passaggio sono interessati ovviamente tutti i professionisti che vogliono debuttare nella revisione contabile degli enti locali delle Regioni a Statuto ordinario, ma anche i 15.924 revisori che sono già iscritti negli elenchi utilizzati per le estrazioni di quest'anno. L'unica strada percorribile è quella telematica (dalla sezione dedicata ai revisori nel sito del dipartimento Finanza locale del ministero dell'Interno: http://finanzalocale.interno.it), tramite posta elettronica certificata, e l'iscrizione sarà certificata con la comunicazione ufficiale del buon esito dell'operazione da parte del Viminale (non sono sufficienti, quindi, le ricevute di accettazione e consegna che arrivano sempre quando si usa la posta elettronica certificata): anche in caso di mancata iscrizione, comunque, il ministero dell'Interno manderà una comunicazione all'interessato.
Per facilitare il compito ai già iscritti, che saranno verosimilmente la maggioranza degli interessati al nuovo adempimento, il Viminale ha alleggerito i loro "obblighi dichiarativi", dal momento che da quest'anno il sistema riproporrà in modo automatico tutti i dati già inseriti nella precedente iscrizione, che naturalmente potranno essere aggiornati in caso di modifiche.
Il passaggio essenziale, sia per i nuovi sia per i vecchi iscritti, sarà la certificazione dei requisiti di formazione, che impongono di aver maturato fra il 1° gennaio e il 30 novembre almeno 10 crediti formativi nei corsi (sono oltre 600, quest'anno) riconosciuti dal ministero dell'Interno.
Chi non ha mai avuto incarichi di revisione può essere iscritto solo nella prima fascia (in base a una norma che i professionisti vorrebbero fosse corretta), quella dedicata gli enti fino a 4.999 abitanti. Per la seconda fascia (enti fino a 14.999 abitanti) occorrono 5 anni di iscrizione al Registro dei revisori legali o all'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e un incarico triennale di revisione già svolto, mentre per la terza fascia, che comprende tutti gli enti maggiori, occorre avere in curriculum due incarichi già effettuati e 10 anni di iscrizione all'ordine o al registro
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2014).

APPALTI - SICUREZZA LAVOROAppalti sicuri standardizzati. Modulistica semplificata per redarre Pos, Psc e Pss. Le novità sui piani operativi previste dal decreto Fare per ridurre gli adempimenti.
Modelli semplificati per la sicurezza lavoro negli appalti. Piani di sicurezza e fascicolo opera, infatti, possono avere ora una struttura standard, cioè la veste dei modelli fissati dal decreto 09.09.2014.
La semplificazione scaturisce dal decreto del Fare (dl n. 69/2013) che aveva delegato la predisposizione dei modelli standard per il Pos (Piano operativo di sicurezza) da parte delle imprese, il Psc (Piano di sicurezza e coordinamento) e il Fo (Fascicolo dell'opera) da parte dei coordinatori per la progettazione e il Pss (Piano di sicurezza sostitutivo del Psc) da parte dei committenti.
Cantieri temporanei o mobili. La semplificazione riguarda gli adempimenti previsti dal T.u. sulla sicurezza (dlgs n. 81/2008) e, in particolare, quelli riferiti ai cantieri temporanei o mobili (Titolo IV del T.u.). Per cantiere deve intendersi «qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o d'ingegneria civile», ossia i lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali, comprese le parti strutturali delle linee elettriche e le parti strutturali degli impianti elettrici, le opere stradali, ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche e, solo per la parte che comporta lavori edili o di ingegneria civile, le opere di bonifica, di sistemazione forestale e di sterro; nonché i lavori di costruzione edile o di ingegneria civile gli scavi, e il montaggio e lo smontaggio di elementi prefabbricati utilizzati per la realizzazione di lavori edili o ingegneria civile.
Modelli standard. La semplificazione, prevista come detto dal decreto Fare (dl n. 69/2013 convertito dalla legge n. 98/2013) mediante inserimento dell'art. 104-bis al T.u. sicurezza nonché con l'inserimento del comma 2-bis all'art. 131 del Codice dei contratti pubblici (il dlgs n. 163/2006), deriva dall'adozione del decreto interministeriale 09.09.2014 che ha approvato i modelli semplificati relativi a: a) piano operativo di sicurezza (Pos); b) piano di sicurezza e coordinamento (Psc); c) fascicolo dell'opera; d) piano di sicurezza e coordinamento (Pss).
Il decreto 09.09.2014 precisa che la possibilità di adottare i modelli semplificati non implica alcuna conseguente semplificazione della disciplina normativa che, pertanto, resta del tutto confermata. In particolare, per tutti i modelli restano integralmente applicabili le norme contenute nel Titolo IV del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008) fatta eccezione per il Pss nel qual caso restano integralmente applicabili le disposizioni del dlgs n. 163/2006 (codice contratti pubblici).
Il piano operativo di sicurezza. Il primo modello semplificato è il Pos, ossia il documento di valutazione dei rischi la cui redazione è obbligatoria da parte del datore di lavoro delle imprese esecutrici dei lavori in un cantiere e con riferimento ad ogni singolo cantiere presso il quale sia prestata l'opera (è una delle due attività, l'altra è la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che il datore di lavoro deve necessariamente effettuare personalmente, perché non è delegabile (art. 17 del T.u. sicurezza).
Il modello semplificato contiene le seguenti sezioni:
- identificazione e descrizione dell'opera;
- dati identificativi dell'impresa;
- organizzazione del servizio di pronto soccorso, antincendio ed evacuazione dei lavoratori;
- numero e qualifica dei lavoratori operanti in cantiere per conto dell'impresa;
- documentazione in merito all'informazione e alla formazione fornite ai lavoratori impegnati in cantiere;
- esito del rapporto di valutazione del rumore;
- lavorazioni svolte in cantiere;
- procedure complementari o di dettaglio richieste dal Psc (se previsto)
- elenco allegati obbligatori
In caso di mancata utilizzazione del nuovo modello semplificato, il Pos va redatto seguendo le indicazioni ed esponendo i contenuti indicati nell'Allegato XV del T.u. sicurezza.
Il piano di sicurezza e coordinamento. Il secondo modello semplificato è il Psc, parte integrante del contratto di appalto. Tale piano è costituito da una relazione tecnica e da prescrizioni correlate alla complessità dell'opera da realizzare e alle eventuali fasi critiche del processo di costruzione, atte a prevenire o ridurre i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, nonché dalla stima dei costi. Il Psc è specifico per ogni singolo cantiere temporaneo o mobile e di concreta fattibilità, con i suoi contenuti che devono essere «il risultato di scelte progettuali e organizzative conformi alle prescrizioni dell'art. 15 del» T.u. sicurezza (l'articolo 15 elenca le cd misure generali di tutela).
Per «scelte progettuali e organizzative», invece, deve intendersi l'insieme di scelte effettuate in fase di progettazione dal progettista dell'opera in collaborazione con il coordinatore per la progettazione, al fine di garantire l'eliminazione o la riduzione al minimo dei rischi di lavoro. Le scelte progettuali sono effettuate nel campo delle tecniche costruttive, dei materiali da impiegare e delle tecnologie da adottare; le scelte organizzative sono effettuate nel campo della pianificazione temporale e spaziale dei lavori. Il modello semplificato contiene le seguenti sezioni:
- identificazione e descrizione dell'opera;
- identificazione delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi;
- organigramma del cantiere;
- individuazione analisi e valutazione dei rischi relativi all'area di cantiere;
- organizzazione del cantiere;
- planimetria del cantiere;
- rischi in riferimento alle lavorazioni;
- interferenze tra le lavorazioni;
- procedure complementari o di dettaglio da esplicitare nel Pos;
- misure di coordinamento relative all'uso comune di apprestamenti, attrezzature, infrastrutture, mezzi e servizi di protezione collettiva;
- modalità organizzative della cooperazione e del coordinamento;
- disposizioni per la consultazione degli Rls;
- organizzazione del servizio; di pronto soccorso, antincendio ed evacuazione dei lavoratori;
- stima dei costi della sicurezza;
- elenco allegati obbligatori;
- quadro riepilogativo inerente gli obblighi di trasmissione.
Anche in tal caso, la mancata utilizzazione del nuovo modello semplificato obbliga a redigere il Psc, seguendo le indicazioni e con i contenuti indicati nell'Allegato XV del T.u. sicurezza.
---------------
Indicazioni anche per il fascicolo opera.
Il terzo modello è il Fo alla cui redazione è tenuto il coordinatore per la progettazione. Il fascicolo dell'opera deve contenere, tra l'altro, le informazioni utili ai fini della prevenzione e della protezione dai rischi cui sono esposti i lavoratori. La sua redazione non è obbligatoria in caso di lavori di manutenzione ordinaria di cui all'art. 3, comma 1, lett. a), del dpr n. 380/2001 (T.u. edilizia), ossia di tutti gli interventi che riguardano opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie a integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
Il fascicolo viene predisposto la prima volta a cura del coordinatore per la progettazione; è eventualmente modificato nella fase esecutiva in funzione dell'evoluzione dei lavori ed è aggiornato a cura del committente a seguito delle modifiche intervenute in un'opera nel corso della sua esistenza. Per interventi su opere esistenti già dotate di fascicolo e che richiedono la designazione dei coordinatori, l'aggiornamento del fascicolo è predisposto a cura del coordinatore per la progettazione. Il fascicolo accompagna l'opera per tutta la sua durata di vita.
Il modello semplificato contiene le seguenti sezioni:
• Scheda I = Descrizione sintetica dell'opera e individuazione dei soggetti interessati;
• Scheda II-1 = Misure preventive e protettive in dotazione dell'opera e ausiliarie;
• Scheda II-2 = Adeguamento delle misure preventive e protettive in dotazione dell'opera e ausiliarie;
• Scheda II-2 = Informazioni sulle misure preventive e protettive in dotazione dell'opera necessarie per pianificare la realizzazione in condizioni di sicurezza e modalità di utilizzo e di controllo dell'efficienza delle stesse;
• Scheda III-1 = Elenco e collocazione degli elaborati tecnici relativi all'opera nel proprio contesto;
• Scheda III-2 = Elenco e collocazione degli elaborati tecnici relativi alla struttura architettonica e statica dell'opera;
• Scheda III-3 = Elenco e collocazione degli elaborati tecnici relativi agli impianti dell'opera;
• Elenco allegati.
- Il piano di sicurezza sostitutivo (del Psc). Ultimo modello semplificato è il Pss, il piano di sicurezza sostitutivo del Psc, la cui redazione è obbligatoria da parte dell'appaltatore qualora la redazione del Psc non sia prevista ai sensi del T.u. sicurezza. Il Pss riguarda gli appalti pubblici e la sua redazione è consentita soltanto nel caso in cui il lavoro venga svolta da una sola impresa. Ciò vuol dire, che nel caso in cui la legge non obblighi alla nomina del Csp (coordinatore della sicurezza per la progettazione) e quindi all'elaborazione del Psc, andrà sempre consegnato il Pss alle amministrazioni che hanno proposto il bando per la concessione dell'appalto (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, da gennaio nuovo avvio ma con le vecchie procedure. Dal 2015 scatta la piena operatività del sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
La perdurante assenza dei previsti decreti ministeriali di semplificazione del Sistri sembra preludere a una partenza della piena operatività del sistema, prevista per il 01.01.2015, con l'obbligo di utilizzo dell'attuale dotazione hardware e software stabilita per legge, ossia: «dispositivi Usb» e «black box»; schede elettroniche del sistema centrale per comunicare i dati sulla gestione dei beni a fine vita.
Spirata inutilmente la data del 24.08.2014, entro la quale, in base all'articolo 14 del dl 91/2014, il Minambiente avrebbe dovuto con propri regolamenti sancire «l'applicazione dell'interoperabilità» (ossia dell'interazione tra il citato sistema informatico ed eventuali software terzi) e «la sostituzione dei dispositivi token usb» il passaggio cruciale dal vecchio al nuovo regime di tracciamento dei rifiuti (che prevede l'abbandono del periodo transitorio e lo scattare, per la prima volta, delle relative sanzioni per le violazioni Sistri) avverrà sui binari del meccanismo originariamente disegnato dal dlgs 152/2006 e dm 52/2011.
Meccanismo che impone ai soggetti aderenti (per obbligo di legge o mera volontà) al Sistri di inoltrare al sistema un flusso dati tramite i citati dispositivi informatici parallelamente al compimento delle diverse attività che interessano i rifiuti (produzione, movimentazione, conferimento a impianto di trattamento, intermediazione e commercio) ma che al contempo offre loro la scelta (non indifferente dal punto di vista dell'organizzazione aziendale) tra diverse procedure da utilizzare.
Il sistema Sistri. Strumenti previsti dal Sistri per assicurare il tracciamento sono: le schede informatiche Sistri presenti sul relativo portale (nelle quali devono essere dichiarati i dati quali/quantitativi e temporali relativi alle attività poste in essere); i citati dispositivi informatici descritti, ossia la «chiavetta Usb» per accedere, compilare, firmare elettronicamente le schede e la «black box» per tracciare (unitamente alla relativa «Usb» di identificazione) il trasporto dei rifiuti. Le regole per il corretto utilizzo degli strumenti software e hardware citati sono quelle dettate, in attuazione del dlgs 152/2006, dal dm 52/2011 (c.d. «Testo unico Sistri») e, su richiamo di quest'ultimo, dalle istruzioni pubblicate dal Minambiente sul portale internet www.sistri.it.
Le schede Sistri. Il software prevede la tenuta di due schede: «Area Registro Cronologico» (che sostituisce per i soggetti iscritti, lo storico «registro di carico e scarico») ed «Area Movimentazione Rifiuto» (che sostituisce il «formulario di trasporto»). Ai fini della corretta tenuta di tali schede ogni operatore deve, per quanto di sua competenza, (e secondo la tempistica stabilita dalla disciplina di riferimento): accedere al sistema autenticandosi tramite «token usb» collegato a personal computer, effettuare la compilazione online dei previsti campi; firmare elettronicamente le registrazioni tramite l'utilizzo degli stessi «dispositivi Usb»; accompagnare il trasporto dei rifiuti con la copia cartacea della scheda «Area Movimentazione Rifiuto».
Il tracciamento del trasporto. Oltre alla tenuta della citata scheda di movimentazione, la disciplina Sistri impone anche l'attivazione sul veicolo di trasporto della citata «black box» a inizio viaggio per tracciarne tramite satellite il percorso effettuato e la sincronizzazione dati con il Sistri a fine operazioni.
Le procedure Sistri. Dal punto di vista operativo il Sistri prevede diverse procedure utilizzabili: due ordinarie («Procedura con utilizzo non contestuale dei dispositivi» e «Procedura con utilizzo contestuale dei dispositivi») e sei particolari (trasporto intermodale; trasporto transfrontaliero; microraccolta; respingimento del rifiuto; movimentazione fanghi destinati a spandimento in agricoltura; movimentazione rifiuti in caso di indisponibilità del sistema).
La differenza tra le due procedure ordinarie risiede nella tempistica da rispettare, poiché quella con «utilizzo non contestuale» (si vedano le tabelle) non obbliga il conducente del mezzo di trasporto a inserire il relativo dispositivo Usb nella black box del veicolo a ogni carico e scarico di rifiuti, ma solo a inizio viaggio e fine giornata di movimentazione.
Comune a entrambe è invece il flusso dati da comunicare al Sistri che deve abbracciare la produzione del rifiuto, la sua consegna al trasportatore, la presa fisica da parte del conducente del veicolo da quest'ultimo delegato, la consegna all'impianto di destinazione, le eventuali attività di intermediazione e commercializzazione intervenute. Il tutto attraverso la regolare registrazione temporale (termini più stringenti sono previsti per alcune tipologie, come i residui sanitari) sia dei carichi/scarichi di rifiuti che della loro movimentazione.
Soggetti obbligati al Sistri. Il Sistri è attualmente obbligatorio per: enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi (a eccezione, a condizione che non stocchino i propri rifiuti, delle aziende agricole conferenti rifiuti a propri sistema di raccolta e le piccole strutture individuate dal citato decreto ministeriale 2014); enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale, di trattamento, recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi produttori di rifiuti pericolosi; operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi; Comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione Campania.
I soggetti obbligati ad aderire al Sistri, devono iscriversi al sistema: prima di dare avvio alle attività o comunque al verificarsi dei presupposti per i quali la disciplina ne dispone l'obbligo (dm 52/2011, articolo 6); in caso di produzione accidentale di rifiuti pericolosi, entro tre giorni lavorativi dall'accertamento di tale loro caratteristica (articolo 188-ter, comma 10, dlgs 152/2006).
---------------
Iter semplificato con la microraccolta.
Maggior elasticità nell'organizzazione della raccolta rifiuti, nella tenuta delle schede di movimentazione e tempistica della relativa registrazione online, nonché nella pianificazione degli itinerari dei mezzi di trasporto, contraddistingue la particolare procedura semplificata utilizzabile in Sistri per la «microraccolta dei rifiuti», quale (secondo la definizione datane dall'articolo 193 del dlgs 152/2006) «raccolta di rifiuti da parte di un unico raccoglitore o trasportatore presso più produttori o detentori svolta con lo stesso automezzo».
Le regole. Tale procedura è disciplinata dal citato articolo 193 del «Codice ambientale», in base al quale la microraccolta deve essere effettuata nel più breve tempo tecnicamente possibile; devono essere indicate nelle schede Sistri tutte le tappe intermedie del percorso di raccolta, indicando eventuali variazioni devo essere indicate dal trasportatore nello spazio annotazioni. Dal punto di vista procedurale, le regole sono invece previste dagli articoli 13 e 18 del dm 52/2011, unitamente alle istruzioni dettate dal Minambiente attraverso il relativo «manuale» pubblicato (nell'ultima versione dell'8 maggio scorso) sul portale Sistri.
La procedura. Fulcro della procedura semplificata (modellata sulla procedura ordinaria Sistri con «utilizzo non contestuale» dei dispositivi informatici) è lo spostamento degli oneri relativi alla tenuta delle «schede di movimentazione» dei rifiuti dal produttore al trasportatore, unitamente alla facoltà per quest'ultimo di poter effettuare lungo il percorso di raccolta anche il prelievo di rifiuti da produttori aggiuntisi all'ultimo mento.
È al trasportatore che compete, infatti, l'emissione della particolare scheda «Comunicazione trasporto per microraccolta» (che consente di generare l'ordinaria «scheda Area movimentazione» anche per il produttore) e di produrne la relativa copia cartacea che dovrà poi accompagnare il viaggio, essere completata con i dati via via necessari da proprio conducente del veicolo, produttore conferente i rifiuti ed impianto di destinazione per essere a fine movimentazione riconciliata con le relative schede informatiche.
Al gestore dell'impianto di destinazione spetta inoltre sempre inviare al produttore non iscritto al Sistri copia della scheda di movimentazione completa di tutti i dati, al fine di garantire l'esonero di quest'ultimo (tranne i casi di concorso nel reato) da responsabilità nella gestione dei rifiuti.
Le semplificazioni abbracciano anche i tempi di registrazione delle movimentazioni (ammesse fino alle 48 ore lavorative dalla chiusura delle operazioni) e il tracciamento del viaggio, che pur dovendo comunque essere svolto mediante l'utilizzo della «black box» installata sul mezzo di trasporto e della relativa «chiavetta Usb» associata (compresa sincronizzazione dati a fine giornata), non soggiace all'obbligo di utilizzo della «funzionalità cartografica», ossia dell'impostazione nel software Sistri della tratta stradale da percorrere (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

EDILIZIA PRIVATADoccia fredda sulle caldaie. Spese di manutenzione fino a 200 , sanzioni a 3 mila. Gli effetti dell'entrata in vigore del libretto che registrerà i sistemi di climatizzazione.
Un nuovo libretto d'impianto per caldaie, climatizzatori e impianti solari.

A prevederlo è la normativa introdotta con il decreto del 10.02.2014 del ministero dello sviluppo economico, in vigore a partire dal 15 ottobre scorso, che punta a garantire agli utenti maggior sicurezza, salubrità e igiene. A fronte di costi che però potrebbero lievitare ulteriormente.
Ecco le novità e cosa bisogna fare per mettersi in regola.
Cosa cambia. La nuova normativa stabilisce che gli impianti termici devono essere dotati del nuovo libretto di impianto. Le novità sono sostanzialmente due: il libretto viene esteso a tutti gli impianti presenti nelle abitazioni. Dunque, non più solo a caldaie e sistemi di riscaldamento, ma anche a climatizzatori, impianti solari e così via.
Inoltre, questa nuova disposizione prevede una diagnosi completa che ne andrà a verificare sicurezza, salubrità e igiene. Al momento degli interventi di manutenzione e controllo dovrà poi essere compilato il «Rapporto di efficienza energetica» per gli apparecchi di riscaldamento con potenza maggiore di 10 kw e di condizionamento di potenza maggiore di 12 kw.
Come si ottiene il libretto. A partire dal 15 ottobre, e secondo le scadenze di manutenzione degli impianti già regolamentate dalle singole regioni, ogni cittadino deve dotarsi del libretto, che affianca quello vecchio che non deve essere buttato. Rispetto al passato, il nuovo libretto è composto da un modello unico, composto da più schede, assemblabili in funzione degli apparecchi e delle componenti dell'impianto. Il documento è scaricabile online dal sito del ministero dello sviluppo economico.
Il responsabile (quindi il proprietario nel caso di abitazione privata e l'inquilino in caso di affitto) è tenuto a trascrivere sulla prima pagina del libretto i dati identificativi dell'impianto per poi consegnarlo, in occasione del controllo, al manutentore per l'aggiornamento.
Il rapporto di efficienza, invece, viene compilato direttamente da quest'ultimo che provvederà a trasmetterlo all'ente locale preposto. Per chi avesse difficoltà a cercare e compilare il proprio libretto, sottolinea Lorenzo Epis, consulente di Domotecnica, rete in franchising per le aziende di installazione che operano nel campo dell'efficienza energetica e delle rinnovabili, che ha elaborato anche una serie di suggerimenti per le famiglie, «sarà sufficiente durante il prossimo controllo dell'impianto di riscaldamento richiederlo al manutentore che verrà a casa».
I costi. Il tecnico si occuperà dunque di effettuare un controllo e un'eventuale manutenzione, monitorando le funzionalità dell'impianto, verificandone il rendimento e la salubrità, controllando non solo caldaie e generatori di caldo o freddo, ma ogni componente dell'impianto. Con costi che potrebbero lievitare. Secondo i calcoli di Domotecnica, infatti, se la spesa prima variava in media tra i 100 e i 120 euro, con l'aggiunta dei controlli e della sanificazione previsti dal nuovo libretto, una famiglia con una caldaia collegata a 4/5 caloriferi e un impianto di climatizzazione con 2 o 3 split verrà a spendere mediamente 200 euro. «Un costo superiore che vale però la garanzia di sicurezza degli impianti», commenta Epis.
Non è però d'accordo Mauro Zanini, vicepresidente Federconsumatori, secondo il quale «l'entrata in vigore di questa normativa non deve comportare un ulteriore onere per il cittadino che già paga una cifra che si aggira sui 100 euro per la manutenzione della caldaia ogni uno o due anni», commenta. Aggiungendo che i controlli e la trascrizione dei dati dal vecchio al nuovo libretto dovrebbero avvenire senza alcun sovrapprezzo da parte del manutentore. «Un aggravio di costi sarebbe infatti del tutto ingiustificato e inaccettabile, anche alla luce dell'attuale quadro recessivo».
Periodicità dei controlli. Per avere un'idea delle scadenze cui si andrà incontro, occorre ricordare che la manutenzione per l'efficienza, e quindi la sua periodicità, è a discrezione delle singole regioni e potrebbe variare dai due ai quattro anni. Mentre per tutto ciò che riguarda la manutenzione e la verifica della sicurezza e salubrità spetta al manutentore indicarne la frequenza (che sarà prevedibilmente annuale). Il rapporto di controllo verrà poi inviato da quest'ultimo agli enti preposti. Da sottolineare che, per chi non si adegua, è prevista una sanzione che parte dai 500 euro e può arrivare fino ai 3 mila euro. Anche per l'installatore che comunica in maniera errata o incompleta l'esito del controllo è prevista una multa che va dai mille ai 6 mila euro.
Le verifiche non verranno più effettuate a campione, ma si partirà da coloro che non hanno effettuato gli interventi e del cui impianto non è arrivata alcuna notifica al catasto preposto. A seguire verranno effettuati controlli sugli impianti «segnalati». Una nuova normativa che, secondo Domotecnica, andrà a favore di una maggior sicurezza, facendo emergere impianti non a norma e pericolosi, considerato che «da un lato i controlli si concentreranno su chi non ha fatto l'intervento, dall'altro perché il manutentore è tenuto a riportate agli enti preposti anomalie degli impianti, da risolvere entro un determinato lasso di tempo», conclude Epis (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.201).

INCARICHI PROFESSIONALIGalateo dei legali al restyling. Acconti da fatturare e patto di quota lite in soffitta. Dal 15 dicembre entra in vigore il codice deontologico forense, pubblicato in G.U..
Sempre fatturare, anche gli acconti, e mai compartecipare agli utili della causa con il patto di quota lite; possibile per i legali assistere parti in contenzioso con soggetti difesi da colleghi, con cui si dividono i locali (sempreché non ci sia collaborazione non occasionale), ma divieto, per gli avvocati consiglieri dell'ordine, di difendere i magistrati del circondario; i documenti vanno restituiti al cliente, ma l'avvocato ne può estrarre copia anche senza il consenso degli interessati.

Sono alcune delle regole introdotte dal nuovo codice deontologico degli avvocati, in vigore dal 15.12.2014: è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16.10.2014 n. 241 e aggiorna le regole etiche della professione forense. Il codice ristruttura l'impianto del testo attuale, mettendo in evidenza le precauzioni nei rapporti con i clienti e le parti assistite. Da evidenziare alcune disposizioni di nuova fattura. Vediamo quali.
CONFLITTO DI INTERESSI
In caso di conflitto di interessi, l'avvocato deve astenersi dallo svolgere attività difensiva. Il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi configgenti si rivolgono ad avvocati che esercitino negli stessi locali. Questa situazione di incompatibilità è stata attenuata dal nuovo codice, che fa scattare l'obbligo di astensione se la coabitazione è accompagnata da un rapporto di collaborazione professionale non occasionale.
L'attenuazione della regola di incompatibilità prende atto della prassi di condivisione degli stessi locali da più avvocati per dividere le spese. L'attenuazione non vale, però, per arbitrati e mediazioni: il codice ha ritenuto di privilegiare requisiti più rigorosi e stringenti, quando l'avvocato è chiamato a svolgere funzioni arbitrali o di mediatore, che richiedono non solo la sostanza ma anche l'apparenza di un'assoluta terzietà, imparzialità e indipendenza.
COMPENSI
Il nuovo codice deontologico esclude il patto di quota lite e cioè l'accordo con cui l'avvocato partecipa al ricavato della causa, accordandosi con il cliente per percepire come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa. Non incorre nel divieto, però, un compenso a percentuale parametrata sul valore dell'affare o su quanto si prevede che l'assistito possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale.
FATTURA
Bisogna rilasciare sempre fattura, anche per gli acconti. Il nuovo codice deontologico impone, a pena di responsabilità disciplinare, all'avvocato di emettere il documento fiscale per ogni pagamento ricevuto.
DOCUMENTI
L'avvocato, se richiesto, e anche se non è stato pagato, deve restituire senza ritardo gli atti e i documenti ricevuti e consegnare a cliente e assistito copia di tutti gli atti e documenti, anche provenienti da terzi, tranne la corrispondenza riservata tra colleghi. Il nuovo codice deontologico prevede, però, la possibilità per l'avvocato di estrarre e conservare copia della documentazione ricevuta, per l'espletamento dell'incarico, dal cliente e dalla parte assistita, anche senza il consenso di questi ultimi.
CORRISPONDENZA
Viene aggiornato il divieto di portare in causa la corrispondenza riservata tra colleghi. Il nuovo codice deontologico aggiunge anche la condotta, vietata, del «riportare in atti processuali» la corrispondenza riservata. Inoltre si usa il termine corrispondenza, intesa in senso lato, e non più la parola «lettere» e si specifica che il divieto riguarda, esclusivamente, le comunicazioni tra colleghi. Peraltro si vuole bloccare l'abuso della clausola di riservatezza. La clausola, infatti, non deve vincolare alla riservatezza il destinatario della comunicazione anche per situazioni, che non contengono niente di riservato. Il nuovo codice fa la scelta di sanzionare anche i casi in cui si esagera, al fine di limitare l'uso di tale clausola ai soli casi che impongono il rispetto del principio.
MAGISTRATI
Nuova è la regola che vieta ai consiglieri di accettare incarichi giudiziari dai magistrati del circondario, fatta eccezione per le nomine a difensore d'ufficio.
MINORI
L'ascolto del minore è una delle novità più significative del nuovo codice. L'avvocato non deve procedere all'ascolto del minore senza il previo consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale.
RUBRICHE
Il nuovo codice deontologico non ripete l'obbligo di comunicare preventivamente il fatto di tenere o curare rubriche fisse su organi di stampa con l'indicazione del proprio nome e di partecipare a rubriche fisse televisive o radiofoniche. A reprimere gli abusi, spiega la relazione, sono sufficienti le previsioni deontologiche in materia di accaparramento di clientela e di corretta informazione.
IN VIGORE
Il codice deontologico entrerà in vigore decorsi 60 giorni dalla pubblicazione in G.U. Quanto al regime transitorio, bisogna tenere conto del comma 5 dell'art. 65 della legge 247/2012, in base alla quale l'entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate. La relazione illustrativa del nuovo codice spiega che le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l'incolpato (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

SICUREZZA LAVOROLa delega sulla sicurezza non libera il Cda. Il consiglio d'amministrazione dell'azienda ha doveri di controllo e di intervento sostitutivo del delegato.
Prevenzione infortuni. La linea tracciata dalla Cassazione sulle responsabilità penali dei vertici societari in caso di incidenti e lesioni di lavoratori e addetti.

