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AGGIORNAMENTO AL 24.10.2014 |
ã |
UTILITA' |
APPALTI:
Centrali di Committenza e Soggetti Aggregatori -
Acquisizioni di beni e servizi a far data dal 01.01.2015 e
di lavori a far data dal 01.07.2015 (ANCI,
scheda di sintesi per i Comuni - ottobre 2014). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Decorrenza dell’obbligo di verifica dei requisiti
attraverso il sistema AVCPass (comunicato
del Presidente 22.10.2014 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
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Con il Comunicato del 22.10.2014 il Presidente dell’Anac
precisa che la verifica dei requisiti attraverso il sistema
AVCPass è da ritenersi obbligatoria per le procedure di
affidamento il cui CIG è stato richiesto a partire dal
01.07.2014. |
LAVORI PUBBLICI:
Manuale dell’Autorità sulla qualificazione per
l’esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a
150.000 euro (comunicato
del Presidente 16.10.2014 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Pubblicato il
Manuale sulla attività di qualificazione per l’esecuzione di
lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro, che
aggiorna, integra e razionalizza circa 300 atti tra
Determinazioni, Comunicati e Deliberazioni - emanati negli
ultimi 15 anni, dal 1999 ad oggi, dall’Autorità.
Il manuale ha l’obiettivo di offrire agli operatori del
mercato strumenti per far fronte alle maggiori criticità del
settore, alcune delle quali recentemente emerse anche a
seguito di indagini giudiziarie. Con il manuale sono
individuati per la prima volta, criteri rigorosi per
l’utilizzo delle cessioni di rami di azienda ai fini del
rilascio dell’attestato di qualificazione, sono forniti
elementi dettagliati e stringenti per la valutazione dei
lavori privati e sono introdotte verifiche più puntuali ai
fini dell’accertamento dell’indipendenza di giudizio delle
SOA e della vigilanza sulla loro attività.
Il Manuale diventa efficace a decorrere dal giorno
successivo alla pubblicazione del Comunicato del Presidente
in Gazzetta Ufficiale, sostituendo gli atti dell’Autorità
citati in calce ai capitoli. Con successivo avviso sarà resa
nota la data di pubblicazione in Gazzetta. |
APPALTI:
Affidamento di lavori pubblici nei settori ordinari:
procedura aperta per appalto di sola esecuzione lavori,
contratti di importo superiore a euro 150.000 euro, offerta
al prezzo più basso (bando-tipo
02.09.2014 n. 2 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Pubblicato il Bando-tipo n. 2 del 02.09.2014 ‘Affidamento
di lavori pubblici nei settori ordinari: procedura aperta
per appalto di sola esecuzione lavori, contratti di importo
superiore a euro 150.000 euro, offerta al prezzo più basso’.
Il modello, predisposto a seguito della consultazione
pubblica degli operatori del mercato e previa acquisizione
del parere del Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, consiste in uno schema di disciplinare di gara
accompagnato da una nota illustrativa.
La pubblicazione ha lo scopo di guidare e semplificare la
complessa attività di predisposizione della documentazione
di gara da parte delle stazioni appaltanti e di ridurre il
contenzioso connesso, soprattutto, alla previsione nei bandi
di cause di esclusione che non trovano fondamento normativo
nell’art. 46, comma 1-bis, del Codice.
Trascorsi 12 mesi, durante i quali le stazioni appaltanti
potranno formulare osservazioni e commenti, il modello sarà
sottoposto a verifica di impatto della regolazione come
previsto dall’apposito Regolamento dell’Autorità. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: INPS – Assenza per malattia e rientro anticipato
al lavoro (ANCE di Bergamo,
circolare 19.09.2014 n. 195). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
LAVORI PUBBLICI: S.
A. Angelelli,
Appalto: Responsabilità solidale “senza tetto” del
committente
(22.10.2014 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: B.
Fenni,
Sulla decadenza del premesso di
costruire per mancato inizio dei lavori entro il termine
prescritto. Nota a Tar Toscana, sezione III, n. 1515 del
03.10.2014 (20.10.2014 - tratto da www.diritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: D.
Minussi,
Differenza tra servitù e limiti legali alla proprietà (20.10.2014
- link a www.e-glossa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: D.
Minussi,
Distanza fra costruzioni (20.10.2014 - link a www.e-glossa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: F.
Lorenzotti,
L’ampliamento degli interventi edilizi di manutenzione
straordinaria secondo il decreto-legge “Sblocca Italia”
(10.10.2014 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Negoziazione dei diritti edificatori e relativa rilevanza
fiscale, anche alla luce dell'art. 2643 n. 2-bis) c.c.
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 02-03.10.2014 n. 540-2014/T). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 21.10.2014, "Disposizioni
inerenti la combustione dei residui vegetali agricoli e
forestali in attuazione dell’art. 182, comma 6-bis, del
decreto legislativo n. 152/2006 e dell’art. 12-bis della
legge regionale n. 24/2006" (deliberazione
G.R. 17.10.2014 n. 2525). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
G.U. 18.10.2014 n. 243 "Svolgimento delle attività di cui
al comma 5, art. 7 del decreto legislativo n. 163/2006 di
rilevazione e comparazione dei prezzi di mercato dei
principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni
aggiudicatrici" (Ministero dell'Economia e delle
Finanze,
decreto 23.09.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: G.U.
16.10.2014 n. 241 "Codice deontologico forense" (Consiglio
Nazionale Forense,
deliberazione 31.01.2014). |
ENTI LOCALI: G.U.
15.10.2014 n. 240, suppl. ord. n. 78, "Adozione delle
note metodologiche e dei fabbisogni standard per ciascun
Comune e Provincia relativi alle funzioni generali di
amministrazione di gestione e controllo" (D.P.C.M.
23.07.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 14.10.2014, "Differimento
del termine di entrata in vigore della nuova classificazione
sismica del territorio approvata con d.g.r. 21.07.2014, n.
2129 «Aggiornamento delle zone sismiche in Regione Lombardia
(l.r. 1/2000, art. 3, comma 108, lett. d)»" (deliberazione
G.R. 10.10.2014 n. 2489). |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 14.10.2014, "Sesto
aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 09.10.2014 n. 9297). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA: Area
demaniale.
Domanda
L'Amministrazione
statale può, per motivi di uso generale, bloccare l'apertura
di uno stabilimento balneare, pur in presenza di tutte le
autorizzazioni comunali?
Risposta
È da dire,
innanzitutto, che l'uso individuale del bene demaniale
marittimo contrasta con l'interesse della collettività
all'uso comune e generale del bene stesso. Infatti, come
affermato dai giudici amministrativi, con diverse pronunce,
alcune datate, ogni cittadino ha il diritto di godere
liberamente delle bellezze naturali non solo in funzione del
diritto al godimento dell'ambiente marino, ma anche quale
proiezione del diritto a fruire di una gradevole qualità
della vita, che, essendo un precipitato del diritto alla
salute, riceve una tutela rafforzata dall'articolo 32 della
Costituzione.
Da qui l'Autorità marittima (Capitaneria di porto),
competente a provvedere, deve tenere conto sia delle
comunicazioni autonomamente effettuate da parte del Comune
competente, nel cui territorio rientra l'area interessata
alla concessione, sia degli interessi di ordine ambientale
in senso lato, la cui influenza sull'opportunità a
preservare l'uso generale del bene demaniale è di evidenza
oggettiva. Pertanto, è a escludersi l'uso individuale in
area rientrante in un sito di interesse della comunità.
Né detto uso può essere considerato come normale . Infatti,
la concessione, a fronte di quello che sarebbe l'uso normale
di dette aree, comporterebbe un uso eccezionale del bene
pubblico e implicherebbe la sottrazione di una particolare
utilitas.
Peraltro, come affermato dal Consiglio di stato, con la
sentenza del 03.03.2004, numero 4797, nel caso in cui l'area
demaniale, individuata per iniziative di carattere
imprenditoriale, è caratterizzata da esigenze
pubblicistiche, deve essere privilegiato l'uso generalizzato
del bene, attesa la sua vocazione al pieno godimento da
parte di una massa indeterminata di soggetti con inevitabile
soccombenza dell'interesse all'utilizzo particolare. È da
sottolineare che, nella fattispecie, deve essere idoneamente
motivato il provvedimento concessivo e non già il rifiuto
alla concessione. E ciò perché la concessione comporta un
uso diverso da quello del bene comune, il cui uso ha
carattere di ordinarietà.
Inoltre, l'assentire in concessione un'area demaniale a
spiaggia privata verrebbe a violare l'habitat naturale del
litorale interessato, compromesso dal conseguente carico
antropico, che verrebbe a determinarsi con l'afflusso di un
maggior numero di utenti rispetto all'attualità (articolo
ItaliaOggi Sette del 20.10.2014. |
EDILIZIA
PRIVATA: Energia
da fonti rinnovabili.
Domanda
Il mio fondo può
essere soggetto a servitù coattiva a mezzo di pale di
aerogeneratore per la produzione di energia da fonti
rinnovabili?
Risposta
Il Consiglio di
Stato, con la sentenza numero 3723, del 12.06.2009, partendo
dalla considerazione che la produzione di energia da fonti
rinnovabili è un servizio pubblico, ha affermato che la
Pubblica amministrazione, sulla base del regime speciale
costituito dall' articolo 43, comma 6-bis, del decreto
legislativo 08.06.2001, numero 327, dall'articolo 1, comma
4, della legge 09.01.1991, numero 10, e dall'articolo 12 del
decreto legislativo 29.12.2003, numero 387, ha il potere di
costituire, con un proprio provvedimento, una servitù di
contenuto non previsto dall'ordinamento.
La fattispecie affrontata dal Consiglio di stato riguardava
la costituzione di una servitù di sorvolo a mezzo di pale di
aerogeneratore sul fondo del vicino.
I giudici Palazzo Spada superano il pensiero del Giudice di
primo grado (Tar Puglia) che aveva affermato che la
costituzione coattiva di una servitù di sorvolo del fondo
altrui a mezzo delle pale di un aerogeneratore di energia
non figura tra quelle astrattamente descritte dalla legge in
materia di energia e non estensibili al di fuori dei casi
espressamente considerati stante la natura eccezionale della
relativa disciplina.
Per il Consiglio di stato, la disciplina civilistica per la
costituzione di servitù volontarie o coattive tra privati
non è esaustiva, atteso che lo stesso codice civile ,
all'articolo 834, comma 2, prevede che regimi espropriativi
speciali siano introdotti e disciplinati da apposite norma
ad hoc. E in tali discipline speciali, per i Giudici, deve
essere ricompresa, in particolare, anche la realizzazione di
impianti eolici per la produzione di energia elettrica. È
questa, per il Consiglio di stato, una materia che
presuppone la possibilità, in relazione alle singole
fattispecie concrete, di graduare il sacrificio da imporre
ai privati in vista della realizzazione dell'interesse
pubblico perseguito.
E ciò in ragione del combinato disposto dell'articolo 43
citato, che considera di interesse pubblico e di pubblica
utilità l'utilizzazione delle fonti di energia rinnovabili,
e dell'articolo 12, pure citato, che ribadisce il principio
che le opere concernenti la realizzazione degli impianti i
energia eolica sono di pubblica utilità, indifferibili e
urgenti (articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Lo statuto non può vietare la mobilità tra i
gruppi consiliari.
Un consigliere comunale, distaccatosi dal proprio gruppo
consiliare formato da tre componenti, ha accettato la nomina
di assessore e dichiarato di voler formare un gruppo
autonomo. È possibile fuoriuscire da un gruppo consiliare
formato da tre unità, numero minimo stabilito dallo statuto
dell'ente?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38,
comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000).
La materia, pertanto, è regolata dalle apposite norme
statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali
nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli,
riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38 citato.
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza,
comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari
ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono
ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali,
nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i
titolari della competenza a dettare norme, statutarie e
regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, atteso che non è dato conoscere il
contenuto del regolamento in ordine alla disciplina di
dettaglio dei gruppi consiliari, si rileva che la norma
statutaria, oltre a fissare il numero minimo di tre
componenti, dispone, altresì, che i gruppi consiliari «devono
essere espressione politica della lista di partecipazione
alle elezioni del consiglio». Oltre al vincolo numerico
sussisterebbe, dunque, l'obbligo di cristallizzare i gruppi
all'esito elettorale, senza alcuna possibilità di variazione
successiva all'insediamento del consiglio.
Tale disposizione statutaria qualora venga interpretata
anche nel senso di vietare i movimenti all'interno dei
singoli gruppi costituiti, sembrerebbe violare il principio
fondamentale, confermato dalla giurisprudenza (cfr. Tar
Lazio, sentenza n. 649 del 21.07.2004) secondo il quale «non
è configurabile alcun obbligo giuridico che vincoli l'eletto
al proprio partito ovvero ai propri elettori che non
permetta, nel corso della consiliatura, l'abbandono della
coalizione d'origine e il contemporaneo transito in altra
coalizione».
Va da sé che gli eventuali mutamenti, oltre a incidere sul
numero dei gruppi, ovvero sulla consistenza numerica degli
stessi, influiscono sulla composizione delle commissioni
consiliari, modificando i rapporti tra le forze politiche
presenti in consiglio.
Fatta salva la verifica dell'effettivo contenuto delle
disposizioni regolamentari, i vincoli statutari non
consentirebbero le modificazioni evidenziate, sicché appare
opportuna da parte dell'ente, la modifica delle stesse
disposizioni dello statuto, ai sensi dell'articolo 6 del
decreto legislativo n. 267/2000 ed, eventualmente, delle
norme regolamentari, sia per eliminare il possibile divieto
di mobilità tra gruppi che per il necessario adeguamento
alle successive prescrizioni di legge che hanno variato la
composizione dei consigli comunali, in quanto la norma
statutaria appare «rapportata a una diversa composizione
numerica del consiglio comunale» (articolo
ItaliaOggi del 17.10.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Conferenza dei capigruppo.
L'omissione, da parte del sindaco, della convocazione della
conferenza dei capigruppo prima di ogni adunanza consiliare
è compatibile con quanto previsto dalle norme del decreto
legislativo n. 267/2000?
Nel caso di specie, a seguito di modifica, con delibera
consiliare, del regolamento comunale, che ha ridisegnato la
configurazione giuridica della conferenza dei capigruppo, il
sindaco ha omesso di convocare la conferenza stessa prima di
ogni adunanza consiliare, ritenendo tale adempimento non più
obbligatorio alla luce delle nuove norme regolamentari.
In merito, lo statuto del comune, oltre a prevedere
l'istituzione della conferenza dei capigruppo, ne delinea la
funzione giuridica riconducendo le relative competenze alla
finalità principale di garantire e sostanziare il diritto di
informazione dei consiglieri, sia come singoli che come
gruppi, previsto dall'art. 39 del decreto legislativo n.
267/2000.
In sostanza, lo statuto dell'ente locale, pur demandando a
una successiva fonte regolamentare la disciplina concernente
il funzionamento e le specifiche attribuzioni della
conferenza dei capigruppo, non consentirebbe di modificarne
la funzione giuridica rispetto alle finalità perseguite
dalle disposizioni del citato Tuel, in materia di diritto
all'informazione dei consiglieri (articolo
ItaliaOggi del 17.10.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Responsabilità raccolta rifiuti.
Domanda
Il titolare di un'impresa
di raccolta dei rifiuti può essere coinvolto nelle
responsabilità dei propri dipendenti?
Risposta
La Corte di cassazione,
sezione terza penale, con la sentenza del 15.11.2013, numero
45932, ha affermato che il reato di cui all'articolo 256,
del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, ha natura
contravvenzionale, che si integra mediante semplice colpa.
Ne consegue, per la Suprema corte che esso è ascrivibile
anche al titolare dell'impresa sotto il profilo dell'omessa
vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in
essere la condotta vietata. Inoltre la Corte di cassazione,
sezione terza penale, con la sentenza del 25.05.2011, numero
23971, ha precisato che l'articolo 178 del citato decreto
legislativo 03.04.2006, numero 152, «ha puntualmente
ribadito il principio di “responsabilizzazione e di
cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione,
nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da
cui originano rifiuti”».
E la Corte di cassazione, sezione terza penale, con la
sentenza del 28.02.2013, numero 13739, ha affermato che «il
reato di gestione di rifiuti non autorizzata è ascrivibile
al titolare dell'impresa anche sotto il profilo dell'omessa
vigilanza dei dipendenti che hanno posto in essere la
condotta vietata» e aggiunge che «la responsabilizzazione
e la cooperazione di tutti i soggetti coinvolti, a qualsiasi
titolo, nel ciclo di gestione non soltanto dei rifiuti è
ribadita dal dlgs 15 del 2006, art. 178 il quale...
stabilisce che “la gestione dei rifiuti è effettuata
conformemente (..) ai principi di responsabilizzazione e di
cooperazione di tutti i soggetti coinvolti”».
E il Tribunale amministrativo regionale della Toscana (Tar),
sezione seconda, con la sentenza del 05.10.2011, numero
1443, ebbe a puntualizzare che «è ipotizzabile a carico
del produttore dei rifiuti un titolo di responsabilità
concorsuale omissiva nella condotta commissiva dell'autore
dell'abbandono, in ragione della violazione colposa degli
obblighi di sorveglianza nascenti dalla posizione
qualificata di garanzia». Confronta, pure, al riguardo,
la sentenza della Corte di cassazione, sezione terza penale,
del 02.07.2010, numero 37194 (articolo ItaliaOggi Sette
del 13.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Impianti alimentati.
Domanda
Il termine per la
conclusione del procedimento di autorizzazione alla
realizzazione di impianti alimentati da energie rinnovabili
è un termine perentorio?
Risposta
Il termine per la
conclusione del procedimento di autorizzazione alla
realizzazione di impianti alimentati da energie rinnovabili
è, alla luce della giurisprudenza abbastanza costante,
perentorio.
Il Consiglio di stato, sezione quinta, con la sentenza del
14.10.2013, numero 5000, ha affermato che il termine di 180
giorni, previsto dall'articolo 12, comma 4, del decreto
legislativo numero 387, del 29.12.2003, ha il carattere
della perentorietà, atteso che esso è un principio
fondamentale in materia di produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia elettrica. Esso,
peraltro, viene a rispondere a esigenze di celerità e
semplificazione amministrativa, venendo così a garantire
uniformemente sul territorio nazionale il rispetto di un
termine valido verso tutti per il rilascio
dell'autorizzazione unica. Pertanto, il mancato rispetto di
detto termine legittima il ricorso avverso il
silenzio–inadempimento.
Però, per i giudici del Consiglio di stato: «Il giudice,
con riguardo alla azione avverso il silenzio, può
pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in
giudizio solo quando si tratta di attività vincolata, o
quando risulta che non residuano ulteriori margini di
esercizio della discrezionalità e non sono necessari
adempimenti istruttori che debbano essere compiuti
dall'Amministrazione». Ne consegue che neanche il
giudice può sostituirsi alla Pubblica amministrazione,
nonché alle scelte a essa riservate. Il giudice, poi, non
può pronunciarsi «con riferimento, come scrivono i
giudici di Palazzo Spada, a poteri amministrativi non ancora
esercitati».
Con l'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo
03.03.2011, numero 28, il termine per la conclusione del
procedimento autorizzatorio summenzionato è stato ridotto a
novanta giorni e ha conservato il suo carattere di
perentorietà. Tale affermazione trova conforto nella
sentenza numero 5895, del 21.11.2012, del Consiglio di stato
che ha condannato una Regione, competente in materia di
autorizzazione unica, per la mancata conclusione del
procedimento nel termine perentorio di novanta giorni.
In ogni caso, il mancato rispetto di detto termine viola una
chiara disposizione normativa e contravviene allo spirito di
massimo favor rispetto a tale tipologia di impianti
alimentati da energie rinnovabili, voluto dal legislatore e,
a monte, dalla direttiva dell'Unione europea e di altri
accordi conclusi a livello internazionale, tesi all'aumento
della produzione di energia rinnovabile (Tar Molise,
Campobasso, 29.11.2006, numero 984) (articolo ItaliaOggi
Sette del 13.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Aree protette.
Domanda
Si chiede se, in tema di
parere da emettere da parte dell'Ente parco, possa esser
invocato il cosiddetto silenzio-assenso.
Risposta
Il Consiglio di stato,
sezione quarta, con la sentenza numero 5188, del 28.10.2013,
ha affermato che in materia di tutela dell'ambiente, il
parere dell'Ente parco, che ha in tutela l'area protetta,
deve essere sempre espresso. Per i giudici, nel caso, non
esiste un'ipotesi di silenzio–assenso, per cui il diniego di
nulla osta, anche se sopravvenuto oltre il termine fissato
dalla legge deve essere considerato legittimo.
Il pronunciamento dà un'interpretazione di segno opposto
rispetto a quella formulata dallo stesso Consiglio di stato,
sezione sesta, con la sentenza del 29.12.2008, numero 6591.
Il Consiglio di stato, con la citata sentenza del 2013,
numero 5188, sottolinea che la disposizione contenuta
nell'articolo 13 della legge 06.12.1991, numero 394 (legge
quadro sulle Aree protette), che disciplina il nulla osta
relativo alle opere che devono essere effettuate all'interno
dell'Ente parco, è stata abrogata dalla disposizione portata
dall'articolo 20, comma quarto, della legge numero 241, del
1990, così come sostituita dalla legge numero 80 del 2005,
che ha convertito il decreto legge in materia di
competitività. Detta disposizione, per i predetti giudici
abrogata, prevedeva che il suddetto nulla osta poteva essere
rilasciato anche tramite il silenzio-assenso, una volta
decorso il termine di sessanta giorni, prorogabile una volta
soltanto per un massimo di trenta giorni.
Per il Consiglio di stato, infatti, nel caso, non esiste un
rapporto di specialità che consenta alla citata disposizione
di cui all'articolo 13 della legge 06.12.1991, numero 394,
di sopravvivere anche dopo l'entrata in vigore della
successiva disposizione di cui al summenzionato articolo 20,
comma quarto, della legge numero 241, del 1990, così come
sostituita dalla legge numero 80 del 2005. Si è in presenza
di una successione nel tempo tra due norme generali e, di
conseguenza, la legge posteriore, alla luce del noto
principio (articolo 15 del codice civile), viene ad abrogare
la legge anteriore, con essa incompatibile (articolo
ItaliaOggi Sette del 13.10.2014). |
TRIBUTI:
Tassa smaltimento rifiuti urbani.
Domanda
Sono proprietario di un
garage auto che per la vetustà dell'edificio è
inutilizzabile. Sono tenuto al pagamento, per esso, della
tassa sui rifiuti solidi urbani, dato che in esso non viene
prodotto alcun rifiuto?
Risposta
Il presupposto impositivo
della tassa sui rifiuti solidi urbani, ai sensi
dell'articolo 62, comma primo, del decreto legislativo
numero 507, del 1993, (analogamente è disposto in ordine
alla Tares e alla Tari), è il possesso o la detenzione di
locali suscettibili di produrre rifiuti solidi urbani. Il
successivo comma due prevede alcuni casi per i quali la
tassa non è dovuta.
Essi sono individuati nel caso in cui i locali non possono
produrre rifiuti per la loro natura o per il particolare uso
a cui essi sono destinati stabilmente e nel caso in cui sono
i predetti locali sono in condizione di obiettiva
inutilizzabilità. Questo dato deve essere indicato
esplicitamente nella denuncia originaria o di variazione
presentata al Comune.
La Corte di cassazione, all'uopo interessata, con
l'ordinanza numero 12443, del 03.06.2014, ha affermato che
la predetta normativa pone una presunzione legale in ordine
alla produzione dei rifiuti a carico del contribuente.
Infatti, per i Supremi giudici, su di esso grava l'onere di
provare l'esistenza dei presupposti per potere usufruire
dell'esenzione, come per legge.
Pertanto, nel caso, se nella denuncia originaria o in quella
di variazione, presentata al Comune competente, non sono
state evidenziate le obiettive condizioni di
inutilizzabilità del garage, la tassa per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani è dovuta (articolo ItaliaOggi Sette
del 13.10.201). |
TRIBUTI:
Pertinenze Imu.
Domanda
Ai fini dell'Imposta
municipale propria (Imu), esiste un criterio certo per
individuare le pertinenze dell'abitazione?
Risposta
La legge numero 147, del
2013 (legge di stabilità per l'anno 2014), puntualizzando
meglio la normativa che regolamenta l'Imposta municipale
propria (Imu), portata dall'articolo 13 del decreto legge
numero 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla
legge numero 214, del 2011, ha affermato che la suddetta
imposta non si applica al possesso dell'abitazione
principale e delle pertinenze.
Ha aggiunto, poi, che per pertinenze dell'abitazione
principale si intendono esclusivamente quelle classificate
nelle categorie catastali C/2, C/6, C/7, nella misura
massima di una unità pertinenziale per ciascuna delle
categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto
unitamente all'unità ad uso abitativo. La Corte di
cassazione, con la sentenza del 30.11.2009, numero 25127,
ebbe ad affermare che, ai sensi dell'articolo 817, del
codice civile, son pertinenze le cose destinate in modo
durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa.
Quindi, ai fini dell'attribuzione della qualità di
pertinenza occorre basarsi, per i Supremi giudici, «sul
criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e
concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra,
secondo la relativa definizione contenuta nell'articolo 817
del codice civile».
In materia fiscale, aggiungono i predetti giudici, «attesa
la indisponibilità del rapporto tributario, la prova
dell'asservimento pertinenziale, che grava sul contribuente
(quando, come nella specie, ne derivi una tassazione
attenuata) deve essere valutato con maggiore rigore rispetto
alla prova richiesta nei rapporti di tipo privatistico.
Se la scelta pertinenziale non è giustificata da reali
esigenze (economiche, estetiche o di altro tipo), non può
avere valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che
impone la tassazione in ragione della reale natura del
cespite» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014. |
EDILIZIA
PRIVATA:
Distanza dal mare per costruzioni.
Domanda
La battigia del mare e la
distanza delle costruzioni da essa come devono essere
definite e interpretate?
Risposta
Ai fini del calcolo della
distanza dal mare per l'inedificabilità nell'ambito dei
centocinquanta metri, un elemento che bisogna prendere in
considerazione è la battigia del mare.
Normalmente per battigia del mare si intende quella zona
delle coste sabbiose e limose che viene periodicamente
sommersa e scoperta dalle onde con mare calmo.
Tale definizione, però, non tiene conto del fatto che, per
lo più, nel nostro Paese, si è in presenza di coste
rocciose. Pertanto, è bene ritenere che per battigia del
mare si debba intendere il punto in cui avviene il contatto
tra il mare e la terraferma. In tal modo si viene ad avere
un criterio di valutazione conforme per tutto il territorio
nazionale. Ora, al fine di determinare la distanza della
costruzione dalla battigia del mare, alla luce di costante
giurisprudenza del giudice amministrativo, è bene effettuare
il calcolo non con riferimento allo sviluppo scosceso
dell'abitazione al mare, bensì prendendo in esame la linea
orizzontale tra i punti più vicini del manufatto e della
costa, nel punto di intersezione con la linea verticale
proiettata dalla battigia al mare.
Diversamente, se si misurasse la distanza seguendo
l'andamento scosceso del terreno si avrebbe che i litorali
bassi e sabbiosi, spesso caratterizzati da una certa
uniformità di paesaggio, sarebbero tutelati da un divieto
assoluto di edificare a distanze inferiore a centocinquanta
metri, mentre per il litorali frastagliati e discontinui,
generalmente più interessanti sotto il profilo naturalistico
e paesaggistico, il divieto non varrebbe per quelle
costruzioni che si porrebbero a una distanza solo
formalmente superiore a quella minima di legge, in ragione
del dislivello o della particolare conformazione del pendio,
pur essendo obiettivamente in linea d'aria a una distanza
dalla battigia del mare inferiore a quella prescritta.
Al riguardo, interessante è la sentenza n. 998 del
29.10.2009 del Consiglio di giustizia amministrativa della
Regione Sicilia (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014). |
CONDOMINIO:
Animali e condominio.
Domanda
Il divieto di tenere
animali è una regola legittima da inserire nel regolamento
di condominio?
Risposta
Il quinto comma dell'art.
1138 del cod. civ., introdotto dalla legge di riforma del
condominio n. 220/2012, efficace dal 17/6/2013, dispone che
«le norme del regolamento non possono vietare di
possedere o detenere animali domestici».
Pur non mancando opinioni di segno opposto, la tesi più
accreditata -conforme agli orientamenti manifestatisi in
passato in seno alla Corte di cassazione, che si ritengono
essere stati deliberatamente recepiti dal legislatore nella
riforma del condominio- è che tale preclusione (quella,
appunto, di vietare gli animali in condominio) operi
soltanto con riferimento ai regolamenti di tipo assembleare
approvati a partire dal 18.06.2013 e non per quelli
assembleari già in vigore prima di tale data, né per quelli
di tipo «contrattuale» posto che con riferimento a
questi ultimi il 4° comma dello stesso art. 1138 da sempre
dispone che «le norme del regolamento non possono in
alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali
risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni»
-intendendosi per tali anche i regolamenti contrattuali– «e
in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli
artt. 1118, 2° comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e
1137» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Attività extra lavorativa e
lavoro occasionale di tipo accessorio.
L'INPS ha chiarito (cfr. circolare n.
88/2009) che per i dipendenti pubblici è possibile svolgere
lavoro occasionale di tipo accessorio, previa acquisizione
della prescritta autorizzazione da parte
dell'amministrazione di appartenenza, ai sensi dell'art. 53
del d.lgs. 165/2001.
Il Comune chiede di conoscere se sia possibile autorizzare
un proprio dipendente a part-time (30 ore settimanali),
previa autorizzazione ex art. 53 del d.lgs. 165/2001, a
svolgere attività di lavoro occasionale di tipo accessorio,
remunerata con i c.d 'voucher', presso altra pubblica
amministrazione.
Preliminarmente, in linea generale, si osserva che il lavoro
occasionale di tipo accessorio trova compiuta disciplina
nell'art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, che ha subito rilevanti
modifiche nel corso degli anni.
Si sottolinea che, come rilevato dall'INPS
[1], le
prestazioni di lavoro occasionale accessorio debbono
intendersi quali attività lavorative di natura meramente
occasionale e accessoria, non riconducibili a tipologie
contrattuali tipiche di lavoro subordinato o di lavoro
autonomo.
Pur non rientrando il lavoro accessorio tra le forme
lavorative che danno origine a una tipologia di lavoro
subordinato, è da notare che l'art. 36, comma 2, del d.lgs.
n. 165/2001, inserisce comunque detta tipologia di
prestazioni fra le forme di contratti flessibili di
assunzione e di impiego del personale, utilizzabili dalle
pubbliche amministrazioni per rispondere ad esigenze
temporanee ed eccezionali.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali
[2] ha
sottolineato inoltre come la modifica al testo dell'art. 70
del d.lgs. n. 276/2003, apportata dalla l. n. 92/2012, abbia
eliminato quella serie di causali soggettive e oggettive che
consentivano in precedenza il ricorso a detto istituto,
sostituendolo con una disposizione che prevede
essenzialmente limiti di carattere economico.
Allo stato attuale, quindi, per il committente pubblico si
prevede la possibilità di ricorrere al lavoro accessorio 'nel
rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in
materia di contenimento delle spese di personale e, ove
previsto, dal patto di stabilità interno'
[3].
Pertanto, è possibile utilizzare il lavoro accessorio in
tutti i settori, da parte di qualsiasi committente, con
qualsiasi soggetto [4],
nel rispetto di un compenso massimo stabilito in 5.000 euro
per anno solare.
Ciò premesso a livello di inquadramento generale, si osserva
che l'INPS [5],
in merito alla possibilità, da parte dei dipendenti
pubblici, di svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio,
ha precisato che, per questi, trova applicazione l'art. 53
del d.lgs. 165/2001, in tema di incompatibilità, cumulo di
impieghi e incarichi; nello specifico, si è sottolineato che
è obbligatoria la richiesta, all'amministrazione di
appartenenza, del rilascio di autorizzazione preventiva per
lo svolgimento, a favore di soggetti pubblici e privati, di
incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei
doveri d'ufficio, per i quali sia previsto, sotto qualsiasi
forma, un compenso (art. 53, comma 6).
La citata norma esclude dalla richiesta di autorizzazione i
dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con
prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento,
i docenti universitari a tempo definito e le altre categorie
di dipendenti pubblici ai quali è consentito, da
disposizioni speciali, lo svolgimento di attività
libero-professionali.
L'INPS specifica altresì che la richiesta di autorizzazione
può essere effettuata, ai sensi del comma 10 del citato
articolo 53, da parte dello stesso dipendente o dei soggetti
pubblici e privati che intendono avvalersi delle prestazioni
del lavoro occasionale. Conseguentemente, l'impiego di
dipendenti pubblici, senza la preventiva autorizzazione,
comporta -per il dipendente e per l'amministrazione pubblica
interessata- le sanzioni previste dai commi 7 e 8 del
medesimo articolo 53.
Un'ulteriore precisazione, rilevante al fine che ci occupa,
è stata fornita dallo stesso Istituto previdenziale
[6], che
ha ritenuto doveroso evidenziare come, in considerazione di
finalità antielusive, il ricorso all'istituto del lavoro
occasionale non sia compatibile con lo status di
lavoratore subordinato (a tempo pieno o parziale), se
impiegato presso lo stesso datore di lavoro titolare del
contratto di lavoro dipendente.
Pertanto, preclusa la possibilità di utilizzare, con detta
formula lavorativa, un proprio lavoratore dipendente,
risulta invece ammissibile l'espletamento di detta attività
extra lavorativa presso un altro datore di lavoro pubblico,
previa autorizzazione preventiva dell'Ente di appartenenza.
Per quanto concerne, da ultimo, l'aspetto relativo alla
fiscalità dei 'buoni lavoro', si osserva che l'art.
72, comma 3, del d.lgs. 276/2003 precisa che il compenso
relativo ai voucher è esente da qualsiasi imposizione
fiscale [7].
--------------
[1] Cfr. INPS,
circolare 03.02.2010 n. 17.
[2] Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
circolare 18.07.2012
n. 18/2012.
[3] Cfr. art. 70, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003.
[4] Cfr. INPS,
circolare 29.03.2013 n. 49/2013, punto 2. Tipologie di
prestatori e attività, ove si precisa che, a decorrere dal
18.07.2012, data di entrata in vigore della legge n.
92/2012, il lavoro occasionale accessorio può essere svolto
da qualsiasi soggetto (disoccupato, inoccupato, lavoratore
autonomo o subordinato, full-time o part-time, pensionato,
studente, percettore di prestazioni a sostegno del reddito).
[5] Cfr. INPS,
circolare 09.07.2009 n. 88/2009.
[6] Cfr. la già citata circolare n. 49/2013, punto 2.
Tipologie di prestatori e attività.
[7] Cfr. anche Voucher: il sistema dei buoni lavoro,
consultabile in: www.inps.it e Vademecum buoni lavoro per
lavoro occasionale accessorio, consultabile in:
www.lavoro.gov.it. Per eventuali chiarimenti si suggerisce
di contattare direttamente la competente Agenzia delle
entrate (07.10.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Sostituzione dipendente a tempo
indeterminato con tempo determinato.
L'art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001
dispone che le amministrazioni pubbliche possono avvalersi
delle forme contrattuali flessibili (tempo determinato,
somministrazione lavoro, ecc.) per rispondere ad esigenze di
carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale.
Il Comune ha chiesto di conoscere se sia possibile
sostituire un operaio a tempo indeterminato, che sarà
collocato in quiescenza, mediante assunzione a tempo
determinato. L'Ente manifesta in proposito la volontà di non
accollarsi un impegno di costo a lungo termine, causa
l'incertezza della relativa capacità di bilancio negli anni
futuri. L'Amministrazione istante vorrebbe pertanto
acquisire delucidazioni in ordine alla fattibilità di quanto
prospettato (assunzione a tempo determinato), mediante
l'integrazione della dotazione organica e il ricorso alla
mobilità di comparto, o ad altre procedure del caso.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione
e relazioni sindacali, preliminarmente si ritiene utile
fornire un quadro generale illustrativo dei presupposti e
condizioni che disciplinano, allo stato attuale, il ricorso
ad assunzioni a tempo indeterminato e determinato nelle
amministrazioni pubbliche e, nello specifico, negli enti del
comparto unico del pubblico impiego regionale e locale.
Norme di principio, applicabili a tutte le amministrazioni
elencate all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (enti
locali compresi) sono rinvenibili all'art. 36, commi 1 e 2,
del medesimo decreto.
Il citato comma 1 prevede infatti che, per le esigenze
connesse con il proprio fabbisogno ordinario, le pubbliche
amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di
lavoro subordinato a tempo indeterminato, seguendo le
procedure di reclutamento previste dall'articolo 35 del
d.lgs. 165/2001.
Il successivo comma 2 precisa altresì che, per rispondere ad
esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o
eccezionale, le amministrazioni pubbliche possono avvalersi
delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di
impiego del personale previste dal codice civile e dalle
leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa
[1], nel
rispetto delle procedure di reclutamento vigenti.
Il Dipartimento della funzione pubblica [2]
ha evidenziato come il richiamato comma 2 'con
l'inserimento della parola 'esclusivamente' (esigenze di
carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale), ha
rafforzato il principio secondo cui la regola
nell'instaurazione dei rapporti di lavoro è il contratto a
tempo indeterminato (contratto dominante)'.
Premesso un tanto, si rileva come, a mente della
legislazione vigente, il ricorso a contratti di lavoro
flessibile (tempo determinato) non sia giustificato per
fronteggiare esigenze di natura stabile e continuativa
quale, per l'appunto, la sostituzione di un dipendente a
tempo indeterminato cessato dal lavoro.
Come rilevato anche dall'ANCI [3],
la normativa vigente concernente l'utilizzo dei contratti di
lavoro a tempo determinato nella P.A. prevede un obbligo, a
carico del datore di lavoro, di effettuare una preventiva
verifica ed istruttoria circa la sussistenza o meno dei
presupposti e delle motivazioni che consentono di avvalersi
di tale forma contrattuale di lavoro.
Pertanto, alla luce delle considerazioni espresse, l'Ente
può valutare se ricorrano i presupposti per l'assunzione a
tempo determinato dell'operaio di cui trattasi, solo per
esigenze a carattere temporaneo o eccezionale
[4],
mentre, a fronte di esigenze organizzative che si
protraggano nel tempo, l'assunzione a tempo indeterminato si
pone quale giusta soluzione ai sensi della disciplina
vigente, in materia di assunzioni nel pubblico impiego.
Si aggiunge inoltre che, per procedere all'instaurazione di
un rapporto di lavoro a tempo determinato, non è necessario
adottare atti modificativi e integrativi della dotazione
organica dell'Amministrazione, risultando sufficiente la
manifestazione di volontà espressa nell'adozione dell'atto
di programmazione del fabbisogno di personale, che
periodicamente viene approvato ed, eventualmente aggiornato,
in corso d'anno. Il giudice amministrativo[5] ha
sottolineato, infatti, che la programmazione del fabbisogno
del personale rappresenta 'il momento ricognitivo delle
esigenze dell'Ente a livello organizzativo ed è finalizzata
ad assicurare che le assunzioni del personale dipendente
avvengano per far fronte ai compiti istituzionali di
ciascuna amministrazione rilevati sulla base di una
previsione riferita ad un arco temporale piuttosto ampio (un
triennio) e non sulla base di esigenze organizzative
contingenti ed estemporanee'.
Ribadito che, ai sensi dell'art. 36, comma 5-ter, del d.lgs.
165/2001, il ricorso al tempo determinato può avvenire
esclusivamente per esigenze di carattere temporaneo o
eccezionale, non appare necessario che le assunzioni si
riferiscano a posti esistenti e vacanti nella dotazione
organica.
Si sottolinea altresì che, come disciplina di riferimento, a
seguito dell'intervenuta sentenza della Corte costituzionale
n. 54/2014, gli enti locali del comparto unico applicano, in
materia di assunzioni, le disposizioni introdotte dalla l.r.
12/2014, all'articolo 4, fermi restando i principi di
coordinamento della finanza pubblica e delle norme regionali
in materia di patto di stabilità e contenimento della spesa
di personale.
Il comma 2 del richiamato articolo 4 sancisce
l'applicazione, alle amministrazioni del comparto unico, a
decorrere dall'01.01.2014, ai fini dell'attivazione di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato o con contratti di
lavoro flessibile (anche somministrato), delle disposizioni
previste a livello nazionale in materia di limiti
assunzionali e relative fattispecie di deroga
[6].
Da ultimo si rileva come il comma 6 del citato articolo 4
della l.r. 12/2014 imponga l'esperimento della procedura
prioritaria di mobilità all'interno del comparto unico
esclusivamente per l'attivazione di rapporti di lavoro con
contratto a tempo indeterminato, per la copertura di posti
vacanti, e non anche nel caso di instaurazione di contratti
a tempo determinato.
In relazione a quest'ultima fattispecie di lavoro
flessibile, esclusivamente -si ribadisce- per esigenze di
carattere temporaneo o eccezionale, l'Ente potrà invece, a
propria discrezione, procedere a bandire una selezione per
il reclutamento del personale o, in alternativa, decidere di
attingere a graduatorie già approvate e ancora valide (anche
di altre amministrazioni del comparto).
---------------
[1] L'art. 36, comma 5-ter, del d.lgs. 165/2001 dispone
espressamente che le disposizioni previste dal d.lgs.
368/2001 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa
all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso
dall'UNICE, dal CEEP e dal CES) si applicano alle pubbliche
amministrazioni, fermi restando per tutti i settori
l'obbligo di rispettare il comma 1, la facoltà di ricorrere
ai contratti di lavoro a tempo determinato esclusivamente
per rispondere alle esigenze di cui al comma 2 e il divieto
di trasformazione del contratto di lavoro da tempo
determinato a tempo indeterminato.
[2] Cfr. circolare n. 5/2013.
[3] Cfr. parere del 17.06.2014.
[4] Considerato che non è ammissibile la sostituzione di
personale a tempo indeterminato con assunzioni a tempo
determinato (nel senso di 'copertura' di un posto a tempo
indeterminato nella dotazione organica con un'assunzione a
tempo determinato), l'Ente potrebbe comunque dimostrare la
necessità di ricorrere a personale con contratto a termine,
per un determinato periodo, per fronteggiare incombenze
urgenti e per lo svolgimento di attività improcrastinabili.
[5] Cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. II, n. 2339/2013.
[6] Per le assunzioni a tempo indeterminato, vedasi l'art.
3, commi 5 e segg., del d.l. 90/2014, convertito in l.
114/2014; per i contratti flessibili, vedasi l'art. 9, comma
28, del d.l. 78/2010, convertito in l.122/2010 (06.10.2014
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CORTE DEI CONTI |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
73, comma 1, della l.r. 12.2005 stabilisce a tal fine che
“in ciascun comune, almeno l'8 per cento delle somme
riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria è ogni anno
accantonato in apposito fondo, risultante in modo specifico
nel bilancio di previsione, destinato alla realizzazione
delle attrezzature indicate all'articolo 71, nonché per
interventi manutentivi, di restauro e ristrutturazione
edilizia, ampliamento e dotazione di impianti, ovvero
all'acquisto delle aree necessarie”.
Sicché, la concessione del
finanziamento pubblico, nei limiti delle risorse accantonate
nel bilancio dell’ente, sia subordinato ad uno specifico
provvedimento amministrativo che ne accerti l’ammissibilità
alla luce dei parametri indicati dalla legge.
A tal fine l’amministrazione comunale è tenuta, oltre che a
verificare riconducibilità degli interventi richiesti con
quelli normativamente previsti e la loro compatibilità con
gli strumenti urbanistici in essere, anche a valutare,
nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa,
l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera
in ragione della consistenza ed incidenza sociale nel comune
delle rispettive confessioni religiose.
Né il comune risulta obbligato a finanziare totalmente il
programma presentato, potendo il finanziamento essere
concesso solo in parte.
In assenza di siffatta valutazione, destinata a trovare
espressione in un provvedimento formale dei competenti
organi comunali adeguatamente motivato con riguardo agli
interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, non
appare configurabile in capo ai potenziali beneficiari alcun
diritto soggettivo a conseguire direttamente il
finanziamento nella misura dell’accantonamento previsto
dalla legge.
--------------
Con la nota sopra citata, il Commissario straordinario del
comune di Sedriano (MI), espone quanto segue.
La legge regionale 11.03.2005, n. 12 impone ai comuni di
accantonare ogni anno almeno l'8 per cento delle somme
riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria in un in
apposito fondo diretto alla realizzazione di attrezzature di
interesse comune destinate a servizi religiosi da
effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti
in materia di culto della chiesa cattolica (o delle altre
confessioni religiose aventi una presenza diffusa,
organizzata e stabile nell'ambito del comune) che ne
facciano richiesta, presentando entro il 30 giugno di ogni
anno un programma di massima, anche pluriennale, degli
interventi da effettuare.
La stessa legge regionale stabilisce, inoltre, che il
comune, entro Il successivo 30 novembre, dopo aver
verificato che gli interventi previsti nei programmi
presentati rientrano tra quelli finanziabili, ripartisce i
predetti contributi, finanziando in tutto o in parte i
programmi a tal fine presentati.
Richiamati i predetti riferimenti normativi si rappresenta
che il comune non ha mai proceduto all'accantonamento in
bilancio della quota prevista dalla legge, né ha mai
impegnato tale somma, ma, a fronte delle ripetute richieste
di finanziamento presentate dalla locale parrocchia, ha
impegnato e, successivamente, liquidato una quota decisa
sulla base della disponibilità di bilancio del momento, a
prescindere sia dall'importo del contributo che doveva
essere accantonato e sia dal programma di massima che la
parrocchia stessa, tramite il proprio rappresentante legale,
aveva fatto pervenire al comune, unitamente alle fatture che
rendicontavano l'avvenuta realizzazione dei lavori.
Si è quindi è venuta a creare una situazione tale che, in
alcuni anni, l'importo corrisposto dal comune risulta
inferiore, in altri, superiore a quanto dovuto in base alla
legge regionale sopra richiamata.
Tutto ciò premesso e allegata la documentazione relativa al
caso di specie, si formulano i seguenti quesiti.
- se il comune debba riconoscere il finanziamento di tali
contributi pari ad euro 281.457,81 debito fuori bilancio ai
sensi dell'art. 194 del TUEL;
- se il comune possa compensare le somme dovute al culto
religioso con l'eccedenza corrisposta in più nel corso degli
anni pari ad euro 39.449,76.
...
L’esame del merito della questione, nei limiti sopra
riferiti, richiede di chiarire gli obblighi incombenti sul
Comune per effetto delle disposizioni contenute nella legge
regionale 11.03.2005, n. 12 dirette a promuovere, la
realizzazione di attrezzature di interesse comune destinate
a servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti
istituzionalmente competenti in materia di culto della
Chiesa Cattolica e delle altre confessioni religiose aventi
una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del
comune.
L’art. 73, primo comma, della predetta legge regionale
stabilisce a tal fine che “in ciascun comune, almeno l'8 per
cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione
secondaria è ogni anno accantonato in apposito fondo,
risultante in modo specifico nel bilancio di previsione,
destinato alla realizzazione delle attrezzature indicate
all'articolo 71, nonché per interventi manutentivi, di
restauro e ristrutturazione edilizia, ampliamento e
dotazione di impianti, ovvero all'acquisto delle aree
necessarie”.
Lo stesso art. 73 precisa quindi che “i contributi sono
corrisposti agli enti delle confessioni religiose di cui
all'articolo 70 che ne facciano richiesta. A tal fine le
autorità religiose competenti, secondo l'ordinamento proprio
di ciascuna confessione, presentano al comune entro il 30
giugno di ogni anno un programma di massima, anche
pluriennale, degli interventi da effettuare, dando priorità
alle opere di restauro e di risanamento conservativo del
proprio patrimonio architettonico esistente, corredato dalle
relative previsioni di spesa. Entro il successivo 30
novembre, il comune, dopo aver verificato che gli interventi
previsti nei programmi presentati rientrino tra quelli di
cui all'articolo 71, comma 1, ripartisce i predetti
contributi tra gli enti di cui all'articolo 70 che ne
abbiano fatto istanza, tenuto conto della consistenza ed
incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni
religiose, finanziando in tutto o in parte i programmi a tal
fine presentati. Tali contributi, da corrispondere entro
trenta giorni dall'esecutività della deliberazione di
approvazione del bilancio annuale di previsione, sono
utilizzati entro tre anni dalla loro assegnazione e la
relativa spesa documentata con relazione che gli enti
assegnatari trasmettono al comune entro sei mesi dalla
conclusione dei lavori”.
Dal quadro normativo definito dalle disposizioni sopra
richiamate emerge chiaramente che la concessione del
finanziamento pubblico, nei limiti delle risorse accantonate
nel bilancio dell’ente, sia subordinato ad uno specifico
provvedimento amministrativo che ne accerti l’ammissibilità
alla luce dei parametri indicati dalla legge.
A tal fine l’amministrazione comunale è tenuta, oltre che a
verificare riconducibilità degli interventi richiesti con
quelli normativamente previsti e la loro compatibilità con
gli strumenti urbanistici in essere, anche a valutare,
nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa,
l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera
in ragione della consistenza ed incidenza sociale nel comune
delle rispettive confessioni religiose.
Né il comune risulta obbligato a finanziare totalmente il
programma presentato, potendo il finanziamento essere
concesso solo in parte.
In assenza di siffatta valutazione, destinata a trovare
espressione in un provvedimento formale dei competenti
organi comunali adeguatamente motivato con riguardo agli
interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, non
appare configurabile in capo ai potenziali beneficiari alcun
diritto soggettivo a conseguire direttamente il
finanziamento nella misura dell’accantonamento previsto
dalla legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 17.10.2014 n. 263). |
ENTI LOCALI: Sull'erogazione
di un contributo comunale a fondo perso in favore della
locale parrocchia.
In base
alle norme e ai principi della contabilità pubblica, non è
rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente
locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove
queste siano necessarie per conseguire i propri fini
istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune il finanziamento, “anche se
apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un
depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo”.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che la svolge e, in quanto
tale, riceve il contributo risulta indifferente, posto che
la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando,
per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici,
esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni
di ciascun ente), soggetti aventi natura privata.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro
ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i
propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di
natura patrimoniale, le cautele debbono essere maggiori,
anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di
buon andamento, di parità di trattamento e di non
discriminazione che debbono caratterizzare l’attività
amministrativa.
Il finanziamento concesso a privati, in particolare, deve
essere tale da non incorrere nel divieto di spese per
sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del
decreto legge 31.05.2010, n. 78.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione
pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di
sponsorizzazione è la relativa funzione: la spesa di
sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di
segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così
da promuoverne l’immagine.
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno
d’iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini
istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente
locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti
privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che
(direttamente) da parte di Comuni e Province costituisce una
modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e
non una forma di promozione dell’immagine
dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la
concessione di contributi dal divieto di spese per
sponsorizzazioni, deve essere indicato dall’ente locale in
modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione è inoltre tenuta ad evidenziare i
presupposti di fatto e il percorso logico alla base
dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal
destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri
di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità
prescelte di resa del servizio.
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare
conforme al principio di congruità della spesa mediante una
valutazione comparativa degli interessi complessivi
dell’ente locale.
Il Comune potrà avvalersi delle predette indicazioni per
l’adozione degli atti di esclusiva competenza rispetto alla
fattispecie concreta descritta nella richiesta di parere.
---------------
Con la nota sopra citata, il Sindaco del comune di Suello
(LC), formula alla Sezione una richiesta di parere nei
termini di seguito riportati.
Si chiede di conoscere se sia ammissibile l'erogazione di
un contributo a fondo perso di Euro 70.000 in favore della
locale parrocchia per l’esecuzione di lavori di
ristrutturazione degli spogliatoi dell'oratorio di proprietà
parrocchiale.
A tal fine si premette che la stessa parrocchia ha richiesto
di accedere ad un contributo comunale diretto a consentire
l'adeguamento della struttura sportiva esistente consistente
nell'unico campo di calcio del territorio comunale.
Si rappresenta al riguardo che il comune di Suello non
dispone di un campo di calcio comunale e che, pertanto,
l’adeguamento della struttura esistente alle disposizioni
vigenti, costituisce una risposta effettiva alle esigenze
della cittadinanza.
Si precisa inoltre che sebbene il contributo comunale a
fondo perduto sia destinato a finanziare l'esecuzione di
lavori su un bene immobile non di proprietà comunale, la
scelta di contribuire all'investimento da parte dell'ente,
potrebbe essere comunque più vantaggiosa che non quella di
procedere alla realizzazione di una struttura di proprietà
comunale.
Si realizzerebbe infatti l’interesse di tutta la
cittadinanza, prescindendo da qualunque riserva religiosa,
di avvalersi di un impianto adeguato alle vigenti
disposizioni in materia di impiantistica sportiva, non
facendo gravare sul bilancio comunale le future spese
necessarie per la manutenzione dell’immobile.
...
L’esame del merito della questione, nei termini sopra
riferiti, richiede quindi di stabilire se ed entro quali
limiti un Comune possa finanziare soggetti privati per lo
svolgimento di determinate attività.
Si richiama, al riguardo, il consolidato orientamento
emergente dai pareri emessi sul punto da questa Sezione
(deliberazioni n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n.
26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n.
1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012,
n. 218/2014/PAR) nei quali è stato precisato che,
in base
alle norme e ai principi della contabilità pubblica, non è
rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente
locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove
queste siano necessarie per conseguire i propri fini
istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune il finanziamento, “anche se
apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un
depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo”
(Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
deliberazione n. 262/2012/PAR).
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che la svolge e, in quanto
tale, riceve il contributo risulta indifferente, posto che
la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando,
per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici,
esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni
di ciascun ente), soggetti aventi natura privata.
Si consideri anche, sotto questo profilo, che l’art. 118
della Costituzione impone espressamente ai Comuni di
favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività d’interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro
ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i
propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di
natura patrimoniale, le cautele debbono essere maggiori,
anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di
buon andamento, di parità di trattamento e di non
discriminazione che debbono caratterizzare l’attività
amministrativa.
Il finanziamento concesso a privati, in particolare, deve
essere tale da non incorrere nel divieto di spese per
sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del
decreto legge 31.05.2010, n. 78.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione
pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di
sponsorizzazione è la relativa funzione: la spesa di
sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di
segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così
da promuoverne l’immagine (Sezione regionale di controllo
per la Lombardia, deliberazione n. 1075/2010/PAR).
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno
d’iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini
istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente
locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti
privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che
(direttamente) da parte di Comuni e Province costituisce una
modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e
non una forma di promozione dell’immagine
dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la
concessione di contributi dal divieto di spese per
sponsorizzazioni, deve essere indicato dall’ente locale in
modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione è inoltre tenuta ad evidenziare i
presupposti di fatto e il percorso logico alla base
dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal
destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri
di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità
prescelte di resa del servizio.
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare
conforme al principio di congruità della spesa mediante una
valutazione comparativa degli interessi complessivi
dell’ente locale.
Il Comune potrà avvalersi delle predette indicazioni per
l’adozione degli atti di esclusiva competenza rispetto alla
fattispecie concreta descritta nella richiesta di parere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 17.10.2014 n. 262). |
SEGRETARI
COMUNALI: Lo stipendio del segretario non può essere «alleggerito».
Corte dei conti. Inapplicabile il Dl Pa in caso di cambio di
ente.
Vi sono molti dubbi sulla
legittimità del divieto di reformatio in peius del
trattamento economico dei segretari comunali che passano a
un ente di fascia inferiore, in quanto questa materia si
deve considerare compresa nella contrattazione collettiva.
In ogni caso sono esenti i segretari in disponibilità.
Sono queste le indicazioni
contenute nel
parere
03.10.2014 n. 52 della sezione regionale di controllo
della Corte dei Conti della Liguria.
Se
questa "coraggiosa" tesi sarà confermata, si pongono seri
dubbi sulla legittimità della diminuzione del trattamento
economico dei segretari che sono passati in un Comune di
classe inferiore, soprattutto laddove tale passaggio sia
avvenuto prima dello scorso 1° gennaio, data di entrata in
vigore della nuova disposizione.
Ricostruiamo tutti i passaggi. La legge n. 147/2013, al
comma 458, ha abrogato le norme che impedivano la reformatio
in peius del trattamento economico dei dipendenti pubblici,
vale a dire l'articolo 202 del Dpr n. 3/1957, che obbligava
le Pubbliche amministrazioni all'erogazione di una indennità
ad personam nel caso di mobilità che determinava il
peggioramento del trattamento economico in godimento, e
l'articolo 3, comma 57, della legge n. 537/1993, per cui
questa indennità non era riassorbibile con i futuri
miglioramenti e non era rivalutabile.
Sulla base di queste disposizioni, la disciolta Agenzia dei
segretari comunali, con la deliberazione n.275/2001, aveva
stabilito che il segretario nominato presso un Comune della
fascia immediatamente inferiore rispetto a quella di
iscrizione manteneva la retribuzione di posizione prevista
per la propria fascia di iscrizione.
Sulla scorta della legge di stabilità l'unità di missione
del ministero dell'Interno, cioè la struttura che ha preso
il posto della disciolta Agenzia dei segretari, con la
circolare n. 3636 (P) del 09.06.2014, peraltro senza
revocare la deliberazione dell'Agenzia, ha chiarito che
l'abolizione del divieto di reformatio in peius si applica
ai segretari comunali e provinciali, «lasciando intendere
(ci dice il parere dei giudici contabili della Liguria) la
non operatività della norma nei confronti del segretari
comunali e provinciali che si trovano nella particolare
situazione della disponibilità».
Il parere, nel confermare l'esclusione per i segretari in
disponibilità, ricorda che la materia del trattamento
economico dei dipendenti è dal Dlgs n. 165/2001 riservata
alla contrattazione collettiva nazionale. Ed ancora, si
afferma che «per il futuro la regolamentazione non potrà che
essere individuata dalla contrattazione collettiva».
Su
questa base viene tratta la seguente conclusione: «Per i
segretari comunali e provinciali perdura la regolamentazione
prevista dalla normativa e dai contratti collettivi vigenti
quantomeno sino alla nuova tornata contrattuale. La mancanza
di una norma precettiva impone infatti l'applicazione ai
rapporti di lavoro delle regole espressamente previste dalla
normativa e dalla contrattazione collettiva esistente, che
rappresentano le uniche fonti di regolamentazione dei
rapporti di lavoro in esame» (articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2014). |
PATRIMONIO: Nelle norme di
contabilità non si rinviene alcuna disposizione che
impedisca al Comune di effettuare attribuzioni patrimoniali
a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che, in base
all’ordinamento, deve perseguire, tanto più in relazione
alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà di
cui all’art. 118 Cost..
L’attribuzione patrimoniale è consentita
solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o,
comunque, di interesse per la collettività insediata sul
territorio. Nel caso di attribuzione a titolo gratuito,
poiché non emerge con immediatezza il collegamento tra
l’atto traslativo (o comunque attributivo del diritto) ed i
fini istituzionali dell’ente, sarà onere del cedente
evidenziare le ragioni sottese all’atto di disposizione
nonché la finalità che con l’atto medesimo intende
soddisfare.
---------------
Il Sindaco del Comune di Giovinazzo chiede alla Sezione un
parere in merito alla possibilità per un Comune di cedere in
diritto di superficie un immobile, appartenente al
patrimonio disponibile, in favore di un altro ente pubblico
(ASL), senza corrispettivo in denaro e a tempo determinato,
a fronte dell’impegno da parte del cessionario di
realizzare, avvalendosi della possibilità di accedere a
finanziamenti pubblici a destinazione vincolata, interventi
di completamento, ristrutturazione e funzionalizzazione del
bene concesso, da destinare a sede di pubblici servizi
rivolti alla collettività locale.
Il Sindaco precisa, inoltre, che alla scadenza del termine
previsto nell’atto di costituzione del diritto reale (da
determinare in base al piano di ammortamento
dell’investimento ed al valore del bene concesso), il Comune
riacquisterebbe la piena proprietà dell’immobile
...
Passando al merito della richiesta, si tratta di valutare se
sia ammissibile un trasferimento -a titolo gratuito e a
tempo determinato -della proprietà superficiaria di un
immobile, rientrante nel patrimonio disponibile comunale, a
favore di altro ente pubblico, a fronte dell’impegno di tale
ente di realizzare interventi sull’immobile medesimo che
dovrà essere destinato allo svolgimento di pubblici servizi
rivolti alla collettività locale.
Sul punto questa Corte si è già pronunciata più volte (cfr.
Sezione regionale per il controllo Lombardia, deliberazione
n. 262/PAR/2012 e Sezione regionale per il controllo
Piemonte, deliberazione n. 36/PAR/2014, quest’ultima avente
per oggetto l’attribuzione ad un soggetto terzo di un
diritto di superficie, a titolo gratuito o dietro
corrispettivo simbolico), rilevando come nelle norme di
contabilità non si rinviene alcuna disposizione che
impedisca al Comune di effettuare attribuzioni patrimoniali
a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che, in base
all’ordinamento, deve perseguire, tanto più in relazione
alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà di
cui all’art. 118 Cost..
In altre parole, l’attribuzione patrimoniale, anche a titolo
gratuito, è consentita solo se risulta strumentale al
perseguimento dei fini istituzionali dell’ente, in quanto
“se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze
della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal
Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a
“fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del
patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che
l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del
servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal
soggetto che riceve il contributo“ (Sezione regionale
Lombardia deliberazione n. 262/PAR/2012).
In tale prospettiva, rilievo fondamentale assume la
relazione da mezzo a fine che deve esistere fra
l’attribuzione patrimoniale ed i fini istituzionale
dell’ente, mentre è indifferente sia il titolo-gratuito o
oneroso- dell’attribuzione medesima sia la natura-pubblica o
privata- del ricevente. Ed, infatti, “la natura pubblica o
privata del soggetto che riceve attribuzione patrimoniale è
indifferente se il criterio di orientamento è quello della
necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di
perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa
amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per
molteplici finalità (gestione di servizi pubblici,
esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni
di ciascun ente), soggetti aventi natura privata” (cfr.
Sezione regionale Lombardia deliberazione n. 262 cit.).
Siffatti principi sono stati ribaditi anche da questa
Sezione con deliberazione n. 113 del 28.05.2014, ove
si
è confermata l’ammissibilità di “attribuzione gratuita a
terzi (anche soggetti privati) di beni pubblici se tale
attribuzione era finalizzata al soddisfacimento di un
adeguato interesse per la collettività insediata sul
territorio”, precisando, tuttavia, che “negli atti di
trasferimento sarà necessario evidenziare adeguatamente le
motivazioni e le finalità pubblicistiche perseguite”.
In conclusione, questa Sezione ribadisce il principio
generale per cui l’attribuzione patrimoniale è consentita
solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o,
comunque, di interesse per la collettività insediata sul
territorio. Nel caso di attribuzione a titolo gratuito,
poiché non emerge con immediatezza il collegamento tra
l’atto traslativo (o comunque attributivo del diritto) ed i
fini istituzionali dell’ente, sarà onere del cedente
evidenziare le ragioni sottese all’atto di disposizione
nonché la finalità che con l’atto medesimo intende
soddisfare
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 25.09.2014 n. 165). |
NEWS |
APPALTI:
Al via la spending review sugli acquisti della
p.a..
Al via la spending review sugli acquisiti della pubblica
amministrazione con la messa a punto da parte dell'Istat di
un «paniere» di beni e servizi significativi; rispetto a
questo paniere sarà scelto un campione di amministrazioni
che dovranno fornire i prezzi di acquisto, pena la riduzione
degli stanziamenti di bilancio, da confrontare con quelli di
mercato; l'obiettivo finale sarà quello di arrivare a una
tabella di confronto dei costi standardizzati, articolata
per area territoriale e per tipologia di amministrazione.
È quanto prevede il decreto del ministero dell'economia del
23.09.2014 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
18.10.2014, n. 243 che mette a punto modalità e criteri per
la rilevazione e comparazione dei prezzi di mercato dei
principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni.
Come previsto dal codice dei contratti pubblici, saranno
l'Istat, il ministero dell'economia e l'Anac, ad attuare
questa prima fase necessaria all'implementazione della
spending review sugli acquisiti della pubblica
amministrazione, che mira alla comparazione, su base
statistica, tra i costi sostenuti dalle amministrazioni e i
prezzi effettivi di mercato, con elenchi dei prezzi rilevati
da pubblicare in G.U. con cadenza almeno semestrale, entro
il 30 giugno e il 31 dicembre.
In particolare il decreto ministeriale stabilisce che il «paniere»
dei beni e servizi oggetto di rilevazione sarà individuato
dall'Istat tenendo conto della incidenza della spesa, della
diffusione presso le amministrazioni, della fattibilità
della rilevazione e dell'esistenza di una domanda, per quei
beni e servizi, confrontabile nel settore privato. Il
paniere di beni e servizi rilevanti verrà poi sottoposto a
revisione ed eventualmente aggiornato con cadenza almeno
biennale. Le amministrazioni tenute a fornire i dati
verranno scelte dall'Istat che individuerà un campione
significativo di amministrazioni aggiudicatrici e lo
comunicherà al ministero dell'economia.
Le amministrazioni che non risponderanno alle rilevazioni
potranno essere oggetto di una proposta di riduzione da
sugli stanziamenti di bilancio da parte del ministero
dell'economia. La raccolta dei dati dovrà avvenire in due
momenti: entro il 30 aprile e entro il 31 ottobre di ciascun
anno, anche con apposite rilevazioni o avvalendosi delle
camere di commercio (per i servizi informatici l'Istat si
avvarrà dell'Agenzia per l'Italia digitale). Lo scopo sarà
quello di arrivare a mettere a punto una tabella contenente
gli elementi di confronto dei prezzi articolata per area
territoriale e per tipologia di amministrazione.
Sarà sempre l'Istat a elaborare la metodologia di analisi
dei dati; in ogni caso, poi, la tabella, i risultati della
raccolta dei dati, la rilevazione dei prezzi di mercato e le
relative elaborazioni, dovranno essere trasmessi all'Anac e
al ministero dell'economia entro il 31 maggio e il 30
novembre di ciascun anno. Il decreto prevede che nei primi
18 mesi l'Istat possa effettuare la rilevazione anche
rispetto ad un numero limitato di categorie di beni e
servizi
(articolo ItaliaOggi del 23.10.2014
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per l'Iva al 4% toccata e fuga. Priva di copertura
l'agevolazione per chi ristruttura. SBLOCCA ITALIA/ Il dl si impantana sulle modifiche approvate
in commissione.
Si va verso lo stop (per mancanza di copertura finanziaria)
alla norma dello «Sblocca Italia», approvata dalla
commissione ambiente della Camera, che prevede di far
scendere al 4% l'Iva su ristrutturazioni e riqualificazione
edilizia (si veda ItaliaOggi di ieri). Circostanza,
peraltro, confermata dai tecnici del servizio bilancio della
camera, nel loro dossier secondo cui la norma determina
minor gettito e la copertura individuata (cioè l'aumento
dell'Iva sulla vendita delle nuove costruzioni) «non
determina necessariamente effetti positivi di gettito».
Non solo, aggiungono che è necessario anche «verificare» la
compatibilità con la disciplina Ue. E, dagli stessi tecnici,
arriva un'altra bocciatura: nel mirino le norme del testo
sulla deroga al Patto di stabilità interno per le regioni,
un intervento che, scrivono, «crea spazi finanziari che
potranno essere utilizzati per il finanziamento di altre
spese» e, proseguono, «appare dunque suscettibile di
determinare effetti finanziari negativi sui saldi di
fabbisogno e indebitamento».
Una situazione di incertezza
per la quale ieri è slittato l'esame dell'aula di
Montecitorio. E, con un voto dell'assemblea, è stata
approvata la richiesta del Pd di invertire l'ordine dei
lavori e di passare alla discussione generale sulla legge
Comunitaria. Del decreto 133/2014 se ne potrebbe riparlare
oggi, ma la ripresa dell'esame nell'emiciclo potrebbe
slittare a lunedì, per dare alla commissione bilancio il
tempo di recepire le relazioni della Ragioneria generale
dello stato, così da esprimere il parere sulle coperture in
settimana.
Per il presidente della V commissione Francesco
Boccia (Pd), che ha partecipato alla riunione dei
capigruppo, «l'esame del decreto potrà proseguire quando ci
sarà il parere della commissione» e per questo è necessario
avere «la relazione tecnica della Rgs». Non mancano,
intanto, le critiche. L'aliquota al 4% per interventi di
ristrutturazione degli edifici che beneficiano dell'eco
bonus e del bonus casa si fonda su risorse per lo sconto
che, però, sono «inspiegabilmente reperite dall'aumento
dell'Iva dal 4 al 10% per le nuove costruzioni», affermano
in una nota congiunta il capogruppo di Forza Italia alla
Camera, Renato Brunetta e il deputato azzurro Rocco Palese.
«Bene incentivare le ristrutturazioni, anche se il
provvedimento in questione potrebbe ricevere lo stop
dall'Unione europea per una direttiva che limita
l'applicabilità di aliquote Iva super ridotte. Ma, in ogni
caso, non è accettabile usare come copertura finanziaria
l'aumento delle tasse sulle nuove case (dal 4 al 10%),
attaccando in questo modo il settore edilizio e le famiglia
che vogliono acquistare una prima abitazione direttamente
dai costruttori», aggiungono. Stessa posizione espressa
dall'Aniem (Associazione nazionale delle imprese edili
manifatturiere): in un «momento di persistente contrazione
del mercato immobiliare e di scarsa propensione al consumo
ci sembra una misura suicida quella di disincentivare
ulteriormente la vendita di immobili», dichiara Alessandro
Frascarolo, delegato all'edilizia privata.
La parola fine
l'ha però probabilmente posta il sottosegretario
all'economia Enrico Zanetti che sulla vicenda ha chiosato,
via Facebook: «Per quanti mi hanno segnalato allarmati
l'emendamento allo Sblocca Italia approvato in commissione
ambiente che aumenterebbe al 10% l'Iva sulle cessioni di
abitazioni nuove anche se prima casa, tranquillizzo in
ordine al fatto che questa previsione normativa alla fine
non ci sarà».
Verrà intanto reintrodotta nel testo del dl la norma
(eliminata in commissione ambiente) che prevede, per
usufruire della deduzione Irpef per l'acquisto di un
immobile nuovo, l'obbligo di affittarla entro sei mesi e per
otto anni. La norma era stata eliminata in commissione
ambiente della camera con un emendamento, approvato, del
Movimento 5 Stelle. Ma sul punto c'è il parere negativo del
servizio bilancio della camera che sottolinea nel proprio
dossier per l'aula come «l'emendamento non sembra coordinato
con le restanti disposizioni dell'articolo modificato».
Non solo, tra i quattro nuovi emendamenti di «ritocco»
presentati in comitato dei nove dalla relatrice Chiara Braga
(Pd), ce n'è uno che introduce una nuova lettera a) al comma
4 dell'articolo 21 che dispone che, tra i requisiti per
usufruire della deduzione Irpef al 20% del prezzo di
acquisto dell'immobile, che «l'unità immobiliare acquistata
sia destinata, entro sei mesi dall'acquisto o dal termine
dei lavori di costruzione, alla locazione per almeno otto
anni e purché tale periodo abbia carattere continuativo: il
diritto alla deduzione tuttavia non viene meno se, per
motivi non imputabili al locatore, il contratto di locazione
si risolve prima del decorso del suddetto periodo e ne viene
stipulato un altro entro un anno dalla data della suddetta
risoluzione del precedente contratto»
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Qualificazione, stretta di Cantone. Un manuale dell'Anac per
superare le distorsioni del passato.
Appalti. Controlli rigidi sulla certificazione dei
lavori privati per evitare che si gonfino i fatturati.
Stop ai trasferimenti di «scatole
vuote» utili solo all'aumento delle classifiche di
partecipazione al mercato dei lavori pubblici. Controlli più
stringenti sulla certificazione dei lavori eseguiti per
conto dei privati, terreno in cui sono per anni girati pezzi
di carta buoni solo per gonfiare ad arte il curriculum delle
imprese.