Il consiglio d'amministrazione delle società può essere chiamato a rispondere in caso di infortuni o lesioni avvenuti sul lavoro. Può anche delegare le sue attribuzioni, nel campo della sicurezza, a un consigliere, ma questo non elimina del tutto il suo ruolo di garanzia. Vediamo, dunque, quali sono le responsabilità del Cda e i rischi legati a un'eventuale gestione scorretta della delega.
Il datore per la sicurezza
Il datore di lavoro per la sicurezza è il titolare del rapporto con il lavoratore o, comunque, colui che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione, ha la responsabilità dell'organizzazione o dell'unità produttiva, esercitando i poteri decisionali e di spesa (in base all'articolo 2, comma 1, lettera b del Dlgs 81/2008). Questo datore non necessariamente coincide con quello in senso lavoristico (si veda la sentenza della Cassazione penale, 4106/2014), vale a dire la controparte del lavoratore nel contratto individuale di lavoro. L'effettivo vertice della sicurezza emerge, in pratica, dall'organizzazione della singola impresa.
Il Cda come originario datore
Nelle Spa e nelle Srl, il consiglio di amministrazione impatta anche sul quadro organizzativo per la sicurezza lavorativa, con conseguenze, sia pure indirette, sul piano delle responsabilità penali in materia. Così, ad esempio, se non risulta un ruolo specifico di vertice della sicurezza, il Cda, secondo la Cassazione, conserva tutti poteri del «datore di lavoro per la sicurezza». Quando, invece, «deleghe gestorie» articolano l'originario indistinto assetto organizzativo del consiglio, sono inevitabili delle conseguenze giuridiche.
La delega gestoria
Secondo l'articolo 2381, comma 2, del Codice civile, il Cda può delegare, attraverso lo strumento organizzativo-giuridico della «delega gestoria», proprie attribuzioni a uno o più suoi componenti, assicurando così, con la suddivisione di compiti, maggiore efficacia ed efficienza gestionale alla propria azione. Nel determinare il contenuto e i limiti di questa delega (articolo 2381, comma 3 del Codice civile), il consiglio, inoltre, può incidere sull'architettura della gestione direttiva e di quella operativa della società, anche relativa alla sicurezza lavorativa.
Ogni scelta fatta con la delega, ma, persino, l'inazione del Cda, determinano, quindi, un qualche assetto organizzativo della società, cui sono collegate conseguenze sulla individuazione del datore per la sicurezza. Come insegna la giurisprudenza della Cassazione, le scelte (o le non-scelte) del consiglio influiscono sul ruolo, ai fini della sicurezza del lavoro, di presidenti, eventuali amministratori delegati e dell'intero Cda, con implicazioni di responsabilità individuale. In questo senso i giudici (Cassazione penale, sezione 4, sentenza 21628/2013) hanno ritenuto che la responsabilità per lesioni è, di regola, dell'intero organo, salvo delega di gestione a un singolo consigliere. In questo caso, l'obbligo di adottare le misure antinfortunistiche si trasferisce dal consiglio al delegato.
Le funzioni residue del Cda
Anche in caso di uso accurato della delega gestoria, tuttavia, il Cda conserva compiti residui e quindi ha responsabilità per la sua eventuale inattività nella tutela della salute. In primo luogo perché le norme sull'assetto organizzativo post-delega gestoria legano, indissolubilmente, alcuni compiti e poteri al Cda: il comma 3 dell'articolo 2381 del Codice civile prevede che, dopo la delega, il Cda debba valutare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, possa impartire direttive agli organi delegati e avocare operazioni delegate.
L'affermazione si evince, implicitamente, anche dall'articolo 2, comma 1, lettera b), del Dlgs 81/2008 che connette datore ad assetto organizzativo: perciò, se alcuni compiti e poteri restano al Cda, anche la parte del ruolo di datore a essi inerente rimane a quell'organo.
Inoltre, nella prassi, è frequente che il Cda riservi a sé alcuni poteri (il principale è definire il bugdet) o ponga limiti all'azione del delegato, così lasciandoli a sé.
Tutto ciò rileva ai fini della responsabilità penale per la sicurezza sul lavoro. La Cassazione, infatti, ha affermato la non esclusione di responsabilità dell'intero organo, pur esistendo delega gestoria ad amministratore per compiti sulla salute lavorativa, argomentando che il consiglio conserva residui doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo in caso di mancato esercizio della delega (tra le altre, si veda la sentenza della Cassazione penale 21628 del 2013). Altre volte la Corte ha stabilito che, pur in presenza di un consigliere delegato ad hoc, resta un ruolo del Cda su profili strutturali e del processo produttivo incidenti sulla tutela della salute (Cassazione penale, sentenza 4968/2014).
---------------
Nell'incarico autonomia e risorse ad hoc. La redazione del documento. È necessario specificare nel dettaglio i compiti attribuiti.
Una buona organizzazione del Cda richiede, sulla tutela della salute dei lavoratori, una «delega gestoria» formulata con la massima accuratezza organizzativa e giuridica. In realtà, invece, spesso i testi non sono di elevata qualità.
Peraltro, in generale si intende la tutela della salute per lo più come anti-infortunistica, senza considerare che la salute lavorativa comprende anche la cura del benessere mentale e relazionale di chi lavora e, quindi, la prevenzione di fenomeni di mobbing, burn-out e stalking lavorativo.
I documenti redatti nelle aziende sono spesso dettagliati e giuridicamente "raffinati" su deleghe di attività centrali (ad esempio commerciali, di marketing, di produzione) e sono invece laconici e ambigui sulle deleghe di attività "trasversali", come la sicurezza sul lavoro.
Una buona delega gestoria
In ogni società di capitali è invece essenziale una grande attenzione sulla formulazione di deleghe gestorie comprensive dell'organizzazione della sicurezza sul lavoro. Il documento dovrebbe essere:
- il più possibile univoco, cioè chiaro ed esplicito nella determinazione operata. Un classico errore è l'attribuzione del ruolo di datore lavoristico, pensando di avere così conferito anche il ruolo di datore per la sicurezza. È invece auspicabile un'esplicita indicazione della denominazione di «datore di lavoro per la sicurezza», prevista dal Dlgs 81/2008;
- non contraddittorio rispetto alla restante azione organizzativa. Un esempio negativo è un Cda (o il presidente) che riservi a sé (e a scapito dell'amministratore delegato-presunto datore per la sicurezza) poteri e leve funzionali alla sicurezza sul lavoro;
- congruo, cioè che si prospetti adeguato nei poteri e nelle risorse date rispetto alle esigenze di sicurezza della specifica organizzazione. Bisogna evitare, ad esempio, la carenza di budget;
- esauriente, identificando nella descrizione del ruolo di delegato anche i profili principali di datore per la sicurezza emergenti dal Dlgs 81/2008. È assolutamente necessaria, per esempio, una specifica attenta dell'attribuzione dei compiti e dei poteri, tra cui quello della delega di funzioni prevista dall'articolo 16 del Dlgs 81/2008;
- specifico, vale a dire puntuale nell'indicazione delle attribuzioni in materia di sicurezza;
- evocativo di un'assoluta autonomia di ruolo, in modo tale che il datore di lavoro per la sicurezza non debba chiedere al Cda una convalida di proprie decisioni in materia. Semplificando, la delega deve essere idonea a costruire un ruolo di datore per la sicurezza «a tutto tondo» e a comunicarlo con chiarezza, all'interno della società e, se necessario, al suo esterno.
La delega di funzioni
Un discorso diverso è da fare quando alla macro-articolazione organizzativa nell'ambito del Cda, mediante la delega finora descritta, segua una micro-organizzazione al livello dirigenziale ed esecutivo sottostante della società.
In questo caso, si entra nel ben differente capitolo giuridico e organizzativo della «delega di funzioni» del datore di lavoro per la sicurezza (come detto, di solito, lo stesso Cda o un amministratore) verso propri delegati di funzione sulla sicurezza sul lavoro (Cassazione penale, sezione IV, sentenza 20062/2010).
Per questa delega, bisogna prendere come riferimento normativo non il Codice civile, ma le regole fissate dal Testo unico sulla sicurezza, Dlgs 81/2008 (principalmente l'articolo 16 sulla delega di funzioni e l'articolo 18 sulle attribuzioni trasferibili dal datore al dirigente) (articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.201.

EDILIZIA PRIVATAPer la pagella energetica i calcoli sono più severi. Le correzioni per impianti, illuminazione e acqua calda. Efficienza energetica. Pronte le nuove norme Uni ma mancano ancora i criteri guida.
L'attestato di prestazione energetica (Ape) resta l'eterno incompiuto. A quasi un anno e mezzo dalla legge n. 90 del 03.08.2013, mancano ancora i decreti di attuazione con i nuovi limiti da rispettare nel rilascio della targa di efficienza di case, singoli appartamenti, uffici. Mentre a inizio ottobre è stato aggiornato il metodo di calcolo che permette di rilevare i diversi parametri di efficienza in un fabbricato.
I criteri attualmente seguiti per stilare un Ape continuano a essere quelli che fanno riferimento ancora al vecchio attestato di certificazione energetica, che non è più in vigore da metà del 2013. L'emanazione delle norme attuative della legge 90 viene, comunque, indicata come imminente. Forse già prima della fine del 2014, secondo ciò che segnala il Comitato termotecnico italiano.
Le nuove norme Uni
Dal 2 ottobre, intanto, sono entrate in vigore le nuove parti 1 e 2 delle norme Uni/Ts 11300, che si occupano del bilancio energetico dell'immobile e del fabbisogno energetico per la climatizzazione invernale, la produzione di acqua calda sanitaria, la ventilazione e l'illuminazione. È cambiato cioè il metodo di calcolo utilizzato per il rilascio della certificazione energetica su tutto il territorio nazionale, con l'eccezione della Lombardia, della Provincia di Bolzano e della Valle d'Aosta, territori su cui sono rispettivamente in vigore i sistemi locali del Cened, dell'Agenzia Casa Clima e di Beauclimat.
«Le novità sono importanti, anche se siamo di fronte tutto sommato a una piccola rivoluzione –commenta Rossella Esposti, direttore tecnico dell'Anit, l'associazione nazionale per l'isolamento termico e acustico-. Le regole diventano, in generale, più stringenti rispetto a prima. Ad esempio, per ciò che riguarda i ponti termici, viene approfondita la metodologia per calcolarli. Uno sforzo che richiederà a chi opera sul mercato l'acquisizione di competenze e un necessario aggiornamento».
Per ciò che riguarda la seconda parte, relativa agli impianti, spiega anche Simone Martinelli, responsabile della materia per Assotermica «la novità più significativa è l'introduzione della metodologia di calcolo dell'illuminazione, parametro che è previsto dal nuovo Ape e dovrà essere registrato nella certificazione degli edifici terziari. Prima, questa parte era del tutto assente». «Inoltre -aggiunge- il calcolo della ventilazione meccanica, che nelle precedenti norme Uni era trattato in due pagine, è stato notevolmente approfondito, in dieci pagine con due appendici dedicate. La valutazione è divenuta molto più raffinata».
Per la misurazione dei consumi di acqua sanitaria, sono state rimodulate le tabelle di riferimento, rese più simili alla realtà. «Un accorgimento -prosegue Martinelli- che riguarda non tanto gli edifici residenziali, ma più che altro quelli a uso scolastico, ospedaliero o ricettivo, per cui risultava difficile, fino ad oggi, stimare i consumi secondo valori veritieri».
Alcune modifiche introdotte derivano dallo spunto offerto dalla Lombardia, che con il proprio sistema di calcolo si è distinta rispetto al metodo nazionale. «Anche nelle norme Uni -prosegue Rossella Esposti- è stata introdotta, ad esempio per ciò che riguarda i guadagni solari, una modifica che valuta un solo fattore di riduzione, peggiorativo, per l'ombreggiatura all'esterno tra l'aggetto verticale e orizzontale».
I condizionatori
Se le parti 1 e 2 delle norme Uni/Ts 11300 sono state rinnovate, nessuna novità ha toccato invece le parti 3 e 4, uscite nel 2010 e nel 2013 e che riguardano, rispettivamente, dati e metodi per la determinazione dei rendimenti e dei fabbisogni di energia primaria e dei sistemi di climatizzazione estiva e il calcolo del fabbisogno di energia primaria per la climatizzazione invernale e la produzione di acqua calda sanitaria nel caso vi siano impianti alimentati da energie rinnovabili.
In particolare, la terza parte delle norme è in corso di revisione, per una difficoltà che la rende di fatto inapplicabile.
Al momento però non è richiesto per la certificazione energetica dell'edificio di tenere in considerazione gli impianti di raffrescamento. Per cui, nei fatti, la parte 3 non ha applicazione concreta rispetto all'Ape, visto che il parametro richiesto per la prestazione estiva riguarda unicamente l'involucro.
Sono infine attese le norme Uni/Ts parte 5 e 6. «Le prime -conclude Martinelli- ricalcano la raccomandazione 14 già emessa dal Cti e serviranno a pesare e fare un bilancio fra i diversi tipi di energia utilizzati nell'immobile. Le seconde, invece, attengono gli ascensori, il cui consumo deve essere calcolato obbligatoriamente secondo la legge 90/2013 nella compilazione dell'Ape per gli edifici terziari».
---------------
In sintesi
Cosa manca all'Ape
L'attestato di prestazione energetica degli edifici (Ape), introdotto dalla legge 90/2013, ha sostituito il vecchio Ace o attestato di prestazione energetica. Il documento è obbligatorio in caso di nuova costruzione, ristrutturazione o vendita di una casa o un singolo appartamento. Per la piena operatività del nuovo strumento mancano però le norme attuative
Rinnovata la metodologia
Il 2 ottobre sono entrate in vigore le nuove parti 1 e 2 delle norme Uni/Ts 11300, che dettano il metodo di calcolo per fare il bilancio energetico di un immobile e calcolare il fabbisogno energetico per: climatizzazione invernale, acqua calda sanitaria, ventilazione e illuminazione. Fra le novità: un metodo di calcolo dell'illuminazione e regole più stringenti per valutare i ponti termici
Le eccezioni
Il metodo di calcolo Uni/Ts 11300 è utilizzato in tutte le Regioni italiane, comprese quelle con un proprio sistema per il rilascio degli Ape. Fanno eccezione, poiché dotate di una propria metodologia di calcolo, la Lombardia, la Provincia di Bolzano e la Valle d'Aosta. Su questi territori sono, rispettivamente, in vigore i sistemi locali del Cened, dell'agenzia CasaClima e di Beauclimat
 (articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Controlli «riscritti» dal decreto semplificazioni. Le verifiche. I compiti di Entrate e Sviluppo.
A quasi un anno di distanza dal decreto "destinazione Italia", sta per arrivare al traguardo la norma che corregge i meccanismi di controllo sulla presenza dell'attestato di prestazione energetica (Ape), così come delineati dalla normativa nazionale.
Il Dl 145/2013, in vigore dal 24 dicembre scorso, ha sostituito la nullità degli atti privi di Ape con una sanzione amministrativa pecuniaria a carico delle parti. Inoltre, ha stabilito che l'accertamento e la contestazione delle violazioni sono svolte dalla Guardia di finanza o, alla registrazione dell'atto, dall'agenzia delle Entrate, andando a modificare l'articolo 6, comma 3, del Dlgs 192/2005.
La seconda parte della norma, però, è inapplicabile. Il problema è che, per le Entrate, è impossibile contestare la violazione «all'atto della registrazione», dal momento che –quando si utilizza internet, come avviene ormai nella maggior parte dei casi– la registrazione degli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso e dei contratti di locazione avviene «al momento della ricezione del file telematico». Senza dimenticare che in alcuni casi la registrazione delle locazioni (modelli Siria, Iris e Rli) avviene senza che il contribuente debba "caricare" online l'atto e i suoi allegati. Il che rende impossibile, per i funzionari del Fisco, verificare se la normativa è stata rispettata.
Da qui la disposizione contenuta del decreto delegato sulle semplificazioni fiscali (Ag 99-bis), ora all'ultimo passaggio in Consiglio dei ministri prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. L'articolo 34 del decreto stabilisce che le Entrate –previa intesa con lo Sviluppo economico– trasmetteranno in via telematica allo stesso ministero le informazioni necessarie ad accertare e contestare le eventuali violazioni rispetto all'Ape. Per evitare una sanatoria di fatto, la norma prevede che siano inviati allo Sviluppo anche i dati dei contratti registrati dal 24.12.2013 a oggi.
Il decreto semplificazioni rimedia anche a un'altra falla del "destinazione Italia", precisando che chi paga la sanzione amministrativa per regolarizzare spontaneamente il mancato inserimento della clausola o la mancata allegazione dell'Ape, deve comunque presentare al ministero dello Sviluppo economico l'Ape entro 45 giorni.
Non cambia invece la portata degli obblighi, che resta quella delineata dal Dl 145 (e contenuta nell'articolo 6, comma 3, del Dlgs 192). Quindi:
- nei contratti di compravendita immobiliare, negli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari soggetti a registrazione, va inserita una clausola con cui l'acquirente o il conduttore dichiarano di aver ricevuto le informazioni e la documentazione sull'efficienza energetica dell'edificio, compreso l'Ape;
- va allegata al contratto una copia dell'Ape, tranne che nel caso di locazione di singole unità immobiliari
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2014).

SEGRETARI COMUNALI: Una «stretta» dalla Ragioneria per i segretari in convenzione. Retribuzioni/2. Riferimento alla popolazione del solo Comune capofila.
Come calcolare la popolazione dei Comuni in convenzione di segreteria?
Per la Ragioneria generale dello Stato (parere 29.09.2014 n. 76063 di prot.) per determinare la misura della retribuzione di posizione del segretario va considerata solamente quella del Comune capofila. Invece la disciolta agenzia dei Segretari e ora l'unità di missione del ministero dell'Interno considerano, quanto meno per gli aspetti ordinamentali, la somma degli abitanti dei Comuni aderenti alla convenzione.
Il problema non è di poco conto, visto che la stragrande maggioranza dei Comuni ha il segretario in convenzione.
Per la Ragioneria generale dello Stato «non è ammissibile parametrare la retribuzione di posizione alla fascia demografica derivante dalla somma degli abitanti degli enti in convenzione presso cui il segretario presta servizio, non potendosi determinare, con la sola convenzione, alcuna modifica nella retribuzione di posizione che resta ancorata alla fascia professionale di appartenenza del segretario stesso e alla tipologia del singolo ente inizialmente ricoperto». E ancora: «La struttura della retribuzione dei segretari comunali e provinciali si compone anche di una voce retributiva aggiuntiva per sedi di segreterie convenzionate pari al 25% della retribuzione complessiva».
Di conseguenza, argomenta la RgS, nel contratto non è prevista la possibilità di sommare la popolazione dei Comuni aderenti per determinare della misura della retribuzione di posizione del segretario. Il parere riprende le interpretazioni date dall'Aran delle norme contenute nel Ccnl dei segretari del 16.05.2001. E la Ragioneria rivendica la coerenza –in verità tutta da dimostrare– con le indicazioni del ministero dell'Interno sull'abrogazione del divieto della reformatio in peius in caso di cambio di sede.
Occorre però chiedersi se la materia sia oggetto di contrattazione o non siano prevalenti gli aspetti istituzionali. Fino a oggi (e praticamente da sempre) si è considerata la convenzione di segreteria per gli aspetti ordinamentali come una sede unitaria ai fini del calcolo della popolazione. Tanto è vero che i segretari della fascia iniziale che possono svolgere l'attività nei Comuni fino a 3mila abitanti, non possono essere nominati in convenzioni che superano questa soglia.
E ancora, ai fini della maturazione dei requisiti per l'ammissione dei segretari ai corsi per diventare segretari generali (cioè l'aver retto per almeno 2 anni Comuni con popolazione superiore a 10mila abitanti) si considera, nel caso di convenzioni, la somma complessiva degli abitanti
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, norme uguali per tutti. Regolamento-tipo per unificare le regole di 8 mila enti. I contenuti del dl Sblocca Italia. Per i comuni nuove disposizioni per gli immobili pubblici.
Regolamento edilizio unico pronto a prendere forma. E 8 mila comuni si preparano a rinunciare alle proprie disposizioni. Nel corso della Conferenza unificata, infatti, governo, regioni e autonomie locali saranno chiamati a raggiungere un accordo per la stesura dello schema di regolamento edilizio-tipo per semplificare e, soprattutto, uniformare gli adempimenti.

Questa una delle novità contenute nel dl 133/2014 (Sblocca Italia) che, giovedì 23 ottobre, ha incassato la fiducia alla Camera (si veda ItaliaOggi del 21 e 24.10.2014)
La disposizione, che è stata inserita all'interno del dl attraverso l'approvazione di un emendamento ad hoc che ha introdotto l'art. 17-bis nel corso dei lavori in Commissione ambiente a Montecitorio, prevede l'aggiunta, all'art. 4, del Testo unico in materia di edilizia, del comma 1-sexies.
La norma, che in un primo momento sembrava non dover far più parte del testo, prevede che l'accordo che dovrà essere raggiunto in sede di Conferenza unificata in merito allo schema di regolamento unico, dovrà indicare «i requisiti prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico».
Non solo. Il regolamento unico dovrà, inoltre, essere adottato dai comuni entro e non oltre i tempi che saranno perentoriamente fissati attraverso l'accordo stesso. In base a quanto previsto dall'art. 17-bis, infine, attraverso un rinvio di rango costituzionale, gli accordi saranno inseriti nei livelli essenziali delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Sempre per quanto attiene il settore immobiliare pubblico, l'art. 26 del dl prevede una serie di disposizioni finalizzate, da un lato, a semplificare e accelerare le procedure di valorizzazione degli immobili pubblici non utilizzati e, dall'altro lato, a regolare il procedimento di valorizzazione degli immobili non più utili alle finalità istituzionali della difesa.
In particolare, la disposizione prevede che siano prioritariamente valutati i progetti di recupero immobiliare da destinare a edilizia residenziale pubblica con particolare riguardo a due categorie di soggetti: i nuclei familiari già presenti nelle graduatorie comunali e i nuclei familiari sottoposti a provvedimenti di rilascio per morosità incolpevole (articolo ItaliaOggi del 25.10.2014).

EDILIZIA PRIVATASblocca-Italia, sì alla fiducia. Ok al Mef: saltano Iva al 4% sui lavori in casa e defiscalizzazioni per autostrade in esercizio.
Il Governo incassa la fiducia (316 sì, 198 no) sullo sblocca-Italia, un testo che ormai si può considerare definitivo dopo le 50 correzioni imposte dalla Ragioneria e recepite ieri mattina dalla commissione Bilancio. Saltano l'Iva al 4% sui lavori in casa e l'estensione della defiscalizzazione alle autostrade in esercizio, mentre torna l'esame del Cipe (oltre che della Ue) sulle modifiche alle convenzioni e ai piani economici delle concessionarie autostradali. Cancellato anch eil raddoppio da 50 a 100 milioni del fondo per le calamità naturali (Genova compresa). Il voto finale della Camera e la trasmissione del testo al Senato -che avrà tempo fino all'11 novembre per convertire- avverranno soltanto giovedì prossimo, dopo che la prima parte della settimana sarà dedicata -con un tempo insolitamente lungo- alla votazione degli ordini del giorno.

Il testo finale riconferma i capisaldi del decreto del governo, a partire dai 3,9 miliardi destinati alle opere infrastrutturali considerate cantierabili, ma introduce oltre 200 modifiche che sono il frutto di un lavoro estenuante di oltre tre settimane a pieno ritmo nella commissione Ambiente guidata da Ermete Realacci. Gli emendamenti presentati sono stati 2.200, quelli votati oltre 1.200 ed è pesato l'ostruzionismo duro dei Cinquestelle, mentre a confermare il percorso accidentato è anche l'appendice di ieri con un numero davvero straordinario di correzioni imposte dal Mef.
A fare un bilancio positivo è la relatrice del provvedimento, Chiara Braga (Pd). «Abbiamo fatto un buon lavoro -dice- perché abbiamo mantenuto il principio condiviso con il governo di sbloccare procedure e lavori per far ripartire l'Italia, ma al tempo stesso abbiamo inserito alcune importanti modifiche migliorative. Fondamentale, in particolare, il rafforzamento della trasparenza e della concorrenza che otteniamo garantendo un più ampio accesso al mercato delle imprese, nella convinzione che l'Italia non si sblocca se non si garantisce alle imprese di accedere agli investimenti». La riduzione delle trattative private e delle deroghe al codice degli appalti, così come il caso delle autostrade, vanno in questo senso.
Sul parere molto critico del Mef al testo della commissione, Braga evita qualunque polemica diretta, ma evidenzia che «sarebbe stato utile un maggiore coordinamento all'interno del governo e una maggiore partecipazione di tutti i cinque ministeri competenti al lavoro in commissione».
Nel merito, Braga esprime soddisfazione anzitutto per la riforma della governance locale nella gestione dei servizi idrici. «Contrariamente a quanto detto dai Cinquestelle -dice Braga- non abbiamo affatto tradito lo spirito del referendum, ma abbiamo creato le condizioni per una maggiore efficienza del servizio idrico, favorendo un contributo degli enti locali a un miglioramento delle gestioni e a un aumento degli investimenti per cui rafforziamo anche le garanzie reali. Si superano le gestioni frammentate e si impone ovunque il gestore unico. Cancelliamo l'obbligo di vendita delle azioni dell'Acquedotto pugliese e acceleriamo il piano da 4 miliardi per la depurazione e per la difesa del suolo».
Soddisfazione anche per aver aperto la strada a un uso più flessibile e intelligente del patto di stabilità interno (per esempio con i 300 milioni delle opere urgenti dei comuni e delle opere segnalate a Palazzo Chigi) «che ora dovrà trovare una revisione più organica nella legge di stabilità». Bene, infine, le semplificazioni edilizie. «Abbiamo dato una risposta -dice Braga- a un'esigenza molto avvertita e diffusa nel Paese, ma lo abbiamo fatto privilegiando sempre il recupero dell'esistente, la riqualificazione delle città e le opportunità di nuovi investimenti per il settore dell'edilizia, senza che vi sia un solo punto del testo in cui si dia spazio a un maggiore consumo del suolo, all'abusivismo o a condoni mascherati».
Quanto all'Iva al 4% per i lavori in casa già agevolati dai bonus fiscali, «la soluzione individuata per la copertura era sbagliata, ma è stato posto un tema nuovo, che non si può liquidare, di come usare anche la leva fiscale per rendere più conveniente il recupero dell'esistente rispetto alle nuove costruzioni». Il rammarico più grande aver dovuto tagliare, per il parere del Mef, i 50 milioni di risorse aggiuntive (ai 50 già previsti con il governo) per le calamità naturali
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIComunicazioni Pec solo per pochi. Il termine di fine mese riguarda chi non ha mai comunicato l'indirizzo. Digitalizzazione. Cosa rimane della scadenza del 31 ottobre per i destinatari delle norme antiriciclaggio.
I soggetti destinatari degli obblighi antiriciclaggio, individuati agli articoli 11, 12, 13 e 14 del Dlgs 231/2007 (intermediari finanziari, professionisti, revisori contabili e altri operatori), sono tenuti a fornire all'amministrazione finanziaria determinate informazioni con riferimento a specifiche operazioni con l'estero, o a rapporti a esse collegate, di cui siano venuti a conoscenza nello svolgimento della propria attività.
In base al provvedimento congiunto emesso dall'agenzia delle Entrate e dalla Guardia di finanza 105953/2014, sia le richieste di informazione da parte delle autorità preposte sia le risposte dei soggetti obbligati devono essere effettuate tramite posta elettronica certificata. A tal fine il provvedimento da ultimo indicato stabiliva l'obbligo di comunicazione all'agenzia delle Entrate delle Pec entro la data del 31.10.2014.
Con la risoluzione 88/E del 14 ottobre scorso l'amministrazione finanziaria, in risposta ad alcuni quesiti avanzati da associazioni di categoria che richiedevano la dispensa per i propri aderenti in considerazione del fatto che gli indirizzi Pec sono già inseriti in albi o elenchi detenuti da pubbliche amministrazioni cui l'agenzia delle Entrate ha libero accesso, in un'ottica di semplificazione degli adempimenti prodromici alla comunicazione delle informazioni, stabilisce l'esonero dell'invio per quanti hanno già comunicato la Pec rispettivamente al registro delle imprese (società e imprese individuali), ai rispettivi ordini professionali (professionisti), al Centro nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione (le pubbliche amministrazioni).
La risoluzione evidenzia, altresì, che è istituito presso il ministero per lo Sviluppo economico l'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec) finalizzato proprio a raccogliere tutti gli indirizzi di posta certificata di imprese e professionisti e il cui accesso è libero (si veda l'approfondimento qui sotto).
In riferimento agli obblighi di trasmissione dei dati, specifica la circolare 105953/14 dell'agenzia delle Entrate, essi hanno riguardo alle operazioni intercorse con l'estero, ai rapporti a esse collegate e all'identità dei relativi titolari; le informazioni dovranno essere trasmesse a richiesta delle Autorità preposte (Ucifi per l'agenzia delle Entrate, speciali reparti specificatamente individuati per la Guardia di finanza).
Gli intermediari finanziari sono obbligati a fornire evidenza delle operazioni svolte con l'estero per le quali vi è l'obbligo di registrazione delle informazioni che sono state acquisite in sede di adeguata verifica delle clientela in sede di controllo antiriciclaggio.
Gli elementi da fornire sono indicati nella circolare (ad esempio data, causale, importo e tipologia dell'operazione; eventuale rapporto continuativo movimentato, ovvero in caso di operazione fuori conto, l'eventuale presenza di denaro contante di cui all'articolo 1, comma 2, lettera i), del decreto legislativo 21.11.2007, n. 231; in relazione ai clienti dell'intermediario obbligato alla comunicazione, i dati identificativi dei soggetti destinatari dell'ordine di accreditamento, compreso l'eventuale stato estero di residenza anagrafica; e altro ancora).
Sempre gli intermediari finanziari nonché i professionisti, i revisori e gli altri operatori indicati all'articolo 14 del Dlgs 231/2007 sono tenuti a fornire, su richiesta, informazioni relative all'identità dei titolari effettivi facenti capo a specifiche operazioni con l'estero o a rapporti a esse collegate relative all'identità dei titolari effettivi rilevati secondo quanto previsto dall'articolo 1, comma 2, lettera u) e dall'allegato tecnico del decreto legislativo 21.11.2007, n. 231
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOUn click per accusare i corrotti. Gli statali potranno segnalare i casi in forma anonima. Anac pronta a partire con il «whistle blowing». Un indirizzo mail ad hoc per le «soffiate»
Segnalazioni (anonime) di casi di corruzione a portata di «click».
È l'opportunità offerta ai dipendenti pubblici che, secondo quanto ItaliaOggi è in grado di anticipare, potranno inviare all'indirizzo whistleblowing@anticorruzione.it, predisposto dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), informazioni sugli illeciti di cui vengono a conoscenza.
È lo stesso presidente dell'organismo, Raffaele Cantone, a dare notizia dell'imminente avvio del progetto, partecipando, a Roma, a «Contromafie», l'evento promosso dall'associazione Libera di Don Luigi Ciotti, giunto alla terza edizione, spiegando che «siamo pronti a partire» con lo strumento del «whistle blowing» (espressione anglosassone che letteralmente evoca il concetto di «soffiata»), grazie al quale coloro che lavorano nelle amministrazioni pubbliche potranno riferire all'Authority eventuali avvenimenti illegali, accaduti nello svolgimento dell'attività.
L'istituto, sperimentato con successo da anni nei paesi anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna), nella versione «made in Italy», premette il vertice dell'Anac, verrà realizzato garantendo la massima riservatezza a colui che riporta i fatti, e le informazioni pervenute saranno tutte «trattate come se fossero anonime, anche se non lo sono».
L'obiettivo, incalza Cantone, è raccoglier indicazioni utili a smascherare episodi di corruzione, permettendo a «chiunque di fare la propria parte in modo autonomo» e senza correre il rischio di rimanere vittima di «ritorsioni». A breve, fa sapere l'Autorità, sarà emanata una delibera contenente le istruzioni per attuare la procedura, nel frattempo si chiarisce che l'organismo «è competente a ricevere (ai sensi dell'art. 1, comma 51, della legge 06.11.2012, n. 190 e dell'art. 19, comma 5 della legge 11.08.2014, 114) segnalazioni di illeciti di cui il pubblico dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro».
E che, volendo dare «immediatamente attuazione a queste disposizioni normative», si punta ad aprire «un canale privilegiato a favore di chi scelga di rivolgersi all'Autorità, e non alle vie interne stabilite dalla pubblica amministrazione di appartenenza».
Assicurando l'anonimato sull'identità del dipendente che inoltra l'email, nonché «lo svolgimento di un'attività di vigilanza», si potrà «contribuire all'accertamento delle circostanze di fatto e all'individuazione degli autori della condotta illecita». Nel contempo, l'Anac potrà, grazie al «whistle blowing» valutare la congruenza dei sistemi stabiliti da ciascuna pubblica amministrazione, a fronte delle denunce del dipendente con le direttive stabilite nel Piano nazionale anticorruzione ed evitare, «in coordinamento con il Dipartimento per la funzione pubblica, il radicarsi di pratiche discriminatorie nell'ambito di eventuali procedimenti disciplinari».
Negli Usa e nel Regno Unito la pratica è tanto diffusa da interessare sì fenomeni di corruzione e concussione, ma vengono comunicati riservatamente anche rischi sul luogo di lavoro, frodi, danni ambientali, false comunicazioni sociali e altro ancora (articolo ItaliaOggi del 24.10.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTIAppalti, comuni critici sull'Avcpass. Fassino incontra Cantone.
Comuni sempre critici e sul piede di guerra per il sistema di verifica dei requisiti nelle gare di appalto pubblico (il c.d. Avcpass, acronimo di Authority virtual company passport), di cui sono state ribadite anche di recente le problematiche che potrebbero rallentare l'azione amministrativa, fino al blocco delle procedure di appalto. A breve però l'Anci, su invito del presidente dell'Anac Raffaele Cantone, potrebbe rispondere alla richiesta di un incontro finalizzato ad esaminare in concreto i punti critici del sistema, peraltro segnalate anche dagli operatori economici.

L'Avcpass, istituito in base all'articolo 6-bis del dlgs 163/2006 che ha affidato all'Autorità il compito di dare vita ad una Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bndcp), ha lo scopo di consentire alle stazioni appaltanti di verificare la veridicità delle autodichiarazioni presentate in sede di gara dagli operatori economici in merito al possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario necessari per la partecipazione alla gara.
Il sistema, come ribadito anche dal comunicato diffuso il 22 ottobre dal presidente Anac, è obbligatorio dal primo luglio 2014 e deve essere applicato per tutte le procedure in relazione alle quali è stato acquisito il Codice identificativo gara (Cig) a decorrere da inizio luglio. Il termine di decorrenza del sistema di verifica messo a punto dall'allora Avcp, oggi Anac, è stato più volte prorogato (doveva entrare in vigore il primo luglio 2013) e ancora nel decreto «Sblocca Italia» erano state presentati emendamenti per un ulteriore rinvio, nel presupposto che vi siano diversi problemi applicativi. Prova di ciò ne sia il fatto che nelle poche gare in cui è stato ritenuto applicabile l'Avacpass, le stazioni appaltanti si sono anche riservate la possibilità di verificare i requisiti con il tradizionale metodo cartaceo.
L'Anci, in particolare, sono diversi mesi (fino all'ultima lettera trasmessa il 9 ottobre a Raffaele Cantone a firma di Piero Fassino) che segnala numerosi problemi. In primis è stato sottolineato che l'Avcpass «non garantisce la celerità di gestione delle informazioni promessa e posta dall'Autorità come obiettivo primario» e che «la difficoltà di adempiere tempestivamente alle richieste formulate dagli utenti impedisce a quest'ultimi l'osservanza dell'obbligo di utilizzo del sistema che, altrimenti, condurrebbe alla dilatazione dei tempi di gara o al non rispetto di quest'ultimi».
Per l'Anci, inoltre, lo strumento informatico messo a punto dall'Autorità negli anni scorsi «non tiene in debito conto della diversità, complessità e dell'organizzazione interna dei comuni, nonché delle molteplici tipologie di procedure di gara previste dal codice», elemento questo segnalato anche da diverse associazioni di categoria.
Secondo i comuni, inoltre, «la previsione di una normativa omogenea slegata non solo alle esigenze del territorio ma anche alle caratteristiche ed al grado di complessità di ogni procedura di gara, potrebbe non assicurare l'effettività di utilizzo del sistema, né il rispetto del principio di proporzionalità». Tutti problemi serissimi che a fronte dei costi sostenuti per la messa a punto del sistema, impongono un accurato screening delle crititicità sollevate da più parti. E proprio per questa ragione il presidente Anac ha chiesto al presidente dell'Anci, Piero Fassino, un incontro per analizzare le criticità di funzionamento del sistema Avcpass, ossia il sistema informativo per la verifica dei requisiti alle procedure di gara d'appalto.
Il 9 ottobre Fassino aveva scritto a Cantone prospettando il rischio che l'Avcpass invece di costituire un valido supporto per tutte le stazioni appaltanti, rallentasse l'attività dei comuni e delle imprese (articolo ItaliaOggi del 24.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, dipendenti a rischio. Nel 2017 la spesa passerà da 10 mld a 6,6. Tagli in vista. LEGGE DI STABILITÀ/ Sacrifici insostenibili per gli enti senza ridurre i costi del personale.
Per i dipendenti delle province si avvicina il momento dei licenziamenti di massa? Se i tagli indiscriminati alle province previsti dalla legge di stabilità 2015 saranno confermati, non sembra vi siano molte alternative a un'ondata di licenziamenti mai vista di decine di migliaia di dipendenti, visto che presso le province operano 56.000 lavoratori circa.
Sono le cifre della spesa delle province a indurre chiaramente verso questa conclusione. Secondo il rapporto Upi sulla spese delle province aggiornato al marzo 2014 in base ai dati Siope del 2013, la spesa delle province ammontava a 10,194 miliardi di euro.
La legge di stabilità per il 2015 intende tagliare tale spesa di 1 miliardo nel 2015, 2 nel 2016 e 3 nel 2017. A regime, dunque, la spesa scenderà a 7,194 miliardi. Ma, in realtà sarà ancora inferiore, perché sarà andato a regime anche l'altro taglio previsto dall'articolo 47 del dl 66/2014, pari a 585,7 milioni. Il risultato finale, dunque, sarà a partire dal 2017 di una spesa massima ammessa per le province pari a circa 6,608 miliardi. Oltre il 35% della spesa 2013. Che già si è ridotta di 2 miliardi rispetto al dato del 2010.
Si tratta di un taglio alla spesa pubblica mai visto prima, molto ma molto superiore a qualsiasi altro, di certo non paragonabile al taglio di 4 miliardi su circa 130 previsto per le regioni dalla medesima legge di stabilità.
Nel 2013, secondo le rilevazioni Upi, nell'edilizia scolastica le province hanno speso 1,904 miliardi; nella mobilità e trasporti 1,638 miliardi; nella gestione del territorio, urbanistica e viabilità, 1,793 miliardi; nella tutela ambientale, 1,342 miliardi. Solo queste voci sommano 6,677 miliardi. Più di quanto le province potrebbero spendere a partire dal 2017, di 65 milioni.
Le province potrebbero (ma non è detto, dipende dall'attuazione della riforma Delrio) azzerare la residua spesa per funzioni non fondamentali (si tratta, stando ai dati Upi, di 1,499 miliardi, dei quali la parte del leone sarà di quelli dedicati alle politiche del lavoro). Ma questo non basterebbe per garantire il volume di spesa necessario alla gestione delle sole funzioni fondamentali.
Ma, i conti fatti sopra non considerano l'altro dato eclatante: la spesa del personale, che nel 2013 ammontava a poco più di 2 miliardi. Anche ammettendo che il processo di attuazione della riforma Delrio consenta alle province di dimezzare la spesa del personale necessario, comunque vi sarebbe un disavanzo di gestione superiore al miliardo. Dunque, o lo si finanzia con tagli anche sulla gestione delle funzioni fondamentali con un importo simmetrico, oppure si deve passare a licenziamenti di massa (articolo ItaliaOggi del 24.10.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALITrasparenza, diritto d'appello. Segnalazione all'Anac se l'accesso civico è disatteso. Doppio binario per il cittadino. Lo ha chiarito l'Autorità guidata da Raffaele Cantone.
Trasparenza amministrativa con diritto di appello. Se la richiesta di accesso civico alla singola p.a. non va a buon fine, cittadini e imprese, in seconda istanza, possono fare una segnalazione all'Anac, l'Autorità nazionale anticorruzione. Ma non si può bypassare l'istanza all'ente e andare direttamente all'Autorità anticorruzione.

Lo ha precisato la stessa Anac (comunicato 15.10.2014), che ha anche descritto il doppio binario della tutela per il cittadino.
La trasparenza amministrativa è, infatti, a due vie.
C'è l'accesso civico e c'è anche l'accesso ai documenti amministrativi, che sono, però, due strumenti diversi per garantire una pubblica amministrazione senza veli.
L'accesso disciplinato dal dlgs 33/2013 va, dunque, tenuto distinto dal diritto di accesso regolamentato dalla legge 241/1990.
L'accesso civico (articolo 5 del dlgs n. 33/2013) introduce una legittimazione, estesa a chiunque, a richiedere la pubblicazione di documenti, informazioni o dati per i quali sussiste l'obbligo di pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni. Tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono, infatti, pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente e di utilizzarli e riutilizzarli.
Il diritto di accesso agli atti (legge n. 241/1990), invece, è finalizzato alla protezione di un interesse giuridico particolare, può essere esercitato solo da soggetti portatori di tali interessi e ha per oggetto atti e documenti individuati.
D'altra parte l'Anac non è competente a intervenire sulle questioni legate all'esercizio del diritto di accesso agli atti. Per esse è possibile rivolgersi alla commissione per l'accesso ai documenti amministrativi presso la presidenza del consiglio dei ministri (vedasi la legge n. 241/1990), o, in alternativa, si può presentare un ricorso al Tar.
Segnalazioni su inadempimenti da parte degli enti pubblici su istanze di accesso ai documenti non devono, quindi, essere trasmesse all'Anac.
Tra l'altro le segnalazioni delle violazioni non possono essere inviate subito in prima battuta all'Anac; prima bisogna fare la richiesta all'amministrazione e in caso di risposta negativa si può andare all'Autorità: solo in caso di mancata presenza nei siti istituzionali delle amministrazioni delle necessarie indicazioni relative all'istituto dell'accesso civico o in ipotesi di mancata risposta anche del titolare del potere sostitutivo, entro i termini previsti, da parte delle pubbliche amministrazioni cui è stata inoltrata la richiesta di accesso civico, sarà possibile inoltrare segnalazioni all'Anac.
Per le segnalazioni all'Anac si deve utilizzare esclusivamente l'apposita procedura online «Comunica con l'Autorità».
Nella segnalazione bisogna indicare gli estremi (data di invio) della richiesta di accesso civico inoltrata all'amministrazione, in assenza dei quali la segnalazione non verrà trattata. In caso di risposta ricevuta dall'amministrazione la procedura di segnalazione chiede di chiarire, nel campo «note aggiuntive» del modulo, le ragioni per cui la stessa sia ritenuta incompleta o insoddisfacente.
L'Autorità ha, nel contempo, richiamato gli enti pubblici e assimilati a tutte le incombenze previste dalla normativa sulla trasparenza. Nel dettaglio le amministrazioni devono pubblicare sul sito istituzionale, nella sezione «Amministrazione trasparente» il nominativo del responsabile della trasparenza (cui presentare la richiesta di accesso civico), e il nominativo del titolare del potere sostitutivo con l'indicazione dei recapiti telefonici e delle caselle di posta elettronica istituzionale. Sul sito cittadini e imprese devono facilmente trovare i modelli per esercitare il diritto di accesso civico.
La domanda va presentata al responsabile della trasparenza dell'amministrazione obbligata alla pubblicazione.
L'amministrazione, entro 30 giorni, procede alla pubblicazione nel sito del documento, dell'informazione o del dato richiesto e lo trasmette contestualmente al richiedente, oppure comunica al medesimo l'avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale a quanto richiesto. Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati, l'amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale (articolo ItaliaOggi del 24.10.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSpoils system, dirigenti da confermare entro 90 giorni.
In materia di spoils system, le disposizioni contenute al comma 8 dell'art. 19 del dlgs n. 165/2001, stabiliscono che nell'arco di 90 giorni gli organi di direzione politica della nuova compagine governativa, che ha ottenuto la fiducia, manifestino espressamente la volontà di confermare nell'incarico i dirigenti assoggettati a tale regime, ovvero di sostituirli con altri.
Se entro tale termine non viene operata tale conferma, pertanto, la necessaria conseguenza è la cessazione dell'incarico. In dettaglio, l'avvio della procedura di conferma di un dirigente apicale non si ottiene con la mera proposizione da parte del ministro competente, bensì con la deliberazione del consiglio dei ministri.
Queste le considerazioni con cui la Corte dei conti, sezione centrale di controllo sugli atti del governo e della p.a., con la deliberazione n. 21/2014 ha ricusato il visto al dpr 25.06.2014 di conferma di Stefano Scalera nell'incarico di direttore dell'Agenzia del demanio fino al 16 ottobre scorso.
Le doglianze che hanno portato al deferimento del provvedimento innanzi al collegio giudicante sono state fondate sul fatto che la delibera preliminare del consiglio dei ministri di avvio della procedura di conferma dell'incarico in questione risulta adottata solo nella riunione del 13 giugno e, considerando il fatto che il governo in carica ha ottenuto la fiducia del parlamento solo il 25 febbraio, il provvedimento risulta adottato oltre il predetto termine di 90 giorni. Secondo il Mineconomia, invece, il provvedimento non è viziato, in quanto è la proposta del ministro che è da considerare come «atto di avvio della procedura» (formulata, nel caso in esame, il 26 maggio).
Opinione non condivisa dalla Corte che rileva come la proposta non è di per sé idonea a esprimere la volontà dell'autorità politica che, per incarichi di altissimo rilievo, come quelli ai quali si applica il regime dello spoils system, si esprime in una fase più avanzata. Ovvero, nella fase decisoria della deliberazione del consiglio dei ministri. Infatti, è collegialmente che si esprime la volontà del governo di nominare o confermare un dirigente di prima fascia apicale ed è a quella data che se ne dà notizia all'esterno con il comunicato stampa di palazzo Chigi (articolo ItaliaOggi del 24.10.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di domanda di accertamento di conformità successivamente all’adozione di ordinanza di demolizione non ne determina l’illegittimità ma unicamente la provvisoria inefficacia, ponendola in uno stato di temporanea quiescenza, destinato a durare finché il Comune non si pronunci sulla domanda di sanatoria.
Si è di recente ribadito al riguardo che “L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione”.
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta. Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.

3.1. Con il secondo motivo i ricorrenti sostengono l’illegittimità dell’ordinanza gravata perché hanno presentato al Comune per lo stesso abuso, istanza di accertamento di conformità (all. 3), la quale determinerebbe la paralisi del potere repressivo edilizio.
3.2. Tale doglianza è infondata al lume di pacifica giurisprudenza, espressa anche dalla Sezione, secondo la quale la presentazione di domanda di accertamento di conformità successivamente all’adozione di ordinanza di demolizione non ne determina l’illegittimità ma unicamente la provvisoria inefficacia, ponendola in uno stato di temporanea quiescenza, destinato a durare finché il Comune non si pronunci sulla domanda di sanatoria. Si è di recente ribadito al riguardo che “L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di temporanea quiescenza, con la conseguenza che in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto –anche silenzioso– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia (in tal senso, da ultimo TAR Campania–Napoli, Sez. III, 28.01.2013 n. 651; ID, 05.12.2012, n. 4941), decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione” (TAR Campania–Napoli, III, 22.02.2013 n. 1070
Osserva anche il Collegio che a norma sell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta. Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di silenzio–rigetto, che va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
Nel caso al vaglio del Collegio, dunque, l’istanza è stata presentata al Comune intimato in data 13.02.2006 (doc. 3 di parte ricorrente) e su di essa si è dunque ormai formato il silenzio–rigetto che non risulta impugnato,con la conseguente consolidazione degli effetti della precedente ordinanza di demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nessuna norma del D.P.R. n. 380/2001 impone all’amministrazione comunale di indagare e verificare d’ufficio, in assenza di istanza dell’interessato, la sanabilità dell’opera abusivamente realizzata, prima di emettere l’ordinanza di demolizione.
La Sezione ha di recente, infatti, già chiarito, illustrandone le ragioni di esegesi sistematica del dettato legislativo e la ratio legis, che “In presenza di un opera abusivamente realizzata l’Amministrazione deve, quindi, senz’altro procedere ad ordinarne la demolizione, non essendo tenuta a una preventiva valutazione della sanabilità della stessa senza che l’interessato abbia presentato l’istanza di sanatoria, la cui produzione è rimessa esclusivamente ad una libera scelta del destinatario dell’ordinanza di demolizione”.
Anche la Sezione distaccata di questo TAR si è pronunciata nei delineati sensi avendo affermato che “una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire, l’amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse”.

4.1. Con il terzo motivo si lamenta che l’opera sanzionata è conforme alla vigente normativa urbanistico–edilizia ed è pertanto assentibile, ragion per cui il Comune non poteva reprimerla.
4.2. La doglianza è infondata, poiché nessuna norma del D.P.R. n. 380/2001 impone all’amministrazione comunale di indagare e verificare d’ufficio, in assenza di istanza dell’interessato, la sanabilità dell’opera abusivamente realizzata, prima di emettere l’ordinanza di demolizione.
La Sezione ha di recente, infatti, già chiarito, illustrandone le ragioni di esegesi sistematica del dettato legislativo e la ratio legis, che “In presenza di un opera abusivamente realizzata l’Amministrazione deve, quindi, senz’altro procedere ad ordinarne la demolizione, non essendo tenuta a una preventiva valutazione della sanabilità della stessa senza che l’interessato abbia presentato l’istanza di sanatoria, la cui produzione è rimessa esclusivamente ad una libera scelta del destinatario dell’ordinanza di demolizione” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.02012, n. 3302).
Anche la Sezione distaccata di questo TAR si è pronunciata nei delineati sensi avendo affermato che “una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire, l’amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 04.04.2011, n. 621).
Questa Sezione aveva del resto già sancito l’avviso testé ricordato: TAR Campania-Napoli, III, 07.02.2007, n. 920
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una volta accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato, conseguendone che “i provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato)”.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive e delle ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.

6.1. Con il quinto mezzo i deducenti lamentano difetto di motivazione per non essere state esternate nel provvedimento le ragioni del prevalente interesse pubblico militante alla sua adozione e per non essere stata effettuata la comparazione dell’interesse pubblico con quello privato al mantenimento dell’abuso realizzato.
6.2. Anche siffatta censura è serenamente infondata al lume di granitica giurisprudenza espressa più volte anche dalla Sezione.
Si è in proposito costantemente puntualizzato che una volta accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato, conseguendone che “i provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi (…) non abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato)” (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 9.7.2007, n. 6581; più di recente, TAR Campania, Napoli, Sez. III, n. 270/2011).
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive e delle ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale: TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082.
Segnala il Collegio che il Giudice d’appello ha di recente suggellato il riferito orientamento affermando che “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011, n. 79).
Il Collegio ha più recentemente ribadito l’esegesi in parola: TAR Campania Napoli, III Sez., 20.03.2014 n. 1602; ID, 26.09.2013, n. 4450
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il sequestro di un immobile abusivo non determina l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione, ma soltanto l'eventuale differimento del termine fissato per la rimessa in pristino, decorrente dalla data del dissequestro penale, che sarà onere dell'interessato richiedere tempestivamente.
Anche la Sezione aveva del resto già enunciato il principio illustrato avendo affermato che “È legittima l'ordinanza di demolizione che ha ad oggetto immobili realizzati abusivamente che siano sottoposti a sequestro penale, in quanto è onere del responsabile domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile al fine di ottemperare all'ordine di demolizione”.

7.1. Con il sesto motivo i ricorrenti si dolgono dell’illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata poiché l’opera che ne è oggetto era stata sottoposta a sequestro giudiziario e pertanto il proprietario non avrebbe la possibilità di ottemperare all’ordine impartito.
7.2. La doglianza è destituita di fondamento, avendo la giurisprudenza anche di recente precisato che “Il sequestro di un immobile abusivo non determina l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione, ma soltanto l'eventuale differimento del termine fissato per la rimessa in pristino, decorrente dalla data del dissequestro penale, che sarà onere dell'interessato richiedere tempestivamente” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.01.2014 n. 1804).
Anche la Sezione aveva del resto già enunciato il principio illustrato avendo affermato che “È legittima l'ordinanza di demolizione che ha ad oggetto immobili realizzati abusivamente che siano sottoposti a sequestro penale, in quanto è onere del responsabile domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile al fine di ottemperare all'ordine di demolizione” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 13.04.2011, n. 2136)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi, escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento.

9.1. Con l’ottavo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento teso alla emissione dell’ordinanza di demolizione.
9.2. Anche tale censura è infondata e va conseguentemente disattesa sulla scorta della pacifica giurisprudenza, espressa anche della Sezione che predica che l’ordinanza di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento (TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 17.01.2007, n. 357).
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi, escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento: TAR Campania–Napoli, sez. III 10.10.2013 n. 4534: ID, 26.06.2013 n. 3328; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 22.02.2013 n. 1069
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.10.2014 n. 5539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIGestione illegittima ma la multa è valida. Strisce blu. Viziata solo la delibera di affidamento.
L'affidamento illegittimo della concessione per i parcheggi a pagamento non invalida le multe a chi non ha il ticket: occorre dimostrare che ad essere viziata è la delibera che destina l'area a sosta tariffata.
Con la sentenza 27.10.2014 n. 22793 la VI Sez. civile della Corte di Cassazione aggiunge un tassello significativo al principio secondo cui il giudice cui un cittadino ricorre contro una sanzione da Codice della strada può sindacare incidentalmente l'atto amministrativo che è alla base dell'infrazione accertata: in sostanza, occorre un collegamento diretto fra l'atto illegittimo e l'infrazione commessa.
Normalmente il problema non si pone, perché molte violazioni commesse dagli utenti riguardano obblighi e divieti imposti con ordinanze "dirette" dell'ente proprietario della strada. Il caso delle strisce blu è un'eccezione: il Comune non deve solo deliberare che su una certa area la sosta diventa a pagamento (con le relative tariffe), ma normalmente affida quell'area in concessione a un soggetto che abbia il compito di gestirla, curando che gli utenti paghino.
Nella vicenda finita al vaglio della Corte, ad essere illegittima era proprio quest'ultima delibera: il Comune di Siracusa l'aveva adottata con atto della Giunta e non del Consiglio. Era invece corretta la delibera che aveva istituito la sosta a pagamento. Un'automobilista multata per non aver esposto il ticket aveva fatto ricorso eccependo proprio l'illegittimità della concessione affidata e aveva avuto ragione in entrambi i gradi di merito. Il Comune ha resistito, ottenendo ragione dalla Cassazione.
I giudici di merito hanno riconosciuto l'orientamento delle Sezioni unite (sentenze 5705/1990 e 116/2007) secondo cui la sanzione pecuniaria amministrativa può essere annullata se si riconosce l'illegittimità del provvedimento presupposto. Ma hanno precisato che in questo caso l'illegittimità non si trasmette agli atti in qualche modo collegati, perché «sono inseriti in iter amministrativi diversi e rispondono ad altrettanto diverse finalità».
Dunque, la delibera di concessione «non si inserisce nella sequela procedimentale che sfocia con l'ordinanza sindacale» che istituisce la sosta a pagamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2014).

APPALTI: L'art. 13 del d.lgs. n. 163/2006 che prevede il differimento del diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici deve essere interpretato in modo restrittivo, rappresentando una norma eccezionale.
L'art. 13 del d.lgs. n. 163/2006 stabilisce che "1. Salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dalla l. 07.08.1990, n. 241 e ss.mm.. Fatta salva la disciplina prevista dal presente codice per gli appalti segretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, il diritto di accesso è differito: c) in relazione alle offerte, fino all'approvazione dell'aggiudicazione. c-bis) in relazione al procedimento di verifica della anomalia dell'offerta, fino all'aggiudicazione definitiva".
Detto articolo, nella parte in cui prevede il differimento del diritto di accesso a documenti relativi ai contratti pubblici, deve essere interpretato in modo restrittivo, rappresentando una norma eccezionale, derogatoria rispetto alle ordinarie regole in materia di accesso.
Inoltre, la lett. c) del c. 2 di detta norma è chiara nel disporre che il diritto all'accesso può essere differito, in relazione alle offerte, solo fino all'approvazione dell'aggiudicazione, che, non può che essere costituita da quella provvisoria; non avrebbe senso, diversamente, l'aver previsto la possibilità di differimento fino all'aggiudicazione definitiva solo in relazione al procedimento di verifica dell'anomalia.
La conclusione è supportata da una interpretazione di tipo letterale: la lett. c) fa, infatti, riferimento all'aggiudicazione, mentre, la successiva c-bis) cita esplicitamente l'aggiudicazione definitiva; segno che il legislatore, quando ha ritenuto rilevante attendere che si fosse realizzata la conclusione della procedura selettiva (attraverso, appunto, l'aggiudicazione definitiva), lo ha detto espressamente.
Quindi, nell'ipotesi descritta nella precedente lett. c), l'espressione generica "aggiudicazione" deve essere riferita all'aggiudicazione "provvisoria", e ciò in applicazione del criterio interpretativo ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, non dixit (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.10.2014 n. 5280 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Requisiti necessari affinché una società possa essere definita in house e giurisdizione della Corte dei conti.
La Corte dei conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità esercitata dalla procura della repubblica presso la corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, così dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente i medesimi enti possano essere soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggetta a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.
Può dirsi superata l'autonomia della personalità giuridica rispetto all'ente pubblico e quindi la società può essere definita "in house", allorché vi sia contemporanea presenza di tre requisiti:
1) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati;
2) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l'eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale;
3) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità dì comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile.
La verifica in ordine alla ricorrenza dei requisiti propri della società "in house", come delineati dall'art. 113, c. 5, lett. c), del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (come modificato dall'art. 15, c. 1, lett. d, del d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni nella l. 24.11.2003, n. 326), la cui sussistenza costituisce il presupposto per l'affermazione della giurisdizione della Corte dei conti sull'azione di responsabilità esercitata nei confronti degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio della società, deve compiersi con riguardo alle previsioni contenute nello statuto della società al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita e non a quelle, eventualmente differenti, esistenti al momento in cui risulti proposta la domanda di responsabilità del P.G. presso la Corte dei conti (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 24.10.2014 n. 22609 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

VARI: L’ordinanza del Ministro della Salute del 13.01.2007, n. 10, avente per oggetto la “Tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione di cani”, è previsto l’obbligo per i detentori di cani di applicare la museruola o il guinzaglio ai cani quando si trovano nelle vie o in altro luogo aperto al pubblico; inoltre di vigilare con particolare attenzione sulla detenzione degli stessi al fine di evitare ogni possibile aggressione a persone.
Spetta pertanto al detentore dell’animale scegliere il mezzo più adeguato (museruola o guinzaglio) idoneo a garantire la sicurezza dei terzi presenti in luoghi pubblici.
Nel caso che in esame il giudice di merito ha rinvenuto nella omessa vigilanza del cane il profilo di colpa dell’imputata la quale, in presenza di più persone nell’ambito di una mostra, avrebbe dovuto tenere una condotta di particolare attenzione ed idonea ad evitare l’evento poi verificatosi (lesioni colpose in danno del minore che pativa un morso da un cane condotto dall’imputata in una villa in cui era in corso una mostra canina).  

1. Il ricorso è inammissibile.
2. In relazione alla prova dei morso e della sua riconducibilità al cane dell’imputata, i giudici di merito riportano le plurime deposizioni testimoniali, tutte convergenti nella ricostruzione della vicenda così come effettuata nella sentenza impugnata. Peraltro le deposizioni, come evidenziato dal tribunale, hanno trovato riscontro nella certificazione medica versata in atti e nelle foto del volto del bambino ove sono visibili i segni dell’aggressione.
3. Quanto al lamentato difetto di motivazione sulla prova della colpa, va premesso il richiamato disposto dell’ordinanza del Ministro della Salute del 13.01.2007, n. 10, avente per oggetto la “Tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione di cani”, ove è previsto l’obbligo per i detentori di cani di applicare la museruola o il guinzaglio ai cani quando si trovano nelle vie o in altro luogo aperto al pubblico; inoltre di vigilare con particolare attenzione sulla detenzione degli stessi al fine di evitare ogni possibile aggressione a persone.
Spetta pertanto al detentore dell’animale scegliere il mezzo più adeguato (museruola o guinzaglio) idoneo a garantire la sicurezza dei terzi presenti in luoghi pubblici.
Nel caso che ci occupa il giudice di merito ha rinvenuto nella omessa vigilanza del cane il profilo di colpa dell’imputata la quale, in presenza di più persone nell’ambito di una mostra, avrebbe dovuto tenere una condotta di particolare attenzione ed idonea ad evitare l’evento poi verificatosi.
Le censure mosse dalla difesa alla sentenza, esprimono solo un dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto (operata in modo conforme dal giudice di primo e secondo grado) ed invitano ad una rilettura nel merito della vicenda, non consentita nel giudizio di legittimità, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata che regge al sindacato di legittimità, non apprezzandosi nelle argomentazioni proposte quei profili di macroscopica illogicità, che soli, potrebbero qui avere rilievo.
Segue, per legge, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 186 del 7-13.06.2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro 1000,00 (mille). La condanna, inoltre dal pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano come da dispositivo (Corte di Cassazione, Sez. IV civile, sentenza 23.10.2014 n. 44095 - link a http://renatodisa.com).

VARIL'inedificabilità non va «taciuta». Vincoli. La cessione di un fondo.
Se il fondo oggetto di compravendita è garantito dal venditore come libero da gravami, e invece vi sussiste un vincolo di inedificabilità imposto dall'autorità amministrativa in base a una legge regionale, il venditore è inadempiente all'obbligo (articolo 1489 del Codice civile) di non vendere cose gravate da vincoli o diritti di terzi che «ne diminuiscono il libero godimento», se viene dimostrato che il contratto venne stipulato perché l'acquirente potesse poi edificare sul fondo. Di conseguenza il compratore, non a conoscenza di questi vincoli e diritti, può domandare la risoluzione del contratto oppure una riduzione del prezzo.
Il venditore, quindi, non può sostenere che un vincolo di inedificabilità (taciuto nel contratto) imposto in base a una legge regionale, data la sua natura pubblicistica, si presume conosciuto da chiunque.

È quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza 22.10.2014 n. 22343.
Nel caso specifico si trattava di valutare diversi elementi in conflitto: il vincolo urbanistico di pubblico dominio, un contratto che non menzionava detto vincolo e nel quale il venditore aveva garantito il bene «libero e disponibile, esente da vincoli, gravami e privilegi» e un'altra clausola con la quale l'acquirente veniva facoltizzato a presentare una richiesta di concessione edilizia (dalla quale la Cassazione ha dissento che l'interesse del compratore al contratto era quello di poter costruire sul fondo).
È vero, secondo la Cassazione, che i vincoli inseriti nel piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati, hanno valore di prescrizione con efficacia verso chiunque, perché assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte della collettività, sicché non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sul'immobile. Questa situazione non è conseguentemente invocabile dal compratore come fonte di responsabilità del venditore che non li abbia dichiarati nel contratto.
Ma è anche vero che occorre tener conto dello scopo pratico del contratto, che non può essere interpretato in modo da rendere irrealizzabile il programma contrattuale dei contraenti o di uno di essi, così falsificando l'interesse che l'operazione contrattuale era propriamente volta a soddisfare, costituendo la «causa concreta» dell'accordo.
Pertanto, secondo la Cassazione, non solo le espressioni utilizzate nel contratto vanno interpretate non come elementi a se stanti bensì alla luce dell'intero contesto contrattuale, ponendo le clausole in correlazione tra loro; ma pure occorre accertare il significato dell'accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o «causa concreta» ed escludere (dovendosi i contraenti comportare con lealtà) interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte e deponenti per un significato del contratto in contrasto con la sua ragione pratica
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2014).

PATRIMONIOLa colpa civile dell’ANAS va accertata non già valutando se abbia o meno provveduto alla manutenzione dei fondi privati, ma se abbia adottato le cautele imposte dall’art. 1176, comma 2, c.c., nell’individuare, prevenire o attenuare i rischi derivanti dalla proprietà privata: in primo luogo segnalando ai proprietari interessati la situazione di pericolo; in secondo luogo invitandoli ad eliminarla; in terzo luogo inibendo la circolazione.
Ne consegue che l’eventuale inerzia del proprietario nella realizzazione degli interventi idonei a rendere sicuro il terreno adiacente la strada non elimina quella del proprietario della strada su cui l’albero era destinato a cadere, mettendo a repentaglio quella sicurezza della circolazione che, come specificato, costituisce uno dei compiti primari dell’ANAS. 