Riordinando il monumentale corpus di documenti emanato negli
anni per guidare le procedure di qualificazione dei
costruttori interessati agli appalti pubblici, l'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac) coglie l'occasione per
imprimere una sterzata sui due principali fenomeni che hanno
ingrassato il fenomeno della corruzione legato al business
della certificazione. Una manovra in cui è possibile vedere
la mano di Raffaele Cantone, da qualche mese ormai alla
guida della nuova Anac che ha fuso per incorporazione anche
la vecchia Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
In 426 pagine il "manuale della qualificazione" mette
ordine nel dedalo di provvedimenti emanati negli ultimi 15
anni dall'Avcp raccogliendo in un codice aggiornato oltre
300 tra determinazioni, delibere e comunicati. Un lavoro di
disboscamento con alcune importanti novità.
La prima riguarda il fenomeno delle cessioni di ramo
d'azienda, da cui ha preso origine anche una delle ultime
inchieste della procura di Roma sul business della false
attestazioni. Il manuale introduce una serie di indici utili
a verificare la consistenza dell'operazione, in modo da
scongiurare trasferimenti messi in atto solo per acquisire
requisiti virtuali, mai guadagnati sul campo.
Il primo sensore che deve far scattare l'allarme delle
società private incaricate di certificare le imprese (le Soa)
è la cifra d'affari dichiarata dal ramo di impresa ceduto.
Questa dovrà essere perlomeno pari al 50% del fatturato
medio registrato negli ultimi 5 anni. Altri parametri da
valutare sono il trasferimento di almeno una parte dello
staff tecnico e della attrezzatura necessaria a garantire la
continuità aziendale e da ultimo la sussistenza di rapporti
giuridici in capo al ramo di società ceduta. «Bisognerà
verificare -spiegano all'Autorità- che l'impresa trasferisca
debiti e crediti in essere per garantire che l'operazione
non sia fittizia».
Completa il quadro un modulo standard a uso dei periti
incaricati di quantificare la consistenza delle imprese
cedute che dovrebbe consentire la rilevazione omogenea dei
dati, evitando le "discrezionalità" del passato.
L'altro intervento riguarda l'utilizzo dei lavori privati ai
fini della qualificazione al mercato pubblico. Con il
manuale l'Anac introduce paletti impossibili da aggirare
senza trasformare i certificati lavori (Cel) in carta
straccia. Qualche esempio: se in cantiere era prevista la
presenza di un direttore lavori sarà necessario accompagnare
il certificato con una sua dichiarazione che attesti il
completamento dell'opera.
Allo stesso modo fatture e contratti dovranno avere un
riscontro di veridicità legato al permesso di costruire o
alla Dia presentati dalle impresa presso l'ente che ha dato
il via libera all'intervento. In assenza di riscontri certi
il certificato sarà scartato. Altri chiarimenti riguardano
l'indipendenza delle Soa (ormai solo 26 in attività), con
misure mutuate dalla legge 190/2012 (anticorruzione) e sulla
possibilità (concessa) di usare i lavori realizzati in
subappalto ai fini della qualificazione, anche se non
indicati nel bando di gara.
Con un comunicato l'Anac torna poi sulle difficoltà
riscontrate dagli enti pubblici nella gestione delle gare
con il sistema Avcpass, denunciate da ultimo dal presidente
Anci Fassino. L'Anac non nasconde le criticità (si veda
anche Il Sole 24 Ore del 17.09.2014) del sistema ereditato
dalla passata gestione su cui «il presidente ha già chiesto
agli uffici competenti di intervenire, ponendovi rimedio»
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ristrutturazioni con Iva al 4%. Ma sale al 10% l'imposta per
chi compra dai costruttori. SBLOCCA ITALIA/ Il dl approda in aula alla camera. Probabile
il voto di fiducia.
Sforbiciata all'Iva (dal 10 al 4%) per interventi edili,
effettuati ricorrendo agli incentivi per l'efficientamento
energetico e a quelli per la ristrutturazione di casa e
arredi. Ma per compensare i minori incassi passa dal 4 al
10% l'Iva sulle nuove case vendute da imprese.
Dopo un iter
travagliato (conclusosi sabato mattina dopo varie sedute
notturne) in commissione ambiente della camera il decreto
133/2014, cosiddetto «Sblocca Italia» (Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive), sbarcato ieri in aula
per la discussione generale, entra oggi nel vivo dell'esame,
con probabile richiesta del voto di fiducia.
Sul testo si addensano novità dell'ultima ora, fra cui la
correzione, sulla base di un emendamento del M5s, che rende
più conveniente realizzare lavori nella propria abitazione,
servendosi di misure rifinanziate nella legge di Stabilità:
l'ecobonus e il bonus casa, le cui detrazioni Irpef al 65% e
al 50% vengono prorogate nel 2015, risulteranno appetibili
grazie a un taglio dell'Iva fino al 4% (misura compensata,
però, come si diceva, dal rincaro dal 4 al 10% dell'imposta
per nuove costruzioni vendute direttamente dalle imprese).
Via libera, inoltre, alla modifica del Pd che darà la
possibilità alla Cassa depositi e prestiti di acquisire
richieste di anticipazione di liquidità degli enti locali
per il pagamento dei debiti commerciali, non pervenute nei
tempi utili. E, mentre l'esecutivo sarebbe pronto a blindare
il provvedimento, accelerandone il passaggio ai senatori,
arrivano le critiche delle Regioni che approvano un
documento con proposte emendative, orientate al ripristino
del contributo di 560 milioni di euro destinati alle
amministrazioni a statuto ordinario e alla definizione della
proposta di deliberazione del Cipe per il riparto delle
risorse del Servizio sanitario nazionale per l'anno 2014.
La somma decurtata, si legge, secondo ammissione dello
stesso governo si sarebbe scaricata su «scuole paritarie,
sul finanziamento delle borse di studio, sugli interventi
per agevolare la fruizione dei libri di testo», nonché le
misure destinate alle persone disabili e sugli investimenti
per il trasporto pubblico locale, ma «solo grazie
all'accordo con le Regioni queste politiche si sono
salvate». A gettare un'ombra sul provvedimento, infine, la
Commissione europea, giacché nel pomeriggio di ieri arriva
la notizia che una norma dell'articolo 5 del decreto
potrebbe causare l'apertura di una procedura d'infrazione
nei confronti del nostro paese.
I riflettori di Bruxelles si soffermano sulla possibilità
per i concessionari autostradali di avanzare la stipula di
atti per la modifica dei rapporti concessori esistenti sulla
base di nuovi piani economico-finanziari, strada che
permetterebbe «significative modifiche» a intese esistenti
riguardanti, in particolare, i lavori da realizzare e il
livello delle tariffe
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Regolamento unico edilizio al via.
Al via il regolamento unico edilizio; nelle manutenzioni
straordinarie con la comunicazione di inizio lavori sarà
necessario l'elaborato progettuale del professionista e la
compatibilità antisismica e energetica; previsto un
contributo straordinario per gli oneri di urbanizzazione per
le varianti urbanistiche; limiti alle concessionarie
autostradali e all'in house per gli interventi nel settore
del rischio idrogeologico.
Sono queste alcune delle
modifiche apportate al decreto legge 133/2014 (Sblocca
Italia) dalla commissione ambiente e territorio della camera
che sabato ha licenziato il testo da ieri all'esame
dell'Aula. Fra le diverse novità spicca la reintroduzione
(era infatti in una delle bozze iniziali del decreto legge)
del cosiddetto regolamento unico edilizio, che dovrebbe
mettere fine a più di 8000 regolamenti comunali diversi uno
dall'altro.
La disposizione approvata prevede che il
governo, le regioni e le autonomie locali, concludano in
sede di Conferenza unificata accordi o intese per l'adozione
ai sensi dell'articolo 8 della legge 05.06.2003 di uno
schema di regolamento edilizio-tipo al fine di semplificare
e uniformare gli adempimenti. Gli accordi, secondo un rinvio
di rango costituzionale, costituiranno livello essenziale
delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e
i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su
tutto il territorio nazionale. Il regolamento edilizio-tipo
dovrà essere adottato nei termini fissati con i suddetti
accordi.
Per quel che concerne l'edilizia privata viene previsto, per
gli interventi di manutenzione straordinaria per i quali si
può procedere con comunicazione di inizio lavori (sale da
258 a 1.000 euro la sanzione per mancata comunicazione), che
il professionista incaricato attesti che le modifiche da
apportare siano in linea con le norme sul rendimento
energetico e antisismiche e produca gli «elaborati
progettuali». Con una modifica all'articolo 26 la
Commissione ambiente ha anche introdotto una norma che
agevola l'approvazione di alcuni interventi di
valorizzazione urbana.
In particolare si prevede che avranno
priorità di valutazione, fra gli interventi oggetto di
accordi di programma per il recupero di immobili demaniali
inutilizzati, i progetti di recupero di immobili a fini di
edilizia residenziale pubblica, da destinare a nuclei
familiari utilmente collocati nelle graduatorie comunali per
l'accesso ad alloggi di edilizia economica e popolare e a
nuclei sottoposti a provvedimenti di rilascio per morosità
incolpevole, nonché gli immobili da destinare ad auto
recupero, affidati a cooperative composte esclusivamente da
soggetti aventi è requisiti per l'accesso all'edilizia
residenziale pubblica.
Da segnalare è anche la norma per il
calcolo degli oneri di urbanizzazione relativi alle varianti
urbanistiche per interventi su aree o immobili in variante
urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso.
La norma precisa che il maggior valore, calcolato
dall'amministrazione comunale, dovrà essere suddiviso in
misura non inferiore al 50% tra il comune e la parte
privata.
Sarà poi il privato a erogare al comune l'importo,
sotto forma di contributo straordinario, che attesta
l'interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a
specifico centro di costo per la realizzazione di opere
pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade
l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a
servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale
od opere pubbliche
Per gli interventi in materia di rischio idrogeologico una
importante modifica all'articolo 9 riguarda gli affidamenti
che le regioni potranno effettuare per la progettazione e
l'esecuzione degli interventi. Le convenzioni potranno
essere siglate anche con «tutti i soggetti pubblici e
privati, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica
prescritte dal codice di cui al decreto legislativo
12.04.2006, n. 163».
Controparti delle Regioni non saranno quindi soltanto le
società in house, bensì anche tutti gli altri soggetti
pubblici e privati. Infine viene riformulata la disposizione
sugli investimenti delle concessionarie autostradali, con
l'obbligo per le concessionarie di elaborare le proposte di
modifica e il nuovo piano economico finanziario entro fine
2014, da inviare al ministero delle infrastrutture (con
parere dell'Authority dei trasporti di Torino e della
commissioni parlamentari) e sul quale sarà decisivo il
parere della Unione europea
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Acquisizioni in due fasi.
Per gli interventi in project finance i comuni sono
obbligati a fare ricorso alle centrali di committenza
soltanto per la fase successiva all'individuazione
dell'opera di interesse pubblico.
È quanto chiarisce l'Anci
a commento dei due dpcm (vedasi ItaliaOggi del 18 e
25/09/2014), in attesa di pubblicazione, che disciplineranno
le modalità di acquisizione di beni e servizi da parte dei
comuni non capoluogo di provincia. Questi ultimi dal 01.01.2015 (per beni e servizi) e dal giugno 2015 (per
lavori), dovranno procedere o attraverso unioni dei comuni,
o con consorzi e avvalendosi degli uffici delle province, o
ancora ricorrendo a un soggetto aggregatore o alle province.
L'Anci analizza con una
scheda di sintesi di ciò che
potranno fare i comuni in base alle diverse dimensioni
demografiche.
Fra i diversi chiarimenti forniti, rispetto
agli interventi in finanza di progetto, l'Anci chiarisce che
per gli interventi di partenariato pubblico-privato tutti i
comuni non capoluogo di provincia possono ricevere
singolarmente e autonomamente proposte -ad iniziativa
privata- per la realizzazione di lavori e gestione di
servizi mediante contratti di partenariato pubblico-privato
e procedere al loro inserimento negli strumenti di
programmazione dell'ente, qualora valutate di pubblico
interesse.
Dopo tale passaggio, però, la successiva procedura di
aggiudicazione dei relativi contratti dovrà, in ogni caso,
essere effettuate dalle Centrali uniche di committenza e
soggetti aggregatori come indicato per le procedure a
iniziativa pubblica
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il decreto sblocca-Italia.
Iva al 4% sui lavori in casa.
L'ulteriore incentivo al recupero edilizio entra nello «sblocca-Italia»
alla Camera.
Sorpresa nello sblocca-Italia. Chi fa lavori in casa utilizzando i bonus
fiscali del 50% (ristrutturazioni) e del 65% (efficientamento
energetico) pagherà l'Iva al 4% anziché all'attuale 10 per
cento.
L'ulteriore spinta all'attività del recupero edilizio
(e all'emersione del "nero") è contenuta infatti nel testo
del decreto legge approvato dalla commissione Ambiente della
Camera e ora all'esame dell'Aula di Montecitorio. Per
trovare la copertura finanziaria all'incentivo la
commissione ha aumentato a larga maggioranza l'Iva sulla
vendita delle nuove costruzioni dal 4 al 10%.
La commissione
Ambiente ha inoltre eliminato uno dei vincoli all'incentivo
fiscale per aiutare la cessione del patrimonio invenduto dei
costruttori: resta la deduzione Irpef del 20% sul prezzo
dell'immobile (fino a un tetto di spesa di 300mila euro) per
chi acquista un immobile nuovo o pesantemente ristrutturato
da un costruttore, ma l'agevolazione non è più vincolata
alla cessione in affitto a canone concordato dell'abitazione
per almeno otto anni. La nuova deduzione -presa a prestito
da una legge sperimentata in Francia- cambia quindi
totalmente pelle e varrà anche per l'acquisto della prima
casa.
Il testo dello sblocca-Italia è arrivato ieri nell'Aula di
Montecitorio dove aspetta il parere della commissione
Bilancio sulle coperture. «Conto che la commissione Bilancio
dia il via libera alla riduzione dell'Iva per il recupero
edilizio -dice la relatrice del provvedimento, Chiara Braga
(Pd)- ma è altrettanto importante che siano salvaguardate
misure come la proroga dello stato di calamità per le zone
colpite, le risorse destinate al fondo per le calamità
naturali, le misure per il patto di stabilità dei comuni e
di finanza regionale».
L'emendamento sull'Iva al 4% è stato presentato dal grillino
Davide Crippa ma sulle politiche per il rilancio
dell'attività di recupero edilizio la commissione presieduta
da Ermete Realacci ha spesso votato all'unanimità, anche
quando si è trattato di chiedere la proroga dei due bonus
fiscali del 50% e del 65% (che effettivamente in legge di
stabilità sono stati prolungati al massimo livello fino alla
fine del 2015).
Intanto dello sblocca-Italia si occupa anche la Dg Mercato
interno della commissione Ue che ha messo sotto i riflettori
l'articolo 5 sulle autostrade. L'Italia rischia una
procedura di infrazione: la lettera apre infatti la
pre-procedura Eu-Pilot, chiedendo alle autorità italiane di
fornire approfondimenti su determinate questioni per
decidere l'esito della procedura.
La norma del decreto originario prevede che, a fronte di
fusioni tra concessionarie o razionalizzazioni di reti, si
possa adeguare il termine di scadenza di tutte le
concessioni a quello più lungo fra quelli delle società
interessate.
Una proroga implicita che ha suscitato prima la perplessità
della commissione Ambiente della Camera e ora anche di
Bruxelles. La commissione Ambiente della Camera aveva
infatti già modificato l'articolo prevedendo comunque un
parere vincolante della Ue ai fini dell'operatività della
norma, oltre che il parere del Nars e dell'Autorità di
regolazione dei trasporti, che peraltro già si era espressa
criticamente in audizione per voce del presidente Andrea
Camanzi.
«La disposizione legislativa in questione -scrive Bruxelles- sembra consentire la realizzazione di significative
modifiche a contratti di concessione esistenti riguardanti,
in particolare, i lavori da realizzare nell'ambito del
rapporto concessorio e il livello delle tariffe». La
commissione vuole valutare se «modifiche contrattuali
effettuate sulla base di questa disposizione legislativa»
possano portare a «proroghe significative della durata di
concessioni esistenti».
La Dg Mercato interno ricorda, in particolare, che «la Corte
di giustizia ha statuito che al fine di assicurare la
trasparenza delle procedure e la parità di trattamento degli
offerenti, modifiche apportate alle disposizioni di un
contratto pubblico in corso di validità costituiscono una
nuova aggiudicazione quando presentino caratteristiche
sostanzialmente diverse rispetto a quelle del contratto
iniziale» (articolo Il Sole 24 Ore del
21.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Centrali uniche, soglia a 200 milioni.
Acquisti della Pa. In arrivo i decreti attuativi sulle nuove
regole.
Per entrare a far parte
dei «soggetti aggregatori», via obbligata per gli acquisti
di beni e servizi da parte dei Comuni non capoluogo a
partire dal 1° gennaio prossimo, occorrerà dimostrare di
aver pubblicato, negli ultimi tre anni, bandi con importi di
base superiori alla soglia comunitaria (204mila euro) per
almeno 200 milioni di euro, senza mai scendere sotto a un
ritmo da 50 milioni all'anno. Se rispondono a questi
requisiti, potranno aspirare al ruolo di «soggetti
aggregatori» anche le Province e le Città metropolitane, le
associazioni, unioni, consorzi e convenzioni tra enti
locali: nel caso di Città metropolitane e Province, la
verifica del valore dei bandi nell'ultimo triennio
riguarderà gli enti locali che fanno parte dell'area
territoriale dell'ente attuale.
A stabilire i requisiti per le centrali uniche di
committenza è il Dpcm attuativo delle nuove regole, scritte
all'articolo 9, comma 2, del decreto 66/2014.
Il
provvedimento ha completato l'esame in Conferenza
Stato-Città ed è in corso di emanazione, insieme a un Dpcm
parallelo che istituisce il «tavolo tecnico dei soggetti
aggregatori», coordinato dal ministero dell'Economia e
formato anche dai rappresentanti di Palazzo Chigi, Anci, Upi
e Regioni, oltre che da un componente per ciascun soggetto
aggregatore compreso nell'elenco definitivo.
I due provvedimenti sono il tassello essenziale per provare
a far partire davvero la centralizzazione degli acquisti (il
passaggio «da 32mila centrali di committenza a 35», per
ricordare la parola d'ordine del commissario alla spending
review, Carlo Cottarelli), prevista fin dal decreto «Salva-Italia»
di fine 2011 e poi costantemente prorogata proprio perché
non era stato preparato il terreno per l'attuazione. In
questo quadro, il decreto Irpef di aprile aveva tentato
un'accelerazione che aveva finito per bloccare il sistema
degli appalti, sfociando quindi nell'ennesimo rinvio
(articolo 23-ter del Dl 90/2014) che ha spostato al 1°
gennaio il debutto dei nuovi obblighi per gli acquisti di
beni e servizi e al 1° luglio la centralizzazione degli
appalti di lavori.
Una guida operativa,
disponibile sul sito dell'Anci, indica agli enti locali
tutte le scelte operative possibili a seconda dei vari tipi
di acquisti.
L'emanazione del Dpcm è attesa a breve, anche perché dopo
questo primo passo l'Autorità nazionale anticorruzione dovrà
indicare in un proprio provvedimento le modalità operative
per presentare la richiesta di far parte dell'elenco: a
questo punto, gli aspiranti «soggetti aggregatori» avranno
45 giorni di tempo per bussare alle porte dell'Autorità e
chiedere si essere inseriti in elenco. Verificate le
domande, l'Anac stilerà l'elenco dei soggetti aggregatori,
secondo un ordine decrescente in base al valore complessivo
dei bandi realizzati da ciascuno nel triennio di
riferimento, fino ad arrivare al numero massimo di 35. Per
partire davvero entro il 1° gennaio, come prevede il
calendario attuale per quel che riguarda gli acquisti di
beni e servizi, i tempi, insomma, sono stretti (articolo Il Sole 24 Ore del
21.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Avvocati, dal 15 dicembre il nuovo codice deontologico.
Professionisti. Regole di condotta pubblicate in «Gazzetta».
Conto alla rovescia per
il debutto del nuovo codice deontologico forense. Sulla
«Gazzetta ufficiale» n. 241 è stato pubblicato il testo con
le regole di condotta cui dovranno uniformarsi gli avvocati
iscritti all'Albo. La redazione del Codice era prevista
sulla base della legge di riforma del l'ordinamento
professionale, la n. 247 del 2012.
La disciplina entrerà in
vigore il prossimo 15 dicembre e dovrà essere applicata dai
nuovi organismi disciplinari, i consigli distrettuali di
disciplina, che sono già stati costituiti e diventeranno
operativi a partire dal 01.01.2015. La norma
transitoria prevede l'applicazione anche ai procedimenti
disciplinari in corso, a patto che le nuove norme siano più
favorevoli al legale «sotto indagine».
Tra i punti qualificanti del nuovo impianto c'è innanzitutto
una tendenziale tipizzazione degli illeciti disciplinari con
la previsione della sanzione declinata nel minimo e nel
massimo; una maggior grado di completezza delle norme
deontologiche di riferimento, tra le quali sono ricomprese
anche quelle sparse in diverse fonti legislative; la
previsione di due nuovi titoli, il IV (Doveri dell'avvocato
nel processo) e il V (Doveri verso le Istituzioni forensi).
Il primo è suggerito dalla tipicità della funzione
difensiva; il secondo è elemento di rafforzamento del
rapporto tra iscritti e Istituzioni rappresentative
(articolo Il Sole 24 Ore del
21.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Edilizia, ecobonus di lunga vita.
Lunga vita all'ecobonus. Con il ddl di stabilità 2015 il
governo proroga fino a tutto il prossimo anno i bonus
fiscali «casa» del 50% e del 65% che la manovra dell'anno
scorso aveva messo in scadenza nel 2014.
Da quanto emerge
dal documento approvato dal consiglio dei ministri lo scorso
15 ottobre, ristrutturazione, risparmio energetico e nuovi
arredi (bonus mobili) per la casa restano pertanto
incentivati. Le dolenti note riguardano invece le ritenute
fiscali sui bonifici, che dal 1° gennaio del prossimo anno
passano dal 4% all'8%.
Le novità del ddl. Il governo ha confermato gli sconti
fiscali previsti per i lavori di recupero edilizio con la
quota Irpef al 50% e quelli per interventi di
riqualificazione energetica con la quota al 65% per tutto il
2015, ma con alcune particolarità.
La manovra 2014 aveva previsto che il bonus al 50% poteva
essere fruito per le spese sostenute fino al 31.12.2014, per poi ridursi al 40% dal
01.01.2015 e
attestarsi al 36% dal 2016. Per le spese sostenute per
interventi di riqualificazione energetica (es. coibentazione
degli edifici, l'installazione di pannelli solari, la
sostituzione di infissi e caldaie, ecc.), dall'attuale 65%
si sarebbe passati dal 01.01.2015 al 50% e poi al 36%
dal 2016. Il ddl della legge di Stabilità 2015 prevede per
entrambi gli sconti fiscali la misura massima agevolata, al
50 e al 65%, per tutto l'anno prossimo, ma dal 2016 entrambe
si ridurranno al 36%, senza aliquote intermedie.
Novità anche per lo sconto per gli interventi sulle parti
comuni dei condomini. Finora si prevedeva lo sconto massimo
al 65% fino al 30.06.2015, che doveva scendere al 50%
fino al 30.06.2016. Ora il ddl cancella questo
trattamento di favore prevedendo l'ecobonus al 65% per tutto
il 2015 per poi assestarsi all'ordinario 36% dal 01.01.2016. Per ciò che riguarda i lavori di recupero antisismico
degli edifici nelle zone 1 e 2 di pericolosità non ci sarà
la proroga al prossimo anno, quindi dal 01.01.2015 la
detrazione Irpef scenderà dall'attuale 65 al 50% e dal 01.01.2016 al 36%.
Confermato il bonus mobili, con la detrazione Irpef al 50%
per l'acquisto di mobili e arredi ed elettrodomestici in
classe A+ e A per i forni per tutto il 2015, nell'ambito
dell'immobile oggetto di interventi edilizi (per cui si
fruisce della detrazione per ristrutturazione).
Efficienza energetica. Per gli interventi di efficienza
energetica, il ddl Stabilità 2015 ha previsto che la
detrazione, per gli interventi sulle singole unità
immobiliari, si applichi nella misura «potenziata» del 65%
alle spese sostenute fino al 31.12.2015.
La manovra 2015 elimina, quindi, la rimodulazione prevista
dalla legge di stabilità 2014 secondo cui per le spese
sostenute dal 01.01.2015 a 31.12.2015, la
percentuale di detrazione si sarebbe dovuta ridurre al 50%.
Inoltre, per gli interventi eseguiti sulle parti comuni
condominiali (artt. 1117 e 1117-bis c.c.) o su tutte le
unità immobiliari dell'edificio, con una riformulazione
dell'art. 14, co. 2, del dl 63/2013, è stabilito che la
misura della detrazione Irpef/Ires del 65% si applichi per
le spese sostenute fino al 31.12.2015.
I principali tipi di interventi di efficienza energetica
agevolabili, ai fini della detrazione Irpef/Ires,
riguardano:
- interventi su strutture opache orizzontali, verticali,
finestre comprensive di infissi (art. 1, c. 345, legge
296/2006);
- riqualificazione energetica globale (art. 1, c. 344, legge
296/2006);
- installazione di pannelli solari per la produzione di
acqua calda (art. 1, c. 346, legge 296/2006);
- sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con
caldaie a condensazione (art. 1, c. 347, legge 296/2006);
- sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con
pompe di calore ad alta efficienza (art. 1, c. 286, legge
244/2007);
- sostituzione di scaldacqua tradizionali con quelli a pompa
di calore (art. 4, c. 4, dl 201/2011, conv. legge 214/2011).
Ristrutturazioni edilizie. Il ddl Stabilità 2015 interviene
anche in materia di detrazioni per le ristrutturazioni
edilizie, con una modifica dell'art. 16 del dl 63/2013
convertito, con modificazioni, nella legge 90/2013.
A tal riguardo, la detrazione Irpef per gli interventi di
recupero del patrimonio edilizio viene confermata nella
seguente misura del 50% anche per le spese sostenute nel
2015.
Secondo la legge di stabilità 2014, invece, la detrazione
era così modulata:
- 50% fino a 96 mila euro, per le spese sostenute nel 2014;
- 40% fino a 96 mila euro, per le spese sostenute nel 2015;
- 36% fino a 48 mila euro dal 01.01.2016.
Messa in sicurezza statica. Il ddl di stabilità 2015
conferma la disciplina della detrazione del 50% per gli
interventi relativi all'adozione di misure antisismiche e
messa in sicurezza statica prevista dell'art.16, co. 1-bis,
del dl 63/2013. Si ricorda che l'agevolazione si rende
applicabile agli interventi:
- le cui procedure autorizzatorie sono attivate a decorrere
dal 4 agosto 2013;
- eseguiti su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta
pericolosità (zone 1 e 2), di cui all'Opcm 20.03.2003 n.
3274;
- che si riferiscono a costruzioni adibite ad abitazione
principale o ad attività produttive. Come chiarito
dall'Agenzia delle entrate nella circolare n. 29/2013
possono beneficiare della nuova detrazione sia i soggetti
passivi Irpef, che i soggetti passivi Ires.
Rimane invariato l'ammontare complessivo della spesa
agevolabile, che non può essere superiore a 96 mila euro per
unità immobiliare.
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Bonifici, la ritenuta raddoppia all'8%.
È una delle sorprese meno gradite che questo capitolo della
manovra riserva ai contribuenti, e che penalizzerà
soprattutto le imprese. Al momento del pagamento del
bonifico (si ricorda che per fruire della detrazione è
necessario che i lavori siano pagati con bonifico bancario o
postale), banche e poste devono operare una ritenuta a
titolo di acconto dell'imposta dovuta dall'impresa che
effettua i lavori. Dal 06.07.2011 questa ritenuta era
stata ridotta dal 10% all'attuale 4%. Secondo il testo
provvisorio della nuova legge di Stabilità 2015 dal 1°
gennaio del prossimo anno la ritenuta salirà all'8%.
Si ricorda che, secondo la normativa di riferimento, i
pagamenti interessati dalla misura riguardano quelli
connessi ai lavori su cui il contribuente finale può
usufruire della detrazione del 36% o del 55% e pertanto:
- gli interventi di recupero del patrimonio edilizio ex art.
1, legge 27.12.1997, n. 449 e successive
modificazioni;
- gli interventi sugli immobili volti a conseguire un
risparmio energetico ex art. 1, commi da 344 a
347, legge 27.12.2006, n. 296 e successive
modificazioni (detrazione irpef del 55%).
Per avere diritto alle suddette detrazioni, il contribuente
deve effettuare il versamento delle spese detraibili tramite
bonifici bancari o postali che contengano:
- la causale del versamento;
- il codice fiscale del soggetto che paga (beneficiario
dell'agevolazione);
- il codice fiscale o numero di partita Iva del beneficiario
del pagamento (destinatario del bonifico).
Rimangono esclusi da tale modalità di pagamento gli oneri di
urbanizzazione, le imposte di bollo, le ritenute fiscali
sugli onorari dei professionisti e i diritti pagati per le
concessioni, le autorizzazioni e le denuncie di inizio
lavori, che non possono essere pagate tramite bonifico
(risoluzione 04.01.2011, n. 3/E).
Nel trattenere detto ammontare le banche e le poste (che
agiscono per conto del beneficiario) operano in qualità di
sostituti d'imposta con la conseguenza che esse dovranno
osservare tutti i relativi adempimenti:
- il versamento della ritenuta entro il 16 del mese
successivo a quello in cui hanno operato la rivalsa;
- la certificazione delle somme trattenute;
- la compilazione del modello 770.
Per quanto riguarda la determinazione della ritenuta,
l'Agenzia delle entrate con la circolare n. 40/2010 aveva
precisato che, per esigenze di semplificazione e di
economicità, nonché per evitare errori determinati da
un'applicazione impropria della ritenuta, si assume che, ai
fini dell'applicazione della norma in esame, l'Iva venga
applicata con l'aliquota più elevata. Conseguentemente, la
ritenuta d'acconto del 4% (che sarà elevata all'8% dal 1°
gennaio 2015) deve essere operata sull'importo del bonifico
decurtato dell'Iva del 22%
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Deposito rifiuti in sicurezza.
Senza precauzioni ambientali scatta la gestione illecita.
La Corte di cassazione fa il punto sullo stoccaggio
temporaneo ex dlgs 152/2006.
A legittimare la particolare forma di raggruppamento di
rifiuti conducibile fuori dall'ordinario regime
autorizzatorio è, oltre il rispetto dei confini spaziali,
quantitativi e temporali stabiliti dalla Legge, l'osservanza
delle parallele norme di sicurezza a protezione
dell'eco-sistema. E il solo difetto di queste ultime è
sufficiente a provocare l'illiceità radicale dell'intero
stoccaggio, con lo scattare delle relative sanzioni per
gestione non autorizzata di rifiuti.
Tale principio di diritto, enucleato dalla Corte di
cassazione con due recenti sentenze (del 16 e 23.09.2014, rispettivamente n. 37843 e n. 38676) sullo storico
istituto del «deposito temporaneo» del produttore di rifiuti
previsto dal dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale»)
acquista rilievo anche in relazione al rinnovato istituto
del cd. «deposito temporaneo del detentore» di rifiuti
elettrici ed elettronici previsto dal dlgs 49/2014 e in
vigore dallo scorso 12.04.2014.
E questo sia per le
analogie tra le due figure, sia perché la violazione delle
norme sul deposito dei Raee sancite dal nuovo dlgs 49/2014
viene comunque punita attraverso le fattispecie
sanzionatorie del dlgs 152/2006.
Il deposito temporaneo del produttore. Le pronunce della
Suprema corte hanno a oggetto la figura di stoccaggio
prevista dall'articolo 183, comma 1, lettera bb), del «Codice
ambientale» (ed esercitabile, a mente del successivo
articolo 208, senza necessità di autorizzazione) coincidente
con «il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della
raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti» nel
rispetto di precise condizioni relative alla quantità e
qualità dei rifiuti, al tempo di giacenza, alla
organizzazione tipologica del materiale e al rispetto delle
norme tecniche di prevenzione ambientale previste dallo
stesso «Codice ambientale».
Con la sentenza 38676/14 il
giudice di legittimità sottolinea come sia sufficiente la
violazione di queste ultime regole (tra cui l'organizzazione
tipologica dei materiali e il divieto di miscelazione dei
rifiuti pericolosi) a far rientrare tale forma di stoccaggio
nella relativa diversa fattispecie (illecita) di deposito
incontrollato o, nei casi più gravi, di discarica abusiva
(con lo scattare delle relative sanzioni previste
dall'articolo 256 relativo alle attività di gestione di
rifiuti effettuate in assenza di autorizzazione ambientale).
La stessa sentenza, unitamente alla 37843/2014, conferma
però (è utile ricordarlo) l'orientamento del giudice di
legittimità a una lettura allargata della nozione di «luogo
di produzione», dovendosi per tale intendere non solo l'area
fisica nella quale i rifiuti sono stati materialmente nati
ma anche lo spazio nella disponibilità dell'impresa
produttrice degli stessi «funzionalmente collegato» al primo
(perché, per esempio, insistente nello stesso perimetro
aziendale) nel quale sono stati collocati.
E il deposito «temporaneo del detentore» (di Raee). Analoga,
come accennato, alla descritta figura del deposito
temporaneo ex dlgs 152/2006 (per la sua conducibilità in
assenza di autorizzazione ambientale), ma diversa per la
qualifica dei soggetti che la effettuano (in quanto non
«produttori», ma semplici «detentori» di rifiuti) e per le
regole preventive da osservare è il «deposito preliminare
alla raccolta presso i distributori» di apparecchiature
elettriche ed elettroniche (c.d. «Aee») dei tecno-rifiuti
(c.d. «Raee») da essi ritirati presso l'utenza all'atto del
vendita di analoghi nuovi beni previsto dal dlgs 49/2014.
In
base al combinato disposto delle norme dettate dal nuovo
decreto del 2014 (erede del dlgs 151/2005) e di quelle
previste dal dm 65/2010 (adottato in attuazione del dlgs del
2005, ma vigente anche sotto il nuovo), distributori,
installatori e centri di assistenza Aee possono effettuare
il raggruppamento dei Raee ritirati con la citata formula
del «one on one» presso i locali del proprio punto vendita
(o presso altri luoghi preventivamente comunicati ex dm
citato) senza necessità di preventiva autorizzazione, a
condizione che siano osservate determinate regole di tutela
ambientale.
In base alle predette norme, tale deposito di Raee è infatti «liberamente» conducibile se, oltre al
rispetto di precisi limiti quantitativi e temporali, viene
effettuato in locali idonei, non accessibili a terzi,
pavimentati e coperti, assicurando la separazione tra
rifiuti pericolosi ed evitando la fuoriuscita delle loro
sostanze nocive. E dunque, declinando il principio ribadito
dalle citate sentenze della Corte di cassazione per il
«deposito temporaneo del produttore», è fondato ritenere che
anche in questo caso la sola inosservanza delle descritte
regole di sicurezza ambientale provocherebbe il
«declassamento» del raggruppamento agevolato di Raee a
deposito non autorizzato, con l'applicazione delle citate
sanzioni previste dall'articolo 256 del «Codice ambientale».
Con il dlgs 49/2014 ha altresì fatto il suo esordio
nell'Ordinamento giuridico anche la figura del «deposito
preliminare alla raccolta presso i distributori» di nuove
Aee che provvedono al ritiro (in forma obbligatoria, se
titolari di superfici di vendita al dettaglio superiore ai
400 metri quadri) di Raee di piccole dimensioni senza
contestuale fornitura di nuove apparecchiature (cd. ritiro «one
on zero»).
Come per il deposito dei Raee ritirati «one on
one», anche questo tipo di raggruppamento non soggiace (a
mente dell'articolo 11, comma 3, del decreto legislativo in
parola) a preventiva autorizzazione, ma (a differenza del
primo) il legislatore non ha parallelamente provveduto a
dettare norme di dettaglio su misure di sicurezza da
adottare ed eventuali limiti quantitativi, qualitativi o
temporali dello stoccaggio, limitandosi a demandare a futuro
decreto ministeriale la determinazione delle modalità
semplificate di ritiro e prescrivendo espressamente che nel
mentre viga unicamente l'obbligo di raccolta separata e
stoccaggio in sicurezza dei soli «Raee di illuminazione».
Nelle more di tale nuova disciplina regolamentare sembra
dunque che le norme precauzionali da adottare per (condurre
legalmente) tale deposito debbano essere rintracciate in
quelle più generali del dlgs 152/2006, apparendo di
difficile applicazione sia quelle specifiche per il
descritto «deposito temporaneo» ex articolo 183 dello stesso
«Codice ambientale» (poiché formalmente riservate ai
«produttori» di rifiuti) sia quelle particolari ex dm
65/2010 (poiché dettate per il raggruppamento dei Raee
ritirati «one on zero»).
Tuttavia, la logica di tutela
ambientale sottesa ai principi di precauzione e azione
preventiva dettati dal Trattato Ue (ripresi dalla direttiva
madre sui rifiuti 2008/98/Ce e declinati nello stesso dlgs
152/2006) parrebbe suggerire agli operatori del settore, in
attesa delle nuove norme, comunque l'adozione (per analogia)
delle più restrittive prescrizioni in materia di
raggruppamento «agevolato» di rifiuti rintracciabili tra
quelle esistenti, e questo sia in relazione ai limiti
quantitativi e temporali del deposito che alle regole di
sicurezza da rispettare
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il bonus del 65% allarga la platea dei beneficiari. Soggetti
Ires ammessi anche in caso di «detenzione».
Reddito d'impresa. Gli ultimi orientamenti sulla detrazione
per il risparmio energetico.
A beneficiare della
detrazione del 65% per la riqualificazione energetica non è
solo il proprietario dell'immobile, ma anche il possessore o
detentore.
Una nozione, quella di «detentore», che allarga
in modo significativo la platea dei potenziali beneficiari,
soprattutto in relazione ai soggetti Ires, anche se
giurisprudenza ed Entrate non sono sempre allineate.
Gli immobili strumentali
In base al Dm Sviluppo economico del 19.02.2007, la
detrazione si applica alle spese effettuate su immobili
esistenti (o su porzioni di essi), di qualsiasi categoria
catastale, che siano posseduti o detenuti dal contribuente.
Una esplicita limitazione è prevista per gli immobili
concessi in locazione finanziaria: in questo caso la
detrazione è concessa esclusivamente all'utilizzatore in
base al costo effettivamente sostenuto dalla società
concedente.
L'Agenzia, con la circolare 11/E/2014 (paragrafo 6.1), ha
ribadito che sono ammessi al beneficio gli interventi
effettuati su immobili strumentali, posseduti o detenuti,
presso i quali è svolta la propria attività. Risulta,
quindi, confermato il criterio riduttivo riconducibile alla
strumentalità dell'immobile alla produzione del reddito
d'impresa. Già in passato, infatti, la prassi in materia
aveva disconosciuto il diritto sugli immobili merce
(risoluzione 340/E/2008) oppure su quelli concessi in
locazione da titolari di reddito d'impresa (risoluzione
303/E/2008).
La giurisprudenza di merito, però, non ha condiviso tale
impostazione "limitativa" (sentenza 37/2013 Ctp Bolzano e
sentenza 54/2013 Ctp Lecco), sottolineando che l'unica
peculiarità prevista dalla norma (articolo 2 del Dm 19.02.2007) è relativa agli immobili in leasing. Secondo
i giudici, dunque, la ratio della norma punta a incentivare
gli interventi di riqualificazione energetica
indipendentemente dall'utilizzazione dell'immobile. Al
momento, però, chi seguisse la tesi dei giudici dovrebbe
mettere in conto il rischio di un contenzioso.
Appalto e detenzione
Il beneficio fiscale spetta al possessore o detentore
dell'immobile che sostiene effettivamente le spese. Il
discrimine, però, non è tanto tra possesso e detenzione –entrambe ammesse al bonus– quanto piuttosto alle varie
forme di detenzione, benché la norma non faccia alcun
distinguo. In particolare, secondo alcune interpretazioni,
la detrazione andrebbe riconosciuta solo nel caso di
detenzione qualificata e non, invece, quando la detenzione è
non qualificata (risposta ad interpello della Direzione
centrale normativa, protocollo 83168/2013). In base a questa
impostazione si avrebbero due livelli di detenzione:
- non qualificata, cioè svolta nell'interesse altrui (in
relazione all'adempimento di un obbligo verso terzi, come
quello del depositario o del mandatario);
- qualificata, cioè svolta nell'interesse proprio (come
quella del conduttore o comodatario).
La giurisprudenza –in sede di riconoscimento al detentore
qualificato della tutela possessoria– ha costruito varie
ipotesi nelle quali si riconosce la qualità di detentore
qualificato. Ad esempio, contratto produttivo di una
detenzione qualificata, oltre a quelli menzionati del
comodato e della locazione, è l'appalto, in quanto
l'appaltatore –fino alla consegna dell'opera al committente– detiene l'opera nel suo personale interesse, in virtù di
un rapporto obbligatorio e deve, pertanto, considerarsi
detentore qualificato (Cassazione civile, sez. II, 28.05.2003, n. 8522). Ciò avviene pacificamente per l'appalto di
opere, nel quale la realizzazione del bene è anche l'oggetto
del contratto.
Diversamente ha ritenuto la Corte in riferimento alla
particolare ipotesi dell'appalto di servizi, ricordando –anche sulla base di precedenti pronunce di legittimità– che
il committente, in questo caso, continua a esercitare il
potere di custodia e di vigilanza sul bene (Cassazione
civile, sez. III, 04.02.2005, n. 2278). Ciò detto, non
appare corretto sostenere che l'agevolazione non risulti mai
applicabile nel caso di appalto di servizi. In primis, va
ricordato che le pronunce della Cassazione si occupavano
soprattutto delle finalità di custodia del bene; in secondo
luogo, va osservato che la detenzione del bene immobile
potrebbe essere del tutto eventuale o casuale rispetto alla
prestazione di servizi o, di contro, intimamente legata alla
prestazione: in questo secondo caso la detrazione dovrebbe
spettare, ma la questione è aperta.
Gli altri casi
Meno controversa la natura di detenzione qualificata di
quella esercitata dai soci di una società di capitali, su
beni il cui godimento è collegato alla titolarità delle
azioni societarie o quello del promissario acquirente che
sia stato immesso nella materiale disponibilità del bene e
che eserciti la detenzione qualificata nel proprio
interesse, ma alieno nomine (Cassazione civile, Sezioni
unite, sentenza n. 7930/2008).
Anche il subconduttore e il subaffittuario sono detentori
autonomi e qualificati, servendosi della cosa nel loro
esclusivo interesse. Ovviamente non può considerarsi
detenzione qualificata quella conseguente a mera tolleranza
altrui o ad atti d'arbitrio
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Esercizio a cavallo: tempi supplementari per finire i lavori.
Il caso. Come calcolare la data limite.
Le continue proroghe
complicano l'applicazione della detrazione per le
riqualificazioni energetiche da parte delle società con
esercizio non coincidente con l'anno solare (il cosiddetto
"esercizio a cavallo").
Il disegno della legge di stabilità per il 2015 –varato
mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri– conferma la
detrazione del 65% per le spese sostenute fino al 31.12.2015. La legge di stabilità per il 2014 (legge
147/2013) aveva invece esteso il beneficio fiscale del 65%
fino al 31.12.2014, prevedendo che per le spese
sostenute dal 1° gennaio al 31.12.2015 la detrazione
spettasse nella misura del 50 per cento.
La proroga in arrivo, comunque, non cambia la questione
interpretativa. La difficoltà principale è comprendere come
le diverse scadenze vadano applicate alle società con
esercizio a cavallo. Il punto di partenza è che la spesa
viene detratta sulla base del criterio di competenza –secondo quanto chiarito dalle circolari 36/E/2007 (par. 4) e
20/E/2011 (par. 3.3)– e quindi indipendentemente dalla data
di pagamento individuata per cassa. Il momento di
imputazione dei costi, in particolare, è:
- per le prestazioni di servizi, la data di ultimazione
delle prestazioni;
- per i beni mobili, la data di consegna o di spedizione, a
meno che sia diversa o successiva la data in cui si verifica
l'effetto traslativo.
In genere le proroghe, compresa l'ultima, non contemplano
"esplicitamente" le società con esercizio a cavallo, in
quanto, il legislatore, definisce una data finale puntuale:
ad esempio, il 31.12.2014 per il 65% e il 31.12.2015 per il 50 per cento. Da qui il dubbio sulle regole da
seguire per le società con esercizio a cavallo che, al
momento indicato dal legislatore, si trovano con l'esercizio
ancora aperto.
La risposta è nella circolare delle Entrate 36/E del 31.05.2007, al paragrafo 6, con cui l'Agenzia si era già
espressa in una accezione espansiva: «L'agevolazione
prevista dai commi 344, 345, 346 e 347 consiste in una
detrazione dall'imposta lorda, che può essere fatta valere
sia sull'Irpef che sull'Ires, in misura pari al 55 per cento
delle spese sostenute nel 2007 o, per i soggetti con periodo
d'imposta non coincidente con l'anno solare, nel periodo
d'imposta in corso alla data del 31.12.2007».
Di conseguenza, da una interpretazione logico-sistematica
della normativa e della prassi, si può ritenere che le
società con esercizio non coincidente con l'anno solare
potranno beneficiare dell'agevolazione sino alla chiusura
dell'esercizio in corso alla data indicata dalla legge,
quindi ben oltre la data "puntuale" fissata dalla norma.
Ad
esempio, alla luce della proroga prevista dal Ddl della
legge di stabilità, se si considera una società con
esercizio 1° luglio-30 giugno, questa società dovrebbe poter
beneficiare della detrazione del 65% fino al 30.06.2016.
Questo, almeno, stando al testo attuale del disegno di
legge, che continua a non menzionare espressamente il caso
delle società con esercizio a cavallo (articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sottotetti abitabili: slalom tra i requisiti fissati dalle
Regioni. Decisivi gli oneri, le altezze medie e i rapporti
aero-illuminanti.
Ristrutturazioni. Il punto sulle normative dopo le ultime
modifiche.
Prosegue l'aggiornamento
della normativa regionale che disciplina la trasformazione
in abitazioni dei sottotetti con l'approvazione quest'anno
delle leggi di Emilia Romagna e Puglia. In alcune Regioni
(per esempio Piemonte, Valle D'Aosta, Veneto, Emilia
Romagna) è stato possibile realizzare questo tipo di
intervento già dalla fine degli anni Novanta del secolo
scorso. Altre (come Calabria e Sardegna) hanno approfittato
dell'emanazione della propria legge sul piano casa –con i
premi di volumetria per gli interventi di ampliamento e
demolizione e ricostruzione– per metter mano anche ai
sottotetti.
Una normativa specifica per rendere abitabili i sottotetti è
necessaria per derogare alle previsioni degli strumenti
urbanistici comunali, ai parametri costruttivi previsti dai
regolamenti edilizi e alle norme sulle altezze e sui
requisiti igienici e sanitari stabiliti dal Dm del 05.07.1975: quando da un sottotetto si ricavano stanze da letto,
cucina e bagno, sono quasi certi un aumento della superficie
utile dell'immobile (oltre i limiti previsti dal progetto
iniziale e dal Prg) e il mancato rispetto dello standard di
altezza e di rapporto tra luci e superfici.
Le possibilità, le condizioni, i limiti e la convenienza a
trasformare le soffitte in spazi abitabili stabilite da ogni
Regione costituiscono una sorta di caleidoscopio: l'immagine
cambia a seconda del parametro che si sceglie per analizzare
l'insieme delle leggi regionali.
Tutte le Regioni richiedono altezze inferiori ai 270 cm
regolari, ma con differenze, anche notevoli, da una
all'altra. L'altezza media più prescritta per il locali
abitabili è di 240 centimetri (per esempio Basilicata,
Emilia Romagna, Marche, Lombardia, Piemonte, Puglia,
Sardegna, Veneto). In alcuni casi, per i locali di servizio,
bagni, corridoi, viene abbassata di 10 cm. Qualche regione
accorda una riduzione dell'altezza (-20 cm, in genere) anche
nei Comuni classificati montani o semimontani, o comunque al
di sopra di una certa altitudine: lo fanno, tra le altre,
Calabria, Emilia Romagna e Molise. Le normative laziali,
liguri, toscane, pugliesi prevedono che al di sotto di
un'altezza minima gli spazi debbono essere chiusi con muri o
mobili, se non sono in corrispondenza di fonti di luce.
È generalizzata la possibilità di aprire finestre e lucernai
per illuminare i locali con luce solare (in alcuni casi
sotto particolari prescrizioni o con l'esclusione di zone
del territorio). Nelle Regioni che lo indicano, il rapporto
aero-illuminante (in pratica la superficie delle finestre e
quella del pavimento) è prevalentemente 1/16; è più alto
solo in Basilicata, Calabria e Molise.
In quasi la metà delle Regioni (tra le quali Campania,
Molise, Toscana, Veneto), per raggiungere le altezze medie e
minime richieste dalle loro normative, non è permesso alzare
la quota del colmo o modificare la pendenza del tetto. Una
variabile non indifferente. Altre consentono questa
operazione, ma la sottopongono a condizioni: in Liguria a
seguito dell'innalzamento dei muri, la nuova altezza
dell'edificio non deve superare quella prevista dal piano
regolatore; nel Lazio si può cambiare tutto (altezza di
colmo e gronda, pendenza della copertura) purché non comporti
un aumento superiore al 20% della volumetria del sottotetto
esistente. Qualche Regione esclude da questo tipo di
intervento particolari aree: in Emilia Romagna le altezze di
colmo e il resto non si possono toccare nei centri storici,
in Sardegna nelle zone B (quelle totalmente o parzialmente
edificate non classificate come centri storici).
Per recuperare in altezza non si devono necessariamente
alzare i muri: lo stesso risultato può essere ottenuto
abbassando il solaio del sottotetto, se quest'operazione non
riduce l'altezza dell'ultimo piano a meno di quella
standard. È permesso, tra l'altro, in Calabria, in Puglia,
in Emilia Romagna e in Molise (in queste due Regioni a
condizione che il prospetto del fabbricato non cambi).
Le normative di alcune Regioni riservano ai Comuni l'ultima
parola su ciò che si può fare e su dove farlo. In Liguria,
Piemonte, Sicilia, Sardegna occorre verificare presso i
Comuni se hanno ristretto –entro i termini, ormai scaduti,
previsti dalle leggi– le aree o tipologie di immobili nei
quali i sottotetti non possono essere recuperati. In altre
regioni (Emilia Romagna, Molise, Umbria, Veneto) i sindaci
possono sempre decidere limitazioni o porre vincoli alla
trasformazione dei sottotetti in abitazioni.
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Oneri concessori alleggeriti in caso di ampliamento.
I costi. In genere il conto aumenta quando si crea una nuova
unità abitativa.
Variano
da Regione e Regione i costi da sostenere per trasformare un
sottotetto in un alloggio vivibile, in regola con le norme
sull'agibilità. Impossibile, però, fare una graduatoria
della convenienza territoriale per questo tipo di
intervento. La spesa per realizzare l'intervento edilizio
dipende dallo stato dell'immobile, dall'estensione della
superficie che si vuole (o si può) rendere abitabile e dalla
qualità dei materiali che vengono utilizzati. A questi
importi si devono aggiungere quelli imposti dai vincoli e
dalle prescrizioni normative, che non dipendono dalla
volontà del proprietario.
Una voce di spesa che può essere più o meno rilevante è
quella per il pagamento degli oneri concessori, che variano
da Regione a Regione. Il recupero dei sottotetti, infatti, è
classificato come ristrutturazione edilizia e si pagano gli
oneri nella misura prevista per questa tipologia di
interventi. In Emilia-Romagna si paga solo il contributo
relativo al costo di costruzione. In Abruzzo, oltre a questo
contributo, è richiesto il pagamento a tariffa doppia degli
oneri di urbanizzazione: l'importo di questa maggiorazione
non finisce nelle casse dei Comuni (che realizzano strade
fognature scuole e palestre), ma in quelle dalla Regione;
quest'ultima a sua volta li userà per finanziare interventi
nei Comuni, ma senza garantire che ciascuno di loro riceverà
una somma proporzionata a quanto dato.
Anche in Sicilia queste operazioni possono costare care:
oltre agli oneri concessori, il proprietario deve versare
alla Regione il 20% dell'incremento di valore dell'immobile
determinato dalla trasformazione (e valutato in base alla
variazione della rendita catastale). I Comuni marchigiani,
invece, su questi interventi incassano un contributo sul
costo di costruzione scontato del 20 per cento. La legge
ligure, infine, prevede uno sconto del 50% degli oneri
concessori se l'intervento di recupero non comporta la
creazione di una nuova unità abitativa, ma solo
l'ampliamento di una già esistente (per esempio con la
creazione di una scala interna). Lo stesso sconto viene
concesso anche se gli immobili interessati sono di edilizia
residenziale pubblica.
La possibilità di creare, dal recupero del sottotetto, nuove
unità abitative è un altro elemento differenziazione tra le
Regioni. Il Friuli Venezia Giulia e la Toscana, per esempio,
non lo permettono. Al contrario questa opportunità è offerta
nelle Marche e in Emilia-Romagna: in questo caso chi
realizza l'intervento, oltre agli spazi per i parcheggi
pertinenziali all'immobile interessato dal recupero, deve
cedere al Comune anche le aree per i parcheggi e il verde
pubblico (in mancanza di spazi, il tutto può essere
monetizzato). In alcune Regioni, inoltre, è richiesto il
rispetto di certi standard solo per trasformare il
sottotetto in abitazione autonoma da quella sottostante. In
Lazio, Liguria e Puglia solamente in questo caso sono
necessari i parcheggi pertinenziali: un mq di area di sosta
ogni 10 mc di volumetria recuperata; se non ci sono aree si
monetizza (in Lazio in base al costo di costruzione di un mq
di parcheggio, in Liguria al prezzo di mercato).
Per calcolare i costi di un recupero, infine, occorre
considerare le eventuali prescrizioni costruttive, che
possono cambiare da un Comune all'altro (articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Il bando «giudica» i salari. Il costo del lavoro deve essere
inserito nella valutazione dell'offerta.
Appalti. Le istruzioni operative nel modello Anac per i
lavori assegnati in base al criterio del prezzo più basso.
Le
amministrazioni che intendono aggiudicare un appalto di
lavori con il metodo di valutazione del prezzo più basso
devono utilizzare il bando-tipo approvato dall'Autorità
nazionale anticorruzione, potendo integrarlo in alcune
parti.
La nota illustrativa che accompagna il format fornisce una
serie di importanti indicazioni sulla nuova disciplina delle
categorie specialistiche e super-specialistiche introdotta
dall'articolo 12 della legge 80/2014, facendo rilevare come
la nuova normativa abbia apportato una riduzione delle
tipologie.
In base alle nuove disposizioni non sono più infatti
considerate super-specialistiche le categorie OS3 (impianti
idrico-sanitari, cucine, lavanderie), OS8 (opere di
impermeabilizzazione) OS20A e OS20B (rilevanti topografici e
indagini geognostiche) e pertanto possono essere eseguite
direttamente dall'aggiudicataria, se in possesso della
relativa qualificazione, ovvero possono essere subappaltate
per l'intero importo, senza necessità di partecipazione in
raggruppamento verticale.
L'Anac propone anche una soluzione molto operativa per
l'attuazione della norma sul rispetto dei minimi salariali
(comma 3-bis dell'articolo 82 del Codice), confermando come
la valutazione del costo del lavoro debba trovare la sua
corretta collocazione nell'ambito della verifica di
congruità dell'offerta (quindi richiedendo
all'aggiudicatario la descrizione del modello organizzativo
adottato per l'appalto e i contratti collettivi applicati),
ma anche specificando che negli appalti di lavori edili
potrà essere inserita nel bando una clausola che richiede
l'applicazione, ai lavoratori coinvolti nei lavori oggetto
della gara, del contratto nazionale e territoriale
dell'edilizia sottoscritti dalle associazioni dei datori di
lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative
sul piano nazionale.
In ordine ai raggruppamenti temporanei di imprese, nel
bando-tipo sono assunte le novità determinate dalla legge n.
80/2014 con riferimento alla distribuzione delle quote tra
mandataria e mandanti, per cui le stesse possono essere
liberamente stabilite entro i limiti consentiti dai
requisiti di qualificazione posseduti dall'associato.
Nell'ambito dei propri requisiti posseduti, la mandataria in
ogni caso deve assumere, in sede di offerta, i requisiti in
misura percentuale superiore rispetto a ciascuna delle
mandanti con riferimento alla specifica gara.
Resta quindi
fermo il principio secondo cui la mandataria deve essere in
possesso di almeno il 40% dei requisiti di qualificazione e
che le mandanti devono continuare a coprire,
cumulativamente, il restante 60%, coprendone almeno il 10%
ciascuna. Tuttavia le quote di partecipazione al
raggruppamento possono essere ora liberamente stabilite, nel
rispetto ovviamente dei limiti di qualificazione di ciascun
componente del raggruppamento e dei vincoli sopra richiamati
(almeno il 40% per la mandataria e almeno il 10% per le
mandanti).
Inoltre, l'abrogazione del comma 13 dell'articolo 37 del
Codice fa venir meno l'obbligo della corrispondenza tra
quote di partecipazione e quote di esecuzione dei lavori
dichiarate in sede di offerta.
Le stesse quote di esecuzione possono essere successivamente
modificate, in fase di realizzazione dell'opera, con il
consenso della stazione appaltante, nei limiti della
qualificazione posseduta da ciascun componente il
raggruppamento
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: L'Avcpass blocca le aggiudicazioni.
Verifiche. L'allarme dei sindaci.
I Comuni lanciano
l'allarme sulle criticità per le gare derivanti
dall'utilizzo del sistema Avcpass e sollecitano l'Anac a
intervenire.
Il presidente dell'Anci, Piero Fassino, ha segnalato a
quello dell'Anac, Raffaele Cantone, i numerosi problemi che
Comuni e imprese incontrano nell'utilizzo del sistema
informatico per la verifica dei requisiti.
Molti enti lamentano che Avcpass non garantisce celerità di
gestione delle informazioni, dando evidenza alle difficoltà
riscontrate nella tempistica di messa a disposizione di vari
tipi di documenti, da parte di enti certificanti.
L'Anci rileva che la questione più critica è determinata dal
fatto che i Comuni, dopo aver esperito le gare, incontrano
problemi operativi nell'utilizzo del sistema che
impediscono, di fatto, l'aggiudicazione, poiché non
consentono di verificare i requisiti.
Il sistema Avcpass è lo strumento informatico che consente
l'accesso alla banca dati nazionale dei contratti pubblici
(articolo 6-bis del Codice): la norma prevede che dal 1°
luglio di quest'anno l'acquisizione dei documenti probatori
per la verifica del possesso dei requisiti dichiarati dai
concorrenti in gara sia effettuata solo attraverso Avcpass.
Un Comune che incontra problemi con il supporto informatico,
se decide di acquisire i documenti probatori con la
procedura tradizionale (quindi richiedendo a ciascun ente
certificatore e all'operatore economico, per i documenti in
sua esclusiva disponibilità) violerebbe l'obbligo
perentorio, con la possibile contestazione di
un'illegittimità evidente nello sviluppo del procedimento di
gara.
La mancata acquisizione dei documenti una volta intervenuta
l'aggiudicazione definitiva impedisce il conferimento di
efficacia alla stessa e inibisce al Comune sia la
stipulazione del contratto sia, in casi estremi, l'avvio
d'urgenza dell'appalto. L'Anci evidenzia come
l'impossibilità di avviare l'appalto crei gravi problemi,
soprattutto per interventi urgenti (come la messa a norma di
plessi scolastici).
L'Anac ha peraltro già operato alcune modifiche al sistema,
rilevabili dalla versione 2.1. del manuale operativo per le
stazioni appaltanti, ma Avcpass è ancora molto rigido, tanto
che, qualora la stazione appaltante perfezioni il Cig non
specificando correttamente alcuni aspetti dei requisiti, gli
operatori economici hanno difficoltà a concretizzare il
collegamento virtuale con i documenti e i dati che caricano
nel sistema: risultano frequenti le richieste di
chiarimenti, che obbligano l'amministrazione a rientrare nel
sistema per le specificazioni nel Cig, dovendo tuttavia
chiedere lo sblocco all'Anac (articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Formazione, spese deducibili al 50%. Lo sconto
diventa integrale per i «minimi» e per i corsi pagati ai
dipendenti dalla società.
Nel caso del professionista dotato di partita Iva le spese
sostenute per la frequenza di corsi di aggiornamento
professionale sono deducibili per il 50 per cento. La
deduzione avviene in base al principio di cassa e quindi
nell'anno in cui effettivamente sostenute.
L'articolo 54 del Tuir, Dpr 917/1986, introduce di fatto una
presunzione legale di inerenza attenuata, secondo la quale
una quota parte di tali spese (il 50%) è da ritenere
sostenuta per finalità di carattere ludico o, comunque...
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sblocca-Italia in Aula verso la fiducia Torna il regolamento
edilizio unico.
Camera. La commissione Ambiente ha concluso l'esame alle 5
di ieri mattina.
C'è voluta una nottata di
votazioni, finita ieri mattina alle 5.30, per completare
l'esame del decreto legge Sblocca-Italia in commissione
Ambiente della Camera. Domani il provvedimento è atteso
nell'Aula di Montecitorio dove è pressoché scontato che il
governo metterà la fiducia per evitare l'ostruzionismo del
Movimento 5 Stelle che già in commissione ha provato a
bloccare l'esame. Forti critiche anche dalla Lega che a un
certo punto ha abbandonato l'aula della commissione.
«Sono
stati presentati oltre 3mila emendamenti nel corso
dell'esame –dice il presidente della commissione, Ermete Realacci– e ne abbiamo votati circa 1.200, con quattro
notti di lavoro. Mi pare che il confronto costruttivo non
sia mancato e sono soddisfatto dell'esito perché c'è stato
un miglioramento del testo in molti punti critici del
provvedimento». Si tenga conto che Realacci ha anche
dichiarato inammissibili quasi una decina di emendamenti
presentati dal governo, cosa che non succede molto spesso.
Tra questi quello che estendeva l'attività delle società di
ingegneria (contro cui si erano schierati gli ordini degli
architetti e degli ingegneri), quello che consentiva
assunzioni a tempo determinato per l'Expo e quello che
pretendeva di dichiarare «di pubblico interesse» tutti gli
impianti legati al trasporto, allo stoccaggio e alla
raffinazione degli idrocarburi.
Tra le misure approvate nell'ultimo tour de force con la
regìa della relatrice Chiara Braga (Pd) c'è la
reintroduzione dello schema di regolamento edilizio unico
valido per tutti i comuni, proposto originariamente dal
Consiglio nazionale degli architetti che infatti hanno
subito commentato positivamente. Una norma che dovrebbe
aiutare a superare lo spezzatino di norme e definizioni del
settore edile. Correzione di rotta, invece, per l'articolo 5
sulle autostrade: i piani di fusione e le connesse proroghe
dei termini di scadenza delle concessioni potranno essere
approvati soltanto dopo il via libera preventivo dell'Unione
europea.
Anche l'articolo 17 sulle semplificazioni edilizie e
urbanistiche ha subìto numerosi modifiche. Centrali in
questo capitolo gli emendamenti presentati dal pd Roberto
Morassut: «Introduzione del contributo straordinario per le
varianti urbanistiche e deroghe edilizie che consentiranno
ai comuni una seria tassazione della rendita urbana per la
prima volta nella storia urbanistica italiana; eliminazione
dell'iniziale intenzione di lasciare in carico ai privati le
opere pubbliche di convenzione; eliminazione del permesso di
costruire in deroga per gli interventi di ristrutturazione
urbanistica; obbligo di voto per i consigli comunali e di
pubblicazione per i "permessi di costruire convenzionati"».
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GLI EMENDAMENTI APPROVATI
Regolamento edilizio unico
È stato approvato dalla commissione Ambiente l'emendamento
che introduce nel decreto legge Sblocca-Italia la previsione
di uno schema nazionale di regolamento edilizio unico.
Inizialmente proposta dal Consiglio nazionale degli
architetti, la norma era rimasta nelle bozze del
provvedimento urgente in agosto ma poi era stata eliminata
nel testo finale per le osservazioni del Quirinale. La nuova
versione supera quelle obiezioni. È una innovazione forte
che supera lo «spezzatino» di norme tecniche e definizioni
di 8mila comuni
Autostrade: serve l'ok della Ue
Correzione di rotta sostanziale per l'articolo 5 del decreto
legge sulle concessionarie autostradali: i piani di fusione
fra società concessionarie e di razionalizzazione della rete
e le connesse proroghe dei termini di scadenza delle
concessioni potranno essere approvati soltanto dopo il via
libera preventivo dell'Unione europea. I piani autostradali
dovranno ricevere anche il parere del Nars e quello
dell'Autorità di regolazione dei trasporti. Salta di fatto
la procedura straordinaria e accelerata che aveva voluto il
ministro Lupi per velocizzare gli investimenti programmati
Semplificazioni urbanistiche
Accolto un emendamento Morassut che prevede l'introduzione
del contributo straordinario per le varianti urbanistiche e
per le deroghe edilizie che consentiranno ai comuni una
seria tassazione della rendita urbana, l'eliminazione
dell'iniziale intenzione di lasciare in carico ai privati le
opere pubbliche di convenzione, l'eliminazione del permesso
di costruire in deroga per gli interventi di
ristrutturazione urbanistica, l'obbligo di voto per i
consigli comunali e di pubblicazione per i «permessi di
costruire convenzionati» (articolo Il Sole 24 Ore del
19.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La legge di stabilità.
Raffica di detrazioni per ristrutturazioni e acquisto di
mobili. Agevolato anche il risparmio energetico.
Il disegno di legge di
stabilità per il 2015, approvato mercoledì scorso dal
Governo, prevede la proroga a tutto il prossimo anno della
detrazione Irpef del 50% sulle ristrutturazioni edilizie,
sui mobili e sui grandi elettrodomestici e di quella Irpef e Ires del 65% sui lavori per il risparmio energetico
qualificato.
Non è stata modificata, invece, la detrazione
Irpef ed Ires del 65% sugli interventi antisismici
"qualificati", che quindi sarà ridotta al 50% per i
pagamenti del 2015. Infine, per i lavori verdi sulle parti
comuni condominiali, il bonus del 65% è stato prorogato dal
30.06.2015 al 31.12.2015, eliminandolo
definitivamente dal 2016.
A seguito di queste proroghe, non è necessario modificare i
riferimenti normativi da indicare nei bonifici, quindi, per
il risparmio energetico qualificato (compresi gli interventi
verdi nei condomini) la norma agevolativa è sempre
l'articolo 1, commi da 344 a 347, della Legge 296/2006,
mentre per le ristrutturazioni edilizie, le misure
antisismiche "qualificate" e l'acquisto di mobili e grandi
elettrodomestici va indicato l'articolo 16-bis del Tuir.
Risparmio energetico
Il disegno di legge ha prorogato sino alla fine del 2015
l'aumento dal 55% al 65% della detrazione Irpef e Ires sugli
interventi per il risparmio energetico qualificato degli
edifici, in vigore dal 06.06.2013. In precedenza, era
previsto che le spese sostenute nel 2015, fossero agevolate
al 50 per cento.
Dal 2016 questa agevolazione per i lavori verdi
"qualificati", prevista dalla Legge 296/2006, non sarà più
utilizzabile, ma si potrà applicare solo l'articolo 16-bis,
comma 1, lettera h), del Tuir per il risparmio energetico
generico (basta il bonifico parlante e non va inviata la
scheda tecnica all'Enea, entro 90 giorni dalla fine del
lavori), il quale incentiva tutti gli interventi «relativi
alla realizzazione di opere finalizzate al conseguimento di
risparmi energetici», senza dover rispettare i rigidi
requisiti previsti dal decreto dello Sviluppo economico 11.03.2008 e dalla Legge 296/2006 (si veda Il Sole 24 Ore del
26.07.2012).
Condomini efficienti
Per gli interventi sul risparmio energetico «relativi a
parti comuni degli edifici condominiali di cui agli articoli
1117 e 1117-bis del Codice Civile» o che interessano «tutte
le unità immobiliari di cui si compone il singolo
condominio», la detrazione del 65%, in vigore dal 06.06.2013, è stata prorogata dal Dl di stabilità 2015 fino al 31.12.2015. In precedenza, era previsto che le spese
sostenute fino al 30.06.2015 fossero agevolate al 65% e
che quelle sostenute dall'01.07.2015 e fino al 30.06.2016 beneficiassero del bonus del 50%.
La riduzione del periodo agevolato di 6 mesi (prima metà del
2016), quindi, è stata bilanciata con l'aumento della
percentuale del bonus dal 50% al 65% per il secondo semestre
del 2015.
Limiti 55-65%
Per gli interventi sul risparmio energetico, l'aumento delle
percentuali di detrazione dal 55% al 65% (dal 06.06.2013
al 31.12.2015) non incidono sull'importo massimo dello
sconto Irpef ed Ires spettante, in quanto la variazione
influenza la spesa massima agevolabile. La norma istitutiva
della detrazione del 55%, infatti, prevede solo dei limiti
di "detrazione" e non dei livelli massimi di spesa
agevolabile; l'aumento della percentuale comporta, quindi,
una diminuzione della spesa massima agevolabile per lo
stesso intervento.
Recupero patrimonio edilizio
La maxi-detrazione del 50% sugli interventi sul recupero del
patrimonio edilizio (manutenzioni, ristrutturazioni e
restauro e risanamento conservativo), applicabile dal 26.06.2012, è stata prorogata sino alla fine del 2015. In
precedenza era previsto che le spese sostenute nel 2015
fossero agevolate al 40 per cento. Dall'01.01.2016,
comunque, si ritornerà a regime alla percentuale ordinaria
del 36 per cento.
La proroga riguarda anche il limite massimo di spesa per
singola unità immobiliare, che rimarrà di 96mila euro sino a
fine 2015, per tornare ai consueti 48mila euro dal 2016.
L'importo massimo della detrazione per singola unità
immobiliare, quindi, sarà di 48mila euro sino a fine 2015 e
di 17.280 dal 2016 in poi.
Misure antisismiche
Il disegno di legge non ha modificato, invece, la detrazione
Irpef ed Ires del 65% sulle misure antisismiche
dell'abitazione principale o delle costruzioni adibite ad
attività produttive ("edifici ricadenti nelle zone sismiche
ad alta pericolosità", zone 1 e 2, Opcm 20.03.2003, n.
3274), quindi, solo per i bonifici effettuati dal 04.08.2013 al 31.12.2014 si potrà beneficiare, con le regole
delle ristrutturazioni edilizie, della percentuale super-agevolata del 65%, mentre per i pagamenti del 2015 si
dovrà applicare la minore detrazione del 50 per cento (articolo Il Sole 24 Ore del
19.10.2014 - tratto da www.fiscooggi.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Diritti edificatori con registro al 3%.
Uno studio del Consiglio nazionale notariato.
I diritti edificatori di cui all'art. 2643, n. 2-bis, c.c.,
non sono assimilabili ai diritti reali; di conseguenza, il
loro trasferimento, ai fini dell'imposta di registro, non
dovrebbe essere tassato con le aliquote previste per i beni
e diritti immobiliari dall'art. 1 della tariffa, parte
prima, allegata al dpr n. 131/86 (in genere, 9%), ma con
l'aliquota del 3%.
Ad affermarlo è lo
studio
16.10.2014 n. 540-2014/T
del Consiglio nazionale del notariato.
Il documento prende le mosse dalla novella dell'art. 5
del dl n. 70/2011, che ha introdotto nell'art. 2643 c.c. il
numero 2-bis, il quale assoggetta a trascrizione nei
registri immobiliari i contratti che trasferiscono,
costituiscono o modificano diritti edificatori comunque
denominati, previsti da norme statali o regionali ovvero da
strumenti di pianificazione territoriale.