3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Anche col terzo motivo di ricorso l’Istituto lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.. Assume violato gli artt. 16 cod. strad. e 26, comma 6, del relativo Regolamento di esecuzione.
Espone, al riguardo, che le norme testé ricordate impongono ai proprietari di fondi privati confinanti con le strade pubbliche di evitare le situazioni di pericolo per queste ultime. L’ANAS, tuttavia, ha il dovere di vigilare su tali situazioni di pericolo, e non lo fece. La Corte d’appello pertanto ha violato le suddette norme, nell’escludere la colpa civile del’ANAS.
3.2. Il motivo è fondato.
La colpa civile, di cui all’art. 2043 c.c., consiste nella deviazione da una regola di condotta.
Regola di condotta” è non soltanto la norma giuridica, ma anche qualsiasi doverosa cautela concretamente esigibile dal danneggiante.
Stabilire se questi abbia o meno violato norme giuridiche o di comune prudenza è accertamento che va compiuto alla stregua dell’art. 1176 c.c., comparando la condotta concretamente tenuta dal preteso responsabile, con quella che un soggetto delle medesime qualità e condizioni avrebbe tenuto, nelle stesse circostanze di tempo e luogo.
Or bene, l’ente proprietario della strada aperta al pubblico transito è obbligato a garantire la sicurezza della circolazione (d.lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 14), e ad adottare i provvedimenti necessari ai fini della sicurezza del traffico sulle strade (d.lgs. 26.02.1994, n. 143, art. 2).
Da queste previsioni non discende certo, come correttamente ha ritenuto la Corte d’appello, l’obbligo dell’ANAS di provvedere alla manutenzione dei fondi privati. Discende, però, come erroneamente ha trascurato di considerare la Corte d’appello, l’obbligo dell’ANAS di:
(a) segnalare ai proprietari confinanti le situazioni di pericolo suscettibili di recare pregiudizio agli utenti della strada;
(b) adottare i presidi necessari ad eliminare i fattori di rischio conosciuti o conoscibili con un attento e doveroso monitoraggio del territorio;
(c) come extrema ratio, permanendo l’eventuale negligenza dei proprietari dei fondi finitimi nel rimuovere le situazioni di pericolo, chiudere la strada al traffico.
La colpa civile dell’ANAS va dunque accertata non già valutando se abbia o meno provveduto alla manutenzione dei fondi privati, ma se abbia adottato le cautele imposte dall’art. 1176, comma 2, c.c., nell’individuare, prevenire o attenuare i rischi derivanti dalla proprietà privata: in primo luogo segnalando ai proprietari interessati la situazione di pericolo; in secondo luogo invitandoli ad eliminarla; in terzo luogo inibendo la circolazione.
Ne consegue che l’eventuale inerzia del proprietario nella realizzazione degli interventi idonei a rendere sicuro il terreno adiacente la strada non elimina quella del proprietario della strada su cui l’albero era destinato a cadere, mettendo a repentaglio quella sicurezza della circolazione che, come specificato, costituisce uno dei compiti primari dell’ANAS (in questi esatti termini, con riferimento a fattispecie analogia, si è già pronunciata questa Corte: Sez. 3, Sentenza n. 23562 del 11/11/2011, Rv. 620514) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.10.2014 n. 22330 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: La responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario che ha la disponibilità dell’immobile ed un concreto interesse all’esecuzione dei lavori, se egli non allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà.
3. Il ricorso è fondato per le ragioni di cui si dirà oltre.
4. Al fine di comprendere l’approdo solutorio cui è pervenuto questo Collegio, è necessario sovvertire l’ordine dell’esame dei motivi di ricorso, affrontando per primi il terzo ed il quarto motivo di ricorso, che, attesa l’omogeneità dei profili di doglianza con gli stessi svolti, possono essere oggetto di trattazione unitaria. Con i medesimi, in estrema sintesi, la ricorrente pone due distinte questioni di diritto, unificabili, che attengono alla corretta interpretazione della disciplina dettata dall’art. 29, d.P.R. n. 380/2001 e della fattispecie penale che prevede il c.d. delitto paesaggistico di cui all’art. 181, comma I-bis, D.Lgs. n. 42/2004.
Sostiene, in tal senso, la ricorrente che la medesima quale nuda proprietaria non sarebbe responsabile dell’abuso posto in essere dal padre, usufruttuario dell’immobile sul quale vennero eseguiti gli interventi abusivi.
La Corte d’appello, a confutazione della tesi della ricorrente, richiama il consueto criterio del “cui prodest”, sostenendo l’esistenza di un concorso della ricorrente con il proprio padre, usufruttuario e autore materiale dell’intervento, sia perché la ricorrente era colei che aveva presentato domanda per la realizzazione della cisterna, sia perché era la figlia, attuale ricorrente, ad avere interesse, in quanto dell’abuso edilizio “paterno” ne avrebbe usufruito anche la stessa quando vi si sarebbe recata in vacanza (a tal proposito, si osserva, la ricorrente risulta risiedere, anche all’epoca del fatto, a (…), mentre l’immobile oggetto di intervento abusivo è sito a (…)).
Ritiene il Collegio che la questione da risolvere è se il criterio adottato dalla Corte d’appello, sicuramente corretto per ritenere raggiunta la prova di un concorso in un reato contravvenzionale, possa essere idoneo a sostenere la configurabilità del concorso in un delitto, qual è quello paesaggistico per cui si procede. Vero è, si osserva, che ai fini della configurabilità del delitto in esame è sufficiente il dolo generico (Sez. 3, n. 48478 del 24/11/2011 – dep. 28/12/2011, Mancini, Rv. 251635), ma è altrettanto vero che, nel caso in esame, occorre valutare la peculiare posizione del concorrente, proprietario non committente, costituito dal nudo proprietario, soprattutto in una fattispecie in cui quest’ultimo –come emerge pacificamente dalla stessa sentenza impugnata– non risultava risiedere nello stesso luogo di consumazione dell’illecito. Correttamente, sul punto, la difesa di parte ricorrente ha ricordato quella giurisprudenza che, già con riferimento al reato edilizio di natura contravvenzionale, afferma che il semplice comportamento omissivo da luogo a responsabilità penale solo se l’agente aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento, obbligo che certamente non sussiste in capo al nudo proprietario dell’area interessata dalla costruzione, non essendo esso sancito da alcuna norma di legge (Sez. 5, n. 13812 del 11/11/1999 – dep. 02/12/1999, Giovannella F ed altro, Rv. 214609).
Non va certo dimenticato che la responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario che ha la disponibilità dell’immobile ed un concreto interesse all’esecuzione dei lavori, se egli non allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà (Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013 – dep. 24/09/2013, Spataro, Rv. 257676), ma –nel caso in esame– ciò che difetta, a giudizio del Collegio, è nella motivazione dell’impugnata sentenza una adeguata e argomentazione in ordine alle ragioni per le quali fosse ipotizzabile un concorso (colposo o doloso) della ricorrente nel reato, doloso, previsto dall’art. 181, comma I-bis, d.lgs. n. 42/2004.
5. L’accoglimento del ricorso esime questa Corte dall’esame dei restanti motivi di ricorso (ivi compreso quello relativo alla prescrizione, atteso che al termine di prescrizione massima, che maturerebbe alla data del maggio 2015, deve aggiungersi un periodo di sospensione di gg. 60 dal 26 aprile al 05.10.2011, causa rinvio dell’udienza determinato da motivi di salute dell’imputata, con conseguente maturazione del termine di prescrizione alla data del luglio 2015), da ritenersi pertanto assorbiti attesa la valenza pregnante della questione relativa alla configurabilità di una responsabilità concorsuale della ricorrente, con conseguente rinvio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, cui spetta la cognizione in sede rinvio in ordine alle sentenze della limitrofa Corte territoriale di Messina di cui è disposto l’annullamento da parte di questa Corte di legittimità.
In sede di rinvio, peraltro, la Corte territoriale provvederà anche ad emendare l’omissione del giudice d’appello messinese, provvedendo a revocare l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, ordine non revocato nonostante già in primo grado fosse stata pronunciata sentenza di proscioglimento dai capi a) e c) della rubrica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.10.2014 n. 43562 - link a http://renatodisa.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il genitore può visionare i temi. Scuola. Per il Tar Lecce va tutelato il diritto di vigilare sugli orientamenti del figlio.
Stretta collaborazione tra scuola e genitori per seguire la personalità degli studenti: lo sottolinea il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la sentenza 20.10.2014 n. 2597, che consente l'accesso ai compiti di italiano di uno studente di scuola media.
Non si trattava di una delle frequenti contestazioni al corpo insegnante, bensì dell'interesse di un genitore a poter comprendere, leggendo i pensieri del figlio, una personalità in evoluzione. Anche se l'andamento scolastico è ottimo (come nel caso esaminato), restano intatte le esigenze di conoscenza dei genitori che intendano vigilare sugli orientamenti culturali del minorenne durante il percorso scolastico. Per tale motivo, il tribunale ha imposto alla segreteria scolastica, che negava l'accesso ritenendolo invasivo e inutile, l'esibizione degli elaborati, affinché il genitore potesse avere piena cognizione di gusti, aspettative e orientamenti culturali che si andavano acquisendo e sviluppando.
L'ambiente della scuola, sottolinea il Tar, partecipa alla crescita e alla maturazione dell'individuo, captando le aspettative di vita che, spesso, sfuggono a un dibattito in ambito strettamente familiare. Più delicato è il problema dell'informativa che spetta a chi subisce la richiesta di accesso (cioè al giovane studente): l'articolo 3 del Dpr 184/2006 impone infatti l'informazione di chi subisca la richiesta di accesso, per evitare indagini su argomenti riservati. Ma, nel caso specifico, la richiesta di accesso era stata formulata dal titolare della potestà genitoriale e non vi erano contrasti tra coniugi.
Più agevole è il compito del giudice nei casi in cui venga chiesto l'accesso ai compiti di altri studenti, per ricostruire ipotetiche disparità di trattamento: l'orientamento è infatti uniforme e sfavorevole (Consiglio di Stato, sentenza 7650/2010), escludendo un controllo generalizzato sulla scuola.
Si sottolinea infatti che la funzione docente non è diretta alla scelta dei più meritevoli, bensì alla formazione dei ragazzi e alla verifica dei risultati da ognuno conseguiti.
Sempre nell'ambito scolastico, il Tar Toscana (sentenza 6266/2004) limita l'accesso dei genitori al testo integrale dei registri di una seconda classe liceale, finalizzato a verificare un presunto clima di ostilità nei riguardi del figlio: l'accesso è stato limitato alle parti del registro che riguardavano il singolo studente.
L'accesso diventa più ampio dopo l'età scolastica, cioè nei concorsi: se le procedure diventano comparative, è infatti possibile ipotizzare una disparità di trattamento. Per tale motivo il Tar Lazio (Sezione III, sentenza 6450/2008) ammette la visione degli elaborati altrui, perché i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno implicitamente acconsentito a misurarsi in una competizione.
Quando poi si dubita dell'operato della commissione e si chieda l'accesso ad appunti, brogliacci o pro-memoria, la pubblicità diminuisce, perché tali atti sono destinati a rimanere nella sfera interna e privata dell'autorità procedente, senza diritto di accesso (Consiglio di Stato, sentenza 6019/2009).
Il diritto di accesso si riafferma quando l'interesse è concreto, come nel caso dei criteri in base ai quali siano stati predisposti test psicoattitudinali: non vi sono infatti ostacoli che possano derivare da copyright o licenze d'uso della Società che predispone i test (Consiglio di Stato, sentenza 5467/2007). In sintesi, l'aspirante ufficiale dei carabinieri (come nel caso da ultimo citato) e i genitori dello studente leccese hanno diritto di conoscere giudizi o aspetti della personalità che emergano da dati in possesso dell'amministrazione. Ma senza sguardi su dati altrui o su chi è chiamato a giudicare
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2014).

APPALTI: Per i c.d. “piccoli Comuni”, secondo i riferiti indici normativi, è obbligata la gestione associata delle gare ad evidenza pubblica mediante la “centrale di committenza unica” che è, a termini dell’art. 3, cc. 25 e 34, D.Lgs. 163/2006 “amministrazione aggiudicatrice” che acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, o aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, in aderenza alla Direttiva 18/2004 UE, e, in quanto tale, necessaria destinataria della notifica del ricorso avverso gli atti da essa emessi, in quanto soggetto responsabile della gara.
---------------
I comuni che aderiscono alla convenzione che istituisce la centrale unica di committenza sono meri beneficiari della procedura indetta ed espletata dalla centrale di committenza e sono vincolati alle vicende anche giudiziarie della gara, sicché, mentre gli effetti e i risultati di questa sono imputati al Comuni, l’imputazione formale degli atti, rilevante ai fini della notifica del ricorso impugnatorio, non può che ricadere sulla centrale di committenza, contraddittore necessario dello stesso, in quanto competente in via esclusiva all’indizione, regolazione e gestione della gara e responsabile della stessa.
---------------
Anche secondo taluna dottrina e giurisprudenza apparentemente favorevole alla tesi di parte ricorrente, che ha configurato la centrale di committenza come “modulo organizzativo e strumento di raccordo tra Amministrazioni privo di una propria individualità e non centro formale di imputazione autonoma”, gli atti della procedura vanno imputati “non solo” alla capofila, ma anche alle altre Amministrazioni che lo compongono, che dovranno singolarmente formalizzare il rapporto con l’aggiudicatario mediante la redazione di appositi contratti, così imponendo comunque la notifica quantomeno “anche” alla centrale di committenza.

... per l'annullamento della nota prot. 228 del 09.08.2014, con cui la centrale unica di committenza di Tossicia notificava ai ricorrenti l'esclusione dalla gara di appalto indetta mediante procedura negoziata previa pubblicazione di un bando di gara, relativa all'affidamento dell'incarico di progettazione dei piani di ricostruzione per il comune di Fano Adriano ambito n° 1 denominato "capoluogo e localita' Villa Moreni".
...
- Considerato che i ricorrenti hanno proposto il ricorso in esame, che impugna l’aggiudicazione dell’appalto de quo disposta con atto della Centrale Unica di Committenza di Tossicia, notificandolo solo al Comune di Fano Adriano, che è, alla stregua della convenzione esibita in data odierna (in atti), uno dei Comuni convenzionati per la gestione della “centrale di committenza unica” per l’acquisizione di lavori, forniture e servizio o la conclusione di accordi quadro di lavori, forniture o servizi, ai sensi dell’art. 30 del T.U. sull’Ordinamento degli Enti Locali D.Lgs. n.267/2000 e secondo il disposto dell’art. 33, comma 3, del D.lgs. 12.04.2006, n.163;
- Ritenuto che per i c.d. “piccoli Comuni”, secondo i riferiti indici normativi, è obbligata la gestione associata delle gare ad evidenza pubblica mediante la “centrale di committenza unica” che è, a termini dell’art. 3, cc. 25 e 34, D.Lgs. 163/2006 “amministrazione aggiudicatrice” che acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, o aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, in aderenza alla Direttiva 18/2004 UE, e, in quanto tale, necessaria destinataria della notifica del ricorso avverso gli atti da essa emessi, in quanto soggetto responsabile della gara (cfr. Cons. di Stato, n. 3639/2013 e 3402/2012, TAR Lazio – Roma, nn. 6575/012 e 2705/2013);
- Ritenuto, in proposito, e conformemente alla citata giurisprudenza, che i Comuni che aderiscono alla convenzione che istituisce la centrale unica di committenza sono meri beneficiari della procedura indetta ed espletata dalla centrale di committenza e sono vincolati alle vicende anche giudiziarie della gara, sicché, mentre gli effetti e i risultati di questa sono imputati al Comuni, l’imputazione formale degli atti, rilevante ai fini della notifica del ricorso impugnatorio, non può che ricadere sulla centrale di committenza, contraddittore necessario dello stesso, in quanto competente in via esclusiva all’indizione, regolazione e gestione della gara e responsabile della stessa (cfr. Cons. di Stato n. 3402/2012);
- Ritenuto che, anche secondo taluna dottrina e giurisprudenza apparentemente favorevole alla tesi di parte ricorrente, che ha configurato la centrale di committenza come “modulo organizzativo e strumento di raccordo tra Amministrazioni privo di una propria individualità e non centro formale di imputazione autonoma”, gli atti della procedura vanno imputati “non solo” alla capofila, ma anche alle altre Amministrazioni che lo compongono, che dovranno singolarmente formalizzare il rapporto con l’aggiudicatario mediante la redazione di appositi contratti, così imponendo comunque la notifica quantomeno “anche” alla centrale di committenza;
- Ritenuto, per le ragioni che precedono, che il ricorso avrebbe dovuto essere notificato alla Centrale unica di committenza di Tossicia, in quanto contraddittore necessario (“pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato”, a termini dell’art. 41, co. 2, c.p.a.), e che, in mancanza di detto adempimento, il ricorso si appalesa inammissibile (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 16.10.2014 n. 721 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 cod. pen.), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va ribadito che integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 cod. pen.), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (Cass. SU, 15.12.2011-23.3.2012 n. 11545; cfr. anche Cass. Sez. 5, 06.11.2013-10.01.2014 n. 646).
Va anche aggiunto che nel caso in esame, per come risulta dalla sentenza impugnata, il ricorrente ha compiuto attività tipica professionale (oggetto di indicazione tabellare nel regolamento di determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità) costituita dalle “sessioni” con i clienti. La teste D.P. ha precisato di aver trattato sempre ed esclusivamente con lui. Analoghe dichiarazioni ha reso P. (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 14.10.2014 n. 42933 - link a http://renatodisa.com).

APPALTI SERVIZI: Sulla legittimità della scelta di un sindaco di predisporre una procedura di affidamento in via d'urgenza del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a causa della situazione di dissesto in cui era precipitata la propria società in house.
E' legittima la scelta di un sindaco che, constatata l'impossibilità per la propria società in house di proseguire nel servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti a causa della situazione di dissesto in cui era precipitata, ha incaricato il competente dirigente di predisporre una procedura di affidamento del servizio in via d'urgenza, al fine di assicurare la continuità dello stesso nelle more dell'espletamento di una procedura aperta.
Nel caso di specie, malgrado l'incontestabile circostanza che la società fosse una società in house del Comune, la conoscenza da parte dell'ente pubblico partecipante della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della propria affidataria è ufficialmente soggetta alle forme previste dal codice civile.
In particolare, è all'interno della struttura corporativa tipica della società per azioni, contraddistinta dalla separazione tra proprietà ed amministrazione dell'ente, che la prima è in grado di apprendere l'andamento della gestione e più in generale la situazione della società. Ciò è proprio quanto risulta essere avvenuto all'assemblea dei soci, in cui l'amministratore unico ha riferito dello stato di decozione della società.
Peraltro, nulla impedisce che, stante la peculiarità del fenomeno dell'in house providing, in cui il dominio dell'amministrazione partecipante sull'ente societario partecipato può ordinariamente estrinsecarsi in forme più penetranti rispetto a quelle poc'anzi esposte, previste per le società per azioni di diritto comune (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2014 n. 5124 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI Una società può essere considerata in house quando l'amministrazione partecipante sia titolare del potere di nomina e revoca quanto meno della maggioranza dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo.
Sulla partecipazione privata al capitale di società asseritamente in house.

L'attività della società in house pluripartecipate deve essere limitata allo svolgimento dei servizi pubblici nel territorio degli enti pubblici che ne risultino soci.
Una società può essere considerata in house quando l'amministrazione partecipante sia titolare del potere di nomina e revoca quanto meno della maggioranza dei componenti degli organi di gestione, di amministrazione e di controllo. Infatti, solo con la nomina della maggioranza degli organi di direzione l'ente pubblico partecipante è posto nelle condizioni di indirizzare l'attività dell'ente partecipato verso il raggiungimento di finalità di pubblico interesse affidate alla sua cura, e che invece correrebbero il rischio di non potere essere attuate laddove il 'governo societario' fosse attribuito ai soci privati.
Anche una partecipazione di minoranza di un soggetto privato al capitale di una società in mano pubblica esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi. Inoltre, la partecipazione privata al capitale di società asseritamente in house comporta, da un lato, una deviazione rispetto al fine pubblico cui questa dovrebbe tendere (e, dall'altro lato, un indebito beneficio concorrenziale per il socio privato conseguente agli affidamenti disposti in via diretta dall'amministrazione partecipante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2014 n. 5079 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla verifica della regolarità contributiva mediante DURC.
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8 del 04.05.2012, ha attribuito al DURC carattere vincolante quanto al requisito della gravità dell'irregolarità contributiva: la nozione di "violazione grave" non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti che non possono sindacarne il contenuto.
A diverse conclusioni si perviene, invece con riguardo al requisito del carattere definitivo di dette irregolarità, richiesto in aggiunta a quello della gravità delle stesse.
Decisivo in questo senso è l'esame degli artt. 5 e 7 del d.m. lavoro e previdenza sociale 24.10.2007 (relativo appunto al d.u.r.c.). La prima delle citate disposizioni regolamentari enumera i casi di regolarità contributiva al ricorrere dei quali è consentito il rilascio del documento, mentre la seconda, al c. 3, obbliga l'ente previdenziale ad invitare l'impresa a regolarizzare la propria posizione in caso di mancanza dei requisiti di cui all'art. 5. L'invito alla regolarizzazione è stato quindi recepito a livello di legislazione primaria con l'art. 31, c. 8, d.l. n. 69/2013 ("Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia", conv. con l. n. 98/2013).
Sebbene non applicabile ratione temporis, nel caso di specie, la norma primaria costituisce la conferma di un preciso indirizzo di politica legislativa volto a favorire la massima partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici.
Pertanto, la stazione appaltante avrebbe dovuto procedere ad accertare in via autonoma la sussistenza di una irregolarità definitiva del rapporto previdenziale, e non già limitarsi ad una presa d'atto di irregolarità meramente formali, non conseguenti ad una consapevole volontà della società di sottrarsi al pagamento degli oneri contributivi nei confronti dei propri dipendenti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.10.2014 n. 5064 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Alla valutazione sul merito della dinamica negoziale tra le parti contrattuali non può sostituirsi il giudice amministrativo o un terzo estraneo al rapporto (fattispecie concernente l’affidamento del servizio di gestione di un rifugio alpino).
Il giudice amministrativo nell'esercizio della giurisdizione di legittimità e nel rapportarsi all'esercizio della discrezionalità amministrativa non può sostituirsi all'amministrazione, dovendosi limitare alla verifica "dall'esterno" dell'esercizio della discrezionalità stessa. Con specifico riferimento al requisito di ammissione alla pubblica gara ex art. 38, lett. f), del d. lgs. n. 163/2006, la valutazione sull'affidabilità dell'impresa in relazione al pregresso rapporto contrattuale costituisce espressione dei poteri tecnico-discrezionali della p.a.: l'amministrazione, in quanto parte contrattuale del pregresso rapporto, è in grado di valutare se l'errore o la colpa grave del precedente affidatario sia tale da compromettere l'affidabilità e precludere la stipula di qualsiasi altro nuovo rapporto negoziale.
Ne consegue che in tema di appalti pubblici, in presenza di una ragionevole scelta legislativa [art. 38, c. 1, lett. f) del codice degli appalti] di consentire il rifiuto di aggiudicazione per ragioni di inaffidabilità dell'impresa -indicate in ipotesi di mala fede o colpa grave emerse nella esecuzione del pregresso rapporto o di serie carenze di professionalità emergenti dal passato aziendale- il sindacato di legittimità del g.a. nello scrutinio di un uso distorto di tale rifiuto deve prendere atto della chiara scelta di rimettere alla stessa stazione appaltante la individuazione del 'punto di rottura' dell'affidamento nel pregresso o futuro contraente, in quanto il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve essere mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti.
In conclusione, la mera non condivisibilità della valutazione dell'amministrazione o la formulazione da parte del giudice degli apprezzamenti e accertamenti demandati all'amministrazione, ove si traduca in una sostituzione nel momento valutativo riservato all'amministrazione, determina non già un mero errore di giudizio, ma uno sconfinamento nell'area ex lege riservata all'amministrazione e, quindi, vizia di per sé la decisione.
---------------
Si ispira al principio di buona amministrazione la stazione appaltante che -pendendo un contenzioso con una società senza che emergano ictu oculi suoi inadempimenti inescusabili- ammetta la medesima società ad una gara ulteriore (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2014 n. 5063 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

INCARICHI PROFESSIONALIPer difendere il Comune basta la procura. Tar Lecce. Il compenso deve essere proporzionato all'importanza dell'incarico.
Per difendere un Comune non occorre un contratto: all'avvocato basta la procura rilasciata dal sindaco.
Lo afferma il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la sentenza 14.10.2014 n. 2500.
Un legale chiedeva compensi per oltre un decennio di liti gestite per l'amministrazione: il Comune ha riconosciuto l'esistenza dei crediti, inserendo le somme tra i debiti fuori bilancio, ma ha quantificato il dovuto utilizzando i minimi tariffari (all'epoca in vigore). L'ente affermava infatti che la mancanza di un contratto di patrocinio o di altro atto scritto non potesse generare un debito superiore ai minimi.
Il Tribunale arriva a diversa conclusione esaminando i principi sui contratti tra professionisti ed enti pubblici: primo punto fermo è che il contratto deve avere forma scritta (Cassazione 7297/2009), perché è inapplicabile la norma sui contratti conclusi a distanza con imprese commerciali. Occorre poi distinguere l'affidamento dei servizi legali (che esige una gara: Tar di Salerno, 1383/2014) dal conferimento di incarichi individuali.
Nel secondo caso basta la procura alla lite, cioè la firma del sindaco a margine della procura sull'atto giudiziario. La procura è infatti un negozio unilaterale: quando è conferita per iscritto dal cliente, ex articolo 83 del Codice di procedura civile, è accettata dal professionista con il concreto esercizio della rappresentanza in giudizio mediante atti difensivi e soddisfa il requisito della forma scritta ad substantiam, perché sono presenti tutti i requisiti necessari: a) incontro di volontà tra ente pubblico e difensore; b) funzione economico-sociale (causa) del negozio; c) oggetto e, d) forma scritta, consentendo di identificare il contenuto negoziale e di rendere possibili i controlli dell'autorità tutoria.
Il contratto di patrocinio, invece, è un negozio bilaterale con il quale il Comune dà incarico al professionista per un'attività extragiudiziaria svolta, con la logica del mandato, sulla base di un rapporto interno di natura extraprocessuale (Cassazione 18450/2014).
Una volta superato lo scoglio della forma scritta, il Tar di Lecce ha poi annullato la delibera comunale nella parte in cui riconosceva solo i minimi tariffari: tutti gli incarichi conferiti per un decennio, infatti, avevano uno specifico spessore e corrispondevano a specifiche utilità conseguite dal Comune, senza che vi fossero ragioni per reputare gli importi richiesti come incongrui, trattandosi oltretutto di controversie non seriali e ultradecennali.
Con questo ragionamento si supera l'indirizzo espresso dalla Corte dei conti, sezione Basilicata, nella sentenza 180/2011, secondo la quale vi è responsabilità contabile dell'ente che paghi una parcella legale sovrastimata rispetto alla reale utilità della prestazione resa: se –come nel caso deciso a Lecce– l'incarico giudiziale è conferito con la semplice procura, senza prevedere specifici limiti minimi, il professionista può far valere il diritto a un compenso adeguato all'importanza dell'opera (articolo 2233 Cc) sulla base della tariffa professionale (Cassazione 10190/2014) e avendo riguardo al valore della causa (articoli 9 Dl 1/2012 e 13 legge 247/2012, Dm 10.03.2014, n. 55)
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2014).
---------------
Il formale conferimento della procura alla lite ed il concreto esercizio della rappresentanza processuale della parte configurano anche il perfezionamento in forma scritta del sottostante contratto di patrocinio nell’ipotesi in cui parte conferente sia l’organo rappresentativo di un ente pubblico -il sindaco-, determinatosi in merito secondo conforme Deliberazione dell’organo collegiale -giunta municipale- preposto allo scopo.
La procura alla lite, infatti, quale negozio unilaterale di conferimento della rappresentanza in giudizio, si distingue sì dal contratto di patrocinio, negozio bilaterale, con il quale viene conferito l’incarico al professionista, ma, quando la stessa, conferita per iscritto dal cliente, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., è accettata dal professionista con il concreto esercizio della rappresentanza giudiziale tramite atto difensivo sottoscritto, può configurare il contratto di patrocinio tra ente pubblico e professionista, soddisfacendone anche il requisito della forma scritta ad substantiam, perché del contratto di patrocinio con la pubblica Amministrazione sono presenti tutti i requisiti necessari: dall’incontro di volontà tra ente pubblico e difensore alla funzione economico-sociale (causa) del negozio, all’oggetto e alla forma scritta, requisito proprio di tutti i contratti stipulati dalla P.A., che risponde all’esigenza di identificarne il contenuto negoziale e di rendere possibili i controlli dell’autorità tutoria. Esigenza che, nella specie, è soddisfatta dal collegamento necessario, funzionale e di contenuto tra la procura alla lite, sottoscritta dal rappresentante dell’Ente, e l’atto di difesa (citazione, ricorso o comparsa) sottoscritto dal difensore.
Può, quindi, essere affermato il seguente principio: In tema di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore della procura ex art. 83 cod. proc. civ., atteso che, il relativo esercizio della rappresentanza giudiziale, tramite la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo perfeziona -con l’incontro di volontà fra le parti l’accordo contrattuale in forma scritta, che, rendendo possibile l’identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell’Autorità tutoria, risponde ai requisiti previsti per i contratti della P.A..

Con riguardo, poi, al tema concernente l’assenza, ritenuta dal Comune, della ‘forma scritta’, il Collegio osserva che la questione deve reputarsi anch’essa ‘superata’ in ragione dei principi più volte espressi, sul punto, dalla S.C., secondo la quale <<il formale conferimento della procura alla lite ed il concreto esercizio della rappresentanza processuale della parte configurano anche il perfezionamento in forma scritta del sottostante contratto di patrocinio nell’ipotesi in cui parte conferente sia l’organo rappresentativo di un ente pubblico -il sindaco-, determinatosi in merito secondo conforme Deliberazione dell’organo collegiale -giunta municipale- preposto allo scopo (Cass. 16.06.2006 n. 13963; cass. 05.05.2004 n. 8500).
La procura alla lite, infatti, quale negozio unilaterale di conferimento della rappresentanza in giudizio, si distingue sì dal contratto di patrocinio, negozio bilaterale, con il quale viene conferito l’incarico al professionista, ma, quando la stessa, conferita per iscritto dal cliente, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., è accettata dal professionista con il concreto esercizio della rappresentanza giudiziale tramite atto difensivo sottoscritto, può configurare il contratto di patrocinio tra ente pubblico e professionista, soddisfacendone anche il requisito della forma scritta ad substantiam, perché del contratto di patrocinio con la pubblica Amministrazione sono presenti tutti i requisiti necessari: dall’incontro di volontà tra ente pubblico e difensore alla funzione economico-sociale (causa) del negozio, all’oggetto e alla forma scritta, requisito proprio di tutti i contratti stipulati dalla P.A., che risponde all’esigenza di identificarne il contenuto negoziale e di rendere possibili i controlli dell’autorità tutoria. Esigenza che, nella specie, è soddisfatta dal collegamento necessario, funzionale e di contenuto tra la procura alla lite, sottoscritta dal rappresentante dell’Ente, e l’atto di difesa (citazione, ricorso o comparsa) sottoscritto dal difensore.
Può, quindi, essere affermato il seguente principio: In tema di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore della procura ex art. 83 cod. proc. civ., atteso che, il relativo esercizio della rappresentanza giudiziale, tramite la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo perfeziona -con l’incontro di volontà fra le parti l’accordo contrattuale in forma scritta, che, rendendo possibile l’identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell’Autorità tutoria, risponde ai requisiti previsti per i contratti della P.A. (v. anche Cass. 05.05.2004 n. 8500; Cass. 18.07.2002 n. 10454)
>> (Cassazione civile, VI, 16.02.2012, n. 2266).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’esercizio di un bar non costituisce un mestiere di per sé rumoroso, sicché i rumori molesti provocati in occasione di spettacoli di cabaret o, comunque, durante l’ordinaria attività del bar integrano la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone di cui al 1° comma dell’art. 659 c.p. (e non ai sensi del secondo comma dello stesso articolo).
I motivi di ricorso si risolvono, per la gran parte, in censure in punto di fatto della decisione impugnata, con le quali si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque infondato.
Innanzitutto, esattamente il giudice del merito ha ritenuto applicabile la disposizione di cui al primo comma dell’articolo 659 c.p., e non quella di cui al secondo comma, avendo accertato che i rumori molesti non erano prodotti dall’utilizzazione dei normali mezzi di esercizio del mestiere, bensì da emissioni sonore aggiuntive, non strettamente connesse all’esercizio dell’attività (in particolare musica ad alto volume, in orario notturno, anche a mezzo di altoparlanti posti all’esterno del locale).
Non si rientra quindi nell’ipotesi dell’esercizio di un mestiere di per sé rumoroso, esercitato contro le disposizioni di legge o contro le prescrizioni della autorità.
Del resto, la giurisprudenza ha più volte ritenuto che l’esercizio di un bar non costituisce un mestiere di per sé rumoroso, sicché i rumori molesti provocati da tale esercizio possono integrare la fattispecie di cui all’articolo 659 c.p., comma 1, (Sez. 1, 05.12.2006, n. 1561 del 2007, Rey, m. 235883, in una fattispecie relativa ad una orchestrina che si esibiva all’interno di un bar; Sez. 1, 28.03.2003, n. 16686, Massazza, m. 224802; Sez. 1, 02.05.1994, n. 7188, Sereni, m. 199730, in un caso di abnorme propagazione di strepiti, schiamazzi, rumori di cucina, “chiamate”, aggiuntivi alla necessaria diffusione, nei locali del canto e della musica connessa alla gestione di un “piano bar”; Sez. 6, 24.05.1993, n. 7980, Papez, m. 194904, relativamente ai continui schiamazzi e rumori provocati, con disturbo delle persone, dagli avventori di un bar).
Il giudice del merito, poi, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha ritenuto provato il fatto che i rumori in questione arrecassero disturbo al riposo delle persone sulla base delle concordi dichiarazioni dei testi residenti nella zona, i quali avevano più volte richiesto l’intervento dell’autorità, oltre che della documentazione acquisita. In base a tali elementi ha altresì ritenuto provato anche che le emissioni sonore in questione superavano i limiti della normale tollerabilità e non erano strettamente connesse all’esercizio dell’attività di bar, consistendo in particolare in musica ad alto volume, anche di notte oltre il normale orario di apertura.
La circostanza che vi sia stato un solo accertamento da parte dell’Arpa è irrilevante, perché nella specie si tratta della fattispecie di cui all’articolo 659 c.p., comma 1, in relazione alla quale assume rilievo il superamento dei limiti di normale tollerabilità, superamento che è stato ritenuto accertato dal giudice del merito, con congrua ed adeguata motivazione, sulla base delle dichiarazioni dei testi escussi. E’ quindi anche irrilevante la circostanza, dedotta con il ricorso, che vi sarebbe stato nel tempo un unico spettacolo di cabaret. Il giudice del merito ha anche motivatamente accertato, poi, che i tentativi posti in essere dall’imputata per limitare le conseguenze dell’emissione dei rumori non si sono dimostrati sufficienti ed idonei ad evitare il disturbo ai vicini.
Il giudice, sempre con congrua ed adeguata motivazione, ha anche ritenuto, sulla base delle dichiarazioni dei testi, che i rumori non si erano verificati solo in occasione dello spettacolo di cabaret, ma erano continuati anche in seguito “con permanenza fino ad oggi” (ossia fino alla data della sentenza di primo grado, emessa il 23.11.2012). Esattamente, quindi, ha ritenuto che non potesse considerarsi maturato il termine di prescrizione del reato, termine che, pertanto, non è spirato nemmeno alla data odierna.
E’ infine congrua ed adeguata la motivazione con la quale è stato determinato, in via equitativa, il danno liquidato in euro 1.500 in favore di ciascuna parte civile costituita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.10.2014 n. 41992 - link a http://renatodisa.com).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il funzionario o l’amministratore comunale che consentano lo svolgimento di una prestazione in assenza di un regolare contratto ne rispondono in proprio.
Non è dunque necessario che essi siano parte attiva o comunque abbiano determinato in prima persona la prestazione, essendo sufficiente che non si siano opposti all’esecuzione.