In relazione al
«capostipite» di tali diritti, ossia il diritto di cubatura,
l'amministrazione, basandosi su una ricostruzione elaborata
dalla Corte di cassazione, nella risoluzione n. 250948/76 ha
affermato trattarsi di diritto assimilabile ai diritti reali
immobiliari di godimento, con i conseguenti effetti fiscali,
in particolare l'applicazione, agli atti di trasferimento,
dell'imposta di registro con le aliquote proporzionali
previste per i beni e diritti reali immobiliari.
Questo orientamento, condiviso «in linea di massima» dal
precedente studio del notariato n. 24/2002/T, è stato
recentemente seguito dalla risoluzione n. 233/2009 in
relazione alla cessione del diritto di rilocalizzazione
degli edifici ai sensi della legge n. 38/1998 dell'Emilia
Romagna.
Il nuovo studio, richiamando le opinioni dottrinarie
contrarie e valorizzando la ratio del recente intervento
legislativo, mette in dubbio l'orientamento consolidato,
ritenendo preferibile la teoria che identifica nel diritto
edificatorio non un diritto reale, ma un interesse legittimo
tutelato dall'ordinamento, o anche una sorta di aspettativa
di diritto in senso lato ma non un vero e proprio diritto
soggettivo reale, oppure un bene immateriale di origine
immobiliare.
La cessione di tali diritti sarebbe quindi
soggetta all'imposta di registro del 3% ai sensi dell'art. 2
o dell'art. 9 della tariffa, con i connessi effetti
sull'imposta ipotecaria e, eventualmente, catastale
(articolo ItaliaOggi del 18.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Detrazioni 50% e 65% applicabili un altro anno.
La ritenuta sui bonifici per i pagamenti delle spese di
ristrutturazione raddoppia: dal 4 all'8%. Ma le attuali
detrazioni del 50 e del 65%, per la ristrutturazione e il
risparmio energetico, saranno applicabili per una ulteriore
annualità, ovvero fino al 31/12/2015.
Il ddl Stabilità 2015
interviene sul dl 63/2013 allungando l'applicazione del
bonus sul risparmio energetico, nella misura peri al 65%,
anche alle spese sostenute nell'intervallo tra il 06/06/2013 e
il 31/12/2015 e sulle ristrutturazioni edilizie, nella
misura del 50%, dal 26/06/2012 al 31/12/2015.
La vera
novità, però, riguarda l'innalzamento della ritenuta sui
bonifici che, inizialmente, il legislatore fiscale, con
l'art. 25, del dl 78/2010, convertito nella legge 122/2010
aveva indicato nella misura del 10% a titolo di acconto
imposta, ponendo il prelievo a carico dei beneficiari del
pagamento, per tutti i bonifici effettuati proprio da chi
intende avvalersi di deduzioni e detrazioni fiscali.
Successivamente, il dl 98/2011, ha ridotto la misura della
citata ritenuta, dal 10% al 4%, ferme restando le modalità
di esecuzione, tenendo conto che le ritenute operate sono
versate dalle banche e dalle Poste italiane, ai sensi
dell'art. 17, dlgs 241/1997, con il modello «F24» ed entro
il giorno 16 del mese successivo a quello in cui sono state
operate. Le ritenute subite dai soggetti beneficiari dei
bonifici sono scomputate, in sede di dichiarazione dei
redditi, dall'Irpef o dall'Ires dovuta, secondo le regole
generali (artt. 22 e 79, dpr 917/1986).
Come indicato in una
specifica risposta ad una interrogazione parlamentare (q.t.
10/02/2011 n. 5-04177), il contribuente può utilizzare in
compensazione, nel modello «F24», ai sensi dell'art. 17,
dlgs 241/1997, l'eventuale credito di imposta risultante
dalla dichiarazione dei redditi (modello Unico), dopo aver
scomputato le ritenute d'acconto complessivamente subite nel
periodo d'imposta e gli acconti versati.
La detta compensazione può essere effettuata dal giorno
successivo a quello in cui si è chiuso il periodo d'imposta
nel quale si è formato il credito medesimo, purché il
contribuente sia in grado di eseguire i relativi conteggi e
il credito, utilizzato per effettuare la compensazione, sia
quello effettivamente spettante sulla base della
dichiarazione che sarà successivamente presentata; in
alternativa alla compensazione, l'eventuale credito può
essere chiesto a rimborso
(articolo ItaliaOggi del 17.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: SPECIALE LEGGE DI STABILITA'.
Congelamento prolungato al 31/12/2015.
P.a., confermato il blocco del Ccnl.
Confermato il blocco della contrattazione e dei salari per i
dipendenti pubblici. Come già ampiamente annunciato nelle
settimane scorse dal ministro della Funzione pubblica,
Marianna Madia, la legge di stabilità 2015 prolunga fino al
31.01.2015 il congelamento degli emolumenti del
pubblico impiego.
La prima mossa consiste nel prorogare gli
effetti dell'articolo 9, comma 17, del dl 78/2010,
convertito in legge 122/2010, ai sensi del quale: non è
possibile dare corso, senza possibilità di recupero nel
futuro, alle procedure contrattuali e negoziali relative al
triennio 2010-2012 dei dipendenti pubblici; e per le
procedure contrattuali e negoziali ricadenti negli anni
2013, 2014 e 2015 i contratti collettivi saranno ammessi per
la sola parte normativa e senza possibilità di recupero per
la parte economica.
Il secondo blocco riguarda l'indennità
di vacanza contrattuale. Infatti, la legge di stabilità
porta al quadriennio 2015-2018 il congelamento
dell'indennità di vacanza contrattuale all'importo in
godimento alla data del 31.01.2015.
In terzo luogo, la legge di stabilità inchioda anche le
carriere. Infatti, resteranno valide fino al 31.12.2015 anche le misure stabilite dall'articolo 9, comma 21,
del dl 78/2010, ai sensi del quale non sarà possibile
effettuare né progressioni verticali, oggi sostituite
comunque dai concorsi pubblici con riserva di posti, né
progressioni orizzontali, ottenere, cioè, incrementi
stipendiali. Eventuali progressioni orizzontali potrebbero
avere, fino a tutto il 2015, solo effetti economici, secondo
indicazioni date dalla Corte dei conti, per altro non
corrette e condivisibili, dal momento che nel comparto
regioni ed enti locali le progressioni orizzontali hanno
solo effetti economici e non giuridici.
Dimagrimento anche per gli stipendi dei componenti degli
uffici di diretta collaborazione dei ministri, come capi
gabinetto o consiglieri legislativi. La legge di Stabilità
estende a questi soggetti il limite massimo stipendiale
previsto dall'articolo 23-ter del dl 201/2011, convertito in
legge 214/2011 (il cosiddetto «salva Italia»), cioè il
trattamento economico del primo presidente della Cassazione,
senza possibilità di conservare quanto percepito, se
l'incaricato provenga da amministrazioni presso le quali non
operi tale limite
(articolo ItaliaOggi del 17.10.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Ecco i bandi-tipo.
Meno discrezionalità per le p.a.. APPALTI/ I modelli sono stati pubblicati dall'Anac.
Meno discrezionalità negli appalti pubblici di lavori oltre
i 150 mila euro con il bando-tipo dell'Anac per i contratti
da affidare con procedura aperta al prezzo più basso; nel
disciplinare di gara che potranno utilizzare le stazioni
appaltanti anche le indicazioni sul costo del lavoro,
qualificazione delle imprese, verifiche dei requisiti (con
il sistema Avcpass) e pagamento delle imprese.
È quanto
emerge dalla lettura del bando-tipo n. 2 del 02.09.2014, emesso dall'Anac (Autorità nazionale anti corruzione)
in attuazione dell'art. 64, comma 4-bis, del decreto
legislativo 163/2006 (codice dei contratti pubblici).
Il
lavoro, pubblicato ieri sul sito dell'Authority, consiste in
un
modello di disciplinare di gara per procedura aperta di
un appalto di sola esecuzione di lavori di importo superiore
a euro 150 mila euro.
Il modello, predisposto a seguito
della consultazione pubblica di febbraio, e previa
acquisizione del parere del ministero delle infrastrutture e
dei trasporti, è il primo bando-tipo per i lavori; a breve
dovrebbero essere varati via definitiva anche i restanti
modelli relativi alla sola esecuzione lavori con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa e quelli per gli
«appalti integrati» di progettazione ed esecuzione dei
lavori.
L'obiettivo è quello di guidare e semplificare la
complessa attività di predisposizione della documentazione
di gara da parte delle stazioni appaltanti e di ridurre la
disomogeneità fra i diversi bandi, oltre che il contenzioso
connesso, soprattutto, alla previsione nei bandi di cause di
esclusione che non trovano fondamento normativo nell'art.
46, comma 1-bis, del Codice si compone di un contenuto
prescrittivo vincolante, in cui sono ricomprese le clausole
relative alle cause tassative di esclusione, e di un
contenuto prescrittivo discrezionale, riferito ad aspetti
della procedura che devono necessariamente essere
regolamentati nella documentazione di gara.
Fra le diverse indicazioni emerge quella sul costo del
lavoro per il quale si prevede che siano le stazioni
appaltanti a chiedere di inserirli nell'offerta anche se, in
assenza di tale indicazione, non scatterebbe l'esclusione
dalla gara. Per la verifica dei requisiti confermata
l'utilizzabilità del sistema Avcpass.
Un bollino blu
per le imprese
E sempre ieri Raffaele Cantone, presidente dell'Anac, ha
dato la propria ricetta per fare emergere e premiare le
aziende più corrette negli appalti. «Per la lotta alla
corruzione», ha affermato il magistrato, «stiamo
ragionando con Confindustria che ho trovato molto
disponibile. Bisogna lavorare su due aspetti: per prima cosa
prevedendo sanzioni per quegli imprenditori che espongono in
essere fatti di corruzione o che non collaborano con
l`autorità giudiziaria. E poi forse bisognerà fare una nuova
rivoluzione e cioè premiare gli imprenditori che si
comportano bene, accettano i controlli e sono trasparenti,
magari con una sorta di bollino blu sulle imprese. Un
bollino che potrebbe prevedere premi sulla possibilità di
ottenere appalti. La rivoluzione deve essere quindi anche
sul piano culturale. Ci sono troppe norme, la
semplificazione sicuramente è un obiettivo ma senza
abbassare il livello dei controlli»
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti, al Tar ricorsi più veloci.
CALAMITÀ/ Le modifiche dopo Genova.
Il Tar potrà evitare la fase cautelare e fissare
direttamente il merito di un ricorso relativo ad appalti di
lavori relativi ad eventi calamitosi, se l'interesse
all'incolumità pubblica verrà ritenuto prevalente.
È questa
l'immediata risposta del governo ai ritardi nella
realizzazione delle opere di mitigazione del rischio
idrogeologico di Genova, contenuta in un emendamento
presentato ieri in commissione ambiente della camera.
La norma, inserita nell'ambito dell'articolo 9 sui lavori di
estrema urgenza in materia di vincolo idrogeologico,
antisismica e di messa in sicurezza, stabilisce che, per
legge, dovranno intendersi come connaturate da esigenze
imprecative connesse a un interesse generale anche «quelle
funzionali alla tutela dell'incolumità pubblica».
Data questa qualificazione dell'interesse, il governo
propone che in tutte le procedure di appalto («avviate o
da avviarsi») e nelle procedure conseguenti alla
redazione di un verbale di somma urgenza per interventi
conseguenti alla dichiarazione dello stato di calamità
naturale, il Tar può accogliere un ricorso cautelare
soltanto se i requisiti di estrema gravità e urgenza
previsti dal codice del processo amministrativo «siano
ritenuti prevalenti rispetto alle esigenze di incolumità
pubblica evidenziate dalla stazione appaltante».
In questi casi il giudice sarà tenuto, quindi, a fissare
l'esame del merito del ricorso entro trenta giorni, saltando
quindi la fase cautelare e con una decisione che potrebbe
giungere entro un massimo di 30/40 giorni dalla
presentazione del ricorso
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Bando-tipo Anac per i lavori pubblici al massimo ribasso.
Appalti. Obiettivo: gare uniformi, meno ricorsi.
L'Anticorruzione accelera
sui bandi-tipo: i modelli previsti dal codice per ridurre il
contenzioso negli appalti, provando a uniformare le prassi
delle migliaia di stazioni appaltanti attive in Italia.
Dopo uno stop di alcuni mesi, ieri è stato pubblicato il
modello standard per l'affidamento dei bandi di lavori
pubblici di importo superiore a 150mila euro. Un documento
fondamentale perché include la gran parte del mercato degli
appalti relativi alle infrastrutture, anche se uscito in una
versione ridotta rispetto al provvedimento messo in
consultazione dalla vecchia Avcp a febbraio.
Il modello
pubblicato ieri si riferisce infatti agli appalti di sola
esecuzione da assegnare al massimo ribasso. Restano per ora
fuori -e magari saranno oggetto di nuovi interventi
dell'Autorità- le indicazioni per gli appalti integrati di
progettazione e lavori e quelli da assegnare con il criterio
dell'offerta più vantaggiosa: formula che oltre al prezzo
prende in considerazione anche gli aspetti tecnici di
esecuzione del contratto e verso la quale spingono le nuove
direttive Ue .
Il bando tipo si compone di una nota illustrativa e di un
disciplinare. Quest'ultimo, chiarisce subito l'Anac,
contiene alcune prescrizioni vincolanti (tra cui quelle
relative alle cause di esclusione) e altre discrezionali. Le
prime vanno riportate così come sono e «sono derogabili
dalle stazioni appaltanti previa specifica motivazione ed
entro i limiti del rispetto del principio di tassatività».
Fanno parte di questo gruppo «le cause di esclusione», «le
modalità di costituzione della cauzione provvisoria e le
dichiarazioni su requisiti di ordine generale e speciale da
rendere in sede di gara». Sulle seconde rimane un margine di
discrezionalità della Pa.
Per ora l'Anac bypassa il nodo del cosiddetto «soccorso
istruttorio», introdotto dal decreto legge 90/2014, causa di
non pochi problemi interpretativi per le stazioni
appaltanti,: sarà oggetto di una determinazione ad hoc.
Un'importante precisazione arriva invece sul contratto da
utilizzare nei cantieri. L'Anac sposa l'indicazione data dal
ministero del Lavoro su sollecitazione dei costruttori,
segnalando l'opportunità di prevedere l'applicazione del
contratto nazionale dell'edilizia negli «appalti di natura
edile o prevalentemente edile».
Altri chiarimenti riguardano
i costi di sicurezza, l'uso obbligatorio dell'Avcpoass, la
gestione dei subappalti, l'avvalimento, la certificazione di
qualità e i pagamenti. Oltre al bando tipo sui lavori, l'Anac
ha messo a punto lo standard per le gare di servizi e
forniture.
Questo schema-tipo diventerà però operativo solo
dopo aver raccolto le osservazioni degli operatori tramite
la consultazione on line aperta fino al 20 novembre
(articolo Il Sole 24 Ore del
15.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Tecno-rifiuti tracciabili a 360°. Via a marcatura
Aee alla fonte e gestione Raee a valle.
Entra nel vivo la disciplina disegnata dai
decreti legislativi 27/2014 e 49/2014.
Marcatura delle nuove apparecchiature elettriche ed
elettroniche (c.d. «Aee») con gli estremi del produttore, a
partire dal 09.10.2014 e controllo telematico Sistri della
gestione dei relativi rifiuti (cd. «Raee») dietro minaccia
di sanzioni dal 01.01.2015.
Queste, insieme a più elasticità nell'utilizzo di sostanze
pericolose nella fabbricazione delle Aee e nella scelta da
parte degli stessi produttori del miglior sistema per
garantire gli standard minimi di recupero/riciclo una volta
a fine vita, le ultime novità che interessano la riformulata
disciplina ambientale sulle tecno-apparecchiature, in vigore
dalla seconda metà del 2014.
Il quadro normativo di riferimento.
Le novità gravitano intorno ai due provvedimenti nazionali
che nella prima parte del 2014 hanno riformulato le regole
sulla eco-compatibilità di Aee e Raee: il dlgs 27/2014 sulla
produzione ambientalmente sostenibile delle apparecchiature
elettriche ed elettroniche (adottato in attuazione della
direttiva 2011/65/Ue e in vigore dal 30.03.2014) che
prevede, sulla falsariga della precedente disciplina, la
restrizione della commercializzazione di Aee contenenti
determinate sostanze pericolose (piombo, mercurio, cadmio,
cromo esavalente, bifenili polibromurati, eteri di bifenile
polibromurato) e il dlgs 49/2014 (emanato in attuazione
della direttiva 2012/19/Ue, in vigore dal 12.04.2014) sulla
gestione dei relativi rifiuti.
Entrambe le nuove discipline (che sostituiscono pressoché
integralmente quella dello storico dlgs 151/2005,
lasciandone però in vita l'attuativo dm 65/2010 sul
tracciamento semplificato dei rifiuti) sono fondate sulla
logica di «catalogo aperto» che riconduce sostanzialmente
sotto il loro campo di applicazione ogni apparecchiatura
inquadrabile come «Aee» o «Raee». Il dlgs 27/2014 si
applica, infatti, fin dal marzo scorso a tutte le
apparecchiature elettriche ed elettroniche, con l'unica
eccezione dei pannelli fotovoltaici installati in loco da
professionisti. Il dlgs 49/2014 coprirà invece fino al
14.08.2018 solo un novero limitato di Aee a fine vita
(coincidente con quello ex dlgs 151/2005, più i pannelli
fotovoltaici) mentre dal 15.08.2018 si applicherà a tutte le
Aee da dismettere (a eccezione di quelle per sicurezza
nazionale, militare e spaziale).
Nuova marcatura Aee.
Dal 09.10.2014, come anticipato, tutte le nuove
apparecchiature elettriche ed elettroniche da immettere sul
mercato devono essere provviste di un marchio identificativo
del produttore e di un simbolo che ricordi l'obbligo di
raccolta separata delle stesse una volta divenute rifiuti.
Ai sensi dell'articolo 28 del dlgs 49/2014 il marchio,
conforme alla normativa «Cei En» di settore, deve contenere
almeno un elemento tra nome del produttore, suo logo (se
registrato), numero di iscrizione al Registro nazionale dei
soggetti obbligati al finanziamento dei sistemi di gestione
Raee. In aggiunta, dunque non in alternativa, è possibile
apporre sulle Aee sistemi di identificazione a radio
frequenza (Rfid), previa comunicazione e approvazione da
parte del Comitato di vigilanza e controllo.
Nel tenore del dlgs 49/2014 il marchio apposto «deve
consentire di individuare in maniera inequivocabile il
produttore delle Aee e che le stesse sono state immesse sul
mercato successivamente al 13.08.2005», imponendo dunque gli
operatori in parola a intervenire anche sui beni già
prodotti ma ancora non commercializzati alla data del
09.10.2014 (scadenza indicata dall'articolo 40 come termine
iniziale dell'obbligo in parola).
Insieme al marchio deve altresì essere obbligatoriamente
apposto il (noto) simbolo del contenitore dei rifiuti
barrato indicante il divieto di smaltimento indifferenziato.
Entrambe le etichettature devono essere apposte sulla
superficie dell'Aee, su una sua parte visibile dopo la
rimozione di un componente che non necessiti di utensili o,
in caso di impossibilità per dimensioni o funzioni del
prodotto, su imballaggio e istruzioni.
Deroghe per sostanze pericolose nelle Aee.
Dallo scorso 26.09.2014 hanno inoltre piena vigenza sul
territorio nazionale le eccezioni al divieto generale di
utilizzo di alcune sostanze pericolose nella fabbricazione
di nuove Aee introdotte dagli ultimi provvedimenti tecnici
Ue del 2014.
Mediante il dm Ambiente 25.07.2014 sono infatti state
trasposte nel dlgs 27/2014 (sulle apparecchiature elettriche
ed elettroniche) le deroghe sancite dalle ultime otto
direttive delegate (numerate dalla 69 alla 76) adottate
dall'Unione europea in attuazione della direttiva madre
2011/65/Ue sulla restrizione dell'uso di determinate
sostanze pericolose nei tecno-prodotti.
Le deroghe consentono l'uso in via eccezionale del piombo in
strumenti di monitoraggio di impianti industriali,
apparecchiature mediche, controllo motori e l'impiego del
mercurio in monitor professionali e tubi luminosi. Il tutto
sul presupposto dell'attuale insostituibilità tecnica delle
sostanze in parola, condizione che, secondo l'attuale tenore
del riformulato dlgs 27/2014, ne giustificherà l'impiego in
alcuni casi anche fino al 2024.
Adempimento obblighi recupero/riciclo Raee.
Dal 21.08.2014 vige anche una maggior libertà per i
produttori di nuove apparecchiature nello scegliere il
proprio sistema ottimale per garantire gli obblighi di
recupero e riciclaggio minimi dei Raee generati dal consumo
delle proprie Aee.
La legge 116/2014 ha infatti ritoccato le norme recate dal
dlgs 49/2014 sulle opzioni offerte ai soggetti in parola
(adempimento in forma individuale o collettiva), stabilendo
che la scelta della seconda formula (adesione a sistema
collettivo) può essere in qualsiasi momento revocata tramite
fuoriuscita dal consorzio al quale si è aderito o passaggio
da un ente all'altro.
Sistri per Raee.
Dal 01.01.2015, invece, la piena operatività del nuovo
sistema di tracciamento telematico dei rifiuti (coincidente
con il termine dell'obbligo della parallela tenuta delle
tradizionali scritture ambientali e lo scattare della
vigenza delle sanzioni Sistri) interesserà anche molti
produttori e gestori di Raee.
In base al dlgs 152/2006 e provvedimenti satellite l'obbligo
di tracciamento telematico riguarda infatti tutti i
medio-grandi produttori di rifiuti speciali pericolosi
(poiché eccezioni per alcune piccole imprese con meno di 10
dipendenti che non stoccano i propri residui sono previste
dal recente dm Ambiente 24 aprile 2014) e i soggetti che
provvedono a trasporto e trattamento degli stessi.
Potranno invece continuare a effettuare il tracciamento dei
rifiuti fuori dal Sistri distributori, installatori e
gestori dei centri di assistenza tecnica Aee ammessi (in
relazione ai corrispondenti rifiuti ritirati) dal dlgs
49/2014 alla tenuta delle scritture ambientali «light» ex dm
65/2010 (tenuta dello «schedario di carico e scarico» e del
«documento di trasporto», versioni semplificate dei più
complessi e storici «registri di carico e scarico» e
«formulario di trasporto dei rifiuti»).
«Aia» per trattamento Raee.
Dall'11.04.2014, lo ricordiamo, è inoltre necessario essere
in possesso di «autorizzazione integrata ambientale» per
poter effettuare frantumazione di ingenti quantitativi di
Raee.
Ad imporlo è il dlgs 46/2014, l'ultimo provvedimento in
materia di emissioni industriali che ha riscritto l'elenco
del dlgs 152/2006 relativo alle attività che necessitano di
«Aia» per poter essere esercitate, inserendovi il
trattamento superiore ai 50 megagrammi al giorno di rifiuti
metallici in frantumatori, residui tra i quali rientrano
anche i Raee (articolo
ItaliaOggi Sette del 13.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Permesso di costruire: i limiti all'annullamento.
I giudici frenano sul potere di cancellazione a distanza di
anni. Titoli abilitativi. La giurisprudenza chiarisce i
contorni dell'istituto dell'autotutela.
Anche dopo otto-dieci anni
il permesso di costruire può essere annullato, dai giudici o
dal Comune. Con inevitabili conseguenze sulla legittimità
della costruzione già realizzata. Il permesso di costruire o
una sua eventuale variante, sono infatti suscettibili di
annullamento ad opera del giudice amministrativo, oppure in
via di autotutela, sia da parte dello stesso Comune che li
aveva assentiti, sia ad opera della Regione, nelle ipotesi
contemplate dall'articolo 39, del Testo unico dell'edilizia
(Dpr 380/2001).
Ma passando in rassegna il contenzioso (inevitabile) che si
viene a creare dopo l'annullamento emerge che la
giurisprudenza ha via via precisato i confini entro i quali
l'annullamento può muoversi.
Gli effetti
Come ricordato in una pronuncia del Tar Piemonte (sezione II,
n. 1171/2014) l'annullamento giurisdizionale del permesso di
costruire sancisce la qualificazione di abusività delle
opere edilizie in base ad esso realizzate, per cui il
Comune, «stante l'efficacia conformativa della sentenza del
giudice amministrativo, oltre che costitutiva e
ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato
adottando i provvedimenti consequenziali».
Tuttavia, precisa
la sentenza richiamando l'analogo orientamento del Consiglio
di Stato (sezione VI, n. 3571/2011), i provvedimenti non
devono necessariamente portare alla demolizione delle opere
eseguite. Ciò in quanto l'articolo 38 del Testo unico
prescrive che in caso di annullamento del permesso di
costruire il dirigente del competente ufficio comunale debba
effettuare una nuova valutazione circa la possibilità di
restituzione in pristino e, nel caso in cui la demolizione
non risulti possibile, dovrà irrogare una sanzione
pecuniaria nei termini stabiliti dalla medesima norma.
Inoltre, la nuova valutazione andrà comunque effettuata
sulla base della normativa esistente al momento della
notifica della sentenza di annullamento poi passata in
giudicato, venendo così in rilievo anche la nuova disciplina
eventualmente intervenuta nelle more del giudizio (Consiglio
di Stato, sezione V, n. 5169/2009).
L'errore del Comune
Diversa l'ipotesi dell'annullamento in sede di autotutela da
parte del Comune, che può verificarsi, ad esempio, quando
l'ente non abbia considerato che l'area interessata aveva
già espresso in tutto o in parte la volumetria edificabile.
Su questo potere e sulle motivazioni dell'atto si registrano
due posizioni giurisprudenziali, recentemente richiamate dal
Tar Toscana (sezione III, n. 688/2014). Per il primo
orientamento, l'annullamento d'ufficio di un permesso
edilizio non necessiterebbe di una espressa motivazione sul
pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo
nell'interesse della collettività al rispetto dell'ordinato
assetto del territorio delineato dalla disciplina
urbanistica (Consiglio di Stato, sezione IV, n. 4300/2012;
sezione V, n. 3037/2013; Tar Sardegna, n. 651/2013).
Il secondo indirizzo, maggioritario, prende in
considerazione la natura discrezionale del potere di
autotutela, frutto di una scelta di opportunità che deve
essere congruamente giustificata e che deve rispondere ai
generali requisiti di legittimità codificati nell'articolo
21-nonies, della legge n. 241/1990, consistenti
nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione. Interesse
che è diverso dal mero ripristino della legalità e che va
comparato con i contrapposti interessi dei privati
(Consiglio di Stato, sezione III, n. 2683/2012).
Ne deriva che l'annullamento d'ufficio del permesso di
costruire richiede un'espressa motivazione in ordine
all'effettivo interesse pubblico che giustifica il ricorso
al potere di autotutela, non essendo sufficiente, anche in
materia edilizia, l'intento di operare un'astratta
reintegrazione della legalità violata (Consiglio di Stato,
sezione IV, n. 1605/2013, n. 905/2013).
I tempi
Il Tar Campania (Napoli, sezione VIII, n. 3608/2014) ha
sancito l'illegittimità dell'annullamento in autotutela di
una concessione edilizia a dieci anni dal suo rilascio,
motivata solo con la violazione della fascia di rispetto
autostradale e senza tener conto dell'affidamento ingenerato
nel privato; mentre il Consiglio di Stato (sezione IV, n.
1986/2012) ha ritenuto legittimo un provvedimento
annullatorio emesso a sei anni di distanza dal rilascio del
titolo, considerando che, ai sensi dell'articolo 39, del Dpr
n. 380/2001, l'annullamento regionale in autotutela può
intervenire sino al decimo anno dal rilascio del permesso di
costruire.
I giudici di Palazzo Spada (sezione IV n. 32/2013) hanno
anche chiarito che il potere della Regione ha carattere
sostitutivo e che, «a differenza del potere di autotutela
riconosciuto al Comune, non comporta un riesame del
precedente operato da parte del soggetto titolare del potere
di annullamento, ma è finalizzato ad assicurare da parte
delle Amministrazioni comunali il rigoroso rispetto della
normativa in materia edilizia».
---------------
Le pronunce
01 | LE CONSEGUENZE
L'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire
provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie
realizzate in base ad esso, per cui il Comune è obbligato a
dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti
consequenziali.
Tuttavia tali provvedimenti non devono avere ad oggetto
necessariamente la demolizione delle opere realizzate. La
norma prescrive, in caso di annullamento del permesso di
costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del
competente ufficio comunale riguardo la possibilità di
restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti
possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria,
nei termini fissati dallo stesso articolo 38.
Tar Piemonte, sezione II - sentenza 08.07.2014 n. 1171
02 | I TEMPI
È illegittimo il provvedimento con il quale un Comune, a
distanza di dieci anni dal rilascio, ha annullato in
autotutela una concessione edilizia, motivato con esclusivo
riferimento alla violazione della fascia di rispetto
autostradale sancita in 25 metri, all'epoca del rilascio
della concessione edilizia, ex articolo 8, legge n. 729 del
1961.
A fronte del considerevole lasso di tempo decorso dal
rilascio del titolo abilitativo edilizio annullato
d'ufficio, il canone di ragionevolezza del termine massimo
per l'esercizio del potere di autotutela avrebbe dovuto
suggerire una scelta più attenta e rispettosa verso la
consolidata posizione di affidamento ingenerato nel privato
ricorrente circa la legittimità dell'atto di concessione
rilasciatogli
Tar Campania - Napoli, sezione VIII, sentenza 02.07.2014 n.
3608
03 | LA MOTIVAZIONE
È illegittimo l'annullamento d'ufficio di una autorizzazione
edilizia adottato dal Comune nel caso in cui, si faccia solo
accenno alla prevalenza, nella valutazione comparativa,
dell'interesse pubblico alla conservazione dello stato dei
luoghi, atteso che quest'ultima costituisce una semplice
formula stereotipata.
Nel caso in questione, tenuto altresì conto del lungo lasso
di tempo intercorso dal rilascio del provvedimento ritirato
(oltre otto anni), invece, incombeva sull'amministrazione un
ben più pregnante onere di motivazione, non adeguatamente
assolto dall'utilizzo di una clausola di stile apposta a
sostegno della determinazione assunta
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 19.03.2013, n. 1605
04 | GLI INTERESSI
L'annullamento in autotutela di una concessione edilizia
presuppone anche la disamina dell'interesse pubblico alla
sua rimozione nel bilanciamento con il contrapposto
interesse del soggetto cui la stessa è stata rilasciata.
Peraltro detta concessione, ove rilasciata in violazione
delle norme urbanistiche, pregiudica di per sé gli interessi
alla cui salvaguardia è preordinata la stessa normativa con
la conseguenza che il contrapposto interesse del titolare
della concessione edilizia può avere rilievo qualora sia
incolpevole e consolidato e solo in quel caso può essere
posto a raffronto con quello al rispetto della
programmazione urbanistica comunale
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 03.06.2013, n. 3037
05 | LA PROCEDURA
L'esercizio dell'potere di annullamento in autotutela
autotutela da parte della Pa richiede il previo avviso di
avvio del procedimento, dal momento che l'interessato deve
essere messo in condizione di argomentare, in
contraddittorio con l'amministrazione, sulla eventuale
insussistenza di un prevalente interesse alla rimozione
dell'atto ritenuto illegittimo e/o inopportuno
Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 15.05.2012, n.2805
06 | I PAGAMENTI
Il contributo concessorio è strettamente connesso alla
concreta ed effettiva attività di trasformazione del
territorio assentita col titolo edilizio rilasciato e,
quindi, se tale circostanza non si verifica, il relativo
pagamento risulta privo della causa dell'originaria
obbligazione di dare. Argomentando diversamente, in assenza
di restituzione, si determinerebbe in favore del Comune un
indebito oggettivo, ai sensi dell'articolo 2033 del Codice
civile.
Tar Puglia - Bari, sezione III - sentenza 08.11.2013, n.
1526
07 | LO STOP PARZIALE
Il Comune deve assolvere pienamente all'onere motivazionale
concernente le valutazioni afferenti il potere-dovere di non
procedere ad annullamento dell'intero permesso di costruire,
ma solo della parte del ridetto permesso di costruire che
abbia ad oggetto i vani eccedenti la volumetria assentibile.
Tar Marche, sentenza 12.12.2013, n.906
08 | I VIZI FORMALI
La sanzione alternativa pecuniaria prevista dall'articolo
38, comma 1, del Dpr 380/2001 si applica solo alle
costruzioni assentite mediante titoli abilitativi edilizi
annullati per soli vizi formali, e non anche per quelli
annullati a causa di vizi sostanziali.
Tar Campania-Napoli, sezione VIII, sentenza 10.09.2010, n.
17398
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Lo stop va sempre motivato. Da
restituire i contributi. Le conseguenze. La demolizione non
è l'unica strada percorribile.
La decisione assunta dalla Pa
di adottare in autotutela il provvedimento di annullamento
del titolo abilitativo costituisce espressione di un potere
discrezionale, a fronte del quale sussiste quindi l'obbligo
di comunicare agli interessati l'avvio del procedimento. Sul
punto, è principio ormai consolidato che la preventiva
comunicazione di cui all'articolo 7, della legge n.
241/1990, «costituisce una regola generale dell'azione
amministrativa, soprattutto quando l'amministrazione
eserciti il potere d'annullamento d'ufficio (nella specie,
di un permesso di costruire) per il quale occorre dare
adeguatamente conto della sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell'atto o alla
cessazione dei suoi effetti» (Consiglio di stato, sezione IV,
n. 3060/2012; Tar Lazio-Latina, n. 646/2013).
Inoltre l'interessato deve essere messo in condizione di
argomentare, in contraddittorio con l'amministrazione, sulla
eventuale insussistenza di un prevalente interesse pubblico
alla rimozione dell'atto ritenuto illegittimo (Consiglio di
stato, sezione III, n. 2805/2012), oppure di una sua parte.
La giurisprudenza ha anche segnalato la necessità che il
Comune valuti se sia possibile effettuare un annullamento
soltanto parziale del titolo abilitativo, come nel caso di
eccessi di cubatura rispetto a quella teoricamente
ammissibile, configurando un «potere-dovere di non procedere
ad annullamento dell'intero permesso di costruire, ma solo
della parte del permesso di costruire che abbia ad oggetto i
vani eccedenti la volumetria assentibile» (Tar Marche, n.
906/2013).
L'annullamento del permesso di costruire in via di
autotutela non determina in via automatica il ripristino dei
luoghi, potendo l'amministrazione modulare le misure
operative che ne conseguono in forza di quanto stabilito
dall'articolo38 del testo unico, ove si dispone che, quando
sia stata motivatamente valutata l'impossibilità di
rimuovere i vizi delle procedure amministrative o di ridurre
in pristino quanto abusivamente eseguito, il dirigente del
competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria
pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente
eseguite.
La demolizione andrà quindi considerata solo come «extrema
ratio (Consiglio di stato, sezione IV, n. 1535/2010).
Peraltro, una parte della giurisprudenza (Tar
Campania-Salerno, sezione I, n. 738/2012; Consiglio di
stato, sezione IV, n. 3772/2008) ritiene ammissibile
l'irrogazione della sanzione pecuniaria solo nel caso in cui
l'illegittimità della costruzione sia dovuta a vizi formali
dell'iter procedimentale e non anche di fronte a vizi
sostanziali, per inosservanza di prescrizioni urbanistiche.
Se dall'annullamento del permesso consegue la demolizione
totale o parziale del manufatto, viene meno anche il titolo
in base al quale era stato effettuato il pagamento degli
oneri urbanizzativi. Per giurisprudenza consolidata, il
contributo concessorio di cui all'articolo 16 del Tu
edilizia è strettamente connesso alla effettiva attività di
trasformazione del territorio assentita col titolo edilizio
rilasciato. Quindi se scatta la riduzione in pristino dello
stato dei luoghi, «il relativo pagamento risulta privo della
causa dell'originaria obbligazione di dare» (Tar Puglia-Bari
n.1526/2013).
Trattandosi di indebito oggettivo, al titolare del diritto
al rimborso non spetta la rivalutazione monetaria ma i soli
interessi legali (Consiglio di stato, sezione V, n.
1207/1997), che decorrono dalla domanda, da proporsi entro
dieci anni (Tar Lombardia-Milano, n. 728/2010)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 13.10.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Progetti, rischio caos sulla divisione dei premi.
Dl Pa. Gli effetti.
Come ogni intervento normativo
che riguardi voci stipendiali, anche la riscrittura della
disciplina sui compensi per la progettazione comporta una
serie di problematiche applicative.
L'articolo 13 del Dl 90/2014 abroga la vecchia normativa,
mentre il successivo articolo 13-bis, inserito in sede di
conversione del provvedimento, detta le nuove disposizioni
che, per alcuni aspetti, differiscono in maniera sostanziale
dalla disciplina ormai non più applicabile.
Una prima novità riguarda l'esclusione del personale con
qualifica dirigenziale dai soggetti a cui è possibile
corrispondere il compenso. Risulta chiaro che, d'ora in poi,
si dovrà prestare particolare attenzione nella
individuazione dei soggetti che ricoprono i ruoli per i
quali è possibile pagare l'emolumento (responsabile della
sicurezza, della direzione lavori, eccetera), per
determinare, a priori, le funzioni svolte il dirigente per
le quali si dovrà portare in economia la relativa quota
parte di compenso.
In ogni caso, il regolamento, che ogni amministrazione dovrà
riadottare per conformalo al disposto del Dl 90/2014,
determinerà tra l'altro i criteri di riparto delle risorse
destinate ai dipendenti, tenendo conto delle responsabilità
assunte, che esulano dall'attività ordinaria, della
complessità dell'opera, dei tempi e dei costi preventivati.
Appare evidente che i parametri imposti dalla norma possono
essere oggetto di ampio dibattito circa la loro importanza e
il peso da assegnare a ciascuno. Questo implica il grosso
rischio di contenziosi, soprattutto in opere con un
significativo impatto economico.
Relativamente alla quantificazione dei tempi e dei costi
degli interventi, questi devono essere pubblicati sul sito
dell'amministrazione a mente delle norme sulla trasparenza
(articolo 38 del Dlgs 33/2013). Saranno disponibili anche ai
dipendenti coinvolti, che non potranno protestare in caso di
applicazione delle riduzioni, da definire nel regolamento,
per mancato rispetto del budget e del cronoprogramma, fatti
salvi i giustificati motivi.
Sicuramente sono da escludere, per espressa previsione
normativa, le manutenzione fra gli interventi per i quali è
possibile corrispondere i compensi ex Merloni. Anche in
questo caso, la disposizione non brilla per chiarezza non
risultando, nel nostro panorama legislativo, una definizione
chiara e precisa di «manutenzioni». La genericità della
locuzione porta inoltre alla difficoltà di individuazione
delle opere da escludere. Nessun dubbio sulle manutenzioni
ordinarie, tra l'altro espunte anche in passato in via
interpretativa, mentre le perplessità restano sulle
manutenzioni straordinarie.
Altro elemento spinoso sarà rappresentato dal possibile, e
per niente difficile, comportamento elusivo della norma, che
potrà portare a inquadrare in altre tipologie di interventi,
quali le ristrutturazioni, quelle che in realtà sono
manutenzioni.
Da ultimo, il problema della decorrenza delle nuove
disposizioni. Su questo punto, nel silenzio della norma, le
amministrazioni possono far riferimento alle precedenti
esperienze di modifica della percentuale massima prevista
per i compensi della progettazione. A proposito
dell'andamento altalenante che tale percentuale ha subito
negli anni 2009 e 2010, la Corte dei Conti, sezione delle
Autonomie, con la delibera n. 7/2009, ha avuto modo di
affermare che il momento rilevante ai fini della
quantificazione del compenso è identificato nel tempo in cui
si porta a compimento l'attività incentivata, a nulla
rilevando modifiche normative che intervengono fra
prestazione e liquidazione del compenso (lettura confermata
anche dalla delibera 183/2014 della sezione Emilia Romagna)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 13.10.2014). |
GIURISPRUDENZA |
SICUREZZA
LAVORO: Cantieri sicuri anche per gli estranei.
Cassazione. La tutela vale per chi accede senza
autorizzazione.
Le norme di prevenzione
possono essere classificate in almeno due tipologie. Talune
impongono misure di carattere oggettivo, altre soggettivo.
Tra le prime rientrano le misure i cui contenuti risultano
definiti a prescindere da qualsivoglia riferimento a un
particolare destinatario (per esempio, per le attrezzature);
tra le seconde, quelle che si indirizzano a una specifica
tipologia di soggetti (per esempio, l'obbligo di
sorveglianza sanitaria è posto esplicitamente a protezione
dei lavoratori).
È quanto sta alla base della
sentenza
15.10.2014 n. 43168 della
Corte di Cassazione, IV Sez. penale, con la quale viene riconosciuta la responsabilità
penale del titolare di un cantiere, ubicato in un centro
cittadino, all'interno del quale si erano introdotti tre
ragazzini uno dei quali subiva un infortunio mortale per
essere precipitato al suolo attraverso una apertura non
protetta di un solaio.
Il cantiere, seppure recintato su tre
lati, sul quarto era protetto da un muro nel quale tuttavia
era aperto un varco attraverso il quale si è verificata
l'intrusione dei tre minori. La condanna in primo e secondo
grado, confermata in Cassazione, è stata inflitta al
ricorrente per la mancata protezione dell'apertura sul
solaio e la conseguente violazione all'articolo 589 del
Codice penale e relativa aggravante in quanto l'infortunio è
avvenuto con violazione delle norme di prevenzione.
La distinzione nelle norme di sicurezza ha come conseguenza
il principio secondo cui, in materia di prevenzione
infortuni nei luoghi di lavoro, beneficiario della tutela è
anche il terzo estraneo all'organizzazione dei lavori.
Pertanto, dell'infortunio che sia occorso all'estraneo
risponde il debitore di sicurezza, sempre che l'infortunio
stesso rientri nell'area di rischio quale definita dalla
regola cautelare violata e che il terzo non abbia posto in
essere un comportamento di volontaria esposizione al
rischio. Tale fattore potrà verificarsi allorché il soggetto
sia pienamente consapevole della esistenza e della natura
del pericolo; diversamente, è ovvio, non sarebbe concepibile
una volontarietà del comportamento.
Nel caso in esame la
Corte ha ritenuto che non può certo parlarsi di volontarietà
di esposizione al rischio da parte di un soggetto che,
perché minore, non era in possesso della necessaria
consapevolezza della fonte di pericolo costituita da un
cantiere e dalle aperture nel solaio; in tal caso la
volontarietà dell'ingresso nel sito e il transito in esso
non corrisponde a una volontaria esposizione a pericolo. La
sentenza precisa che per quanto concerne, in particolare, il
cantiere, l'area di rischio che il datore di lavoro deve
necessariamente governare comprende anche la possibilità di
un ingresso abusivo di estranei nel cantiere stesso.
Diversamente non sarebbe richiesto un ostacolo fisso, quale
la recinzione, verosimilmente previsto per la ritenuta
inidoneità allo scopo delle sole segnalazioni interdittive,
volendosi con ciò fronteggiare anche il rischio cui potrebbe
essere esposto l'estraneo al cantiere (articolo Il Sole 24 Ore del
16.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Revoca del part-time senza consenso.
La direttiva esclude solo che l'opposizione del lavoratore
sia causa di licenziamento.
Contratti. Per la Corte Ue legittima la norma che consente
la trasformazione in full-time per esigenze delle
amministrazioni.
È legittima la norma
italiana che consente alle pubbliche amministrazioni di
trasformare il contratto da part-time a tempio pieno anche
senza il consenso del dipendente:
questo il principio, per nulla scontato, affermata dalla
Corte di giustizia europea con la
sentenza
15.10.2014 n.
C-221/13.
Una funzionaria del ministero della Giustizia, titolare di
un contratto di lavoro a tempo parziale verticale, si è
vista trasformare il regime d'orario a tempo pieno –e senza
il proprio consenso– dopo l'approvazione della legge
183/2010 (il cosiddetto collegato lavoro), che all'articolo
16 ha ammesso la possibilità per le pubbliche
amministrazioni di cambiare unilateralmente il regime di
orario dei dipendenti in part-time. La dipendente si è
opposta, sostenendo che la normativa italiana andrebbe in
contrasto con la direttiva comunitaria 97/81, la quale
sancirebbe un principio secondo cui il lavoratore non può
vedere trasformato il suo contratto di lavoro da tempo
parziale a tempo pieno contro la propria volontà.
Il Tribunale ordinario di Trento, ritenendo fondata la
questione, ha chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire se
la direttiva comunitaria vieti alle legislazioni nazionali
degli Stati membri di prevedere la possibilità –per il
datore di lavoro– di disporre la trasformazione del
rapporto di lavoro da part-time a tempo pieno, anche contro
la volontà del lavoratore.
La Corte di giustizia, con la sentenza depositata ieri, ha
escluso che sussista questo tipo di divieto nel diritto
comunitario, partendo dall'assunto che la direttiva 97/81
persegue la finalità di promuovere il lavoro a tempo
parziale e di eliminare le discriminazioni tra i lavoratori,
lasciando liberi gli Stati membri di scegliere la forma e i
mezzi con cui conseguire questi risultati.
La Corte ricorda che l'accordo quadro il quale ha dato vita
alla direttiva rimette agli Stati membri e alle parti
sociali la definizione delle modalità di applicazione dei
principi generali concordati a livello comunitario; uno di
questi principi –la clausola 5, punto 2– stabilisce che il
rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a
tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non può
costituire motivo valido per il licenziamento (pur essendo
possibile procedere al recesso, se esistono altre ragioni
quale, ad esempio, la necessità di funzionamento
dell'azienda).
La Corte di giustizia ritiene che, sulla base di questa
clausola, non esiste alcun obbligo per gli Stati membri di
adottare una normativa che subordini al consenso del
lavoratore la trasformazione del suo contratto di lavoro da
contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno. La
regola è volta unicamente ad escludere che l'opposizione di
un lavoratore a una simile trasformazione del proprio
contratto di lavoro possa costituire l'unico motivo del suo
licenziamento, in assenza di altre ragioni obiettive. Sulla
base di questa normativa, quindi, uno Stato membro può
legittimamente consentire al datore di lavoro di disporre,
per ragioni obiettive, la trasformazione del contratto di
lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo
pieno senza il consenso del lavoratore.
La sentenza, quindi, lascia ampia libertà agli Stati membri
di decidere come regolare la trasformazione; in questo
senso, non sembra esserci alcun impatto sulla normativa
esistente (fatta salva la conferma della legittimità del
collegato lavoro per il pubblico impiego) in quanto ogni
Paese è libero di richiedere oppure no il consenso (articolo Il Sole 24 Ore del
16.10.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: In tempo pieno.
Part-time trasformato senza l'ok.
È legittima e non contraria al diritto dell'Ue la norma del
collegato lavoro del 2010 (legge n. 183/2010) che ha
previsto la possibilità per le pubbliche amministrazioni di
(ri)trasformare il regime di un rapporto di lavoro da
part-time a tempo pieno. È legittima perché i principi Ue
(in particolare quelli dettati dalla direttiva n. 97/81/Ce)
non vietano che una normativa possa riconoscere al solo
datore di lavoro la facoltà di disporre la trasformazione di
un contratto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, cioè
senza il consenso del lavoratore interessato.
Lo ha
stabilito la Corte di giustizia europea, Sez. III, nella
sentenza
15.10.2014 n.
C-221/13.
La questione riguardava la posizione di una dipendente del
ministero della giustizia, alla quale era stato posto fine
al regime di part-time ottenuto dal 28.08.2000 con il
ritorno al tempo pieno dal 01.04.2011, per via dell'art. 16
del collegato lavoro.
La lavoratrice ricorreva al tribunale di Trento lamentando
che la decisione dovesse essere dichiarata illegittima,
perché assunta dal ministero unilateralmente, senza il suo
consenso, quindi contraria alla direttiva Ue n. 97/81 la
quale sancisce il principio per cui il lavoratore non può
vedere trasformato il suo contratto di lavoro contro la sua
volontà. Il tribunale ha rimesso la questione alla corte Ue
al fine di verificare se davvero l'art. 16 della legge n.
183/2010 possa ritenersi contrario alla direttiva Ue.
La Corte è stata di parere contrario: una cosa è la
trasformazione da tempo pieno a tempo parziale (in cui si
riducono le tutele al lavoratore, che nel caso rappresentate
dal maggiore tempo di lavoro e dunque da una maggiore
retribuzione), un'altra la trasformazione da tempo parziale
a pieno (in cui, invece, le tutele aumentano).
Pertanto, nel ritenere legittima la norma del collegato
lavoro, la Corte ha affermato che le norme Ue (clausola 5,
punto 2, della direttive n. 97/81) «non osta a una
normativa nazionale in base alla quale il datore di lavoro
può disporre la trasformazione di un contratto di lavoro da
contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno senza
il consenso del lavoratore interessato»
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: No a nuovi concorsi, prima gli idonei.
Per un altro bando va spiegato il mancato utilizzo di una
graduatoria valida.
Tar Lazio. Bocciata la selezione interna alla Pa, identica
alla precedente, per 250 allievi marescialli carabinieri.
Nuove
speranze di assunzione per chi supera un concorso ma non si
colloca in una posizione utile: lo precisa il TAR Lazio-Roma,
Sez. I-bis, con
la
sentenza 14.10.2014 n. 10318. L'amministrazione
deve infatti motivare la propria scelta tra attingere idonei
da una precedente graduatoria oppure bandire un nuovo
concorso.
Per indire un nuovo concorso occorre indicare le ragioni
della mancata utilizzazione di una graduatoria ancora valida
ed efficace. Nel caso specifico è stato ritenuto illegittimo
il bando di concorso interno, per titoli ed esami, per 250
allievi marescialli dell'arma dei carabinieri, perché
l'amministrazione della Difesa non ha, nel decreto che ha
approvato il bando stesso, fornito un'adeguata motivazione
circa le ragioni del mancato scorrimento della graduatoria
ancora valida ed efficace del precedente identico concorso.
Il criterio generale da applicare è che, nel motivare
l'opzione preferita, l'amministrazione deve tenere nel
massimo rilievo la circostanza che l'attuale ordinamento
afferma un generale favore circa l'utilizzazione della
graduatoria degli idonei, favore che viene meno solo in
presenza di speciali discipline di settore, di particolari
circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico
prevalente che devono, comunque, essere puntualmente
specificate nel provvedimento di indizione del nuovo
concorso. Da tempo è infatti emersa (Consiglio di Stato,
adunanza plenaria 14/2011) una sostanziale inversione del
rapporto tra l'opzione per un nuovo concorso e la decisione
di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace.
Quest'ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la
regola generale, mentre l'indizione del nuovo concorso
costituisce l'eccezione e richiede un'apposita e
approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio
imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di
interesse pubblico.
Una motivata deroga alla graduatoria valida ed efficace
potrebbe essere consentita, ad esempio, in presenza di: a)
graduatorie estremamente datate; b) ricerca di personale
dotato di requisiti fondamentalmente diversi da quelli in
possesso dei precedenti idonei; c) tipo differente di
selezione decisa, eventualmente con passaggi più rigorosi;
d) presenza di speciali disposizioni legislative che
impongano una precisa cadenza periodica del concorso,
collegata anche a peculiari meccanismi di progressioni nelle
carriere; e) esigenza preminente di determinare, attraverso
le nuove procedure concorsuali, la stabilizzazione del
personale precario; f) intervenuta modifica sostanziale
della disciplina applicabile alla procedura concorsuale,
rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace,
con particolare riguardo al contenuto delle prove di esame e
ai requisiti di partecipazione.
Ad esempio vi può essere un particolare rilievo
dell'introduzione di una prova di lingua straniera o una più
specifica indicazione dell'oggetto delle prove di contenuto
giuridico, tecnico, o anche solo di uso di apparecchiature
informatiche. Sul tema della validità delle graduatorie, il
Consiglio di Stato (6247/2013) aveva già sottolineato il
fenomeno delle proroghe generalizzate al 31.12.2012
(articolo 1, comma 4, Dl 216/2011, cosiddetto Milleproroghe);
successivamente, l'articolo 4, comma 4, del Dl 101/2013 (legge
125) ha prorogato al 31.12.2016 l'efficacia delle
graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo
indeterminato.
Una proroga peraltro che pone diversi
interrogativi, in parte risolti dalla circolare del
ministero per la Semplificazione 5/2013, ma sempre sulla
base del favore per i soggetti idonei, seppur non utilmente
graduati (articolo Il Sole 24 Ore del
18.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il Comune legittimamente
dichiara la intervenuta decadenza del permesso di costruire
una volta accertata la impossibilità di accordare la
richiesta proroga e quindi l’inverarsi di una colpevole
inerzia nell’osservanza dei tempi di inizio e completamento
dei lavori, quale presupposto di fatto e di diritto per la
dichiarazione di decadenza.
Quanto al motivo costituito dalla crisi congiunturale
dell’edilizia trattasi, invero, di ragioni di carattere
generale attinenti a considerazioni di tipo economico del
tutto generiche, non aventi, per l’astrattezza delle stesse,
rilevanza alcuna con l’obbligo di osservare i tempi di
inizio e completamento dei lavori, sicché appare del tutto
impossibile considerare la “crisi congiunturale” un motivo
valido per giustificare l’inerzia.
Le doglianze di parte appellante non appaiono condivisibili.
Dunque la richiesta di proroga di che trattasi è stata
avanzata dagli interessati come esposto nel provvedimento in
contestazione, per due precipue ragioni:
a) per le incertezze economiche e finanziarie derivanti
dall’operazione immobiliare in relazione al contenzioso
intercorso col Comune circa la quantificazione del
contributo di costruzione;
b) per la grave crisi economica che ha afflitto il settore
dell’edilizia con le relative, concrete ricadute.
Occorre andare a verificare se tali ragioni collimano con le
circostanze previste dall’art. 15 del DPR n.380/2001 per
farsi luogo alla proroga, come sostenuto dalla parte
appellante, oppure no, come in sostanza assunto
dall’Amministrazione comunale.
Il citato articolo di legge prevede che “i termini
possono essere prorogati con provvedimento motivato per
fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso” e ancora che … “la proroga può essere
accordata con provvedimento motivato esclusivamente in
considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle
particolari caratteristiche tecnico- costruttive:..”.
Ebbene, il diniego risulta essere stato correttamente
adottato, atteso che le ragioni addotte a sostegno della
richiesta di proroga appaiono eccedere l’ambito naturale
descritto dal citato art. 15 per la concessione del
beneficio de quo.
La norma in questione presuppone infatti una condizione ben
precisa, costituita dalla sopravvenienza di fatti estranei
alla volontà del titolare della concessione edilizia e tali
non sono le circostanze dedotte dai sigg.ri Marconi.
Quanto al motivo costituito dalla crisi congiunturale
dell’edilizia, trattasi invero, di ragioni di carattere
generale attinenti a considerazioni di tipo economico del
tutto generiche, non aventi, per l’astrattezza delle stesse,
rilevanza alcuna con l’obbligo di osservare i tempi di
inizio e completamento dei lavori, sicché appare del tutto
impossibile considerare la “crisi congiunturale” un
motivo valido per giustificare l’inerzia.
Alcuna incidenza diretta e concreta può altresì avere la
pendenza tra le stesse parti del contenzioso in ordine alla
quantificazione del contributo di costruzione, la cui
determinazione, come stabilita dal Comune, peraltro, nasce
ed è conosciuta in coincidenza del rilascio del titolo ad
aedificandum (e non successivamente).
Non si riesce in ogni caso a comprendere invero il ruolo per
così dire “paralizzante” della questione del
quantum degli oneri concessori con riguardo ai termini
fissati dal citato art. 15, se non come circostanza del
tutto estranea alla tempistica dei lavori, dovendosi altresì
rilevare, a voler entrare nell’ottica della “pesantezza”
dei costi finanziari da sostenersi per l’operazione
immobiliare, che non viene data dimostrazione della concreta
incidenza sulla situazione finanziaria degli appellanti e
tenuto altresì conto del fatto che in teoria un eventuale
esito positivo della controversia consentirebbe la
ripetizione degli oneri richiesti (in più) in pagamento.
Ferma restando la inattendibilità ai fini della proroga
delle circostanze addotte, neppure si invera la condizione,
pure prevista dall’art. 15 citato, secondo cui la proroga
potrebbe essere possibile in considerazione della mole
dell’opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive: invero circostanze
relative alla difficoltà di esecuzione delle modalità di
realizzazione dell’opera edilizia non vengono minimamente in
rilievo dalla documentazione di causa e comunque non sono
rappresentate dagli interessati e tantomeno documentate.
In definitiva sul punto occorre convenire che a sostegno
della chiesta proroga parte appellante ha posto delle “problematiche”
che non rispondono ai requisiti dettati dall’art. 15 citato,
perché non possono farsi rientrare tra i “fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso”.
Se così è, il Comune ha del pari correttamente proceduto a
dichiarare la intervenuta decadenza del permesso di
costruire, una volta accertata la impossibilità di accordare
la richiesta proroga e quindi l’inverarsi di una colpevole
inerzia nell’osservanza dei tempi di inizio e completamento
dei lavori, quale presupposto di fatto e di diritto per la
dichiarazione di decadenza (cfr Cons. Stato Sez. IV
07/09/2011 n. 5028; idem 29/01/2008 n. 249) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 06.10.2014 n. 4975 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La mancata indicazione degli oneri da rischi
specifici non comporta l'esclusione del concorrente dalla
gara.
L'art. 87, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, che fa espresso
riferimento agli oneri relativi alla sicurezza, non contiene
alcun elemento testuale da far ritenere che la mancata
indicazione degli oneri da rischi specifici comporti
l'esclusione del concorrente dalla gara; né tale indicazione
è contenuta in altre previsioni normative (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.10.2014 n. 1624 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Dalle più recenti pronunzie del Consiglio di
Stato, suffragate da costante giurisprudenza precedente, si
traggono i seguenti principi di diritto:
a) la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad
impugnare le delibere dell'organo di cui fanno parte ha
carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo
non è di regola aperto alle controversie tra organi o
componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a
risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane
circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera
giuridica, come per esempio lo scioglimento dell'organo o la
nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto
lesivo discende ab externo rispetto all'organo di cui fa
parte;
b) la legittimazione ad agire del consigliere non risiede
nella deviazione dell'atto impugnato rispetto allo schema
normativamente previsto, quando da essa non derivi la
compressione di una sua prerogativa inerente all'ufficio,
occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, alla
natura e al contenuto della delibera impugnata e non già
delle norme interne relative al funzionamento dell'organo;
c) la contestazione del componente di un organo collegiale
non può limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di
formazione della deliberazione del medesimo organo, senza
dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue
prerogative, giacché questa non discende automaticamente da
violazioni di forma o di sostanza nell'adozione di un atto
deliberativo.
5.1. Dalle più recenti pronunzie del Consiglio di Stato
(Cons. Stato, Sez. V, 19.04.2013, n. 2213; Cons. Stato, Sez.
V, 07.07.2014, n. 3446), suffragate da costante
giurisprudenza precedente, si traggono i seguenti principi
di diritto:
a) la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad
impugnare le delibere dell'organo di cui fanno parte ha
carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo
non è di regola aperto alle controversie tra organi o
componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a
risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane
circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera
giuridica, come per esempio lo scioglimento dell'organo o la
nomina di un commissario ad acta, in cui detto
effetto lesivo discende ab externo rispetto
all'organo di cui fa parte (Cons. Stato, Sez. V, 31.01.2001,
n. 358, e, più recentemente, Cons. Stato, Sez. V,
19.02.2007, n. 826; 09.10.2007, n. 5280; Cons. Stato, Sez.
V, 29.04.2010, n. 2457; Cons. Stato, Sez. V, 24.03.2011, n.
1771; Cons. Stato, Sez. V, 21.03.2012, n. 1610);
b) la legittimazione ad agire del consigliere non risiede
nella deviazione dell'atto impugnato rispetto allo schema
normativamente previsto, quando da essa non derivi la
compressione di una sua prerogativa inerente all'ufficio,
occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, alla
natura e al contenuto della delibera impugnata e non già
delle norme interne relative al funzionamento dell'organo
(Cons. Stato, Sez. V, 15.12.2005, n. 7122);
c) la contestazione del componente di un organo collegiale
non può limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di
formazione della deliberazione del medesimo organo, senza
dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue
prerogative, giacché questa non discende automaticamente da
violazioni di forma o di sostanza nell'adozione di un atto
deliberativo (Cons. Stato, Sez. V, 29.04.2010, n. 2457).
5.2. Alla luce della giurisprudenza richiamata, la domanda
dei ricorrenti deve essere dichiarata inammissibile, in
quanto essi, con il ricorso proposto, non hanno denunziato
in alcun modo una violazione delle prerogative consiliari,
ma solo la deviazione del procedimento di approvazione del
bilancio consultivo dagli schemi legali.
Né gli argomenti spesi dalla difesa dei ricorrenti nel corso
della discussione valgono a mutare le conclusioni testé
illustrate: nonostante l’illegittimità lamentata, i
ricorrenti sono stati messi nelle condizioni di partecipare
all’adunanza del Consiglio Comunale e di incidere,
partecipando alla discussione ed esercitando il diritto di
voto, sulla deliberazione finale. La circostanza che essi
non abbiano, in tutto o in parte, esercitato le proprie
prerogative non comporta che queste siano state lese (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.10.2014 n. 1602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sugli oneri per la sicurezza nelle gare di
appalto.
In tema di gare pubbliche, si distinguono due tipologie di
oneri per la sicurezza: quelli per le c.d. "interferenze"
(relativi a quei contatti rischiosi che possono prodursi tra
il personale della stazione appaltante e quello
dell'appaltatore o tra quello delle varie imprese che
operano congiuntamente nel cantiere), i quali sono
predeterminati dall'amministrazione e quelli da rischio c.d.
"specifico" o "aziendale", che variano in
rapporto alla qualità ed entità dell'offerta e che,
normalmente, non sono predeterminabili dalla P.A..
Ritenuto che, specie nel settore delle forniture e degli
appalti di servizi intellettuali (dove il rischio aziendale
ha minore possibilità d'incidenza), il combinato disposto
degli art. 86, c. 3-bis e 87, c. 4, D.lgs. 12.04.2006 n.
163, nonché dell'art. 26, c.6, D.lgs. 09.04.2008 n. 81 non
impone alle imprese partecipanti l'obbligo, a pena di
esclusione, di indicare già in sede di offerta gli oneri per
la sicurezza "aziendale", trattandosi di elementi che
vanno viceversa specificati e verificati ai soli fini del
giudizio di anomalia. E ciò a maggior ragione, in presenza
di una dichiarazione di oneri pari a zero, ovvero quando
queste siano comunque di entità talmente esigua da essere
assimilabili a zero.
Pertanto, nel caso di specie, in presenza di tali
presupposti (presentazione da parte dell'aggiudicataria di
una dichiarazione in cui si indica che gli oneri in
questione sono pari a zero, mancata dimostrazione da parte
della ricorrente di fattori di rischi nell'appalto tali da
incidere sulla congruità dell'offerta, valutazione positiva
di congruità da parte della stazione appaltante), la
contestata misura espulsiva appare frutto di un'impostazione
esclusivamente formalistica, che non risponde né
all'interesse sostanziale dell'amministrazione, né alle
esigenze di tutela della sicurezza dei lavoratori, in
presenza, peraltro, di una richiesta dichiarazione, da
rendersi ai sensi del D.P.R. n. 445/2000, "di osservare
le norme tutte dettate in materia di sicurezza dei
lavoratori, in particolare di rispettare tutti gli obblighi
in materia di sicurezza e condizioni nei luoghi di lavoro,
come dettate dal D.lgs. n. 81/2008", che
l'amministrazione si riserva di verificare (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.10.2014 n. 1601 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La mancata sottoscrizione integrale del
capitolato non integra una legittima causa di esclusione,
essendo in contrasto con il principio di tassatività
espresso dall’art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006, n. 163;
Parimenti, la mancata allegazione della copia conforme del
certificato del sistema di qualità, allegato dalla
ricorrente ai fini del dimezzamento della cauzione
provvisoria ed effettivamente in suo possesso, non integra
una causa di esclusione, in ragione della previsione
dell’art. 75 del codice degli appalti, richiamato dalla
lettera di invito, ma determina, piuttosto, l’attivazione
del dovere di soccorso da parte della stazione appaltante.
Ritenuto in particolare che:
- la lex specialis di gara richiama espressamente
l’art. 125 del codice degli appalti, sicché la procedura in
esame risulta sottoposta ai principi generali del codice,
compreso quello di tassatività delle cause di esclusione,
quanto meno in ragione dell’autovincolo risultante dalla
disciplina di gara (in argomento Consiglio di Stato, Ad.
Pl., 25.02.2014, n. 9);
- di conseguenza, la mancata sottoscrizione integrale del
capitolato non integra una legittima causa di esclusione,
essendo in contrasto con il principio di tassatività
espresso dall’art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006, n. 163;
- parimenti, la mancata allegazione della copia conforme del
certificato del sistema di qualità, allegato dalla
ricorrente ai fini del dimezzamento della cauzione
provvisoria ed effettivamente in suo possesso, non integra
una causa di esclusione, in ragione della previsione
dell’art. 75 del codice degli appalti, richiamato dalla
lettera di invito, ma determina, piuttosto, l’attivazione
del dovere di soccorso da parte della stazione appaltante.
Ritenuto, in definitiva, che il ricorso è fondato e deve
essere accolto, mentre le spese seguono la soccombenza nei
rapporti tra la ricorrente e l’amministrazione resistente e
vengono liquidate in dispositivo, ferma restandone la
compensazione nei rapporti tra le altre parti
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 01.10.2014 n. 2411 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Turbativa d'asta sempre reato. Non è rilevante il risultato: è sufficiente la condotta.
CASSAZIONE/ Una sentenza sminuisce il peso dell'influenza
sull'esito della gara.
La turbativa d'asta è un reato di pericolo teso ad
assicurare i principi di parità di trattamento, trasparenza
e neutralità nell'ambito delle procedure indette dalle
stazioni appaltanti, per cui deve ritenersi integrato anche
in mancanza di una influenza delle condotte collusive sul
risultato della gara, essendo sufficiente che siano state
tenute condotte che sono previste dalla legge di per sé
stesse idonee a determinare la turbativa.
Lo ha stabilito la VI Sez. penale della Corte di
Cassazione con la
sentenza
29.09.2014 n. 40304.
Nel caso concreto il rappresentante legale di una ditta che
ha preso parte ad una gara d'appalto indetta da una società
pubblica è stato sottoposto a procedimento penale per i
reati di turbata libertà degli incanti e corruzione.
In
dettaglio, il rimprovero mosso nei suoi confronti è stato
quello di aver turbato lo svolgimento della selezione
insistendo -anche per il tramite di regalie- con il
referente della procedura affinché questi sottoponesse a
serrata verifica di anomalia l'offerta di altra
partecipante. È essenziale precisare che la richiesta
sottobanco -ancorché in contrasto con i più elementari
principi di trasparenza e imparzialità dell'azione
amministrativa- ha, comunque, permesso di snidare
irregolarità essenziali dell'offerta sottoposta a verifica.
Da qui l'esclusione dell'impresa concorrente e
l'aggiudicazione della gara in favore dell'imputato.
All'esito dei giudizio di primo grado, il tribunale ha
condannato l'imprenditore per entrambi i reati lui ascritti.
La Corte d'appello, diversamente, ha confermato la condanna
per turbativa d'asta e assolto l'imputato dal reato di
corruzione per insufficienza di prova.
All'imprenditore non è rimasto che rivolgersi in ultima
istanza alla Suprema corte di cassazione. Agli ermellini è
stato chiesto di annullare la sentenza della Corte d'appello
a cagione degli evidenti vizi in cui si sarebbero imbattuti
i giudici del collegio: secondo la difesa, infatti, il reato
contestato abbisogna della realizzazione dell'evento di
pericolo, in particolare l'effettiva alterazione del
risultato della gara causato da perturbamenti e alterazioni.
Ciò che, sempre a dir della difesa, non si sarebbe
verificato nel caso di specie posto che il comportamento
dell'imputato -pure biasimevole- non avrebbe comunque
influito sulla individuazione del migliore offerente da
parte della stazione appaltante.
La Corte, nel confermare il giudizio di reità
dell'imprenditore, ha spiegato la natura del reato di
turbativa d'asta, osservando come l'evento naturalistico, in
tale fattispecie, possa essere costituito oltre che
dall'impedimento della gara anche da un semplice turbamento,
situazione quest'ultima che si verifica quando la condotta
fraudolenta o collusiva abbia -anche soltanto influito-
sulla regolare procedura della gara medesima, essendo
irrilevante che si produca un'effettiva alterazione dei
risultati della medesima.
Inoltre, è stato sottolineato come la norma faccia
riferimento ai concetti di «collusione» e «turbamento»: per
collusione deve intendersi qualsiasi rapporto clandestino,
intercorrente tra soggetti privati in qualsiasi modo
interessati alla gara o tra questi e i preposti alla gara,
diretto a influire sull'esito della stessa; per turbamento,
invece, deve intendersi la influenza della condotta
collusiva sulle regolari procedure di gara, essendo
irrilevante che il risultato di essa sia o meno conforme a
quello che si sarebbe prodotto senza tali interferenze: ciò
che conta ai fini della configurabilità del reato è «lo
sviamento del processo decisionale a individuazione del
vincitore».
In conclusione, la fattispecie di cui all'art. 353, comma 2,
del codice penale, è un chiaro esempio di «reato di
pericolo», teso a minare la trasparenza e neutralità
dell'azione della pubblica amministrazione per
l'acquisizione della miglior offerta e la garanzia di
condizioni di parità di trattamento tra concorrenti, secondo
principi di lealtà e correttezza; esso è integrato anche in
mancanza di una influenza delle condotte collusive sul
risultato della gara, «essendo sufficiente che siano
state tenute condotte che sono previste dalla legge di per
sé stesse idonee a determinare la turbativa»
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014).
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MASSIMA
L'evento naturalistico del reato di
turbata libertà degli incanti può essere costituito oltre
che dall'impedimento della gara anche da un suo turbamento,
situazione quest'ultima che si verifica quando la condotta
fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla
regolare procedura della gara medesima, essendo irrilevante
che si produca un'effettiva alterazione dei risultati di
essa (tratta da
www.neldiritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Atti sul lavoro non toccati dall'autotutela della p.a..
Gli atti gestionali del rapporto di lavoro posti in essere
dalla p.a., sono espressione di poteri privatistici e
quand'anche incautamente adottati in odore di responsabilità
amministrativa per danno erariale, non possono essere
vanificati dal regime dell'autotutela amministrativa a danno
dei «diritti acquisiti» dai lavoratori sul piano
privatistico.
Con sentenza 25.09.2014 il
Giudice del lavoro del Tribunale di Potenza ha condannato
un'Azienda sanitaria, la quale, in assoluta controtendenza
rispetto al diffuso clima di razionalizzazione e revisione
della spesa pubblica, adottava una delibera aziendale che,
in recepimento di accordi fissati in sede di contrattazione
integrativa aziendale, riconosceva in capo a detti dirigenti
una provvidenza retributiva accessoria mensile definita
«assegno ad personam». Salvo poi, successivamente
annullarla, avvedendosi solo tardivamente dell'inesistenza
di una previsione normativa o collettiva nazionale
giustificativa di tale emolumento retributivo accessorio.
La
sentenza spiega anche la compatibilità dell'assegno ad personam
con il principio della parità di trattamento contrattuale,
sul presupposto che il principio paritetico vada
normativamente inteso come rispetto di un limite minimo del
trattamento contrattuale, riservato alla «parte debole»
del rapporto di lavoro, da cui ben può residuare la
negoziazione di un trattamento migliorativo differenziato
per determinate categorie di lavoratori, di concerto con le
parti sociali ancorché adottato solamente in sede decentrata
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014). |
APPALTI:
È illegittima l'esclusione di una ditta che in
sede di gara ha reso delle dichiarazioni in lingua straniera
tradotta in italiano, la cui interpretazione presentava dei
dubbi.