La disposizione di cui al Decreto Legge n. 66 del 1989, articolo 23, (convertito, con modificazioni, in Legge 24.04.1989, n. 144, e riprodotta nel Decreto Legislativo n. 77 del 1995, articolo 35) prevede che nel caso in cui vi sia stata l’acquisizione di beni o servizi in violazione dell’obbligo indicato nel comma 3 (che richiede la sussistenza della deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge e divenuta esecutiva, nonché dell’impegno contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di previsione), il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il privato fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura.
Questa norma è stata interpretata dalla Corte di appello nel senso che per configurarne l’operatività sia necessario che il funzionario assuma un ruolo attivo e decisionale nell’affidamento dell’incarico di svolgere le prestazioni professionali. Questa lettura è contraria al senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (articolo 12 preleggi) e alla finalità della normativa, indiscutibilmente volta a prevenire il formarsi di debiti fuori bilancio a carico delle amministrazioni.
3.1) L’uso del verbo “consentire” descrive infatti il comportamento di chi, trovandosi privo del potere decisionale sul conferimento dell’incarico o l’acquisizione del bene, nell’esercizio delle sue funzioni permetta che avvenga l’acquisizione della prestazione o della fornitura, senza opporvisi per quanto dovuto nei limiti delle sue attribuzioni. Il disposto normativo è volto a far sì che un contratto non perfezionatosi secondo legge non pervenga alla fase esecutiva.
A questo fine viene responsabilizzato l’amministratore o il funzionario che, chiamato ad operare, a cagione del suo ufficio, per la conclusione e l’attuazione del contratto, cooperi, lasci che la prestazione venga eseguita. Il legislatore vuole invece, lo si desume dalla scelta dell’espressione verbale, che il funzionario neghi il suo consenso e comunque non presti, per quanto possibile, l’opera che sarebbe suo dovere compiere se il contratto fosse stato formato a norma di legge.
Lasciar fare in luogo di ostacolare; assecondare; cooperare: sono manifestazioni di quel comportamento consenziente che il legislatore ha voluto vietare e dal quale fa scaturire conseguenze a carico del funzionario o dell’amministratore.
3.2) Ha dunque errato la Corte di appello nel descrivere il comportamento configurato dal legislatore, cioè il “consentire”, alla stregua di un ruolo di “iniziativa o determinante intervento”.
Ed è quindi fondato il ricorso nella parte in cui invoca, tra l’altro, il precedente costituito da Cass. 10640/2007, secondo cui si ha l’insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del corrispettivo, direttamente con l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione in tutti i casi in cui manchi una valida ed impegnativa obbligazione dell’ente locale, e quindi anche quando, approvata dal Comune la proposta di conferimento dell’incarico professionale con lo schema di disciplinare, sia mancata la stipulazione del contratto e quando in mancanza del prescritto impegno contabile, l’esecuzione di fatto del rapporto sia stata tuttavia consentita dall’amministratore o dal funzionario.
4) Fondato è anche il motivo di ricorso che denuncia l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata, laddove nega portata “consenziente” alle missive trasmesse dal resistente ai professionisti.
Per la Corte di appello trattavasi di attività meramente di “contenuto amministrativo”, di semplice trasmissione delle determinazioni della P.A. ai suoi fornitori.
La sentenza, nelle sue brevissime proposizioni, non spiega però come sia possibile attribuire questo contenuto, puramente esecutivo, quasi alla stregua di adempimento coatto, in presenza di comunicazioni come quelle dettagliate in ricorso.
4.1) In particolare si segnalano, per il tenore del tutto opposto (e quindi bisognoso di ben più penetranti spiegazioni):
a) quella del 19.03.1992, in cui, dopo aver comunicato l’approvazione dell’affidamento dell’incarico, il resistente invitava i ricorrenti a “provvedere con urgenza a dare corso al disciplinare di incarico”.
b) i telegrammi del 01.04.1992, del 06.04.1992 e del 04.06.1992 in cui, senza alcun riferimento a mandato di alcun altro soggetto sopraordinato, il dirigente di settore (OMISSIS) “ordinava” a ciascuno dei due professionisti “l’immediata consegna” degli elaborati.
Il tutto, si badi, come sottolinea il ricorso, con la presumibile consapevolezza, posto il ruolo dirigenziale, dell’incompletezza della fattispecie contrattuale, nonché in presenza di noti “problemi connessi al finanziamento dell’opera” (ricorso pag. 15, riferito a lettera (OMISSIS) del 17.04.1992 riprodotta a pag. 12).
Questi scritti sono apparentemente segno di esplicazione del ruolo dirigenziale in piena sintonia con. l’ente comunale e i suoi amministratori.
Vi è dunque insufficiente spiegazione (pur astrattamente possibile, previa un’analisi di atti e comportamenti del funzionario che dimostrino una qualche forma di dissenso dall’operato dell’ente) di come si possa ritenere che espressioni quali quelle descritte possano essere intese in modo diverso da quel “consentire”, che e’ stato delineato dal legislatore. Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso. La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Trieste per nuovo esame dell’appello e la liquidazione delle spese di questo giudizio.
La Corte si atterrà al seguente principio di diritto: “In tema di spese dei Comuni (e, più in generale, degli enti locali) ai fini dell’interpretazione del disposto dal Decreto Legge 02.03.1989, n. 66, articolo 23, comma 4, (convertito, con modificazioni, in Legge 24.04.1989, n. 144), che stabilisce l’insorgenza del rapporto obbligatorio, quanto al corrispettivo, direttamente con l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, va escluso che l’attività di consentire la prestazione debba consistere in un ruolo di iniziativa o di determinante intervento del funzionario, essendo sufficiente che questi ometta di manifestare il proprio dissenso e presti invece la sua opera come se fosse in presenza di una valida ed impegnativa obbligazione dell’ente locale” (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 09.10.2014 n. 21340 - link a http://renatodisa.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Il dipendente pubblico che –cedendo a terzi il badge– attesti falsamente la sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, commette il reato di truffa aggravata, ed il danno economico va rinvenuto nell’indebita percezione della porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa.
Il ricorso risulta manifestamente infondato. Quanto all’intervenuta produzione documentale, infatti, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente il Tribunale del riesame si è soffermato sul punto ritenendo tale produzione non decisiva.
Nell’impugnata ordinanza si legge, infatti, “l’indagato non ha offerto e comprovato alcun significativo elemento in senso contrario anche l’asserita –ma non provata– esistenza di altri ingressi non appare almeno allo stato decisiva nel senso della carenza di un quadro di gravità indiziaria, posto che sovente il (OMISSIS) timbrava anche per il (OMISSIS), consentendo a quest’ultimo di eludere il controllo sull’orario di ingresso ben prima che il coindagato entrasse in ufficio proprio dal medesimo ingresso sorvegliato dalle telecamere poste dalla PG".
Dunque i giudici del riesame hanno dato logica spiegazione della ritenuta sussistenza di un quadro indiziario sufficiente a giustificare l’adozione della misura cautelare in esame. Per quanto concerne l’ulteriore aspetto di aver preso in considerazione periodi successivi perché le telecamere erano state installate solo nel marzo, anche con riguardo a tale profilo di censura il Collegio ha ampiamente e correttamente motivato.
In particolare, i giudici del riesame hanno affermato che “il Tribunale della Libertà, al fine di controllare la gravità degli indizi e la conformità della contestazione allo schema legale della fattispecie, può prendere in considerazione tutti gli elementi fattuali desumibili dalla motivazione del provvedimento impugnato, quando la condotta criminosa contestata all’indagato, pur commessa entro un lasso temporale non formalmente ricompreso nella data del provvisorio capo di imputazione, sia stata oggetto di valutazione nella motivazione dell’ordinanza cautelare (e nel caso di specie, poiché il Gip, nel provvedimento impugnato, ha valutato anche condotte tenute dall’odierno indagato fino all’aprile scorso, pure queste ultime possono essere prese in considerazione ai fini del giudizio afferente la gravità indiziaria”.
Pertanto nessuna omessa motivazione appare ravvisabile. Il Tribunale del riesame ha infatti motivato ampiamente anche in ordine alla apprezzabilità del danno economico cagionato. In particolare, precisa il giudice del riesame, dagli elementi acquisiti dalla PG risulta come il suddetto meccanismo fraudolento, concordato tra il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), ha consentito a ciascuno di costoro di assentarsi, ogni mese, dal luogo di lavoro per un consistente numero di ore che, però, grazie al meccanismo medesimo, venivano comunque loro remunerate dal datore di lavoro pubblico.
In considerazione della durata nel tempo di tale meccanismo fraudolento, dal carattere quasi quotidiano del raggiro e del numero di ore lavorative mensilmente evase, conclude il Tribunale del riesame, deve ritenersi che la condotta degli indagati abbia realizzato un apprezzabile danno economico alla PA di appartenenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.10.2014 n. 41935 - link a http://renatodisa.com).

APPALTI: Sull'operazione di verifica dell'integrità dei plichi contenenti l'offerta tecnica.
In tema di apertura delle buste contenenti l'offerta tecnica, l'operazione di verifica dell'integrità dei plichi non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non abbiano subito manomissioni o alterazioni, dovendo essere garantito altresì che "il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato" (sent. n. 13 del 28.07.2011 dell'Ad. Plenaria).
Ciò costituisce corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti, inoltre, l'Adunanza Plenaria ha aggiunto che "…tale operazione (id est, apertura dei plichi contenenti l'offerta tecnica), infatti, come per la documentazione amministrativa e per l'offerta economica, costituisce passaggio essenziale e determinante dell'esito della procedura concorsuale, e quindi richiede di essere presidiata dalle medesime garanzie, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento" (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.10.2014 n. 5009 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il soggetto privato, non titolare di una impresa e non titolare di un ente, che abbandoni in modo incontrollato un proprio rifiuto, e che a tal fine lo trasporti occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato, risponderà solo dell’illecito amministrativo di cui all’art. 255 d.lgs. 03.04.2006, n. 152, per l’abbandono e non anche del reato di trasporto abusivo di cui all’art. 256, comma 1, in quanto la condotta di trasporto si esaurisce nella fase meramente preparatoria e preliminare rispetto alla condotta finale e principale di abbandono, e non assume autonoma rilevanza ai fini penali.
Il ricorso è fondato.
Dalla motivazione della sentenza impugnata emerge che il fatto si sarebbe svolto nel seguente modo.
L’imputato, il 20.2.2011, stava trasportando, sul rimorchio trainato da un trattore agricolo appartenente alla madre Pe.Ir., circa 2 (due) mq. di rifiuti non pericolosi (cemento, calcestruzzo, mattonelle, provenienti da demolizione, e in particolare dalla abitazione della madre), al fine di abbandonarli in un posto non precisato. A un certo punto il trattore uscì di strada ed, essendosi ribaltato il rimorchio, i rifiuti si sversarono sul terreno adiacente. Stante l’ora tarda e l’oscurità, il P. abbandonò sul posto il rimorchio ed i rifiuti, col proposito di recuperarli il giorno seguente, ma l’indomani mattina i vigili urbani scorsero il rimorchio ribaltato con i rifiuti e denunciarono l’imputato per il reato contestato. La sentenza impugnata, oltre ad accertare che la piccola quantità di rifiuti da demolizione proveniva dall’appartamento della madre ottantenne dell’imputato, ha anche accertato che costui non svolgeva alcuna attività imprenditoriale e non era titolare di impresa o titolare di ente, né si occupava di smaltimento, trasporto o gestione di rifiuti, in quanto svolgeva l’attività di fornaio.
L’imputato, quindi, era stato chiamato a rispondere della condotta contestata quale semplice privato e non quale titolare di impresa o titolare di un ente.
La difesa aveva eccepito che l’abbandono dei rifiuti in questione in quel terreno, a seguito del ribaltamento del rimorchio, non costituiva comunque reato ma illecito amministrativo ai sensi dell’art. 255 d.lgs. 03.04.2006, n. 152, poiché l’imputato non aveva appunto la qualità personale richiesta dall’art. 256, comma 2.
Il giudice ha riconosciuto che effettivamente l’imputato non era un titolare di impresa (nemmeno di demolizione) e non esercitava una attività imprenditoriale e che quindi la condotta di abbandono dei rifiuti (sul terreno) non integrava il reato di cui all’art. 256, comma 2.
Ha però ritenuto che l’imputato andasse dichiarato colpevole per la condotta (precedente e finalizzata all’abbandono) di trasporto dei detti rifiuti ai sensi dell’art. 256, comma 1, il quale non prevede un reato proprio potendo essere commesso da “chiunque”.
In sostanza il giudice ha ritenuto che il reato di trasporto abusivo di rifiuti, di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, sia integrato anche nell’ipotesi in cui si tratti di un trasporto meramente occasionale, effettuato da un privato non titolare di impresa e non responsabile di un ente, che abbia ad oggetto solo rifiuti di sua proprietà destinati unicamente all’abbandono.
In altre parole, secondo il principio di diritto implicitamente applicato dalla sentenza impugnata senza ulteriori specificazioni, qualora un privato abbandoni (tanto per fare un esempio) un vecchio mobile o un elettrodomestico fuori del portone di casa, commetterebbe solo l’illecito amministrativo di cui all’art. 255, mentre qualora li abbandoni all’angolo della strada a qualche decina (o centinaia) di metri di distanza, commetterebbe, oltre all’illecito amministrativo, anche il reato di trasporto abusivo di rifiuti di cui all’art. 256, comma 1.
Si tratta di una interpretazione che attribuirebbe al sistema normativo delle conseguenze manifestamente illogiche (il che mostra anche la sua erroneità), se non altro perché in tale modo il sistema, così interpretato, attribuirebbe alla fase preparatoria (trasporto) del comportamento tenuto dal privato una gravità maggiore della fase finale e conclusiva (abbandono incontrollato).
In realtà, nel caso in esame, il giudice è giunto a questa conclusione con una motivazione, oltre che manifestamente illogica e contraddittoria, anche meramente apparente, e quindi mancante, in quanto non ha valutato se sussistevano due presupposti della decisione adottata: uno di fatto, relativo alla valutazione della natura della condotta addebitata all’imputato; ed uno di diritto, consistente nell’ambito di applicazione del reato ritenuto.
Sotto il primo profilo, invero, non risulta chiaro se alla condotta nella specie contestata e per la quale è intervenuta condanna, ossia il trasporto dei residui di demolizione, dovesse, nel caso in esame, attribuirsi, per una qualche ragione, natura diversa e rilevanza autonoma rispetto alla condotta finale e conclusiva di abbandono incontrollato ovvero se la stessa avesse natura meramente preparatoria della condotta di abbandono e come tale fosse priva di autonomo rilievo penale.
Sotto il secondo profilo, attribuita al trasporto finalizzato all’abbandono rilevanza autonoma, il giudice non ha poi spiegato perché esso nella specie integrerebbe il reato. Difatti è vero che la giurisprudenza di questa Corte, richiamata dalla sentenza impugnata, afferma che il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti di cui all’art. 256, comma 1, si può configurare anche in presenza di una condotta occasionale, ma è anche vero che le massime citate si riferiscono tutte a soggetti che in realtà svolgevano una “attività di trasporto” (anche se non di rifiuti) o una attività di impresa nella quale erano stati prodotti i rifiuti trasportati o comunque a soggetti che avevano compiuto un trasporto per conto di terzi. In altri termini, sembra che in detti casi l’occasionalità sia stata ritenuta irrilevante proprio perché si trattava comunque di condotta tenuta nell’ambito di una “attività di trasporto”, e comunque non di un trasporto occasionale e finalizzato esclusivamente all’abbandono di un proprio rifiuto.
Questo Collegio è a conoscenza che dottrina e giurisprudenza sono discordi sulla questione se il reato di “attività di… trasporto… di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione” di cui all’art. 256, comma 1, costituisca o meno un reato proprio, che possa essere commesso da chiunque ovvero solo dai soggetti in favore quali, in forza dell’art. 212, può essere effettuata la relativa iscrizione nell’albo.
Ritiene però che in questa sede non debba essere affrontata tale questione perché, quale che sia la sua corretta soluzione, deve ritenersi che il reato non sia comunque integrato dalla condotta di un soggetto privato (che non agisca nell’ambito di una attività di impresa) il quale abbandoni occasionalmente in modo incontrollato un proprio rifiuto e che, a questo scopo, lo porti nel luogo dove poi lo abbandonerà. Ciò perché, a prescindere della natura del trasporto richiesta dalla norma incriminatrice, deve ritenersi che in una tale fattispecie ciò che rilevi è solo la condotta principale e finale costituita dall’abbandono del rifiuto, mentre il suo trasporto sul luogo di abbandono costituisce solo una fase preliminare e preparatoria che non acquista autonomo rilievo sotto il profilo penale, rimanendo appunto assorbita nella condotta di abbandono. Quindi, se l’abbandono incontrollato del rifiuto venga commesso da un soggetto non titolare di una impresa e non responsabile di un ente e pertanto costituisca illecito amministrativo punito ai sensi dell’art. 255, il trasporto del rifiuto stesso per abbandonarlo in quel luogo rientrerà nella condotta punita dalla sanzione amministrativa e non integrerà un autonomo e distinto reato di trasporto di rifiuti senza iscrizione o autorizzazione.
Questa soluzione, invero, corrisponde non solo ad una esegesi adeguatrice (in riferimento soprattutto al principio costituzionale di ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost., stante la manifesta irragionevolezza, come dianzi rilevato, della soluzione contraria, che considera più grave la fase preparatoria rispetto a quella finale) ma anche ad una interpretazione sia letterale della disposizione (che parla di “attività di trasporto”) sia sistematica, che tenga conto della ratio del sistema punitivo. Altrimenti, si dovrebbe, ad esempio, ritenere razionale un sistema che per una ipotesi di detenzione di sostanza stupefacente finalizzata allo spaccio, punisse lo spaccio con una sanzione amministrativa e punisse altresì in modo autonomo anche la detenzione con una sanzione penale.
Va dunque affermato il principio che il soggetto privato, non titolare di una impresa e non titolare di un ente, che abbandoni in modo incontrollato un proprio rifiuto, e che a tal fine lo trasporti occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato, risponderà solo dell’illecito amministrativo di cui all’art. 255 d.lgs. 03.04.2006, n. 152, per l’abbandono e non anche del reato di trasporto abusivo di cui all’art. 256, comma 1, in quanto la condotta di trasporto si esaurisce nella fase meramente preparatoria e preliminare rispetto alla condotta finale e principale di abbandono, e non assume autonoma rilevanza ai fini penali.
Nel caso di specie il giudice ha erroneamente seguito un diverso principio di diritto attribuendo autonoma valenza penale a qualsiasi condotta di trasporto di rifiuti, anche compiuta da un privato, anche meramente occasionale, ed anche meramente preparatoria e unicamente finalizzata all’abbandono. Di conseguenza, ha omesso di esaminare e valutare se nel caso in esame la concreta condotta tenuta dall’imputato avesse effettivamente una propria autonoma finalità ovvero si inserisse in un’unica condotta finale di abbandono come una fase meramente preparatoria e preliminare.
Ciò impone che la sentenza impugnata debba essere annullata con rinvio per nuovo esame al tribunale di Treviso, che si uniformerà al principio di diritto dianzi enunciato, restando assorbito il secondo motivo di ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2014 n. 41352 - link a http://renatodisa.com).

APPALTIOneri sicurezza, l'appalto si salva. Non conta la mancata indicazione.
Legittimo affidamento. Deve essere confermata l'aggiudicazione dell'appalto all'impresa che ormai conta di avere il diritto a eseguire i lavori, anche se all'esito della procedura si scopre che come concorrente non ha indicato nell'offerta gli oneri di sicurezza per rischi specifici. E ciò soprattutto perché nel codice dei contratti pubblici non c'è alcun riferimento all'esclusione dalla gara per chi non provvede. E ciò a maggior ragione quando l'incombente non risulta previsto dal bando di gara.

È quanto emerge dalla sentenza 06.10.2014 n. 1624, pubblicata dal TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, che interviene su di una questione tutt'altro che pacifica.
Interpretazione sostanzialistica. Niente da fare per l'azienda che ha perso la gara d'appalto: è escluso che possa ottenere la revoca dell'aggiudicazione. Deve prevalere, spiegano i giudici, un'interpretazione sostanzialistica: non c'è in generale alcuna norma di legge che commina l'esclusione dalla gara a chi non indica gli oneri di sicurezza per rischi specifici.
E in effetti può ben capitare che in un certo tipo di appalto il pericolo sia pari a zero, come accade nella specie dove la gara riguarda la fornitura di beni per laboratorio da cucina, secondo le precisazioni offerte dalla stessa azienda in sede di verifica. Si applica stavolta il principio secondo cui bisogna favorire e non ostacolare la partecipazione delle imprese alla gara laddove la specificazione dell'impresa interessata è stata ritenuta congrua e ragionevole dall'amministrazione in relazione al tipo di gara.
Verifica ampia. La materia, comunque, resta controversa: secondo l'orientamento giurisprudenziale più rigoroso l'esclusione dalla gara deriva dalla natura precettiva e imperativa delle norme che disciplinano gli oneri di sicurezza da rischi specifici.
Un altro indirizzo interpretativo più flessibile ritiene che l'estromissione dell'azienda dalla procedura può avvenire soltanto in seguito a una verifica più ampia sulla serietà e sulla sostenibilità dell'offerta economica nel suo insieme (articolo ItaliaOggi del 29.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l’extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti.
Le censure sono infondate.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno recentemente chiarito che il delitto di concussione, di cui all’articolo 317 c.p., nel testo modificato dalla Legge n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’articolo 319-quater c.p., introdotto dalla medesima Legge n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. U, Sentenza n. 12228 del 24/10/2013, Rv. 258470, Maldera e altri).
Nella motivazione di questa Sentenza, le Sezioni Unite hanno precisato che, nei casi ambigui, l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta. Inoltre si avuto cura di affermare che il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre Vextraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par candido contractualis ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti.
In definitiva, il delitto di induzione indebita, di cui all’articolo 319-quater c.p., è caratterizzato, sotto il profilo oggettivo, da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che lascia al destinatario un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un indebito vantaggio per lo stesso, distinguendosi da quello di concussione, il quale si configura quando la condotta del pubblico ufficiale, prospettando un male ingiusto, limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo (Sez. 6, Sentenza n. 5496 del 07/11/2013, Rv. 259055, Moretti) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 03.10.2014 n. 41110 - link a http://renatodisa.com).

PUBBLICO IMPIEGO: La falsità ideologica può essere consumata anche mediante un’attestazione incompleta, ogniqualvolta il contenuto espositivo dell’atto sia, comunque, tale da far assumere all’omissione dell’informazione, relativa ad un determinato fatto, il significato di negazione della sua esistenza. Integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la condotta del pubblico ufficiale che, formando un’attestazione, tace dati la cui omissione, non ultronea nell’economia dell’atto, produca il risultato di una documentazione incompleta e comunque contraria, anche se parzialmente, ai vero.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
La difesa sostiene che non dovrebbe tenersi conto della specifica finalità della dichiarazione sottoscritta dall’I., alla luce delle previsioni del bando: dovrebbe piuttosto verificarsi se la dichiarazione de qua, pertinente o meno a quanto richiesto dalla pubblica amministrazione nell’ambito del procedimento di ammissione al concorso, fosse o no difforme dal vero. Si tratta di argomentazioni non condivisibili.
È chiaro che, trovandosi in imbarazzo davanti ad una modulistica che gli imponeva di precisare se avesse o meno procedimenti penali in corso, e sapendo di averne, l’I. si ingegnò di trovare una “via di mezzo”, mutuando dall’altra attestazione che gli si chiedeva (concernente le condanne, e non le pendenze) il riferimento alla potenziale valenza preclusiva ad un rapporto d’impiego; così facendo, si inventò una sorta di tertium genus di dichiarazione fra quelle che erano prescritte dal bando, curando di non attestare circostanze difformi dal vero in senso letterale.
In concreto, il bando richiedeva al candidato di fare presenti le condanne eventualmente ostative al rapporto di lavoro, perché non tutte lo sarebbero state: e l’I., con la prima parte della propria dichiarazione, fece presente di non aver mai riportato condanne di sorta. Lo stesso bando imponeva però ai partecipanti al concorso, pena l’esclusione, di dare al contempo contezza dei procedimenti penali in atto –senza distinguere fra le pendenze in ragione dell’addebito– ovvero a rappresentare di non averne: e qui l’imputato introdusse un distinguo non pertinente, mirando a nascondere una verità per lui scomoda.
Deve pertanto ritenersi ravvisabile un falso per omissione, a nulla rilevando la circostanza della più o meno immediata esclusione dell’imputato dal concorso giacché il delitto in rubrica ha evidente natura di reato di pericolo: l’I. era tenuto a comunicare tutti i carichi pendenti e –aggiungendo, alla attestazione di non averne, una specificazione non richiesta– realizzò il risultato di dire di non avere pendenze con determinate caratteristiche, omettendo di rappresentare (come gli era invece imposto di fare, ed essendosi obbligato in tal senso sottoscrivendo un modello che richiamava le previsioni in tema di dichiarazioni sostitutive di atti notori) che ne aveva invece di altre.
La giurisprudenza di questa Corte ha già più volte affermato che “la falsità ideologica può essere consumata anche mediante un’attestazione incompleta, ogniqualvolta il contenuto espositivo dell’atto sia, comunque, tale da far assumere all’omissione dell’informazione, relativa ad un determinato fatto, il significato di negazione della sua esistenza” (Cass., Sez. V, n. 6244 del 14/01/2004, Bongioanni, Rv 228077; v. anche, nello stesso senso, Cass., Sez. V, n. 18191 del 09/01/2009, De Donno).
In una fattispecie concreta relativa ad una pratica per l’erogazione di contributi post-terremoto, dove era stata attestata la pendenza di un’ordinanza di sgombero di un immobile, senza aggiungere che la stessa era già stata revocata, si è affermato che “integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la condotta del pubblico ufficiale che, formando un’attestazione, tace dati la cui omissione, non ultronea nell’economia dell’atto, produca il risultato di una documentazione incompleta e comunque contraria, anche se parzialmente, ai vero” (Cass., Sez. VI, n. 21969 del 14/12/2012, Bardi, Rv 256544).
Ancor più di recente, è stato precisato che “la falsità In atto pubblico può integrare il falso per omissione allorché l’attestazione incompleta –perché priva dell’informazione su un determinato fatto– attribuisca al tenore dell’atto un senso diverso, cosi che l’enunciato descrittivo venga ad assumere nel suo complesso un significato contrario ai vero” (Cass., Sez. V, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta, Rv 257549).
Nel caso oggi sub judice, solo in apparenza si registra – piuttosto che l’omissione di una informazione idonea a dare completezza all’atto -(Inserimento di una informazione ulteriore, non conferente: come detto, dichiarando di non avere “procedimenti penali in corso che Impediscano la costituzione dei rapporto di lavoro con amministrazioni pubbliche”, l’I. omise di attestare di avere un carico pendente per abuso d’ufficio e turbata libertà degli incanti, quando invece avrebbe avuto l’obbligo di darne contezza (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 02.10.2014 n. 40982 - link a http://renatodisa.com).

INCARICHI PROFESSIONALI: Divieto quota lite circoscritto. L'argine si applica solo alle attività di tipo difensivo. La Corte di cassazione ammette l'accordo del cliente con un semplice consulente.
Il divieto del patto di quota lite si applica solo ai difensori e non anche ai consulenti del lavoro che prestino attività amministrativo-contabile volta all'accertamento del diritto del cliente a godere di agevolazioni fiscali e al recupero di eventuali somme indebitamente versate all'erario.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 02.10.2014 n. 20839.
La vicenda controversa trae origine da un contratto stipulato tra un consulente del lavoro e una società del Mezzogiorno. In base all'accordo, il professionista si è impegnato a verificare la presenza di eventuali indebiti versati dalla società all'erario in rapporto all'introduzione, per via normativa, di alcune agevolazioni fiscali; la provvigione per l'attività in questione è stata indicata nel 25% delle somme che il consulente avrebbe recuperato in favore del cliente.
Ebbene, il professionista, nell'adempiere il suo incarico, è riuscito a spuntare in favore della società una somma pari a quasi un miliardo del vecchio conio. E tuttavia, quando è stato il momento di dividere il «tesoretto», il cliente ha eccepito un secco diniego. Di più, questi si è rivolto al tribunale per ottenere l'annullamento del contratto di consulenza a cagione del patto di quota lite in esso previsto. Il giudice di primo grado, e tanto ha ritenuto anche la Corte d'appello, ha accolto, non prima di averla riqualificata, la domanda della società dichiarando la nullità parziale dell'accordo, e riconoscendo al consulente una somma di gran lunga inferiore all'originario 25% del «recuperato». Secondo i giudici di merito, infatti, il contratto intervenuto tra i litiganti si poneva in contrasto col «divieto di patto di quota lite», di cui all'art. 2233, terzo comma, del codice civile.
Il professionista si è dunque rivolto in ultima istanza alla Corte di cassazione, ivi censurando l'apprezzamento svolto dai giudici della Corte territoriale nella parte in cui ebbero a ritenere applicabile al caso di specie il divieto di strutturare il compenso in percentuale ai risultati ottenuti.
La Corte, nell'accogliere il ricorso, ha fatto chiarezza sul perimetro della norma, relegandone l'applicazione ai soli difensori (avvocati, procuratori o patrocinatori legali) e, comunque, ai soli soggetti che assumano le vesti di difensore.
Spiegano i giudici come l'art. 2233, terzo comma, codice civile, già prima dell'intervento di riforma a opera dell'art. 2, comma 2-bis, del dl n. 223/2006, convertito in legge n. 248/2006, disponeva che «gli avvocati, i procuratori e i patrocinanti non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio sotto pena di nullità e dei danni». Secondo la Corte, la norma in questione riguardava e riguarda tuttora «l'attività difensiva prestata nell'ambito di una controversia, e cioè, non ogni attività professionale, ma esclusivamente l'esercizio dell'attività di patrocinio affidata a un difensore in una controversia o in vista di una controversia».
La nullità (parziale) del contratto è stata concepita solo per il «negozio bilaterale stipulato dal professionista investito del patrocinio legale con il cliente relativamente ai beni oggetto della controversia a lui affidata»; e integra un'«eccezione al principio generale della libertà negoziale», fondata sull'esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al dichiarato intento di tutelare l'interesse del cliente e la dignità e la moralità della professione forense, la quale risulterebbe lesa tutte le volte in cui nella convenzione concernente il compenso possano ravvisarsi forme di partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione, giudiziale o stragiudiziale, richiestagli.
Da ultimo, la Corte non manca di fornire una precisazione importante: è vero, come ha osservato la difesa della società, che la norma in passato è stata ritenuta applicabile anche a ragionieri e commercialisti; tuttavia, in quelle ipotesi detti professionisti avevano pur sempre svolto attività di patrocinio dinnanzi alle commissioni tributarie.
Sulla base di quanto premesso, gli ermellini hanno ritenuto legittima la clausola contrattuale inserita dal consulente del lavoro proprio alla luce dell'attività prestata, di tipo amministrativo-contabile e non già difensiva. Per l'effetto hanno annullato la sentenza della Corte d'appello e riconosciuto il pieno diritto del professionista a ricevere il compenso nella sua interezza (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Si ha difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione: diversa per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.
1. I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza.
2. Quanto al primo ed al secondo motivo di gravame, comune a tutti i ricorrenti, essi possono essere congiuntamente esaminati essendo tra loro strettamente collegati.
Per entrambi, le ragioni della doglianza fondano su un ritenuto travisamento delle risultanze istruttorie e l’evidente erronea applicazione della normativa di settore.
2.1. Si assume come, da un lato, la sanatoria non sia affatto passata attraverso la completa eliminazione di quasi tutte le opere difformi (posto peraltro che anche la realizzazione dell’autorimessa interrata era consentita dagli strumenti urbanistici vigenti nella zona attinta dall’intervento edilizio e che il progetto di sanatoria ne aveva previsto la demolizione, non anche la sanatoria, soltanto per ragioni di opportunità e, in particolare, per non affrontare le difficoltà relative all’impatto estetico ambientale della rampa di accesso) con la conseguenza che la Corte territoriale avrebbe errato nel non riconoscere l’effetto estintivo ex articolo 45 TUE e come, dall’altro, l’esame delle singole difformità contestate, pur senza voler eludere il principio della valutazione unitaria dell’intervento edilizio, avrebbe dovuto portare alla conclusione che, tenuto conto della proiezione finalistica nella quale si sarebbero dovuti valutare taluni interventi, le singole difformità non fossero tali da comportare la realizzazione di un edificio integralmente diverso da quello assentito, con la conseguenza che gli interventi stessi avrebbero dovuto essere valutati, anche alla luce della legislazione regionale, come variazioni non essenziali del progetto e suscettibili, come tali, di integrare, a tutto concedere, la fattispecie di cui dell’articolo 44 TUE, lettera a).
2.2. I riassunti rilievi, formulati nei medesimi termini con l’atto di appello, sono stati disattesi dalla Corte territoriale avendo l’istruttoria dibattimentale dimostrato come il manufatto fosse stato realizzato in modo del tutto diverso, per caratteristiche planivolumetriche rispetto a quanto previsto dal permesso di costruire rilasciato dall’autorità amministrativa nel 2006.
Ciò è stato ritenuto in considerazione del fatto che il rialzamento del piano di calpestio ha comportato, di per sé stesso, un consistente incremento volumetrico, rispetto a quanto assentito dal Comune, incremento esattamente quantificato in circa metri cubi 71 (per la precisione me. 70,96), pari al 40% del volume assentito (volume oggetto di concessione: me. 168,56; volume realizzato: me. 239,52) ed il dato probatorio e’ stato acquisito anche attraverso la deposizione dell’arch. (OMISSIS), tecnico incaricato dal proprietario (OMISSIS) di predisporre una seconda pratica di sanatoria, dopo quella del 16 giugno 2009, dalla quale e’ scaturita l’imputazione di falsità ideologica ex articolo 481 c.p..
A questa difformità, come emerso sempre dalla deposizione dell’arch. (OMISSIS), va aggiunta quella relativa alla realizzazione dell’autorimessa seminterrata, estranea al permesso di costruire, consistente in un locale esterno alla sagoma del fabbricato, autonomamente accessibile (attraverso una rampa carrabile), che aveva una superficie di circa 17 mq. per una altezza di m. 2,50 con conseguente ulteriore volumetria non assentita di circa 40 me.
Altra difformità e’ stata desunta dalla chiusura della loggia prevista sul fronte principale del fabbricato, chiusura che ha inciso, secondo la Corte territoriale, non soltanto sulla disciplina delle distanze ma anche sulla sagoma e sui prospetti dell’immobile in corso di realizzazione, prospetti che con detta trasformazione sono stati modificati in modo sensibile.
Infine, è stata ritenuta pacifica la difformità relativa alla realizzazione del manufatto in una posizione diversa, sia pure di pochi metri, da quella prevista nel permesso di costruire del 2006.
2.3. Al cospetto di tali complete valutazioni, pienamente logiche e conformi alle risultanze di causa, supportate da una doppia conforme decisione, la doglianza dei ricorrenti circa l’illogicità della motivazione per travisamento delle risultanze istruttorie difetta di qualsiasi fondamento e ignora, per questa parte, che il giudizio di legittimità rappresenta lo strumento di controllo della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale e non può costituire un terzo grado di giudizio diretto alla ricostruzione dei fatti oggetto di contestazione.
Peraltro i vizi logici devono essere manifesti, non potendo essere ravvisati nel fatto che il ricorrente abbia ritenuto non soddisfacenti le argomentazioni con le quali la sentenza impugnata ha risposto ai rilievi formulati nei motivi di gravame.
Questa Corte ha affermato che può aversi vizio di travisamento della prova quando l’errore sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione e che questo può avvenire solo nei casi in cui si introduce in motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo, oppure si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della decisione (Sez. 2 , n. 23419 del 23/05/2007, P.G. in proc. Vignaioli, RV 236893; Sez. 1 , n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, RV 237207).
Nulla di tutto ciò è riscontrabile nell’apparato argomentativo della Corte territoriale la cui motivazione si segnala anche per la corretta applicazione della legge sostanziale.
2.4. Sul punto, quanto alla doglianza circa la negata valenza del permesso in sanatoria come causa estintiva del reato urbanistico, la Corte di appello si è attenuta alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale non determina l’estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto del Decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, articoli 36 e 45, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all’esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Sez. 3 , n. 19587 del 27/04/2011, Montini ed altro, Rv. 250477).
Nella specie, il permesso di costruire in sanatoria è stato concesso con specifiche prescrizioni, è poi pacifico che l’autorimessa seminterrata, ipoteticamente sanabile, sia stata esclusa dalla sanatoria stessa, essendone stata prevista la demolizione e, a dimostrazione dell’inammissibilità di una sanatoria parziale o condizionata alla demolizione di una parte degli interventi, la Corte di appello ha anche correttamente rilevato come, dall’esame della pratica di sanatoria, anche altre opere siano state sottratte all’accertamento di conformità essendo stata prevista anche l’eliminazione dei muri di chiusura della loggia e la risistemazione esterna del terreno, così da incidere sull’altezza del piano di calpestio del fabbricato rispetto al piano di campagna.
2.5. Corretto deve ritenersi anche l’approdo cui i Giudici dell’appello sono pervenuti nel ritenere configurata la fattispecie della difformità totale procedendo ad valutazione concernente l’opera nel suo insieme e stigmatizzando il contrario approccio pronosticato dai ricorrenti e diretto a valutare singolarmente le varie difformità parcellizzando l’esame critico degli interventi.
Dalla valutazione unitaria dell’immobile realizzato, la Corte ha tratto corretto e logico argomento per desumere la realizzazione di un organismo integralmente diverso da quanto previsto nell’atto di assenso sul rilievo del macroscopico incremento volumetrico comportante la realizzazione di un immobile di dimensioni molto più ampie, traslato sul terreno, con un’autorimessa seminterrata non prevista dal permesso di costruire.
Il concetto della totale difformità è antitetico rispetto a quello della parziale difformità e ciò giustifica il diverso approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità, che deve essere eseguita su base normativa, dell’una o dell’altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un intervento costruttivo, specificamente individuato, che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle fissate a livello progettuale.
Il concetto di totale difformità presuppone invece un intervento costruttivo che esclude una valutazione frammentaria di esso e che perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto che il Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 31, descrive le opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire come quelle “che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planivolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso…”.
Come è stato esattamente evidenziato, l’articolo 31, comma 1, TUE richiama un concetto di “totale difformità” ancorato, più che al confronto tra la singola difformità e le previsioni progettuali dell’intervento edilizio, alla comparazione sintetica tra l’organismo programmato nel progetto assentito e quello che e’ stato realizzato con l’intervento edilizio scaturito dall’attività costruttiva, con la conseguenza che, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di “parziale difformità” ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la “totale difformità” si fonda su una valutazione di sintesi collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell’attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo.
A tale significativa conclusione era infatti già pervenuta la giurisprudenza di questa Corte quando, nel previgente e non antitetico assetto normativo, aveva chiarito che si ha difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione: diversa per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera (Sez. 3, n. 1060 del 07/10/1987, dep. 30/01/1988, Ferrari Rv. 177490).
2.6. A questo punto, appare chiaro come sia del tutto irrilevante il richiamo nelle doglianze dei ricorrenti alla legislazione regionale per desumere, rispetto alle singole difformità e non alle anomalie nel loro complesso, il carattere di variazione non essenziale dei singoli interventi (come ad esempio dell’autorimessa) e ciò sulla base del disposto dell’articolo 32 TUE e del rinvio alla legislazione regionale integrativa.
Nel caso di specie, attesa la clausola di salvezza posta in apertura delle disposizione, l’articolo 32 TUE non è applicabile stante la natura totale delle difformità edilizie unitariamente riguardate e di conseguenza alcun effetto giuridico produce la legislazione regionale nella determinazione integrativa delle variazioni essenziali in presenza appunto di conclamate totali difformità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2014 n. 40541 - link a http://renatodisa.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In tema di gestione dei rifiuti, il reato di abbandono incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta di abbandono.
1. Il ricorso è manifestamente infondato e va, pertanto, dichiarato inammissibile.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23971 del 25/05/2011 Ud. dep. 15/06/2011 Rv. 250485; Cass. pen. sez. 3 n. 6420 del 07.11.2007, dep. 11.2.2008) “il Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 2, comma 3, già prevedeva la responsabilizzazione e la cooperazione di tutti i soggetti “coinvolti”, a qualsiasi titolo, nel ciclo di gestione non soltanto dei rifiuti ma anche degli stessi “beni da cui originano i rifiuti” e il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 178, comma 3, ha puntualmente ribadito il principio di “responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti”.
Sul punto, pertanto, si è affermato (Sez. 3, 24.02.2004, n. 7746, Turati ed altro) che, in tema di gestione dei rifiuti, le responsabilità per la sua corretta effettuazione, in relazione alle disposizioni nazionali e comunitarie gravano su tutti i soggetti coinvolti nella produzione, distribuzione, utilizzo e consumo dei beni dai quali originano i rifiuti stessi, e le stesse si configurano anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti. Il concetto di “coinvolgimento” trovava specificazione nelle disposizioni poste dal Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 10, ed attualmente Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 188 (fatte salve le ipotesi di concorso di persone nel reato), ma la giurisprudenza di questa Corte Suprema ha specificato che anche la mera osservanza delle condizioni di cui all’articolo 10 non vale ad escludere la responsabilità dei detentori e/o produttori di rifiuti allorquando costoro si siano “resi responsabili di comportamenti materiali o psicologici tali da determinare una compartecipazione, anche a livello di semplice facilitazione, negli illeciti commessi dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti” (vedi Cass., Sez. 3, 06.02.2000, n. 1767, Riva). I principi sopra richiamati risultano sostanzialmente ribaditi anche alla luce del Decreto Legislativo 03.12.2010, n. 205 (articoli 2 e 16).
Come pure affermato in giurisprudenza (cfr. sentenza sez. 3 n. 23971/2011 cit.), non c’e’ dubbio che il reato di cui all’articolo 256 cit., comma 1, non sia un reato proprio non dovendo necessariamente essere integrato da soggetti esercenti professionalmente l’attività di gestione rifiuti, dal momento che la norma fa riferimento a “chiunque”. E’ altrettanto indubitabile, però, che in presenza di una attività di gestione svolta da un’impresa vigono i principi sopra richiamati in ordine alla individuazione dei soggetti responsabili.
Si è così affermato che “in tema di rifiuti la responsabilità per l’attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell’azienda” (in applicazione di tali principi la Corte ha ritenuto "la responsabilità dei titolari di una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi, con automezzo di proprietà della società, in assenza delle prescritte autorizzazioni” cfr. Cass. pen. sez. 3/11.12.2003, n. 47432).
Anche successivamente e’ stato ribadito (cfr. Cass. pen. sez. 3, n. 24736 del 18.05.2007) che “in tema di gestione dei rifiuti, il reato di abbandono incontrollato di rifiuti e’ ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta di abbandono (fattispecie riguardante un autocarro adibito al trasporto di rifiuti abbandonati in modo incontrollato e condotto da un dipendente del titolare dell’impresa)” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2014 n. 40530 - link a http://renatodisa.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per aversi disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone punito ai sensi dell’art. 659 c.p. è necessario che i rumori, gli schiamazzi e le altre fonti sonore indicate nella norma superino la normale tollerabilità ed abbiano attitudine a disturbare un numero indeterminato di persone.
Il ricorso, risultato fondato, deve, pertanto, essere accolto.
Osserva, infatti il Collegio che, per consolidata e temporalmente radicata giurisprudenza di questa Corte, ai fini della integrazione del reato di cui all’articolo 659 c.p., è necessario che i rumori, gli schiamazzi e le altre fonti sonore indicate nella norma superino la normale tollerabilità ed abbiano, anche in relazione allo loro intensità, l’attitudine a propagarsi ed a disturbare un numero indeterminato di persone, e ciò a prescindere dal fatto che, in concreto, alcune persone siano state effettivamente disturbate; invero, trattandosi di reato di pericolo, è sufficiente che la condotta dell’agente abbia l’attitudine a ledere il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, ed è indifferente che la lesione del bene si sia in concreto verificata (Corte di cassazione, Sezione 1 penale, 07.06.1996, n. 5714).
Come è stato più di recente rilevato da questa Corte, l’elemento essenziale della fattispecie di reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone è l’idoneità del fatto ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone e non già l’effettivo disturbo arrecato alle stesse (Corte di cassazione, Sezione 1 penale, 07.01.2008, n. 246).
Deve, peraltro, osservarsi che il reato in questione, pur essendo caratterizzato, come sopra evidenziato, dal fatto di essere un reato di pericolo, e’, tuttavia, un reato di pericolo concreto, nel senso che, sebbene non sia necessaria ai fini della integrazione della fattispecie penale la concreta lesione del bene interesse protetto dalla norma incriminatrice –da individuarsi nel diritto alla quiete nelle proprie occupazioni ed al riposo di una pluralità tendenzialmente ampia ed indeterminata di soggetti e non solo del singolo e ristretto gruppo di individui che per avventura si trovino a soggiornare nei pressi del luogo dal quale originano gli schiamazzi, i rumori o comunque le emissioni sonore di cui alla predetta norma– è, tuttavia, necessario che siffatta idoneità potenziale alla lesione di una indeterminata pluralità di persone si presenti e sia dimostrata in termini di concreta sussistenza.
E’ di tutta evidenza che tale dimostrazione, oltre a poter essere data attraverso misurazioni strumentali che, per la loro obbiettiva pregnanza, potranno essere di per sé indicative della idoneità della fonte sonora a diffondersi in termini di intollerabilità, presso un numero imprecisato di soggetti, potrà essere offerta attraverso la analisi di diversi dati fattuali, quali la ubicazione della fonte sonora, in particolare con riferimento al fatto se la stessa si trovi in un luogo isolato ovvero densamente abitato; l’esistenza o meno di un rilevante rumore di fondo che elida in misura più o meno significativa l’idoneità a diffondere i suoi effetti propria della fonte sonora oggetto della ipotesi accusatoria; il fatto che si tratti di una emissione costante ovvero ripetuta, nel qual caso se siffatta ripetizione è soggetta a periodi costanti, più o meno brevi, ovvero se sia occasionale e sporadica.
E’ sulla base dell’analisi di questi elementi, ed altri di tale genere che sarà compito del giudice del merito di volta in volta enucleare attraverso l’esame del caso di specie, che e’ possibile verificare nel concreto l’attitudine, ancorché solo potenziale, della fonte sonora ad arrecare, oltre il limite della normale tollerabilità, la lesione della quiete e del riposo di un numero indeterminato di persone, rimanendo, invece, eventualmente confinata nel diverso ambito dell’illecito civile, l’ipotesi in cui la lesione dei predetti beni concerna una ridotta ed numericamente ben individuata categoria di soggetti.
A tal proposito è stato rilevato che significativo indice di rilevazione della predetta potenziale idoneità lesiva è dato dalla incidenza del fenomeno “in rapporto alla media sensibilità del gruppo sociale in cui (esso) si verifica, mentre sono irrilevanti e di per sé insufficienti le lamentele di una o più singole persone” (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 31.01.2006, n. 3678).
Nel caso di specie la sentenza impugnata ha fatto derivare la configurabilità del reato esclusivamente ed apoditticamente, nella affermata assenza della necessità di procedere a misurazioni strumentali, dal fatto che presso il cortile della imputata soggiornasse un solo cane –peraltro di taglia e razza imprecisata, sebbene sia di comune esperienza il fatto che la intensità, e pertanto, la attitudine ad arrecare molestia, dei latrati di un cane sia, di regola, direttamente rapportabile alla sua stazza– il quale usava abbaiare al passaggio sulla via di persone o di altri animali.
La inadeguatezza della motivazione della impugnata sentenza emerge in tutta la sua chiarezza ove si rifletta sul dato che in essa non è affatto chiarito se, oltre alla abitazione del querelante-parte civile, ci fossero, limitrofe al cortile della (OMISSIS), altre abitazioni (sulla esigenza, ai fini della integrazione del reato, che il disturbo non riguardi la sola abitazione immediatamente limitrofa a quella ove e’ ubicata la fonte sonora, ma incida su un ambito più ampio, si veda, decisa prima della presente sentenza, sebbene con motivazioni pubblicate successivamente, Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 05.06.2014, n. 23529), quale fosse, ovviamente anche solo in termini di assoluta, ma significativa, approssimazione, la stessa estensione di tale cortile, dato anch’esso certamente non trascurabile ai fini della valutazione della efficacia lesiva dei rumori che dall’interno di esso provenivano, né, infine, è dato conto del fatto se la via sulla quale affacciava tale cortile era o meno caratterizzata da un frequente transito, posto che, essendo i latrati del cane motivati dal passaggio di individui, umani o animali, nei pressi di tale cortile, la loro reiterazione nel tempo non doveva essere indipendente dal numero e dalla frequenza di detti passaggi.
In sostanza nella sentenza impugnata non e’ stata fatta alcuna obbiettiva vantazione sulla entità del fenomeno rumoroso, in relazione alla media sensibilità del gruppo sociale di riferimento, ne’ sulla esistenza di un concreto superamento dei limiti della normale tollerabilità e sulla potenziale idoneità dei rumori a disturbare un numero indeterminato di persone, delle quali è, anzi, in maniera del tutto immotivata stante la apparente assenza di altre lamentele oltre a quella del querelante, affermata la derivante avvenuta “esasperazione”.
Il Tribunale si è, infatti, limitato ad asseverare le indicazioni rivenienti dalla, unica, denunzia-querela presentata dalla parte civile, attribuendo ad essa, in assenza di qualsivoglia elemento corroborante, piena efficacia ai fini della affermazione della penale responsabilità della imputata, senza che il contenuto di tali dichiarazioni sia stato sottoposto a quella penetrante verifica che, secondo l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, ne consente la piana acquisizione come elemento decisivo di prova (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 24.10.2012, n. 41461).
La impugnata sentenza deve, pertanto, essere annullata, con rinvio al Tribunale di Oristano che, nel motivare nuovamente in diversa composizione la propria decisione, si atterrò agli esposti principi di diritto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.09.2014 n. 40329 - link a http://renatodisa.com).

APPALTI: L’evento naturalistico del reato di turbata libertà degli incanti può essere costituito oltre che dall’impedimento della gara anche da un suo turbamento, situazione quest’ultima che si verifica quando la condotta fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla regolare procedura della gara medesima, essendo irrilevante che si produca un’effettiva alterazione dei risultati di essa.
L’ipotesi di cui all’art. 353, comma 2, cod. pen. (concernente la turbata libertà degli incanti commessa da una persona che vi è “preposta dalla legge o dall’autorità”), ha natura di circostanza aggravante del reato, per la quale trova applicazione la disciplina ordinaria del concorso di circostanze di cui all’art. 69 cod. pen..

2. In merito al primo motivo di doglianza, deve essere evidenziato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’evento naturalistico del reato di turbata libertà degli incanti può essere costituito oltre che dall’impedimento della gara anche da un suo turbamento, situazione quest’ultima che si verifica quando la condotta fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla regolare procedura della gara medesima, essendo irrilevante che si produca un’effettiva alterazione dei risultati di essa (Cass. Sez. 6, n. 28970 del 24/04/2013, Sonn, Rv. 255625; Cass. Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami Rv. 254906; Sez. 6, n. 18161 del 05/04/2012, Rv. 252638).
Nella motivazione della ricordata pronuncia n. 28970/2013, resa a seguito di ricorso dell’imputato in procedimento connesso S.B. (che, diversamente da L. , optava per la definizione del procedimento con il rito abbreviato), questa Corte ha svolto le considerazioni di seguito testualmente riportate, che il Collegio ritiene di condividere appieno e di poter fare integralmente proprie, afferendo alla medesima vicenda oggetto del presente procedimento.
Va premesso in diritto che ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 353 cod. pen. si richiede (per quello che qui interessa), la realizzazione di una condotta collusiva, sempre che questa produca l’effetto di impedire o di turbare l’andamento di una gara indetta da una pubblica amministrazione. La fattispecie in esame potrebbe dunque concepirsi come reato di pericolo solo dal punto di vista secondo cui essa è integrata anche senza l’effettivo conseguimento del risultato perseguito dai soggetti agenti colludenti, essendo sufficiente che gli accordi collusivi siano idonei a influenzare l’andamento della gara" (v. tra le altre Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami, Rv. 254906; Sez. 6, n. 12298 del 16/01/2012, Citarella, Rv. 252555; Sez. 6, n. 6883 del 24/06/2011, Actis, n.m.); ma più correttamente essa dovrebbe essere inquadrata nei reati di evento (inteso in senso naturalistico) dovendo essere accertato il verificarsi dell’impedimento della gara o del suo turbamento, e quindi la potenziale incidenza di una simile fraudolenta condotta sul futuro risultato della gara (contra, ma senza considerazione del necessario elemento del “turbamento” della gara, espressamente contemplato dall’art. 353 cod. pen., Sez. 6, n. 20619 del 18/07/2012, Mingoia, n.m.).
Per “collusione” –condotta che viene in rilievo nella concreta fattispecie in esame  deve intendersi qualsiasi rapporto clandestino, intercorrente tra soggetti privati in qualsiasi modo interessati alla gara o tra questi e i preposti alla gara, diretto a influire sull’esito della stessa (Sez. 6, n. 12298 del 16/01/2012, Citarella, cit.; Sez. 6, n. 8443 del 08/05/1998, Misuraca, Rv. 212223).
Per “turbamento” –per quello che si è già notato deve intendersi la influenza della condotta collusiva sulle regolari procedure di gara, essendo irrilevante che il risultato di essa sia o meno conforme a quello che si sarebbe prodotto senza tali interferenze (v. anche Sez. 6, n. 9845 del 16/04/1991, Sciuto, Rv. 188414), perché, come riconosciuto dallo stesso giudice di primo grado, ciò che conta ai fini della configurabilità del reato è “lo sviamento del processo decisionale a individuazione del vincitore”.
3. Ora, va premesso che nella specie non è stato ipotizzato un effetto di “impedimento” della gara, ma solo un suo “turbamento”, e che la condotta contestata, come appena detto, è stata specificamente individuata in un’attività collusiva (intercorrente tra il ricorrente e il L. , esponente di una ditta concorrente), esclusa dunque –e comunque non contestata– ogni altra condotta riconducibile genericamente al genus dei “mezzi fraudolenti” (quali minacce, doni, promesse, o altro); e va ribadito, sulla scorta della costante giurisprudenza, che per la realizzazione del reato non occorre che la condotta collusiva produca effettivamente un risultato di alterazione dei risultati della gara, bastando che questa sia stata “turbata” nel suo regolare svolgimento. Va dunque verificato se sulla base dei dati di fatto accertati dai giudici di merito si sia effettivamente verificata una condotta collusiva, intesa come condotta concretamente idonea a influire sull’esito della gara, e, in secondo luogo, se questa abbia prodotto il contestato turbamento; effetto affermato nella sentenza impugnata e negato dal ricorrente, il quale per il vero contesta addirittura che sia stata realizzata una condotta collusiva, inserendo le iniziative del L. nell’alveo di un concetto di assoluta legittimità (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 29.09.2014 n. 40304 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: L’unico caso in cui il mutamento della destinazione d’uso senza opere può essere liberamente consentito è quello in cui vi sia una totale omogeneità tra la categoria urbanistica di partenza e quella conseguente al mutamento stesso, in modo che non vi sia alcun aggravamento del carico urbanistico esistente.
Venendo ora all’esame del primo motivo di ricorso –relativo al fatto se l’uso foresteria costituisse un mutamento d’uso da alberghiero ad abitativo e se tale mutamento d’uso fosse compatibile con le previsioni degli strumenti urbanistici regionali e comunali– deve rilevarsi che lo stesso non è fondato. Quanto alla compatibilità del mutamento d’uso con la previsione degli strumenti urbanistici comunali, deve farsi richiamo a quanto appena sopra rilevato.
Quanto al sistema normativo regionale, deve sottolinearsi che lo stesso non contiene previsioni che si discostino dai principi applicabili a livello nazionale, secondo cui il mutamento di destinazione d’uso senza opere è assoggettato a d.i.a. (ora s.c.i.a.) purché intervenga nell’ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d’uso sia eseguito nei centri storici, anche all’interno di una stessa categoria omogenea (sez. 3, 13.12.2013, n. 5712/2014, rv. 258686).
Nella Regione Marche, la materia del mutamento della destinazione d’uso nell’ambito di diverse categorie urbanistiche – che implichi, in altri termini, una variazione degli standard previsti dal Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, è disciplinata dalla Legge Regionale n. 14 del 1986, articoli 5 e 6 in senso conforme a quanto previsto in materia dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 32, comma 1, lettera a).
Il richiamato Legge Regionale n. 14 del 1986, articolo 6 prevede, in particolare, che la variazione di destinazione d’uso può essere consentita dai comuni attraverso la predisposizione degli strumenti urbanistici in ambiti determinati dalle singole zone previste dal Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 2. E l’ulteriore disciplina regionale si concentra sul profilo –diverso da quello in esame– del mutamento di destinazione d’uso attraverso la realizzazione di opere edilizie, che è comunque regolamentato in modo analogo (v., in particolare, la Legge Regionale n. 22 del 2009, articolo 2, comma 4, più volte modificato, il quale, in tutte le sue diverse formulazioni, richiama anche per tale fattispecie, la compatibilità con la destinazione di uso prevista dagli strumenti urbanistici e il rispetto degli standard urbanistici di cui al richiamato decreto ministeriale).
Quanto all’evoluzione della disciplina statale riguardante la materia del cambio di destinazione d’uso di immobili o di parti di immobili, è sufficiente fare richiamo alla analitica disamina contenuta nella richiamata sentenza n. 5712 del 2014 (oltre che in sez. 3, 20.01.2009, n. 9894, rv. 243102).
Quanto ai principi attualmente applicabili, va comunque ribadito che la ragione per la quale il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione di opere non costituisce un’attività del tutto priva di vincoli risiede nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le regole generali finalizzate ad assicurare il corretto e ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati della strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato, 25.05.2012, n. 759), potendo risultare pregiudicato anche l’interesse patrimoniale dell’ente, perché gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio dei titoli edilizi contro il pagamento di un minore contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione originaria senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggiore carico urbanistico.
Infatti, la destinazione d’uso individua il bene sotto l’aspetto funzionale, in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dagli strumenti urbanistici in base a standard diversi sotto il profilo qualitativo e quantitativo proprio seconda della diversità delle destinazioni di zona. L’unico caso in cui il mutamento della destinazione d’uso senza opere può essere liberamente consentito è, dunque, quello in cui vi sia una totale omogeneità tra la categoria urbanistica di partenza e quella conseguente al mutamento stesso, in modo che non vi sia alcun aggravamento del carico urbanistico esistente.
Ed è evidente che la modificazione della destinazione d’uso da alberghiera a foresteria non interviene affatto fra due categorie urbanistiche omogenee, perché la locazione ad uso foresteria rientra in tutto e per tutto nella destinazione abitativa, pur rispondendo ad esigenze di destinazione dell’immobile al temporaneo alloggio di soggetti diversi dal conduttore.
Infatti, la distinzione fra locazione abitativa e locazione ad uso foresteria fatta propria dalla disciplina civilistica risponde ad esigenze di tipo sociale legate al “diritto alla casa” e non assume alcuna rilevanza ai fini penali, perché si tratta comunque in entrambi i casi di locazioni finalizzate a soddisfare esigenze abitative che si differenziano solo sul piano soggettivo, con identico carico urbanistico: da un lato, le esigenze dello stesso conduttore; dall’altro, le esigenze di ospiti o dipendenti del conduttore (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2014 n. 39897 - link a http://renatodisa.com).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, onorari ingabbiati. Conta il valore della lite, non quello della domanda. CASSAZIONE/ I giudici sottolineano l'orientamento consolidato in giurisprudenza.
Circa le modalità di determinazione dell'onorario dell'avvocato, il giudice deve rapportarsi al valore effettivo della controversia e non a quello della domanda azionata in giudizio.

Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. della Corte di Cassazione, con sentenza 25.09.2014 n. 20302.
I giudici di piazza Cavour hanno sottolineato come l'applicazione del predetto criterio trova conforto nell'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, a differenza di quanto accade nella liquidazione delle spese a carico della parte soccombente (ai fini della quale il comma primo dell'art. 6 della tariffa forense allegata al dm n. 585/1994, impone di avere riguardo al valore della causa determinato a norma del codice di procedura civile, ferma restando, nei giudizi aventi a oggetto il pagamento di somme o la liquidazione di danni, la necessità di fare riferimento alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata), nei rapporti tra l'avvocato e il cliente sussiste sempre la possibilità di un concreto adeguamento degli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione rispetto a quello determinato in base alle norme del codice di rito.
Tale orientamento, a parere della Suprema corte «trova giustificazione in un'interpretazione sistematica dei commi secondo e quarto dell'art. 6, conforme al principio generale di proporzionalità e adeguatezza degli onorari di avvocato alla opera professionale effettivamente prestata, in virtù della quale il richiamo della prima disposizione al valore presunto a norma del codice di procedura civile, da intendersi riferito a tutte le regole da quest'ultimo dettate per la determinazione del valore della controversia, non esclude l'attribuzione al giudice di una generale facoltà discrezionale di adeguare la misura dell'onorario all'effettiva importanza della prestazione (...). L'esercizio della predetta facoltà non incontra un limite nella diversità della funzione esercitata dal giudice delegato al fallimento rispetto a quella svolta dal giudice chiamato a decidere una controversia tra avvocato e cliente, trattandosi in entrambi i casi di procedere alla liquidazione del corrispettivo dovuto per l'attività svolta in esecuzione del contratto di prestazione d'opera professionale, per la quale la tariffa non prevede criteri differenziati a seconda del soggetto in favore del quale sia stata prestata la predetta attività» (articolo ItaliaOggi Sette del 27.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Dichiarazione inizio attività, abuso edilizio, ordine di demolizione, termine.
L’Amministrazione comunale che, anziché procedere, come dovrebbe, all’annullamento d’ufficio, ai sensi dell’art. 21-nonies, L. n. 241 del 1990, della d.i.a. ritenuta illegittima, provveda direttamente, senza alcuna motivazione ulteriore rispetto alla ritenuta illegittimità delle opere eseguite, ad ordinare la sospensione dei lavori e la rimozione degli interventi realizzati, viola le garanzie previste dall’art. 19, L. n. 241 del 1990 che, in presenza di una d.i.a. illegittima, consente certamente all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di cui all’art. 23, co. 6, d.P.R. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge subordina il potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
---------------
(*) Riferimenti normativi: artt. 19, 21-nonies, L. 07.08.1990, n. 241; artt. 22, co. 2, lett. a)-23, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.09.2014 n. 4780 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d’uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne come nel caso di realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d’uso.
Tanto precisato, questa Corte ha affermato che, in materia di impugnazioni cautelari reali, il ricorso per cassazione è consentito solo per violazione di legge contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, con la conseguenza che, in ordine a tali “regiudicande cautelari”, la motivazione del provvedimento impugnato è sindacabile in sede di legittimità esclusivamente nei casi in cui essa sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda processuale e l’itinerario logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato.
Affinché sia pertanto predicabile la “violazione di legge”, è necessario cioè che siano riscontrabili, nel provvedimento impugnato ai sensi dell’articolo 325 cod. proc. pen., vizi in iudicando o in procedendo ovvero vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692).
Nel caso di specie, la motivazione del tribunale distrettuale non si sottrae alla censura consentita col mezzo di impugnazione azionato (articolo 325 cod. proc. pen.) ed il ricorrente fondatamente lamenta la mancanza assoluta di motivazione, e dunque la violazione di legge, in presenza di una ratio decidendi che ha eluso i punti decisivi sulla cui base il Gip aveva ritenuto di configurare il fumus commissi delicti.
Nessuna motivazione infatti sul mutamento della destinazione d’uso in relazione agli aspetti fattuali della vicenda enunciati nell’imputazione cautelare e tutti sintomatici di un cambiamento della destinazione d’uso dei locali attinti dall’intervento (per aumento di volume, di superficie, di realizzazione di opere interne non consentite e propedeutiche alla variazione dell’uso).
Si deve allora ricordare che questa Sezione ha chiarito che, in tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d’uso e’ integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne come nel caso di mutamento in abitazione del sottotetto mediante la predisposizione di impianti tecnologici (Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altri, Rv. 247919) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.09.2014 n. 37862 - link a http://renatodisa.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico ufficiale, costrizione, abuso di potere, concussione, aggravante.
L'abuso è lo strumento attraverso il quale l'agente pubblico innesca il processo causale che conduce all'evento terminale: il conseguimento dell'indebita dazione o promessa con la conseguenza che la condotta tipica delle due figure criminose della concussione o della induzione indebita non risiede, quindi, esclusivamente nella costrizione o nella induzione bensì primariamente nell'abuso, che è legato da nesso di causalità con lo stato psichico determinato nel soggetto privato ed è idoneo, in ulteriore sequenza causale e temporale, a provocare la dazione o la promessa dell'indebito.
Ne consegue che è configurabile il reato di concussione quando la costrizione del pubblico ufficiale si concretizzi nel compimento di un atto o di un comportamento del proprio ufficio, strumentalizzato per perseguire illegittimi fini personali, mentre sussiste il delitto di estorsione aggravata ai sensi dell'art. 61, n. 9 c.p. quando l'agente ponga in essere, nei confronti di un privato, minacce diverse da quelle consistenti nel compimento di un atto o di un comportamento del proprio ufficio, sicché la qualifica di pubblico ufficiale si pone in un rapporto di pura occasionalità, avente la funzione di rafforzare la condotta intimidatoria nei confronti del soggetto passivo
(1)

---------------
(*) Riferimenti normativi: artt. 61, n. 9, artt. 317 e 319-quater c.p.
(1) Cfr. Cass. Pen, SS.UU., sentenza 14.03.2014 n. 12228
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.09.2014 n. 37839 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Il criterio della prevenzione, quale si evince dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c., è derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che, tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal confine.
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli articoli 872, 873 e 875 c.c. e del regolamento edilizio del Comune di (OMISSIS) emanato nell’anno 1955.
Adducono che “la circostanza che nella specie il regolamento edilizio della (OMISSIS) del 1955, dopo la norma posta dalla Corte genovese a fondamento della sentenza…, prevedesse che “è permessa la costruzione a muro cieco sul confine” impone di ricondurre la fattispecie nell’ambito di applicazione del criterio della prevenzione” (così ricorso, pag. 8), cosicché “l’attivita’ edilizia degli appellati (OMISSIS) e (OMISSIS) sarebbe… legittima” (così ricorso, pag. 8).
Il motivo è destituito di fondamento.
E’ bastevole, da un canto, reiterare gli insegnamenti di questa Corte (il riferimento è a Cass. 11.08.1990, n. 8222), alla cui stregua il criterio della prevenzione, quale si evince dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c., è derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che, tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal confine.
E’ bastevole, dall’altro, evidenziare che i medesimi ricorrenti riconoscono che il piano regolatore generale del comune di (OMISSIS) –da applicare al caso di specie– prefigurava la distanza di m. 4 dal confine ed ancora che è fuor di discussione, siccome il secondo giudice ha evidenziato, che “l’ampliamento –per una larghezza di cm. 192 dal filo del preesistente fabbricato– si spinge fino a cm. 173 dal confine col terreno mappale 1237 degli attori” (così sentenza d’appello, pag. 5) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.09.2014 n. 19408 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 27 della L. n. 865 del 1971 affida la gestione ai Comuni che devono recuperare i costi sostenuti per gli espropri e le urbanizzazioni, sicché il contributo dovuto non è calcolato sulla base delle tabelle, come assume il giudice di primo grado, ipotesi che invece si ha per l’intervento diretto collegato ad un permesso a costruire, nel quale il Comune deve recuperare integralmente il costo delle urbanizzazioni ovvero le opere realizzate dai privati che vengono cedute all’Ente.
Il Comune deve recuperare dai privati gli esborsi affrontati per l’esproprio delle aree e per la realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Nella specie il contributo di urbanizzazione è commisurato al costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi concretamente nella zona, e differisce dal contributo da pagare all’atto del rilascio della concessione di costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un corrispettivo delle spese che la collettività si addossa per il conferimento al privato della facoltà di edificazione e dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della trasformazione.
Trattandosi di due istituti diversi ne derivano oneri diversi, l’uno relativo al costo sostenuto per rendere urbanizzata ed edificabile la singola area, l’altro relativo ad un contributo, di carattere tributario volto alla realizzazione del generale assetto urbanistico del territorio comunale.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, invero, sancito che il rimborso dei costi reali per le opere di urbanizzazione realizzate dal Comune è previsto in diritto di superficie di un lotto P.E.E.P ceduto o assegnato, ma non come contributo per il rilascio della cessione edilizia, che segue sempre i parametri tabellari (cfr. dec. n. 462 del 1997 cit.).
Il contributo per il rilascio della concessione edilizia imposto dalla L. 28.01.1977 n. 10, commisurato agli oneri di urbanizzazione, ha carattere generale, in quanto prescinde totalmente dall’esistenza o meno delle singole opere di urbanizzazione, ha natura di prestazione patrimoniale imposta e viene determinato senza tener conto dell’utilità che riceve il beneficiario del provvedimento di concessione né delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione relative alla concessione assentita, mentre ha diversa natura il rimborso delle spese di urbanizzazione effettivamente sostenute dall’Amministrazione comunale, ai sensi dell’art. 35, XII comma, L. 22.10.1971, n. 865, essendo rivolto a determinare il prezzo di cessione ossia a reintegrare il Comune del costo sostenuto per l’espropriazione, l’urbanizzazione e l’ulteriore trasferimento dell’area.