Il primo
motivo del ricorso principale è infondato:
- la dichiarazione resa dalla casa costruttrice SEAT S.A.
soddisfa il requisito previsto dal bando di gara in quanto
la dichiarazione resa dalla casa costruttrice di autorizzare
la Volkswagen Group Firenze a partecipare alla gara, ad
offrire i prodotti SEAT, e a stipulare i relativi contratti
di fornitura implica l’assunzione della responsabilità della
casa costruttrice circa l’esatto adempimento contrattuale da
parte della società concorrente, costituendo idonea garanzia
per la stazione appaltante circa la corretta esecuzione
della fornitura e del connesso servizio di “service”;
- qualora vi fossero stati dubbi o incertezze circa
l’interpretazione della dichiarazione, resa in lingua
straniera e poi tradotta in italiano, la stazione appaltante
–in applicazione dell’art. 46, c. 1, del D.lgs. 163/2006,
espressamente richiamato nel bando, avrebbe dovuto chiedere
chiarimenti e giammai avrebbe potuto disporre l’esclusione
dell’offerente non essendo la dichiarazione mancante (cfr.
Cons. Stato Sez. III 09/05/2014 n. 2376), tanto più se si
tiene conto della disposizione recata dall’art. 46 comma
1-ter, del D.Lgs. 163/2006, introdotto dal D.L. 90/2014
convertito in L. 114/2014, che estende la disposizione
dell’art. 38, comma 2-bis, anche ai casi di mancanza,
incompletezza o irregolarità di dichiarazioni anche di
soggetti terzi che devono essere prodotte dai concorrenti in
sede di gara, che pur non essendo direttamente applicabile
alla fattispecie in esame –in quanto il bando è stato
pubblicato prima dell’entrata in vigore del D.L. 90/2014-
offre quale indice ermeneutico, la chiara volontà del
Legislatore di valorizzare il soccorso istruttorio (cfr.
Cons. Stato A.P. 30/07/2014 n. 16);
- la pretesa della ricorrente diretta ad ottenere
l’esclusione della controinteressata deve ritenersi di
conseguenza destituita di fondamento e quindi il primo
motivo deve essere respinto (Tar
Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 26.09.2014 n. 10028 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Revisori legali senza limiti.
Il Tar Sicilia sugli incarichi ai consulenti.
Consulenti del lavoro, incarichi da revisori legali senza
limitazioni.
Il TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, con la
sentenza
16.09.2014 n. 2285, ha deciso infatti che i
Consulenti del lavoro, iscritti all'Albo dei revisori
Legali, possono svolgere la funzione di presidente o
componente del Collegio dei revisori dei conti negli Enti
locali.
La sentenza interviene sospendendo l'esecuzione
della delibera consiliare n. 27/2009, con la quale si
dichiarava la decadenza del Consulente del Lavoro, già
iscritto all'albo dei revisori legali, dalla carica di
componente del Collegio revisori dei conti dell'Ente, perché
non iscritto anche all'Albo dei «dottori commercialisti ed
esperti contabili» come imposto dalla legge 142/1990.
Ma
l'abilitazione all'esercizio della professione di revisore
legale è stabilita dal dlgs 27.01.1992 n. 88, che dispone
che «il presidente e i componenti dei collegi dei
revisori dei conti, degli enti locali, devono essere
iscritti nel registro dei revisori contabili».
Pertanto, conseguita I'abilitazione e l'iscrizione nel
relativo registro è preclusa ogni ulteriore discriminazione
in ragione dell'iscrizione o meno ad altri albi. Di
conseguenza i Consulenti del lavoro possono essere revisori
legali senza limitazioni
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Per il compenso del legale pesa l'interesse del
cliente.
Quando si valuta il compenso professionale spettante al
legale, per l'incarico svolto, non si deve tener conto solo
del valore complessivo dell'affare convenzionalmente
stabilito nel contratto, ma è opportuno considerare anche
l'interesse della parte, che ha accordato l'incarico,
rispetto al risultato da raggiungere.
Lo hanno affermato i giudici della II Sez. civile della
Corte di Cassazione, con
sentenza 15.09.2014 n. 19406.
I giudici di piazza Cavour si sono espressi circa il caso in
cui una società si opponeva al decreto ingiuntivo chiesto e
ottenuto da un avvocato per il pagamento degli onorari, a
seguito dell'attività stragiudiziale regolarmente svolta. La
società deduceva che il legale non aveva effettuato tutte le
prestazioni indicate. In primo grado il tribunale accoglieva
l'opposizione. In secondo grado i giudici accoglievano, poi,
il gravame proposto dal legale, stabilendo che il compenso
doveva essere commisurato al valore complessivo delle opere
quale poteva ricavarsi dalla lettera di conferimento.
La società, lamentando l'errore della Corte d'appello che
non aveva condiviso l'individuazione dell'oggetto, proponeva
ricorso per cassazione, considerando sufficiente e
necessaria la sola prospettazione della lettera di incarico,
indicante il valore convenzionale dell'affare. Secondo la
Suprema corte, la Corte d'appello «non ha mai in alcun
modo affrontato la questione posta circa la determinazione
del valore dell'oggetto dell'incarico, essendosi limitata a
considerare che la sola indicazione dell'importo di 3
miliardi contenuta nell'oggetto della lettera d'incarico
riguardasse il valore convenzionale attribuito all'oggetto
del contratto, prescindendo da ogni ulteriore valutazione in
ordine alla situazione nella quale si trovava la
lottizzazione e al relativo iter, così da poter meglio
definire quale fosse l'effettivo e specifico interesse della
parte che conferiva l'incarico rispetto al risultato dello
stesso».
Pertanto al fine del calcolo dell'onorario del
professionista si deve valutare non soltanto l'importanza
della prestazione svolta ma anche i risultati e i vantaggi
che il cliente ha ottenuto (articolo ItaliaOggi Sette del
13.10.2014). |
TRIBUTI:
Cessioni neutre per le cubature. Nessun
incremento di valore fino al rilascio della concessione
edilizia. Imposte locali. La Ctr respinge la pretesa del
Comune che aveva rettificato il valore del terreno ai fini
Ici.
La cessione di cubatura non determina, di per sé,
un incremento di valore ai fini Ici dei beni immobili
dell'acquirente. Allo scopo è infatti necessario che il
Comune rilasci in favore di quest'ultimo una concessione
edilizia.
Così si è espressa la Ctr di Milano, sez. staccata di
Brescia, nella
sentenza 11.09.2014 n. 4569/64/14.
Si tratta di una questione molto diffusa che va assumendo
sempre maggiore rilevanza. Nel caso in esame, il
proprietario di un terreno edificabile aveva ceduto a terzi,
con atto di donazione modale, la cubatura realizzabile
sull'area. Il Comune aveva notificato al donatario un avviso
di accertamento di valore ai fini Ici, nel quale si
determinava l'imponibile delle aree da questi possedute
tenendo conto anche della maggiore volumetria realizzabile
in ragione della suddetta donazione.
La Commissione ha accolto la tesi del contribuente e ha
annullato l'avviso, compensando tuttavia le spese. Secondo i
giudici di secondo grado, la cessione di cubatura
rappresenterebbe una fattispecie a formazione progressiva il
cui momento di perfezionamento sarebbe costituito
dall'assenso del Comune, espresso tramite rilascio di una
concessione edilizia in favore dell'acquirente. Fino ad
allora, il negozio giuridico tra le parti avrebbe effetti
meramente obbligatori.
Nel caso di specie, il Comune si era limitato a eccepire che
la mera inclusione di un'area nello strumento urbanistico
generale era condizione necessaria e sufficiente ai fini
dell'attribuzione della qualifica di edificabilità, ma non
aveva in alcun modo comprovato il rilascio
dell'autorizzazione a edificare in favore del donatario. È
peraltro evidente che, in tale ottica interpretativa, il
Comune sarebbe stato legittimato a pretendere il pagamento
dell'Ici sull'area del donante, senza tener conto della
"spoliazione" intervenuta, in quanto non ancora
perfezionata.
Su natura e portata della cessione di cubatura in passato si
sono confrontate molte tesi. Va sottolineato che la
controversia decisa dai giudici lombardi riguarda
l'annualità 2006, molto precedente alla modifica apportata
con il Dl 70/2011 che ha introdotto l'articolo 2643-bis del
Codice civile, imponendo la trascrizione degli atti che
trasferiscono o modificano diritti edificatori, comunque
denominati. In virtù di tale novella, l'opinione
maggioritaria propende per la natura di diritto reale sui
generis della cubatura. La questione tuttavia rimane aperta,
seppure sotto un diverso profilo. E invero, l'Ici, come l'Imu,
si applica necessariamente solo su ciò che possa essere
incorporato su beni immobili ben individuati.
Si ipotizzi allora il caso, piuttosto diffuso, in cui il
proprietario cede, con effetti reali per l'appunto, la
cubatura relativa a un terreno di sua proprietà a un terzo
che si riserva di individuare se e su quale bene
concretamente sfruttare tale maggiore volumetria. In
situazioni simili, l'area che ha originato la volumetria
iniziale ha perso gran parte del suo valore. Nel contempo
però questa differenza di valore resta intassabile ai fini
Imu, sino a quando essa non si incorpora in un immobile
(articolo
Il Sole 24 Ore del 13.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il vincolo idrogeologico non comporta l’inedificabilità
assoluta, ma semmai l’approntamento di particolari cautele:
non ogni opera edilizia in zona vincolata può ritenersi
pregiudizievole all'interesse pubblico, ma soltanto quelle
che, in seguito a puntuale accertamento, risultino in
contrasto con lo stesso
Con la seconda censura la parte istante sostiene che l’area
di Opini è sottoposta a vincolo idrogeologico per l’intera
superficie, con la conseguenza che il divieto di edificare
riguardante le aree boscate si dovrebbe estendere ai terreni
non boschivi.
Il rilievo è infondato.
Il vincolo idrogeologico non comporta l’inedificabilità
assoluta, ma semmai l’approntamento di particolari cautele:
non ogni opera edilizia in zona vincolata può ritenersi
pregiudizievole all'interesse pubblico, ma soltanto quelle
che, in seguito a puntuale accertamento, risultino in
contrasto con lo stesso (TAR Piemonte, I, 13.06.2007, n.
2593; TAR Puglia, Lecce, I, 24.08.2005, n. 4122) (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 01.07.2014 n. 1150 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In tema di legittimazione
processuale delle associazioni e dei comitati, il prevalente
orientamento della giurisprudenza in base al quale,
impregiudicato il criterio legale di legittimazione che la
attribuisce agli enti a carattere nazionale iscritti
nell'apposito elenco tenuto dal Ministero dell'ambiente, ai
sensi dell'art. 13 della l. 08.07.1986 n. 349, è possibile
che il riconoscimento della titolarità dell’azione sia
attribuito ad associazioni o enti esponenziali locali i
quali perseguano statutariamente, in modo non occasionale,
obiettivi di tutela di determinati interessi della
collettività ed abbiano un adeguato grado di
rappresentatività e stabilità in un'area di afferenza
ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione
pubblica che si assume leso.
---------------
Anche in materia di interessi diffusi, nel nostro
ordinamento non è ammessa l’azione popolare, vale a dire la
possibilità per il quisque de populo di intraprendere
un’iniziativa giurisdizionale in assenza della titolarità,
sul piano sostanziale, di un interesse diretto, concreto e
personale che lo ponga su un piano differenziato rispetto
alla generalità dei consociati.
---------------
Ai fini della legittimazione ad agire di un’associazione o
di un comitato, non è sufficiente il mero scopo associativo
o la finalità statutaria per differenziare l’interesse
diffuso, specie quando, come nel caso in esame, il Comitato
si è costituito non molto tempo prima della proposizione
dell’impugnativa, con la conseguenza che, al momento del
ricorso, il Comitato stesso non poteva reputarsi radicato
nel territorio; la carenza di adeguata rappresentatività e
radicamento nel territorio deve valutarsi anche in relazione
al numero dei componenti, che, stando allo statuto, sono
solo dieci.
Va richiamato, in tema di legittimazione processuale delle
associazioni e dei comitati, il prevalente orientamento
della giurisprudenza in base al quale, impregiudicato il
criterio legale di legittimazione che la attribuisce agli
enti a carattere nazionale iscritti nell'apposito elenco
tenuto dal Ministero dell'ambiente, ai sensi dell'art. 13
della l. 08.07.1986 n. 349, è possibile che il
riconoscimento della titolarità dell’azione sia attribuito
ad associazioni o enti esponenziali locali i quali
perseguano statutariamente, in modo non occasionale,
obiettivi di tutela di determinati interessi della
collettività ed abbiano un adeguato grado di
rappresentatività e stabilità in un'area di afferenza
ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione
pubblica che si assume leso (cfr., ex multis, Cons.
Stato sez. IV, 08.11.2010, n. 7907; TAR Lombardia Brescia,
sez. I, 11.03.2011, n. 398).
Per contro è indubitabile che, anche in materia di interessi
diffusi, nel nostro ordinamento non è ammessa l’azione
popolare, vale a dire la possibilità per il quisque de
populo di intraprendere un’iniziativa giurisdizionale in
assenza della titolarità, sul piano sostanziale, di un
interesse diretto, concreto e personale che lo ponga su un
piano differenziato rispetto alla generalità dei consociati
(TAR Toscana, sez. II, 18.11.2011, n. 1765).
Orbene, gli enti esponenziali, onde poter essere ammessi
alla tutela giurisdizionale, debbono agire per la difesa di
specifici fini individuati nello Statuto; tuttavia tale
specificità nel caso di specie manca, giacché lo Statuto del
Comitato ricorrente opera un riferimento generico ed
omnicomprensivo a finalità di tutela e valorizzazione della
zona di Opini (documento n. 1 depositato in giudizio dai
deducenti).
Ciò posto, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento
giurisprudenziale secondo cui, ai fini della legittimazione
ad agire di un’associazione o di un comitato, non è
sufficiente il mero scopo associativo o la finalità
statutaria per differenziare l’interesse diffuso (Cons.
Stato, sez. VI, 29.05.2008, n. 2546; TAR Puglia, Lecce, sez.
I, 26.03.2010, n. 866), specie quando, come nel caso in
esame, il Comitato si è costituito non molto tempo prima
della proposizione dell’impugnativa, con la conseguenza che,
al momento del ricorso, il Comitato stesso non poteva
reputarsi radicato nel territorio (TAR Toscana, sez. II,
01.04.2011, n. 567); la carenza di adeguata
rappresentatività e radicamento nel territorio deve
valutarsi anche in relazione al numero dei componenti (TAR
Toscana, sez. II, 01.04.2011, n. 567; idem, sez. I,
28.02.2012, n. 397), che, stando allo statuto, sono solo
dieci (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 01.07.2014 n. 1150 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Legittimità Ordinanza rimozione, smaltimento e
ripristino dello stato dei luoghi, previa presentazione di
un Piano di rimozione dei materiali da scavo.
L’onere probatorio della verifica della sussistenza di tutte
le condizioni per l’applicazione del regime di favore e
differenziato dei sottoprodotti rispetto a quello dei
rifiuti è a carico di colui che lo invoca.
I provvedimenti
impugnati risultano sostanzialmente immuni dalle censure
dedotte in ragione della piena legittimità dell’ordine di
rimozione e avvio a recupero e/o smaltimento del materiale
depositato sull’area, ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. n.
152/2006, che compete senza alcun dubbio al Sindaco
nell’ipotesi di abbandono e deposito incontrollato di
rifiuti.
Né avrebbe potuto in alcun modo ricevere
applicazione la disciplina del recupero di rifiuti in sito a
mezzo di impianto mobile di cui agli artt. 214 e 216 del
codice dell’ambiente, nonché la correlata disciplina
nazionale (d.M. 05.02.1998) e regionale (DGR Lombardia
10098/2009), che è rigorosamente subordinata alla
circostanza che i rifiuti siano recuperati nel luogo di
produzione e all’esito di severe valutazioni correlate alla
qualità e provenienza del rifiuto.
Assunta la suddetta normativa di riferimento, il cui
rispetto è essenziale ai fini dell’applicazione della
disciplina dei sottoprodotti proprio per garantire che il
materiale risponda ai requisiti dalla stessa prescritti,
quello depositato presso l’area gestita dalla Suardi S.p.a.
avrebbe potuto essere considerato sottoprodotto e non
rifiuto solo ed esclusivamente alle condizioni e nel
rispetto della procedura dettata dalla normativa di settore,
ed in particolare mediante la presentazione del piano di
utilizzo del materiale entro il perentorio termine previsto
dalle disposizioni dell’art. 15 del d.m. 161 del 2012 (180
giorni dall’entrata in vigore del Regolamento) e secondo le
modalità di cui all’art. 5 dello stesso d.m. 161/2012.
L’onere probatorio della verifica della sussistenza di tutte
le condizioni per l’applicazione del regime di favore e
differenziato dei sottoprodotti rispetto a quello dei
rifiuti è, infatti, a carico di colui che lo invoca, come
confermato anche dalla giurisprudenza della Suprema Corte di
Cassazione, per la quale:
- “In tema di gestione dei rifiuti, l'esclusione
dall'applicazione della disciplina sui rifiuti per le terre
e rocce da scavo (art. 186, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) è
subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato,
della loro riutilizzazione secondo un progetto
ambientalmente compatibile” (Cass. pen., sez. III,
12.06.2008, n. 37280);
- “Secondo l'attuale definizione contenuta nell'art. 183,
comma 1, lett. p), d.lgs. n. 152 del 2006 (come modificata
dal d.lgs. n. 4 del 2008), per la qualificazione di un
residuo come sottoprodotto (nella specie, materiale
proveniente dalla demolizione di un muro) si devono
rispettare le seguenti condizioni: le sostanze ed i
materiali -aventi un valore economico di mercato– devono
essere originati da un processo non direttamente destinato
alla loro produzione; il loro riutilizzo deve essere
preventivamente programmato, certo, integrale ed avvenire
direttamente nel corso del processo di produzione o
utilizzazione; il materiale -senza necessità di trattamenti
o di trasformazioni preliminari deve soddisfare
determinati requisiti merceologici e di qualità ambientale;
in mancanza di una sola di dette condizioni, il residuo deve
considerarsi un rifiuto” (Cass. pen., sez. III,
04.11.2008, n. 47085);
- “Quella dei sottoprodotti è una disciplina che prevede
l'applicazione di un diverso regime gestionale in condizioni
di favore, con la conseguenza che l'onere di dimostrare
l'effettiva sussistenza di tutte le condizioni di legge
incombe comunque su colui che l'invoca. … Deve affermarsi il
principio secondo il quale i materiali provenienti da
demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto
oggettivamente destinati all'abbandono; l'eventuale recupero
è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali
detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il
detentore ha l'obbligo di disfarsi; l'eventuale
assoggettamento di detti materiali a disposizioni più
favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la
dimostrazione, da parte di chi la invoca, della sussistenza
di tutti i presupposti previsti dalla legge” (Cass. pen.,
sez. III, 29.04.2011, n. 16727).
Né la normativa della quale l’amministrazione ha invocato
l’applicazione pare porsi in contrasto con l’ordinamento
europeo, risultando, al contrario, il frutto di modifiche
intervenute proprio in attuazione del medesimo, ed in
particolare delle direttive 75/442/CEE, 91/156/CE,
2006/12/CE e 2008/98/CE per ragioni di tutela ambientale.
I provvedimenti impugnati risultano, dunque, sostanzialmente
immuni dalle censure dedotte in ragione della piena
legittimità dell’ordine di rimozione e avvio a recupero e/o
smaltimento del materiale depositato sull’area, ai sensi
dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, che compete senza
alcun dubbio al Sindaco nell’ipotesi di abbandono e deposito
incontrollato di rifiuti.
Né avrebbe potuto in alcun modo ricevere applicazione la
disciplina del recupero di rifiuti in sito a mezzo di
impianto mobile di cui agli artt. 214 e 216 del codice
dell’ambiente, nonché la correlata disciplina nazionale (d.m.
05.02.1998) e regionale (DGR Lombardia 10098/2009), che è
rigorosamente subordinata alla circostanza che i rifiuti
siano recuperati nel luogo di produzione e all’esito di
severe valutazioni correlate alla qualità e provenienza del
rifiuto, indagini che, nella specie, non sono state
effettuate, come detto, per omissioni imputabili alla
società ricorrente (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 02.05.2014 n. 1131 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Vincolo stradale opera anche per sopraelevazioni.
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto
stradale, prescritto dal D.M. n. 1404 del 1968, si traduce
in un divieto assoluto di edificazione che rende le aree
legalmente inedificabili, indipendentemente dalle
caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di
accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la
circolazione stradale.
Tale vincolo deve ritenersi operante
anche con riferimento a costruzioni realizzate ad un diverso
livello da quello della sede stradale o che costituiscano
mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia,
siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, infatti, il
vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto
stradale, prescritto dal D.M. n. 1404 del 1968, si traduce
in un divieto assoluto di edificazione che rende le aree
legalmente inedificabili, indipendentemente dalle
caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di
accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la
circolazione stradale.
Tale vincolo, inoltre, deve ritenersi operante anche con
riferimento a costruzioni realizzate ad un diverso livello
da quello della sede stradale o che costituiscano mere
sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano
arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex
multis, Cass. Civ., sez. II, 03.11.2010, n. 22422; TAR
Toscana , sez. III, 23.07.2012, n. 1349).
Ciò detto, il Collegio rileva che, nella fattispecie in
esame, i lavori abusivi, oggetto della richiesta di
sanatoria, rientravano pienamente nella fascia di rispetto
stradale in quanto, lungi dal costituire un manufatto
distinto e ulteriore rispetto a quello originario,
rappresentavano un ampliamento, peraltro di non irrilevante
consistenza, dell’edificio originario che, a sua volta
fronteggiava la sede stradale.
Risultava, pertanto, indiscussa l'operatività del vincolo
imposto con D.M. n. 1404/1968.
Per tali ragioni, l’Amministrazione correttamente faceva
applicazione dell’art. 33 della L. 28.02.1985 n. 47 ed
escludeva la sanabilità dell’abuso. (cfr. ex multis,
Cons. St., sez. IV, 12.02.2010, n. 772; TAR Lazio, Roma,
sez. I, 12.11.2008, n. 10100; Cons. St., sez. IV, 18.10.2002
n. 5716).
Il vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale,
infatti, deve essere qualificato come un vincolo di
inedificabilità assoluta, incompatibile per sua natura, con
qualunque manufatto, con la conseguenza che, a differenza
del vincolo di cui all’art. 32, lo stesso determina un
divieto di edificazione a carattere assoluto e la non
sanabilità dell’opera realizzata dopo la sua imposizione, a
nulla rilevando la non pericolosità della porzione di
manufatto per la sicurezza del traffico. (Cons. Stato, Sez.
IV, 05.07.2000, n. 3731) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.04.2014 n. 705 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Volumetria residua area edificabile frazionata.
Nel caso in cui un'area edificabile venga successivamente
frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria
disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera
area permane invariata, con la duplice conseguenza che,
nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo
originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni,
in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione
solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria
costruzione e in proporzione della rispettiva quota di
acquisto.
Sotto il secondo profilo non può essere condivisa la tesi
dell’IEEP secondo la quale la particella 134, distinta dalle
altre porzioni risultanti dal frazionamento del lotto
originario di estensione pari a 9243 mq, avrebbe una propria
autonoma dotazione edificatoria indipendente da quella già
espressa dalle altre particelle dell’originario compendio.
Se così fosse basterebbe frazionare i lotti già impegnati
con la massima cubatura esprimibile per moltiplicare il
carico urbanistico di zona ben oltre il limite consentito
dagli indici di fabbricazione.
E’ infatti pacifico in giurisprudenza (TAR Lombardia
Brescia, sez. I, 25.11.2011, n. 1629) che ove un'area
edificabile venga successivamente frazionata in più parti
tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi
della normativa urbanistica nell'intera area permane
invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in
cui sia stata già realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la
volumetria che residua tenuto conto dell'originaria
costruzione e in proporzione della rispettiva quota di
acquisto (giurisprudenza costante: Cons. St., sez. V,
28.05.2012, n. 3120 Cons. St., sez. IV, del 22.05.2012, n.
2941).
Ne consegue che il diniego adottato dal Comune di Bari è
correttamente fondato sul presupposto che la particella 134,
come parte di un più ampio lotto urbanisticamente unitario,
in tal guisa considerato all’epoca delle precedenti
concessioni edilizie, dovesse scontare la volumetria già
realizzata (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 01.04.2014 n. 440 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Differenze tra legittimazione impugnazione di
attività edificatoria e disposizioni contenute nel P.R.G. o
in una sua variante.
L’esistenza di uno stabile collegamento
col terreno interessato dall’intervento edilizio è
sufficiente a comprovare la sussistenza sia della
legittimazione che dell’interesse a ricorrere, senza che sia
necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire
uno specifico pregiudizio per effetto dell’attività
edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo.
Nel caso d’impugnazione di disposizioni contenute nel P.R.G.
o in una sua variante, è certamente ammissibile anche il
ricorso proposto dai proprietari di aree vicine o confinanti
con quelle cui si riferisce la prescrizione contestata, ma
in tal caso occorre che sia dimostrata anche la sussistenza
di un pregiudizio specifico e attuale riveniente ai suoli
del ricorrente per effetto della scelta pianificatoria della
quale si assume l’illegittimità.
4. Per vero, la Sezione reputa che il contrasto
giurisprudenziale sul punto della legittimazione e
dell’interesse a insorgere in sede giurisdizionale avverso
gli strumenti urbanistici, che sembra emergere dalle
contrapposte argomentazioni delle parti, si rivela più
apparente che reale ad una più attenta analisi delle
pronunce succedutesi negli ultimi anni in subiecta
materia.
4.1. Innanzi tutto, anche se spesso nelle decisioni che si
sono occupate della questione i due profili appaiono
sovrapposti o confusi, è opportuno ribadire la differenza
esistente fra le due diverse condizioni dell’azione
costituite dalla legittimazione processuale e dall’interesse
a ricorrere: come è noto, secondo i comuni principi, mentre
la prima consiste nella titolarità in capo a chi agisce di
una posizione giuridica differenziata e qualificata che
astrattamente abiliti ad insorgere in sede giudiziale, la
seconda si ricollega necessariamente alla sussistenza di un
interesse concreto e attuale, in relazione ad una specifica
ed effettiva utilità che l’istante si riproponga di
conseguire come conseguenza immediata dell’accoglimento
della propria domanda giudiziale.
Con specifico riferimento al processo amministrativo ed alla
sua struttura impugnatoria, mentre la legittimazione
processuale s’identifica nella titolarità di una situazione
giuridica soggettiva (di interesse legittimo ovvero, nelle
ipotesi di giurisdizione esclusiva, anche di diritto
soggettivo) che differenzia la posizione del ricorrente da
quella di quisque de populo, l’interesse a ricorrere
sussiste a condizione che egli riceva una lesione concreta
ed attuale dal provvedimento oggetto di impugnazione, di
modo che la rimozione di quest’ultimo gli produca un
vantaggio diretto e immediato.
Tanto premesso e precisato, è superfluo aggiungere che
perché il ricorso possa dirsi ammissibile le condizioni
testé descritte devono sussistere entrambe
contemporaneamente al momento delle proposizione della
domanda giudiziale.
4.2. Venendo dunque al punto specifico dell’impugnazione dei
provvedimenti amministrativi in materia di urbanistica ed
edilizia, da un sia pur sommario esame della giurisprudenza
al riguardo è agevole desumere che profondamente diverse
sono le conclusioni raggiunte, in ordine alla posizione del
proprietario confinante, a seconda che ad essere oggetto di
impugnazione sia un titolo che abiliti immediatamente
all’edificazione (permesso di costruire o equivalente)
oppure un mero atto di pianificazione (P.R.G. o equivalente
e sue varianti).
Nel primo caso, l’orientamento largamente prevalente è nel
senso che la mera vicinitas –ossia l’esistenza di uno
stabile collegamento col terreno interessato dall’intervento
edilizio- sia sufficiente a comprovare la sussistenza sia
della legittimazione che dell’interesse a ricorrere, senza
che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di
subire uno specifico pregiudizio per effetto dell’attività
edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (cfr. ex
plurimis Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, nr. 3456;
Cons. Stato, sez. VI, 01.02.2013, nr. 631; Cons. Stato, sez.
IV, 22.01.2013, nr. 361; id., 29.08.2012, nr. 4643; id.,
07.05.2012, nr. 2620).
Non così nel caso di impugnazione di disposizioni contenute
nel P.R.G. o in una sua variante, laddove l’indirizzo
prevalente è –al contrario– nel senso che, fuori dei casi in
cui il ricorrente si dolga di prescrizioni che direttamente
incidano sui suoli in sua proprietà (censurandone ad esempio
la destinazione, ovvero l’imposizione su di essi di vincoli
espropriativi), è certamente ammissibile anche il ricorso
proposto dai proprietari di aree vicine o confinanti con
quelle cui si riferisce la prescrizione contestata, ma in
tal caso occorre che sia dimostrata anche la sussistenza di
un pregiudizio specifico e attuale riveniente ai suoli del
ricorrente per effetto della scelta pianificatoria della
quale si assume l’illegittimità (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
02.03.2011, nr. 1205; id., 19.03.2009, nr. 1653; nonché, in
sede consultiva, Cons. Stato, sez. I, parere 19.07.2011, nr.
4417).
Si aggiunge anche che tale pregiudizio non deve
necessariamente risolversi in una lesione delle facoltà
connesse al diritto dominicale di cui il ricorrente è
titolare in relazione ai suoli in sua proprietà, ma può
consistere anche nella perdita di utilità ulteriori e
diverse, come quando –ad esempio– sia documentata
un’oggettiva e immediata perdita di valore dei suoli
dell’istante quale effetto diretto della pianificazione
involgente le aree limitrofe o circostanti (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 28.07.2005, nr. 4018).
In altri termini, nelle ipotesi da ultimo considerate la
semplice esistenza di una situazione di stabile collegamento
fra i suoli del ricorrente e le aree interessate dalla
variante urbanistica –quand’anche provata in modo
incontrovertibile– può essere al più idonea a fondare
un’astratta legitimatio ad causam, ma è insufficiente
a dimostrare anche l’attualità dell’interesse a ricorrere,
per il quale occorre allegare e provare una lesione concreta
e attuale; tale lesione deve essere altresì specifica, e
quindi non può risolversi nel generico pregiudizio
all’ordinato assetto del territorio, alla salubrità
dell’ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe
essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche
non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione
(e che, oltre tutto, porrebbe l’ulteriore problema di
individuare il limite al di là del quale non si sia più in
presenza di una lesione specifica e differenziata, ma di un
pregiudizio assimilabile a quello che qualsiasi cittadino
potrebbe lamentare).
Insomma, riconoscere l’impugnabilità degli atti di
pianificazione urbanistica da parte dei proprietari di suoli
più o meno prossimi alle aree direttamente incise dagli atti
medesimi, indipendentemente dall’allegazione e dalla prova
di una specifica lesione, significherebbe aprire la via a
vere e proprie forme di azione popolare, connesse alla mera
qualità di cittadino residente nel territorio interessato
dalla pianificazione, in contrasto con elementari principi
processuali.
4.3. Questa la giurisprudenza, dalla quale la Sezione non
ravvisa motivo per discostarsi.
È appena il caso di precisare, peraltro, che i piani
principi che si sono riassunti non appaiono per nulla
contraddetti dagli arresti, apparentemente di segno opposto,
che gli appellati richiamano nei propri scritti difensivi in
replica alle deduzioni di parte appellante: infatti, una
semplice lettura delle decisioni così richiamate evidenzia
che queste si riferiscono tutte a casi nei quali l’atto di
pianificazione o di variante era impugnato unitamente a uno
specifico titolo ad aedificandum, e quindi quale atto
presupposto rispetto a quello col quale si era
materializzata la lesione lamentata dal ricorrente (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 17.07.2013, nr. 3882; id., 04.06.2013,
nr. 3055; id., 28.03.2011, nr. 1868), ovvero l’impugnazione
investiva un piano attuativo al quale erano ricollegabili
effetti diretti nei riguardi di un singolo, specifico
immobile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2009, nr. 4756).
Pertanto, si trattava sempre di situazioni nelle quali la
legittimazione e l’interesse a ricorrere si sostanziavano in
una situazione di vicinitas fra la proprietà del
ricorrente e un’area specificamente individuata, rispetto
alla quale gli atti impugnati erano destinati a produrre
effetti immediati in termini di edificazione (realizzata o
da realizzare): di modo che, ricadendosi nella prima delle
due situazioni innanzi esaminata, quella dell’impugnazione
del titolo abilitativo all’edificazione, legittimazione e
interesse venivano sostanzialmente a coincidere, col
risultato che appaiono confermate, piuttosto che smentite,
le conclusioni della giurisprudenza maggioritaria che si
sono richiamate (massima tratta da
www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.12.2013 n. 6082 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Illegittimità ordinanza sindacale per contenimento
rumore attività azienda agricola
E’ illegittima l’ordinanza con la quale
il Sindaco ha prescritto al titolare dell’azienda agricola,
di provvedere ad isolamento acustico idoneo a eliminare i
rumori e le vibrazioni del mulino per la macinazione del
grano, di innalzare la parete della stalla esistente per
eliminare il diffondersi dei rumori prodotti dalla
mungitrice e di non effettuare attività rumorose ovvero
moleste al di fuori di dati orari.
Come dispone l’art. 36 del regolamento di polizia urbana del
Comune richiamato proprio nelle ordinanze suddette, le
stesse si qualificano come provvedimenti ordinari, non come
ordinanze di urgenza, e le competenze per la repressione dei
rumori molesti sono ripartite fra il Sindaco e la dirigenza.
Secondo il comma 2 del citato articolo, è infatti il
dirigente di settore ad avere la competenza a intervenire in
tutti i casi in cui la fonte del disturbo sia un’attività
produttiva e si tratti di eliminarla senza pregiudicare
l’attività stessa; il Sindaco, organo di vertice
dell’amministrazione comunale, interviene invece in un caso
più grave, previsto dal comma 3, ovvero quando la fonte del
disturbo sia un’attività esercitata all’interno di una
privata abitazione. In tal caso, il Sindaco provvede a far
cessare l’attività in questione, perché essa in tale
collocazione non è consentita, così come prevede la norma
stessa al successivo comma 5.
Nel caso di specie, poiché l’attività svolta dal ricorrente
è pacificamente un’attività produttiva di azienda agricola,
e l’ordinanza mira a disciplinare i rumori da essa generati,
non certo a farla cessare in quanto tale, la relativa
competenza apparteneva al dirigente.
2. E’ infatti fondato e assorbente il primo motivo di
ricorso. Come dispone l’art. 36 del regolamento di polizia
urbana del Comune di Gavardo (doc. 14 ricorrente, copia di
esso), richiamato proprio nelle ordinanze suddette, che
detto per inciso si qualificano come provvedimenti ordinari,
non come ordinanze di urgenza, in tale Comune le competenze
per la repressione dei rumori molesti sono ripartite fra il
Sindaco e la dirigenza.
3. Secondo il comma 2 del citato articolo, è infatti il
dirigente di settore ad avere la competenza a intervenire in
tutti i casi in cui la fonte del disturbo sia un’attività
produttiva e si tratti di eliminarla senza pregiudicare
l’attività stessa; il Sindaco, organo di vertice
dell’amministrazione comunale, interviene invece in un caso
più grave, previsto dal comma 3, ovvero quando la fonte del
disturbo sia un’attività esercitata all’interno di una
privata abitazione. In tal caso, il Sindaco provvede a far
cessare l’attività in questione, perché essa in tale
collocazione non è consentita, così come prevede la norma
stessa al successivo comma 5. Ciò è confermato anche
dall’ordinanza 31.01.2012 n. 13, emessa dal Sindaco con
esclusivo riguardo ad attività svolte appunto nelle private
abitazioni.
4. Nel caso di specie, poiché l’attività svolta dal
ricorrente è pacificamente un’attività produttiva di azienda
agricola, e l’ordinanza mira a disciplinare i rumori da essa
generati, non certo a farla cessare in quanto tale, la
relativa competenza apparteneva al dirigente. E’quindi
fondato il motivo che sull’incompetenza fa centro.
5. Tale motivo è altresì assorbente, nel senso di precludere
l’esame dei restanti. Secondo il prevalente orientamento,
espresso per tutte da C.d.S. sez. IV 12.12.2006 n. 7271,
infatti, una volta ritenuta incompetente l'autorità che ha
emanato l'atto impugnato, la valutazione sui vizi
sostanziali si risolverebbe in un giudizio meramente
ipotetico sull'ulteriore attività amministrativa dell'organo
competente, oltretutto ora in aperto contrasto con la norma
dell’art. 34, comma 2 c.p.a., per cui “In nessun caso il
giudice può pronunciare con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati” (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.12.2013 n. 1085 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Legittimità ingiunzione di pagamento della
sanzione per escavazione non autorizzata in area sottoposta
a vincolo paesaggistico.
La tutela del paesaggio nel nostro sistema giuridico, è
certamente assicurata da misure prettamente sanzionatorie
che hanno in via principale funzione deterrente, come quelle
di cui all’art. 167 del D.Lgs. 42/2004, le quali
prescindono dalla sussistenza effettiva del danno
ambientale.
Nello specifico, è stato di recente precisato
che la motivazione della sanzione è ricollegata ad una stima
tecnica di carattere generale, sostanzialmente equitativa,
insuscettibile di una dimostrazione articolata ed analitica,
sfuggendo il danno paesaggistico, per la sua intrinseca
natura, a una indagine dettagliata e minuta.
4.1 La tutela del paesaggio, nel nostro sistema giuridico, è
certamente assicurata da misure prettamente sanzionatorie
che hanno in via principale funzione deterrente, come quelle
di cui all’art. 167 del D. Lgs. 42/2004 (cfr. sentenza TAR
Brescia 18/04/2008 n. 388), le quali prescindono dalla
sussistenza effettiva del danno ambientale (TAR Sicilia
Catania, sez. II – 27/09/2013 n. 2328). Nello specifico, è
stato di recente precisato che la motivazione della sanzione
è ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale,
sostanzialmente equitativa, insuscettibile di una
dimostrazione articolata ed analitica (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV – 17/09/2013 n. 4631 che richiama sez. IV –
14/04/2010 n. 2083), sfuggendo il danno paesaggistico, per
la sua intrinseca natura, a una indagine dettagliata e
minuta (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII – 09/02/2012 n.
695).
4.2 Tuttavia, al di là della premessa teorica sviluppata dal
perito, ciò che deve essere sottoposta a valutazione è la
tecnica di costruzione del danno dallo stesso elaborata,
tenuto conto che la norma non fornisce alcun suggerimento
operativo al riguardo. Anche il D.M. 26/09/1997 –avente ad
oggetto “Determinazione dei parametri e delle modalità
per la qualificazione della indennità risarcitoria per le
opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo”–
si limita a contemplare una perizia di valutazione del danno
determinato dall’intervento abusivo, mentre reca norme
puntuali per la sola quantificazione del profitto (articolo
3).
4.3 Ad avviso del Collegio, è corretta l’asserzione per la
quale i parametri di commisurazione della sanzione sono tra
loro alternativi, e tuttavia ciò non esclude che il valore
di una delle due voci (nella specie il danno ambientale,
singolarmente considerato), possa essere in concreto
stabilito elaborando un indice complesso nel quale trovi
spazio –tra i vari fattori– anche il profitto.
In buona sostanza, in assenza di indicazioni normative, nel
caso sottoposto all’esame del Collegio il perito ha ritenuto
che il profitto conseguito fosse uno degli indicatori utili
per giungere ad una congrua quantificazione della voce “danno
ambientale”: detta scelta non può dirsi a priori
illogica, dato che il carattere remunerativo di un’attività
economica intrapresa in violazione delle regole costituisce
elemento rivelatore della natura impattante dell’intervento,
e un lucro maggiore è ordinariamente accompagnato da una
compromissione più accentuata del bene ambiente. Ovviamente,
possono riscontrarsi casi peculiari o eccezionali i quali
smentiscono detta argomentazione, che tuttavia non si sono
verificati (in assenza di specifiche dimostrazioni e
deduzioni) presso l’area di cui si discorre (massima tratta
da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 27.11.2013 n. 1019 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Legittimità ordinanza rimozione recupero e
smaltimento dei rifiuti inquinanti abbandonati sul terreno.
L’assenza di materiale inquinante è circostanza del tutto
ininfluente ai fini dell’emanazione dell’ordine di rimozione
di rifiuti ai sensi dell’art. 192 T.U. ambientale d.lgs. n.
152/2006.
Quest’ultimo risulta infatti legittimamente
emanato al ricorrere del presupposto consistente
nell’esistenza di un deposito incontrollato di rifiuti, a
prescindere dalla loro potenzialità inquinante. Tale
ulteriore presupposto fonda infatti il diverso provvedimento
consistente nell’ordine di bonifica dei terreni contaminati
ex artt. 244 e 245 d.lgs. n. 152/2006.
L’assenza di
materiale inquinante è circostanza del tutto ininfluente ai
fini dell’emanazione dell’ordine di rimozione di rifiuti ai
sensi dell’art. 192 t.u. ambientale. Quest’ultimo risulta
infatti legittimamente emanato al ricorrere del presupposto
consistente nell’esistenza di un deposito incontrollato di
rifiuti, a prescindere dalla loro potenzialità inquinante.
Tale ulteriore presupposto fonda infatti il diverso
provvedimento consistente nell’ordine di bonifica dei
terreni contaminati ex artt. 244 e 245 d.lgs. n. 152/2006.
Per quanto concerne invece l’assunto con cui l’appellante
incidentale nega di essere l’autore del deposito
incontrollato di rifiuti, lo stesso appare del tutto
pretestuoso, alla luce della chiara ammissione ricavabile
dall’atto di citazione dallo stesso proposto davanti al
Tribunale civile di Genova per l’usucapione del terreno, nel
quale il sig. Giusto riconosce di avere per anni depositato
materiale di risulta di lavori edili nell’ambito della
propria attività di imprenditore del settore. Si legge
infatti nell’atto di citazione: “deve rilevarsi che dagli
anni settanta il signor Mario Giusto, imprenditore edile, ha
preso a depositare/prelevare su un lembo di terreno comune
ad entrambi i mappali materiale edile”.
Correttamente, pertanto, l’amministrazione comunale ed il
TAR hanno valorizzato tale circostanza ai fini,
rispettivamente, dell’emissione dell’ordine impugnato e
della reiezione delle censure di eccesso di potere per
illogicità, carenza di motivazione ed istruttoria sul punto
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.11.2013 n. 5609 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Annullamento parziale titolo edilizio.
Secondo l’opinione espressa dalla
giurisprudenza maggioritaria, non è possibile procedere
all’annullamento parziale dei titoli edilizi giacché,
ammettendo il contrario, si consentirebbe
all’amministrazione (o al giudice qualora l’annullamento sia
effettuato da quest’ultimo) di disporre modificazioni al
progetto di costruzione predisposto dal privato, e di
sostituirsi, in sostanza, alla volontà di quest’ultimo.
Invero, secondo l’opinione espressa dalla giurisprudenza
maggioritaria, cui si intende in questa sede aderire, non è
possibile procedere all’annullamento parziale dei titoli
edilizi giacché, ammettendo il contrario, si consentirebbe
all’amministrazione (o al giudice qualora l’annullamento sia
effettuato da quest’ultimo) di disporre modificazioni al
progetto di costruzione predisposto dal privato, e di
sostituirsi, in sostanza, alla volontà di quest’ultimo (cfr.
ex multis T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 30.03.2012 n.
3065). La giurisprudenza citata dalla parte (Consiglio di
Stato, sez. IV, 14.04.2011 n. 2326; TAR Sicilia Catania,
sez. I, 25.03.2010 n. 937) sembra peraltro inconferente, in
quanto non riguardante l’ipotesi dell’annullamento in
autotutela di titoli edilizi (la sentenza del Consiglio di
Stato ha ad oggetto un provvedimento di rigetto di istanza
di rilascio di permesso di costruire ed una ordinanza di
demolizione di opere ritenute abusive; mentre quella del TAR
Catania riguarda una deliberazione di acquisizione al
patrimonio comunale di opera ritenuta abusiva).
Va comunque osservato che l’interesse del privato volto a
mantenere in essere quella parte di progetto e di opere non
in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia è
adeguatamente salvaguardato dalla possibilità di presentare
istanza di permesso di costruire in sanatoria, previa
modifica delle parti progettuali che sono invece in
contrasto con la normativa stessa (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.11.2013 n. 2605 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Legittimità provvedimento di delocalizzazione
dell’impianto GSM-UMTS installato sulla copertura di
stabilimento termale.
Il Piano di Coordinamento per il rilascio di concessione
d’impianti s.r.b. emittenti campi elettromagnetici, adottato
previo confronto ed acquisizione delle indicazioni fornite
dagli enti gestori per le esigenze di copertura dei
medesimi, prevede la delocalizzazione degli impianti
installati su aree destinate ad attrezzature sanitarie.
L’articolo 36, comma 2, della L. n. 833/1978 comporta la
riconducibilità dello stabilimento termale alla tipologia
delle strutture sanitarie e la conseguente operatività dei
divieti e delle tutele introdotte dal suddetto Piano di
Coordinamento.
Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente, premesso
che il Piano di coordinamento GSM del 2001 è inidoneo ad
assicurare la copertura della rete UMTS, lamenta che
l’Amministrazione non avrebbe adeguatamente valutato le
esigenze della nuova rete ed il minor impatto
elettromagnetico delle nuove tecnologie e non avrebbe
ottemperato al principio dell’accordo circa la
localizzazione delle SRB di cui all’art. 86, comma 2, del
D.Lgs. n. 259/2003 individuando siti inidonei.
Il motivo è infondato.
Il dedotto mancato coinvolgimento dei gestori è smentito
dalla già illustrata sequenza provvedimentale che testimonia
una attiva partecipazione della ricorrente
nell’individuazione delle aree alternative.
Il piano di coordinamento adottato con delibera di Giunta n.
253/2001, è stato approvato con delibera consiliare n.
6/2002 previo confronto con gli enti gestori ed acquisizione
delle loro posizioni nel corso di più incontri di cui è dato
atto nella delibera consiliare n. 59/2002.
Sulla base delle soluzioni concordate la ricorrente ha
sottoscritto con l’Amministrazione, unitamente ad altri
gestori, apposita convenzione (13.09.2002) per la
delocalizzazione dell’impianto in località Tabiano.
Di detto impegno ad utilizzare le aree tecnicamente
attrezzate dall’Amministrazione comunale è dato
ulteriormente atto nella delibera consiliare n. 285 del
10.12.2002 e risulta confermato in documenti provenienti
dalla stessa ricorrente che con atto n. 4226/MP/NI del
18.03.2003 “a fronte dell’impegno” dalla medesima
assunto “a realizzare a propria cura e spese le opere di
urbanizzazione primaria dei siti multi gestori per telefonia
mobile approvati con atto della Giunta Comunale n. 285 del
10/12/2002” dichiarava “la propria disponibilità a
versare anticipatamente le annualità del canone di locazione
stabilite nell’accordo sottoscritto ed approvato
dall’Amministrazione”.
Quanto alla affermata inidoneità dei siti, peraltro mai
rappresentata dalla ricorrente all’Amministrazione nel corso
della compiuta e prolungata istruttoria, deve considerarsi
circostanza affermata anapoditticamente senza alcun elemento
probatorio o sostegno.
Si evidenzia, tuttavia, che si tratta di ben otto siti
differenti dei quali 4 sono oggi utilizzati.
Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente contesta la
qualificazione dello stabilimento termale quale area
destinata a struttura sanitaria nei sensi di cui all’art. 9,
comma 1, della L.R. n. 30/2000.
In particolare sostiene che l’art. 36, comma 2, della L. n.
833/1978, prevedendo che “la legge regionale promuove la
integrazione e la qualificazione sanitaria degli
stabilimenti termali pubblici, in particolare nel settore
della riabilitazione, e favorisce altresì la valorizzazione
sotto il profilo sanitario delle altre aziende termali”
avrebbe introdotto un principio in base al quale la
qualificazione sanitaria degli stabilimenti termali potrebbe
essere operata solo dalle Regioni e per i soli stabilenti
termali pubblici.
Nessuna qualificazione nel senso sarebbe stata operata e
l’impianto in questione, di pertinenza dell’azienda termale
Società Terme di Salsomaggiore Terme S.p.A. non sarebbe in
ogni caso uno stabilimento pubblico contemplato dalla norma
richiamata (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 20.11.2013 n. 342 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Annullamento giurisdizionale di concessione
edilizia.
Secondo costante orientamento
giurisprudenziale in materia urbanistica, nelle ipotesi di
annullamento giurisdizionale di un diniego di concessione
edilizia, la nuova valutazione della domanda di concessione
deve essere effettuata con riferimento alla disciplina
urbanistica vigente al momento in cui viene notificata al
Comune interessato la sentenza di annullamento del diniego,
venendo così in rilievo anche la nuova disciplina
intervenuta nelle more del giudizio.
Secondo costante orientamento giurisprudenziale “in
materia urbanistica, nelle ipotesi di annullamento
giurisdizionale di un diniego di concessione edilizia, la
nuova valutazione della domanda di concessione deve essere
effettuata con riferimento alla disciplina urbanistica
vigente al momento in cui viene notificata al Comune
interessato la sentenza di annullamento del diniego, venendo
così in rilievo anche la nuova disciplina intervenuta nelle
more del giudizio” (Cons. St., sez. IV, 24.12.2008 , n.
653; sezione V, 03.09.2009, n. 5169; sezione IV, 10.07.2007,
n. 3890) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli Sez. II,
sentenza 24.05.2013 n. 2749 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Differente tipologia di soppalchi e norma
applicabile.
La distinzione tra i soppalchi la cui
realizzazione sia "rivolta a conservare l'organismo edilizio
e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme
sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi
tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne
consentano destinazioni d'uso con essi compatibili" (art.
31, I comma, lettera c, L. 457/1978, e, oggi, art. 3, comma I,
lettera c, del DPR 380/2001) e soppalchi che, invece, per le
loro caratteristiche (soprattutto dimensionali) rientrano a
pieno titolo nel novero degli interventi di ristrutturazione
edilizia, di cui all'art. 10, I comma, lettera c del
medesimo Testo unico, che viene in considerazione allorché
la loro posa in opera determini una modifica della
superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio
del carico urbanistico.
Questa sezione ha avuto modo di affermare –con orientamento
che non appare meritevole di ripensamenti- la distinzione
(presente anche nell’art. 15 del regolamento edilizio
comunale di Napoli) tra i soppalchi la cui realizzazione sia
"rivolta a conservare l'organismo edilizio e ad
assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici,
formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
destinazioni d'uso con essi compatibili" (art. 31, I
comma, lettera C, L. 457/1978, e, oggi, art. 3, comma I,
lettera C, del DPR 380/2001) e soppalchi che, invece, per le
loro caratteristiche (soprattutto dimensionali) rientrano a
pieno titolo nel novero degli interventi di ristrutturazione
edilizia, di cui all'art. 10, I comma, lettera C del
medesimo Testo unico, che viene in considerazione allorché
la loro posa in opera determini una modifica della
superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio
del carico urbanistico (TAR Campania Napoli, sez. IV,
28.11.2008, n. 20563; 12.06.2012 n. 2776 ).
Nel caso in esame le dimensioni del soppalco, pari a trenta
metri quadrati su complessivi sessantacinque circa,
comportano, nella sostanza, l'introduzione nell'appartamento
in questione di due ambienti in più rispetto al passato
(che, infatti, in ricorso sono qualificati, rispettivamente,
come camera munita di bagno e come studio), e, pertanto, di
nuove superfici utili.
Dette opere, allora, ben lungi dal potere essere qualificate
pertinenziali, integrano un caso di ristrutturazione
edilizia, tale da richiedere il preventivo permesso di
costruire; e ledono senz’altro l’interesse tutelato dalla
normativa edilizia che il Comune assume violata, palesando
la legittimità della conseguente sanzione (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.05.2013 n. 2649 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'abusività costituisce di per sé
motivazione sufficiente per l'adozione della misura
repressiva.
Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell'Amministrazione in relazione al
provvedere.
Infatti, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi.
Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non
occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di
demolizione, una motivazione ulteriore rispetto
all'indicazione delle norme violate e al riferimento per
relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali
accertativi.
Anche questa Sezione ha avuto modo di precisare che
l'Amministrazione non dispone -a fronte degli illeciti
edilizi- di alcun margine di discrezionalità e ha quindi
l'obbligo di intervenire con un atto repressivo, dovuto
nell'an e vincolato nel suo contenuto, senza che su di esso
possa influire alcuna comparazione tra interessi pubblici ed
interessi privati.
----------------
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono
essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi di
provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero
accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
La violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare
l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di
abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di
qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il
contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato", sicché
sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma
2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non
annullabilità del provvedimento impugnato.
5. – Medesima sorte
di rigetto tocca ai motivi secondo e quinto, anch’essi da
scrutinare congiuntamente perché riferiti, entrambi, ad un
preteso difetto di motivazione dell’atto impugnato.
Va rilevato, infatti, che la motivazione dell'atto gravato è
sufficiente a sorreggere il medesimo, poiché l'abusività
costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione
della misura repressiva in argomento.
Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell'Amministrazione in relazione al
provvedere.
Infatti, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi (TAR Campania Napoli, sez. VI,
25.02.2009, n. 1100; sez. III, 23.01.2009, n. 315).
Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non
occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di
demolizione, una motivazione ulteriore rispetto
all'indicazione delle norme violate e al riferimento per
relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali
accertativi (TAR Campania Napoli, sez. VII, 03.03.2009, n.
1209).
Anche questa Sezione ha avuto modo di precisare che
l'Amministrazione non dispone -a fronte degli illeciti
edilizi- di alcun margine di discrezionalità e ha quindi
l'obbligo di intervenire con un atto repressivo, dovuto
nell'an e vincolato nel suo contenuto, senza che su
di esso possa influire alcuna comparazione tra interessi
pubblici ed interessi privati (TAR Campania Napoli, sez. IV,
13.05.2008, n. 4256; 03.01.2013 n. 61).
Né si comprende per quale ragione il Comune avrebbe dovuto
motivare il provvedimento in relazione ad un asserito lungo
lasso di tempo che sarebbe trascorso dalla commissione
dell’abuso alla sua repressione, circostanza di fatto di cui
non v’è traccia agli atti di causa.
6. - Va altresì respinta la censura di mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento, poiché, per consolidata regola
giurisprudenziale, ampiamente condivisa da questo TAR, i
provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono
essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi di
provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero
accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime (Cons.
Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV,
28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n.
797).
È poi stato precisato che la violazione dell'obbligo di
comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un
motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei
provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in
quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo
abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo
del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato", sicché sussiste la
condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L.
n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del
provvedimento impugnato (Consiglio di stato, sez. IV,
15.05.2009, n. 3029) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.05.2013 n. 2649 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Ordinanza sindacale di rimozione rifiuti e
rimessione in pristino.
In caso di rinvenimento di rifiuti da
parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il
titolare in uso di fatto del terreno non può essere chiamato
a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o
della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere
destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino.
Per completezza e sinteticamente, converrà comunque
osservare che è certamente fondata la censura con la quale
si contesta l’omesso invio della comunicazione di avvio del
procedimento al ricorrente Consorzio, così privato della
facoltà del contraddittorio, atteso che il ricorso allo
strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente, o anche
avente valenza ambientale, giustifica l’omissione della
comunicazione di avvio del procedimento unicamente in
presenza di un’”urgenza qualificata”, in relazione
alle circostanze del caso concreto, che, però, deve essere
debitamente esplicitata in specifica motivazione sulla
necessità e l’urgenza di prevenire il grave pericolo alla
cittadinanza (Cfr: TAR Campania, Sez. V, 03.02.2005, n.
764). Motivazione che, nel caso di specie, con tutta
evidenza, è mancata.
Ed è altresì fondata la censura con la quale è stata dedotta
la violazione del D.L.vo n. 152/2006 e segnatamente
dell’art. 192 del codice dell’ambiente. In relazione a
questa norma, infatti, la giurisprudenza ha evidenziato in
numerose occasioni (ex multis, cfr.: TAR Campania,
sez. V, 06.10.2008, n. 13004) che, in caso di rinvenimento
di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario o
comunque il titolare in uso di fatto del terreno non può
essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono
o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se
non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del
dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può
essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I;
19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di
S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 16.05.2013 n. 2549 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
Come risulta dagli atti,
la progettazione e la realizzazione dell’edificio
industriale assentito con l’impugnata concessione edilizia
non è imputabile unicamente -o comunque, in modo prevalente-
al Geometra ma anche ad altri professionisti laureati, e,
soprattutto, proprio per le opere in conglomerato
cementizio, circostanza peraltro già evidente prima del
rilascio della concessione stessa.
Del resto, in materia di progettazione di opere private,
deve ritenersi senz’altro consentito l’intervento di un
ingegnere (o di un architetto) ad integrazione dei limiti
della competenza dei geometri, dal momento che la finalità
delle norme a disciplina delle competenze professionali
degli ingegneri è quella di assicurare l’incolumità delle
persone e ciò ben può ravvisarsi nei casi in cui essi
provvedano ai calcoli statici delle strutture ed alla
verifica della loro idoneità, anziché alla redazione
integrale del progetto ed alla direzione altrettanto
integrale dei relativi lavori.
Il 06.04.1990 il Sindaco di Montegranaro ha rilasciato al
sig. Di Battista Vincenzo la concessione edilizia n. 78 per
la costruzione di un edificio industriale in località
Quazzetti, su progetto redatto sia dal Geom. Angelo
Squarcia, indicato anche come direttore dei lavori, sia
dall’ing. Paolo Enrico Svampa, indicato quale progettista e
direttore delle opere in conglomerato cementizio.
La concessione edilizia è stata impugnata dall’Ordine degli
Ingegneri di Ascoli Piceno con il ricorso in epigrafe
indicato, notificato il 02.06.1990 e depositato 12
successivo, deducendosene l’illegittimità per violazione
delle norme che disciplinano la competenza professionale dei
geometri, in quanto la progettazione dell’opera assentita,
per la sua consistenza, destinazione, ubicazione in zona
sismica ed impiego di strutture in cemento armato, è da
annoverarsi tra quelle riservate alla competenza
professionale degli ingegneri.
Nelle more del deposito del ricorso, il titolare della
concessione, con nota inviata al Comune di Montegranaro il
21.06.1990 e con riferimento a quanto già comunicato il
27.04.1990 nella denuncia depositata presso il Servizio
regionale decentrato oo.pp. di Ascoli Piceno (ex Genio
civile) ai sensi dell’art. 17 della legge n. 64/1974, ha
però, indicato il Geom. Angerlo Squarcia come progettista e
direttore dei lavori non strutturali, l’Ing. Silvano Rometta
come progettista delle strutture prefabbricate, l’ing.
Alberto Del Lago come progettista del tegolo prefabbricato “Ondal”,
l’ing. Paolo Enrico Svampa come progettista e direttore dei
lavori delle strutture in opera, l’ing. Gianni Sellavita
come direttore delle strutture prefabbricate, l’Arch. Fabio
Marcaccioli come direttore di montaggio delle strutture
prefabbricate ed il Geom. Maurizio Manfredini come capo
cantiere delle strutture prefabbricate.
Il 23.07.1990 si è costituito in giudizio il Geom. Angerlo
Squarcia, il cui difensore ha depositato il 18.01.2008 la
sua dichiarazione dell’11.04.1991 in merito all’attività
professionale effettivamente svolta (rilievi e pratiche
catastali, stesura grafica del progetto sulla base delle
bozze dell’Ing. Svampa, progettazione sistemazione area di
pertinenza, compilazione ed inoltro pratica edilizia,
rapporti con il cliente e con la società fornitrice dei
prefabbricati, operazioni topografiche di cantiere, misura e
contabilità dei lavori) nonché copia della relazione di
collaudo dell’Ing. Alteriano Renzi, depositata il 9.8.1991
presso il Servizio regionale decentrato oo.pp. di Ascoli
Piceno: con memoria depositata l’08.02.2008 ha, quindi,
replicato ai dedotti gravami, chiedendo che il ricorso sia
respinto in quanto infondato.
Le altre parti intimate non si sono costituite in giudizio.
Tanto premesso, il Collegio considera il ricorso infondato
perché, come risulta dagli atti sopra indicati, la
progettazione e la realizzazione dell’edificio industriale
assentito con l’impugnata concessione edilizia, non è
imputabile unicamente -o comunque, in modo prevalente- al
Geom. Angelo Squarcia, ma anche ad altri professionisti
laureati, e, soprattutto, proprio per le opere in
conglomerato cementizio, circostanza peraltro già evidente
prima del rilascio della concessione stessa.
Del resto, in materia di progettazione di opere private,
deve ritenersi senz’altro consentito l’intervento di un
ingegnere (o di un architetto) ad integrazione dei limiti
della competenza dei geometri, dal momento che la finalità
delle norme a disciplina delle competenze professionali
degli ingegneri è quella di assicurare l’incolumità delle
persone e ciò ben può ravvisarsi nei casi in cui essi
provvedano ai calcoli statici delle strutture ed alla
verifica della loro idoneità, anziché alla redazione
integrale del progetto ed alla direzione altrettanto
integrale dei relativi lavori (TAR Marche,
sentenza 13.03.2008 n. 194 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
Il Collegio non intende disconoscere il più
recente orientamento della giurisprudenza amministrativa che
propende per l’esclusione dalla competenza dei geometri
della progettazione di co-struzioni civili che comportano
l’adozione di strutture in cemento armato, con la sola
eccezione delle piccole costruzioni accessorie nell’ambito
degli edifici rurali o destinate ad industrie agricole che
non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non comportano pericolo per la persona.
Per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, non può
tuttavia essere ignorato che la legittimità degli atti
impugnati deve necessariamente essere valutata alla luce
dell’orientamento giurisprudenziale prevalente alla data di
rilascio delle concessioni edilizie oggetto di gravame (anni
1991/1992/1993), in tema di competenza progettuale dei
geometri che, per quanto concerne il parametro della
modestia delle costruzioni, caratterizzante tale competenza
professionale non aveva fornito univoci responsi,
soprattutto per quanto concerne l’individuazione dei limiti
volumetrici delle costruzioni esorbitanti tale competenza
progettuale, dal momento che l’art. 2 della legge
05.11.1971, n. 1086, recante la disciplina delle opere di
conglomerato cementizio armato normale precompresso ed a
struttura metallica non esclude in assoluto la competenza
dei geometri.
Ciò comporta che, alla luce delle genericità degli elementi
di discrimine tra la competenza professionale degli
ingegneri e dei geometri individuati dalla giurisprudenza
alla data d’adozione degli atti impugnati in questa sede, il
Collegio ritiene che gli stessi siano da valutare immuni dai
vizi denunciati dalla parte ricorrente, in quanto la
sottoscrizione dei progetti da parte di un geometra non può
essere di per sé ritenuta elusiva della riferita disciplina
in materia di opere in cemento armato, se si considera che,
come risulta provato in atti, i calcoli relativi alla
struttura in conglomerato cementizio dell’edificio oggetto
di concessione edilizia allegati al progetto sono stati
elaborati da un ingegnere che ha provveduto anche
all’effettuazione del collaudo statico degli elementi in
calcestruzzo armato e dell’intero fabbricato, garantendo in
tal modo l’affidabilità tecnica e strutturale della stessa,
ai fini della salvaguardia dell’incolumità delle persone che
la giurisprudenza si preoccupa di assicurare attraverso la
collaborazione tecnica e professionale degli ingegneri.
Il coinvolgimento nell’attività di progettazione degli
elementi strutturali dell’edificio di un ingegnere, ad
avviso del Collegio, contribuisce, quindi, nel caso che
occupa a legittimare l’attività progettuale del geometra che
ha sottoscritto gli elaborati grafici ed a dare necessarie
garanzie di professionalità all’intera attività di
elaborazione tecnica dell’intervento costruttivo in termini
di affidabilità statica ed edilizia.
Ad identiche conclusioni d’infondatezza conduce anche
l’esame della residua censura preordinata a far dipendere la
dedotta illegittimità delle impugnate concessioni edilizie
dalla circostanza che i progetti della costruzione con le
medesime assentiti sono stati sottoscritti da un geometra,
anziché da un ingegnere o da un architetto.
Al riguardo il Collegio non intende disconoscere il più
recente orientamento della giurisprudenza amministrativa che
propende per l’esclusione dalla competenza dei geometri
della progettazione di co-struzioni civili che comportano
l’adozione di strutture in cemento armato, con la sola
eccezione delle piccole costruzioni accessorie nell’ambito
degli edifici rurali o destinate ad industrie agricole che
non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non comportano pericolo per la persona
(ex multis, Cons. St., sez. V, 31.01.2001, n. 348).
Per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, non può
tuttavia essere ignorato che la legittimità degli atti
impugnati deve necessariamente essere valutata alla luce
dell’orientamento giurisprudenziale prevalente alla data di
rilascio delle concessioni edilizie oggetto di gravame (anni
1991/1992/1993), in tema di competenza progettuale dei
geometri che, per quanto concerne il parametro della
modestia delle costruzioni, caratterizzante tale competenza
professionale non aveva fornito univoci responsi,
soprattutto per quanto concerne l’individuazione dei limiti
volumetrici delle costruzioni esorbitanti tale competenza
progettuale, dal momento che l’art. 2 della legge
05.11.1971, n. 1086, recante la disciplina delle opere di
conglomerato cementizio armato normale precompresso ed a
struttura metallica non esclude in assoluto la competenza
dei geometri (Corte Cost., 19/27.04.1993, n. 199).
Ciò comporta che, alla luce delle genericità degli elementi
di discrimine tra la competenza professionale degli
ingegneri e dei geometri individuati dalla giurisprudenza
alla data d’adozione degli atti impugnati in questa sede, il
Collegio ritiene che gli stessi siano da valutare immuni dai
vizi denunciati dalla parte ricorrente, in quanto la
sottoscrizione dei progetti da parte di un geometra non può
essere di per sé ritenuta elusiva della riferita disciplina
in materia di opere in cemento armato, se si considera che,
come risulta provato in atti, i calcoli relativi alla
struttura in conglomerato cementizio dell’edificio oggetto
di concessione edilizia allegati al progetto sono stati
elaborati da un ingegnere che ha provveduto anche
all’effettuazione del collaudo statico degli elementi in
calcestruzzo armato e dell’intero fabbricato (vedi
certificato di collaudo a firma dell’ing. Carlo Cingolani
del 27.08.1993 in atti), garantendo in tal modo
l’affidabilità tecnica e strutturale della stessa, ai fini
della salvaguardia dell’incolumità delle persone che la
giurisprudenza si preoccupa di assicurare attraverso la
collaborazione tecnica e professionale degli ingegneri.
Il coinvolgimento nell’attività di progettazione degli
elementi strutturali dell’edificio di un ingegnere, ad
avviso del Collegio, contribuisce, quindi, nel caso che
occupa a legittimare l’attività progettuale del geometra che
ha sottoscritto gli elaborati grafici ed a dare necessarie
garanzie di professionalità all’intera attività di
elaborazione tecnica dell’intervento costruttivo in termini
di affidabilità statica ed edilizia.
In conclusione, dalle considerazioni che precedono discende
che il ricorso deve essere in parte dichiarato improcedibile
per sopravvenuta carenza d’interesse, per quanto riguarda le
censure preordinate a denunciare, attraverso il rilascio
delle concessioni edilizie oggetto di impugnativa,
l’avvenuta realizzazione di abusi edilizi a fronte
dell’inter-venuta loro regolarizzazione in pendenza del
giudizio con il rilascio di apposita concessione in
sanatoria (TAR Marche,
sentenza 23.11.2001 n. 1220 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.10.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: |
dal 19.08.2014,
data di entrata in vigore delle modifiche apportate
dalla legge n. 114/2014 al d.l. n. 90/2014,
i comuni,
come tutte le altre pubbliche amministrazioni,
devono
fare riferimento,
per la disciplina degli incentivi al personale
interno incaricato di attività tecniche nell’ambito
del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di
un’opera pubblica,
alla nuova
disciplina legislativa, con conseguente necessaria
adozione di un nuovo regolamento interno che
stabilisca la percentuale massima destinata a tali
compensi
(comma 7-bis)
e un nuovo accordo
integrativo decentrato, da recepire nel regolamento,
che stabilisca i criteri di ripartizione
(comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle
novità normative, fra le quali spicca l’esclusione,
fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del
personale con qualifica dirigenziale. |
QUINDI?? |
Quindi, dal
19.08.2014 se non si adotta
(alla svelta, dato che i provvedimenti amministrativi
non hanno efficacia retroattiva)
il nuovo regolamento
interno,
previo nuovo accordo decentrato,
l'incentivo alla
progettazione non potrà essere riconosciuto
(liquidato)
... detto altrimenti, le (eventuali) prestazioni svolte
saranno state rese a titolo gratuito
(con gli
impliciti ringraziamenti dell'Amministrazione di
appartenenza). |
NON SOLO: |
vale la pena di ricordare (poiché, forse, il
concetto non è stato ben memorizzato dagli
interessati) che
al R.U.P. spetta
l'incentivo
(pro-quota regolamentare)
solamente se la
redazione dell’atto sia avvenuta all’interno
dell’ente.
Qualora sia avvenuta all’esterno la stessa
non è idonea a far sorgere il diritto di alcun
compenso in capo ai dipendenti degli uffici tecnici
dell’ente.
13.10.2014 - LA SEGRETERIA PTPL
|
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Se sia possibile il riconoscimento del diritto agli
incentivi in capo al RUP nel caso di progettazione
affidata all’esterno dell’Ente, pur in
presenza dello svolgimento interno di altre fasi
della realizzazione dell’opera (nello specifico,
direzione lavori e collaudo).
L’art. 13 del
decreto legge n. 90/2014 ha abrogato i commi 5 e 6
dell’articolo 92 del codice dei contratti.
Peraltro, contestualmente la stessa normativa ha introdotto,
nel successivo articolo 93, commi 7-bis e seguenti, una
disciplina degli incentivi alla progettazione del tutto
analoga –per quanto qui interessa– alla precedente.
La modifica di maggior sostanza, infatti,
attiene alle
modalità di determinazione della provvista per l’erogazione
degli incentivi: mentre in precedenza la determinazione del
compenso e la sua ripartizione avveniva per ogni singola
opera o lavoro appaltato, nell’attuale previsione normativa
le risorse destinate, in misura non superiore al 2 per cento
degli importi posti a base di gara di un’opera o di un
lavoro, vengono fatte confluire in un apposito “Fondo per
la progettazione e l’innovazione”.
Le modalità e i criteri di ripartizione, nello specifico,
sono demandati ad un apposito regolamento
dell’amministrazione.
I
parametri normativi per l’erogazione sono rimasti i
medesimi: la ripartizione avviene “tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono
comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali
a carico dell'amministrazione”.
Non sussistono motivi, pertanto, per discostarsi dalla
lettura interpretativa espressa dalla Sezione e richiamata
dall’Ente nel corpo del parere.
Va ribadito che
la norma, laddove circoscrive il compenso al responsabile
del procedimento e gli incaricati della redazione del
progetto, “àncora chiaramente il riconoscimento del diritto
ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto sia avvenuta all’interno dell’ente.
Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere
il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli
uffici tecnici dell’ente”.
In conclusione, “con specifico riferimento alla figura del
responsabile del procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che
questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei
singoli regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai
sensi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n.
163/2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo,
ovviamente sempre in relazione ad atti di progettazione
collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre
sottolineare, però, che la sua partecipazione alla
ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5
dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in
ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo
svolgimento interno dell’attività di progettazione. In
sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti
i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno
diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente,
a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al
contrario, l’attività sopra specificata venga svolta
all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione
di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio non vi è
neppure un autonomo diritto del responsabile del
procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al
contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio”.
Non induce a difforme conclusione la circostanza che da tale
disciplina siano esclusi i dirigenti:
si tratta, infatti, di scelta legislativa
discrezionale volta a ritenere prevalente, per tale
categoria di dipendenti, il principio di onnicomprensività
della retribuzione in relazione all’ampiezza di compiti e
responsabilità che gravano sui dirigenti.
---------------
Il sindaco del Comune di Venaria Reale, con nota n. 19163
del 11.09.2014, chiedeva all’adita Sezione
l’espressione di un parere in ordine alla corresponsione
degli incentivi alla progettazione di cui all’articolo 93
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
In particolare, il Sindaco del comune di Venaria Reale,
ricordata l’avvenuta abrogazione dei commi 5 e 6 dell’art.
92 del citato decreto ad opera dell’articolo 13 del d.l. n.
90/2014, convertito nella legge n. 114/2014, ed il
contestuale inserimento dei commi 7-bis e seguenti
all’interno dell’articolo 93 del codice dei contratti,
chiede se sia possibile riconoscere l’incentivo alla
progettazione in caso di:
a) progettazione esterna, direzione lavori interna e
collaudo esterno;
b) progettazione, direzione lavori e collaudo esterni.
...
Il comune di Venaria Reale, richiamate le novità normative
introdotte dal decreto legge 24.06.2014, n. 90 –così
come convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114– chiede
se sia possibile il riconoscimento del diritto agli
incentivi in capo al RUP nel caso di progettazione affidata
all’esterno dell’Ente, pur in presenza dello svolgimento
interno di altre fasi della realizzazione dell’opera (nello
specifico, direzione lavori e collaudo).
Come evidenziato dallo stesso Ente, l’articolo 13 del
decreto legge n. 90/2014 ha abrogato i commi 5 e 6
dell’articolo 92 del codice dei contratti.
Peraltro, contestualmente la stessa normativa ha introdotto,
nel successivo articolo 93, commi 7-bis e seguenti, una
disciplina degli incentivi alla progettazione del tutto
analoga –per quanto qui interessa– alla precedente.
La modifica di maggior sostanza, infatti,
attiene alle
modalità di determinazione della provvista per l’erogazione
degli incentivi: mentre in precedenza la determinazione del
compenso e la sua ripartizione avveniva per ogni singola
opera o lavoro appaltato, nell’attuale previsione normativa
le risorse destinate, in misura non superiore al 2 per cento
degli importi posti a base di gara di un’opera o di un
lavoro, vengono fatte confluire in un apposito “Fondo per
la progettazione e l’innovazione”.
Le modalità e i criteri di ripartizione, nello specifico,
sono demandati ad un apposito regolamento
dell’amministrazione.
Al di là delle modalità di collazione delle risorse,
i
parametri normativi per l’erogazione sono rimasti i
medesimi: la ripartizione avviene “tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono
comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali
a carico dell'amministrazione”.
Non sussistono motivi, pertanto, per discostarsi dalla
lettura interpretativa espressa dalla Sezione e richiamata
dall’Ente nel corpo del parere.
Ciò posto, come già chiarito con il
parere 30.08.2012 n. 290 e
parere 19.12.2013 n. 434,
va ribadito che
la norma, laddove circoscrive il compenso al responsabile
del procedimento e gli incaricati della redazione del
progetto, “àncora chiaramente il riconoscimento del diritto
ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto sia avvenuta all’interno dell’ente.
Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere
il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli
uffici tecnici dell’ente”.
In conclusione, “con specifico riferimento alla figura del
responsabile del procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che
questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei
singoli regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai
sensi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n.
163/2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo,
ovviamente sempre in relazione ad atti di progettazione
collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre
sottolineare, però, che la sua partecipazione alla
ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5
dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in
ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo
svolgimento interno dell’attività di progettazione. In
sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti
i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno
diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente,
a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al
contrario, l’attività sopra specificata venga svolta
all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione
di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio non vi è
neppure un autonomo diritto del responsabile del
procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al
contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio”.
Non induce a difforme conclusione la circostanza che da tale
disciplina siano esclusi i dirigenti (l’ultimo periodo
dell’articolo 93, comma 7-ter, cod. contr., prevede che “Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale”): si tratta, infatti, di scelta legislativa
discrezionale volta a ritenere prevalente, per tale
categoria di dipendenti, il principio di onnicomprensività
della retribuzione in relazione all’ampiezza di compiti e
responsabilità che gravano sui dirigenti (Corte dei Conti,
Sez. controllo Piemonte,
parere
02.10.2014 n. 197). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: A decorrere dall’entrata in vigore della
legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i
comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni,
devono fare riferimento, per la disciplina degli incentivi
al personale interno incaricato di attività tecniche
nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione
di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con
conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento
interno che stabilisca la percentuale massima destinata a
tali compensi (comma 7-bis)
e un nuovo accordo integrativo
decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i
criteri di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno
adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca
l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del
personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo
periodo).
La nuova disciplina si pone in sostanziale prosecuzione
della precedente, prevedendo esplicitamente che beneficiari
dei compensi in discorso possano essere i dipendenti interni
incaricati delle funzioni di responsabile del procedimento,
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro
collaboratori.
Allo stesso modo la nuova disciplina
ribadisce la confluenza in economia delle quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
dipendenti sopra indicati, ma affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione (ovvero prive, novità
normativa, dell’accertamento dell'effettivo rispetto, nella
fase realizzativa dell'opera, dei tempi e dei costi previsti
dal quadro economico del progetto esecutivo).
---------------
E'
stato sottolineato come la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta
nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli
incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione
in materia di contratti pubblici.
Quest’ultima (cfr.
artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006)
è informata da un principio generale, codificato
anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base
al quale i predetti
incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al
plesso amministrativo solo se non si disponga di
professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza
non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di
gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a
preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il
personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie)
in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale
interno occorre far riferimento, ai fini della loro
remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico
impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due
principi cardine, quello di definizione contrattuale delle
componenti economiche e quello di onnicomprensività della
retribuzione (cfr.
artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
---------------
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui denominazione
risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994),
costituisce uno di quei casi nei quali il
legislatore, derogando al principio per cui il trattamento
economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un
compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti
dell’amministrazione aggiudicatrice ed alla contrattazione
decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione. In
quanto tale costituisce un’eccezione di stretta
interpretazione con divieto di analogia (art. 12 delle
diposizioni preliminari al codice civile).
---------------
La legge pone
alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014,
risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a
mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del
fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a
base di gara).
I punti fermi che il regolamento interno
deve rispettare
sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di
un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non
richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario
espletamento interno di una o più attività (per esempio, la
progettazione), purché il regolamento ripartisca gli
incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite
e devolva in economia la quota relativa agli incarichi
conferiti a professionisti esterni;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli
incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei
lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione;
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti
interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in
conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità
discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli
incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di
conversione n. 114/2014).
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Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai
fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla
normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare,
dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale
“le amministrazioni pubbliche non possono erogare
trattamenti economici accessori che non corrispondano alle
prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore
anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto
che il nuovo art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006
(riprendendo analoga formulazione del precedente art. 92,
comma 5) dispone che “la corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti”. Nel caso in cui tale accertamento sia invece
negativo, scatta la medesima regola della devoluzione in
economia esaminata in precedenza.
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Il Sindaco del comune di Settala, con nota del 06.06.2014, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto
i compensi incentivanti previsti dall’art. 92, comma 5, del
d.lgs. n. 163/2006, oggetto di recente abrogazione ad opera
dell’art. 13 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n.
114/2004, ma la cui disciplina è confluita nei nuovi commi 7-bis, 7-ter e 7-quater dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006,
inseriti dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014.
Premette che, nella recente giurisprudenza, relativamente a
casistiche che prevedono l'affidamento all'esterno
dell'attività di progettazione di opere/lavori, si
riscontrerebbero interpretazioni e posizioni contrastanti.
Infatti, la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti
della Calabria, in un giudizio di responsabilità, con
sentenza
03.02.2014 n. 22 ha affermato che, nel caso di progettazione
esterna di un’opera pubblica, l'unico incentivo
legittimamente percepibile dai dipendenti dell'Ente, è
quello correlato all'attività di responsabile di
procedimento (RUP).
Di contro, la Corte dei conti, Sezione regionale di
controllo del Piemonte, con
parere 28.02.2014 n. 39 ha affermato
quanto segue: “in relazione specifica poi alla posizione del
responsabile del procedimento (RUP), si osserva che questi
normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli
regolamenti degli Enti, attuativi del citato comma 5
dell'art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, prende parte alla
ripartizione dell'incentivo in relazione ad atti di
progettazione interna collegati alla realizzazione di opere
pubbliche. La partecipazione del responsabile del
procedimento al riparto degli emolumenti, tuttavia, non
avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al
complessivo svolgimento interno dell'attività di
progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta
internamente, tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo,
collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del
regolamento dell'Ente, a partecipare alla distribuzione
dell'incentivo. Viceversa nel caso contrario in cui
l'attività venga svolta all'esterno, non sorgendo il
presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari
dipendenti dell'ufficio, non vi é neppure un autonomo
diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un
compenso per un'attività che, al contrario, rientra fra i
suoi compiti e doveri d'ufficio (cfr. Sez. contr. Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290)”.
Facendo quindi riferimento alla circostanza in cui
l'attività di progettazione di un’opera/lavoro pubblico,
viene affidata e svolta da un professionista esterno
all'Ente, il Comune chiede se sia corretto o meno
riconoscere al dipendente comunale interno, nominato
responsabile unico del procedimento (RUP), in ragione delle
particolari responsabilità cui è soggetto (identiche sia nei
casi di progettazione interna che esterna), il compenso
incentivante in argomento secondo la percentuale
(ulteriormente ridotte in presenza di incarichi esterni di
supporto tecnico-amministrativo alle attività del
responsabile del procedimento) definita nell'apposito
regolamento vigente nell'Ente.
...
Risulta necessario premettere che l’art. 92, comma 5, del
d.lgs. n. 163/2006, su cui si incentra la richiesta di
parere, risulta abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014,
convertito con legge n. 114/2014. Tuttavia, il legislatore
ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un
incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono
conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo
ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per la
progettazione e l’innovazione” previsto dall’art. 13-bis
della legge n. 114/2014.
Quest’ultima norma ha inserito,
nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n.
163/2006, quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies), il cui contenuto si riporta per comodità
espositiva: "7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le
amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la
progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è
stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione,
in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da
realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo
per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma
7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso
d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo
del presente comma, non sono computati nel termine di
esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per
accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a),
b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli
incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno
al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non
possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie
del fondo per la progettazione e l'innovazione è destinato
all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di
implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa per centri di costo
nonché all'ammodernamento e all'accrescimento
dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti
di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono
adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli
di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente
articolo.".
Di conseguenza, a decorrere dall’entrata in vigore della
legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i
comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni,
dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi
al personale interno incaricato di attività tecniche
nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione
di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con
conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento
interno che stabilisca la percentuale massima destinata a
tali compensi (comma 7-bis)
e un nuovo accordo integrativo
decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i
criteri di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno
adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca
l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del
personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo
periodo).
Circa il quesito specifico posto dal Comune istante, invece,
la nuova disciplina si pone in sostanziale prosecuzione
della precedente, prevedendo esplicitamente che beneficiari
dei compensi in discorso possano essere i dipendenti interni
incaricati delle funzioni di responsabile del procedimento,
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro
collaboratori.
Allo stesso modo la nuova disciplina
ribadisce la confluenza in economia delle quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
dipendenti sopra indicati, ma affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione (ovvero prive, novità
normativa, dell’accertamento dell'effettivo rispetto, nella
fase realizzativa dell'opera, dei tempi e dei costi previsti
dal quadro economico del progetto esecutivo).
I dubbi posti dal Comune istante sono stati ampiamente
oggetto dell’attività consultiva della magistratura
contabile, con motivazioni e conclusioni che, sul punto,
permangono valide, anche alla luce della nuova disciplina
legislativa (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57 e
parere 30.05.2012 n. 259).
Prima
di richiamarli è opportuno precisare come non emergono,
dalla lettura dei precedenti richiamati nell’istanza di
parere,
sentenza 03.02.2014 n. 22 della Sezione giurisdizionale per la
Calabria e
parere 28.02.2014 n. 39 della Sezione
Piemonte, i profili di contrasto
interpretativo evidenziati dal Comune. La deliberazione
della Sezione Piemonte, infatti, ribadisce l’orientamento
delle Sezioni di controllo (attribuzione dell’incentivo per
le sole attività concretamente affidate ed espletate, con
confluenza in economia delle quote parti del fondo
incentivante corrispondenti agli incarichi affidati
all’esterno), mentre la pronuncia giurisdizionale si
riferisce a fattispecie specifica in cui è stata accertata
l’illegittima erogazione di somme a titolo di progettazione,
non per l’espletamento delle attività di responsabile del
procedimento.
Nelle deliberazioni della Sezione
parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453, dopo averne richiamato il tenore letterale, è
stato sottolineato come la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta
nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli
incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione
in materia di contratti pubblici. Quest’ultima
(cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006)
è informata da un principio generale, codificato
anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base
al quale i predetti
incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al
plesso amministrativo solo se non si disponga di
professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza
non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di
gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a
preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il
personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie)
in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale
interno occorre far riferimento, ai fini della loro
remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico
impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due
principi cardine, quello di definizione contrattuale delle
componenti economiche e quello di onnicomprensività della
retribuzione (cfr.
artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte
dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia,
sentenza 20.07.2010 n. 464,
sentenza 22.07.2010 n. 475 e
sentenza 02.08.2010 n. 487).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Tuttavia, la fonte legislativa, oltre a disciplinare la
struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico
impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in
omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla
Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del
trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti
posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella
legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici
compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice
dei contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e
seguenti).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui denominazione
risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994),
costituisce, infatti, uno di quei casi nei quali il
legislatore, derogando al principio per cui il trattamento
economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un
compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti
dell’amministrazione aggiudicatrice ed alla contrattazione
decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione. In
quanto tale costituisce un’eccezione di stretta
interpretazione con divieto di analogia (art. 12 delle
diposizioni preliminari al codice civile, cfr. altresì
Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone
alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014,
risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a
mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del
fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a
base di gara).
Limitando l’analisi ai soli quesiti avanzati dal comune
istante, i punti fermi che il regolamento interno deve
rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di
derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire
compensi non previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione)
sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di
un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non
richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario
espletamento interno di una o più attività (per esempio, la
progettazione), purché il regolamento ripartisca gli
incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite
e devolva in economia la quota relativa agli incarichi
conferiti a professionisti esterni;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli
incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei
lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione (si rinvia all'Autorità di vigilanza
con la
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18
e
deliberazione 02.05.2001 n. 150);
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti
interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in
conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità
discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli
incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di
conversione n. 114/2014).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai
fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla
normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare,
dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale
“le amministrazioni pubbliche non possono erogare
trattamenti economici accessori che non corrispondano alle
prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore
anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto
che il nuovo art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006
(riprendendo analoga formulazione del precedente art. 92,
comma 5) dispone che “la corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti”. Nel caso in cui tale accertamento sia invece
negativo, scatta la medesima regola della devoluzione in
economia esaminata in precedenza (cfr. in tal senso, sia
pure nel previgente contesto normativo, la
deliberazione 22.06.2005 n. 69
dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 247). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Dal Sindaco
del Comune di Gorlago sono stati
esplicitati i seguenti quesiti:
1) se gli interventi citati
nella stessa nota, realizzati su progetto e sotto la
direzione del personale dell'ufficio tecnico comunale,
rientrano nel concetto di opere e/o lavori soggetti
all'applicazione dell'incentivo in parola. Inammissibile;
2)
se l'importo del progetto, e il fatto di essere o meno
inserito nell'elenco annuale delle opere pubbliche,
pregiudica l'applicazione dell'incentivo di cui sopra;
3) se
le opere di manutenzione sono completamente escluse
dall'applicazione del predetto incentivo, oppure è
necessario valutare, caso per caso, lo svolgimento di
un'attività progettuale da parte dell'ufficio tecnico.
In
merito al secondo quesito, non si rinviene alcuna
limitazione normativa quantitativa nel nuovo art. 93, commi
7-bis e 7-ter, citati, rimettendosi, invece,
all’amministrazione la possibilità di introdurre dei limiti,
specificando espressamente come l’ammontare effettivo del
fondo per la progettazione e l’innovazione, costituito da
una somma non superiore al 2% dell’importo posto a base di
gara, debba essere stabilito “in rapporto all'entità e alla
complessità dell'opera da realizzare”.
Soluzione negativa va
data in riscontro al terzo quesito a seguito dell’entrata in
vigore della novella del 2014 (L. n. 114/2014).
---------------
A decorrere dall’entrata in vigore della
legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i
comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni,
dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi
al personale interno, incaricato di attività tecniche
nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione
di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con
conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che
stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi
(comma 7-bis) ed un accordo integrativo decentrato, da
recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri
di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno adeguarsi
alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra
i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con
qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
---------------
E' stato sottolineato come la
disciplina (oggi avente fonte nell’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel
complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli
incarichi tecnico-professionali, previste dalla legislazione
in materia di contratti pubblici.
Quest’ultima
(cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs.
163/2006) è informata da un
principio
(codificato in linea generale anche dall’art. 7,
comma 6, del d.lgs. n. 165/2001),
in base al quale i predetti incarichi possono essere
conferiti a soggetti esterni al plesso
amministrativo solo se non si disponga di
professionalità adeguate nel proprio organico e tale
carenza non sia altrimenti colmabile con strumenti
flessibili di gestione delle risorse umane. Tale
presupposto mira a preservare le finanze pubbliche,
oltre che a valorizzare il personale interno alle
amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la
legge considera ordinarie) in cui gli incarichi
tecnici siano espletati da personale interno,
occorre far riferimento, ai fini della loro
remunerazione, alle regole generali previste per il
pubblico impiego, il cui sistema retributivo è
conformato da due principi cardine, quello di
definizione contrattuale delle componenti economiche
e quello di onnicomprensività della retribuzione.
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Tuttavia, la legge, oltre a disciplinare la struttura ed i
livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt.
2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001), può, in omaggio al generale
sistema delle fonti previsto dalla Costituzione,
disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento
economico
nonché attribuire ulteriori specifici compensi
(come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei
contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e seguenti).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” costituisce, infatti,
uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al
principio per cui il trattamento economico è fissato dai
contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e
speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione ed
alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di
ripartizione.
Come tale l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 (e, oggi,
l’art. 93, commi 7-bis e seguenti)
costituisce un’eccezione di stretta interpretazione,
per la quale sussiste il divieto di analogia posto
dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice
civile.
---------------
La legge pone
alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014,
risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a
mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del
fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a
base di gara).
Limitando l’analisi ai quesiti avanzati dal comune istante,
si evidenzia come la norma come non richieda un limite
d’importo minimo dei lavori o opere, oggetto di
aggiudicazione/esecuzione, al fine di costituire il “fondo
per la progettazione e l’innovazione”. I limiti d’importo,
indicati dall’art. 128 del medesimo decreto legislativo al
fine di includere un’opera o lavoro nella programmazione
triennale e annuale, esplicano, infatti, la propria portata
applicativa alla specifica materia, mentre non si rinviene
alcuna limitazione quantitativa nel nuovo art. 93, commi 7-bis e 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 (cosi come non
sussisteva nella previgente disciplina, avente fonte
nell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006).
La legge rimette, invece, all’amministrazione la possibilità
di introdurre dei limiti, specificando espressamente come
l’ammontare effettivo del fondo, costituito da una somma non
superiore al 2% dell’importo posto a base di gara, deve
essere stabilito “in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare”.
Di conseguenza, nell’esercizio della propria
discrezionalità, l’amministrazione potrà prevedere aliquote
percentuali meno elevate del 2% per le opere ed i lavori
aventi importo inferiore a determinate soglie (che siano
quelle previste per l’inserimento nell’elenco annuale ex
art. 128 del d.lgs. n. 163/2006 o altre prestabilite).
Inoltre potrà prevedere, come ancora la norma permette, una
diversa quantificazione del fondo anche in relazione alla
tipologia qualitativa dell’opera o lavoro da aggiudicare ed
eseguire, valutandone preventivamente la maggiore o minore
complessità.
---------------
I paletti che il regolamento
interno deve rispettare
in punto di lavori di
manutenzione sono stati esplicitati nelle precedenti
deliberazioni della Sezione di cui al
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 15.10.2013 n. 442,
le cui conclusioni permangono valide per le attività
espletate, ma non ancora liquidate,
sino
alla data di entrata in vigore della legge n. 114/2014.
In quelle occasioni era stato evidenziato come l’incentivo
alla progettazione non possa essere riconosciuto per
qualunque lavoro di manutenzione ordinaria o straordinaria
effettuato sui beni dell’ente locale, ma solo per quelli
alla cui base vi sia un’attività di progettazione. Vi
esulavano, pertanto, tutti quei lavori manutentivi per la
cui realizzazione non era necessaria un’attività
progettuale, come delineata negli articoli 90, 91 e 92 del
decreto n. 163/2006.
Tale conclusione, frutto di un’interpretazione sistematica
dell’articolato normativo, va rivista per gli incarichi
tecnici attribuiti per opere e lavori aggiudicati ed
eseguiti dopo l’entrata in vigore della legge n. 114/2014
che, nel disciplinare il nuovo “fondo per la progettazione e
l’innovazione”, ha espressamente escluso le attività
manutentive da quelle oggetto di incentivazione.
Di
conseguenza, il regolamento di costituzione del fondo (art.
93, comma 7-bis, d.lgs. n. 163/2006) e quello di
ripartizione (ex art. 93, comma 7-ter, quest’ultimo adottato
previa contrattazione integrativa decentrata)
non potranno
più prevedere forme di incentivazione per il personale
interno cui sono conferiti gli incarichi previsti dalla
norma (RUP, progettista, direttore dei lavori, etc.) in caso
di lavori qualificabili, ai sensi del codice dei contratti e
del regolamento di attuazione (DPR n. 207/2010), e relativi
allegati, come lavori di manutenzione (a prescindere dalla
presenza o meno, all’interno del relativo procedimento di
aggiudicazione, di un’attività di progettazione).
---------------
Il Sindaco del comune di Gorlago, con nota del 25.06.2014, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto
i compensi incentivanti previsti dall’art. 92 del d.lgs. n.
163/2006 (oggetto di recente abrogazione ad opera dell’art.
13 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2004, ma
la cui disciplina è confluita nei nuovi commi 7-bis, 7-ter e
7-quater dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, inseriti
dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014).
In particolare i quesiti vertono sull'applicazione
dell'incentivo al personale interno dell'ufficio tecnico
coinvolto nell'attività di progettazione relativa ai
seguenti interventi sul patrimonio immobiliare comunale:
- asfaltatura e manutenzione dei manti stradali, consistente
nella realizzazione di nuovi tappeti bituminosi; rettifica
di marciapiedi con la rimozione e posa di nuovi cordoli;
opere complementari. Importo totale di progetto: €
57.400,35;
- realizzazione di frangisole della nuova biblioteca
comunale, consistente nell'ideazione progettuale e nella
realizzazione di una struttura esterna atta a proteggere
l'edificio dal sole. Importo totale di progetto: €
20.000,00;
- adeguamento antincendio della palestra e dell'auditorium,
consistente in opere murarie, serramentistiche,
impiantistiche ed affini. Importo totale di progetto €
50.829,65.
Premette che, per la realizzazione dei sopra citati
interventi, è stato individuato il responsabile unico del
procedimento (RUP), sono state seguite dal personale interno
dell'ufficio tecnico comunale le fasi di progettazione,
direzione dei lavori, e contabilità finale, compresa
l'emissione del certificato di regolare esecuzione.
Precisa, altresì, che il Comune di Gorlago è dotato di un
regolamento relativo alla ripartizione dell'incentivo, che
contempla le opere di manutenzione.
L’istanza evidenzia come la fattispecie è stata più volte
esaminata da diverse Sezioni della Corte dei conti (per
esempio, Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72;
parere 15.10.2013 n. 442), dall’esame dei quali risulterebbe condiviso il
concetto di ritenere che sia l'art. 90, che l'art. 92, comma
5, del d.lgs. n. 163/2006 facciano riferimento esclusivamente
ai lavori pubblici, e che quest’ultima norma (la cui
disciplina è oggi refluita nell’art. 93, commi 7-bis e
seguenti, del d.lgs. n. 163/2006) presuppone l'attività di
progettazione, finalizzata alla costruzione dell'opera
pubblica.
Il Comune istante ha pertanto necessità di
chiarire se i lavori sopra elencati possano rientrare nel
concetto di "opera pubblica", avendo le caratteristiche
ascrivibili alla manutenzione ordinaria, straordinaria o di
completamento (detti lavori, dato il non elevato importo,
non risultano inseriti nell'elenco annuale delle opere
pubbliche, alla luce dei limiti di importo previsti
dall’art. 128 del d.lgs. n. 163/2006).
Alla luce di quanto esposto, il Comune pone i seguenti
quesiti:
1) con il primo chiede se le tipologie di interventi citati
in premessa, realizzati su progetto e sotto la direzione del
personale dell'ufficio tecnico comunale, rientrano nel
concetto di opere e/o lavori soggetti all'applicazione
dell'incentivo previsto dall'art. 92 comma 5, del d.lgs. n.
163/2006 (oggi, art. 93, commi 7-bis e seguenti);
2) con il secondo chiede se l'importo del progetto, e il
fatto di essere o meno inserito nell'elenco annuale delle
opere pubbliche, pregiudica l'applicazione dell'incentivo di
cui sopra;
3) con il terzo chiede se le opere di manutenzione sono
completamente escluse dall'applicazione del predetto
incentivo, oppure è necessario valutare, caso per caso, lo
svolgimento di un'attività progettuale da parte dell'ufficio
tecnico.
...
Risulta necessario premettere che l’art. 92, comma 5, del
d.lgs. n. 163/2006, su cui si incentra la richiesta di
parere, risulta abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014,
convertito con legge n. 114/2014. Tuttavia, il legislatore
ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un
incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono
conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo
ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per la
progettazione e l’innovazione” previsto dall’art. 13-bis
della legge n. 114/2014.
Quest’ultimo ha inserito nell’art.
93 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006,
quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies),
il cui contenuto si riporta per comodità espositiva: "7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le
amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la
progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è
stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione,
in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da
realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo
per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma
7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso
d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo
del presente comma, non sono computati nel termine di
esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per
accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a),
b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli
incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno
al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non
possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie
del fondo per la progettazione e l'innovazione è destinato
all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di
implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa per centri di costo
nonché all'ammodernamento e all'accrescimento
dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti
di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono
adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli
di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente
articolo.".
Di conseguenza, a decorrere dall’entrata in vigore della
legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i
comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni,
dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi
al personale interno, incaricato di attività tecniche
nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione
di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con
conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che
stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi
(comma 7-bis) ed un accordo integrativo decentrato, da
recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri
di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno adeguarsi
alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra
i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con
qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
La disciplina del c.d. incentivo alla progettazione
(denominazione risalente all’art. 18 dell’abrogata legge n.
109/1994), in costanza del previgente art. 92, comma 5, del
d.lgs. n. 163/2006, è stata oggetto di costante attenzione
da parte della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione
Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337,
Sezione Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57,
parere 30.05.2012 n. 259,
parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453), alle cui motivazioni e conclusioni può farsi
riferimento per i profili generali.
Nei precedenti indicati è stato sottolineato come la
disciplina (oggi avente fonte nell’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel
complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli
incarichi tecnico-professionali, previste dalla legislazione
in materia di contratti pubblici.
Quest’ultima
(cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs.
163/2006) è informata da un
principio
(codificato in linea generale anche dall’art. 7,
comma 6, del d.lgs. n. 165/2001),
in base al quale i predetti incarichi possono essere
conferiti a soggetti esterni al plesso
amministrativo solo se non si disponga di
professionalità adeguate nel proprio organico e tale
carenza non sia altrimenti colmabile con strumenti
flessibili di gestione delle risorse umane. Tale
presupposto mira a preservare le finanze pubbliche,
oltre che a valorizzare il personale interno alle
amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la
legge considera ordinarie) in cui gli incarichi
tecnici siano espletati da personale interno,
occorre far riferimento, ai fini della loro
remunerazione, alle regole generali previste per il
pubblico impiego, il cui sistema retributivo è
conformato da due principi cardine, quello di
definizione contrattuale delle componenti economiche
e quello di onnicomprensività della retribuzione
(cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001,
nonché Corte dei conti, sezione giurisdizionale per
la Puglia,
sentenza 20.07.2010 n. 464,
sentenza 22.07.2010 n. 475 e
sentenza 02.08.2010 n. 487).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Tuttavia, la legge, oltre a disciplinare la struttura ed i
livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt.
2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001), può, in omaggio al generale
sistema delle fonti previsto dalla Costituzione,
disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento
economico (si rimanda, per esempio, ai precetti posti
dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n.
122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici compensi
(come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei
contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e seguenti).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” costituisce, infatti,
uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al
principio per cui il trattamento economico è fissato dai
contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e
speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione ed
alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di
ripartizione.
Come tale l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 (e, oggi,
l’art. 93, commi 7-bis e seguenti)
costituisce un’eccezione di stretta interpretazione,
per la quale sussiste il divieto di analogia posto
dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice
civile (in
tal senso, cfr. Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone
alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014,
risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a
mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del
fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a
base di gara).
Limitando l’analisi ai quesiti avanzati dal comune istante,
si evidenzia come la norma come non richieda un limite
d’importo minimo dei lavori o opere, oggetto di
aggiudicazione/esecuzione, al fine di costituire il “fondo
per la progettazione e l’innovazione”. I limiti d’importo,
indicati dall’art. 128 del medesimo decreto legislativo al
fine di includere un’opera o lavoro nella programmazione
triennale e annuale, esplicano, infatti, la propria portata
applicativa alla specifica materia, mentre non si rinviene
alcuna limitazione quantitativa nel nuovo art. 93, commi 7-bis e 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 (cosi come non
sussisteva nella previgente disciplina, avente fonte
nell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006).
La legge rimette, invece, all’amministrazione la possibilità
di introdurre dei limiti, specificando espressamente come
l’ammontare effettivo del fondo, costituito da una somma non
superiore al 2% dell’importo posto a base di gara, deve
essere stabilito “in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare”.
Di conseguenza, nell’esercizio della propria
discrezionalità, l’amministrazione potrà prevedere aliquote
percentuali meno elevate del 2% per le opere ed i lavori
aventi importo inferiore a determinate soglie (che siano
quelle previste per l’inserimento nell’elenco annuale ex
art. 128 del d.lgs. n. 163/2006 o altre prestabilite).
Inoltre potrà prevedere, come ancora la norma permette, una
diversa quantificazione del fondo anche in relazione alla
tipologia qualitativa dell’opera o lavoro da aggiudicare ed
eseguire, valutandone preventivamente la maggiore o minore
complessità.
Per quanto riguarda, invece, il terzo quesito,
i paletti che il regolamento interno deve
rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di
derogare a quanto previsto dalla legge o di
attribuire compensi non previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione)
in punto di lavori di
manutenzione sono stati esplicitati nelle precedenti
deliberazioni della Sezione di cui al
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 15.10.2013 n. 442,
le cui conclusioni permangono valide per le attività
espletate, ma non ancora liquidate
(cfr., in tal senso, mutatis mutandis, il
parere 06.12.2010 n. 58 delle Sezioni
Riunite in sede controllo), sino
alla data di entrata in vigore della legge n. 114/2014.
In quelle occasioni era stato evidenziato come l’incentivo
alla progettazione non possa essere riconosciuto per
qualunque lavoro di manutenzione ordinaria o straordinaria
effettuato sui beni dell’ente locale, ma solo per quelli
alla cui base vi sia un’attività di progettazione. Vi
esulavano, pertanto, tutti quei lavori manutentivi per la
cui realizzazione non era necessaria un’attività
progettuale, come delineata negli articoli 90, 91 e 92 del
decreto n. 163/2006 (sulla stessa linea era stata richiamata
il
parere 13.11.2012 n. 293 della Sezione Toscana).
Tale conclusione, frutto di un’interpretazione sistematica
dell’articolato normativo, va rivista per gli incarichi
tecnici attribuiti per opere e lavori aggiudicati ed
eseguiti dopo l’entrata in vigore della legge n. 114/2014
che, nel disciplinare il nuovo “fondo per la progettazione e
l’innovazione”, ha espressamente escluso le attività
manutentive da quelle oggetto di incentivazione.
Di
conseguenza, il regolamento di costituzione del fondo (art.
93, comma 7-bis, d.lgs. n. 163/2006) e quello di
ripartizione (ex art. 93, comma 7-ter, quest’ultimo adottato
previa contrattazione integrativa decentrata)
non potranno
più prevedere forme di incentivazione per il personale
interno cui sono conferiti gli incarichi previsti dalla
norma (RUP, progettista, direttore dei lavori, etc.) in caso
di lavori qualificabili, ai sensi del codice dei contratti e
del regolamento di attuazione (DPR n. 207/2010), e relativi
allegati, come lavori di manutenzione (a prescindere dalla
presenza o meno, all’interno del relativo procedimento di
aggiudicazione, di un’attività di progettazione) (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 246). |
IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA
PRIVATA:
Sull'adozione di un atto amministrativo a doppia firma
(dirigente e Segretario Comunale)
La
giurisprudenza ha ritenuto ammissibile la doppia
sottoscrizione (firma) del provvedimento unicamente
nell’ipotesi in cui il provvedimento sia contestualmente
sottoscritto anche dal responsabile del procedimento, perché
la firma anche da parte di quest’ultimo non può far sorgere
dubbi su quale sia l’effettiva volontà manifestata dalla
P.A., evidenziata dal provvedimento, né basta a far
ipotizzare contraddittorietà di valutazioni o di posizioni.
La sottoscrizione dell’atto anche da parte del responsabile
del procedimento non incide, cioè, sulla posizione della P.A..
---------------
Nel caso qui in esame nessuno dei due organi firmatari del
provvedimento l’ha sottoscritto quale mero responsabile del
procedimento, o almeno non sono stati forniti elementi in
tal senso dalla P.A., cosicché deve ritenersi che il Capo
Settore 6° – Urbanistica – Demanio abbia sottoscritto
l’ordine di demolizione in qualità di organo deputato in via
esclusiva alla sua adozione, ai sensi dell’art. 107, comma
3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000.
Sicché, la contestuale sottoscrizione del provvedimento da
parte del Segretario Generale, in difetto della prova di una
competenza specifica di quest’ultimo, produce l’effetto di
non rendere detto provvedimento imputabile in via esclusiva
all’Ufficio amministrativo ad esso preposto, con il
corollario dell’illegittimità dello stesso.
Inoltre, essendo stata la doppia sottoscrizione apposta da
organi diversi, portatori di funzioni e compiti diversi ed
autonomi, essa non può che ingenerare il dubbio su quale sia
stato il potere effettivamente esercitato.
Più in dettaglio, qualora fosse ravvisabile una competenza
esclusiva del Segretario Generale alla sottoscrizione del
provvedimento, questo sarebbe comunque viziato per
l’apposizione contestuale della firma da parte del Capo
Settore 6° – Urbanistica – Demanio (che, si ribadisce, non
pare in alcun modo averlo firmato quale mero responsabile
del procedimento). Né vi sono elementi per ritenere che il
Segretario Generale abbia avocato a sé la competenza alla
trattazione della pratica (anzi, una simile ipotesi è
esclusa dalla contestuale sottoscrizione del predetto capo
Settore). Donde l’incertezza sul potere effettivamente
esercitato nella vicenda in esame, mentre la firma
dell’ordine di demolizione compete in via esclusiva
all’organo preposto all’Ufficio deputato a trattare la
pratica (art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n.
267/2000).
Comunque, ad ulteriore riprova dell’illegittimità della
doppia sottoscrizione di un provvedimento, essa rende quanto
mai incerto il regime della responsabilità del dipendente
conseguente alla sua adozione (proprio per i dubbi circa la
competenza ad adottarlo).
... per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Arpino
n. 53/09, prot. gen. n. 4647/6 del 01.04.2009, notificata in
pari data, con cui è stata ingiunta la demolizione di opere
edilizie abusive descritte nell’ordinanza stessa e
realizzate sul terreno distinto in catasto al fg. n. 66,
mapp. n. 1134.
...
● Considerato, infatti, che nel caso di specie l’ordinanza
impugnata risulta sottoscritta da due distinti organi del
Comune di Arpino (il Capo Settore 6° – Urbanistica – Demanio
ed il Segretario Generale del Comune), ognuno dotato di una
propria esclusiva sfera di competenza, non sovrapponibile
alle sfere di competenza altrui, con il corollario
dell’impossibilità di imputare il provvedimento all’uno o
all’altro organo, come dovrebbe invece avvenire, sulla base
dell’organizzazione interna dell’Ente locale delineata dallo
statuto e dai regolamenti (v. art. 107 del d.lgs. n.
267/2000);
●
Considerato, più in dettaglio, che la giurisprudenza ha
ritenuto ammissibile la doppia sottoscrizione del
provvedimento unicamente nell’ipotesi in cui il
provvedimento sia contestualmente sottoscritto anche dal
responsabile del procedimento, perché la firma anche da
parte di quest’ultimo non può far sorgere dubbi su quale sia
l’effettiva volontà manifestata dalla P.A., evidenziata dal
provvedimento, né basta a far ipotizzare contraddittorietà
di valutazioni o di posizioni (cfr. TAR Liguria, Sez. I,
05.02.02014, n. 186). La sottoscrizione dell’atto anche da
parte del responsabile del procedimento non incide, cioè,
sulla posizione della P.A.;
●
Considerato, tuttavia, che nel caso qui in esame nessuno dei
due organi firmatari del provvedimento l’ha sottoscritto
quale mero responsabile del procedimento, o almeno non sono
stati forniti elementi in tal senso dalla P.A., cosicché
deve ritenersi che il Capo Settore 6° – Urbanistica –
Demanio abbia sottoscritto l’ordine di demolizione in
qualità di organo deputato in via esclusiva alla sua
adozione, ai sensi dell’art. 107, comma 3, lett. g), del
d.lgs. n. 267/2000;
●
Considerato che la contestuale sottoscrizione del
provvedimento da parte del Segretario Generale, in difetto
della prova di una competenza specifica di quest’ultimo,
produce l’effetto di non rendere detto provvedimento
imputabile in via esclusiva all’Ufficio amministrativo ad
esso preposto, con il corollario dell’illegittimità dello
stesso (TAR Liguria, Sez. I, 09.02.2007, n. 225);
●
Considerato, inoltre, che, essendo stata la doppia
sottoscrizione apposta da organi diversi, portatori di
funzioni e compiti diversi ed autonomi, essa non può che
ingenerare il dubbio su quale sia stato il potere
effettivamente esercitato (TAR Liguria, Sez. I, n. 186/2014,
cit.);
●
Considerato, più in dettaglio, che qualora fosse ravvisabile
una competenza esclusiva del Segretario Generale alla
sottoscrizione del provvedimento, questo sarebbe comunque
viziato per l’apposizione contestuale della firma da parte
del Capo Settore 6° – Urbanistica – Demanio (che, si
ribadisce, non pare in alcun modo averlo firmato quale mero
responsabile del procedimento). Né vi sono elementi per
ritenere che il Segretario Generale abbia avocato a sé la
competenza alla trattazione della pratica (anzi, una simile
ipotesi è esclusa dalla contestuale sottoscrizione del
predetto capo Settore). Donde l’incertezza sul potere
effettivamente esercitato nella vicenda in esame, mentre la
firma dell’ordine di demolizione compete in via esclusiva
all’organo preposto all’Ufficio deputato a trattare la
pratica (art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n.
267/2000);
●
Considerato, ad ulteriore riprova dell’illegittimità della
doppia sottoscrizione di un provvedimento, che essa rende
quanto mai incerto il regime della responsabilità del
dipendente conseguente alla sua adozione (proprio per i
dubbi circa la competenza ad adottarlo);
●
Considerato che, a fronte di ciò che si è esposto, si
appalesano del tutto irrilevanti le argomentazioni della
difesa comunale, la quale si limita ad obiettare sul punto
che anche la comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio reca la surriferita doppia sottoscrizione e
che il Segretario Generale avrebbe firmato gli atti in veste
di direttore generale dell’Ente locale;
●
Considerato che, secondo l’orientamento (cfr. TAR Puglia,
Lecce, Sez. II, 13.04.2013, n. 941) cui ha aderito anche
questa Sezione (cfr., ex multis, TAR Lazio, Latina,
Sez. I, 02.12.2013, n. 925; id., 24.06.2013, n. 578),
l’accoglimento della doglianza incentrata sul dedotto vizio
di incompetenza comporta l’annullamento del provvedimento
impugnato e la rimessione dell’affare al Comune di Arpino,
con assorbimento degli altri motivi di impugnazione, come
già previsto dall’art. 26, secondo comma, della l. TAR, ed
ora dall’art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a., il quale
ha statuito l’impossibilità, per il G.A., di pronunciarsi in
riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati;
●
Ritenuto quindi, alla luce di quanto si è detto, di dover
dichiarare il ricorso manifestamente fondato ai sensi
dell’art. 74 c.p.a., attesa la fondatezza della censura di
incompetenza avanzata con il quarto motivo e con
assorbimento di ogni altra censura;
●
Ritenuto, perciò, di dover disporre l’annullamento
dell’ordinanza impugnata e di dover rimettere la questione
al Comune di Arpino per le eventuali ulteriori
determinazioni (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 29.07.2014 n. 667 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA
PRIVATA:
Libretto impianto a pagine singole.
E’ da oggi disponibile, oltre alla preesistente versione del
libretto e dei rapporti di controllo di efficienza
energetica autocompilabili, una
nuova versione autocompilabile a pagine singole dei file del
libretto di impianto, che consente di stampare eventuali
pagine integrative. In quest’ultimo caso però si informa che
il campo “codice catasto” deve essere compilato per ogni
nuova pagina.
Il DM 10.02.2014 “Modelli di libretto di impianto per la
climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica di
cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 74/2013”
specifica che “al fine di facilitare e uniformare la
compilazione dei libretto di impianto per la climatizzazione
e dei rapporti di controllo di efficienza energetica, il CTI
mette a disposizione degli esempi applicativi per le
tipologie impiantistiche più diffuse” (07.10.2014
- link a
www.cti2000.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 10.10.2014, "Linee
guida per la progettazione e gestione sostenibile delle
discariche"
(deliberazione
G.R. 07.10.2014 n. 2461). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
07.10.2014 n. 233 "Regolamento in materia di esercizio
del potere sanzionatorio dell’Autorità nazionale
anticorruzione per l’omessa adozione dei Piani triennali di
prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di
trasparenza, dei Codici di comportamento" (A.N.AC.,
delibera 09.09.2014). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 39 del 23.09.2014, "Tipologie
di intervento a favore del patrimonio scolastico
prioritariamente finanziabili per l’annualità 2014 -
Approvazione bando per la realizzazione di interventi di
edilizia scolastica" (deliberazione
G.R. 19.09.2014 n. 2373). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: aggiornamento Piano Provinciale Rischio Sismico.
Nuova classificazione Sismica (Provincia di Bergamo,
nota 08.10.2014 n. 84186 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Modello Unico di Trasmissione degli Atti
(impianti di distribuzione di carburanti per autotrazione)
(Regione Lombardia - Direzione Generale Commercio, Turismo e
Terziario - Commercio, Reti Distributive e Tutela dei
Consumatori - Programmazione, Semplificazione e Risorse,
nota 08.10.2014 n. 9047 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Oggetto:
Vigilanza sull'attività edilizio-urbanistica. Trasmissione
dei dati relativi agli immobili e alle opere realizzati
abusivamente. Art. 31, comma 7, del DPR 06.06.2001, n. 380 -
Chiarimenti (Prefettura di Bergamo,
nota 06.10.2014 n. 30480 di prot.). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche e integrazioni - risposta a quesito relativo alle
visite mediche al di fuori degli orari di servizio
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 06.10.2014 n. 18/2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Oggetto: Formazione professionale continua - Linee guida
attività formativa a distanza (Consiglio Nazionale
Geometri e Geometri Laureati,
nota 11.09.2014 n. 9238 di prot.). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Oggetto:
Regolamenti in materia di formazione professionale continua
e Tirocinio (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri
Laureati,
nota 27.08.2014 n. 8775 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
S. M. Corso,
Appalti pubblici: legittimo richiedere il protocollo di
legalità (07.10.2014 - tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: J.
Cortinovis,
Nuove semplificazioni per il completamento della banda larga
mobile.
Nel caso di modifiche delle caratteristiche degli impianti
già provvisti di titolo abilitativo, che comportino aumenti
delle altezze non superiori a 1 metro e aumenti della
superficie di sagoma non superiore a 1,5 metri quadri, è
sufficiente una autocertificazione descrittiva.
Non è inoltre soggetta ad autorizzazione paesaggistica la
installazione o la modifica di impianti di radiotelefonia
mobile, che comportino la realizzazione di pali di supporto
per antenna di altezza non superiore a 1,5 metri e
superficie delle medesime antenne non superiore a 0,5 metri
quadrati
(07.10.2014 - link a studiospallino.blogspot.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Comuni e personale, tetti alle assunzioni con principio di
cassa.
Enti locali. Le istruzioni della Corte dei conti.
I tetti di spesa di
personale negli enti locali vanno conteggiati sulla spesa
effettivamente sostenuta nel 2011/2013, senza possibilità di
includere «figurativamente» nella base di calcolo somme
previste ma non erogate in tempo per problemi di cassa; dal
rispetto del vincolo non possono sfuggire nemmeno le spese
alimentate con fondi nazionali a specifica destinazione.
A fissare i parametri rigidi sull'interpretazione dei limiti
alle uscite per stipendi nei Comuni (nelle Province è in
vigore il blocco totale delle assunzioni) è la sezione
Autonomie della Corte dei conti, nell'ambito di una serie di
delibere diffuse negli ultimi giorni sui temi caldi della
finanza locale.
Personale
In fatto di personale, l'indicazione più importante arriva
dalla
deliberazione 06.10.2014 n.
25/2014, pubblicata ieri, che stabilisce il parametro
di cassa nei calcoli sul rispetto dei tetti di spesa. Le
norme di riferimento sono i commi 557 e seguenti della
Finanziaria 2007 (legge 296/2006), che dopo la modifica
intervenuta con il decreto sulla Pa (articolo 3, comma 5-bis,
del Dl 90/2014) chiedono ai Comuni sopra i mille abitanti di
assicurare la riduzione della spesa rispetto alla media
registrata nel triennio 2011/2013.
Un ente ha chiesto alla
sezione Piemonte, che ha rimandato il problema alla sezione
Autonomie, se fosse possibile inserire nella base di calcolo
2011/2013 anche importi previsti ma non erogati in tempo,
applicando il principio della competenza finanziaria. La
Corte, come quasi sempre accade quando ci si occupa di
vincoli di finanza pubblica, nega la possibilità di
un'interpretazione flessibile, e impone di tenere in
considerazione solo la spesa effettiva, evitando di alzare
la base di calcolo (e quindi le uscite possibili) con
l'inserimento di altre voci.
In base allo stesso criterio, che nega interpretazioni
estensive quando in gioco ci sono tetti di spesa, la sezione
Autonomie nega anche (nella delibera 21/2014) la possibilità
di escludere dai vincoli le assunzioni finanziate con fondi
nazionali. L'esclusione, sottolinea la Corte, è limitata ai
finanziamenti Ue, e non può essere estesa "analogicamente"
anche se questo comporta il rischio di perdere i fondi
nazionali.
Indennità
La sezione Autonomie si è occupata anche delle indennità dei
sindaci (delibera 24/2014, pubblicata ieri), spiegando che
se un aumento nel numero di abitanti fa passare il Comune
nella classe demografica superiore, l'assegno al sindaco può
crescere di conseguenza.
Anticipazioni di tesoreria
Un'altra delibera (la 23/2014) affronta invece il tema dei
limiti alle anticipazioni di tesoreria, che in base
all'articolo 222 del Tuel non possono superare i tre
dodicesimi delle entrate correnti accertate nel rendiconto
del penultimo anno: il limite, spiega la Corte, è
«dinamico», per cui la restituzione delle anticipazioni
precedenti apre nei conti degli enti locali spazio per nuove
iniezioni di liquidità (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2014
- tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI LOCALI:
Sull'erogazione di un contributo comunale a istituto religioso: acquisto
piattaforma elevatrice per disabili a servizio immobile, di
istituto religioso, per rimuovere barriera architettonica
ospiti non autosufficienti.
In base alle
norme ed ai principi della contabilità pubblica, non è
rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente
locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove
queste siano necessarie per conseguire i propri fini
istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla
conservazione del patrimonio storico e artistico) il
finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non
può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale,
in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di
interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il
contributo”.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo
risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione
opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di
servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali,
etc.), soggetti aventi natura privata.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro
ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i
propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di
natura patrimoniale, occorre adottare adeguate cautele,
anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di
buon andamento, di parità di trattamento e di non
discriminazione (cardini dell’attività amministrativa).
Nello specifico, il finanziamento concesso a privati deve
essere tale da non incorrere nel divieto di spese per
sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del d.l.
n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione
pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di
sponsorizzazione è la funzione. La spesa di sponsorizzazione
presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la
presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine.
Non si configura,
invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di
un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello
stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente
locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti
privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che,
direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una
modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e
non una forma di promozione dell’immagine
dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la
concessione di contributi dal divieto di spese per
sponsorizzazioni, deve essere esplicitato dall’ente locale
in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione, inoltre, in aderenza alle regole generali
(art. 3 legge n. 24/1990)
è tenuta ad evidenziare i
presupposti di fatto e il percorso logico alla base
dell’erogazione, nonché il rispetto dei criteri di
imparzialità e predeterminazione dei criteri per
l’attribuzione di contributi
(art. 12 legge n. 241/1990).
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare
conforme al principio di congruità della spesa,
presupponente una valutazione comparativa degli interessi
complessivi dell’ente locale e dell’essenzialità
dell’erogazione ai fini della prestazione del servizio.
---------------
Il sindaco del comune
di Pianello del Lario (CO)
rivolge istanza per il rilascio di un parere in merito alla
possibilità di erogare un contributo a un istituto
religioso, per l'acquisto di una piattaforma elevatrice per
disabili a servizio dell'immobile ubicato nel territorio di Pianello del Lario,
di proprietà dell'istituto religioso
citato nel quale è operativa una residenza sanitaria
assistenziale.
La casa gestita dall’istituto è accreditata come struttura
sanitaria presso la Regione Lombardia alla luce del
carattere non lucrativo della Congregazione che la gestisce,
e dell'esercizio delle opere di assistenza sociale in forza
delle relative previsioni statutarie, con particolare
riferimento all’attività svolta (a favore di persone anziane
in generale, autosufficienti e in condizione di
semi-autosufficienza o in stato di cronicità o infermità; di
soggetti con handicap intellettivi o fisici; di minori di
età compresa nel ciclo della scuola materna e d'obbligo).
L’ente precisa in particolare che la Congregazione ha
presentato richiesta di contributo per l'acquisto di detta
piattaforma elevatrice al fine di rimuovere un'insuperabile
barriera architettonica per gli ospiti non autosufficienti,
e che il vigente regolamento comunale per la concessione di
contributi e benefici economici a soggetti pubblici e
privati all'art. 3, commi 1 e 2, prevede che "Possono
accedere a contributi e ad altre forme di sostegno economico
finanziario, salvo eventuali deroghe previste nei successivi
articoli, i soggetti che hanno un legame con il territorio
del comune di Pianello del Larici o che comunque svolgono
una attività di particolare interesse per la collettività o
per la promozione dell' immagine del comune e che agiscono
quali: a) enti pubblici; b) associazioni, fondazioni e altre
istituzioni di carattere privato, dotate di personalità
giuridica (...)" e che "In casi particolari, adeguatamente
motivati, l'attribuzione di interventi economici può essere
disposta (...) per concorrere ad iniziative d'interesse
generale rispetto alle quali la partecipazione del Comune
assume rilevanza sotto il profilo dei valori sociali,
morali, culturali, economici che sono presenti nella
comunità alla quale l'ente è preposto".
...
Il comune di Pianello del Lario auspica che, in considerazione della
riconducibilità dell'opera di abbattimento delle barriere
architettoniche della residenza a finalità di interesse
pubblico, nonché della sua della partecipazione
istituzionale alla funzione pubblica di assistenza
socio-sanitaria della Congregazione, e, da ultimo, delle
ricadute positive sui residenti in termini dì abbattimento
indiretto dei costi, l’istituto possa beneficiare del
contributo richiesto.
Preliminarmente occorre rilevare che, in quanto indirizzato
a favore dei soli ospiti della struttura in epigrafe, la
realizzazione di una struttura elevatrice non può collocarsi
all’interno delle misure adottate dai comuni per consentire
la mobilità dei disabili all’interno del proprio territorio,
ma deve essere inquadrata come strumentale alla
realizzazione delle finalità proprie di una struttura
assistenziale.
Peraltro, questione analoga a quella proposta dal comune
istante è stata affrontata di recente dalla Sezione nel
parere 15.07.2014 n. 218.
In quest’ultimo è stato richiamato il
consolidato orientamento sul punto (deliberazioni n. 9/2006,
n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007,
n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n.
981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012) teso a precisare come,
in base alle norme ed ai principi della contabilità
pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che
impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni
patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per
conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla
conservazione del patrimonio storico e artistico) il
finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non
può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale,
in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di
interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il
contributo”
(cfr.
parere 27.06.2013 n. 262).
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo
risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione
opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di
servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali,
etc.), soggetti aventi natura privata.
Nei precedenti richiamati è stato ricordato, altresì, come
l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni
di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro
ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i
propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di
natura patrimoniale, occorre adottare adeguate cautele,
anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di
buon andamento, di parità di trattamento e di non
discriminazione (cardini dell’attività amministrativa).
Nello specifico, il finanziamento concesso a privati deve
essere tale da non incorrere nel divieto di spese per
sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del d.l.
n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione
pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di
sponsorizzazione è la funzione. La spesa di sponsorizzazione
presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la
presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine
(cfr.
parere 23.12.2010 n. 1075).
Non si configura,
invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di
un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello
stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente
locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti
privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che,
direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una
modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e
non una forma di promozione dell’immagine
dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la
concessione di contributi dal divieto di spese per
sponsorizzazioni, deve essere esplicitato dall’ente locale
in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione, inoltre, in aderenza alle regole generali
(art. 3 legge n. 24/1990)
è tenuta ad evidenziare i
presupposti di fatto e il percorso logico alla base
dell’erogazione, nonché il rispetto dei criteri di
imparzialità e predeterminazione dei criteri per
l’attribuzione di contributi
(art. 12 legge n. 241/1990).
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare
conforme al principio di congruità della spesa,
presupponente una valutazione comparativa degli interessi
complessivi dell’ente locale e dell’essenzialità
dell’erogazione ai fini della prestazione del servizio
(Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 02.10.2014 n. 254). |
ENTI LOCALI:
Sulla concessione di un contributo comunale in conto capitale al fine di
preservare l'integrità della chiesa parrocchiale,
Se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla
conservazione del patrimonio storico e artistico)
il
finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non
può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale,
in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di
interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il
contributo”.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo
risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione
opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di
servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali,
etc.), soggetti aventi natura privata.
Ogniqualvolta, tuttavia, un ente locale, al pari di ogni
altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per
raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce
loro benefici di natura patrimoniale, occorre adottare
adeguate cautele, anche al fine di garantire l’applicazione
dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e
di non discriminazione (cardini dell’attività
amministrativa).
Nello specifico, il finanziamento concesso
a privati deve essere tale da non incorrere nel divieto di
spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma
9, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione
pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di
sponsorizzazione è la funzione. La spesa di sponsorizzazione
presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la
presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine.
Non si configura,
invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di
un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello
stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente
locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti
privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che,
direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una
modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e
non una forma di promozione dell’immagine
dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la
concessione di contributi dal divieto di spese per
sponsorizzazioni, deve essere esplicitato dall’ente locale
in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione, inoltre, in aderenza alle regole generali
(art. 3 legge n. 24/1990) è tenuta ad evidenziare i
presupposti di fatto e il percorso logico alla base
dell’erogazione, nonché il rispetto dei criteri di
imparzialità e predeterminazione dei criteri per
l’attribuzione di contributi (art. 12 legge n. 241/1990).
In ogni caso, l’eventuale
attribuzione deve risultare conforme al principio di
congruità della spesa, presupponente una valutazione
comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale.
---------------
Il Sindaco del comune di Fontanella Barbata, con nota del 09.07.2014, ha formulato una
richiesta di parere avente ad
oggetto la concessione di un contributo in conto capitale al
fine di preservare l'integrità della chiesa parrocchiale,
che necessita di urgenti interventi di manutenzione
straordinaria.
A parere del Comune non si ravviserebbe una
violazione dell’art. 6, comma 9, del d.l. n. 78/2010,
convertito con legge n. 122/2010, in quanto la liquidazione
del contributo avrebbe finalità di tutela del patrimonio
storico ed artistico presente sul territorio e non
configurerebbe spesa di sponsorizzazione.
...
Questione analoga a quella proposta dal comune istante è
stata affrontata di recente dalla Sezione nel
parere 15.07.2014 n. 218.
In quest’ultimo è stato richiamato il consolidato
orientamento sul punto (deliberazioni n. 9/2006, n. 10/2006,
n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008,
n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n.
530/2011, n. 262/2012) teso a precisare come, in base alle
norme ed ai principi della contabilità pubblica, non è
rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente
locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove
queste siano necessarie per conseguire i propri fini
istituzionali.
Se, infatti,
l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla
conservazione del patrimonio storico e artistico)
il
finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non
può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale,
in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di
interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il
contributo” (cfr.
parere 27.06.2013 n. 262).
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo
risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione
opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di
servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali,
etc.), soggetti aventi natura privata.
Nei precedenti richiamati è stato ricordato, altresì, come
l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni
di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta, tuttavia, un ente locale, al pari di ogni
altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per
raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce
loro benefici di natura patrimoniale, occorre adottare
adeguate cautele, anche al fine di garantire l’applicazione
dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e
di non discriminazione (cardini dell’attività
amministrativa).
Nello specifico, il finanziamento concesso
a privati deve essere tale da non incorrere nel divieto di
spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma
9, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione
pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di
sponsorizzazione è la funzione. La spesa di sponsorizzazione
presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la
presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine
(cfr.
parere 23.12.2010 n. 1075). Non si configura,
invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di
un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello
stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente
locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti
privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che,
direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una
modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e
non una forma di promozione dell’immagine
dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la
concessione di contributi dal divieto di spese per
sponsorizzazioni, deve essere esplicitato dall’ente locale
in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione, inoltre, in aderenza alle regole generali
(art. 3 legge n. 24/1990) è tenuta ad evidenziare i
presupposti di fatto e il percorso logico alla base
dell’erogazione, nonché il rispetto dei criteri di
imparzialità e predeterminazione dei criteri per
l’attribuzione di contributi (art. 12 legge n. 241/1990).
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve
risultare conforme al principio di congruità della spesa,
presupponente una valutazione comparativa degli interessi
complessivi dell’ente locale (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 248). |
QUESITI E PARERI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Attività connessa
all'attuazione dei progetti finanziati con fondi europei e
della cooperazione.
La Corte dei conti ritiene che le spese
per missioni sostenute nell'ambito della realizzazione di
progetti comunitari finanziati dall'Unione Europea vadano
escluse dal computo delle spese per missioni dell'Ente
soggette all'applicazione riduttiva di cui all'art. 6, comma
12, del d.l. 78/2010.
La magistratura contabile ha comunque evidenziato che le
previsioni di spesa per i viaggi e le trasferte strettamente
legati alla realizzazione di detti progetti e le successive
procedure di rendicontazione devono essere effettuate con
particolare attenzione in quanto, qualora gli organi
comunitari riconoscano, in sede di liquidazione, importi
inferiori a quelli anticipati dagli enti per tali spese, le
somme non liquidate e a suo tempo anticipate, rimangono a
carico degli enti locali.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche concernenti lo svolgimento di attività
connessa all'attuazione di alcuni progetti finanziati con
fondi europei e della cooperazione. L'Ente rappresenta che,
per l'effettuazione dell'attività connessa allo svolgimento
di detti progetti, si rende necessaria la partecipazione
alle attività di coordinamento e di assistenza tecnica del
responsabile del relativo servizio, in località spesso non
raggiungibili ordinariamente con mezzi pubblici o il cui
raggiungimento con mezzi pubblici comporterebbe una
rilevante dispersione di tempo.
Ciò premesso, in relazione alla limitazione delle spese
d'esercizio relative ai mezzi di servizio
dell'Amministrazione, previsti dalle vigenti normative,
chiede di conoscere se sia possibile derogare a tali
limitazioni, trattandosi non di mere missioni, ma di
esigenze connaturate e necessariamente previste nelle
attività progettuali. Inoltre l'Ente gradirebbe conoscere se
il dipendente interessato possa essere autorizzato
all'utilizzo del mezzo proprio, analogamente a quanto
avviene nell'Amministrazione regionale per analoghe
attività.
Per quanto concerne il richiamo operato dall'Ente alle
limitazioni delle spese d'esercizio relative ai mezzi di
servizio dell'Amministrazione, previste nelle recenti
normative, si osserva quanto segue.
L'art. 5, comma 2, del d.l. 95/2012 [1]
dispone che, a decorrere dal 01.05.2014, le amministrazioni
pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione (enti locali compresi) non possono
effettuare spese di ammontare superiore al 30 per cento
della spesa sostenuta nell'anno 2011 per l'acquisto, la
manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture,
nonché per l'acquisto di buoni taxi. Tale limite può essere
derogato, per il solo anno 2014, esclusivamente per effetto
di contratti pluriennali già in essere.
La norma precisa altresì che tale limite non si applica alle
autovetture utilizzate dall'Ispettorato centrale della
tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti
agroalimentari del Ministero delle politiche agricole
alimentari e forestali, dal Corpo nazionale dei vigili del
fuoco o per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e
della sicurezza pubblica, per i servizi sociali e sanitari
svolti per garantire i livelli essenziali di assistenza,
ovvero per i servizi istituzionali svolti nell'area
tecnico-operativa della difesa e per i servizi di vigilanza
e intervento sulla rete stradale gestita da ANAS S.p.a. e
sulla rete delle strade provinciali e comunali, nonché per i
servizi istituzionali delle rappresentanze diplomatiche e
degli uffici consolari svolti all'estero.
Premesso un tanto, in relazione a quanto prospettato
dall'Ente istante, si ritiene che la situazione sottoposta
possa essere esaminata comunque sotto un diverso profilo,
nello specifico con riferimento alla vigente disciplina in
materia di missioni, anche all'estero, del personale
dipendente, al limite di spesa previsto per dette
fattispecie e alle eventuali possibilità di deroga al
predetto limite.
Si sottolinea innanzitutto che la disposizione contemplata
all'art. 12, comma 21, della l.r. 22/2010, che introduceva
uno specifico limite di spesa per le missioni del personale
degli enti del comparto unico per gli anni 2011, 2012 e
2013, non è stata riproposta in successivi provvedimenti
legislativi e non dispiega pertanto più la propria
efficacia.
Conseguentemente, a partire dall'anno 2014, gli enti locali
della Regione Friuli Venezia Giulia, per quanto riguarda le
spese per missione del personale dipendente, sono
assoggettati agli stessi limiti in vigore per le altre
amministrazioni del conto consolidato della pubblica
amministrazione. In particolare, si richiama quanto
precisato dalla Ragioneria Generale dello Stato
[2], che
ha ribadito l'applicazione dell'art. 6, comma 12, del d.l.
78/2010.
La richiamata norma prevede che, a decorrere dall'anno 2011,
le predette amministrazioni non possono effettuare spese per
missioni, anche all'estero, con esclusione delle missioni
internazionali di pace e delle Forze armate, delle missioni
delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale
di magistratura, nonché di quelle strettamente connesse ad
accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare
la partecipazione a riunioni presso enti e organismi
internazionali o comunitari, nonché con investitori
istituzionali necessari alla gestione del debito pubblico,
per un ammontare superiore al 50 per cento della spesa
sostenuta nell'anno 2009.
La disposizione in esame precisa altresì che gli atti e i
contratti posti in essere in violazione di tale prescrizione
costituiscono illecito disciplinare e determinano
responsabilità erariale.
Si stabilisce inoltre che il limite di spesa fissato può
essere superato in casi eccezionali, previa adozione di un
motivato provvedimento adottato dall'organo di vertice
dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli
organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente.
Per la questione che ci occupa è da rilevare che la Corte
dei conti [3]
ritiene che le spese per missioni sostenute nell'ambito
della realizzazione di progetti comunitari finanziati
dall'Unione Europea vadano escluse dal computo delle spese
per missioni dell'Ente soggette all'applicazione riduttiva
di cui al citato art. 6, comma 12.
A tal proposito la Corte ha evidenziato quanto sostenuto da
altra sezione regionale di controllo [4],
nel ritenere che la norma di cui all'art. 6, comma 12, del
d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010, possa essere intesa
alla stregua della norma di cui all'art. 6, comma 7, del
d.l. 78/2010 (riferita alla spesa per studi e consulenze),
quale disposizione che introduce un principio di riduzione
della spesa in rapporto al tetto di un anno di riferimento,
e perciò strettamente collegata all'impatto sul bilancio del
singolo ente considerato. Da ciò -sottolinea la Corte- 'può
farsi discendere l'interpretazione che tende all'esclusione
dal computo della spesa sostenuta in una determinata
annualità di quanto oggetto di finanziamento da parte di
soggetti pubblici o privati terzi'.
Tuttavia la magistratura contabile ha rilevato quanto
disposto dal secondo periodo del comma 12 in argomento, che
recita testualmente: 'Gli atti e i contratti posti in
essere in violazione della disposizione contenuta nel primo
periodo del presente comma costituiscono illecito
disciplinare e determinano responsabilità erariale'.
Si è evidenziato quindi che le previsioni di spesa per i
viaggi e le trasferte strettamente legati alla realizzazione
dei progetti dell'Unione Europea, e le successive procedure
di rendicontazione, devono essere effettuate con particolare
attenzione in quanto, qualora gli organi comunitari
riconoscano, in sede di liquidazione, importi inferiori a
quelli anticipati dall'Ente per dette spese, le somme non
liquidate e a suo tempo anticipate, rimangono a carico degli
enti locali, rientrando conseguentemente nel computo della
riduzione operata dal legislatore.
Per quanto riguarda inoltre la possibilità di autorizzare il
personale inviato in missione all'utilizzo del mezzo
proprio, si evidenzia che per gli enti locali del comparto
unico della Regione Friuli Venezia resta in vigore il
disposto di cui all'art. 12, comma 23, della l.r. 22/2010,
considerato che non è stata prevista, in detto contesto, una
valenza temporale limitata a specifiche annualità, come
avvenuto in relazione al comma 21 del medesimo articolo.
Il citato comma 23 stabilisce infatti che, per lo
svolgimento della missione, il personale delle
amministrazioni del comparto unico è tenuto a utilizzare i
mezzi di servizio ovvero i mezzi pubblici. Qualora l'uso dei
mezzi pubblici sia inconciliabile con lo svolgimento della
missione ovvero qualora l'uso del mezzo proprio risulti
economicamente più conveniente, può essere autorizzato
l'utilizzo del mezzo proprio.
E' necessario pertanto che si verifichi prioritariamente la
sussistenza dei predetti presupposti.
E' da tenere inoltre presente che la norma in esame prevede
che la disciplina in vigore per il personale regionale, in
ordine ai rimborsi spettanti per l'utilizzo del mezzo
proprio, si applica anche alle Amministrazioni del comparto
unico diverse dalla Regione, cioè agli enti locali.
---------------
[1] Come sostituito, da ultimo, dall'art. 15, comma 1,
del d.l. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla l.
n. 89/2014.
[2] Cfr. circolare n. 2 del 05.02.2013.
[3] Cfr. sez. reg. di controllo per il Veneto, deliberazione
n. 392/2011/PAR.
[4] Cfr. sezione regionale di controllo per la Toscana,
deliberazione n. 179/2011/PAR. Nella citata deliberazione si
richiamava, a sua volta, la deliberazione delle Sezioni
Riunite della Corte dei conti n. 7 del 2011, in cui era
stato espresso il seguente principio di massima: 'Con
riferimento alla composizione della spesa per studi e
consulenze è da ritenere che debbano escludersi dal computo
gli oneri coperti mediante finanziamenti aggiuntivi e
specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati.
Diversamente si finirebbe con l'impedire le spese per studi
e consulenze, seppur integralmente finanziate da soggetti
estranei all'ente locale (stante la provenienza comunitaria,
statale o privatistica delle risorse), in ossequio al
principio della universalità del bilancio ed al rispetto del
tetto di spesa programmato. Il tetto di spesa per studi e
consulenze non avrebbe la funzione di conseguire dei
risparmi sul bilancio del singolo ente, ma di ridurre tout
court, le spese connesse a suddette prestazioni, a
prescindere dall'impatto sul bilancio dell'ente' (10.10.2014
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Sindaci, no a doppi
giochi. Chi guida un ente è ineleggibile per un altro.
Lo stesso soggetto non può candidarsi a
rappresentare due comunità.
È legittima la candidatura a sindaco di candidati di due
diverse liste presentate nel comune in questione che
ricoprono, uno, la carica di consigliere comunale in un
comune, e l'altro, la carica di sindaco in altro ente
locale?
L'art. 60, comma 1, n. 12, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede l'ineleggibilità alla carica di
sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale,
provinciale e circoscrizionale per chi riveste le stesse
cariche, rispettivamente in altro comune, provincia o
circoscrizione.
La Cassazione civile, sez. I, con sentenza n. 11894 del 20.05.2006 ha interpretato estensivamente la predetta
norma, chiarendo che l'ipotesi di ineleggibilità alla carica
di sindaco opera anche per chi ricopre la carica di
consigliere in altro comune.
Tali cause di ineleggibilità cessano solo con la
presentazione di formali e tempestive dimissioni degli
interessati dalla carica ricoperta, non essendo possibili
rimedi equipollenti, quali il collocamento in aspettativa
previsto per altre ipotesi di ineleggibilità.
La ratio di tale interpretazione si fonda sul principio che
il medesimo soggetto «non può far parte di più assemblee
rappresentative di altrettante collettività comunali», in
nome della esigenza che chiunque è impegnato nella cura di
interessi generali di una comunità comunale, ad essa è
vincolato in via esclusiva fino a quando non abbia reciso il
legame instaurato con la sua elezione (cfr sul punto
Cassazione civile, sez. I, n. 11894 del 20.05.2006 e
sentenza della Corte costituzionale 02.03.1991, n. 97).
Nella fattispecie, se è pur vero che dopo l'elezione gli
interessati rappresentano, ognuno, una sola collettività
comunale, al momento della candidatura esiste la condizione
di rappresentare una collettività e l'interesse a voler
rappresentare un'altra collettività comunale, condizione
questa non consentita dalla normativa vigente in materia che
prevede, come già detto, l'obbligo delle dimissioni, ai
sensi dell'art. 60, comma 3, del citato decreto legislativo
n. 267/2000, al fine di non incorrere nelle cause di
ineleggibilità di cui al citato art. n. 60, comma 1, n. 12).