Il motivo è fondato.
La norma regolamentare e la richiesta dell’amministrazione sono legittime. Invero, l’art. 27 della L. n. 865 del 1971 affida la gestione ai Comuni che devono recuperare i costi sostenuti per gli espropri e le urbanizzazioni, sicché il contributo dovuto non è calcolato sulla base delle tabelle, come assume il giudice di primo grado, ipotesi che invece si ha per l’intervento diretto collegato ad un permesso a costruire, nel quale il Comune deve recuperare integralmente il costo delle urbanizzazioni ovvero le opere realizzate dai privati che vengono cedute all’Ente.
Il Comune deve recuperare dai privati gli esborsi affrontati per l’esproprio delle aree e per la realizzazione delle opere di urbanizzazione (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 16.12.1983 n. 26; Cons. St., sez. IV, 26.01.2009, n. 421; Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n. 462; Cass. Civ., sez. I, 07.02.2007, n. 2706).
Nella specie il contributo di urbanizzazione è commisurato al costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi concretamente nella zona, e differisce dal contributo da pagare all’atto del rilascio della concessione di costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un corrispettivo delle spese che la collettività si addossa per il conferimento al privato della facoltà di edificazione e dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della trasformazione.
Trattandosi di due istituti diversi ne derivano oneri diversi, l’uno relativo al costo sostenuto per rendere urbanizzata ed edificabile la singola area, l’altro relativo ad un contributo, di carattere tributario volto alla realizzazione del generale assetto urbanistico del territorio comunale (cfr. Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n. 462; Cons. St., sez. V, 26.07.1985, n. 263). La giurisprudenza di questo Consiglio ha, invero, sancito che il rimborso dei costi reali per le opere di urbanizzazione realizzate dal Comune è previsto in diritto di superficie di un lotto P.E.E.P ceduto o assegnato, ma non come contributo per il rilascio della cessione edilizia, che segue sempre i parametri tabellari (cfr. dec. n. 462 del 1997 cit.).
Il contributo per il rilascio della concessione edilizia imposto dalla L. 28.01.1977 n. 10, commisurato agli oneri di urbanizzazione, ha carattere generale, in quanto prescinde totalmente dall’esistenza o meno delle singole opere di urbanizzazione, ha natura di prestazione patrimoniale imposta e viene determinato senza tener conto dell’utilità che riceve il beneficiario del provvedimento di concessione né delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione relative alla concessione assentita, mentre ha diversa natura il rimborso delle spese di urbanizzazione effettivamente sostenute dall’Amministrazione comunale, ai sensi dell’art. 35, XII comma, L. 22.10.1971, n. 865, essendo rivolto a determinare il prezzo di cessione ossia a reintegrare il Comune del costo sostenuto per l’espropriazione, l’urbanizzazione e l’ulteriore trasferimento dell’area (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.09.2014 n. 4687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincoli paesistici, con condono procedura ordinaria.
I passaggi procedimentali del vincolo paesistico restano quelli della procedura ordinaria. Soprattutto il vista del condono. Nel periodo transitorio (fino al 31 dicembre 2009), inoltre, questi si articolavano nel parere di compatibilità espresso dagli uffici comunali (avente funzione di autorizzazione paesistica postuma) e nel controllo di legittimità della Soprintendenza.

A stabilirlo, i giudici della I Sez. del TAR Lombardia-Brescia, con sentenza 15.09.2014 n. 992.
I giudici bresciani hanno osservato che secondo un orientamento giurisprudenziale (Tar Brescia, prima sezione, 04.10.2010, n. 3726) è necessario assicurare le garanzie procedimentali, in particolare, per evitare annullamenti adottati solo in via cautelativa nei casi dubbi (ad esempio, a fronte di difficoltà di interpretazione dell'intervento edilizio o per insufficienza della documentazione allegata), ammettendo, parallelamente, la prova di resistenza prevista dall'art. 21-octies, comma 2, secondo periodo della legge 241/1990.
Un altro orientamento (v. Cds Sez. VI, 09.07.2013 n. 3616), invece, sottolinea che il controllo di legittimità esercitato dalla Soprintendenza ai sensi dell'art. 159, comma 3, del dlgs 42/2004 (nel regime transitorio) è rigidamente contenuto nei termini assegnati e, dunque, incompatibile con un'ampia interlocuzione con i privati. Questi ultimi sono informati soltanto della trasmissione alla Soprintendenza del provvedimento comunale contenente la valutazione paesistica e, dunque, sanno che entro un breve termine vi sarà certezza giuridica sull'ammissibilità (e nello specifico sulla sanabilità) dell'intervento edilizio.
I giudici amministrativi lombardi hanno, inoltre, evidenziato che «nel caso di abusi realizzati in aree vincolate, l'art. 32, comma 1, della legge 28.02.1985 n. 47, subordina il condono al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo». La formula usata dal legislatore è generica, in quanto ha la funzione di richiamare la disciplina di settore relativa a ogni particolare tipologia di vincolo.
«Il fine della norma», continuano i giudici, «è evidentemente quello di sottoporre le opere abusive a una valutazione di compatibilità con i vincoli esistenti in una determinata zona. L'esito favorevole di tale valutazione implica il rilascio di un'autorizzazione postuma con effetto sanante, ferma restando la necessità di versare le somme stabilite dall'amministrazione a titolo di indennizzo per l'originaria violazione del vincolo» (articolo ItaliaOggi del 29.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione delle opere abusive è sottratto alla regola del giudicato, sicché ne è sempre possibile la revoca (in presenza di atti amministrativi incompatibili con la sua esecuzione) ovvero la sospensione (quando sia ragionevolmente prospettabile che, nell’arco di tempi brevissimi, la P.A. adotterà un provvedimento incompatibile con la demolizione).
Ne consegue che non è sufficiente a neutralizzarlo la possibilità che in tempi lontani e non prevedibili potranno essere emanati atti amministrativi favorevoli al condannato, in quanto non è possibile rinviare a tempo indeterminato la tutela degli interessi urbanistici che l’ordine di demolizione mira a reintegrare.

1. Il ricorso e’ inammissibile per la genericità e la manifesta infondatezza del motivo dedotto.
2. Il motivo di ricorso, sul presupposto della natura amministrativa dell’ordine di demolizione, si diffonde nell’analisi del rapporto di incompatibilità tra detto ordine e provvedimenti della giustizia amministrativa incompatibili con la sua esecuzione, evidenziando come la pendenza del ricorso amministrativo diretto ad ottenere l’annullamento del provvedimento di demolizione imponga al giudice penale di sospenderne l’esecuzione o di revocarlo nel caso di esito favorevole del giudizio promosso innanzi alla giurisdizione amministrativa e censurando perciò l’impugnata ordinanza emessa dalla Corte di appello di Napoli di rigetto dell’istanza.
Sennonché’ il motivo di ricorso è del tutto disancorato dalla ratio decidendi dell’impugnata ordinanza e non attacca minimamente il punto della decisione con il quale la Corte territoriale ha rigettato l’istanza.
Va allora ricordato come la Corte di appello abbia tenuto ben presente la natura amministrativa dell’ordine di demolizione ed i riflessi che su di esso possono scaturire nell’ipotesi di impugnativa innanzi alla giurisdizione amministrativa, dando atto come la ricorrente avesse presentato ricorso al TAR Campania, chiedendo la sospensione della ingiunzione amministrativa emessa in riferimento al medesimo abuso edilizio già giudiziariamente accertato.
Ha tuttavia precisato come, in tema di reati edilizi, l’ordine di demolizione si sottragga alla regola del giudicato e tuttavia non è sufficiente a neutralizzarlo la possibilità che in tempi lontani e non prevedibili potranno essere emanati atti amministrativi favorevoli al condannato, in quanto non è possibile rinviare a tempo indeterminato la tutela degli interessi urbanistici che l’ordine di demolizione mira a reintegrare ed ha aggiunto che, nel caso di specie, il ricorso proposto innanzi alla giurisdizione amministrativa è stato dichiarato perento, con la conseguenza che non sussiste alcuna causa di incompatibilità sopravvenuta tra l’ordine di demolizione emesso dal giudice penale ed eventuali provvedimenti amministrativi non allegati e di non prevedibile emissione.
Rispetto a ciò, la ricorrente nulla ha obiettato neppure con riferimento alla perenzione del ricorso amministrativo.
Da un lato, quindi, il motivo di ricorso è aspecifico perché non critica il punto centrale della ratio decidendi dell’ordinanza impugnata, laddove è stato ribadito che non è possibile rinviare sine die la tutela degli interessi urbanistici, che l’ordine di demolizione mira a reintegrare, quando non sia possibile prevedere che in tempo rapidi possa intervenire una pronuncia in via amministrativa che si ponga in insanabile contratto con la pronuncia penale, circostanza peraltro da escludere in considerazione dell’intervenuta perenzione del ricorso amministrativo, e, dall’altro, è manifestamente infondato perché la Corte del merito nell’affermare il richiamato principio di diritto si e’ uniformata alla consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’ordine di demolizione delle opere abusive è sottratto alla regola del giudicato, sicché ne è sempre possibile la revoca (in presenza di atti amministrativi incompatibili con la sua esecuzione) ovvero la sospensione (quando sia ragionevolmente prospettabile che, nell’arco di tempi brevissimi, la P.A. adotterà un provvedimento incompatibile con la demolizione).
Ne consegue che non è sufficiente a neutralizzarlo la possibilità che in tempi lontani e non prevedibili potranno essere emanati atti amministrativi favorevoli al condannato, in quanto non è possibile rinviare a tempo indeterminato la tutela degli interessi urbanistici che l’ordine di demolizione mira a reintegrare (ex multis, Sez. 3, n. 38997 del 26/09/2007, Di Somma, Rv. 237815) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.09.2014 n. 37473 - link a http://renatodisa.com).

PUBBLICO IMPIEGOSul piano normativo ai fini dell’art. 323 c.p. rileva la palese violazione dell’art. 97 Cost. nella parte immediatamente precettiva, che impone, come si è innanzi sottolineato, a ogni funzionario pubblico, nell’esercizio delle proprie funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi patrimoniali ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni, come quelli che, secondo la motivata ricostruzione dei giudici del merito, hanno caratterizzato la vicenda in questione ad opera dell’imputato.
Sono infondati anche gli altri tre motivi.
Il primo motivo è infondato perché risulta in diritto corretta la deliberazione d’appello che, dopo aver attribuito a mero sviamento del potere lo spostamento del M. ad altro ufficio, lo ha giudicato per sé idoneo ad integrare la violazione di legge con diretto riferimento al precetto posto dall’art. 97 Cost. Sul punto, questa Corte condivide e conferma le ragioni in diritto già con esemplare chiarezza esposte, tra le altre (v. anche Sez. 6 sent. 12370/2013), in Sez.6 sent. 34086/2013: “é vero che, per effetto delle modifiche introdotte dalla L. 16.07.1997, n. 234, art. 1, la disposizione de qua è stata formulata in termini di maggiore tassatività, sì da limitare i rischi di letture esegetiche arbitrarie. Ma è anche vero che, per un verso, il legislatore della novella non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 c.p. ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto amministrativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione" (in questo senso Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi, Rv. 251498).
E che, per altro verso, il legislatore della riforma ha voluto, comunque, garantire un’adeguata tutela dell’interesse giuridico protetto in relazione a tutte quelle condotte che si pongono in contrasto con disposizioni di legge o di regolamento a contenuto precettivo, con esclusione, perciò, delle sole disposizioni che si limitano ad enunciare principi o valori. In tale ottica, secondo l’orientamento oramai maggioritario di questa Corte il requisito della violazione di norme di legge ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.
Anche nell’art. 97 Cost., “che pur detta principi di natura programmatica, è individuabile un residuale significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per il reato di abuso d’ufficio. L’imparzialità a cui fa riferimento l’art. 97 Cost. consiste, infatti, nel divieto di favoritismi, nell’obbligo cioè per la Pubblica Amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelati alla stessa maniera, conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive. In sostanza, il principio d’imparzialità, se riferito all’aspetto organizzativo della Pubblica Amministrazione, ha certamente una portata programmatica e non rileva ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, in quanto detto principio generale deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione; lo stesso principio, invece, se riferito all’attività concreta della Pubblica Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni personali che confliggono con l’interesse generale della collettività, assume i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione” (così, tra le molte, Sez. 6, n. 25180 del 12/06/2012, D’Emma, Rv. 253118; Sez. 6, n. 27453 del 17/02/2011, Acquistucci, Rv. 250422; Sez. 2, n. 35048 de. 10/06/2008, Masucci, Rv. 243183; Sez. 6, n. 25162 del 12/2/2008, Sassara, Rv. 239892)”.
Le considerazioni che precedono, prospettate in ipotesi di condotta finalizzata a favoritismi o privilegi, rilevano ovviamente anche per quelle finalizzate a realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni (Sez. 6 sent. 42215/2012: “sul piano normativo ai fini dell’art. 323 c.p. rileva la palese violazione dell’art. 97 Cost. nella parte immediatamente precettiva, che impone, come si è innanzi sottolineato, a ogni funzionario pubblico, nell’esercizio delle proprie funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi patrimoniali ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni, come quelli che, secondo la motivata ricostruzione dei giudici del merito, hanno caratterizzato la vicenda in questione ad opera dell’imputato”) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 09.09.2014 n. 37373 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla nozione di "edificio circostante".
Circa il D.M. n. 1444 del 1968 l’orientamento qui riproposto dell’appellante, per cui nel conteggio in questione si debba invece tenere conto delle altezze unicamente degli edifici circostanti nel senso di limitrofi, è da ritenersi preferibile.
In questo senso, anzitutto in applicazione del criterio letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi), si osserva che locuzione “edifici circostanti” indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area oggetto del permesso; per contro, se il pianificatore avesse voluto riferirsi non solo agli edifici contornanti ma ad ulteriori e più distanti edifici, avrebbe associato il termine circostante ad ulteriori concetti come zona o fasce territoriale o comparto ecc…, indicando peraltro anche l’estensione del limite da prendere in considerazione, in assenza del quale, da un punto di vista geometrico, tutto può definirsi ad esso contornante rispetto al punto di riferimento.
Ma anche la “ratio” che la giurisprudenza ha individuato in norme del tipo in esame (e dalla quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi) induce a privilegiare la tesi sostenuta dall’appello. Ed invero la Sezione, in analoga fattispecie, ha già affermato che “laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione”.

L’appello è fondato.
Come riferisce lo stesso giudice di prime cure, in tema di osservanza delle altezze il ricorso aveva sostenuto la violazione dell’art. 62 delle N.T.A. del P.R.G., in quanto tale norma prevedrebbe un’altezza massima degli edifici siti in zona B2, che deve essere “pari all’altezza media degli edifici esistenti al contorno e comunque non superiore a 13,50 ml.”.
Poiché detta tale misura media è di ml. 8,44, il permesso di costruire impugnato avrebbe dovuto essere ritenuto illegittimo per aver assentito un fabbricato di altezza pari a ml. 11,88. In altri termini, secondo questa tesi, il computo dell’altezza, deve prendere in considerazione gli edifici limitrofi.
Sul punto il TAR ha invece ritenuto che detta disposizione “debba essere interpretata conformemente alla fonte normativa statale di riferimento: il D.M. n. 1444 del 1968, che, a sua volta, proprio in relazione al concetto di “altezza media degli edifici circostanti”, ha incluso, tra essi, non solo quelli effettivamente confinanti con quello la cui altezza è da misurare, ma anche quelli ubicati in prossimità dello stesso”.
Ad avviso del Collegio, l’orientamento qui riproposto dell’appellante, per cui nel conteggio in questione si debba invece tenere conto delle altezze unicamente degli edifici circostanti nel senso di limitrofi, è da ritenersi preferibile. In questo senso, anzitutto in applicazione del criterio letterale (privilegiato dall’art. 12 delle preleggi), si osserva che locuzione “edifici circostanti” indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all’area oggetto del permesso; per contro, se il pianificatore avesse voluto riferirsi non solo agli edifici contornanti ma ad ulteriori e più distanti edifici, avrebbe associato il termine circostante ad ulteriori concetti come zona o fasce territoriale o comparto ecc…, indicando peraltro anche l’estensione del limite da prendere in considerazione, in assenza del quale, da un punto di vista geometrico, tutto può definirsi ad esso contornante rispetto al punto di riferimento.
Ma anche la “ratio” che la giurisprudenza ha individuato in norme del tipo in esame (e dalla quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi) induce a privilegiare la tesi sostenuta dall’appello. Ed invero la Sezione, in analoga fattispecie, ha già affermato che “laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (così Consiglio Stato sez. V, 21.10.1995, n. 1448)” (Cons. di Stato, sez. IV, n. 3184/2013) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.09.2014 n. 4553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di distanze legali fra edifici, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando la modifica della volumetria del fabbricato con aumento della sagoma di ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta alla disciplina sulle distanze legali in vigore al momento della sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale normativa sia diversa da quella prevista per la costruzione originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in allineamento con l’originaria costruzione, non trovando applicazione il criterio della prevenzione, che –nel caso di costruzione sul confine– impone a colui che edifica per primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a distanza non inferiore a quella legale, in modo da non costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile a linea spezzata.
Fondato e meritevole di accoglimento è il primo motivo del ricorso principale.
È bastevole reiterare l’insegnamento di questa Corte alla cui stregua, in materia di distanze legali fra edifici, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando la modifica della volumetria del fabbricato con aumento della sagoma di ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta alla disciplina sulle distanze legali in vigore al momento della sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale normativa sia diversa da quella prevista per la costruzione originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in allineamento con l’originaria costruzione, non trovando applicazione il criterio della prevenzione, che –nel caso di costruzione sul confine– impone a colui che edifica per primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a distanza non inferiore a quella legale, in modo da non costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile a linea spezzata (cfr. Cass. 12.01.2005, n. 400; cfr. altresì Cass. 03.01.2011, n. 74, secondo cui in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione; ad essa, pertanto, è applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione).
In questo quadro si da atto che i medesimi controricorrenti riferiscono e non disconoscono che il “regolamento edilizio del Comune di Castel S. Angelo, adottato dal Comune con delibera Consiliare n. 62 del 14/1076 e approvato dalla Regione Lazio con delibera n. 2452 del 06/06/1978… per la zona C1 prevede una distanza di m. 5,00 dai confini interni e di 10 m. dagli altri fabbricati con possibilità di costruire in aderenza in presenza di una convenzione tra i privati” (così memoria ex art. 378 c.p.c. diparte controricorrente, pag. 5).
Ne discende, naturaliter, che del tutto infondato è l’assunto degli stessi T.B. e R. secondo cui “potevano senz’altro sopraelevare il proprio fabbricato… in aderenza in un lotto nel quale si è già costruito sulla linea di confine” (così memoria ex art. 378 c.p.c. di parte controricorrente, pag. 6).
Fondato e meritevole di accoglimento è parimenti il secondo motivo del ricorso principale.
Vero è, certo, che questa Corte spiega che la disposizione normativa di cui all’art. 873 c.c., dettata in tema di distanze tra fabbricati e diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitanti (tale, pertanto, da consentire anche una più rigorosa valutazione in sede locale), non ha alcuna correlazione con la norma di cui all’art. 905 c.c., relativa alla distanza delle vedute e volta, dal suo canto, a salvaguardare il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili mediante la realizzazione e l’uso di un'”opera obbiettivamente destinata a tale scopo” (cfr. Cass. 26.02.2001, n. 2765).
Nondimeno questa Corte esplicita altresì che siffatto postulato esegetico opera a condizione che la maggior distanza tra costruzioni imposta dai regolamenti locali non sia riferita, specificamente, anche al confine, ma risulti sancita in via assoluta, indipendentemente dalla dislocazione delle costruzioni nei rispettivi fondi (cfr. Cass. 26.02.2001, n. 2765, ove si soggiunge che, al di fuori dell’ipotesi in cui la distanza sia riferita in modo specifico anche al confine, la distanza delle vedute dal confine stesso deve intendersi regolata, in via esclusiva, dalla norma di cui all’art. 905 c.c., non potendo una norma sulla distanza sui fabbricati incidere, ex se, su quelle relative alle vedute; cfr. anche Cass. 27.01.1988, n. 741).
Ebbene si è premesso –in sede di disamina del primo motivo del ricorso principale– che il regolamento edilizio del Comune di Castel S. Angelo consente di costruire sul confine esclusivamente in presenza di un accordo tra i privati confinanti, sicché, in assenza, impone l’osservanza della distanza di m. 5 dal confine.
In questi termini risulta del tutto ingiustificato l’assunto di parte controricorrente secondo cui nella fattispecie non è utilizzabile la diversa disciplina di cui all’art. 873 c.c. (cfr. memoria ex art. 378 c.p.c. di parte controricorrente, pag. 7) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.09.2014 n. 18889 - link a http://renatodisa.com).

AMBIENTE-ECOLOGIANon risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore del locale che abbia esercitato correttamente i poteri di controllo e, ciononostante, non sia riuscito ad impedire gli schiamazzi avvenuti all’esterno dell’esercizio commerciale.
3. Nella fattispecie in esame non è in discussione che gli schiamazzi, le urla e le risate dei soggetti che stazionavano all’esterno degli esercizi pubblici, ubicati in via (omissis), fossero tali da disturbare, in orario notturno, il riposo degli abitanti nella zona e quindi ad offendere la “quiete pubblica”.
La particolarità della fattispecie è però rappresentata dal fatto che il fumus del reato di cui all’art. 659 c.p. non è stato ritenuto configurabile nei confronti dei soggetti “autori” degli schiamazzi e dei rumori, ma a carico dei gestori degli esercizi pubblici esistenti in via (omissis).
3.1. La giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente affermato che il gestore di un esercizio commerciale è responsabile del reato di cui all’art. 659 comma 1 c.p. per i continui schiamazzi e rumori provocati dagli avventori dello stesso, con disturbo delle persone. Infatti la qualità di titolare della gestione dell’esercizio pubblico comporta l’assunzione dell’obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di sicurezza (cf. Cass. sez. 1 n. 16886 del 28.02.2003; Cass. sez. 1 n. 17779 del 27.03.2008; Cass. sez. 1 n. 40004 del 30.09.2009). Perché, però, l’evento possa essere addebitato al gestore dell’esercizio commerciale è necessario che esso sia riconducibile al mancato esercizio del potere di controllo e sia quindi collegato da nesso di causalità con tale omissione.
Laddove gli schiamazzi o i rumori avvengano all’interno dell’esercizio non c’è dubbio che il gestore abbia la possibilità di assolvere l’obbligo di controllo degli avventori, impedendo loro comportamenti che si pongano in contrasto con le norme di polizia di sicurezza, ricorrendo, ove necessario, al c.d. ius excludendi.
Si è così ritenuto che risponda del reato di cui all’art. 659 c.p. il gestore di un locale pubblico che ometta di ricorrere “ai vari mezzi offerti dall’ordinamento come l’attuazione dello ius excludendi e il ricorso all’autorità” ad evitare “che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica” (Cass. pen. Sez. 1 n. 48122 del 03.12.2008; Cass. Pen. Sez. 6 n. 7980 del 24.05.1993). Se, invece, il disturbo del riposo e delle occupazioni da parte degli avventori dell’esercizio pubblico avvenga all’esterno del locale, per poter configurare la responsabilità del gestore è necessario provare, rigorosamente, che egli non abbia esercitato il potere di controllo e che a tale omissione sia riconducibile la verificazione dell’evento.
3.2. Come ha evidenziato il Tribunale, dagli atti non emerge neppure il “fumus” del reato ipotizzato, essendo stato soltanto accertato che, all’esterno dei locali, stazionavano numerosi giovani che si trattenevano a consumare bevande, dando luogo a “schiamazzi, urla e risate” (pag. 6 ordinanza). Ed ha sottolineato il Tribunale che i gestori non avevano alcun potere per impedire siffatti schiamazzi sulla pubblica via o almeno a persuadere i soggetti “a tenere un tono di voce più moderato”, essendo essi “sforniti di qualsiasi potere coercitivo in caso di rifiuto”.
Neanche con il ricorso vengono prospettati elementi che possano ricondurre l’evento alla omissione dei controlli da parte dei gestori. Il P.M., dopo aver ricordato che rientrano tra i doveri dei predetti quello di “adottare tutte le iniziative per lui possibili (ad impossibilia nemo tenetur) per evitare l’insorgere della situazione antigiuridica”, si limita ad affermare che una condotta, rientrante nei poteri dei gestori, che “avrebbe potuto avere effetti risolutivi” era rappresentata dalla somministrazione delle bevande in bicchieri di vetro, vale a dire in recipienti non da asporto (pag. 4 ricorso).
A parte il fatto che trattasi di circostanza fattuale non emergente dagli atti, non risultando accertato se e a quali avventori e da parte di quali gestori sia avvenuta la somministrazione in bicchieri da asporto, del tutto apoditticamente si assume il carattere risolutivo di tale comportamento (peraltro lo stesso ricorrente fa ricorso al “condizionale”).
Inoltre, come evidenziano i ricorrenti nelle memorie depositate, neppure si poteva addebitare ai gestori di non aver fatto ricorso all’Autorità di P.S. per far cessare le condotte poste in essere dagli avventori (peraltro all’esterno del locale), avendo la Polizia municipale di Firenze effettuato numerosi sopralluoghi e verifiche, senza però impedire il perpetuarsi di quelle condotte o quanto meno sanzionarle (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 05.09.2014 n. 37196 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’osservanza delle distanze legali tra costruzioni finitime, non assume rilevanza la circostanza che il nuovo manufatto non risulti in regola con i permessi amministrativi bensì il solo fatto che la violazione dei limiti privatistici ad esso ricondotta sia effettivamente sussistente.
1 – Con il primo motivo del ricorso della (OMISSIS) – che trova perfetta corrispondenza argomentativa nel primo mezzo del ricorso incidentale della società (OMISSIS) – si assume la violazione o la falsa applicazione dei confini applicativi dell’articolo 872 cod. civ. per aver ritenuto, la Corte territoriale, da un lato di accogliere il terzo motivo dell’appello incidentale della esponente –affermando dunque l’assenza di violazione sulle distanze– salvo poi a mantener ferma la decisione del Tribunale sul diverso presupposto della mancata regolarizzazione amministrativa di tali vedute; erroneamente poi la Corte romana avrebbe accolto la domanda ripristinatoria che è concessa –a mente del combinato disposto degli articoli 872 ed 873 cod. civ.– solo per le violazioni delle distanze tra edifici; mentre le irregolarità amministrative in edilizia potrebbero, se del caso, determinare una tutela risarcitoria; dette considerazioni sarebbero state ancor più evidenti nel capo di decisione che aveva ordinato l’arretramento del parapetto del proprio balcone, rispetto al quale, del pari, non era stata riscontrata alcuna violazione delle distanze.
1a – Il motivo è fondato.
1.a.1 – Pur non essendo in rilievo la violazione dell’articolo 872 cod. civ. –in quanto, sia pure confusamente, la Corte di Appello pose a parametro normativo della misurazione delle distanze l’articolo 905 cod. civ.- è certo che la semplice mancanza di assenso amministrativo all’apertura di vedute – che però siano state giudicate (non importa se, correttamente o meno, mancando ricorso incidentale sul punto), rispettose delle distanze legali- non incide sulla legittimità dell’opera con riferimento al diritto del confinante; le osservazioni contenute nel controricorso del (OMISSIS) in merito alla sussistenza della violazione delle distanze –data per accertata come pacifica a fol 5 del controricorso– non sono idonee ad incidere sulle divergenti conclusioni della Corte di Appello, in quanto non assumono la struttura di un motivo di ricorso incidentale secondo i parametri indicati dall’articolo 366 c.p.c.; ad identiche conclusioni si deve pervenire in merito alle articolate contestazioni contenute ai foll 8-10 dello stesso controricorso in merito ai criteri di calcolo delle distanze tra le finestre ed il balcone rispetto al terrazzo sottostante (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.09.2014 n. 18689 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Sul piano penale è soltanto l’elemento oggettivo della strumentalità funzionale del nuovo immobile rispetto a quello esistente che rileva per stabilire il concetto di pertinenza valido ai fini urbanistici.
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Con logica ed adeguata motivazione, priva di vizi logici e pienamente rispondente alle risultanze processuali, la Corte territoriale ha escluso che le opere realizzate (un bagno ed un forno) fossero al servizio di una preesistente baracca di lamiera, osservando come, dai rilievi fotografici eseguiti nel corso del sopralluogo, fosse visibile la presenza di una roulotte verso la quale confluivano i fili di collegamento di un’antenna televisiva.
Da ciò si e’ logicamente desunto che la ricorrente stesse attrezzando quell’apprezzamento in modo da potervi risiedere, nonostante si trattasse di zona agricola non suscettibile di essere adibita all’uso residenziale, per avervi installato una roulotte, non necessitante di allacci idrici stabili perché si era ricostruito il bagno, si era realizzato un forno su una platea in cemento e tutto era stato predisposto per dotarsi di quanto necessario per vivere, permanentemente o anche solo transitoriamente, sul posto.
Secondo la Corte di merito, si era dunque totalmente fuori da una situazione a carattere pertinenziale, essendosi realizzata una nuova opera che, unitamente all’installazione della roulotte, era del tutto scollegata dalla fatiscente baracca in lamiera, indicata come fabbricato di riferimento delle supposte pertinenze, e si inquadrava nettamente in un quadro residenziale, dovendosi escludere la natura pertinenziale anche in considerazione del fatto che le pertinenze non possono eccedere il 20% del volume dell’edificio principale secondo la chiara disposizione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 3, comma 1, lettera e) con la conseguenza che, i tali casi, è richiesto il permesso di costruire.
Di ciò non solo non era stata fornita alcuna prova ma le dimensioni del solo bagno (senza neppure calcolare il forno) rendevano evidente, dai precisi e puntuali calcoli che la Corte toscana ha riportato in sentenza, come si fosse ampiamente superata la ricordata percentuale.
Del resto la ricorrente non ha sollevato alcuna obiezione al riguardo, limitandosi ad invocare il disposto della Legge n. 84 del 1982, articolo 7, disposizione insuscettibile di applicazione perché abrogata dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 136.
Va allora ricordato che rientrano nel concetto di pertinenza –per la quale non è necessario il permesso di costruire– soltanto le opere funzionalmente destinate al servizio dell’edificio principale, sicché tra l’edificio originario e la nuova opera deve sussistere un rapporto strettamente necessario e consequenziale, ossia un vincolo di strumentalità reale che non può quindi desumersi, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, esclusivamente dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario o dal possessore.
Sotto tale specifico profilo è stato correttamente ritenuto che, ai fini della normativa edilizia, la nozione di pertinenza non è completamente sovrapponibile alla nozione civilistica enunciata nell’articolo 817 c.c. richiedendosi che le opere pertinenziali, oltre ad avere una propria individualità fisica ed una precisa conformazione strutturale, devono essere preordinate ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, così che la pertinenza sia funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio di esso, sia sfornita di un autonomo valore di mercato e sia dotata di un volume minimo (ex articolo 3 TUE) tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella della migliore utilizzazione dell’immobile cui accede (Sez. 3, n. 18299 del 17/01/2003, Chiappalone, Rv. 224288).
Ne consegue che ciò che rileva è il nesso funzionale e strumentale dell’immobile al servizio dell’edificio già esistente, nel senso che l’opera nuova, oggettivamente, per la sua normale natura e conformazione, non consente altra destinazione che quella di essere adibita in modo durevole al servizio della cosa principale. Sul piano penale, quindi, è soltanto l’elemento oggettivo della strumentalità funzionale del nuovo immobile rispetto a quello esistente che rileva per stabilire il concetto di pertinenza valido ai fini urbanistici (Sez. 5, n. 9133 del 06/08/1991. Palma ed altro, Rv. 191191).
E’ del tutto eccentrica allora la tesi della ricorrente con la quale insiste, al di là delle dimensioni volumetriche di per sé già sufficienti per radicare l’abuso edilizio, nell’attribuire una funzione pertinenziale ad opere del tutto scollegate dal presunto edificio principale, costituito da una baracca fatiscente ed insuscettibile di porsi come edificio di riferimento che fosse idoneo a stabilire un rapporto di durevole subordinazione degli accessori rispetto al principale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.09.2014 n. 36709 - link a http://renatodisa.com).

SICUREZZA LAVORO: Il Piano Operativo di Sicurezza (POS) è il documento che il datore di lavoro è tenuto a redigere per iniziare a operare in un cantiere esterno. Ogni impresa esecutrice dovrà necessariamente preparare il proprio POS, da considerarsi come piano complementare al Piano di Sicurezza e di Coordinamento (PSC).
Per redigere un POS è necessario analizzare e valutare i rischi per la salute e la sicurezza specifici per l’impresa e per l’opera, rispetto a caratteristiche proprie del luogo, alle modalità operative e all’utilizzo di attrezzature. Una volta individuati i rischi è obbligatorio completare il piano operativo di sicurezza con l’indicazione delle misure di sicurezza da adottare nelle varie fasi lavorative.
Il datore di lavoro è tenuto a vigilare sulla sicurezza dei lavori e sull’applicazione delle disposizioni prevista con il piano di sicurezza nonché a coordinare gli interventi per garantire le misure generali di sicurezza.

---------------
In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per la progettazione, ai sensi del Decreto Legislativo n. 494 del 1996, articolo 4 ha essenzialmente il compito di redigere il piano di sicurezza e coordinamento (PSC), che contiene l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi, e le conseguenti procedure, apprestamenti ed attrezzature per tutta la durata dei lavori; diversamente, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai sensi dell’articolo 5 cit. Decreto Legislativo, ha i compiti:
(a) di verificare, con opportune azioni di coordinamento e di controllo, l’applicazione delle disposizioni del piano di sicurezza;
(b) di verificare l’idoneità del piano operativo di sicurezza (POS), piano complementare di dettaglio del PSC, che deve essere redatto da ciascuna impresa presente nel cantiere;
(c) di adeguare il piano di sicurezza in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, di vigilare sul rispetto del piano stesso e sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le singole lavorazioni.
Trattasi di figure le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori.