Le cause di ineleggibilità riguardano situazioni idonee a
provocare effetti distorsivi nella parità di condizioni tra
i vari candidati, nel senso che, avvalendosi della
particolare posizione in cui versa, il soggetto non
eleggibile può variamente influenzare a suo favore il corpo
elettorale. Diversa è la situazione di incompatibilità, che
non si riflette sulla parità di condizioni tra i candidati,
ma attiene alla concreta possibilità, per l'eletto, di
esercitare pienamente le funzioni connesse alla carica per
motivi concernenti il conflitto di interessi in cui il
soggetto verrebbe a trovarsi se fosse eletto. Di
conseguenza, il soggetto ineleggibile deve eliminare ex ante
la situazione in cui versa, mentre il soggetto incompatibile
è tenuto ad optare ex post, cioè ad elezione avvenuta, tra
il mantenimento della precedente carica e il munus pubblico
derivante dalla conseguita elezione (cfr. Corte
costituzionale n. 283/2010)
Per quanto concerne le iniziative praticabili per far valere
l'ineleggibilità, si rammenta che, ai sensi dell'art. 41,
comma 1, del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, il
consiglio comunale dell'ente, nella prima seduta e prima di
deliberare su qualsiasi altro oggetto, dovrà esaminare la
condizione degli eletti, per dichiarare la decadenza
dell'amministratore interessato, in presenza di una delle
cause di ineleggibilità.
Ciò in quanto, fatta salva la norma di chiusura di cui
all'art. 70 della stesso decreto legislativo, in conformità
al principio generale per cui ogni organo collegiale è
competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di
appartenenza dei propri componenti, la valutazione in ordine
all'eventuale sussistenza di un'ipotesi ostativa
all'esercizio del mandato elettorale è rimessa al consiglio
comunale del quale l'interessato fa parte
(articolo ItaliaOggi del 10.10.2014). |
NEWS |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Congedo a ore solo sulla carta.
L'Inps smentisce il ministero del lavoro.
Congedo parentale a ore ancora ai box. La possibilità di
usufruire dei permessi con frazionamento orario non è ancora
entrato a regime nonostante sia da quasi due anni che la
legge 24.12.2012 n. 228 (legge di stabilità 2013),
recependo la direttiva 2010/18/Ce dell'08.03.2010, ha
previsto detta possibilità attribuendo alla contrattazione
collettiva di settore il compito di stabilire le relative
modalità di fruizione, nonché i criteri di calcolo della
medesima base oraria e l'equiparazione di un determinato
monte ore alla singola giornata lavorativa.
L'Inps infatti non solo non dispone ancora delle necessarie
istruzioni e procedure operative affinché questo strumento a
sostegno della genitorialità e della conciliazione dei tempi
di vita e di lavoro possa decollare; ma anzi, smentisce nei
fatti il ministero del lavoro che, con risposta a interpello
22.07.2013, n. 25, ha precisato che stante l'assenza di
un esplicito riferimento normativo al livello «nazionale»
della contrattazione, non vi sono motivi ostativi a una
interpretazione in virtù della quale i contratti collettivi
possano essere anche quelli di secondo livello (aziendale e
territoriale).
La domanda di congedo parentale (mod. Ast/Fac cod. SR23) che
deve essere inviata all'Inps con modalità telematiche da
parte del richiedente non è stata ancora aggiornata per
raccogliere la novità (consente infatti di selezionare il
congedo a giorni ma non a ore), ma soprattutto non esistono
istruzioni per i datori di lavoro circa i codici di recupero
delle somme anticipate al dipendente ai fini della
predisposizione del flusso «uniemens».
Inoltre, a fronte della domanda corredata dell'accordo
aziendale di secondo livello, l'Inps adotta un provvedimento
di rigetto rinviando al proprio messaggio n. 1635 del
28.01.2013 secondo cui in attesa che la contrattazione
collettiva (nazionale) definisca le modalità e i criteri
richiesti dalla legge, non è possibile riconoscere eventuali
richieste di fruizione del congedo parentale su base oraria.
Peccato però che, successivamente, sia intervenuto
l'interpello n. 25 che evidentemente non è stato considerato
né tanto meno recepito
(articolo ItaliaOggi del 10.10.2014). |
SEGRETARI
COMUNALI: Dirigenti p.a., riforma bocciata. Squitieri: autonomia a
rischio. Più costi dal ruolo unico. Audizione del presidente Corte conti sul ddl. L'abolizione
dei segretari è controproducente.
La Corte conti boccia la riforma della dirigenza pubblica
contenuta nel ddl Madia. La delega «accresce i margini di
discrezionalità nel conferimento degli incarichi» e rischia
di sacrificare l'autonomia dei dirigenti. La creazione del
ruolo unico, l'abolizione dell'attuale articolazione in due
fasce, la breve durata degli incarichi attribuiti, «il
rischio che il mancato conferimento di una funzione possa
provocare la decadenza del rapporto» sono tutti elementi
che, secondo la magistratura contabile, potrebbero limitare
l'indipendenza dei manager.
L'abolizione dei segretari comunali, poi, «suscita
perplessità» ed è controproducente dal punto di vista
finanziario perché la previsione di un utilizzo dei
segretari comunali di fascia C come dirigenti responsabili
anche presso comuni di minori dimensioni, attualmente privi
di figure dirigenziali, rischia di produrre «esorbitanze di
spesa, a fronte del conferimento di funzioni di scarsa
utilità per enti di dimensioni particolarmente ridotte».
In audizione davanti alla commissione affari costituzionali
del senato, il presidente della Corte dei conti, Raffaele
Squitieri con l'AUDIZIONE
DELLA CORTE DEI CONTI NELL’AMBITO DELL’INDAGINE CONOSCITIVA
SUL DISEGNO DI LEGGE IN MATERIA DI RIORGANIZZAZIONE DELLE
AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE (AS 1577), punta il dito contro uno dei punti più
qualificanti del disegno di legge di riforma della p.a.,
ossia quel ruolo unico della dirigenza pubblica «già
sperimentato nelle amministrazioni statali con esiti non del
tutto positivi» tra il 1998 e il 2002.
A preoccupare Squitieri è l'assenza nel ddl Madia di un
punto di equilibrio tra l'esigenza di assicurare la
flessibilità dei modelli organizzativi e la salvaguardia di
un'effettiva autonomia dei dirigenti nei confronti del
potere politico.
«La riforma proposta», ha sottolineato, «aumenta i margini
di discrezionalità per il conferimento degli incarichi, una
discrezionalità solo in parte temperata dalla previsione di
requisiti legati alla particolare complessità degli uffici e
al grado di responsabilità che i dirigenti sono chiamati ad
assumere».
Ma i timori della Corte conti derivano soprattutto dai costi
che il ruolo unico della dirigenza potrebbe far lievitare.
L'abolizione dell'attuale articolazione della dirigenza
pubblica in due fasce implicherà, si legge nell'audizione,
«la necessità di rideterminare in un unico valore
l'ammontare dei trattamenti fissi spettanti agli interessati
che saranno inquadrati nella medesima posizione
retributiva». Secondo Squitieri, dall'introduzione di un
omogeneo trattamento retributivo per l'unica qualifica
dirigenziale, «necessariamente più alto di quello
attualmente previsto per la seconda fascia, non potranno che
derivare maggiori costi a regime con riferimento
all'ammontare dei trattamenti da corrispondere ai soggetti
assunti con i nuovi concorsi». Oggi infatti la retribuzione
d'ingresso è parametrata a quella prevista per la fascia più
bassa della dirigenza
(articolo ItaliaOggi del 10.10.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Pa, pronti i criteri per la mobilità.
Madia. «Entro l'anno via alla nuova valutazione».
Le «tabelle di
equiparazione» tra i diversi comparti della Pa sono pronte.
Si tratta dello strumento cardine per far scattare la
sperimentazione della mobilità obbligatoria tra uffici
pubblici entro un raggio massimo di 50 Km previsto dal Dl
90, la cui legge di conversione è in vigore dal 2 settembre
scorso.
Ad annunciare il passo avanti nell'attuazione del decreto è
stato, ieri, lo stesso ministro per la Semplificazione e la
Pa, Marianna Madia. Sulle nuove tabelle, che superano quelle
mai utilizzate del 2009, c'è un'intesa con il ministro Pier
Carlo Padoan e riguardano la Pa centrale. Giovedì 16 ottobre
è previsto un incontro in Conferenza unificata per
discuterne l'estensione anche alle amministrazioni locali,
le Regioni e le Asl. Dopo questo passaggio ci sarà la
convocazione dei sindacati.
Le tabelle di equiparazione consentono di far capire al
dipendente pubblico trasferito da un'amministrazione
all'altra che qualifica e retribuzione avrà. «Credo che ciò
dovrebbe consentire di approvarle secondo la procedura
ordinaria, fermo restando –ha detto Madia– che in caso di
mancato accordo c'è la possibilità di ricorrere a un atto
unilaterale di approvazione».
Finora non sono state indicate platee potenziali di
dipendenti che potrebbero essere interessati dalla mobilità
obbligatoria: il Ddl delega Pa, all'articolo 7, prevede una
riorganizzazione di sedi e uffici che potrebbe sfociare
nella definizione di eventuali esuberi, mentre la legge
Delrio sulle province prevede una procedura diversa. Il
ministro ha confermato che «in prospettiva, con la delega
sulla Pa, la volontà del governo è superare il concetto di
pianta organica ed arrivare al concetto di fabbisogno».
Entro fine anno, poi, è stato annunciato il nuovo
regolamento sulla valutazione delle performance dei
dipendenti (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2014
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Libretto d'impianto new style.
Per gli edifici.
Nuova versione autocompilabile a pagine singole dei file del
libretto di impianto degli edifici, che consente di stampare
eventuali pagine integrative.
In quest'ultimo caso però si informa che il campo «codice
catasto» deve essere compilato per ogni nuova pagina.
La nuova versione dei libretti può essere utilizzata entro
il prossimo 15 di ottobre.
Il comitato termotecnico italiano ha pubblicato sul suo sito
oltre alla preesistente versione del libretto e dei rapporti
di controllo di efficienza energetica autocompilabili, una
nuova versione auto compilabile a pagine singole dei file
del libretto di impianto, che consente di stampare
eventuali pagine integrative.
Il comitato ha messo a disposizione degli esempi applicativi
per le tipologie impiantistiche più diffuse per facilitare e
uniformare la compilazione dei libretto di impianto per la
climatizzazione e dei rapporti di controllo di efficienza
energetica
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Visite mediche sempre al lavoro. Dipendenti ritenuti in
servizio se il controllo è extra orario.
Il chiarimento sugli obblighi relativi alla sorveglianza
sanitaria in un interpello del ministero.
Salute dei dipendenti «cara» all'azienda. Le visite mediche
vanno eseguite durante l'attività di lavoro, altrimenti il
datore di lavoro deve giustificare con ragioni produttive
l'organizzazione dei controlli sanitari all'infuori del
normale orario di lavoro.
In quest'ultimo caso i lavoratori vanno comunque considerati
in servizio per tutto il tempo di svolgimento dei controlli
medici, con diritto quindi a retribuzione e ogni altra
competenza collegata.
Lo precisa la commissione per gli
interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello
06.10.2014 n. 18/2014
a risposta di un quesito dell'unione sindacale di base dei
Vigili del fuoco.
Visite mediche periodiche. La richiesta dei sindacati
riguarda la corretta interpretazione dell'art. 41 del T.u.
sicurezza (approvato dal dlgs n. 81/2008), il quale
disciplina obbligo e modalità per l'effettuazione della
sorveglianza sanitaria. In particolare, è stato chiesto di
sapere se nell'effettuazione delle visite periodiche per il
rinnovo dell'idoneità psicofisica all'impiego, come previsto
dal citato art. 41 del T.u. sicurezza, la visita vada svolta
necessariamente in orario di lavoro, oppure se il datore di
lavoro abbia facoltà di inviare il lavoratore a visita anche
quando non si trovi al lavoro (cioè fuori dal normale orario
di servizio). In quest'ultima ipotesi, inoltre, è stato
chiesto di sapere se il tempo impiegato dal lavoratore per
effettuare la visita debba o meno essere retribuito come ore
di lavoro straordinario.
Sorveglianza sanitaria. La sorveglianza sanitaria
(disciplinata dall'art. 41 del T.u. sicurezza) rientra fra
gli obblighi del datore di lavoro elencati dall'art. 18 del
medesimo T.u. Il fine è quello della tutela dello stato di
salute e sicurezza dei lavoratori, attraverso la valutazione
(medica) delle compatibilità tra condizioni di salute e
compiti lavorativi. L'art. 20 del T.u., inoltre, sancisce
fra gli obblighi dei lavoratori quello di sottoporsi ai
controlli sanitari disposti dal datore di lavoro.
Salute «cara» all'azienda. Secondo la commissione
ministeriale i controlli medici relativi alla sorveglianza
sanitaria sono a carico dell'azienda in tutto e per tutto.
Il contenuto tassativo e la «ratio» dell'art. 18 del T.u.,
spiega, non lasciano spazi o deroghe circa l'osservanza
dell'obbligo prescritto e finalizzato alla tutela
dell'integrità fisica e psichica del lavoratore. Le visite
mediche non possono, per nessun motivo in considerazione
della particolarità del bene tutelato (la salute dei
lavoratori), essere omesse o trascurate dal datore di lavoro
(che è il soggetto obbligato) e, di contro, il lavoratore
non può esimersi dal sottoporsi all'effettuazione dei
controlli medici.
Inoltre, secondo la commissione ministeriale, pur se non è
previsto espressamente dall'art. 41 del T.u. che debba
essere eseguita durante l'attività lavorativa,
l'effettuazione della visita medica «è funzionale
all'attività lavorativa e pertanto il datore di lavoro dovrà
comunque giustificare le motivazioni produttive che
determinano la collocazione temporale della stessa fuori dal
normale orario di lavoro». Ciò significa che le visite vanno
fissate, «normalmente», durante l'orario di lavoro e che per
la programmazione in un diverso orario è necessaria una
«motivazione produttiva».
Quanto ai «costi» dei controlli sanitari, infine, la
commissione ministeriale ritiene che l'unico a doverli
sopportare sia il datore di lavoro, in virtù dell'art. 15,
comma 2, del T.u. il quale stabilisce che «le misure
relative alla sicurezza, all'igiene e alla salute durante il
lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari
per i lavoratori».
Pertanto, conclude la commissione, i
controlli sanitari vanno strutturati tenendo ben presente
gli orari di lavoro e la reperibilità dei lavoratori; e ove
per giustificate esigenze lavorative il controllo sanitario
sia effettuato in orari diversi, «il lavoratore dovrà
comunque considerarsi in servizio a tutti gli effetti»
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nuove procedure di calcolo per la certificazione energetica
degli edifici.
Dal 2 ottobre sono cambiate le procedure di calcolo per la
certificazione energetica degli edifici. L'Uni ha redatto le
nuove versioni delle norme Uni/Ts 11300-1 e Uni/Ts 11300-2
per la determinazione, rispettivamente, del fabbisogno di
energia termica dell'edificio per la climatizzazione estiva
e invernale e del fabbisogno di energia primaria e dei
rendimenti per la climatizzazione invernale e per la
produzione di acqua calda sanitaria.
Quattro le novità
introdotte dalle nuove norme ed evidenziate
dall'associazione nazionale per l'isolamento termico e
acustico (Anit) in una breve guida. Le conseguenze delle
modifiche sottolinea l'associazione riguardano i calcoli per
il rispetto della ex-legge 10 (dlgs 192/2005, dlgs 311/2007 e
dpr 59/2009) e per la certificazione degli edifici di nuova
costruzione ed esistenti per tutte le regioni che richiamano
le norme Uni TS 11300 per tali calcoli. Ecco in sintesi le
novità fotografate dall'associazione.
Ponti termici e e. I ponti termici vengono valutati solo
attraverso i coefficienti lineici e. Viene cancellato
l'utilizzo della maggiorazione percentuale semplificata e
l'utilizzo dell'abaco della norma Uni En 14683. Le
valutazioni dei coefficienti lineici devono essere fatte con
calcolo agli elementi finiti o con atlanti dei ponti termici
realizzati in accordo con la Un En ISO 14683. È possibile
utilizzare metodi di calcolo manuale per edifici esistenti.
Trasmittanza termica U. Le caratteristiche dei materiali e
in particolare la conducibilità termica devono essere
opportunamente corrette per tener conto delle condizioni in
cui si opera in accordo con la norma Uni En ISO 10456. Per
edifici esistenti è inoltre disponibile il rapporto tecnico
UNI/TR 11552, anch'esso pubblicato il 02.10.2014, che
riporta un abaco di strutture opache verticali e
orizzontali, con proprietà termo fisiche indicative.
Perdite per ventilazione. Nella precedente versione la
ventilazione era condensata in due pagine. Attualmente sono
dieci le pagine dedicate alle perdite per ventilazione con
due appendici specifiche. La valutazione diventa molto più
raffinata e vengono considerati in maniera più idonea gli
impianti che gestiscono la ventilazione all'interno degli
edifici.
Guadagni solari. Viene introdotta la modifica già presente
nella procedura di calcolo della regione Lombardia che
valuta un solo fattore di riduzione per ombreggiatura
esterno (il peggiorativo) tra l'aggetto verticale e
orizzontale. Inoltre viene implementata la caratterizzazione
della trasmittanza di energia solare totale attraverso la
parte vetrata (il fattore g) con una migliore definizione
dei fattori di esposizione. Sono presenti altre modifiche
(per esempio la trattazione dei locali non riscaldati, la
sottrazione di energia con l'extraflusso, la valutazione
degli apporti interni latenti e la valutazione degli apporti
solari sulle superfici opache).
Varie.
Da evidenziare che ci sono inoltre altre modifiche quali la
trattazione dei locali non riscaldati, la sottrazione di
energia con l'extraflusso, la valutazione degli apporti
interni latenti e la valutazione degli apporti solari sulle
superfici opache
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Norme antimafia al secondo correttivo.
Possibilità per la p.a. di stipulare i contratti pubblici
dopo 30 giorni dalla richiesta della certificazione
antimafia, fatti salvi provvedimenti interdittivi del
prefetto. In casi di urgenza, i controlli sono tutti a
posteriori, potendosi firmare il contratto subito.
Sono tra
le novità del secondo decreto correttivo del Codice
antimafia (dlgs 159/2011, modificato con il dlgs 218/2012)
ieri all'esame del Consiglio dei ministri.
La bozza del
provvedimento entrato all'esame dell'esecutivo prevede che
le certificazioni antimafia siano distinte in comunicazioni
e informazioni antimafia. Mentre la comunicazione attesta le
misure di prevenzione applicate a carico di un'impresa,
l'informazione ha contenuto più ampio ed evidenzia anche i
tentativi di infiltrazione mafiosa. Per i contratti pubblici
di valore più basso viene acquisita, tramite le prefetture,
la comunicazione mentre per gli appalti di valore più
elevato ci vuole l'informazione.
Il correttivo, per le
comunicazioni, prevede, in relazione alla futura banca dati
nazionale (un grande archivio a disposizione delle
amministrazioni procedenti), l'acquisizione diretta da parte
delle stazioni appaltanti. Se emergeranno notizie ostative
ci vorrà comunque il provvedimento conclusivo (liberatorio o interdittivo) del prefetto della provincia di sede
dell'impresa. Sempre per le comunicazioni, viene ridotto il
tempo per la risposta delle prefetture.
Il contratto deve
comunque prevedere la clausola di scioglimento nel caso di
provvedimento interdittivo del prefetto. Se non si tratta di
appalti, ma di provvidenze pubbliche subordinate alla
regolarità antimafia, sarà l'amministrazione concedente a
dover decidere se procedere subito o aspettare comunque la
risposta prefettizia
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2014). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI SERVIZI:
Con particolare riferimento all’indicazione degli
oneri di sicurezza, la giurisprudenza prevalente, alla quale
il Collegio intende aderire, ha ritenuto che tali voci, non
essendo assimilabili a principi generali, non possono dar
luogo ad alcuna eterointegrazione degli atti di gara, salvo
che in tal senso abbia disposto la stazione appaltante, né
un obbligo di indicazione può farsi discendere
automaticamente dall’art. 26, c. 6.
---------------
Quando la procedura concorsuale riguarda un servizio
compreso fra quelli elencati nell’allegato II B del d.lgs.
n. 163/2006 non è dato che la disciplina di gara possa
ricevere, indipendentemente da uno specifico richiamo in
essa, immediata integrazione con le previsioni dettate
dall’art. 86 sulla specificazione dei costi della sicurezza
afferenti la prestazione dedotta in rapporto.
Con un primo motivo, la ricorrente sostiene la illegittimità
degli atti impugnati sostenendo che l’aggiudicataria avrebbe
dovuto essere esclusa non avendo la stessa assolto
all’obbligo, ai sensi dell’art. 86, c. 3-bis, e art. 87, c.
42, di evidenziare, oltre agli oneri di sicurezza indicati
nel bando di gara relativi ai rischi da interferenza, anche
gli oneri aziendali specifici di sicurezza.
La censura non tiene conto che l’appalto in esame ha a
oggetto i servizi, come definiti dall’art. 4 del bando di
gara, di cui al d.lgs. 163/2006 categoria 27 CPC – allegato
II B e pertanto esclusi dall’ambito di applicazione delle
norme di dettaglio contenute nel Codice stesso.
Con particolare riferimento all’indicazione degli oneri di
sicurezza, la giurisprudenza prevalente (per tutte C.d.S.
355/2014; TAR Piemonte Torino n. 1254 del 24.10.2013), alla
quale il Collegio intende aderire, ha ritenuto che tali
voci, non essendo assimilabili a principi generali, non
possono dar luogo ad alcuna eterointegrazione degli atti di
gara, salvo che in tal senso abbia disposto la stazione
appaltante, né un obbligo di indicazione può farsi
discendere automaticamente dall’art. 26, c. 6.
Nella fattispecie, la lex specialis non prevedeva
alcuna prescrizione in tal senso e, analogamente, l’apposito
modello, predisposto e fornito dalla stazione appaltante in
allegato al bando di gara, non conteneva alcuna prescrizione
per l’indicazione di tali oneri.
Tali considerazioni impedivano alla P.A., anche in ossequio
al principio della tassatività delle cause di esclusione,
previsto dal comma 1-bis dell’art. 46 del d.lgs. 163/2006
(il quale dispone che la stazione appaltante possa escludere
i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato
adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal
regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché
nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte) di escludere la Salento Port Service.
Pertanto, “quando la procedura concorsuale riguarda un
servizio compreso fra quelli elencati nell’allegato II B del
d.lgs. n. 163/2006 non è dato che la disciplina di gara
possa ricevere, indipendentemente da uno specifico richiamo
in essa, immediata integrazione con le previsioni dettate
dall’art. 86 sulla specificazione dei costi della sicurezza
afferenti la prestazione dedotta in rapporto” (cfr.
C.d.S. III, n. 6640/2011, 3706 e 5070/2013, 280/2014; V, n.
4510/2012 e 2517/2014)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 09.10.2014 n. 2453 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La giurisprudenza, privilegiando
l’interpretazione sostanziale, ha ritenuto illegittima
l’esclusione da una gara d’appalto dell’impresa che abbia
omesso una dichiarazione, nel caso in cui la stessa sia in
realtà comunque in possesso dei requisiti richiesti (e la
lex specialis non preveda una sanzione espulsiva per la mera
omissione).
Quanto all’omessa sottoscrizione della prima pagina
dell’offerta economica, deve ritenersi sufficiente, ai fini
della riconducibilità dell’offerta al suo autore, che
sussista la firma in calce alla stessa, atteso che è
quest’ultima a manifestare la consapevole assunzione della
paternità di una dichiarazione e la responsabilità in ordine
al suo contenuto.
Sono pure infondate le censure con le quali la ricorrente
lamenta che l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa
in quanto la sig.ra Maria Cafaro, in qualità di
amministratore cessato dalla carica, non avrebbe prodotto la
dichiarazione ex art. 38 d.lgs. 163/2006.
Piuttosto, tale soggetto ha fornito comunque la
dichiarazione ex art. 38 citato, sia pure in qualità di
socio di capitali.
Con principi applicabili al caso in esame, la
giurisprudenza, privilegiando l’interpretazione sostanziale,
ha ritenuto illegittima l’esclusione da una gara d’appalto
dell’impresa che abbia omesso una dichiarazione, nel caso in
cui la stessa sia in realtà comunque in possesso dei
requisiti richiesti (e la lex specialis non preveda
una sanzione espulsiva per la mera omissione) (TAR Umbria,
Sezione I - Sentenza 01/04/2011 n. 103; in termini più ampi
Ad .Pl. n. 16 del 2014).
Quanto all’omessa sottoscrizione della prima pagina
dell’offerta economica, deve ritenersi sufficiente, ai fini
della riconducibilità dell’offerta al suo autore, che
sussista la firma in calce alla stessa, atteso che è
quest’ultima a manifestare la consapevole assunzione della
paternità di una dichiarazione e la responsabilità in ordine
al suo contenuto (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. III, n.
625/2011; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, n. 634/2012) .
Peraltro, la formalità della sottoscrizione dell’offerta in
ogni pagina non risulta affatto prevista e sanzionata, in
caso di omissione, dal bando di gara, limitandosi
quest’ultimo a richiedere che l’offerta sia contenuta
nell’apposito plico interno debitamente sigillato con
strumenti idonei a garantire la sicurezza contro eventuali
manomissioni, controfirmato sui lembi di chiusura, recante
l’indicazione del mittente e l’oggetto della gara, sicché la
circostanza lamentata, non prevista neppure dall’art. 74 del
d.lgs. 163/2006, risulta del tutto innocua ai fine
dell’ammissione alla procedura de qua.
In conclusione, i provvedimenti impugnati resistono alle
censure rassegnate nel ricorso il quale deve quindi essere
respinto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 09.10.2014 n. 2453 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Nel caso di rifiuti abbandonati in un terreno,
qualora l’autore materiale della violazione non sia
identificato, al fine di individuare il soggetto obbligato
alla rimozione dei rifiuti e al ripristino dello stato dei
luoghi, è necessario procedere al duplice accertamento della
titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione
per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta
titolare di diritti reali o personali di godimento sulla
stessa.
---------------
E' illegittimo l’ordine di rimozione e smaltimento dei
rifiuti impartito al ricorrente laddove non sia potendosi
ravvisare, a carico dello stesso, l’imputabilità, a titolo
di dolo o colpa, dello sversamento dei rifiuti.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che la
responsabilità per colpa, di cui all’art. 192 del d.lgs. n.
152/2006, si ravvisa tutte le volte in cui vi sia un
comportamento negligente (da verificare caso per caso) da
parte del soggetto ritenuto responsabile, che può anche
consistere in un fatto omissivo..
L’obbligo di diligenza, inoltre, deve essere valutato
secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la
conseguenza che va ascritta la responsabilità per colpa al
proprietario non autore dello sversamento quando sarebbe
stato possibile evitare il fatto solo sopportando un
sacrificio obiettivamente proporzionato.
--------------
Il ricorrente ha subito furti nel fabbricato e
danneggiamenti al muro a secco e agli infissi interni ed
esterni denunciando l’accaduto, ha provveduto ad affittare
il terreno in questione a terzi nonché ha provveduto
prontamente a denunciare lo sversamento dei rifiuti.
Il Collegio ritiene che gli accorgimenti tenuti possano,
secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità,
ritenersi sufficienti al fine di escludere che allo stesso
sia ascrivibile alcuna responsabilità a titolo di dolo o
colpa per l’abbandono dei rifiuti oggetto dell’impugnata
ordinanza; peraltro l’A.C. nell’imporre di dotare il fondo
in questione di “recinzione di sufficiente altezza” non ha
tenuto conto, oltre che dell’estensione del fondo,
dell’esistenza del muro a secco ivi esistente, cioè
dell’esistenza di un ostacolo in genere idoneo ad evitare lo
sversamento di rifiuti, e dell’estraneità all’ordinaria
diligenza di cautele ulteriori.
... per l'annullamento dell'ordinanza priva di numero
comunicata con nota datata 16/01/2014, notificata il 18/1
successivo, con cui il Dirigente del Settore Ambiente,
Igiene, Prot. Civile del Comune di Lecce ha ordinato al
ricorrente di procedere, entro 20 giorni a far data dalla
notifica, alla rimozione e smaltimento dei rifiuti
insistenti sul terreno sito alla via F. Perulli "C.da
Marsello" Agro di Lecce Folt. 207 P.lla 34, e di dotare
il terreno in questione di recinzione di sufficiente altezza
al fine di evitare il reiterarsi il fenomeno di discarica
abusiva di rifiuti, con l'avvertenza che l'inottemperanza al
provvedimento costituisce reato e che, decorso il termine
fissato per provvedere, si procederà d'ufficio alla
esecuzione in danno;
...
L’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce che “fatta
salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255
e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è
tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio al recupero o
allo smaltimento dei rifiuti e al ripristino dello stato dei
luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il
Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il
quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati
ed al recupero delle somme anticipate”.
Pertanto, qualora l’autore materiale della violazione non
sia identificato, al fine di individuare il soggetto
obbligato alla rimozione dei rifiuti e al ripristino dello
stato dei luoghi, è necessario procedere al duplice
accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità
della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui
che risulta titolare di diritti reali o personali di
godimento sulla stessa.
Nella fattispecie, come risulta dall’ordinanza impugnata, l’A.C.
premettendo che “con nota del Corpo di polizia
Provinciale del 07.01.2014 e da successivo sopralluogo per
la vigilanza del territorio, eseguito dal personale in
servizio presso l’Ufficio Ambiente, si è riscontrato che un
terreno sito alla via F. Perulli è tenuto in gravi
condizioni igienico – sanitarie, con la presenza di rifiuti
anche nocivi di varia natura tra cui onduline in materiale
presunto amianto, pneumatici in disuso, materiale ferroso e
materiale plastico” ha ordinato gli interventi di
pulizia (rimozione e smaltimento) dei rifiuti di cui in
premessa, al fine del ripristino dello stato dei luoghi,
nonché la recinzione (di sufficiente altezza) di tutto il
terreno.
Ciò posto, il Collegio ritiene la illegittimità dell’ordine
di rimozione e smaltimento dei rifiuti impartito al
ricorrente, non potendosi ravvisare, a carico dello stesso,
l’imputabilità, a titolo di dolo o colpa, dello sversamento
dei rifiuti.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che la
responsabilità per colpa, di cui all’art. 192 del d.lgs. n.
152/2006, si ravvisa tutte le volte in cui vi sia un
comportamento negligente (da verificare caso per caso) da
parte del soggetto ritenuto responsabile, che può anche
consistere in un fatto omissivo (TAR Toscana Firenze, sez.
II, 23.12.2010, n. 6862; TAR Campania Napoli, sez. V,
08.06.2010, n. 13059).
L’obbligo di diligenza, inoltre, deve essere valutato
secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la
conseguenza che va ascritta la responsabilità per colpa al
proprietario non autore dello sversamento quando sarebbe
stato possibile evitare il fatto solo sopportando un
sacrificio obiettivamente proporzionato.
Inoltre, l’idoneità delle cautele adottate dal soggetto
proprietario o utilizzatore del bene va valutata in
concreto, tenendosi conto di una serie di circostanze
obiettive.
Nella specie, dai documenti esibiti in giudizio, risulta che
il ricorrente ha subito furti nel fabbricato e
danneggiamenti al muro a secco e agli infissi interni ed
esterni denunciando l’accaduto, ha provveduto ad affittare
il terreno in questione a terzi (contratti d’affitto del
14.10.2013 e del 20.09.2012) nonché ha provveduto
prontamente a denunciare lo sversamento dei rifiuti.
Il Collegio ritiene che gli accorgimenti tenuti possano,
secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità,
ritenersi sufficienti al fine di escludere che allo stesso
sia ascrivibile alcuna responsabilità a titolo di dolo o
colpa per l’abbandono dei rifiuti oggetto dell’impugnata
ordinanza; peraltro l’A.C. nell’imporre di dotare il fondo
in questione di “recinzione di sufficiente altezza”
non ha tenuto conto, oltre che dell’estensione del fondo,
dell’esistenza del muro a secco ivi esistente, cioè
dell’esistenza di un ostacolo in genere idoneo ad evitare lo
sversamento di rifiuti, e dell’estraneità all’ordinaria
diligenza di cautele ulteriori.
In conclusione, il provvedimento impugnato sconta il
denunciato deficit istruttorio e motivazionale
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 09.10.2014 n. 2452 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La scansione procedimentale ex art. 8 DPR
160/2010 prevede che, successivamente alla conferenza di
servizi, si pronunci, nella prima seduta utile, il consiglio
comunale, il quale è comunque titolare di un potere
discrezionale circa l’approvazione o meno del progetto (che
quindi può legittimamente fondare -anche indipendentemente
da precisi divieti ambientali- su valutazioni di ordine
generale, purché razionalmente ed equilibratamente
rapportate, in relazione alla natura ed entità
dell'intervento, all'esigenza di evitare la compromissione
di valori paesaggistici, urbanistici o comunque inerenti la
tutela dell'assetto del territorio).
Nessun potere risulta invece conferito dalla norma al
Responsabile dell’UTC, nella more della decisione del
consiglio comunale, circa la sospensione del procedimento
per ragioni di carattere edilizio o urbanistico che, anche
laddove non esaminate in sede di conferenza di servizi,
potranno pur sempre essere valutate dal consiglio comunale.
Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
L’art. 8 D.P.R. 160/2010 tipizza il particolare procedimento
comportante l’approvazione di progetti in variazione di
strumenti urbanistici: “1. Nei comuni in cui lo strumento
urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta
salva l'applicazione della relativa disciplina regionale,
l'interessato può richiedere al responsabile del SUAP la
convocazione della conferenza di servizi di cui agli
articoli da 14 a 14-quinquies della legge 07.08.1990, n.
241, e alle altre normative di settore, in seduta pubblica.
Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la
variazione dello strumento urbanistico, ove sussista
l'assenso della Regione espresso in quella sede, il verbale
è trasmesso al Sindaco ovvero al Presidente del Consiglio
comunale, ove esistente, che lo sottopone alla votazione del
Consiglio nella prima seduta utile. Gli interventi relativi
al progetto, approvato secondo le modalità previste dal
presente comma, sono avviati e conclusi dal richiedente
secondo le modalità previste all'articolo 15 del testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380.
2. È facoltà degli interessati chiedere tramite il SUAP
all'ufficio comunale competente per materia di pronunciarsi
entro trenta giorni sulla conformità, allo stato degli atti,
dei progetti preliminari dai medesimi sottoposti al suo
parere con i vigenti strumenti di pianificazione
paesaggistica, territoriale e urbanistica, senza che ciò
pregiudichi la definizione dell'eventuale successivo
procedimento; in caso di pronuncia favorevole il
responsabile del SUAP dispone per il seguito immediato del
procedimento con riduzione della metà dei termini previsti.”
Appare evidente che la scansione procedimentale suindicata
prevede che, successivamente alla conferenza di servizi, si
pronunci, nella prima seduta utile, il consiglio comunale,
il quale è comunque titolare di un potere discrezionale
circa l’approvazione o meno del progetto (che quindi può
legittimamente fondare -anche indipendentemente da precisi
divieti ambientali- su valutazioni di ordine generale,
purché razionalmente ed equilibratamente rapportate, in
relazione alla natura ed entità dell'intervento,
all'esigenza di evitare la compromissione di valori
paesaggistici, urbanistici o comunque inerenti la tutela
dell'assetto del territorio: cfr C.d.S. Sez. IV, sent. n.
1038 del 03.03.2006).
Nessun potere risulta invece conferito dalla norma al
Responsabile dell’UTC, nella more della decisione del
consiglio comunale, circa la sospensione del procedimento
per ragioni di carattere edilizio o urbanistico che, anche
laddove non esaminate in sede di conferenza di servizi,
potranno pur sempre essere valutate dal consiglio comunale.
A ciò aggiungasi che la motivazione addotta dal responsabile
dell’UTC per supportare la disposta sospensione
procedimentale (omessa rimozione di manufatto abusivo), come
già rilevato dalla sezione nell’ordinanza cautelare n.
134/2014, lungi dal costituire ostacolo al procedimento come
tipizzato dall’art. 5 DPR 447/1998 (oggi art. 8 DPR
160/2010), assume rilievo solo sotto il profilo
sanzionatorio, estraneo alla modifica della strumentazione
urbanistica in questione
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 09.10.2014 n. 2451 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Licenziabile chi lavora in malattia.
Non rileva il fatto che l'attività sia stata svolta presso
il negozio di un familiare.
Cassazione/1. Per i giudici legittimo l'allontanamento per
giusta causa di un dipendente con ernia e depressione.
Lo svolgimento di
attività lavorativa presso soggetti diversi dal proprio
datore di lavoro, durante il periodo di malattia, legittima
il licenziamento per giusta causa del dipendente, anche se i
terzi sono familiari del dipendente; l'eventuale
compatibilità dell'attività svolta con la malattia deve
essere provata dal lavoratore, anche nel caso in cui la
patologia denunciata sia una depressione.
Con queste conclusioni, coerenti con gli orientamenti
maggioritari della giurisprudenza di legittimità, la Corte
di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza 07.10.2014 n. 21093)
ha rigettato l'impugnativa proposta da un lavoratore,
licenziato dopo essere stato scoperto -mediante indagini
apposite- a lavorare presso il negozio di un familiare
durante il periodo di malattia.
Dopo essere stato sconfitto in entrambi i gradi di merito,
il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione lamentando
di aver svolto alcune semplici prestazioni gratuite in
favore di familiari che non potevano essere considerate come
attività lavorativa, in quanto si erano concretizzate nello
svolgimento di piccoli lavori (in particolare, la
riparazione di un piccolo elettrodomestico, e null'altro).
Lo stesso lavoratore sosteneva, nel proprio ricorso, che
l'attività lavorativa durante il periodo di malattia sarebbe
preclusa solo qualora fosse fornita la prova della
simulazione dello stato patologico, oppure qualora fosse
dimostrato che l'attività svolta avesse compromesso la
guarigione.
La Corte di Cassazione ha respinto queste censure, partendo
da un'esatta ricostruzione del fatto.
La sentenza ricorda, in particolare, che nelle precedenti
fasi di merito era stato accertato che il lavoratore,
denunciando una doppia malattia (una depressione e una
cervicobrachialgia da ernia discale), si era assentato dal
lavoro per un certo periodo ma, negli stessi giorni, aveva
lavorato in maniera sistematica presso il negozio di
casalinghi del fratello, dove aveva svolto mansioni
tutt'altro che occasionali (sistemazione delle merci negli
scaffali, vigilanza contro i furti, assistenza ai clienti).
In relazione a questi fatti, la Corte evidenzia che le
sentenze di merito hanno correttamente ritenuto
incompatibili le attività svolte con le patologie
denunciare.
È interessante notare che la sentenza evidenzia che l'onere
della prova circa tale compatibilità avrebbe dovuto essere
assolto dal lavoratore, e non dal datore di lavoro, che
aveva solo il diverso onere -nel caso, ampiamente assolto-
di provare che era stata svolta attività lavorativa in
favore di terzi durante la malattia. Sulla base di queste
valutazioni, la Corte esclude che l'ernia discale fosse
compatibile con l'attività di riparazione di
elettrodomestici, ma anche che l'attività di sorveglianza
contro i furti potesse conciliarsi con la denunciata
depressione, in quanto questo compito richiede una
focalizzazione costante dell'attenzione e un contatto anche
conflittuale con la clientela
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'art.
24 l. 07.08.1990, n. 241, nella parte in cui esclude il
diritto di accesso con riferimento ai procedimenti
tributari, per i quali restano ferme le particolari norme
che li regolano, va interpretato nel senso che la
inaccessibilità agli atti relativi deve essere ritenuta
temporalmente limitata alla fase di mera “pendenza” del
procedimento tributario, in quanto non sussistono esigenze
di segretezza nella fase che segue la conclusione del
procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di
accertamento dell'imposta dovuta.
Conseguentemente, devesi riconoscersi il diritto di accesso
qualora l'amministrazione abbia concluso il procedimento con
l'emanazione del provvedimento finale e, quindi, in via
generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere
agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
---------------
L’interesse del contribuente alla ostensione degli atti
propedeutici a procedure di riscossione è riconosciuto anche
in via legislativa, mediante la previsione di obblighi in
capo al concessionario alla riscossione.
Invero, l’art. 26 d.P.R. 29.09.1973, n. 602, in tema di
riscossione delle imposte sul reddito, recita: "Il
concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o
la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta
notificazione o l'avviso del ricevimento ed ha l'obbligo di
farne esibizione su richiesta del contribuente o
dell'amministrazione".
In particolare, il suddetto articolo ha introdotto due
obblighi per la società concessionaria: a) la conservazione
per cinque anni e b) l'obbligo di esibizione a richiesta del
contribuente.
Ne consegue che, in relazione alla cartella esattoriale, la
richiesta di accesso, ai sensi degli artt. 22 ss., l.
07.08.1990, n. 241, si pone come strumentale rispetto alla
tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme
consentite dall'ordinamento giuridico ritenute più
rispondenti ed opportune.
Diversamente opinando, si finirebbe con l’introdurre una
ingiustificata limitazione all'esercizio della difesa in
giudizio del contribuente, rendendo, comunque, estremamente
difficoltosa la tutela giurisdizionale, che dovrebbe
impegnarsi in una defatigante ricerca delle copie delle
cartelle.
---------------
Quanto alla sussistenza del diritto di accedere alle
cartelle di pagamento, benché al contribuente siano state
fornite copie degli estratti di ruolo correlativi alle
cartelle de quibus, si rileva che il Consiglio di Stato ha
chiarito, con riferimento al già più volte citato art. 26,
comma 4, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602, come con esso il
legislatore abbia individuato direttamente un obbligo di
custodia degli atti ed un dovere di ostensione su mera
richiesta del contribuente.
Le disposizioni sul diritto di accesso risultano pertanto di
maggiore definizione e speciali rispetto alla disciplina
generale del procedimento amministrativo in quanto, in
questo caso, la valutazione sulla sussistenza di un
interesse all'esibizione è fatta direttamente dalla legge, e
non va più svolta caso per caso. A maggior ragione, quindi,
la richiesta del contribuente non può mai essere valutata
sotto il profilo della meritevolezza soggettiva da parte del
concessionario, obbligato ex lege alla custodia ed
all'esibizione, senza che allo stesso residui alcun margine
di scelta.
Ciò in quanto “la copia della cartella di pagamento ex se
costituisc(e) strumento utile alla tutela giurisdizionale
delle ragioni della ricorrente e che la concessionaria non
ha quindi alcuna legittimazione a sindacare le scelte
difensive eventualmente operate dal privato”.
Va infatti sottolineato come la cartella di pagamento, ossia
l'atto di cui il ricorrente ha chiesto l'ostensione, ed il
documento ricevuto, intestato "estratto cartella" e
stampigliato come "copia conforme dell'estratto di ruolo",
siano documenti diversi. In particolare, la cartella
esattoriale è prevista dall'art. 25 del d.P.R. 29.09.1973,
n. 602 quale documento per la riscossione degli importi
contenuti nei ruoli e deve essere predisposta secondo il
modello approvato con decreto del Ministero delle Finanze
(attualmente con modello approvato dall'Agenzia delle
Entrate). Il documento ricevuto dal ricorrente è invece un
elaborato informatico formato dall'esattore, sebbene
sostanzialmente contenente gli stessi elementi della
cartella originale.
La differenza ontologica tra i due documenti non può però
essere superata dall'omogeneità contenutistica, omogeneità
che peraltro non è stata messa in dubbio dalle parti. La
ragione per cui non è permesso all'amministrazione, ed al
privato che esercita funzioni pubbliche, di sostituire
arbitrariamente il documento richiesto con altro sebbene
equipollente deriva espressamente dalla legge 07.08.1990, n.
241, che all'art. 22, lett. d), fornisce la nozione di
documento amministrativo e nello stesso contesto, alla lett.
a) precisa come il diritto di accesso sia "il diritto degli
interessati di prendere visione e di estrarre copia di
documenti amministrativi", ossia un diritto di acquisizione
di quegli stessi documenti o delle loro copie e non di
succedanei.
In questa ottica, la giurisprudenza ha già evidenziato come
elemento fondante dell'actio ad exhibendum sia la conformità
del documento esibito al privato all'originale, non avendo
neppure rilievo scusante l'esistenza per la pubblica
amministrazione di impedimenti tecnici.
A maggior ragione, l'accesso documentale non può essere
soddisfatto dall'esibizione di un documento che
l'amministrazione, e non il privato ricorrente, giudica
equipollente.
5.1. Secondo la giurisprudenza di questa Sezione (cfr., tra
le molte, TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 10.07.2014, n. 1358), l'art. 24 l.
07.08.1990, n. 241, nella
parte in cui esclude il diritto di accesso con riferimento
ai procedimenti tributari, per i quali restano ferme le
particolari norme che li regolano, va interpretato nel senso
che la inaccessibilità agli atti relativi deve essere
ritenuta temporalmente limitata alla fase di mera “pendenza”
del procedimento tributario, in quanto non sussistono
esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione
del procedimento con l'adozione del procedimento definitivo
di accertamento dell'imposta dovuta.
Conseguentemente, devesi riconoscersi il diritto di accesso
qualora l'amministrazione abbia concluso il procedimento con
l'emanazione del provvedimento finale e, quindi, in via
generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere
agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
Sotto altro aspetto, va evidenziato che l’interesse del
contribuente alla ostensione degli atti propedeutici a
procedure di riscossione è riconosciuto anche in via
legislativa, mediante la previsione di obblighi in capo al
concessionario alla riscossione.
Invero, l’art. 26 d.P.R. 29.09.1973, n. 602, in tema
di riscossione delle imposte sul reddito, recita: "Il
concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o
la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta
notificazione o l'avviso del ricevimento ed ha l'obbligo di
farne esibizione su richiesta del contribuente o
dell'amministrazione".
In particolare, il suddetto articolo ha introdotto due
obblighi per la società concessionaria: a) la conservazione
per cinque anni e b) l'obbligo di esibizione a richiesta del
contribuente.
Ne consegue che, in relazione alla cartella esattoriale, la
richiesta di accesso, ai sensi degli artt. 22 ss., l. 07.08.1990, n. 241, si pone come strumentale rispetto alla
tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme
consentite dall'ordinamento giuridico ritenute più
rispondenti ed opportune.
Diversamente opinando, si finirebbe con l’introdurre una
ingiustificata limitazione all'esercizio della difesa in
giudizio del contribuente, rendendo, comunque, estremamente
difficoltosa la tutela giurisdizionale, che dovrebbe
impegnarsi in una defatigante ricerca delle copie delle
cartelle.
5.2. Quanto alla sussistenza del diritto di accedere alle
cartelle di pagamento, benché al contribuente siano state
fornite copie degli estratti di ruolo correlativi alle
cartelle de quibus, si rileva che il Consiglio di Stato (da
ultimo con la sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2014,
n. 2422, in precedenza Cons. Stato Sez. IV, 30.11.2009, n. 7486) ha chiarito, con riferimento al già più volte
citato art. 26, comma 4, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602,
come con esso il legislatore abbia individuato direttamente
un obbligo di custodia degli atti ed un dovere di ostensione
su mera richiesta del contribuente.
Le disposizioni sul diritto di accesso risultano pertanto di
maggiore definizione e speciali rispetto alla disciplina
generale del procedimento amministrativo in quanto, in
questo caso, la valutazione sulla sussistenza di un
interesse all'esibizione è fatta direttamente dalla legge, e
non va più svolta caso per caso. A maggior ragione, quindi,
la richiesta del contribuente non può mai essere valutata
sotto il profilo della meritevolezza soggettiva da parte del
concessionario, obbligato ex lege alla custodia ed
all'esibizione, senza che allo stesso residui alcun margine
di scelta.
Ciò in quanto “la copia della cartella di pagamento ex se costituisc(e) strumento utile alla tutela giurisdizionale
delle ragioni della ricorrente e che la concessionaria non
ha quindi alcuna legittimazione a sindacare le scelte
difensive eventualmente operate dal privato” (Cons. Stato
Sez. IV, 30.11.2009, n. 7486).
Va infatti sottolineato come la cartella di pagamento, ossia
l'atto di cui il ricorrente ha chiesto l'ostensione, ed il
documento ricevuto, intestato "estratto cartella" e
stampigliato come "copia conforme dell'estratto di ruolo",
siano documenti diversi. In particolare, la cartella
esattoriale è prevista dall'art. 25 del d.P.R. 29.09.1973, n. 602 quale documento per la riscossione degli
importi contenuti nei ruoli e deve essere predisposta
secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle
Finanze (attualmente con modello approvato dall'Agenzia
delle Entrate). Il documento ricevuto dal ricorrente è
invece un elaborato informatico formato dall'esattore,
sebbene sostanzialmente contenente gli stessi elementi della
cartella originale.
La differenza ontologica tra i due documenti non può però
essere superata dall'omogeneità contenutistica, omogeneità
che peraltro non è stata messa in dubbio dalle parti. La
ragione per cui non è permesso all'amministrazione, ed al
privato che esercita funzioni pubbliche, di sostituire
arbitrariamente il documento richiesto con altro sebbene
equipollente deriva espressamente dalla legge 07.08.1990,
n. 241, che all'art. 22, lett. d), fornisce la nozione di
documento amministrativo e nello stesso contesto, alla lett.
a) precisa come il diritto di accesso sia "il diritto degli
interessati di prendere visione e di estrarre copia di
documenti amministrativi", ossia un diritto di acquisizione
di quegli stessi documenti o delle loro copie e non di
succedanei.
In questa ottica, la giurisprudenza ha già evidenziato come
elemento fondante dell'actio ad exhibendum sia la conformità
del documento esibito al privato all'originale, non avendo
neppure rilievo scusante l'esistenza per la pubblica
amministrazione di impedimenti tecnici (Consiglio di Stato,
sez. IV, 10.04.2009, n. 2243). A maggior ragione,
l'accesso documentale non può essere soddisfatto
dall'esibizione di un documento che l'amministrazione, e non
il privato ricorrente, giudica equipollente
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.10.2014 n. 1607 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Legittimamente l'Amministrazione comunale
ingiunge la rimozione di manufatto edilizio insistente su
porzione di strada comunale onde rendere fruibile all'uso
pubblico il tratto di strada secondo il percorso originario,
laddove sia incontestata la natura demaniale della porzione
di strada vicinale comunale sul cui sedime è stato
realizzato il manufatto edilizio.
L'immanenza dei poteri di polizia demaniale esclude ogni
rilevanza all'esistenza di tracciato alternativo e
l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi e
all'uso pubblico giustifica il provvedimento di rimozione,
risultando irrilevante che, per effetto del medesimo
provvedimento ripristinatorio, possa avvantaggiarsi terzo
privato inciso da tracciato alternativo non conforme a
quello originario realizzato proprio in relazione
all'usurpazione della porzione della strada vicinale
comunale che l'ha sottratta all'uso pubblico.
L'appello in epigrafe è destituito di fondamento giuridico e
deve essere rigettato, con la conferma della sentenza
gravata.
Infatti, incontestata la natura demaniale della porzione di
strada vicinale comunale sul cui sedime è stato realizzato
il corpo di fabbrica in ampliamento al preesistente
fabbricato, l'immanenza dei poteri di polizia demaniale
esclude ogni rilevanza all'esistenza di tracciato
alternativo e l'interesse pubblico al ripristino dello stato
dei luoghi e all'uso pubblico giustifica il provvedimento
impugnato in primo grado, risultando irrilevante che, per
effetto del medesimo, possa avvantaggiarsi terzo privato
inciso da tracciato alternativo non conforme a quello
originario realizzato proprio in relazione all'usurpazione
della porzione della strada vicinale comunale che l'ha
sottratta all'uso pubblico
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2014 n. 4941 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Permesso prescritto stanato con Google maps.
Una sentenza del Tar Toscana.
Non basta aver spianato o soltanto picchettato il terreno
dove si vuole edificare l'opera per evitare la decadenza
annuale dal permesso ottenuto dal comune: per interrompere
la «prescrizione» del titolo abilitativo, infatti, serve un
inizio dei lavori vero e proprio, cioè caratterizzato da
interventi che denotano un «serio intento» di costruire. E
l'amministrazione locale per «stanare» chi non ha cominciato
in tempo i lavori assentiti ricorre alle immagini scaricate
da Google Maps in modo da provare in modo certo
l'intervenuta «prescrizione».
È quanto emerge dalla
sentenza
03.10.2014 n. 1515 pubblicata dalla III Sez. del TAR Toscana.
Assunto infondato
Niente da fare per l'ex titolare dell'autorizzazione non
sfruttata dopo che il comune ha dichiarato la decadenza per
mancato tempestivo avvio dei lavori ai sensi dell'articolo
15 del Testo unico dell'edilizia. Non risultano sufficienti
a evitare la «tagliola» dell'ente le mere «verifiche del
caso», vale a dire un semplice picchettamento per
determinare l'esatta posizione del capannone da realizzare.
In realtà dopo aver rimosso il terreno vengono fuori le
rocce, e gli operai sono costretti a fermarsi: troppo presto
per poter invocare un regolare inizio dei lavori in base
all'articolo 15 del dpr 380/2001, che esclude la sussistenza
di effetti interruttivi anche in caso di meri scavi di
sondaggio. E altrettanto vale nell'ipotesi di livellamento.
L'amministrazione locale porta in giudizio le foto tratte da
Google Maps per dimostrare che nell'ottobre 2011 i lavori di
cui al permesso di costruire in considerazione non erano
ancora stati avviati. Ma prima ancora delle immagini
scaricate dal popolare motore di ricerca pesa l'infondatezza
dell'assunto del titolare del permesso.
Decorso oggettivo
Inutile invocare il maltempo in Maremma che avrebbe bloccato
i lavori. La forza maggiore non può comportare una
sospensione legale del termine di inizio e ultimazione dei
lavori, al massimo può legittimare una richiesta di proroga
da parte dell'interessato: sarà l'ufficio a valutare poi i
fatti rappresentati.
Insomma: la decadenza si verifica per l'oggettivo decorso
del termine quando il cittadino non presenta un'istanza
tempestiva. Nulla per le spese
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che per aversi
“inizio dei lavori”, tale da escludere la pronuncia di
decadenza nel termine annuale dal rilascio del permesso di
costruire, occorre aver dato avvio ad opere che denotino un
<serio intento costruttivo>, sicché sono inidonei a
configurare un effettivo “inizio dei lavori” il mero
spianamento del terreno o meri scavi di sondaggio o anche la
“mera picchettatura” del terreno interessato dalla
costruzione e il suo livellamento.
---------------
La presenza di elementi di “forza maggiore” che avrebbero
impedito l’avvio tempestivo dei lavori nei termini di legge
non può comportare una sospensione legale del termine di
inizio e ultimazione dei lavori, semmai potendo legittimare
una richiesta di proroga da parte dell'interessato
all’Amministrazione, cui seguirà una valutazione dei fatti
rappresentati da parte dell’ufficio pubblico competente.
Ne segue che la decadenza si verifica invece per l'oggettivo
decorso del termine quando, come nel caso in esame,
l'interessato non abbia presentato una tempestiva istanza di
proroga del termine rappresentato all’Amministrazione
l’essersi verificati fatti oggettivamente impeditivi
all’avvio dei lavori.
6 – Con il primo mezzo parte ricorrente evidenzia che non
sussisterebbero nella specie i presupposti per la
declaratoria di decadenza del permesso di costruire, avendo
essa avviato l’inizio dei lavori nel termine annuale, da
computarsi dalla data di ritiro del permesso di costruire, e
contestando parte ricorrente gli accertamenti svolti
dall’Amministrazione e i profili probatori sui quali la
parte pubblica fonda il proprio assunto di mancato avvio dei
lavoro nell’anno (in particolare le fotografie tratte da
Google Maps).
La censure è infondata.
Rileva il Collegio che non vi è neppure necessità di
affrontare la questione, sulla quale la ricorrente si
diffonde, relativa alla idoneità delle fotografie tratte da
Internet a dimostrare che nell’ottobre 2011 i lavori di cui
al permesso di costruire in considerazione non sarebbero
ancora stati avviati; infatti tale questione è superata
dalla infondatezza dell’assunto stesso di parte ricorrente
secondo cui l’avvio di esecuzione che essa avrebbe posto in
essere nei primi giorni di gennaio 2011 sarebbe idoneo ad
escludere la pronuncia di decadenza; infatti parte
ricorrente afferma di aver posto in essere in quel periodo “i
primi lavori necessari, ovvero il picchettamento per
determinare l’esatta posizione del nuovo capannone”,
aggiungendo che “si evidenziava quasi subito, tolto il
primo strato terroso, che vi era stata una sottovalutazione
di quello pietroso inferiore”, affermando quindi il
compimento di operazioni che, alla luce delle costante
elaborazione giurisprudenziale, non risultano sufficienti a
integrare “l’inizio dei lavori” di cui alla’art. 15
del DPR n. 380 del 2001.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che per aversi “inizio
dei lavori”, tale da escludere la pronuncia di decadenza
nel termine annuale dal rilascio del permesso di costruire,
occorre aver dato avvio ad opere che denotino un <serio
intento costruttivo>, sicché sono inidonei a configurare
un effettivo “inizio dei lavori” il mero spianamento
del terreno o meri scavi di sondaggio o anche la “mera
picchettatura” del terreno interessato dalla costruzione
e il suo livellamento (TAR Torino, sez. 1^, 03.01.2014, n.
2), che è quanto la ricorrente afferma di aver effettuato
nella specie.
7 – Con il secondo mezzo parte ricorrente evidenzia le
avversità che le hanno impedito di procedere più
speditamente all’avvio dei lavori, come il rinvenimento di
strati pietrosi o la pessima situazione metereologica che ha
interessato la Maremma.
La censura è infondata.
Nella sostanza la ricorrente invoca la presenza di elementi
di “forza maggiore” che le avrebbero impedito l’avvio
tempestivo dei lavori. Osserva tuttavia il Collegio che la
forza maggiore non può comportare una sospensione legale del
termine di inizio e ultimazione dei lavori, semmai potendo
legittimare una richiesta di proroga da parte
dell'interessato all’Amministrazione, cui seguirà una
valutazione dei fatti rappresentati da parte dell’ufficio
pubblico competente; ne segue che la decadenza si verifica
invece per l'oggettivo decorso del termine quando, come nel
caso in esame, l'interessato non abbia presentato una
tempestiva istanza di proroga del termine rappresentato
all’Amministrazione l’essersi verificati fatti
oggettivamente impeditivi all’avvio dei lavori (Cons. St.,
sez. 3^, 03.04.2013, n. 1870).
8 – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso
deve essere respinto
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza
03.10.2014 n. 1515
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: 1.
L'installazione di canna fumaria a servizio di attività di
ristorazione va ricondotto nel novero dei lavori di
ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1,
lettera d), del D.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite
inserimento di nuovi elementi ed impianti, e, dunque,
soggetto al regime del permesso di costruire, ai sensi
dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso
D.P.R. n. 380/2001 laddove comporti una modifica del
prospetto del fabbricato cui inerisce.
2. In tema di installazione di canne fumarie, è necessario
il previo rilascio del permesso di costruire, qualora esse
non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese
evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma
dell'immobile, e non possano considerarsi un elemento
meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile.
Osserva il Collegio che l'intervento in esame deve ritenersi
riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui
all'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380 del
2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed
impianti, e, dunque, soggetto al regime del permesso di
costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera
c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di
specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui
inerisce, peraltro riscontrabile dalle riproduzioni
fotografiche in atti.
Occorre inoltre sul punto ricordare che, nel caso delle
canne fumarie, la giurisprudenza ha ravvisato la necessità
del previo rilascio del permesso di costruire, qualora esse
non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese
evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma
dell'immobile, e non possano considerarsi un elemento
meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile.
Nel caso di specie, dalle riproduzioni fotografiche
depositate in atti, la canna fumaria installata
sull'edificio in esame per dimensioni, altezza, relativa
conformazione, risulta incidere notevolmente sul prospetto e
la sagoma della costruzione su cui è installata.
D’altro canto non risulta dagli atti la prova che la canna
fumaria in questione abbia sostituito –come sostiene il
ricorrente- una canna fumaria precedente (della cui
esistenza il ricorrente fa unicamente cenno nel ricorso, ma
non nella domanda di condono), né risultano le dimensioni e
la precisa localizzazione di quest’ultima.
In ogni caso, anche se se si trattasse effettivamente di
sostituzione di una canna fumaria avente le stesse
dimensioni e identica localizzazione rispetto alla
precedente, l’intervento andrebbe considerato di
manutenzione straordinaria, soggetto comunque anch’esso a
sanatoria, come dispone l’allegato 1 del d.l. 269/2003
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 02.10.2014 n. 10134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale, qualora una variante
urbanistica riguardi beni specifici ed incida direttamente
su determinati soggetti, come nel caso di specie, essa ha
carattere particolare, così che la pubblica amministrazione
ha l'obbligo di notificare direttamente agli interessati il
provvedimento e solo da tale adempimento decorre il termine
di impugnazione e non dal perfezionamento della fase di
pubblicazione degli atti.
E’ infondata anche l'eccezione di
tardività del ricorso NRG. 1551 del 1998, con cui le
ricorrenti hanno impugnato in primo grado la delibera di
Giunta regionale n. 2759 del 27.05.1987, per essere
stato lo stesso proposto soltanto l'08.04.1998, ben oltre
il termine di sessanta giorni decorrente dall'avvenuta
pubblicazione sul bollettino ufficiale regionale.
Precisato che con il predetto ricorso era stata impugnata in
parte qua la delibera di approvazione della variante al
piano regolatore generale recante la ritipizzazione di alcun
aree, tra cui quelle sulle quali era stato assentito
l'intervento edilizio di cui alla concessione edilizia n.
255 del 18.11.1991, occorre rilevare che, secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualora una
variante urbanistica riguardi beni specifici ed incida
direttamente su determinati soggetti, come nel caso di
specie, essa ha carattere particolare, così che la pubblica
amministrazione ha l'obbligo di notificare direttamente agli
interessati il provvedimento e solo da tale adempimento
decorre il termine di impugnazione e non dal perfezionamento
della fase di pubblicazione degli atti (Cons. St., sez, VI,
03.03.2014, n. 595; 15.12.2009, n. 7963; sez. IV,
22.08.2013, n. 4243; 15.02.2013, n. 922) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4933 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La concessione edilizia
in deroga, com'è noto, si differenzia radicalmente, sia dal
punto di vista procedimentale che da quello sostanziale,
rispetto alla ordinaria concessione edilizia, che consente
all'Amministrazione di esercitare un potere ampiamente
discrezionale per perseguire un interesse pubblico ritenuto
preminente, consistente nella disapplicazione di una norma a
una fattispecie concreta, che pure presenta tutti gli
elementi per essere assoggettata alla disciplina da essa
dettata e che, costituendo una vera decisione urbanistica
rientra nella competenza esclusiva del Consiglio comunale.
Devono essere
innanzitutto respinte le censure sollevate con i motivi
aggiunti notificati il 13.12.2014, puntualmente
riproposti con l'appello principale, concernenti l'asserita
illegittimità della concessione edilizia n. 255 del 18.11.1991 rilasciata alla società Sud Costruzioni s.r.l.
e della successiva concessione -per variante in corso
d’opera ed intestazione– n. 88 del 29.01.1993,
rilasciata alla società Rubino G. & P. s.n.c., per la
mancata approvazione del progetto delle realizzande
residenze universitarie da parte del Consiglio Comunale di
Bari e per la mancata predisposizione e approvazione della
convenzione per il corretto utilizzo delle stesse.
Invero, ancorché la concessione edilizia n. 255 del 18.11.1991 (e la successiva n. 88 del 29.01.1993)
riguardi la realizzazione di un edificio di interesse
pubblico, tali potendo essere qualificate le residenze
universitarie, non può tuttavia negarsi che né nella
richiesta di rilascio della concessione, né in quest'ultima
(e nella successiva variante) si riscontra un sia pur minimo
accenno alla circostanza che si tratti di una concessione
edilizia in deroga, che, com'è noto, si differenzia
radicalmente, sia dal punto di vista procedimentale che da
quello sostanziale, rispetto alla ordinaria concessione
edilizia, che consente all'Amministrazione di esercitare un
potere ampiamente discrezionale per perseguire un interesse
pubblico ritenuto preminente, consistente nella
disapplicazione di una norma a una fattispecie concreta, che
pure presenta tutti gli elementi per essere assoggettata
alla disciplina da essa dettata (Cons. St, sez.. IV, 23.07.2009, n. 4664) e che, costituendo una vera decisione
urbanistica rientra nella competenza esclusiva del Consiglio
comunale (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4933 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Se è vero che le scelte
urbanistiche in ordine alla zonizzazione del territorio
costituiscono tipica espressione del potere discrezionale di
cui è titolare l’amministrazione per il corretto uso del
territorio che non necessita di altra motivazione, al di là
del richiamo ai criteri tecnico–urbanistici seguiti
nell’impostazione del piano e rinvenibili nella relazione di
accompagnamento al piano regolamento generale, d’altra parte
un preciso onere di motivazione si impone quando le scelte
urbanistiche diano vita ad una variante specifica
riguardanti beni specifici ed incidano quindi su posizioni
giuridicamente differenziare ovvero.
Sussiste infatti il
dedotto difetto di motivazione dell’impugnata variante,
dovendo al riguardo rilevarsi che se è vero che le scelte
urbanistiche in ordine alla zonizzazione del territorio
costituiscono tipica espressione del potere discrezionale di
cui è titolare l’amministrazione per il corretto uso del
territorio che non necessita di altra motivazione, al di là
del richiamo ai criteri tecnico–urbanistici seguiti
nell’impostazione del piano e rinvenibili nella relazione di
accompagnamento al piano regolamento generale, d’altra parte
un preciso onere di motivazione si impone quando le scelte
urbanistiche diano vita ad una variante specifica
riguardanti beni specifici ed incidano quindi su posizioni
giuridicamente differenziare ovvero (ex multis, Cons. St.,
sez. IV, 24.01.2013, n 431; 04.06.2013, n. 3055) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4933 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROGETTAZIONE:
Appalti, conta la data di pubblicazione del bando.
Nelle gare di appalto pubbliche la verifica sui cinque anni
di abilitazione del giovane professionista va effettuata
rispetto alla data di pubblicazione del bando e non alla
scadenza del termine di presentazione delle offerte.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 02.10.2014 n. 4929 prendendo in esame,
per un appalto integrato, un'eccezione sui requisiti
soggettivi del cosiddetto «giovane professionista»
che deve essere sempre presente nei raggruppamenti
temporanei di progettisti.
Al riguardo l'art. 90, comma 7, del codice dei contratti
pubblici si limita a rinviare al regolamento attuativo (dpr
207/2010) e quest'ultimo (art. 253, comma 5) stabilisce che
occorre garantire nel raggruppamento temporaneo la «presenza
di un professionista, abilitato all'esercizio della
professione da meno di cinque anni» che dovrà svolgere
la funzione di «progettista».
Nel caso di specie il professionista indicato risultava
iscritto all'albo degli ingegneri, alla data di scadenza
della presentazione delle offerte, da più di cinque anni (e
quindi da più di cinque anni abilitato). I giudici, chiamati
a chiarire a quale termine si dovesse fare riferimento per
verificare la scadenza dei cinque anni, in assenza di
indicazioni né nel codice, né nel citato articolo 253,
richiamano quanto previsto nell'allegato L del dpr 207 per
sostenere che la verifica va effettuata al momento della
pubblicazione del bando di gara.
Infatti l'allegato al regolamento afferma che per tutti i
concorrenti il punteggio è incrementato del 5% qualora sia
presente quale progettista nel candidato almeno un
professionista che, alla data di pubblicazione del bando di
cui all'articolo 264, abbia ottenuto l'abilitazione
all'esercizio professionale da non più di cinque anni.
Per i giudici, quindi, la previsione regolamentare,
nell'indicare quale termine non quello di scadenza per la
presentazione delle offerte, ma quello della data di
pubblicazione del bando, risponde a una logica di
ampliamento del bacino di soggetti che possono utilizzare il
giovane professionista e così facendo incrementa le
possibilità di partecipazione a favore dei giovani
professionisti «rispetto a un lasso temporale di cinque
anni, che appare abbastanza ristretto»
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione e rimozione di abusi
edilizi (oltre che di rimessione in pristino dello stato dei
luoghi), costituisce un atto dovuto in mera dipendenza
dall'accertamento della relativa realizzazione e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie
d'illecito previste dalla legge, che esclude la necessità di
una sua particolare motivazione (essendo in tal senso
sufficiente la rappresentazione del carattere illecito
dell'opera realizzata), né una previa espressa comparazione
tra l'interesse pubblico alla rimozione dell'opera, che è in
re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione.
Il carattere vincolato dell’ordinanza impugnata rispetto al
diniego di sanatoria rende priva di fondamento giuridico
anche la censura con cui è stata lamentata la mancata
acquisizione, ai fini dell’emanazione dell’ordinanza
impugnata, del nuovo ed ulteriore parere della commissione
edilizia comunale, trattandosi di un’attività procedimentale
inutile ed irrilevante.
Per di più, va richiamato il
consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui
l’ordinanza di demolizione e rimozione di abusi edilizi
(oltre che di rimessione in pristino dello stato dei
luoghi), costituisce un atto dovuto in mera dipendenza
dall'accertamento della relativa realizzazione e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie
d'illecito previste dalla legge, che esclude la necessità di
una sua particolare motivazione (essendo in tal senso
sufficiente la rappresentazione del carattere illecito
dell'opera realizzata), né una previa espressa comparazione
tra l'interesse pubblico alla rimozione dell'opera, che è in
re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione (ex multis, Cons. St., sez. V, 13.03.2014, n. 1230; 30.06.2014, n. 3282; sez. IV, 28.04.2014, n. 2194; sez. VI, 11.11.2013, n. 5368; 11.12.2013, n. 5943).
Il carattere vincolato dell’ordinanza impugnata rispetto al
diniego di sanatoria rende priva di fondamento giuridico
anche la censura con cui è stata lamentata la mancata
acquisizione, ai fini dell’emanazione dell’ordinanza
impugnata, del nuovo ed ulteriore parere della commissione
edilizia comunale, trattandosi di un’attività procedimentale
inutile ed irrilevante
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4926 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: 1.
Il principio delle certezza delle situazioni giuridiche e di
tutela di tutti gli interessati deve far ritenere che non si
possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio
nella perdurante incertezza circa la sorte del proprio
titolo, perché, nelle more, il ritardo nell'impugnazione da
parte di chi vi abbia interesse (nel caso di specie i vicini
confinanti) si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso
all'ulteriore avanzamento dei lavori, che ex post potrebbero
essere dichiarati illegittimi.
2. Il principio della certezza delle situazioni giuridiche è
posto a tutela di tutte le parti, direttamente o
indirettamente interessate al provvedimento, ivi compreso,
naturalmente, anche l’interesse del soggetto titolare del
permesso di costruire, eventualmente illegittimo, a non
realizzare affatto una costruzione che sia suscettibile di
un futuro abbattimento.
3. Qualora sia oggetto di contestazione la stessa astratta
possibilità di edificare in un certo terreno la mera
conoscenza dell'iniziativa in corso appare elemento
sufficiente ed essenziale ai fini dell'identificazione del
dies a quo per l'impugnazione.
4. Chi assume essere intervenuta violazione di un vincolo di
inedificabilità ha il preciso dovere di tutelare senza
indugio i propri interessi legittimi, né è a tal fine
indispensabile, ai fini della decorrenza del termine di
impugnazione, che sia necessaria la conoscenza di tutti gli
elementi del permesso di costruire, essendo sufficiente che
sia nota l'esistenza e la lesività del titolo, dato che
resta sempre salva la possibilità di proporre motivi
aggiunti, qualora dalla conoscenza integrale del
provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori
profili di illegittimità.
5. Se il principio cardine cui ancorare la conoscenza piena
è da individuarsi nell' ultimazione dei lavori, è anche vero
che questo principio non può essere invocato da chi assume
che l'intervento edilizio sia ex se lesivo, in relazione
alla presenza di vincoli (anche distanze), in quanto in tal
caso la lesività è immediatamente percepibile all'atto
dell'inizio delle attività di cantiere.
6. Allorquando il proprietario di fondo confinante con area
interessata da intervento edilizio censuri, dinanzi al GA,
titoli edilizi per violazione delle prescrizioni generali in
materia di distanze di cui al D.M. 1444/1968, va tenuto
conto -al fine di vagliare la tempestività del ricorso in
sede giurisdizionale- della specificità delle suddette
censure, che attengono a profili di illegittimità
suscettibili di apprezzamento in ragione del mero inizio
dell’attività costruttiva. In tale ipotesi è tardivamente
proposto il ricorso in sede giurisdizionale, laddove risulti
attestato da verbale di sopralluogo di Polizia Municipale
che, ben oltre 60 giorni prima dalla proposizione del
ricorso, erano già state erette le mura perimetrali del
contestato edificio, per cui, anche se i lavori non
risultavano ancora ultimati, era di facile rilevazione la
difformità dell'opera dai limiti sulle distanze tra edifici
invocati dal ricorrente.
L'appello è infondato e va respinto.
Appare utile esaminare, preliminarmente, il primo motivo di
censura, con il quale gli appellanti lamentano l'erroneità
della sentenza del TAR Veneto, laddove il tribunale ha
ritenuto irricevibile il ricorso in primo grado per
tardività, deducendo essi, che il verbale della polizia
municipale non sarebbe elemento sufficiente a provare la
piena conoscenza, fin dal febbraio 2002, da parte dei
proprietari degli immobili siti nei fondi finitimi,
dell'avanzato stato di realizzazione dell'opera e dunque
della lesività della concessione edilizia rilasciata alla
società Perale Edilizia s.r.l..
Orbene, la censura non può trovare accoglimento, atteso che,
come evidenziato dal TAR, i provvedimenti
dell'amministrazione originariamente censurati, attengono "alla
violazione delle prescrizioni generali in materia di
distanze di cui al D.M. 1444/1968 ed alla L.R. n. 61/1985,
art. 23”. Se si tiene conto della specificità delle
suddette censure, che attengono a profili di illegittimità
suscettibili di apprezzamento in ragione del mero inizio
dell’attività costruttiva, il ricorso e i motivi aggiunti
appaiono tardivamente proposti, in quanto, così come risulta
attestato dal verbale di sopralluogo dei VV.UU. del
01.02.2002, a tale epoca risultavano già erette le mura
perimetrali del piano terra e del primo piano, per cui,
anche se i lavori non risultavano ancora ultimati, era di
facile rilevazione la difformità dell'opera dai limiti sulle
distanze tra edifici invocati dai ricorrenti".
Al riguardo, questo Consiglio di Stato ha costantemente
affermato che il principio delle certezza delle situazioni
giuridiche e di tutela di tutti gli interessati, deve far
ritenere che non si possa lasciare il soggetto titolare di
un permesso edilizio nella perdurante incertezza circa la
sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo
nell'impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (nel
caso di specie i vicini confinanti) si risolverebbe in un
danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei
lavori, che ex post potrebbero essere dichiarati
illegittimi.
Il principio della certezza delle situazioni giuridiche è,
infatti, posto a tutela di tutte le parti,direttamente o
indirettamente interessate al provvedimento, ivi compreso,
naturalmente, anche l’interesse del soggetto titolare del
permesso di costruire, eventualmente illegittimo, a non
realizzare affatto una costruzione che sia suscettibile di
un futuro abbattimento.
Conseguentemente, qualora sia oggetto di contestazione la
stessa astratta possibilità di edificare in un certo
terreno, e non solo, come nel caso di specie, le distanze
tra edifici, la mera conoscenza dell'iniziativa in corso
appare elemento sufficiente ed essenziale ai fini
dell'identificazione del dies a quo per
l'impugnazione.
Pertanto, chi assume essere intervenuta violazione di un
vincolo di inedificabilità, specie se di contenuto parziale,
ha il preciso dovere di tutelare senza indugio i propri
interessi legittimi, né è a tal fine indispensabile, ai fini
della decorrenza del termine di impugnazione, che sia
necessaria la conoscenza di tutti gli elementi del permesso
di costruire, essendo sufficiente che sia nota l'esistenza e
la lesività del titolo, dato che resta sempre salva la
possibilità di proporre motivi aggiunti, qualora dalla
conoscenza integrale del provvedimento e degli atti
presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità
(cfr. Consiglio di Stato, sez, V, 12.07.2010, n. 4482).
In definitiva, se il principio cardine cui ancorare la
conoscenza piena è da individuarsi nell' ultimazione dei
lavori, è anche vero che questo principio non può essere
invocato da chi assume che l'intervento edilizio sia ex
se lesivo, in relazione alla presenza di vincoli (anche
distanze), in quanto in tal caso la lesività è
immediatamente percepibile all'atto dell'inizio delle
attività di cantiere.
Nel caso in esame, un ritardo di diversi mesi dal giorno in
cui (01.02.2002) veniva accertata l'esecuzione di lavori non
assentiti, certamente già da tempo in corso, non può essere
considerato un comportamento diligente.
La parte ricorrente in primo grado ha evidentemente fatto
luogo ad attività alquanto dilatorie, mentre avrebbe dovuto
senz'altro attivarsi tempestivamente.
In definitiva, si deve concludere che il ricorso in primo
grado è stato tardivamente notificato il 07.06.2002, in
quanto l'asserita illegittimità dell'attività costruttiva
era immediatamente percepibile dagli appellanti fin dal
momento in cui i lavori del rustico erano stati completati
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4901 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ruderi da ricostruire: non bastano le tracce.
Cassazione. Circoscritto il Dl del fare.
Più difficile ricostruire ruderi, se mancano segni concreti
della preesistenza:
lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con
sentenza 30.09.2014 n. 40342.
La questione si è posta all'indomani dell'entrata in vigore
del "decreto del fare" (69/2013). L'articolo 30, modificando
l'articolo 3 del Tu edilizia 380/2001, colloca le
ricostruzioni tra gli interventi di ristrutturazione
edilizia, sottraendoli alla più complessa ristrutturazione
urbanistica. La norma del 2013 richiede, per ricostruire,
una generica possibilità di accertare la preesistente
consistenza: basterebbero, quindi, generici rilievi desunti
da quelli depositati presso uffici pubblici (catasto) o
addirittura le fotografie da album personali, per poter
dimostrare una preesistenza e quindi ripristinare superfici
e volumi.
Ciò ha reso di colpo appetibili tutte le aree con
ruderi, spesso testimonianze di manufatti un tempo
particolarmente consistenti. L'unico limite starebbe nei
vincoli ambientali paesaggistici, ma per le zone non
vincolante, un rudere poteva diventare l'inizio di una
ritrovata edificabilità.
Ora la Cassazione adotta un'interpretazione restrittiva,
esigendo la presenza dei connotati essenziali di un edificio
(pareti, solai e tetto), in modo che possa essere
determinata la volumetria, ovvero che essa possa essere
oggettivamente desunta da apposita documentazione storica o
attraverso una verifica dimensionale sul luogo.
In precedenza, si richiedeva che il rudere consentisse
l'individuazione dei connotati essenziali di un edificio,
senza che fosse necessario dimostrarne l'abitazione: è stata
così ritenuta sufficiente un'immagine desunta da Google maps
(Tar Catanzaro 443/2014), oppure la riconoscibilità
dell'originaria area attraverso residui e segmenti
consistenti del muro perimetrale (Consiglio di Stato
735/2014).
Non bastano quindi «poche pietre in un declivio
erboso» (Tribunale di Trento 306/2013), e nemmeno può
recuperarsi ciò che era stato demolito cinquant'anni prima
(Consiglio giustizia amministrativa 1200/2010). Non ci sono
invece problemi se sono crollati il tetto e uno o più
solari: la ricostruzione in questi casi deve rispettare la
sagoma dell'edificio preesistente. Sagoma che tuttavia può
contenere una maggiore superficie rispetto a quella del
passato (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2014). |
PATRIMONIO:
E' illegittimo il
Regolamento comunale di Polizia mortuaria laddove riserva al
comune stesso l’attività di fornitura e posa delle lastre di
chiusura di colombari e cellette, dei relativi arredi votivi
e decorazioni funebri.
La disciplina comunitaria in materia di
rapporto tra libero mercato e disciplina dei servizi di
interesse economico generale, prevede che l’amministrazione
possa concedere diritti esclusivi ad un’impresa pubblica o
privata soltanto qualora il libero confronto concorrenziale
sia di ostacolo alla missione affidata a tale impresa.
Nel caso di specie, al di là della questione se i lavori
oggetto di appalto siano da considerarsi resi all’interno di
un disegno complessivo di servizio pubblico, il comune ha
ritenuto di “chiudere” il mercato, seppure all’esito di una
gara ad evidenza pubblica, per motivazioni di natura
estetica, oltre che per tutelare un’esigenza di risparmio
nei costi di sepoltura.
Tuttavia, la rimozione di manufatti lapidei, le incisioni e
forniture di arredi e lastre per colombari e cellette,
nonché le conseguenti riparazioni manutentive, non appaiono
configurarsi alla stregua di lavori che debbano per loro
natura essere svolti da un unico soggetto in esclusiva.
Invero, da un lato, le ragioni di uniformità estetiche
possono essere perseguite tramite l’imposizione di
prescrizioni all’atto del rilascio delle singole
autorizzazioni, dall’altro, non è affatto scontato, né è
stato nel caso di specie dimostrato, che la tariffa
praticata dall’unico concessionario determini un risparmio
di spesa rispetto alle tariffe che applicherebbero soggetti
operanti in concorrenza tra di loro. Appare anzi vero il
contrario, salvo non voler contestare in radice le ragioni
fondanti l’istituzione del libero mercato, tra cui, per
l’appunto, quella di garantire, in regime di normalità, un
abbassamento dei prezzi tramite il gioco della concorrenza.
Non sussistendo dunque nel caso in esame alcuna ragionevole
motivazione tale da indurre il comune alla chiusura del
mercato, gli atti di gara descritti in epigrafe vanno
annullati, in conseguenza della illegittimità dei commi 3 e
4 dell’art. 70 del regolamento di Polizia mortuaria del
comune, nella parte in cui riservano al comune stesso
l’attività di fornitura e posa delle lastre di chiusura di
colombari e cellette, dei relativi arredi votivi e
decorazioni funebri.
Venendo infine al nucleo centrale delle contestazioni
dedotte nel ricorso (primo motivo), la società Fratelli
Ferrario sostiene che in ambito cimiteriale la normativa di
riferimento riserverebbe alla cura del soggetto pubblico
unicamente le funzioni preordinate alla tutela di esigenze
pubblicistiche di carattere igienico-sanitario, di sicurezza
e di ordine pubblico legare alla sepoltura e al culto dei
defunti, e che esulerebbe da tale riserva la fornitura e
posa in opera di arredi funebri, trattandosi di attività
commerciali e imprenditoriali integralmente sottoposte al
regime di libera commerciale.
Deduce, altresì, la ricorrente, che non sono oggetto di
impugnazione, nel presente giudizio, le previsioni del
regolamento comunale di polizia mortuaria del comune di
Busto Arsizio afferenti alla caratteristiche morfologiche ed
estetiche delle lastre, bensì le previsioni che configurano
una riserva esclusiva all’amministrazione per la fornitura e
la posa degli stessi.
Dal canto loro, Agesp Servizi S.r.l. e l’amministrazione
resistente hanno dedotto che le uniche opere riservate al
comune sarebbero le lastre di chiusura di colombari e
cellette, e che ciò sarebbe necessario per specifiche e
comprensibili ragioni di uniformazione estetica, oltre che
per tutelare un’esigenza di risparmio nei costi di
sepoltura.
Ad ogni modo, secondo le resistenti, la concessione del
servizio sarebbe avvenuta a seguito di gara finalizzata “a
compulsare il mercato alla ricerca delle migliori condizioni
che questo è in grado di esprimere in un determinato
contesto territoriale e momento storico”.
Ritiene il Collegio che la tesi della ricorrente sia
fondata.
La disciplina comunitaria in materia di rapporto tra libero
mercato e disciplina dei servizi di interesse economico
generale, prevede che l’amministrazione possa concedere
diritti esclusivi ad un’impresa pubblica o privata soltanto
qualora il libero confronto concorrenziale sia di ostacolo
alla missione affidata a tale impresa.
Nel caso di specie, al di là della questione se i lavori
oggetto di appalto siano da considerarsi resi all’interno di
un disegno complessivo di servizio pubblico, il comune di
Busto Arsizio ha ritenuto di “chiudere” il mercato,
seppure all’esito di una gara ad evidenza pubblica, per
motivazioni di natura estetica, oltre che per tutelare
un’esigenza di risparmio nei costi di sepoltura.
Tuttavia, la rimozione di manufatti lapidei, le incisioni e
forniture di arredi e lastre per colombari e cellette,
nonché le conseguenti riparazioni manutentive, non appaiono
configurarsi alla stregua di lavori che debbano per loro
natura essere svolti da un unico soggetto in esclusiva.
Invero, da un lato, le ragioni di uniformità estetiche
possono essere perseguite tramite l’imposizione di
prescrizioni all’atto del rilascio delle singole
autorizzazioni, dall’altro, non è affatto scontato, né è
stato nel caso di specie dimostrato, che la tariffa
praticata dall’unico concessionario determini un risparmio
di spesa rispetto alle tariffe che applicherebbero soggetti
operanti in concorrenza tra di loro. Appare anzi vero il
contrario, salvo non voler contestare in radice le ragioni
fondanti l’istituzione del libero mercato, tra cui, per
l’appunto, quella di garantire, in regime di normalità, un
abbassamento dei prezzi tramite il gioco della concorrenza.
Non sussistendo dunque nel caso in esame alcuna ragionevole
motivazione tale da indurre il comune alla chiusura del
mercato, gli atti di gara descritti in epigrafe vanno
annullati, in conseguenza della illegittimità dei commi 3 e
4 dell’art. 70 del regolamento di Polizia mortuaria del
comune di Busto Arsizio, nella parte in cui riservano al
comune stesso l’attività di fornitura e posa delle lastre di
chiusura di colombari e cellette, dei relativi arredi votivi
e decorazioni funebri (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 24.09.2014 n. 2378 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Questo
Tribunale ha precisato che la soprintendenza deve esprimere
il proprio parere -in ordine ad una istanza di compatibilità
paesaggistica- entro novanta giorni dalla ricezione degli
atti, e qualora non provveda nel termine perentorio ad essa
assegnato il parere non ha più portata obbligatoria e
vincolante e l’amministrazione deve motivare autonomamente a
prescindere dall’eventuale portata del parere tardivo.
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È stato osservato che “la mancata osservanza, da parte della
Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per
il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica, non
determina l'illegittimità del parere reso oltre il termine
previsto. Semplicemente, quest'ultimo perde il carattere
vincolante impresso dalla legge, proprio perché si colloca
al di fuori del quadro normativo, ma costituisce sempre un
elemento del procedimento che l'amministrazione deve
valutare, potendosene motivatamente discostare.
A tale conclusione porta:
a) la previsione di un termine espressamente definito come
perentorio dalla norma e quindi il rilievo attribuito dalla
legge all'intervento dell'atto nel termine prescritto;
b) l'assenza di una previsione analoga a quella dell'art.
146, nono comma, del d.lgs. n. 42 del 2004, che circoscrive
il lasso di tempo oltre il quale l'amministrazione può
procedere indipendentemente dall'apporto della
Soprintendenza;
c) il rilievo che l'ordinamento attribuisce all'intervento
consultivo nelle materie ambientale, paesistica-territoriale,
della salute dei cittadini.
Il punto di mediazione fra le esigenze di celerità
dell'azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del
termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte
degli "enti o organi specifici" è costituito, quindi, dalla
permanenza del potere del Soprintendente di fornire il
proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal
dovere dell'amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia
esserne vincolata, e senza la necessità di dover attendere
un lasso di tempo determinato dopo lo scadere del termine
assegnato dalla legge al Soprintendente”.
... per l'annullamento:
- dell'atto 04/04/2014 prot. n. 3 dell'U.T.C. del Comune di
Otranto, con il quale il Responsabile del procedimento ha
respinto l'istanza di accertamento della compatibilità
paesaggistica in sanatoria, ai sensi degli artt. 167 e 181
del D.Lgs. n. 42/2004, per la realizzazione di "ripari
ombreggianti di facile rimozione e temporanei a servizio di
un bar su suolo pubblico in concessione alla via Bastione
dei Pelasgi";
- della nota 19/03/2014 prot. n. 4008 del MiBAC -
Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici
delle Province di Lecce, Brindisi e Taranto, con la quale è
stato espresso parere di non compatibilità paesaggistica
delle strutture realizzate dalla società ricorrente;
- della nota 04/04/2014 prot., n. 3413 dell'U.T.C. del
Comune di Otranto, ricevuta dalla società ricorrente in data
08/04/2014, con la quale il Responsabile del procedimento ha
comunicato ed allegato il provvedimento di diniego;
- della nota 15/04/2014 prot. n. 3812 dell'U.T.C. del Comune
di Otranto, con la quale il Responsabile dell'Area Tecnica
ha comunicato l'avvio del procedimento ai sensi degli artt.
7 e 8 della legge n. 241/1990 per l'adozione dei
provvedimenti definitivi relativi alla rimozione dei ripari
ombreggianti di che trattasi;
- dell'ordinanza 27/5/2014 n. 257, notificata in data
06/06/2014, con cui il Responsabile dell'area Tecnica del
Comune di Otranto ha ingiunto la rimozione, entro 20 gg.,
della struttura installata;
...
Il ricorso è fondato.
L’amministrazione ha negato l’autorizzazione paesaggistica
ponendo a fondamento del proprio diniego il parere negativo
della soprintendenza.
Questo Tribunale ha precisato che la soprintendenza deve
esprimere il proprio parere entro novanta giorni dalla
ricezione degli atti, e qualora non provveda nel termine
perentorio a lei assegnato il parere non ha più portata
obbligatoria e vincolante e l’amministrazione deve motivare
autonomamente a prescindere dall’eventuale portata del
parere tardivo (Tar Lecce, sez. I, 15.06.2011, n. 1069).
È stato osservato che “la mancata osservanza, da parte
della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex
lege per il rilascio del parere di compatibilità
paesaggistica, non determina l'illegittimità del parere reso
oltre il termine previsto. Semplicemente, quest'ultimo perde
il carattere vincolante impresso dalla legge, proprio perché
si colloca al di fuori del quadro normativo, ma costituisce
sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione
deve valutare, potendosene motivatamente discostare.
A tale conclusione porta: a) la previsione di un termine
espressamente definito come perentorio dalla norma e quindi
il rilievo attribuito dalla legge all'intervento dell'atto
nel termine prescritto; b) l'assenza di una previsione
analoga a quella dell'art. 146,nono comma, del d.lgs. n. 42
del 2004, che circoscrive il lasso di tempo oltre il quale
l'amministrazione può procedere indipendentemente
dall'apporto della Soprintendenza; c) il rilievo che
l'ordinamento attribuisce all'intervento consultivo nelle
materie ambientale, paesistica-territoriale, della salute
dei cittadini.
Il punto di mediazione fra le esigenze di celerità
dell'azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del
termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte
degli "enti o organi specifici" è costituito, quindi, dalla
permanenza del potere del Soprintendente di fornire il
proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal
dovere dell'amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia
esserne vincolata, e senza la necessità di dover attendere
un lasso di tempo determinato dopo lo scadere del termine
assegnato dalla legge al Soprintendente” (Tar Lecce,
sez. I, 12.07.2013, n. 1681).
Nel caso in esame, risulta che la documentazione relativa
all’intervento è pervenuta alla Soprintendenza il 01.10.2013
e che il parere negativo è del 19.03.2014 e quindi è stato
messo oltre il termine di 90 giorni ex art. 167 d.lgs.
42/2004.
Pertanto, l’amministrazione non poteva denegare
l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo
della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare
sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza,
posto che il parere tardivo era da considerarsi privo
dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di
valenza obbligatoria e vincolante (Cons. St., sez. VI,
15.03.2013 n. 1561).
In sostanza, il provvedimento impugnato è carente di
motivazione, proprio perché si è limitato a richiamare il
parere negativo della soprintendenza senza motivare
adeguatamente
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 18.09.2014 n. 2375 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
Il comune aumenta le tariffe? Può farlo, nessun diritto alla
gratuità. Il Tar
Piemonte ha assolto l'amministrazione di Torino.
I comuni sono liberi di chiedere agli utenti dei servizi di
partecipare pro quota ai costi per l'erogazione dei suddetti
i servizi. Pertanto, non esiste un diritto soggettivo in
capo ai cittadini di ottenere quel servizio in forma
gratuita. Inoltre, il meccanismo dell'Isee (indicatore della
situazione economica equivalente) è adeguato per definire
chi può e chi non può accedere in forma agevolata a tali
servizi.
È questo il principio sancito dal TAR Piemonte, Sez. I,
nella
sentenza
31.07.2014 n. 1365.
Una sentenza che può essere letta
come guida anche per altri casi, come quello di Roma, dove è
scoppiata la protesta per gli aumenti dei costi degli asili.
Il ricorso era stato presentato da alcuni genitori nei
confronti della determinazione del Comune di Torino che
aveva stabilito gli indirizzi per l'esercizio 2013 del
sistema tariffario dei servizi educativi, approvando così le
quote e le tariffe per l'anno scolastico 2013/2014. I
ricorrenti contestavano che il comune guidato da Piero
Fassino, rispetto agli anni precedenti, avesse aumentato la
quota a carico delle famiglie degli allievi, imputando tale
aumento al sistema ISEE utilizzato. Di qui la richiesta di
pronunciare la illegittimità dell'atto impugnato perché il
servizio, a loro dire, avrebbe dovuto essere erogato
gratuitamente.
Secondo il Tar, il servizio di refezione scolastica è un
servizio pubblico locale a domanda individuale. Ne consegue
che l'ente locale non ha l'obbligo né di istituire né di
organizzare il servizio. Qualora lo istituisca, l'ente
locale deve individuare il costo complessivo del servizio,
includendo sia i costi diretti effettivamente pagati per la
sua erogazione, sia quelli indiretti. Nel fare ciò il Comune
deve definire la misura percentuale del costo finanziabile
con risorse comunali e fissare la residua percentuale da
finanziare con tariffe e contribuzioni a carico diretto
dell'utenza. Pertanto, il Tar del Piemonte ha ritenuto
legittime le scelte del Comune di Torino che ha agito
nell'ambito dei propri poteri discrezionali.
Le tariffe del
servizio di refezione scolastica non sono aumentate perché
il Comune ha applicato automaticamente gli scaglioni ISEE,
bensì perché il Comune ha deciso, motivatamente, di
aumentare la percentuale di contribuzione dell'utenza sul
costo complessivo del servizio stabilito per l'anno
scolastico 2013-2014, così come la legge gli consentiva di
fare
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Compensi professionali per attività di progettazione –
Convenzione che subordina il pagamento del compenso
all’ottenimento della concessione edilizia – Condizione
potestativa mista – Ritiro della domanda di concessione
edilizia da parte del committente in pendenza della
condizione – Recesso anticipato del committente
dall’incarico professionale ex art. 2237 c.c. – Fictio iuris
di avveramento della condizione – Artt. 1358 e 1359 c.c. –
Diritto al compenso – Sussistenza.
Nell’ipotesi di convenzione che
subordina il pagamento del compenso in favore del
professionista per prestazioni di progettazione al rilascio
della concessione edilizia deve ritenersi operante la fictio
iuris di avveramento della condizione, ex art. 1359 c.c.,
qualora il committente provveda autonomamente al ritiro
della domanda di concessione edilizia, dovendosi valutare
l’esistenza di un interesse contrario all’avveramento della
condizione (rilascio della concessione edilizia) in capo al
committente non in termini astratti o facendo riferimento al
solo momento della conclusione del contratto, ma
valorizzando il dato dell’effettivo interesse delle parti
all’epoca in cui si è verificato il fatto o comportamento
che ha reso impossibile l’avveramento della condizione.
L'art. 1359 cod. civ., in forza del quale la condizione si
ha per avverata se è mancata per causa imputabile alla parte
controinteressata al suo avveramento, non si riferisce solo
a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al
verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di
chi in concreto ha dimostrato, con una successiva condotta,
di non avere più interesse al verificarsi della condizione,
ponendo in essere atti tali da contribuire a far acquistare
al contratto un elemento modificativo dell''iter' attuativo
della sua efficacia. Detta norma è applicabile anche alla
c.d. condizione potestativa mista, il cui avveramento
dipende in parte dal caso e in parte dalla volontà di uno
dei contraenti.
L'art. 1359 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui
l'interesse di una delle parti -originariamente convergente
con quello della controparte- si modifichi in corso di
rapporto fino a risultare contrario all'avveramento della
condizione, avuto anche riguardo alla previsione di cui
all’art. 1358 c.c., che impone alle parti l’obbligo
giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato
di pendenza della condizione, e che va osservato anche con
riguardo all’attività di attuazione dell’elemento
potestativo della condizione mista.
Non può negarsi che il ritiro di un'istanza di concessione
edilizia sia chiaramente sintomatico del venir meno
dell'interesse ad ottenerla da parte di chi tale istanza
aveva presentato e deve ritenersi pertanto che integri un
comportamento idoneo a configurare un'ipotesi di 'interesse
contrario' comportante l'operatività della previsione
dell'art. 1359 c.c..
L'art. 2237, 1° co. c.c. ('il cliente può recedere dal
contratto, rimborsando al prestatore d'opera le spese
sostenute e pagando il compenso per l'opera svolta'),
bilanciando i contrapposti interessi tra le parti, riconosce
al cliente un illimitato diritto di recesso, ma — al tempo
stesso - garantisce al professionista il rimborso delle
spese e il pagamento del compenso per le attività svolte
fino al momento della revoca dell'incarico.
A fronte della revoca dell'incarico professionale (o
recesso) da parte del committente, il professionista non ha
di norma interesse a richiedere la risoluzione del contratto
(già verificatasi per effetto del recesso) ed il conseguente
risarcimento dei danni, ma può senz'altro agire per
conseguire il pagamento delle spettanze maturate per
l'attività svolta
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza
18.07.2014 n. 16501 - massima tratta da www.diritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
Aria. Legittimità ordinanza divieto di transito veicolare
sulla piazza e sulla strada per contenimento
dell’inquinamento atmosferico.
Le misure di regolazione, disciplina e controllo della
circolazione stradale, che l'art. 7, d.lgs. 30.04.1992 n.
285, attribuisce al Sindaco, sono ormai rimesse, di norma,
alla competenza della dirigenza amministrativa, salvo che
per quelle di maggiore impatto sull'intera collettività
locale, per le quali la legge prevede l'intervento di un
organo politico, come nel caso della delimitazione delle
aree pedonali e delle zone a traffico limitato, per la quale
si provvede con deliberazione della Giunta (art. 7, comma 9,
d.lgs. n. 285 del 1992), ovvero di quelle limitazioni
connesse al rispetto dei limiti del tasso di inquinamento
atmosferico.
Con il primo motivo viene dedotta l’incompetenza del
dirigente responsabile del servizio ad adottare il
provvedimento.
L’assunto è privo di pregio.
Le misure di regolazione, disciplina e controllo della
circolazione stradale, che l'art. 7, d.lgs. 30.04.1992 n.
285, attribuisce al Sindaco, sono ormai rimesse, di norma,
alla competenza della dirigenza amministrativa, salvo che
per quelle di maggiore impatto sull'intera collettività
locale, per le quali la legge prevede l'intervento di un
organo politico, come nel caso della delimitazione delle
aree pedonali e delle zone a traffico limitato, per la quale
si provvede con deliberazione della Giunta (art. 7, comma 9,
d.lgs. n. 285 del 1992), ovvero di quelle limitazioni
connesse al rispetto dei limiti del tasso di inquinamento
atmosferico (TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 28.02.2013, n.
458; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.06.2010, n. 15012; TAR
Campania, Napoli, sez. I, 04.11.2008, n. 19212).
In ordine all’omessa indicazione del termine e dell’Autorità
cui ricorrere, dedotta con il secondo motivo, è sufficiente
rammentare il pacifico orientamento della giurisprudenza
secondo cui detta omissione non determina l'illegittimità
del provvedimento amministrativo, ma solo una mera
irregolarità. La previsione dell'art. 3, comma 4, della l.
n. 241 del 1990, infatti, tende semplicemente ad agevolare
il ricorso alla tutela giurisdizionale, per cui la segnalata
omissione potrebbe dar luogo, nel concorso di significative
ulteriori circostanze, alla sola concessione del beneficio
della rimessione in termini per proporre impugnazione (Cons.
Stato, Sez. VI, 28.01.2014, n. 422; TAR Lazio, Latina,
17.02.2014, n. 138) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 16.06.2014 n. 1033 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Traslazione edificio.
Secondo un costante e consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa la traslazione dell’edificio
comporta che l’intervento di demolizione e ricostruzione non
possa essere qualificato come ristrutturazione integrando,
invece, una nuova costruzione.
Il ricorso è infondato.
Risulta dagli atti come i lavori di ristrutturazione
eseguiti dal ricorrente sulla tettoia ne abbiano comportato
la traslazione di circa un metro.
Secondo un costante e consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa la traslazione dell’edificio
comporta che l’intervento di demolizione e ricostruzione non
possa essere qualificato come ristrutturazione integrando,
invece, una nuova costruzione (TAR, Lazio, Roma, I,
06/07/2012 n. 6176; TAR Lecce, 12/03/2012 n. 484; TAR
L’Aquila, 14/12/2009 n. 548).
I lavori eseguiti, avendo posto in essere una struttura
nuova, in alcun modo riconducibile a quella di cui era stata
chiesta la sanatoria, non rientrano in nessuna delle
tipologie ammesse dal regolamento edilizio del Comune di
Firenze sugli immobili oggetto di domanda di condono.
Nulla si può, quindi, eccepire alla decisione del Comune di
rigettare la domanda di sanatoria per essere venuto a
mancare il manufatto a cui essa si riferiva.
Né può ritenersi che le autorizzazioni rilasciate dal Comune
per l’esecuzione dei lavori di rifacimento della tettoria
rendessero automatico l’accoglimento dell’istanza di
sanatoria non potendo il suo esito prescindere dalla
permanenza del manufatto da sanare.
Il ricorso deve, quindi, essere respinto (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.06.2014 n. 1024 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità ordinanza demolizione per scadenza
autorizzazione temporanea per ricovero attrezzi.
L’avvenuta scadenza dell’autorizzazione ha sostanzialmente
reso privo di titolo edilizio il manufatto, il quale è così
divenuto abusivo, con la conseguenza che la contestata
misura demolitoria è legittimata dall’art. 7 della legge n.
47/1985; non è invocabile al riguardo la disciplina in
materia di autoannullamento della concessione edilizia,
giacché nel caso in esame rileva un titolo inefficace in
relazione alla permanenza dell’opera dopo il prestabilito
termine.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce che l’opera non
può ritenersi abusiva, in quanto a suo tempo assentita, sia
pure in via provvisoria; aggiunge che la condonabilità delle
opere realizzate in forza di concessione edilizia
illegittima è subordinata all’annullamento in autotutela
della concessione stessa e che la sopravvenuta previsione
del PRG, consentendo la permanenza del manufatto, rende
illegittima l’ordinanza di demolizione.
I rilievi non hanno pregio.
L’avvenuta scadenza dell’autorizzazione rilasciata il
02.12.1992 ha sostanzialmente reso privo di titolo edilizio
il manufatto, il quale è così divenuto abusivo, con la
conseguenza che la contestata misura demolitoria è
legittimata dall’art. 7 della legge n. 47/1985 (TAR
Piemonte, I, 25.03.1999, n. 177); non è invocabile al
riguardo la disciplina in materia di autoannullamento della
concessione edilizia, giacché nel caso in esame rileva un
titolo inefficace in relazione alla permanenza dell’opera
dopo il prestabilito termine del 31.05.1993 (TAR Piemonte,
II, 15.04.2010, n. 1892; TAR Toscana, III, 25.10.2011, n.
1543) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 03.06.2014 n. 964 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Posatura fresato d’asfalto in area vincolata.
E’ legittimo l’ordine di demolizione, ex art. 27 del d.P.R.
380 del 2001, di opere realizzate abusivamente in area
vincolata paesaggisticamente, consistenti in: posa a terra
di fresatura, costituita da asfalto stradale, per una
superficie di circa mq. 450, con realizzazione, al centro
della suddetta area, di griglie contigue per la raccolta
delle acque piovane.
Infatti, a nulla rilevando la sua
mancata verticalizzazione, l’intervento abusivo, opera
pacificamente una notevole trasformazione del territorio
assoggettato a vincolo paesaggistico.
A mezzo del ricorso
in esame, notificato il 10.10.2008 e depositato il
successivo giorno 27 dello stesso mese, il sig. P.S., nella
dichiarata qualità di usufruttuario dell’immobile sul quale
sono state realizzate le opere come appresso sanzionate, si
duole, in una a quelli presupposti, del provvedimento prot.
n. 171 del 23.06.2008, notificato il successivo giorno 30
dello stesso mese, recante l’ordine di demolizione, di
ufficio ex art. 27 del d.P.R. 380 del 2001, di opere
realizzate abusivamente alla via Fondobosso del territorio
comunale e così descritte nell’atto medesimo: “posa a
terra di fresatura, costituita da asfalto stradale, per una
superficie di circa mq. 450, con realizzazione, al centro
della suddetta area, di griglie contigue per la raccolta
delle acque piovane”.
...
4- Infondato è poi il secondo mezzo di impugnazione poiché:
- a differenza di quanto nel suo seno sostenuto l’art. 27
del d.P.R. 380 del 2001 sanziona con la demolizione la
realizzazione di nuove opere avutasi in zone assoggettate a
vincolo di inedificabilità sia assoluta che relativa:
quest’ultimo sì rimuovibile, ma previa formale previa
autorizzazione qui non avutasi (cfr., sempre ex multis,
fra le ultime, Tar Campania, questa sesta sezione, n. 4204
del 23.10.2012, n. 2636 del 05.06.2012 e n. 1302 del
16.03.2012);
- sempre a differenza di quanto con esso sostenuto, il
provvedimento sanzionatorio emesso si appalesa sorretto da
giustificazione adeguata, per tanto essendo sufficiente:
- la specificazione nel dettaglio dell’intervento eseguito che, a
nulla rilevando la sua mancata verticalizzazione, opera
pacificamente una notevole trasformazione del “territorio
assoggettato a vincolo paesaggistico generico giusta d.m.
09.09.1952”;
- il richiamo all’abusività dell’intervento e, quindi, all’assenza
di “margini di discrezionalità” alla luce del
disposto “dell’art. 27 del d.P.R. 380 del 2001”, di
cui è stata fatta applicazione (cfr. la giurisprudenza della
Sezione già sopra cennata e cfr. anche, per una fattispecie
similare anche in fatto, la pronuncia, sempre della Sezione,
n. 4207 del 23.10.2012);
- in definitiva sul punto, la trasformazione del territorio
protetto operata abusivamente non poteva essere assoggettata
a sanzione diversa da quella demolitoria (cfr. ancor più di
recente, Tar Campania, ancora questa sesta sezione,
06.02.2013, n. 760 e n. 28 del 02.01.2013) (massima tratta
da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 22.05.2013 n. 2631 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Legittimità ordinanza del Comune ad ANAS s.p.a. di
provvedere alla rimozione dei rifiuti.
Se è vero che l’art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997 (oggi
D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 3) prevede la
corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare
di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono
stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il
conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al
ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile
anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa, le esigenze
di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono
evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti
reali o personali di godimento va inteso in senso lato,
essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi
con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto,
tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli di
esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata
ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell’ambiente.
Per altro verso, il requisito della colpa
postulato da detta norma ben può consistere proprio
nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che
l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace
custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano
essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi. Si
deve poi aggiungere che, in materia di strade, il canone
dell’ordinaria diligenza va definito in relazione all’art.
14 del codice della strada (D.L.vo n. 285/19992) che prevede
un obbligo da parte del gestore di provvedere alla pulizia
delle strade e delle loro pertinenze.
Il Collegio ritiene che debba essere prioritariamente
esaminato il motivo del ricorso rilevante l’incompetenza del
Dirigente comunale ad adottare la gravata ordinanza,
rientrando –a dire della ricorrente- tale tipologia di
provvedimenti nelle attribuzioni del Sindaco e non della
Dirigenza comunale. Il motivo é infondato, in quanto,
anteriormente all’art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del
2006, art. 192, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto
che l’ordinanza di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997
rientri fra le attribuzioni della dirigenza comunale (Cons.
Stato, sez. V, n. 3765/2009; TAR Emilia-Romagna –BO- sez. II,
n. 513 del 2012; TAR Sardegna, sez. II, n. 1086 del 2008).
Non merita accoglimento, inoltre, la censura con cui si
segnala violazione dell’art. 7 della L. n. 241 del 1990,
risultando palese, già dal testo dell’ordinanza in
questione, che il Comune in data 04/05/2007 ha regolarmente
provveduto ad inviare ad ANAS s.p.a. detto avviso, in
riferimento al quale, la stessa ricorrente ha dato formale
riscontro presentando le proprie osservazioni riguardo al
procedimento avviato (v. docc. n. 4 e 5 dep. dal Comune).
Per quanto concerne gli ulteriori motivi di ricorso, il
Collegio ne deve parimenti rilevare l’infondatezza. La
società ricorrente deduce, in concreto, il mancato
accertamento di una propria responsabilità relativamente
all’abbandono dei rifiuti nell’area, in località Cona,
adibita a piazzola di sosta nella superstrada Ferrara–Mare,
con conseguente asserita insussistenza dell’ obbligo di
smaltimento, sia in relazione alle caratteristiche del bene,
sia avuto riguardo alla sua estensione e sia, infine, alla
sua difficile controllabilità.
Al riguardo si deve osservare che la questione controversa
ha trovato soluzione con la sentenza del Consiglio di Stato,
sez. IV, 13.01.2010, n. 84 che ha richiamato la Cassazione
Civile, Sezioni Unite, 25.02.2009, n. 4472. Secondo tale
pronuncia, se è vero che l’art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997
(oggi sostituito dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma
3) prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o
del titolare di diritti personali o reali di godimento
sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o
depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di
provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto
la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo
di dolo o colpa, le esigenze di tutela ambientale sottese
alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi
è titolare di diritti reali o personali di godimento va
inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere
qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un
rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per
ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di
protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area
medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti
nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso,
il requisito della colpa postulato da detta norma ben può
consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle
cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare
un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo
che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti
nocivi.
Si deve poi aggiungere che, in materia di strade, il canone
dell’ordinaria diligenza va definito in relazione all’art.
14 del codice della strada (D.L.vo n. 285/19992) che prevede
un obbligo da parte del gestore di provvedere alla pulizia
delle strade e delle loro pertinenze.
Tale norma, fatto salvo il caso fortuito, impone quindi
all’ANAS obblighi particolari anche in materia di rimozione
dei rifiuti che insistono non solo sulla carreggiata, ma
anche sulle pertinenze; ne consegue che il comune non era
tenuto ad una motivazione particolare (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 21.05.2014 n. 524 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DM 1444/1968 concetto di “altezza media degli
edifici circostanti”.
Il D.M. n. 1444 del 1968, in relazione
al concetto di “altezza media degli edifici circostanti”, ha
incluso, tra essi, non solo quelli effettivamente confinanti
con quello la cui altezza è da misurare, ma anche quelli
ubicati in prossimità dello stesso.
Le considerazioni che precedono trovano poi ulteriore
conferma nella giurisprudenza amministrativa che, sul punto,
in riferimento a casi analoghi a quello in trattazione, ha
osservato che la norma di attuazione “…non ha usato il
termine: confinanti: termine che avrebbe potuto autorizzare
una diversa lettura, ma la locuzione: circostanti il cui
significato non è equivocabile.
Il Collegio deve osservare che, sul punto, risulta
persuasiva la tesi del Comune, ove rileva che la norma
attuativa del P.R.G. debba essere interpretata conformemente
alla fonte normativa statale di riferimento: il D.M. n. 1444
del 1968, che, a sua volta, proprio in relazione al concetto
di “altezza media degli edifici circostanti”, ha
incluso, tra essi, non solo quelli effettivamente confinanti
con quello la cui altezza è da misurare, ma anche quelli
ubicati in prossimità dello stesso.
Le considerazioni che precedono trovano poi ulteriore
conferma nella giurisprudenza amministrativa che, sul punto,
in riferimento a casi analoghi a quello in trattazione, ha
osservato che la norma di attuazione “…non ha usato il
termine: confinanti: termine che avrebbe potuto autorizzare
una diversa lettura, ma la locuzione: circostanti il cui
significato non è equivocabile" (v. TAR Friuli V.G. n.
51 del 2002).
Nella specie, risulta pertanto errato il presupposto
(calcolata l’altezza dei soli fabbricati confinanti e non
anche quella dei fabbricati circostanti) sulla base del
quale parte ricorrente ha ritenuto contra legem
l’altezza del fabbricato della controinteressata, con
conseguente infondatezza della censura, stante che non
risulta contestato il rispetto dell’altezza massima di ml.
13,50; misura residuale anch’essa espressamente prevista dal
citato art. 62 N.T.A. del P.R.G. (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 21.05.2013 n. 375 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Centrali termoelettriche all’interno
dell’abitato.
Anche se le centrali termoelettriche sono espressamente
annoverate ai sensi del D.M. 05.09.1994 tra le industrie
insalubri di prima classe, si rammenta che “l’installazione
nell’abitato di un’industria insalubre non è di per sé
vietata in assoluto, dal momento che l'art. 216, T.U.L.S.
27.07.1934 n. 1265, lo consente se la stessa installazione è
accompagnata dall’introduzione di particolari metodi
produttivi o cautele in grado di escludere qualsiasi rischio
di compromissione della salute del vicinato.
17. Parimenti da rigettare sono gli ulteriori motivi di
gravame.
17.1. In particolare, in merito al motivo sub a.5.) si
rammenta che “l’installazione nell’abitato di
un’industria insalubre non è di per sé vietata in assoluto,
dal momento che l'art. 216, T.U.L.S. 27.07.1934 n. 1265, lo
consente se la stessa installazione è accompagnata
dall’introduzione di particolari metodi produttivi o cautele
in grado di escludere qualsiasi rischio di compromissione
della salute del vicinato (cfr. Cons. Stato, IV, 02.09.2011,
n. 4952)” (cfr. questa sezione 25.03.2013, n.1622).
17.2. Ebbene i ricorrenti non hanno dedotto alcunché circa
l’assenza di tali cautele, né a tal fine è idonea a
costituire valido principio di prova la perizia di parte
depositata l’08.02.2013 dalla quale si desume che “l’impianto
di cogenerazione della CO.MA.SA., quand’anche avesse
adottato le particolari cautele alle quali la legge fa
riferimento, è comunque un impianto potenzialmente
pericoloso per l’ambiente e per la salute dei cittadini”.
E, infatti, dalla predetta perizia emerge che non vi è alcun
elemento certo, idoneo a comprovare che l’esercizio
dell’impianto de quo produca danni all’ambiente e alla
salute dei cittadini, ma che “il rischio, conseguente
all’accadimento di evento pericoloso, è alto” e che,
pertanto, anche in ipotesi di perfetta regolarità tecnica ed
osservanza delle normative vigenti, “le doverose pratiche
di prudenza e cautela avrebbero dovuto senz’altro inibire la
realizzazione di tale impianto nell’ambito del centro
abitato del Comune di Casalnuovo”.
17.3. Al contrario la società controinteressata ha fornito
gli esiti delle ispezioni eseguite dall’ARPAC dai quali
emerge la conformità delle emissioni ai parametri previsti
dalla legge e l’adozione di tutte le cautele e le
precauzioni prescritte, con ogni conseguenza ai sensi
dell’art. 64, comma 2, c.p.a., ai fini del raggiungimento
della prova (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 15.05.2013 n. 2518 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Differenza tra costo di costruzione e oneri di
urbanizzazione.
In merito al costo di costruzione, preme rammentare che,
secondo l’attuale sistema normativo (art. 16 del DPR
380/2001 che ricalca l’art. 6 della legge 10/1977, il costo
di costruzione costituisce una prestazione patrimoniale di
natura sostanzialmente paratributaria, essendo volta a
colpire l’incremento di ricchezza derivante dall’attività
edilizia svolta, a differenza degli oneri di urbanizzazione,
che attengono invece all’incremento del carico urbanistico.
In merito al costo di costruzione, preme rammentare che,
secondo l’attuale sistema normativo (art. 16 del DPR
380/2001 che ricalca l’art. 6 della legge 10/1977 e l’art.
48 della legge regionale della Lombardia n. 12/2005), il
costo di costruzione costituisce una prestazione
patrimoniale di natura sostanzialmente paratributaria,
essendo volta a colpire l’incremento di ricchezza derivante
dall’attività edilizia svolta, a differenza degli oneri di
urbanizzazione, che attengono invece all’incremento del
carico urbanistico (così, fra le tante, le sentenze del
Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6160 e 6161 del 2013, docc.
16 e 17 della ricorrente, di cui si tratterà più
diffusamente nel prosieguo, oltre a TAR Sicilia, Catania,
sez. I, 19.09.2013, n. 2249).
In altri termini, come del resto indicato espressamente
nelle citate decisioni del giudice amministrativo d’appello,
il costo di costruzione è dovuto in relazione ai “vantaggi
economici”, connessi alla trasformazione edilizia (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.05.2014 n. 1248 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto alle concrete modalità di determinazione
del costo di costruzione in caso di recupero abitativo dei
sottotetti (ai sensi dell’art. 64, comma 7°, della citata
legge regionale 12/2005), il Collegio condivide quanto
affermato dal Consiglio di Stato nelle due pronunce n. 6160
e 6161 del 20.12.2013 in forza delle quali:
- continua a trovare applicazione, nella Regione Lombardia,
il decreto del Ministro per i lavori pubblici del 10.5.1977
(cfr. il doc. 13 del resistente), adottato in attuazione
dell’art. 6 della legge 10/1977, per il quale il costo si
calcola sulla base della superficie complessiva (Sc), pari
alla somma della superficie utile (Su) e del 60% della
superficie non residenziale per servizi e accessori (Snr),
con gli incrementi previsti dal decreto in relazione alle
classi di edifici;
- per i sottotetti, non devono prendersi in considerazione
le scale nell’ambito della Snr utile.
Quanto alle concrete modalità di determinazione del costo
suddetto in caso di recupero abitativo dei sottotetti (ai
sensi dell’art. 64, comma 7°, della citata legge regionale
12/2005), il Collegio condivide quanto affermato dal
Consiglio di Stato nelle due pronunce n. 6160 e 6161 del
20.12.2013 sopra menzionate, in forza delle quali:
- continua a trovare applicazione, nella Regione Lombardia,
il decreto del Ministro per i lavori pubblici del 10.5.1977
(cfr. il doc. 13 del resistente), adottato in attuazione
dell’art. 6 della legge 10/1977, per il quale il costo si
calcola sulla base della superficie complessiva (Sc), pari
alla somma della superficie utile (Su) e del 60% della
superficie non residenziale per servizi e accessori (Snr),
con gli incrementi previsti dal decreto in relazione alle
classi di edifici;
- per i sottotetti, non devono prendersi in considerazione
le scale nell’ambito della Snr utile (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.05.2014 n. 1248 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Superficie minima degli alloggi e “vivibilità”.
L’art. 4, 1° comma, del d.P.R. 380/2001, consente ai Comuni
di stabilire, con disposizioni regolamentari, la superficie
di minima degli alloggi di nuova costruzione, atteso che la
"vivibilità" alla quale tale norma si riferisce va intesa in
senso ampio, comprensivo di tutti gli aspetti che l’Ente,
nella sua sfera di competenza, ritenga rilevanti per il
normale vivere civile dei propri cittadini, anche in termini
di tutela del territorio e della qualità della vita.
E
questa "vivibilità" può legittimamente essere ricercata
imponendo, con una norma del regolamento edilizio,
caratteristiche dimensionali tali da limitare, in concreto,
la costruzione delle c.d. seconde case, con le tensioni dei
prezzi e l’aggravio del carico urbanistico che queste
inevitabilmente comportano.
Il terzo motivo è infondato.
Con esso la ricorrente sostiene che lo strumento urbanistico
non potrebbe imporre un limite minimo alla superficie degli
alloggi atteso che tale limite è stabilito a tutela
dell’igiene e della salubrità degli edifici da norme di
rango statale in particolare il d.m. 05.07.1975.
L’assunto è infondato
La giurisprudenza ha recentemente affermato che l’art. 4, 1°
comma, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 - T.U. edilizia
(secondo cui "il regolamento che i Comuni adottano ai
sensi dell'articolo 2, comma 4, deve contenere la disciplina
delle modalità costruttive, con particolare riguardo al
rispetto delle normative tecnico-estetiche,
igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili
e delle pertinenze degli stessi") consente ai Comuni di
stabilire, con disposizioni regolamentari, la superficie di
minima degli alloggi di nuova costruzione, atteso che la "vivibilità"
alla quale tale norma si riferisce va intesa in senso ampio,
comprensivo di tutti gli aspetti che l’Ente, nella sua sfera
di competenza, ritenga rilevanti per il normale vivere
civile dei propri cittadini, anche in termini di tutela del
territorio e della qualità della vita.
E questa "vivibilità" può legittimamente essere
ricercata imponendo, con una norma del regolamento edilizio,
caratteristiche dimensionali tali da limitare, in concreto,
la costruzione delle c.d. seconde case, con le tensioni dei
prezzi e l’aggravio del carico urbanistico che queste
inevitabilmente comportano (C.S. IV 17.02.2014 n. 747, VI
06.05.2013 n. 2433) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 05.05.2014 n. 711 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Fabbricato abusivo al momento della ripresa
aerofotografica interamente coperto da teloni, legittimità
diniego dell'istanza di condono edilizio.
Il fatto che il fabbricato al momento della ripresa
aerofotografica fosse interamente coperto da teloni grigi
sorretti da tubi di ferro e che l’area grigia visibile nelle
fotografie può essere ricondotta al tipo di copertura e
struttura propria del manufatto, non consente di stabilire
la data di ultimazione delle opere.
Non è dato sapere,
infatti, ove anche, per ipotesi, il manufatto fosse stato
realmente esistente e riparato da un telone, se lo stesso
fosse stato ultimato o meno alla data in questione. La
dichiarazione di notorietà non è idonea a confutare le
risultanze del rilievo aerofotogrammetrico, e dimostrare la
data di ultimazione dei lavori.
Il secondo motivo con cui si sostiene l’anteriorità della
realizzazione delle opere rispetto al termine finale
previsto dalla normativa sul condono è parimenti infondato.
Da un primo punto di vista occorre rilevare come l’onere
della prova in ordine all’anteriorità della data di
ultimazione delle opere incomba in capo al ricorrente.
L’accertamento comunale è fondato sul rilievo
aerofotogrammetrico.
Il ricorrente sostiene che il fabbricato al momento della
ripresa aerofotografica era interamente coperto da teloni
grigi sorretti da tubi di ferro e che l’area grigia visibile
nelle fotografie può essere senz’altro ricondotta al tipo di
copertura e struttura propria del manufatto.
Le argomentazioni non appaiono persuasive attesa la loro
inidoneità stabilire la data di ultimazione delle opere. Non
è dato sapere, infatti, ove anche, per ipotesi, il manufatto
fosse stato realmente esistente e riparato da un telone, se
lo stesso fosse stato ultimato o meno alla data in
questione.
Né il ricorrente riesce, al di là della dichiarazione di
notorietà che come noto non è idonea a confutare le
risultanze del rilievo aerofotogrammetrico (TAR Puglia,
Bari, II 10.09.2003 n. 3248), a dimostrare la data di
ultimazione dei lavori (massima tratta da www.lexambiente.it
- TAR Liguria,
Sez. I,
sentenza 05.05.2014 n. 694 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Illegittimità ordinanza del Sindaco di iniziare
l’attività nello stabilimento alle ore 5,30 antimeridiane a
tutela della salute pubblica.
Non è sufficiente che uno stabilimento industriale produca
emissioni acustiche o di altro genere per giustificare
provvedimenti lato sensu repressivi, dovendo l’autorità
competente accertare che tali emissioni superino i limiti di
legge e/o quelli indicati nel provvedimento autorizzativo.
Nella specie, nessun elemento è stato fornito quanto alle
emissioni acustiche, mentre le emissioni di altro genere non
sono oggetto dell’impugnata ordinanza.
La domanda impugnatoria va accolta.
Non sono fondate le censure di ordine formale - procedurale,
in quanto il Comune ha provato che Sintexcal era comunque da
tempo a conoscenza della sussistenza di problematiche in
ordine alle emissioni prodotte dall’impianto e delle
lamentele sollevate dai cittadini residenti nella zona.
Dal contesto del ricorso emerge altresì che la ricorrente ha
ben compreso in base a quali disposizioni di legge il
Sindaco ha adottato l’impugnata ordinanza; le relative
censure vanno dunque respinte in quanto improntate a chiaro
formalismo.
Vanno invece condivise le doglianze con cui si deduce il
difetto di istruttoria (doglianze che il Tribunale ha già
mostrato di condividere in sede cautelare) e l’assenza dei
presupposti di cui agli artt. 9 L. n. 447/1995 e 50 e 54
T.U.E.L. Ed in effetti:
- seppure è vero che vi sono state le summenzionate
lamentele, il Comune non ha provato di avere proceduto ad
effettuare, in proprio o avvalendosi dell’ARPAM o di altri
organismi pubblici, misurazioni fonometriche. Anzi, dal
documento depositato in giudizio dall’amministrazione in
data 7/3/2014, emerge che ARPAM era stata incaricata di tali
misurazioni, ma che, alla data di adozione del provvedimento
impugnato, la campagna non era ancora terminata e quindi
alcun risultato era stato ancora fornito al Comune;
- l’amministrazione si è dunque basata solo sulle lamentele
dei residenti, ma in tal modo ha violato il principio di
adeguata istruttoria. Non è sufficiente, in effetti, che uno
stabilimento industriale produca emissioni acustiche o di
altro genere per giustificare provvedimenti lato sensu
repressivi, dovendo l’autorità competente accertare che tali
emissioni superino i limiti di legge e/o quelli indicati nel
provvedimento autorizzativo. Nella specie, nessun elemento è
stato fornito quanto alle emissioni acustiche, mentre le
emissioni di altro genere non sono oggetto dell’impugnata
ordinanza. Ed è ancora più strano che i risultati della
campagna di misurazioni eseguite da ARPAM non siano stati
depositati nemmeno in vista dell’udienza di trattazione del
merito (incombente per il cui assolvimento il Comune ha
avuto a disposizione circa 10 anni);
- una volta accertata l’assenza dei dati relativi
all’asserito inquinamento acustico, ne consegue che il
provvedimento impugnato è stato adottato in carenza dei
presupposti di contingibilità ed urgenza richiesti dalla L.
n. 447/1995 e dal D.Lgs. n. 267/2000 (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Marche,
sentenza 05.05.2014 n. 478 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Legittimità diniego approvazione del documento di
analisi del rischio sulla base della destinazione
urbanistica risalente al 2000.
Non può dubitarsi che l’amministrazione non avesse altra
scelta che chiedere alla società ricorrente di predisporre
il documento di Analisi dei rischi in linea con lo stato di
fatto dell’area interessata.
Predisporre un documento dei
rischi sulla base dell’originaria destinazione urbanistica
risalente al 2000 vorrebbe dire creare un documento privo di
alcuna utilità perché non in grado di fornire informazioni
necessarie in relazione all’intervento di bonifica. Non può
poi essere sottaciuto che il valore primario che emerge in
tale vicenda e che va certamente tutelato è il diritto alla
salute dei cittadini che vivono in prossimità della zona
indicata.
Il Comune di Milano, una volta evidenziata la
presenza di insediamenti residenziali, non poteva fare altro
che chiedere alla società ricorrente di tener conto di tali
fattori, in considerazione del fatto che tutto il
procedimento di bonifica in realtà è diretto alla
salvaguardia del diritto alla salute e dell’ambiente.
La controversia verte intorno alla correttezza del
comportamento dell’amministrazione che ha richiesto alla
società ricorrente di tener conto nel documento di analisi
dei rischi anche delle abitazioni e della scuola presenti
all’interno dell’area interessata, nonostante l’area fosse a
destinazione commerciale e industriale come emerso anche dai
verbali delle Conferenze di Servizi precedenti a quello in
questa sede contestato.
Non può dubitarsi che, nel caso di specie, l’amministrazione
non avesse altra scelta che chiedere alla società ricorrente
di predisporre il documento di Analisi dei rischi in linea
con lo stato di fatto dell’area interessata. Predisporre un
documento dei rischi sulla base dell’originaria destinazione
urbanistica risalente al 2000 vorrebbe dire creare un
documento privo di alcuna utilità perché non in grado di
fornire informazioni necessarie in relazione all’intervento
di bonifica.
Non può poi essere sottaciuto che il valore primario che
emerge in tale vicenda e che va certamente tutelato è il
diritto alla salute dei cittadini che vivono in prossimità
della zona indicata. Il Comune di Milano, una volta
evidenziata la presenza di insediamenti residenziali, non
poteva fare altro che chiedere alla società ricorrente di
tener conto di tali fattori, in considerazione del fatto che
tutto il procedimento di bonifica in realtà è diretto alla
salvaguardia del diritto alla salute e dell’ambiente. Né
rileva, sotto tale profilo la circostanza che
l’amministrazione non si è attivata tempestivamente o non ha
impedito la realizzazione di insediamenti residenziali
abusivi, perché tale doglianza potrebbe rilevare al più
sotto il profilo risarcitorio, ma non rende illegittimi i
provvedimenti in questa sede impugnati.
Né la mancata convocazione di tutti i soggetti interessati
può avere rilievo nel caso di specie, non avendo provato la
società ricorrente che l’intervento degli stessi avrebbe
modificato il contenuto del provvedimento. Può anzi
rilevarsi in senso contrario che gli interessati
verosimilmente, se convocati, avrebbero avvallato i
provvedimenti impugnati, in quanto a loro favorevoli (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.04.2014 n. 1116 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Classificazione di una strada come pubblica.
Costante giurisprudenza amministrativa afferma che per
classificare una data strada come pubblica l’atto di
inclusione nei relativi elenchi, che ha valore soltanto
dichiarativo, costituisce una presunzione semplice,
superabile avuto riguardo alla concreta situazione della
strada stessa.
La strada pubblica, infatti, si caratterizza
per essere interessata dal passaggio di una collettività di
persone appartenenti ad un medesimo gruppo territoriale,
tipicamente i cittadini del Comune o di una frazione; per
essere in concreto idonea a soddisfare, anche per il
collegamento con la via pubblica, esigenze di generale
interesse; per essere assistita da “titolo valido a
sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che
può identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da tempo
immemorabile”.
A tali elementi, se ne aggiunge uno
ulteriore, ovvero la necessità di considerare “il
comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nel
settore dell'edilizia e dell'urbanistica”, ovvero in termini
banali di verificare se il Comune il quale assume l’uso
pubblico si sia mai preoccupato di garantirlo, curando la
manutenzione della strada ed eventualmente adeguandola al
transito della generalità dei cittadini.
1. Alla decisione del presente ricorso si applicano i
principi e criteri evidenziati per analoga fattispecie nella
sentenza di questo Tribunale sez. I 21.11.2011 n. 1772, che
si riassumono di seguito per chiarezza espositiva.
2. In tema di riparto di giurisdizione allorquando, come
nella specie, sia controverso il carattere pubblico ovvero
privato di una strada, un costante orientamento
giurisprudenziale afferma anzitutto che spetta non al
Giudice amministrativo adito nella sede presente, ma alla
Autorità giudiziaria ordinaria, la giurisdizione sulla “controversia
promossa dal privato per negare che il proprio fondo sia
gravato da una servitù di pubblico transito affermata da un
provvedimento della P.A.”, il quale in tal caso assume
efficacia meramente dichiarativa, non già costitutiva.
3. In tal caso, l’attore chiede infatti l'accertamento
dell'esistenza e dell'estensione di un diritto soggettivo,
in quanto “contesta in radice il potere
dell'amministrazione comunale di ‘classificazione’ delle
strade di uso pubblico, per mancanza del suo presupposto”;
non si duole invece dei criteri seguiti per l’esercizio del
potere stesso, ipotesi nella quale sussisterebbe invece la
giurisdizione del giudice amministrativo: in tali esatti
termini, Cass. civ. S.U. 17.03.2010 n. 6406, da cui tutte le
citazioni; conforme altresì, fra le più recenti, anche Cass.
civ. S.U. 27.01.2010 n. 1624.
4. Solo apparentemente contraria, sempre nella
giurisprudenza recente, è Cass. civ. S.U. 24.12.2009 n.
27366, la quale, come risulta a lettura della motivazione
completa, riguarda una vicenda di segno opposto, in cui un
Comune, evidentemente con un atto di carattere autoritativo,
aveva preteso di escludere il pubblico passaggio su una
strada, considerandola privata.
5. Ad escludere la giurisdizione ordinaria in favore di
quella amministrativa, infine, non vale nemmeno la presenza
di un “provvedimento” di classificazione come
pubblica della strada per la quale è causa: tale preteso
provvedimento, infatti, meglio si qualificherebbe come mero
atto, dal momento che ha efficacia soltanto dichiarativa, e
non già costitutiva, come puntualizzato dalla citata Cass.
civ. 1624/2010.
6. In tali termini, non va condivisa la isolata TAR Umbria
22.11.2002 n. 845 da essa citata, secondo il quale una
controversia di tal tipo dovrebbe comunque rientrare nella
giurisdizione amministrativa in quanto inerente in generale
ad un “uso del territorio” e quindi ricompresa nel
disposto dell’allora vigente art. 34 d.lgs. 31.03.1998 n.
34. Si risponde, sulla scorta della giurisprudenza
successiva, e in primo luogo della nota C. cost. 06.07.2004
n. 204, oltre che della già citata Cass. 6406/2010, che la
giurisdizione esclusiva in parola ha pur sempre come
presupposto un agire autoritativo della p.a., e quindi una
compresenza nella fattispecie di diritti soggettivi ed
interessi legittimi; non può quindi estendersi a casi in
cui, come nella specie, si controverta esclusivamente di
diritti soggettivi.
7. Il giudice amministrativo, invece, può e deve risolvere
la questione del carattere pubblico ovvero privato di una
strada allorquando sia richiesto di risolverla non già come
questione principale, sulla quale pronunciarsi con efficacia
di giudicato, ma come questione preliminare ad altra, ovvero
alla questione, dedotta in via principale –e all’evidenza
rientrante nella sua giurisdizione- concernente la
legittimità di un provvedimento che in senso ampio imponga
una certa regolamentazione dell’uso della strada: ciò
presuppone infatti che di uso pubblico e non privato si
tratti, e quindi che appunto si sia di fronte ad una strada
non privata. In tali termini, fra le molte, C.d.S. sez. IV
07.09.2006 n. 5209 e, fra le pronunce di primo grado, TAR
Campania Salerno sez. II 07.06.2010 n. 8536; Sardegna sez.
II 17.03.2010 n. 312; Valle d'Aosta 13.11.2009 n. 86;
Calabria Catanzaro sez. I 01.04.2009 n. 323 e Toscana sez.
III 06.11.2007 n. 3599.
8. Applicando i principi appena delineati al caso di specie,
la prima conseguenza è la necessità di dichiarare il difetto
di giurisdizione in favore dell’A.G.O. così come in
dispositivo quanto alla domanda di “annullamento”
della deliberazione consiliare del Comune di Mapello
54/2007, nella parte in cui classifica come comunale la via
Quarenghi per cui è causa.
9. Così come affermato, fa le molte, da C.d.S. sez. V
17.09.2012 n. 4317, ai fini del riparto della giurisdizione
tra giudice ordinario e amministrativo, “rileva non già
la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale”
il quale va identificato “in funzione dell'intrinseca
natura della controversia dedotta in giudizio, individuata
dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto
all'interno del quale essi si manifestano”.
10. In tali termini, è allora chiaro che la domanda di
annullamento in questione, essendo volta, come obiettivo
concreto, a contestare il carattere comunale della via
Quarenghi, va riqualificata come domanda di accertamento
negativo di tale carattere, fondata sull’incertezza che
l’atto comunale, ancorché non provvedimentale, ha creato in
merito, e come tale, per quanto detto, appartiene alla
giurisdizione dell’A.G.O. In tal sede, quindi, si dibatterà
anche delle eventuali questioni che coinvolgono Santo
Gandolfi.
11. Va invece decisa nel merito, e risulta fondata, la
domanda di annullamento della nota 23.10.2006 prot. n. 8340,
che come risulta a semplice lettura intende disciplinare
autoritativamente la circolazione sulla via Quarenghi, nella
specie diffidando i frontisti, sul presupposto evidente che
di strada pubblica si tratti, dal posizionarvi segnali di
divieto a protezione dei loro domicili.
12. L’unico motivo dedotto in rapporto a tale atto,
incentrato sul carattere invece privato della via sulla
quale il Comune è intervenuto, è fondato e va accolto. In
generale, costante giurisprudenza amministrativa afferma che
per classificare una data strada come pubblica l’atto di
inclusione nei relativi elenchi, che come ricordato ha
valore soltanto dichiarativo, costituisce una presunzione
semplice, superabile avuto riguardo alla concreta situazione
della strada stessa. La strada pubblica, infatti, si
caratterizza per essere interessata dal passaggio di una
collettività di persone appartenenti ad un medesimo gruppo
territoriale, tipicamente i cittadini del Comune o di una
frazione; per essere in concreto idonea a soddisfare, anche
per il collegamento con la via pubblica, esigenze di
generale interesse; per essere assistita da “titolo
valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso
pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell'uso
stesso da tempo immemorabile”: così fra le molte C.d.S.
sez. V 04.02.2004 n. 373 nonché TAR Lazio Roma sez. II
03.11.2009 n. 10781; Lazio Latina 14.03.2008 n. 199 e Marche
10.10.2007 n. 1595.
13. A tali elementi, la recente C.d.S. sez. V 07.12.2010 n.
8624 ne aggiunge uno ulteriore, ovvero la necessità di
considerare “il comportamento tenuto dalla Pubblica
Amministrazione nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica”,
ovvero in termini banali di verificare se il Comune il quale
assume l’uso pubblico si sia mai preoccupato di garantirlo,
curando la manutenzione della strada ed eventualmente
adeguandola al transito della generalità dei cittadini.
14. A fronte di tutto ciò, i ricorrenti (cfr. loro documenti
f-h, copie atti notarili) hanno provato la loro proprietà
del sedime, e non è controverso che, allo stato, la strada
in questione serva solo ad accedere ai loro domicili
privati. Di contro il Comune non è stato in grado di
provarne un generalizzato uso pubblico, né un impegno
pubblico nella relativa manutenzione, a ciò non bastando (v.
memoria Comune 10.03.2014 p. 4) l’eventuale carattere di
opera di urbanizzazione della strada stessa, carattere che
in astratto può essere proprio anche di strade private.
15. Per completezza, va aggiunto che tutto ciò prescinde da
successivi eventuali interventi del Comune, fermo che gli
interessati potranno, secondo le regole generali, tutelarsi
in giudizio nei confronti dei relativi atti e provvedimenti,
e che quindi è infondata l’eccezione di improcedibilità che
su tale asserito ulteriore intervento si fonda (memoria
Gandolfi 14.03.2014) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.04.2014 n. 451 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Legittimità conferma della destinazione agricola
per il contenimento del consumo di suolo.
La conferma della destinazione agricola di determinate aree
non può essere ritenuta illogica per il solo fatto della
loro contiguità a lotti edificati, sia perché tale
ubicazione non giustifica da sé sola l’estensione
dell’urbanizzazione, sia perché la contestata scelta
urbanistica costituisce applicazione del principio
ispiratore di interesse pubblico, espresso nel piano
strutturale, preordinato al contenimento dell’ulteriore
consumo del suolo.
Del resto, la giurisprudenza
amministrativa ha più volte evidenziato che la destinazione
agricola del suolo non deve rispondere necessariamente
all’esigenza di promuovere specifiche attività di
coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso
strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a
sottrarre parti del territorio comunale a nuove
edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio
delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella
quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a
compensare gli effetti dell’espansione urbana.
Con la prima censura il ricorrente, considerata l’ubicazione
della sua proprietà (limitrofa al tessuto urbanizzato) e
ritenuta sussistente una sua vocazione edificatoria
derivante dal contesto in cui è inserita, deduce che
l’impugnato provvedimento, nella parte in cui conferma la
destinazione non edificabile della proprietà stessa, è
inficiato da macroscopici errori di fatto e da abnormi
illogicità.
Il motivo è infondato.
La conferma della destinazione agricola di determinate aree
non può essere ritenuta illogica per il solo fatto della
loro contiguità a lotti edificati, sia perché tale
ubicazione non giustifica da sé sola l’estensione
dell’urbanizzazione, sia perché la contestata scelta
urbanistica costituisce applicazione del principio
ispiratore di interesse pubblico, espresso nel piano
strutturale, preordinato al contenimento dell’ulteriore
consumo del suolo (Cons. Stato, IV, 27.11.2008, n. 5881).
Invero, l’art. 17 del piano strutturale (documento n. 11
depositato in giudizio), nella parte riguardante la zona in
cui ricade la proprietà del ricorrente (UTOE n. 5 del
territorio urbanizzato di Orbetello), pone l’obiettivo
primario di “contrastare l’ulteriore espansione urbana
lungo la viabilità e di aggressione alle pendici collinari,
dando invece valore a queste e alle aree libere che sono
comprese nell’UTOE e salvaguardandone l’integrità assegnando
loro un ruolo non più propriamente agricolo ma
ambientalmente significativo”.
Coerentemente, da un lato il piano strutturale (nelle tavole
del quadro conoscitivo) classifica i terreni del deducente
come “seminativo semplice”, dall’altro il regolamento
urbanistico li configura come facenti parte degli “ambiti
del territorio rurale o prevalentemente non urbanizzato di
valore ambientale”.
Trattasi di destinazione che non corrisponde ad un uso
strettamente e necessariamente agricolo, ma che appare
finalizzata a scopi di tutela ambientale da perseguire
sottraendo a nuove edificazioni una parte del territorio
contigua ad un compendio urbanizzato.
Orbene, la predetta scelta urbanistica, in quanto
giustificata dalle linee programmatiche del piano
strutturale e preordinata al perseguimento di una finalità
pubblica di rilievo, risulta priva di elementi di illogicità
o erroneità.
Del resto, la giurisprudenza amministrativa ha più volte
evidenziato che la destinazione agricola del suolo non deve
rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere
specifiche attività di coltivazione, e quindi essere
funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno,
potendo essere volta a sottrarre parti del territorio
comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai
cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando loro quella quota di valori naturalistici e
ambientali necessaria a compensare gli effetti
dell’espansione urbana (Cons. Stato, IV, 27.07.2011, n.
4505; idem, 13.10.2010, n. 7478; TAR Sicilia, Palermo, I,
05.07.2012, n. 1407) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 17.04.2014 n. 642 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il momento in cui l’interessato può
presentare il proprio apporto collaborativo circa le scelte
di governo del territorio è quello successivo all’adozione
dello strumento urbanistico.
Solo nella fase successiva alla delibera di adozione e
antecedente a quella di approvazione definitiva
l’ordinamento (art. 18 della L.R. n. 1/2005) prevede la
facoltà del privato di presentare osservazioni, il cui
rigetto peraltro non richiede una confutazione analitica.
Infatti, il
momento in cui l’interessato può presentare il proprio
apporto collaborativo circa le scelte di governo del
territorio è quello successivo all’adozione dello strumento
urbanistico. Solo nella fase successiva alla delibera di
adozione e antecedente a quella di approvazione definitiva
l’ordinamento (art. 18 della L.R. n. 1/2005) prevede la
facoltà del privato di presentare osservazioni, il cui
rigetto peraltro non richiede una confutazione analitica
(Cons. Stato, IV, 30.06.2004, n. 4804; TAR Sicilia, Palermo,
I, 23.12.2013, n. 2551) (TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 17.04.2014 n. 642 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’attività di pianificazione urbanistica
è espressione di un apprezzamento di merito, connotato da
elevata discrezionalità, sicché la destinazione data alle
singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre
quella desumibile dai criteri generali seguiti
nell’impostazione del regolamento urbanistico e attinti dal
piano strutturale, con l’avvertenza che la motivazione
ulteriore e specifica va riferita esclusivamente a
particolari situazioni in cui emergano aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono
meritevoli di specifica considerazione.