3. Il ricorso nell’interesse di (OMISSIS) e’ infondato.
3.1. La Corte territoriale –misurandosi con le ragioni dell’assoluzione e superandole in punto di fatto e di diritto– ne ha affermato la corresponsabilità nell’infortunio occorso allo (OMISSIS) ascrivendogli, quale datore di lavoro, la omessa previsione – nella redazione del piano di sicurezza – dei rischi connessi alla caduta di oggetti all’interno della canalina, durante le lavorazioni effettuate dai propri dipendenti, tra i quali, appunto, l’infortunato.
3.2. Il Piano Operativo di Sicurezza (POS) è il documento che il datore di lavoro è tenuto a redigere per iniziare a operare in un cantiere esterno. Ogni impresa esecutrice dovrà necessariamente preparare il proprio POS, da considerarsi come piano complementare al Piano di Sicurezza e di Coordinamento (PSC). Per redigere un POS è necessario analizzare e valutare i rischi per la salute e la sicurezza specifici per l’impresa e per l’opera, rispetto a caratteristiche proprie del luogo, alle modalità operative e all’utilizzo di attrezzature. Una volta individuati i rischi è obbligatorio completare il piano operativo di sicurezza con l’indicazione delle misure di sicurezza da adottare nelle varie fasi lavorative. Il datore di lavoro è tenuto a vigilare sulla sicurezza dei lavori e sull’applicazione delle disposizioni prevista con il piano di sicurezza nonché a coordinare gli interventi per garantire le misure generali di sicurezza.
3.3. Ritiene la Corte che la natura ed il contenuto del piano in questione, all’interno del costantemente affermato obbligo generale di collaborazione antinfortunistica, fonda la responsabilità del datore di lavoro in generale e del ricorrente in particolare che aveva l’obbligo di prevedere i rischi dei propri dipendenti connessi alla realizzazione delle opere di saldatura secondo il concreto contesto e andamento che essi assumevano.
3.4. Del tutto correttamente è stata esclusa la rilevanza della posizione della (OMISSIS) spa nel contesto delle ditte di primo o secondo livello, versandosi in una inadempienza propria del datore di lavoro nella fase precedente a quella esecutiva, profilo che ha fatto, altresì, correttamente escludere la rilevanza della nomina di un addetto alla sicurezza.
4. Il ricorso nell’interesse di (OMISSIS) è infondato.
4.1. Il primo e secondo motivo sono infondati.
4.2. In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per la progettazione, ai sensi del Decreto Legislativo n. 494 del 1996, articolo 4 ha essenzialmente il compito di redigere il piano di sicurezza e coordinamento (PSC), che contiene l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi, e le conseguenti procedure, apprestamenti ed attrezzature per tutta la durata dei lavori; diversamente, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai sensi dell’articolo 5 cit. Decreto Legislativo, ha i compiti:
(a) di verificare, con opportune azioni di coordinamento e di controllo, l’applicazione delle disposizioni del piano di sicurezza;
(b) di verificare l’idoneità del piano operativo di sicurezza (POS), piano complementare di dettaglio del PSC, che deve essere redatto da ciascuna impresa presente nel cantiere;
(c) di adeguare il piano di sicurezza in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, di vigilare sul rispetto del piano stesso e sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le singole lavorazioni.
Trattasi di figure le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori(Sez. 4, n. 18472 del 04/03/2008, Bongiascia, Rv. 240393); ancora, con riferimento alle attività lavorative svolte in un cantiere edile, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori e’ titolare di una posizione di garanzia che si affianca a quella degli altri soggetti destinatari della normativa antinfortunistica, in quanto gli spettano compiti di “alta vigilanza”, consistenti:
a) nel controllo sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento nonché sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori;
b) nella verifica dell’idoneità del piano operativo di sicurezza (POS) e nell’assicurazione della sua coerenza rispetto al piano di sicurezza e coordinamento;
c) nell’adeguamento dei piani in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, verificando, altresì, che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi POS (Sez. 4, n. 44977 del 12/06/2013, Lorenzi e altri, Rv. 257167); infine, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori ha non soltanto compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione dell’opera, ma deve anche vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza (Sez. 4, n. 32142 del 14/06/2011, Goggi, Rv. 251177).
4.3. La sentenza impugnata –misurandosi con le ragioni dell’assoluzione e superandole in punto di fatto e di diritto– si è posta nell’alveo di legittimità richiamato affermando la corresponsabilità del ricorrente nell’incidente occorso al lavoratore dovendosi escludere che la sola segnalazione del 18.08.2006 alla (OMISSIS) in ordine alle inadeguatezze dei ponteggi rispetto ai pericoli di caduta dall’alto, esauriva gli obblighi gravanti nei suoi confronti, dovendosi ricomprendere anche quello della verifica dell’effettiva e tempestiva predisposizione dei dispositivi idonei ad evitare la caduta degli oggetti dall’alto, nei tempi dallo stesso indicati, e dunque prima dell’accesso degli operai di (OMISSIS) e (OMISSIS) (Corte di Cassazione, Sez. feriale, sentenza 01.09.2014 n. 36510 - link a http://renatodisa.com).

SICUREZZA LAVORONella materia della sicurezza del lavoro e della prevenzione infortuni, la norma dettata dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, (ora D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26) ha la funzione di individuare l’ipotesi in cui il committente si debba ritenere corresponsabile con l’appaltatore per la violazione di norme antinfortunistiche, nell’ottica di rafforzare la tutela dei beni giuridici della vita e della salute del lavoratore, non potendosi ritenere corretta l’interpretazione secondo la quale la verifica in merito all’idoneità tecnico-professionale debba intendersi limitata alle competenze tecniche dell’impresa appaltatrice.
1.1. La prima censura concerne l’interpretazione della norma dettata in materia antinfortunistica da Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 7, che, nella versione vigente all’epoca del fatto, prevedeva che il datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori all’interno dell’azienda, ovvero dell’unità produttiva, ad un’impresa appaltatrice verificasse, anche attraverso l’iscrizione alla Camera di Commercio, industria e artigianato, l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa appaltatrice in relazione ai lavori da affidare in appalto.
Secondo il ricorrente, tale obbligo di verifica non si estenderebbe ai profili concernenti la sicurezza dei lavoratori, sia perché la stessa norma prevede uno specifico obbligo di informazione gravante sul committente in materia di sicurezza, sia perché il richiamo all’iscrizione alla Camera di Commercio riguarda documenti che nulla hanno a che vedere con la sicurezza.
1.2. La Corte di Appello, richiamando la motivazione del primo giudice, con particolare riferimento alla posizione di (OMISSIS), al quale era contestata la violazione del citato Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 7, per non avere compiutamente verificato l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa appaltatrice in relazione ai lavori affidati in appalto, ha affermato che non potesse che pervenirsi alla conferma della sentenza di primo grado in quanto era emerso che l’organizzazione della società croata fosse approssimativa, che lo stesso imputato fosse a conoscenza delle modalità con le quali “si lavora in (OMISSIS)”, che la (OMISSIS) tp non solo non aveva nominato il responsabile del servizio di prevenzione né elaborato un adeguato documento di valutazione dei rischi, ma aveva un piano di sicurezza definito fatiscente dall’ispettore del lavoro; a fronte di questa situazione, la Corte territoriale ha rimarcato come l’imputato avesse omesso di esaminare la documentazione relativa alla sicurezza del lavoro dell’impresa appaltatrice e non avesse esercitato controlli e verifiche, nonostante le maestranze utilizzassero macchine e attrezzature dell’azienda appaltante, omettendo altresì di verificare il grado di formazione e informazione dei dipendenti della (OMISSIS) tp, dopo aver scelto come contraente una società che aveva enormi falle nel sistema di sicurezza. Nella sentenza impugnata la condotta di tale imputato, che rivestiva la qualità di delegato per la sicurezza dell’impresa committente, e’ stata conseguentemente ritenuta colpevole.
1.3. La lettura del testo della norma, nel suo complesso e nell’ambito del sistema prevenzionistico introdotto in attuazione di Direttive Europee (89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE, 93/88/CEE, 95/63/CE, 97/42/CE, 98/24/CE, 99/38/CE, 99/92/CE, 2001/45/CE, 2003/10/CE, 2003/18/CE e 2004/40/CE) non consente di condividere la tesi interpretativa proposta dal ricorrente. Con specifico riferimento al tenore letterale, l’articolo 7, comma 1, citato individua due distinti obblighi gravanti sul datore di lavoro quando intenda avvalersi di un’impresa appaltatrice per svolgere particolari lavori all’interno dell’azienda: un obbligo di verifica dell’idoneità tecnico-professionale dell’impresa in relazione al lavoro che deve esserle affidato, dal quale si desume la posizione di garanzia del datore di lavoro in merito alla scelta dell’impresa, e un obbligo di informazione in merito ai rischi specifici che l’impresa appaltatrice verrà ad incontrare nell’ambiente di lavoro del committente.
La norma è posta nel Titolo I, Capo I del Decreto Legislativo n. 626 del 1994 (attuativo di Direttive comunitarie riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro) tra le disposizioni generali; tale collocazione non lascia margini di dubbio in merito alla finalità della norma di garantire la sicurezza del lavoro nella particolare situazione in cui determinate attività vengano affidate in appalto ma si svolgano nei locali dell’impresa committente, dovendosi conseguentemente ritenere che la posizione di garanzia del datore di lavoro in merito alla scelta dell’impresa appaltatrice trovi la sua ragion d’essere nella finalità di evitare che, attraverso la stipula di un contratto di appalto, vengano affidate all’appaltatore lavorazioni o mansioni che il singolo lavoratore non sia in grado di svolgere, con incremento del rischio per la sua sicurezza.
1.4. Si può, dunque, desumere dalla norma in esame una precisa regola di diligenza e prudenza che il committente dei lavori dati in appalto e’ tenuto a seguire e, in particolare, l’obbligo di accertarsi che la persona alla quale affida l’incarico sia, non solo munita dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, come si evince dal riferimento, comunque non esclusivo, al certificato della Camera di Commercio, ma anche della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività che deve esserle commissionata e alle concrete modalità di espletamento della stessa.
In altre parole, tale norma svolge funzione integrativa del precetto penale che sanziona il reato di lesioni colpose ponendo a carico del committente l’obbligo di garantire che anche l’impresa appaltatrice che svolge attività nella sua azienda si attenga a misure di prevenzione della cui inosservanza lo stesso committente sarà chiamato a rispondere, ove fosse in grado di percepirne l’inadeguatezza.
1.5. E nella sentenza di primo grado erano stati indicati analiticamente i comportamenti omissivi nei quali si sarebbe sostanziata la condotta colposa del committente: l’impresa appaltatrice (OMISSIS) tp non aveva le carte in regola quanto alla valutazione, organizzazione e attuazione delle misure di prevenzione antinfortunistiche e il piano per l’organizzazione della sicurezza nel cantiere redatto dalla (OMISSIS) tp nel maggio 2006, in relazione al contratto di appalto da eseguire all’interno del cantiere navale della (OMISSIS) S.p.A., risultava del tutto inadeguato; il ricorrente si sarebbe potuto rendere conto di tali carenze se avesse esaminato i documenti redatti dalla (OMISSIS) tp, ed avrebbe potuto verificare che l’impresa appaltatrice non aveva nominato un responsabile del servizio di prevenzione e protezione né aveva elaborato un adeguato documento di valutazione dei rischi, così come avrebbe agevolmente potuto verificare la carenza della formazione e informazione fatta dalla (OMISSIS) tp ai propri dipendenti, specie in ordine all’utilizzo delle macchine (pag. 9), peraltro fornite dal committente.
Entrambi i giudici di merito hanno anche sottolineato come il manuale di uso del trapano fornito al lavoratore non fosse stato tradotto. Da tali elementi, i giudici di merito hanno desunto come il ricorrente, già nella fase della scelta del contraente, avesse modo di verificare le lacune dell’impresa croata sotto il profilo della sicurezza, ritenendo che carenze organizzative dell’appaltatore in tema di misure di sicurezza agevolmente percepibili coinvolgessero in quanto tali anche la responsabilità del committente.
1.6. Tale valutazione deve ritenersi conforme alla ratio della norma, come sopra illustrata, e all’interpretazione della stessa rinvenibile nella giurisprudenza di questa Corte, che ha ripetutamente affermato che il dovere di diligenza del committente non si esaurisce nella scelta di un’impresa che sia tecnicamente in grado di eseguire il lavoro da commissionare, estendendosi alla verifica dell’idoneità dell’impresa appaltatrice a svolgere determinate lavorazioni in condizioni di sicurezza per i lavoratori, configurandosi quindi la responsabilità del committente qualora sia verificato in concreto che fosse da lui agevolmente percepibile il rischio derivante dall’inadeguatezza dell’organizzazione dell’impresa appaltatrice sotto il profilo prevenzionistico (Sez. 4, n. 10608 del 4/12/2012, dep. 07/03/2013, Bracci, Rv. 255282; Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012, Marangio e altro, Rv. 252672; Sez. 4, n. 37840 del 1/07/2009, Vecchi e altro, Rv. 245275; Sez. 3, n. 1825 del 04/11/2008, dep. 19/01/2009, Pellegrino e altro, Rv. 242345; Sez. 4, n. 12348 del 29/01/2008, Giorgi, Rv. 239252; Sez. 4, n. 8589 del 14/01/2008, Speckenhauser e altro, Rv. 238965).
1.7. Può, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: nella materia della sicurezza del lavoro e della prevenzione infortuni, la norma dettata dal Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 7, (ora Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 26) ha la funzione di individuare l’ipotesi in cui il committente si debba ritenere corresponsabile con l’appaltatore per la violazione di norme antinfortunistiche, nell’ottica di rafforzare la tutela dei beni giuridici della vita e della salute del lavoratore, non potendosi ritenere corretta l’interpretazione secondo la quale la verifica in merito all’idoneità tecnico-professionale debba intendersi limitata alle competenze tecniche dell’impresa appaltatrice (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 27.08.2014 n. 36268 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: In pendenza di procedimento di condono di un manufatto, gli unici interventi edilizi consentiti su di esso sono quelli diretti a garantirne l'integrità e la conservazione; tali interventi, quindi, di regola non possono spingersi sino alla demolizione e ricostruzione (né totale né parziale), salvo che essi risultino in qualche modo indispensabili (previa, in tal caso, necessaria preventiva interlocuzione con l'Amministrazione al fine di consentire a quest'ultima di stabilire quali siano i caratteri e le esatte dimensioni del manufatto abusivo per verificarne la condonabilità ed accertare che la successiva ricostruzione sia effettivamente fedele al manufatto abusivo preesistente).
La normativa sul condono postula la permanenza dell'immobile da regolarizzare e non ammette, in pendenza del procedimento, la demolizione e l'impiego di materiali di costruzione diversi da quelli originari: la diversità del materiale costruttivo impiegato comporta la qualificazione dell'intervento come sostituzione edilizia, mancando la continuità tra vecchia e nuova costruzione, che caratterizza gli interventi di consolidamento, e la attuale riconoscibilità del manufatto originario oggetto dell'istanza di condono.
E’ quindi legittima l’archiviazione della domanda di condono relativa ad un primo fabbricato quando sia effettivamente venuta meno l’opera per cui si riferiva la richiesta, soprattutto se la ricostruzione sia successiva alla data di sbarramento fissata all'01.10.1983 dalla l. n. 47 del 1985.
---------------
Come ha chiarito l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 20 del 1999, il provvedimento di condono o di sanatoria di un immobile abusivo va emesso tenendo conto della situazione di fatto e di diritto esistente alla data della sua emanazione, sicché rileva anche il vincolo paesaggistico imposto dopo la data di commissione dell’abuso.
E’ pertanto irrilevante verificare se il medesimo vincolo sia stato imposto anteriormente o meno al periodo nel corso del quale sono stati commessi gli abusi presi in considerazione nel provvedimento impugnato in primo grado.

Invero, in pendenza di procedimento di condono di un manufatto, gli unici interventi edilizi consentiti su di esso sono quelli diretti a garantirne l'integrità e la conservazione; tali interventi, quindi, di regola non possono spingersi sino alla demolizione e ricostruzione (né totale né parziale), salvo che essi risultino in qualche modo indispensabili (previa, in tal caso, necessaria preventiva interlocuzione con l'Amministrazione al fine di consentire a quest'ultima di stabilire quali siano i caratteri e le esatte dimensioni del manufatto abusivo per verificarne la condonabilità ed accertare che la successiva ricostruzione sia effettivamente fedele al manufatto abusivo preesistente).
La normativa sul condono postula la permanenza dell'immobile da regolarizzare e non ammette, in pendenza del procedimento, la demolizione e l'impiego di materiali di costruzione diversi da quelli originari: la diversità del materiale costruttivo impiegato comporta la qualificazione dell'intervento come sostituzione edilizia, mancando la continuità tra vecchia e nuova costruzione, che caratterizza gli interventi di consolidamento, e la attuale riconoscibilità del manufatto originario oggetto dell'istanza di condono (Cass. pen., sez. III, 15.07.2005, n. 26162).
E’ quindi legittima l’archiviazione della domanda di condono relativa ad un primo fabbricato quando sia effettivamente venuta meno l’opera per cui si riferiva la richiesta (Consiglio di Stato, sez. IV, 24.12.2008, n. 6550), soprattutto se la ricostruzione sia successiva alla data di sbarramento fissata all'01.10.1983 dalla l. n. 47 del 1985.
Per di più, il provvedimento impugnato in primo grado si è basato anche su una ulteriore ragione giustificativa, costituita dall’incompatibilità del manufatto oggetto di condono con esigenze di tutela paesaggistica e rispetto dei corsi d’acqua.
Sotto tale aspetto, al di là delle questioni di ordine processuale emerse nel corso del giudizio, rileva la Sezione che del tutto legittimamente l’Amministrazione ha attribuito rilevanza al vincolo paesaggistico imposto sull’area, poiché –come ha chiarito l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 20 del 1999– il provvedimento di condono o di sanatoria di un immobile abusivo va emesso tenendo conto della situazione di fatto e di diritto esistente alla data della sua emanazione, sicché rileva anche il vincolo paesaggistico imposto dopo la data di commissione dell’abuso.
E’ pertanto irrilevante verificare se il medesimo vincolo sia stato imposto anteriormente o meno al periodo nel corso del quale sono stati commessi gli abusi presi in considerazione nel provvedimento impugnato in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.08.2014 n. 4386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La manutenzione straordinaria include gli interventi meramente sostitutivi di parti già esistenti dell'edificio, tali da non determinare alcuna alterazione di volumi e superfici o mutamenti di destinazione d’uso degli edifici.
1. L’appello è fondato.
2. Coglie nel segno la censura contenuta nel primo motivo d’appello, nella quale l’avv. Martillotti si duole della contraddittoria motivazione addotta dal TAR a rigetto dell’impugnativa, laddove, pur qualificando l’intervento abusivo come manutenzione straordinaria, e perciò necessitante di autorizzazione edilizia ai sensi dell’art. 48 (in allora vigente) della citata legge n. 457/1978, ha nondimeno ritenuto legittimo il diniego di sanatoria.
3. Occorre innanzitutto precisare che la manutenzione straordinaria include gli interventi meramente sostitutivi di parti già esistenti dell'edificio, tali da non determinare alcuna alterazione di volumi e superfici o mutamenti di destinazione d’uso degli edifici (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1859; in precedenza: Sez. IV, 13.06.2013, n. 3270).
4. Tanto precisato in diritto, la documentazione agli atti di questo giudizio conduce a ritenere provata la circostanza fattuale dedotta dall’odierno appellante a sostegno della propria impugnativa, e cioè che il tetto del manufatto in contestazione era preesistente e che, dunque, la sua ricostruzione aveva finalità manutentiva, comportante la relativa sostituzione con una nuova copertura.
In primo luogo, la prova in questione si ricava dalla documentazione fotografica prodotta in sede di riesame della domanda di sanatoria ex art. 13 l. n. 47/1985, che nondimeno il Comune di Bacoli ha ritenuto non idonea a suffragare gli assunti dell’avv. Martillotti, dalla quale emerge l’esistenza del solaio di copertura.
Assume poi rilievo decisivo, ai sensi dell’art. 654 cod. proc. pen. l’accertamento compiuto dal giudice penale (sentenza del Tribunale di Napoli – sez. staccata di Pozzuoli del 01.04.2003, n. 233), nella medesima vicenda qui in contestazione. Nell’assolvere l’odierno appellante per insussistenza delle contravvenzioni edilizie contestategli [art. 20, lett. c), l. n. 47/1985] all’esito dell’istruttoria dibattimentale esperita, il Tribunale di Napoli ha accertato che “l’intervento posto in essere dall’imputato, mirante ad assicurare la copertura dell’edificio (evidentemente anch’essa già esistente in origine) ma lasciando inalterate la superficie, la dimensione e tutte le altre parti, nonché la stessa destinazione”, non potesse che essere qualificato come di tipo manutentivo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.08.2014 n. 4362 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa controversia avente ad oggetto la titolarità di un terreno che, pacificamente, faceva un tempo parte dell’alveo del fiume, ma che risulta abbandonato dalle acque da molti anni, non ponendo alcuna questione, ai fini del decidere, in ordine alla determinazione dei limiti dell’alveo e delle sponde, ovvero alla qualificazione dello stesso come alveo, sia con riferimento al passato che al presente, appartiene alla competenza per materia del tribunale ordinario e non a quella del tribunale regionale delle acque pubbliche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- che il Collegio ritiene il ricorso fondato;
- che va fatta applicazione del principio secondo cui la controversia avente ad oggetto la titolarità di un terreno che, pacificamente, faceva un tempo parte dell’alveo del fiume, ma che risulta abbandonato dalle acque da molti anni, non ponendo alcuna questione, ai fini del decidere, in ordine alla determinazione dei limiti dell’alveo e delle sponde, ovvero alla qualificazione dello stesso come alveo, sia con riferimento al passato che al presente, appartiene alla competenza per materia del tribunale ordinario e non a quella del tribunale regionale delle acque pubbliche (Cass. n. 18333 del 2006; Cass. n. 1916 del 2011);
- che tale è la situazione di specie, giacché non è in discussione che l’area rivendicata dal privato, appartenente all’ex alveo del torrente (OMISSIS), oramai da lunghissimo tempo non è più soggetta allo scorrimento delle acque ed è delimitata dall’alveo attuale da un argine naturale ricoperto da folta vegetazione di pini ad alto fusto;
- che è esatto il rilievo del pubblico ministero secondo cui il Comune e le Amministrazioni dello Stato, nel costituirsi in giudizio, hanno eccepito la demanialità di tale area;
- che, tuttavia, la detta eccezione è stata sollevata, non per dedurre l’appartenenza della zona di terreno in questione al demanio idrico (il che avrebbe imposto la competenza del tribunale regionale delle acque pubbliche, giacché la competenza del giudice specializzato scatta quando la controversia involge questioni sulla demanialità delle acque pubbliche o incide comunque, direttamente o indirettamente, sugli interessi pubblici connessi al regime delle acque: Cass. n. 14906 del 2000 e Cass. n. 2656 del 2012), ma per sostenere che l’area ha natura demaniale essendo stata utilizzata “per il soddisfacimento di molteplici esigenze di carattere collettivo/generale”, ossia per esercitazioni delle Forze armate e per la realizzazione di un elettrodotto, di un collettore fognario e di un tracciato per il transito ciclo-pedonale;
- che, pertanto, va dichiarata la competenza del Tribunale ordinario di Brescia, giacché, pur affermandosi che il terreno conteso costituiva un tempo l’alveo di un corso d’acqua, risulta pacifico che esso abbia definitivamente cessato di farne parte, disputandosi esclusivamente circa l’appartenenza, al privato ovvero al Comune o all’Agenzia del demanio, delle porzioni abbandonate, per cause naturali, del corso acqua, senza che venga in rilievo una attuale demanialità idrica, ma una proprietà pubblica di diversa natura (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 24.07.2014 n. 16807 - link a http://renatodisa.com).

VARI: Nella qualificazione ok anche a società miste.
Via libera alle sigle «miste», perché composte anche di altri professionisti, nell'elenco delle associazioni maggiormente rappresentative previste dallo statuto dell'avvocatura e regolamentate dal Consiglio nazionale forense: non si possono dunque escludere dalla partita della qualificazione professionale le associazioni non composte di soli avvocati che, in definitiva, devono solo esprimere pareri sulla formazione laddove la circostanza non appare irragionevole ai giudici.

È quanto emerge dalla sentenza 23.07.2014 n. 8039, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Nessuna esclusiva
Niente da fare per le associazioni forensi che tentano di estromettere la sigla mista (il provvedimento del Tribunale amministrativo regionale è tutto coperto da omissis).
In realtà c'è carenza di interessi per il ricorso anche perché mentre i giudici si pronunciano il regolamento ministeriale sulla formazione forense previsto dall'articolo 9 della legge professionale non risulta emanato, per cui la lesione alla posizione dell'organismo che adisce il Tar è «meramente eventuale e comunque, allo stato, non attuale». Ma soprattutto anche la domanda di sospensiva è rigettata.
E ciò perché l'associazione iscritta dal Consiglio nazionale forense nell'elenco incriminato mostra di possedere tutti i requisiti: diffusione territoriale capillare; ordinamento democratico; consistente e gratuita offerta formativa nelle materie di competenza. E in effetti né la riforma forense né il regolamento del Cnf prevedono che tutti gli iscritti alla sigla debbano essere avvocati presenti nell'albo.
Chi vuole far cancellare la sigla dall'elenco dei sodalizi più rappresentativi deve dare la prova di una concreta e attuale lesione della sua sfera giuridica che deriva dagli atti impugnati o dal comportamento del soggetto che esercita le funzioni pubblicistiche, elemento da cui consegue l'utilità effettiva che ricaverebbe dall'annullamento dell'atto impugnato e comunque dall'accoglimento del ricorso così come proposto (articolo ItaliaOggi del 29.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il titolo di legittimazione che abilita alla proposizione del ricorso per l'annullamento di un titolo edilizio rilasciato a terzi discende unicamente dalla cd. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato.
Detto requisito esime da qualsiasi indagine volta ad accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione.
Solo ai fini dell’impugnazione di uno strumento urbanistico attuativo -a differenza che per l'impugnazione del singolo titolo edilizio- non è sufficiente la mera vicinitas, occorrendo anche la prova di uno specifico e concreto pregiudizio.

Nel merito, non è seriamente dubitabile la sussistenza della legittimazione ad agire in capo alla ricorrente, fondandosi la stessa sul pacifico assunto per cui il titolo di legittimazione che abilita alla proposizione del ricorso per l'annullamento di un titolo edilizio rilasciato a terzi discende unicamente dalla cd. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato. Detto requisito esime da qualsiasi indagine volta ad accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione (cfr. TAR Napoli, sez. II, 13.09.2013, n. 4265; Cons. Stato, sez. IV, 30.05.2013, n. 2974; id., sez. VI, 01.02.2013, n. 631).
Solo ai fini dell’impugnazione di uno strumento urbanistico attuativo -a differenza che per l'impugnazione del singolo titolo edilizio- non è sufficiente la mera vicinitas, occorrendo anche la prova di uno specifico e concreto pregiudizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.05.2012, n. 3137; id. sez. IV, 15.11.2011, nr. 6016; id., 24.01.2011, nr. 485; id., 29.12.2010, nr. 9537; id., 30.11.2010, nr. 8364; id., 06.11.2007, nr. 6619)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.07.2014 n. 1199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio del permesso di costruire avviene nell'ambito del rapporto pubblicistico e non si estende ai rapporti tra privati, in quanto la lesione di diritti dei terzi non discende direttamente dal rilascio del titolo, ma solo dalla fisica realizzazione dell’opera, contro la quale può chiedersi tutela davanti al giudice civile.
Nondimeno, tale affermazione va completata con una serie di principi correttivi.
   a) Il primo è costituito dal fatto che il titolo abilitativo non può prescindere dal possesso dei titoli proprietari da parte del richiedente.
È il primo comma dell’art. 11, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, a prevedere espressamente che il permesso di costruire è “rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
   b) Al contempo, il rilascio del titolo edilizio presuppone la presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ivi incluse le vie di collegamento al sistema viario pubblico.
In relazione a detta tematica scolora la schematica distinzione tra aspetti civilistici e pubblicistici connessi all'attività edificatoria, rinvenendosi, al contrario, un significativo punto di contatto tra i due profili. Si intende affermare che la stessa situazione di inaccessibilità assoluta o relativa del fondo, oltre che in un’eventuale contesa privatistica tra i proprietari dell’area interclusa e quelli delle porzioni intercludenti, certamente rileva anche come elemento qualificante ai fini del rilascio del permesso di costruire, in quanto strettamente attinente alle dotazioni urbanistiche essenziali dell’area e all'ordinato assetto urbanistico ed edilizio del territorio comunale ad essa circostante.
   c) Da ciò consegue che la condizione di interclusione assoluta o relativa del fondo oggetto della richiesta di intervento non attiene esclusivamente ai rapporti civilistici del richiedente con i terzi, ma concerne propriamente un presupposto necessario di legittimazione della parte richiedente, ai sensi del cit. art. 11. primo comma del d.P.R. n. 380.
   d) Sul piano istruttorio, se deve certamente escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero a ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire; nondimeno deve riconoscersi un obbligo di verifica sulle “condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti rilevanti …” per l’adozione del provvedimento finale, ai sensi dell’art. 6, 1° comma, lett. a), della L. n. 241/1990 e s.m.i..
Qualora, dunque, emergano come già accertati eventuali vincoli che limitino l'ampiezza e fruibilità del titolo di proprietà, il Comune non può ignorarli, pena un difetto di istruttorio..
In conclusione, il difetto della disponibilità di idoneo passaggio di collegamento alla via pubblica costituisce, ove appurabile ex actis, un elemento procedimentalmente ostativo, per il quale legittimamente deve negarsi il rilascio del permesso di costruire.

Ciò posto, la prima decisiva questione impone di chiarire se il proprietario dell’area edificanda debba dimostrare di disporre di un idoneo diritto di accesso al fondo, ovvero se questo costituisca un presupposto meramente civilistico, rilevante nei soli rapporti con i terzi proprietari dei fondi limitrofi e sul quale l'amministrazione non può e non deve fondare alcuna preclusione al rilascio del titolo edilizio, se e in quanto il sottostante intervento sia in sé legittimamente assentibile in quanto "conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti e della disciplina urbanistico edilizia vigente".
In un quadro giurisprudenziale segnato da precedenti non del tutto uniformi, variamente richiamati dagli odierni contendenti a supporto delle rispettive tesi difensive, il Collegio ritiene di aderire all’impostazione che annette alla pubblica amministrazione un più pervasivo ruolo di controllo sui presupposti legittimanti il rilascio del titolo edilizio.
Come chiarito da Cons. Stato, sez IV, 08.06.2011 n. 3508 (che ha annullato la sentenza del TAR Veneto, sez. II, 12.01.2011, n. 37), in linea teorica è esatto il richiamo operato dai resistenti all’orientamento giurisprudenziale per cui il rilascio del permesso di costruire avviene nell'ambito del rapporto pubblicistico e non si estende ai rapporti tra privati, in quanto la lesione di diritti dei terzi non discende direttamente dal rilascio del titolo, ma solo dalla fisica realizzazione dell’opera, contro la quale può chiedersi tutela davanti al giudice civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.12.2007, n. 6332).
Nondimeno, tale affermazione va completata con una serie di principi correttivi.
   a) Il primo è costituito dal fatto che il titolo abilitativo non può prescindere dal possesso dei titoli proprietari da parte del richiedente.
È il primo comma dell’art. 11, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, a prevedere espressamente che il permesso di costruire è “rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5223; id., sez. IV, 07.09.2007 n. 4703 e 07.07.2005 n. 3730).
   b) Al contempo, il rilascio del titolo edilizio presuppone la presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ivi incluse le vie di collegamento al sistema viario pubblico (Cons. Stato, sez. V, 31.10.2013, n. 5251; id., sez. VI 06.05.2013, n. 2416).
In relazione a detta tematica scolora la schematica distinzione tra aspetti civilistici e pubblicistici connessi all'attività edificatoria, rinvenendosi, al contrario, un significativo punto di contatto tra i due profili. Si intende affermare che la stessa situazione di inaccessibilità assoluta o relativa del fondo, oltre che in un’eventuale contesa privatistica tra i proprietari dell’area interclusa e quelli delle porzioni intercludenti, certamente rileva anche come elemento qualificante ai fini del rilascio del permesso di costruire, in quanto strettamente attinente alle dotazioni urbanistiche essenziali dell’area e all'ordinato assetto urbanistico ed edilizio del territorio comunale ad essa circostante (Cons. Stato, sez. V, 25.05.1998 n. 683; TAR Parma, sez. I, 16.11.2007, n. 534; TAR Trentino-Alto Adige, sez. I, 12.01.2012, n. 6).
   c) Da ciò consegue che la condizione di interclusione assoluta o relativa del fondo oggetto della richiesta di intervento non attiene esclusivamente ai rapporti civilistici del richiedente con i terzi, ma concerne propriamente un presupposto necessario di legittimazione della parte richiedente, ai sensi del cit. art. 11. primo comma del d.P.R. n. 380.
   d) Sul piano istruttorio, se deve certamente escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero a ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire; nondimeno deve riconoscersi un obbligo di verifica sulle “condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti rilevanti …” per l’adozione del provvedimento finale, ai sensi dell’art. 6, 1° comma, lett. a), della L. n. 241/1990 e s.m.i..
Qualora, dunque, emergano come già accertati eventuali vincoli che limitino l'ampiezza e fruibilità del titolo di proprietà, il Comune non può ignorarli, pena un difetto di istruttoria (Cons. Stato, sez. IV, 06.03.2012, n. 1270).
In conclusione, il difetto della disponibilità di idoneo passaggio di collegamento alla via pubblica costituisce, ove appurabile ex actis, un elemento procedimentalmente ostativo, per il quale legittimamente deve negarsi il rilascio del permesso di costruire
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.07.2014 n. 1199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

inizio home-page