In sostanza, le uniche evenienze richiedenti una più
incisiva e singolare motivazione della scelta urbanistica
sono date dal superamento degli standard minimi ex D.M.
02.04.1968, dalla lesione dell’affidamento qualificato del
privato scaturente da convenzioni di lottizzazione o altri
accordi tra Comune e proprietari, da aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione e,
infine, dalla modificazione in zona agricola della
destinazione di uno spazio limitato, intercluso da fondi
edificati in modo non abusivo.
Secondo il
consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’attività di
pianificazione urbanistica è espressione di un apprezzamento
di merito, connotato da elevata discrezionalità, sicché la
destinazione data alle singole aree non necessita di
apposita motivazione, oltre quella desumibile dai criteri
generali seguiti nell’impostazione del regolamento
urbanistico e attinti dal piano strutturale, con
l’avvertenza che la motivazione ulteriore e specifica va
riferita esclusivamente a particolari situazioni in cui
emergano aspettative o affidamenti in favore di soggetti le
cui posizioni appaiono meritevoli di specifica
considerazione.
In sostanza, le uniche evenienze richiedenti
una più incisiva e singolare motivazione della scelta
urbanistica sono date dal superamento degli standard minimi
ex D.M. 02.04.1968, dalla lesione dell’affidamento qualificato
del privato scaturente da convenzioni di lottizzazione o
altri accordi tra Comune e proprietari, da aspettative
nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di
concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di
concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola
della destinazione di uno spazio limitato, intercluso da
fondi edificati in modo non abusivo (Cons. Stato, IV,
18.11.2013, n. 5453; TAR Piemonte, I, 24.07.2013, n. 927) (TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 17.04.2014 n. 642 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Silenzio “devolutivo” del soprintendente
nel procedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 146
D.Lgs. n. 42/2004.
Il termine assegnato al soprintendente per esprimere il
parere (obbligatorio e vincolante) nel procedimento di
autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D.Lgs. n. 42/2004,
commi 8 e 9, ha carattere perentorio, il cui infruttuoso
decorso comporta l’obbligo per l’amministrazione procedente
di provvedere autonomamente.
Il ricorso è fondato.
L’amministrazione comunale ha negato l’autorizzazione
paesaggistica ponendo a fondamento del proprio diniego il
parere negativo della soprintendenza.
Questo Tribunale ha precisato che la soprintendenza deve
esprimere il proprio parere entro quarantacinque giorni
dalla ricezione degli atti, trascorsi i quali senza che sia
stato dato il suddetto parere, l’amministrazione può indire
una conferenza di servizi entro il successivo termine
perentorio di quindici giorni. In ogni caso, decorsi
sessanta gironi dalla ricezione degli atti da parte della
soprintendenza, l’amministrazione provvede sulla domanda.
Qualora, la soprintendenza non provveda nel termine
perentorio a lei assegnato il parere non ha più portata
obbligatoria e vincolante e l’amministrazione deve motivare
autonomamente a prescindere dall’eventuale portata del
parere tardivo (Tar Lecce, sez. I, 15.06.2011, n. 1069).
Nel caso in esame, è la stessa soprintendenza a dichiarare,
nel provvedimento impugnato, che il parere è stato
rilasciato oltre il termine perentorio e, quindi,
l’amministrazione comunale non poteva denegare
l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo
della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare
sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza,
posto che il parere tardivo era da considerarsi privo
dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di
valenza obbligatoria e vincolante (Cons. St., sez. VI,
15.03.2013).
In sostanza, il provvedimento impugnato è carente di
motivazione, proprio perché si è limitato a richiamare il
parere negativo della soprintendenza senza motivare
adeguatamente (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 24.07.2013 n. 1739 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interesse a ricorrere contro rilascio
concessione edilizia.
E’ pacifico fin da giurisprudenza
risalente, che certamente sussiste l’interesse per il vicino
che riceve una lesione per diminuzioni di luce, di aria, di
visuale o di insolazione, in quanto portatore di un
interesse giuridicamente tutelato ad insorgere contro il
rilascio di una concessione edilizia anzi, è portatore di
interesse anche chi, confinante o vicino, denunzia il
deterioramento della zona dal punto di vista urbanistico o
il danno derivante da un aumento dell'addensamento edilizio.
Va rigettato anche
l’altro motivo di appello, contenuto nel primo dei due
appelli, con il quale si lamenta la inammissibilità del
ricorso originario per difetto di interesse da parte delle
ricorrenti, in quanto le medesime non avrebbero ricevuto una
effettiva lesione dalla costruzione assentita.
Se è vero che il solo richiamo al criterio della
vicinitas, idoneo come tale a supportare la
legittimazione, non è in grado di esaurire ogni aspetto
attinente alla sussistenza dell’interesse concreto alla
impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e
documentata da parte del titolare, nella specie le
ricorrenti originarie, odierne appellate, avevano lamentato
un minore irradiamento solare delle loro abitazioni,
diminuzione del valore degli immobili, maggiore consumo di
energia elettrica e termica e altro.
Tale doglianza è sufficiente a radicare l’interesse ad
agire.
E’ pacifico fin da giurisprudenza risalente (si veda già
Consiglio Stato sez. V, 11.07.1980, n. 696) che certamente
sussiste l’interesse per il vicino che riceve una lesione
per diminuzioni di luce, di aria, di visuale o di
insolazione, in quanto portatore di un interesse
giuridicamente tutelato ad insorgere contro il rilascio di
una concessione edilizia; (così anche Consiglio Stato sez.
V, 15.12.1986, n. 643); anzi, è portatore di interesse anche
chi, confinante o vicino, denunzia il deterioramento della
zona dal punto di vista urbanistico o il danno derivante da
un aumento dell'addensamento edilizio (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.06.2013 n. 3101 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo una generale considerazione, in
materia di impugnativa di titoli edilizi abilitativi da
parte di terzi il termine decorre dalla piena conoscenza
della lesività dell’intervento (tra tante, si veda Consiglio
Stato sez. IV, 18.06.2009, n. 4015, secondo cui tranne i
casi di anteriore e piena conoscenza dell'atto, il termine
di impugnazione della concessione di costruzione decorre dal
momento in cui è percepibile la lesività dell'opera
realizzata).
---------------
In generale, comunque, in base agli ordinari criteri di
riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 c.c., la
dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della
pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali
dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da
chi eccepisce la tardività dell'impugnazione.
Se quindi in genere la conoscenza effettiva e completa del
titolo edilizio da parte del terzo si verifica di regola con
l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile, e non
solo con il loro inizio, a maggior ragione non può
equipararsi la conoscenza del progetto presentato alla già
avvenuta conoscenza del permesso che sarà rilasciato in
seguito.
Una cosa è la conoscenza della documentazione allegata alla
istanza; ben altra cosa è la conoscenza del contenuto del
provvedimento lesivo, una volta emanato, e delle sue
modalità di esecuzione.
Al di là della generale considerazione secondo cui, in
materia di impugnativa di titoli edilizi abilitativi da
parte di terzi, il termine decorre dalla piena conoscenza
della lesività dell’intervento (tra tante, si veda Consiglio
Stato sez. IV, 18.06.2009, n. 4015, secondo cui tranne i
casi di anteriore e piena conoscenza dell'atto, il termine
di impugnazione della concessione di costruzione decorre dal
momento in cui è percepibile la lesività dell'opera
realizzata), deve ritenersi che, anche a desumere la piena
lesività già dalla conoscenza del contenuto dell’atto
lesivo, bene ha fatto il primo giudice a ritenere che la
decorrenza poteva aversi soltanto dalla piena e completa
conoscenza dell’atto di permesso lesivo, non potendosi
invece essa conoscenza farsi retroagire dal momento della
conoscenza del mero progetto, allegato come tale all’istanza
presentata.
Infatti, è evidente che la piena conoscenza del progetto,
per un permesso ancora da emanare, non può essere equiparata
alla conoscenza dell’atto impugnato (successivo) che ben
potrebbe essere emesso con prescrizioni o a seguito di
modifiche.
In generale, comunque, in base agli ordinari criteri di
riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 c.c., la
dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della
pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali
dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da
chi eccepisce la tardività dell'impugnazione (così, da
ultimo, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 19.12.2012 n.
6557).
Se quindi in genere la conoscenza effettiva e completa del
titolo edilizio da parte del terzo si verifica di regola con
l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile, e non
solo con il loro inizio, a maggior ragione non può
equipararsi la conoscenza del progetto presentato alla già
avvenuta conoscenza del permesso che sarà rilasciato in
seguito.
Una cosa è la conoscenza della documentazione allegata alla
istanza; ben altra cosa è la conoscenza del contenuto del
provvedimento lesivo, una volta emanato, e delle sue
modalità di esecuzione
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.06.2013 n. 3101 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Illegittimità ordinanza contingibile per il
prolungamento della canna fumaria.
E’ Illegittima l’ordinanza per il prolungamento della canna
fumaria oltre 1,00 ml. il colmo del tetto con la proprietà
confinante.
Nel caso di specie, l'atto impugnato non è stato
preceduto da alcuna puntuale istruttoria, ma ha fatto
seguito solo alle "lamentele" di alcuni cittadini, non
suffragate da accertamenti tecnici sull’effettiva presenza
di fumi nocivi, pure ritenuti necessari dalla ASL e dalla
Provincia, che sul punto si sono limitate a rendere consulti
preliminari e interlocutori.
L’ordinanza impugnata non
indica nemmeno la concreta situazione di pericolo e di danno
limitandosi a far riferimento genericamente a “gas”, senza
specificarne la natura, l'effettiva sussistenza e il grado
di pericolosità.
3. Nel merito va premesso che l’ordinanza qui impugnata è
stata adottata ai sensi dell’art. 50 d.lgs. 267/2000.
Al quinto comma della citata disposizione si prevede che “in
caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere
esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti
sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della
comunità locale".
4. Ciò posto, il ricorso appare fondato e meritevole di
accoglimento.
4.1. L'ordinanza impugnata ha pacificamente natura "contingibile
ed urgente", come induce chiaramente a ritenere sia
l’espresso richiamo all’art. 50, sia l'adozione dell'atto da
parte del sindaco, sia l'espressa finalizzazione del
provvedimento alla prevenzione ed eliminazione di pericoli
da immissioni nocive.
4.2. Ciò posto, è principio giurisprudenziale consolidato e
condiviso quello per cui il potere del Sindaco di emanare
ordinanze contingibili e urgenti, essendo espressione di un
potere atipico e residuale, può essere esercitato solo per
affrontare situazioni di carattere eccezionale ed
impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica
incolumità e unicamente in presenza di un preventivo
accertamento della situazione che deve fondarsi su prove
concrete e non su mere presunzioni (TAR Piemonte, sez. I
27.06.2013 n. 843; id., sez. II, 12.06.2009, n. 1680; TAR
Bari, sez. III, 26.08.2008, n. 1986).
Ulteriore presupposto indefettibile per l'adozione di
siffatte ordinanze sindacali è la necessità di intervenire
urgentemente con misure eccezionali e imprevedibili di
carattere "provvisorio", non fronteggiabili con gli "ordinari"
mezzi previsti dall'ordinamento giuridico e a condizione
della "temporaneità dei loro effetti" (Corte Cost.,
sentenze 07.04.2011 n. 115 e 01.07.2009, n. 196 e Cons. St.,
sez. VI, 31.10.2013, n. 5276).
4.3. Nel caso di specie, l'atto impugnato:
- non è stato preceduto da alcuna puntuale istruttoria, ma
ha fatto seguito solo alle "lamentele" di alcuni
cittadini, non suffragate da accertamenti tecnici
sull’effettiva presenza di fumi nocivi, pure ritenuti
necessari dalla ASL e dalla Provincia, che sul punto si sono
limitate a rendere consulti preliminari e interlocutori;
- non si è fondato su prove concrete, ma su presupposti
generici, non essendo mai stato acquisito l’approfondimento
istruttorio poc’anzi menzionato, come si desume dalle stesse
premesse dell’ordinanza, ove si dà atto della presenza
immissioni di immissioni aeree di gas “presumibilmente
nocive o pericolose”. L’ordinanza impugnata non indica
nemmeno la concreta situazione di pericolo e di danno
limitandosi a far riferimento genericamente a “gas”,
senza specificarne la natura, l'effettiva sussistenza e il
grado di pericolosità (cfr. TAR Piemonte, sez. II,
07.07.2010, n. 3000; TAR Catania, sez. I 29.09.2011, n.
2371);
- non ha fornito riscontro della necessità di provvedere con
immediatezza in ordine a situazioni di carattere eccezionale
ed imprevedibile, cui fosse impossibile fare fronte con gli
strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Non è configurabile, pertanto, il requisito della
contingibilità, tenuto conto che l'ordinanza gravata non
reca alcuna motivazione in ordine all'impossibilità, per il
Comune -nei limiti della propria competenza- di utilizzare
gli ordinari strumenti di accertamento e contestazione, nel
rispetto delle regole procedimentali di partecipazione;
- appare insussistente, infine, qualsiasi profilo di tutela
dell’interesse diffuso, posto che il provvedimento è
limitato alle possibili immissioni della canna fumaria
dirette verso la proprietà confinante, incidendo, quindi,
esclusivamente nei rapporti tra i privati.
4.4 Superare i segnalati limiti che circoscrivono
l’esercizio del potere di cui all’art. 50 d.lgs. 267/2000,
equivarrebbe ad ampliare in maniera incongrua –oltre che
lesiva del principio di tipicità dei provvedimenti
amministrativi e dello stesso principio di legalità
dell'azione amministrativa- i poteri di ordinanza extra
ordinem del Sindaco, che vanno invece circoscritti, come
esposto, a situazioni di carattere tendenzialmente
eccezionale non fronteggiabili con gli ordinari strumenti
previsti dall'ordinamento (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 21.02.2014 n. 322 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI - TRIBUTI:
Competenza della Giunta Comunale in materia di I.C.I..
Poiché la L. n. 446 del 1997, art. 59,
riconosce al Consiglio Comunale, in materia di ICI, la
facoltà di "determinare periodicamente e per zone omogenee i
valori venali in comune commercio delle aree fabbricabili,
al fine della limitazione del potere di accertamento del
Comune qualora l'imposta sia versata sulla base di un valore
non inferiore a quello predeterminato", i regolamenti
comunali adottati in proposito, à sensi del D.Lgs. n. 446
del 1997, art. 52, lett. q), pur non avendo natura
imperativa, sono assimilabili agli studi di settore, nel
senso che si tratta di fonti di presunzioni dedotte da dati
di comune esperienza idonei a costituire supporti razionali
offerti dall'Amministrazione al giudice, e utilizzabili,
quali indici di valutazione, anche retroattivamente,
analogamente al cd. "redditometro" (Cass. 9137/2005).
Analogamente, di tale potere può fare uso la Giunta
Comunale, cui la competenza in materia di ICI, già del
Consiglio Comunale, è stata riassegnata dal D.Lgs. 267 del
2000.
Il D.Lgs. 30.12.1992, n. 504, art. 5, dispone che "per le
aree fabbricabili, il valore è costituito da quello venale
in comune commercio - avendo riguardo alla zona territoriale
di ubicazione, all'indice di edificabilità, agli oneri per
eventuali lavori di adattamento ..., ai prezzi medi rilevati
sul mercato della vendita di aree aventi analoghe
caratteristiche".
Il Comune ricorrente, con riferimento ad aree inserite in
comparto consortile industriale, ha sopperito alle
indicazioni previste dalla legge mediante una delibera con
cui ha fatto propria la valutazione in proposito del proprio
Ufficio tecnico.
Poiché la L. n. 446 del 1997, art. 59, riconosce al
Consiglio Comunale, in materia di ICI, la facoltà di "determinare
periodicamente e per zone omogenee i valori venali in comune
commercio delle aree fabbricabili, al fine della limitazione
del potere di accertamento del Comune qualora l'imposta sia
versata sulla base di un valore non inferiore a quello
predeterminato", i regolamenti comunali adottati in
proposito, à sensi del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52,
lett. q), pur non avendo natura imperativa, sono
assimilabili agli studi di settore, nel senso che si tratta
di fonti di presunzioni dedotte da dati di comune esperienza
idonei a costituire supporti razionali offerti
dall'Amministrazione al giudice, e utilizzabili, quali
indici di valutazione, anche retroattivamente, analogamente
al cd. "redditometro" (Cass. 9137/2005).
Analogamente, di tale potere può fare uso la Giunta
Comunale, cui la competenza in materia di ICI, già del
Consiglio Comunale, è stata riassegnata dal D.Lgs. 267 del
2000 (Cass. 12345/2005; 9216/2007).
Nella specie, dunque la delibera di Giunta con cui sono
stati indicati i valori di riferimento delle aree in
questione, pur essendo atto di carattere generale, ha
assunto il valore di presunzione, ancorché suscettibile di
prova contraria, presunzione che il Comune ha supportato
mediante l'indicazione di ulteriori elementi di valutazione,
desumibili dalla lettura degli statuti -sostanzialmente
analoghi- del Consorzio Industriale di cui fa parte l'area
della contribuente, e di quello del Consorzio Industriale di
comparazione ("la Graziosa 2"), Statuti riportati in
stralcio nell'odierno ricorso.
A fronte di tali dati testuali, nessun elemento probatorio
ha addotto la contribuente, cui incombeva l'onere di
contrastare non soltanto il contenuto della delibera
comunale richiamata, ma i valori di comparazione
concretamente riportati dal Comune, valori che la
Commissione Regionale ha, senza effettuarne una coerente
disamina, disatteso limitandosi a valutare le restrizione
imposte nell'atto di cessione dell'area dal Consorzio
Industriale, restrizioni comuni a fattispecie analoghe.
Il ricorso deve dunque essere accolto con cassazione della
sentenza impugnata (Corte di Cassazione, sentenza
27.07.2007 n. 16702). |
AGGIORNAMENTO AL 07.10.2014 |
ã |
E la telenovela
continua... |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 24.09.2014 si dava risalto a quel ben fatto
servizio televisivo de "LE IENE" (Italia Uno)
laddove un dipendente pubblico, in congedo, per il
sol fatto di essersi fatto distaccare presso un
sindacato (alla fine della carriera lavorativa) per
pochi mesi "beccava" una pensione integrativa
di migliaia di euro.
Ebbene, con un
2° servizio andato in onda lo scorso 01.10.2014
hanno intervistato l'ex Ministro Tiziano Treu (papà
della famigerata legge 564 ... recte
D.Lgs. 16.09.1996 n. 564) nonché i leader
nazionali della UIL (Angeletti) e della CGIL (Camusso).
Guardate (ascoltate) attentamente questa 2^ puntata e,
soprattutto, quello che dicono gli intervistati:
RIBREZZO
ALLO STATO PURO!!
A questo punto ci poniamo un interrogativo:
a cosa servono i
sindacati?? |
IN EVIDENZA |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Non retroattivi i nuovi incentivi ai progettisti.
La nuova disciplina degli incentivi alla progettazione non
ha efficacia retroattiva, ma si applica solo a decorrere dal
19.08.2014
Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti - Sezione
regionale di controllo per l'Emilia Romagna, che con il
parere 19.09.2014 n. 183 si è pronunciata sulla decorrenza della
riforma introdotta dalla legge 114/2014, di conversione del
dl 90/2014.
In particolare, viene in considerazione l'art. 13-bis, che
ha abrogato i commi 5 e 6 dell'art. 92 del codice dei
contratti pubblici (dlgs 163/2006) e ha inserito 4 nuovi
commi (da 7-bis a 7-quinquies) al successivo art. 93.
In base a questi ultimi, ciascuna amministrazione deve
istituire (con apposito regolamento) un fondo in cui far
confluire una somma fino al 2% degli importi a base di gara.
Di tali somme, l'80% verrà ripartito al progettisti interni,
mentre il restante 20% sarà destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione, di implementazione delle banche
dati per il controllo e il miglioramento della capacità di
spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento ed
efficientamento dell'ente e dei servizi ai cittadini.
In
ogni caso, i premi complessivamente corrisposti nel corso
dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non potranno superare il 50% trattamento
economico complessivo annuo lordo.
Gli incentivi, inoltre, sono ora espressamente collegati
alla sola realizzazione di opere pubbliche e non anche a
mete attività di pianificazione territoriale e, in ossequio
al principio della onnicomprensività della retribuzione
dirigenziale, non spettano ai dirigenti.
Tuttavia, hanno chiarito in magistrati contabili, la nuova
disciplina non è applicabile retroattivamente, non essendo
norma di interpretazione autentica, ma scatta solo
dall'entrata in vigore della l. 114 e quindi, come detto,
dal 19 agosto. Il parere in commento suggerisce anche come
regolarsi rispetto al pregresso chiarendo che fino al 19
agosto continuano ad applicarsi le regole previgenti. Rimane
il dubbio se la novella si applichi per le sole opere
progettate dopo tale data (facendo quindi salvi tutti gli
impegni assunti prima) o valga, invece, per tutte le
liquidazioni successive, anche se riferite a opere
progettate quando era in vigore la precedente normativa. A
parere di chi scrive è preferibile la prima lettura
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
a) l’ambito applicativo degli incentivi per la progettazione
di cui agli artt. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 riguarda non
un'attività di semplice pianificazione territoriale ma esclusivamente
progettazione collegata direttamente con la realizzazione di
un'opera pubblica;
b) fino all’entrata in vigore della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90,
anche il dirigente di ruolo di un ufficio tecnico del Comune
potrebbe beneficiare degli incentivi, in quanto il contratto
collettivo nazionale di lavoro dell’Area II prevede
espressamente quale deroga al principio
dell’onnicomprensività la spettanza di incentivi per la
progettazione (come detto, strettamente riferibile alla
realizzazione di un’opera pubblica);
c) in base al principio dell’alterità, il beneficiario
dell’incentivo non può coincidere con il soggetto (ad
esempio, il capo dell’Ufficio tecnico) che provvederà
all’accertamento del buon esito del progetto;
d) l’art. 93, comma 7-ter, ultimo periodo, del codice di cui
al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come inserito
dall’art. 13-bis “Fondi per la progettazione e
l'innovazione” della legge di conversione 11.08.2014, n.
114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 –disposizione
non applicabile retroattivamente, non essendo norma di
interpretazione autentica– ha espunto dall’ordinamento il
comma 5 (al quale il CCNL dell’Area II faceva richiamo) e il
comma 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163; in base a tale nuova
disciplina il riparto del fondo per la progettazione non
trova più applicazione per il personale con qualifica
dirigenziale.
---------------
Il Comune di Cesenatico chiede di conoscere se è
legittimo corrispondere, per attività svolte nell’anno
2013, incentivi di progettazione ai sensi dell’art. 92
del d.lgs. n. 163 del 2006 al dirigente del settore
urbanistica incaricato per l’Ente, ai sensi dell’art. 110,
comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000, individuato
specificamente nel procedimento di redazione e progettazione
di “Variante generale al PRG 98, ai sensi dell’ex art. 15
della l.r. n. 47 del 1978 e successive modificazioni”
come “progettista”, laddove il regolamento comunale
vigente espressamente prevede che “progettisti” si
identificano nei dipendenti di ruolo facenti parte
dell’ufficio tecnico.
...
2.1. Al riguardo, giova premettere che il Comune
richiedente, come è possibile desumere dal preambolo
dell’allegato A alla richiesta di parere (che richiama la
giurisprudenza di questa Corte in materia, in particolare i
pareri delle Sezioni di controllo della Regione Toscana,
parere 29.07.2013 n. 252 e
parere 23.10.2013 n. 276
e della Regione Veneto
parere 22.11.2013 n. 361), è
avveduto –ma come si vedrà in modo insufficiente– della
complessa questione interpretativa concernente la spettanza
degli incentivi di progettazione ai sensi dell’art. 92 del
d.lgs. n. 163 del 2006 a favore dei dirigenti - nel senso
che la previsione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163
del 2006 conterrebbe, per i dirigenti, una norma di
incentivazione autonoma derogatoria rispetto al principio di
onnicomprensività contenuta nel comma 5 del medesimo
articolo.
In particolare, nel citato
parere 22.11.2013 n. 361,
la Corte dei conti Sezione regionale per la Regione Veneto
ha ritenuto che: “che la previsione dell’art. 92, comma 6,
del d.lgs. n. 163/2006 contenga una esplicita norma di
incentivazione che deroga al principio di onnicomprensività.
La norma introduce quindi una previsione derogatoria
autonoma e distinta rispetto a quella contenuta nel comma 5,
ricavabile da numerosi fattori. Tale conclusione è
avvalorata, in particolare, sia dalla analisi
dell’evoluzione storica della norma che dalla verifica della
sua trasposizione nel corpus del codice dei contratti. Essa
trova conferma altresì nella esplicita previsione testuale
della norma (atto di pianificazione comunque denominato),
nonché dalla previsione di una diversa commisurazione del
compenso rispetto a quanto previsto in tema di progettazione
di opere pubbliche. L’oggettiva e dimostrata maggiore
complessità delle funzioni di pianificazione trova una sua
esplicitazione a livello normativo nella documentazione che
viene allegata alle varianti agli strumenti urbanistici
rispetto alle modifiche puntuali di essi connesse alla
progettazione delle opere pubbliche. Tali attività di
elaborazione sono pertanto di uno scrutinio comparativo alla
luce dei principi dell’ordinamento e in particolare di
ragionevolezza e di quelli enunciati all’art. 36 della
Costituzione. Anche sul piano soggettivo, le mansioni di
pianificazione generali –a differenza di quelle di
progettazione di opera pubblica– non sono ascrivibili alla
specifica competenza di un solo soggetto, ma richiedono una
attività multidisciplinare, che non potrebbe trovare deroga
alcuna attese le tassatività delle competenze professionali
stabilite dalla legge. Peraltro, esse richiedono comunque
una intensa attività di coordinamento che trova esplicita
conferma testuale nella norma del comma 6 nel rinvio alle
modalità e criteri del regolamento di cui al comma
precedente. La stessa commisurazione del compenso, in modo
sensibilmente diverso rispetto a quella di progettazione
dell’opera pubblica, dimostra come l’intenzione del
legislatore è stata quella di attribuire la giusta
retribuzione all’attività di pianificazione, anche mediata,
a prescindere dal suo collegamento con un’opera pubblica”.
2.2. Tale questione interpretativa non costituisce, invero,
il petitum del quesito, essendo quest’ultimo volto a
conoscere se il Comune sia legittimato ad estendere al
dirigente del Settore urbanistica del Comune medesimo (come
previsto dalla delibera a firma dello stesso dirigente del
Comune allegata alla richiesta di parere) la corresponsione
degli incentivi per la progettazione, laddove, invece, il
Regolamento comunale, emanato ai sensi dell’art. 110, comma
2, del d.lgs. n. 267 del 2000, identifica i progettisti
beneficiari “nei dipendenti di ruolo facenti parte
dell’ufficio tecnico”, (v. art. 3, comma 1, lettera b, del
Regolamento comunale per la corresponsione degli incentivi
per la progettazione del 06.10.2006).
2.3. Tuttavia, occorre qui svolgere una importante
precisazione circa la validità dell’orientamento formulato
in proposito dalla Corte dei conti, Sezione di controllo per
la Regione Veneto -
parere 22.11.2013 n. 361, citato nel preambolo
della Determinazione n. 841 allegata alla richiesta di
parere, evidentemente non a conoscenza del Comune
richiedente.
2.3.1.
La Corte dei conti, Sezione autonomie, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7 ha risolto la questione
di massima circa la corretta interpretazione delle
disposizioni recate dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (in prosieguo Codice dei contratti) ed,
in particolare, della definizione ivi riportata “atto di
pianificazione comunque denominato”.
Due erano gli indirizzi interpretativi formatisi nella
giurisprudenza della Corte: il primo considerava i
corrispettivi previsti dalle citate disposizioni di cui
all’art. 92, comma 6, a favore dei dipendenti, a titolo di
incentivi alla progettazione interna, necessariamente
collegati alla realizzazione di opere pubbliche e la
partecipazione alla redazione di un atto di pianificazione
di carattere generale quale attività rientrante
nell’espletamento di funzioni istituzionali (cfr.
ex multis:
Sez. contr. Toscana
parere 18.10.2011 n. 213 e
parere 19.03.2013 n. 15; Sez. contr.
Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290; Sez. contr.
Puglia Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1,
parere 09.11.2012 n. 107; Sez. contr. Lombardia
parere 24.10.2012 n. 452 e
parere 27.09.2013 n. 391; Sez. contr. Campania
parere 10.04.2013 n. 141; Sez.
contr. Emilia Romagna
parere 25.06.2013 n. 243; Sez. contr. Marche
parere 04.10.2013 n. 67; Sez. contr. Umbria
parere 09.07.2013 n. 119 e
parere 23.10.2013 n. 125);
il secondo, di recente espresso dalla Sezione regionale di
controllo per il Veneto (deliberazione n. 361/2013), e
richiamato nel preambolo della determinazione n. 841 del
04.12.2013, allegata alla richiesta di parere del Comune di
Cesenatico, affermava che “con l’utilizzo della locuzione
atto di pianificazione comunque denominato, lungi
dall’autorizzare interpretazioni restrittive, il legislatore
ha inteso utilizzare una dizione sufficientemente generale
ed aperta, tale da consentire di ascrivere all’ambito
oggettivo della norma ogni atto di pianificazione,
prescindendo dal suo collegamento diretto con la
progettazione di un’opera pubblica”, concludendosi per
un’applicazione dell’istituto premiale estesa ad ogni atto
di pianificazione “anche di carattere mediato”.
2.3.2.
Nel merito, la Sezione autonomie, nella citata
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha risolto la questione di
massima e dunque il contrasto tra le pronunce delle Sezioni
regionali di controllo della Corte nel senso che
gli
incentivi di cui al citato art. 92, commi 5 e 6, devono
essere necessariamente riferiti alla progettazione di opere
pubbliche e non invece a meri atti di pianificazione non
collegati direttamente alla realizzazione di un'opera
pubblica, come invece risulterebbe dalla citata
determinazione n. 841 allegata alla richiesta di parere del
Comune di Cesenatico, che, appunto, fa riferimento alla
progettazione della “variante generale al PRG 98, ai sensi
dell’ex art. 15 l.r. n. 47/1978 e s.m.i.”.
2.4. Tanto premesso, in considerazione del tenore della
richiesta di parere, occorre comunque stabilire se l’attuale
formulazione del Regolamento comunale per la corresponsione
degli incentivi per la progettazione osti, in via di
principio, a legittimare il Comune a corrispondere, per
attività svolte nell’anno 2013, incentivi per la
progettazione (riferibile alla realizzazione di opere
pubbliche) al dirigente responsabile della struttura, dato,
come si è visto, che il citato regolamento individua i
beneficiari degli incentivi nei progettisti “dipendenti di
ruolo facenti parte dell’ufficio tecnico”, come individuati
dal dirigente.
2.5. Al riguardo occorre ricordare che il Contratto
Collettivo Nazionale di Lavoro del Personale Dirigente del
comparto Regioni e autonomie locali (Area II Regioni e
Autonomie locali) Quadriennio normativo 2006-2009, Biennio
2006-2007 prevede all’art. 20 (Onnicomprensività del
trattamento economico) quanto segue: “In aggiunta alla
retribuzione di posizione e di risultato, ai dirigenti
possono essere erogati direttamente, a titolo di
retribuzione di risultato, solo i compensi previsti da
specifiche disposizioni di legge, come espressamente
recepite nelle vigenti disposizioni della contrattazione
collettiva nazionale e secondo le modalità da queste
stabilite: art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163 del 12.04.2006;
art. 37 del CCNL del 23.12.1999; art. 3, comma 57, della
legge n. 662 del 1996; art. 59, comma 1, lett. p), del d.lgs. n. 446/1997 (recupero evasione ICI); art. 12, comma 1,
lett. b), del d.l. n. 437 del 1996, convertito nella legge n.
556 del 1996. L'ente definisce l'incidenza delle suddette
erogazioni aggiuntive sull'ammontare della retribuzione di
risultato sulla base criteri generali oggetto di previa
concertazione sindacale, ai sensi dell'art. 6 del CCNL del
22.02.2006.”.
Tale clausola negoziale riproduce quelle già
inserite nel CCNL del 23.12.2009 (art. 26, comma 1, lett.
e), e nel CCNL del 10.04.1996 (art. 37, comma 1, lett. e).
Nell’orientamento applicativo del 27.11.2007, l’Aran ha
anche chiarito che “le risorse derivanti dalla applicazione
dell’art. 18 della legge 109/1994 (ora art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006) possono confluire nel fondo di posizione e
di risultato della dirigenza (per essere erogate come
retribuzione di risultato) solo a condizione che sussistano
i finanziamenti destinati alla esecuzione delle relative
opere pubbliche e, naturalmente, limitatamente al solo anno
di riferimento temporale dello stesso finanziamento”.
2.6. Quanto alla individuazione dell’Ufficio tecnico,
l’organigramma del Comune di Cesenatico non individua
espressamente l’”Ufficio tecnico”, bensì diversi Uffici con
competenze di progettazione urbanistica tra cui l’Ufficio
diretto dal dirigente arch. Vittorio Foschi Edilizia
privata-vigilanza (cfr. determinazione n. 841 del 04.12.2013, allegata alla richiesta di parere del Comune di
Cesenatico); sicché, quest’ultimo sembra riconducibile
nell’ambito applicativo della disposizione comunale.
2.7. Sulla base del ricostruito quadro normativo di
riferimento, la formulazione della norma regolamentare del
Comune di Cesenatico non sembra di per sé di ostacolo alla
destinazione nell’an degli incentivi di cui al Fondo per la
progettazione al personale dirigenziale di ruolo di un
Ufficio tecnico del Comune, in quanto come si è visto, sulla
base delle vigenti clausole contrattuali, la cd.
onnicomprensività del trattamento dei dirigenti appartenenti
all’ Area II (Dirigenti di Regioni ed Enti locali) non
esclude l’eventuale destinazione, anche a loro beneficio,
degli incentivi di cui all’art. 92 del d.lgs. n. 163 del
2006.
3. Un ulteriore profilo merita di essere evidenziato sebbene
esso non formi oggetto del quesito.
La citata determinazione n. 841 del 04.12.2013,
allegata alla richiesta di parere, prevede che il dirigente
capo dell’Ufficio risulta beneficiario nella misura del 40%
dell’incentivo; e tuttavia, tenuto conto del disposto di cui
al quarto periodo dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163
del 2006 “La corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente preposto alla struttura competente, previo
accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai
predetti dipendenti”, la determinazione omette di indicare
il soggetto deputato ad “accertare” che le attività da
remunerare saranno svolte in modo positivo, potendo invero
ipotizzarsi che, nel silenzio della determina, il capo
dell’Ufficio beneficiario dell’incentivo possa coincidere
con il soggetto che provvederà all’accertamento del buon
esito del progetto.
In proposito, occorre segnalare che il Comitato consultivo
dell’Avvocatura generale dello Stato, nel
parere 21.12.2013 n. 513720/23 di prot. (CS 4955-6145/13, Sez. VII, avv. Marco
Stigliano Messuti), in riferimento al quesito su “chi debba
intendersi per membro interno ovvero esterno alla stazione
appaltante ai fini dell’applicazione rispettivamente degli
incentivi ex art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163/2006”, ha
ritenuto che "[…] gli aventi diritto potevano essere solo le
figure tecnico-professionali espressamente richiamate ai
fini del riparto, ossia il responsabile del procedimento, il
progettista, il direttore dei lavori, i collaudatori, nonché
i loro collaboratori"; il citato parere aggiunge che [nella
fattispecie esaminata] "il convenuto ha percepito il fondo
come collaboratore di sé medesimo in evidente violazione
dell'art. 92, comma 5, nella parte in cui, invece, stabiliva
la destinazione ad 'economia' non solo per la quota
d'incentivo riguardante le attività conferite a soggetti
esterni, ma anche per quelle prive del dovuto “accertamento"
da parte del dirigente, e non vede il Collegio come il ...
abbia potuto sindacare, valutare e, dunque, 'accertare' la
propria auto-collaborazione".
4. Occorre aggiungere che la disciplina in tema di riparto
del fondo per l’incentivazione per la progettazione interna
è stata riconsiderata ad opera dell’art. 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90 “Misure urgenti per la semplificazione e
la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli
uffici giudiziari”, convertito dalla legge 11.08.2014,
n. 114, che ha abrogato i commi 5 e 6 dell'articolo 92 del
codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n.
163, che ha inserito, dopo il comma 7 dell'articolo 93 del
codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
il comma 7-ter, il quale così dispone “L'80 per cento delle
risorse finanziarie del fondo per la progettazione e
l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale e adottati nel
regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono
comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali
a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i
criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto
delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso
d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo
del presente comma, non sono computati nel termine di
esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per
accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a),
b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli
incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno
al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non
possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.”.
Per effetto di questa innovazione normativa:
a) la
disciplina del regime dell’incentivazione è ora
espressamente da ricondurre alla sola realizzazione di opere
pubbliche e non anche ad attività di pianificazione
territoriale;
b) in base all’ultimo periodo del citato comma
7-ter, il legislatore, evidentemente ispirato alla ratio del
principio della onnicomprensività della retribuzione,
prevede ora che non spetta al “dirigente” il riparto degli
incentivi dal Fondo per la progettazione.
5. Conclusivamente, deve ritenersi che:
a) l’ambito applicativo degli incentivi per la progettazione
di cui agli artt. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 riguarda non
un'attività di semplice pianificazione territoriale (come
sembra avvenire nel caso all’esame), ma esclusivamente
progettazione collegata direttamente con la realizzazione di
un'opera pubblica;
b) fino all’entrata in vigore della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90,
anche il dirigente di ruolo di un ufficio tecnico del Comune
potrebbe beneficiare degli incentivi, in quanto il contratto
collettivo nazionale di lavoro dell’Area II prevede
espressamente quale deroga al principio
dell’onnicomprensività la spettanza di incentivi per la
progettazione (come detto, strettamente riferibile alla
realizzazione di un’opera pubblica);
c) in base al principio dell’alterità, il beneficiario
dell’incentivo non può coincidere con il soggetto (ad
esempio, il capo dell’Ufficio tecnico) che provvederà
all’accertamento del buon esito del progetto;
d) l’art. 93, comma 7-ter, ultimo periodo, del codice di cui
al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come inserito
dall’art. 13-bis “Fondi per la progettazione e
l'innovazione” della legge di conversione 11.08.2014, n.
114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 –disposizione
non applicabile retroattivamente, non essendo norma di
interpretazione autentica– ha espunto dall’ordinamento il
comma 5 (al quale il CCNL dell’Area II faceva richiamo) e il
comma 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163; in base a tale nuova
disciplina il riparto del fondo per la progettazione non
trova più applicazione per il personale con qualifica
dirigenziale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 19.09.2014 n. 183). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI: Personale, l'in house non vale.
Consorzi e aziende speciali nel calcolo delle spese.
La Corte conti Lombardia ribadisce l'esigenza di
consolidamento dei bilanci locali.
Gli enti locali, ai fini del rispetto dell'obbligo di
contenimento delle spese di personale, devono considerare
anche quelle dei consorzi e delle aziende speciali da essi
partecipati, ma non quelle delle proprie società in house.
Lo ha chiarito (confermando il proprio orientamento sul
punto) la Corte dei conti - Sezione regionale di controllo
per la Lombardia, con il
parere
29.09.2014 n. 237.
La pronuncia ribadisce l'esigenza del consolidamento delle
spese di personale del «gruppo ente locale», che comprende i
diversi sistemi organizzativi nei quali, ormai, si articola
l'amministrazione pubblica. Tale esigenza, tuttavia, non può
essere assolutizzata, ma deve essere sempre letta alla luce
del contesto e dell'evoluzione normativa.
Da qui l'esclusione delle spese di personale delle società
in house, tenuto conto delle controproducenti rigidità
gestionali che ne deriverebbero: tali compagini, infatti, di
norma, gestiscono servizi caratterizzati da picchi di
attività ultra-annuali, che rischierebbero di falsare le
serie storiche.
Al contrario, vanno consolidate le aziende speciali, alla
luce del rapporto di immedesimazione organica e funzionale
con l'ente partecipante che le caratterizza. Stesso discorso
per i consorzi, vista la loro stretta strumentalità (che
rasenta l'immedesimazione organica e funzionale).
Ricordiamo che i limiti alle spese di personale sono quelli
previsti dall'art. 1, commi 557 e 562, della l 296/2006: gli
enti soggetti al Patto di stabilità interno devono garantire
il contenimento rispetto al valore medio del triennio
2011-2013, mentre quelli non soggetti non devono superare il
valore del 2008. Fanno eccezione i soli enti (soggetti al
Patto) che nel 2012 partecipavano alla sperimentazione del
nuovo sistema contabile.
In tal caso, come chiarito dal
recente parere n. 73024/2014 del Mef, la base di calcolo è
pari al doppio della spesa 2011 + la spesa 2013 diviso 3.
Ciò per sterilizzare gli effetti derivanti dall'applicazione
del nuovo principio della competenza finanziaria potenziata
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2014). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
G.U. 03.10.2014 n. 230 "Individuazione delle prestazioni
principali in relazione alle caratteristiche essenziali dei
beni e servizi oggetto delle convenzioni stipulate da Consip
S.p.A., ai sensi dell’articolo 10, comma 3, del
decreto-legge 24.04.2014, n. 66" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 15.09.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 40 dell'01.10.2014,
"Adempimenti derivanti dagli obblighi nei confronti
dell’Unione Europea relativi alle attività estrattive di
cava"
(L.R.
01.10.2014 n. 27). |
EDILIZIA
PRIVATA - PATRIMONIO - VARI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 40 dell'01.10.2014, "Norme per
la promozione e lo sviluppo delle attività motorie e
sportive, dell’impiantistica sportiva e per l’esercizio
delle professioni sportive inerenti alla montagna" (L.R.
01.10.2014 n. 26). |
VARI:
G.U. 29.09.2014 n. 226 "Disciplina del Fondo di garanzia
«prima casa» di cui all’articolo 1, comma 48, lett. c),
della legge 27.12.2013, n. 147" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 31.07.2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
D. Tramutoli,
“L'interpretazione del principio di concentrazione e
continuità delle operazioni di gara d'appalto” (cfr.
Cons. Stato, Sez. III, sentenza n. 4605 del 10.09.2014)
(01.10.2014 - link a www.diritto.it). |
APPALTI:
R. De Nictolis,
Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014
(01.10.2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Il D.L. n. 90/2014, e le sue modifiche intervenute con il
D.L. n. 114/2014, hanno ridisegnano in modo signi-ficativo
il rito degli appalti pubblici disciplinato dall’art. 120
c.p.a. Nel testo si opera una ricostruzione siste-matica del
rito, alla luce delle novità introdotte. |
NOTE, CIRCOLARI
E COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Legge n. 114 dell’11.08.2014: modifiche in
ambito di appalti pubblici. Certificazioni antimafia; ANAC;
AVCPass; Centrali di committenza; varianti in corso d’opera;
ulteriori disposizioni (ANCE Bergamo,
circolare 03.10.2014 n. 187). |
ENTI LOCALI:
OGGETTO: Sperimentazione armonizzazione contabile -
triennio di riferimento ai fini del contenimento spese di
personale (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
Ragioneria Generale dello Stato,
nota 16.09.2014 n. 73024 di prot.). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO
IMPIEGO: Portatrice
di handicap.
Domanda
Sono un dipendente pubblico affidatario di un bambino
portatore di handicap grave e vorrei sapere di quali
permessi lavorativi posso beneficiare.
Risposta
L'handicap gravità
viene riconosciuta nel caso di riduzione dell'autonomia
personale, correlata all'età, che renda necessario un
intervento assistenziale permanente e continuativo.
In merito ai permessi lavorativi la legge n. 53/2000 prevede
nei confronti dei genitori anche adottivi di persona
portatrice di handicap i seguenti permessi:
1) la madre, o in alternativa, il padre di minore con
handicap in situazione di gravità, possono astenersi dal
lavoro in astensione facoltativa fino al compimento del 3°
anno di età del bambino, a condizione che il bambino non sia
ricoverato a tempo pieno presso istituti ospedalieri;
2) in alternativa, il lavoratore può chiedere 2 ore di
permesso giornaliero retribuito fino al compimento del 3°
anno di vita del bambino;
3) successivamente al compimento del 3° anno di età del
bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il
lavoratore padre, ha diritto a tre giorni di permesso
mensile, coperti da contribuzione figurativa, fruibili anche
in maniera continuativa a condizione che la persona con
handicap in situazione di gravità non sia ricoverata in
Istituto di cura.
Inoltre va ricordato che il genitore che assiste un figlio
portatore di handicap, ha diritto di scegliere la sede di
lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere
trasferito ad altra sede senza il suo consenso. Tutti i
permessi e benefici sopra citati sono riconosciuti anche nei
confronti degli affidatari di persona portatrice di handicap
grave
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: 65%
anche con comodato verbale.
Domanda
È indispensabile redigere per iscritto e registrare un
contratto di comodato di immobile al fine di poter
beneficiare della detrazione Irpef del 65% per interventi di
risparmio energetico dei quali il comodatario, nipote del
comodante, si farebbe carico?
Risposta
A termini di legge, anche un contratto di comodato verbale,
spesso posto in essere in ambito familiare o parentale, non
registrato, del tutto legittimo sul piano civilistico e
fiscale (l'obbligo di registrazione, in termine fisso e a
tassa fissa, è previsto solo per i contratti scritti),
appare idoneo a legittimare il diritto alla detrazione Irpef
del 65%.
Infatti, la normativa primaria e secondaria (art.
1, commi da 344 a 349, legge n. 296/2006 e dm 19.02.2007, art. 2, lettera a), non prevedono particolari
condizioni circa il titolo giuridico di possesso o di
detenzione, ma stabiliscono semplicemente la spettanza della
detrazione, per una quota degli importi «rimasti a carico
del contribuente», «per le spese documentate» e fanno
riferimento unicamente alla situazione «di fatto» di
materiale disponibilità dell'immobile, concretantesi nel
possesso o nella mera detenzione, limitandosi a richiedere
(art. 4, comma 1, lett. d) del dm) che, se i lavori sono
effettuati dal detentore, dev'essere conservata ed esibita
la dichiarazione del possessore di consenso all'esecuzione
dei lavori, oltre ai bonifici dai quali risulti la causale
del versamento ed il codice fiscale del beneficiario della
detrazione.
Allo stesso modo, anche la fondamentale circolare 37/E/2007,
nel richiamare il comodato, non ne richiede la
registrazione.
Conferma di quanto sopra è stata data di recente dalla Ctp
di Como (sent. n. 43/5/2013) che ha dichiarato non legittimo
l'accertamento dell'Ufficio in un caso come quello oggetto
del quesito sottolineando -in modo condivisibile- che è
evidente la ratio della normativa, consistente
nell'agevolare -oggettivamente- gli interventi di
riqualificazione energetica degli edifici, beneficiando
della relativa detrazione il contribuente che sostiene le
relative spese, restando a tal fine irrilevanti il titolo
giuridico (proprietà, o altro diritto reale, o contratto a
effetti obbligatori), la forma del contratto (scritta o
verbale) in base al quale il contribuente che ha sostenuto
le spese detiene l'immobile e, a maggior ragione, la
circostanza che tale titolo abbia data certa opponibile al
fisco.
Nel caso di specie, il consenso del possessore (la
società locatrice) all'esecuzione dei lavori risultava da
una scrittura privata e da una dichiarazione, non
sussistevano contestazioni sul fatto che le spese fossero
state concretamente sopportate dal comodatario, e
quest'ultimo, ad abundantiam, fosse divenuto,
successivamente, locatario dell'unità immobiliare in forza
di contratto di locazione regolarmente registrato.
Tutto ciò precisato, laddove si voglia fugare «all'origine»
il rischio di siffatte contestazioni da parte dell'Ufficio,
con conseguenti costi per la difesa, patemi d'animo e
perdite di tempo, può avere senso registrare a tassa fissa
(euro 200) e nel termine fisso di 20 giorni un contratto di
comodato scritto, ove potrà essere già inserita
l'autorizzazione a effettuare i lavori
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Spese
di ristrutturazione.
Domanda
I costi di ristrutturazione sono stati sostenuti da due
sorelle conviventi. Una delle due non compare però
nell'intestazione della fattura emesse dalla ditta edile a
fronte dei lavori effettuati. Come può costei usufruire
della detrazione per spese che ha effettivamente sostenuto?
Risposta
La sorella non indicata in fattura potrà usufruire della
quota parte di detrazione che le spetta mediante apposita
annotazione, da apportare su detta fattura, indicante le
percentuali di spesa effettivamente sostenute dalle due
sorelle.
Si veda al riguardo la ris. n. 353/2008, con la quale venne
chiarito come, in presenza di più soggetti che intendono
fruire della detrazione, l'eventuale indicazione sul
bonifico del solo codice fiscale di uno di essi non
pregiudica comunque il diritto degli altri aventi diritto
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
TRIBUTI: Appartamento
da sopraelevazione.
Domanda
Si chiede se, nel caso, di appartamento risultante da
sopraelevazione, il comune poteva assoggettare a imposizione
Ici l'area su cui si sviluppava la cubatura, in relazione
alla quale era stata conseguita la concessione edilizia per
l'appartamento al primo piano dato che non vi è altra area
fabbricabile se non quella su cui insiste l'appartamento a
suo tempo realizzato al piano terreno.
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza
dell'08.05.2013, numero 10735, alla luce anche della
precedente sentenza della stessa Corte del 23.10.2006,
numero 22808, ha affermato che, ai fini dell'Imposta
comunale sugli immobili (Ici), la nozione di fabbricato, di
cui all'articolo 2, del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, rispetto all'area su cui esso insiste, è
unitaria nel senso che, una volta che l'area edificabile sia
comunque utilizzata, il valore della base imponibile, ai
fini dell'imposta, si trasferisce dall'area stessa
all'intera costruzione realizzata. Infatti, per i giudici,
la norma, per l'applicazione dell'imposta comunale sugli
immobili, sul fabbricato di nuova costruzione, individua due
soli criteri alternativi: la data di ultimazione dei lavori,
ovvero, se antecedente, quella di utilizzazione, senza alcun
riferimento alla divisione del fabbricato, in piani o
porzioni.
Pertanto, secondo la Suprema corte, richiamata la sua
precedente sentenza del 15.12.2004, numero 23347, per
la determinazione della base imponibile di un appartamento
in costruzione al primo piano dell'edificio, non trova
applicazione la normativa portata dall'articolo 5, comma 6,
del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, che
disciplina l'utilizzazione edificatoria dell'area,
individuando come base imponibile il valore dell'area
stessa, ma l'articolo 2, comma 1, lettera a), che, per
l'assoggettabilità a imposta del fabbricato di nuova
costruzione individua due criteri alternativi. Il primo
criterio è la data di ultimazione dei lavori di costruzione,
l'altro, se antecedente, quello di utilizzazione.
Ora, nel caso, di appartamento risultante da
sopraelevazione, non essendosi, per Giudici, realizzato
alcuno dei due presupposti, il comune non avrebbe dovuto
assoggettare a imposizione Ici l'area su cui si sviluppava
la cubatura, in relazione alla quale era stata conseguita la
concessione edilizia per l'appartamento al primo piano, non
essendovi altra area fabbricabile che quella su cui
insisteva l'appartamento a suo tempo realizzato al piano
terreno
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Variazione
della rendita catastale.
Domanda
Per i provvedimenti di variazione della rendita catastale di
unità immobiliare, emessi dall'Ufficio del territorio, su
richiesta del Comune, ai sensi dell'articolo 3, comma 58,
della legge 23.12.1996, numero 662, sussiste un
rigoroso obbligo di motivazione?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con l'ordinanza
del 03.02.2014, numero 2357, ha affermato, anche alla
luce di quanto deciso dalla stessa Corte con la sentenza
numero 9629, del 13.06.2012 e a modifica di precedente
orientamento della stessa Corte di cassazione, che,
l'Agenzia delle entrate, Ufficio del territorio, quando
procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classamento a
una unità immobiliare a destinazione ordinaria, deve
specificare se tale mutato classamento sia dovuto a
trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in
questione oppure a una risistemazione dei parametri relativi
alla microzona, in cui si colloca l'unità immobiliare.
Nel primo caso, l'Agenzia delle entrate deve indicare le
trasformazioni edilizie intervenute. Nel secondo caso, il
predetto Ufficio deve indicare l'atto con cui si è
provveduto alla revisione dei parametri relativi alla
microzona, a seguito di significativi e concreti
miglioramenti del contesto urbano, rendendo così possibile
la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del
contribuente.
La Suprema corte, quindi, con la citata sentenza ha
riconfermato il proprio recente indirizzo circa la idonea
motivazione degli atti impugnati; motivazione non
integrabile dall'Ufficio, convenuto in giudizio, nel corso
del giudizio medesimo. Per i giudici, pertanto, non è più da
condividere la tesi, secondo la quale gli atti dell'Ufficio,
impugnati, debbano avere soltanto il requisito della
provocatio ad apponendum, necessaria per far
conoscere al contribuente gli elementi essenziali della
pretesa impositiva
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
TRIBUTI: Chi
paga Imu e Tasi.
Domanda
Vorrei sapere chi è tenuto al pagamento dell'Imu e della
Tasi in presenza della seguente fattispecie: firma di un
preliminare di vendita con immissione anticipata del
promissario acquirente nel possesso dell'immobile.
Risposta
Il pagamento dell'Imu sarà a totale carico del proprietario,
promittente venditore, dell'immobile. Per quel che concerne
la Tasi invece, la stessa sarà in parte a carico del
proprietario dell'immobile (promittente venditore) e in
parte dell'occupante lo stesso (promittente acquirente),
secondo le percentuali al riguardo fissate dall'apposita
delibera del Comune competente
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Incompatibilità limitate.
Niente analogia per le norme sull'ineleggibilità.
I divieti previsti per i dipendenti comunali non si
applicano alle unioni.
Sussiste una causa d'incompatibilità di cui al combinato
disposto degli artt. 60, comma 1, n. 7) e 63, comma 1, n.
7), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nei
confronti del dipendente di un comune che sia anche
amministratore di un altro comune, entrambi facenti parte di
un'unione, e che abbia altresì la gestione di un servizio
associato?
Il legislatore ha delineato l'istituto dell'unione di
comuni, disciplinandolo nei suoi elementi essenziali e
inderogabili, e demandando all' autonomia statutaria e
regolamentare dell'unione medesima la disciplina dei propri
organi e della propria organizzazione.
In particolare, l'art. 32, comma 3, del decreto legislativo
n. 267 del 2000, come da ultimo modificato dall'art.1, comma
105, della legge 07.04.2014, n. 56, stabilisce che «gli
organi dell'unione, presidente, giunta e consiglio, sono
formati da amministratori in carica dei comuni associati
(omissis). Il presidente è scelto tra i sindaci dei comuni
associati e la giunta tra i componenti dell'esecutivo dei
comuni associati. Il consiglio è composto da un numero di
consiglieri definito nello statuto, eletti dai singoli
consigli dei comuni associati tra i propri componenti,
garantendo la rappresentanza delle minoranze ed assicurando
la rappresentanza di ogni comune».
Tale previsione normativa
persegue l'intento di consolidare l'appartenenza dell'ente
associativo ai comuni che lo compongono, attraverso
l'identità dei soggetti amministratori.
Il successivo comma 4 stabilisce che «l'unione ha potestà
statutaria e regolamentare e ad essa si applicano, in quanto
compatibili e non derogati con le disposizioni della legge
recante disposizioni sulle città metropolitane, sulle
province, sulle unioni e fusioni di comuni, i principi
previsti per l'ordinamento dei comuni, con particolare
riguardo allo stato degli amministratori (omissis)».
In base a tale ultimo richiamo, le norme di cui al
menzionato art. 63, in quanto compatibili e non derogate nei
termini sopra indicati, devono ritenersi applicabili anche
in materia di unioni di comuni.
Alla luce della citata normativa, si potrebbe delineare la
fattispecie dell'incompatibilità nell'eventualità in cui un
medesimo soggetto sia dipendente dell'unione di comuni e,
nel contempo, componente degli organi di governo della
stessa.
Il caso che qui ci occupa riguarda, invece, un dipendente
comunale che andrebbe a gestire un servizio associato
nell'ambito di un'unione di comuni, di cui fa parte l'ente
presso il quale presta servizio, e che contemporaneamente
riveste la qualità di amministratore in un altro ente, pure
facente parte della predetta unione.
Sul punto, costituisce ius receptum il principio in virtù
del quale le cause d'ineleggibilità e d'incompatibilità,
sostanziandosi in una limitazione al diritto di elettorato
passivo, costituzionalmente garantito, sono di stretta
interpretazione e applicazione (ex multis, Corte
costituzionale, sentenza 20.02.1997, n. 44; Corte di
cassazione, sezione I civile, sentenza 22.12.2011, n.
28504; Id., sentenza 11.03.2005, n. 5449).
L'ipotesi prevista dall'art. 63, comma 1, n. 7), del decreto
legislativo n. 267 del 2000 si riferisce esclusivamente ai
dipendenti del comune e della provincia per i rispettivi
consigli; va escluso, pertanto, nel caso di specie, il
delinearsi di una causa d'incompatibilità nei confronti
dell'amministratore di un ente locale, che sia dipendente di
un altro ente, entrambi facenti parte di un'unione di
comuni, e che assuma la gestione di un servizio associato.
Il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 ha, peraltro,
dettato una specifica disciplina in materia di inconferibilità di incarichi, anche dirigenziali, presso
pubbliche amministrazioni, della quale gli enti interessati
dovranno eventualmente tenere conto, ove ne ricorrano in
concreto i presupposti
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2014). |
APPALTI:
Cessione di ramo d'azienda relativo a servizi cimiteriali.
Atteso che il codice dei contratti ha
coordinato e chiarito il rapporto tra le fattispecie di
'cessione del contratto' e di 'cessione di ramo d'azienda',
riaffermando il divieto di cessione del contratto ex art.
118, comma 1 e facendo al contempo espressamente salva la
disciplina sulle modificazioni soggettive
dell'appaltatore-esecutore del contratto ex art. 116, la
cessione del ramo d'azienda non pare configurare una
violazione della clausola del capitolato speciale d'appalto,
relativa alla previsione del divieto di cessione e
subcessione del contratto.
Il Comune, che ha in essere un contratto per i servizi
cimiteriali con una società la quale ha di recente operato
una cessione di ramo d'azienda relativamente a tali servizi,
chiede di conoscere se detta cessione costituisca violazione
della clausola contrattuale del capitolato speciale
d'appalto che vieta espressamente la cessione e la
sub-cessione del contratto.
Esaminato il quadro normativo di riferimento, si formulano
le seguenti considerazioni.
La cessione di ramo di azienda, così come l'azienda è
definita dall'art. 2555 del codice civile, comporta il
trasferimento del 'complesso dei beni organizzati
dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa'. La
cessione del contratto, invece, riguarda il solo mutamento
del soggetto esecutore dello stesso.
Il divieto di cessione del contratto è previsto
dall'articolo 118, comma 1 del codice dei contratti, ai
sensi del quale: '1. I soggetti affidatari dei contratti
di cui al presente codice sono tenuti ad eseguire in proprio
le opere o i lavori, i servizi, le forniture compresi nel
contratto. Il contratto non può essere ceduto, a pena di
nullità, salvo quanto previsto nell'articolo 116.'.
[1]
La disciplina del mutamento dell'esecutore del contratto,
determinata dalla cessione del ramo di azienda da parte
dell'aggiudicatario, è contenuta, invece, nell'articolo 116
del d.lgs. 163/2006. In particolare, ai fini dell'odierno
quesito, rilevano i commi 1 e 2 e 3 del citato articolo 116,
i quali prevedono che '1. Le cessioni di azienda e gli
atti di trasformazione, fusione e scissione relativi ai
soggetti esecutori di contratti pubblici non hanno
singolarmente effetto nei confronti di ciascuna stazione
appaltante fino a che il cessionario, ovvero il soggetto
risultante dall'avvenuta trasformazione, fusione o
scissione, non abbia proceduto nei confronti di essa alle
comunicazioni previste dall'articolo 1 del decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 11.05.1991, n. 187, e
non abbia documentato il possesso dei requisiti di
qualificazione previsti dal presente codice.
2. Nei sessanta giorni successivi la stazione appaltante può
opporsi al subentro del nuovo soggetto nella titolarità del
contratto, con effetti risolutivi sulla situazione in
essere, laddove, in relazione alle comunicazioni di cui al
comma 1, non risultino sussistere i requisiti di cui
all'articolo 10-sexies della legge 31 maggio 1965, n. 575, e
successive modificazioni.
3. Ferme restando le ulteriori previsioni legislative
vigenti in tema di prevenzione della delinquenza di tipo
mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di
pericolosità sociale, decorsi i sessanta giorni di cui al
comma 2 senza che sia intervenuta opposizione, gli atti di
cui al comma 1 producono, nei confronti delle stazioni
appaltanti, tutti gli effetti loro attribuiti dalla legge.'.
Come osservato dall'Autorità di Vigilanza sui contratti
pubblici [2],
'L'articolo 116 citato, quindi, non esclude mutamenti
soggettivi in fase di esecuzione del contratto, ma prevede
un'ipotesi di inefficacia relativa, perché subordina
l'efficacia della cessione nei confronti
dell'amministrazione all'adempimento di obblighi informativi
e all'assolvimento di oneri probatori per comprovare il
possesso dei requisiti. La possibilità di subentro nel
contratto da parte del cessionario di un ramo d'azienda è,
dunque, normativamente subordinata al positivo accertamento
del possesso dei requisiti di ordine generale e speciale, al
fine di garantire la stazione appaltante circa la
permanenza, in caso di modificazione soggettiva
dell'esecutore del contratto, dei requisiti accertati in
capo al soggetto affidatario del contratto.'.
Con le disposizioni di cui agli articoli 118, comma 1 e 116,
il codice dei contratti ha definitivamente operato un
coordinamento e chiarito il rapporto tra le due fattispecie
'cessione del contratto' e 'cessione di ramo
d'azienda' riaffermando per un verso il divieto di
cessione del contratto ex art. 118, comma 1 e facendo al
contempo espressamente salva la disciplina sulle
modificazioni soggettive dell'appaltatore-esecutore del
contratto ex art. 116 del codice stesso.
Per quanto in premessa, la cessione di ramo d'azienda in
commento non pare configurare una violazione della clausola
del capitolato speciale d'appalto, relativamente al divieto
di cessione e sub-cessione del contratto ivi previsto.
---------------
[1] Per un approfondimento si veda il parere AVCP
AG35-08, 06.11.2008, Oggetto: cessione di ramo di azienda ex
art. 116 D.Lgs. n. 163/2006 relativo al servizio di pulizia,
consultabile al sito internet: http://www.avcp.it .
[2] Così AVCP, parere 24.10.2012 (AG 20/12) (30.09.2014
-
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI FORNITURE:
Limitazioni di spesa per acquisto arredi.
Il testo vigente dell'art. 1, comma 141,
della l. 24.12.2012, n. 228, nel limitare la spesa per
l'acquisto di mobili e arredi da parte delle amministrazioni
pubbliche al 20 per cento della spesa sostenuta in media
negli anni 2010 e 2011, consente una deroga, qualora
l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese
connesse alla conduzione degli immobili previa verifica che
i risparmi realizzabili con l'acquisto degli arredi siano
maggiori rispetto alla minor spesa che deriverebbe
dall'applicazione del citato limite.
Compete, quindi, a ciascuna amministrazione verificare,
nell'ambito della propria autonomia, la presenza delle
condizioni per l'applicazione della deroga descritta,
tenendo conto che la violazione della norma in commento è
valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e
disciplinare.
Il Comune formula una serie di quesiti in ordine alla
possibilità di arredare i locali di un edificio in procinto
di essere ristrutturato, per essere utilizzato come centro
civico polifunzionale, atteso che nell'ambito della
progettazione non risulta contemplato l'arredamento delle
sale.
In particolare chiede di conoscere:
- se trovano applicazione le previsioni di cui all'articolo
1, comma 141 della l. 228/2012 e s.m.i., che, per gli anni
2013 e 2014, limitano la spesa per l'acquisto di mobili e
arredi ad un importo non superiore al 20% di quella media
sostenuta per il medesimo fine negli anni 2010 e 2011;
- se sia possibile 'impiegare, per l'acquisto degli
arredi in argomento, il probabile ribasso d'asta, da
applicare con una perizia di variante';
- se vi siano altre soluzioni praticabili;
- se, operando il divieto normativo per gli anni 2013 e
2014, nel corso dell'anno 2015 sia possibile procedere
liberamente ai necessari acquisti.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni di
carattere generale.
La restrizione delle spese in argomento è stata introdotta
dall'art. 1, comma 141, della l. 24 dicembre 2012, n. 228,
successivamente modificato dall'art. 18, comma 8-sexies, del
d. l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla
l. 09.08.2013, n. 98. La norma, nella sua attuale versione,
prescrive: 'Ferme restando le misure di contenimento
della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli
anni 2013 e 2014, le amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
come individuate dall'Istituto nazionale di statistica
(ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della l.
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le
autorità indipendenti e la Commissione nazionale per le
società e la borsa (CONSOB) non possono effettuare spese di
ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in
media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e
arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi
all'infanzia, salvo che l'acquisto sia funzionale alla
riduzione delle spese connesse alla conduzione degli
immobili. In tal caso il collegio dei revisori dei conti o
l'ufficio centrale di bilancio verifica preventivamente i
risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla
minore spesa derivante dall'attuazione del presente comma.
La violazione della presente disposizione è valutabile ai
fini della responsabilità amministrativa e disciplinare dei
dirigenti'.
La norma in discorso consente di derogare al limite in
questione qualora 'l'acquisto sia funzionale alla
riduzione delle spese connesse alla conduzione degli
immobili', prevedendo, all'uopo, la verifica preventiva
che i risparmi realizzabili con l'acquisto degli arredi
siano effettivamente maggiori rispetto alla minor spesa che
deriverebbe dall'applicazione del divieto di acquisto
disposto in via generale dallo stesso comma 141.
Si osserva che la Corte dei conti, Sezione Regionale di
Controllo per la Toscana, con riferimento ad analoga
questione ha stabilito (Del. n. 277/2013/PAR) che: 'Resta
da chiarire il punto del quesito inerente la possibilità di
derogare al limite di cui al citato art. 1, comma 141, in
relazione all'acquisto di arredi che si configuri quale
intervento funzionale e indispensabile all'utilizzo di opere
pubbliche ultimate, ma non ancora arredate.
La norma in discorso consente di derogare al limite in
questione qualora 'l'acquisto sia funzionale alla riduzione
delle spese connesse alla conduzione degli immobili',
prevedendo, all'uopo, la verifica preventiva che i risparmi
realizzabili con l'acquisto degli arredi siano
effettivamente maggiori rispetto alla minor spesa
[1]
che deriverebbe dall'applicazione del divieto di acquisto
disposto in via generale dallo stesso comma 141.
Ritiene il collegio che spetti all'ente richiedente di
verificare, nell'ambito della propria autonomia, la presenza
delle condizioni per l'applicazione alla fattispecie della
deroga appena descritta, tenendo conto, a tal fine, che la
violazione della norma di cui si discute è valutabile ai
fini della responsabilità amministrativa e disciplinare.'.
Tali affermazioni sembrano portare a ritenere che il termine
'conduzione', utilizzato dalla norma in commento, si
riferisca alle diverse spese cui l'Ente andrebbe incontro
per l'effettivo utilizzo dell'immobile da arredare
[2]. In
questi termini, atteso che per l'effettivo utilizzo
dell'immobile sembra necessario dotare i relativi locali
(sala riunioni, la sala feste e le stanze destinate alle
associazioni locali, sale per corsi ecc.) di idoneo mobilio,
l'Ente potrà effettuare l'acquisto in deroga degli arredi in
commento solo previa valutazione e quantificazione dei
risparmi di spesa che potrebbero o meno derivare dalla
scelta di acquistare i beni mobili (seppur eccedendo il
limite del 20% indicato dalla norma) rispetto ad esempio a
quella alternativa di noleggiare i medesimi per il periodo
di vigenza del vincolo di finanza.
Si tenga tuttavia presente che, da quanto si evince dalla
parafrasi della norma operata dalla Corte dei conti, pare
potersi ritenere che l'effettivo risparmio derivante
dall'acquisto in deroga debba essere superiore a quello
derivante dall'applicazione della norma (quantificato
nell'80% della spesa media sostenuta negli anni 2010 e
2011).
A parere di chi scrive, inoltre, il periodo di riferimento
per la valutazione del risparmio dovrebbe essere quello
indicato dalla norma per ciascuno degli anni 2013 e 2014.
Infatti, scopo della norma è quello di conseguire i risparmi
di spesa indicati nell'arco temporale da essa considerato.
Sembra, pertanto, che nel caso in commento l'effettivo
risparmio da conseguirsi, in caso di acquisto in deroga,
debba essere superiore all'importo corrispondente all'80%
della spesa media sostenuta nel biennio 2010-2011.
[3]
Con riferimento alla possibilità di un eventuale ribasso
d'asta da effettuarsi con perizia di variante,
nell'osservare che le varianti progettuali sono consentite
soltanto nei casi previsti alle lettere a), b), c), d) ed e)
del comma 1 dell'articolo 132 del Codice dei contratti di
cui al d.lgs. 163/2006, cui il caso in questione non pare
poter essere ricondotto [4],
resta fermo che il comma 141 prevede espressamente le
deroghe alle limitazioni finanziarie ivi previste, nei
contenuti sopra rappresentati, non suscettibili di
interpretazione estensiva.
Infine, circa la possibilità a partire dall'anno 2015 di
effettuare o meno gli acquisti in commento senza
restrizioni, essa dipenderà, ovviamente, dall'intervento di
eventuali disposizioni legislative che stabiliscano anche
per tale annualità limitazioni di spesa per l'acquisto di
arredi.
---------------
[1] Dalla lettura del Dossier DV0028-I della Camera dei
Deputati sulla l. 228/2012, paragrafo rubricato 'ARTICOLO 1,
comma da 141 a 145 Acquisto di mobili, arredi ed
autovetture' si evince che il termine 'minor spesa' viene
utilizzato nel senso di 'risparmio' per ciascuno degli anni
2013 e 2014.
[2] Un tanto è confermato dall'Ufficio Studi CODAU
(www.codau.it/ufficio_studi/commenti.php) nel Commento
sintetico del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (decreto del
fare), in cui esaminando l'articolo 18 di tale decreto, con
riferimento all'art. 1, comma 141, della legge di stabilità
2013 afferma che: «Inoltre è possibile derogare al limite
imposto dalla disposizione alla presenza di acquisti
finalizzati alla valorizzazione del patrimonio a condizione
che gli immobili siano entrati nella disponibilità
dell'Ateneo prima dell'entrata in vigore della legge di
stabilità per l'anno 2013 e che a seguito della verifica
degli organi di controllo i risparmi siano superiori alla
minore spesa derivante dall'attuazione del comma 141. In
questo caso, infatti, può essere applicata l'eccezione
prevista con il termine 'conduzione' dove per conduzione si
intende non la conduzione nell'ambito della locazione degli
immobili ma come sinonimo di 'utilizzo'.»
[3] Per esemplificare: se la spesa media nel biennio 2010-11
è stata 1.000, il comma 141 prescrive un risparmio annuo di
800. Qualora si proceda ad un acquisto in deroga, funzionale
alla riduzione delle spese di utilizzo dell'immobile, il
risparmio (risultante dalla differenza tra le spese che si
sosterrebbero senza procedere all'acquisto e quelle che si
sosterrebbero procedendo all'acquisto) deve risultare
maggiore di 800 per ciascuno degli anni.
[4] Per un approfondimento, si veda l'articolo 'Codice dei
contratti: perizie di variante e ribassi d'asta' di Paolo
Oreto, consultabile sulla rivista on-line 'Lavori
Pubblici.it' (19.09.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Gruppi consiliari. - Quesito.
Con nota in data…., inviata anche a codesta Prefettura, il
consigliere di minoranza del comune di …., ha posto un
quesito in materia di costituzione di gruppi consiliari.
In particolare, ha rappresentato che dal proprio gruppo,
formato da tre componenti, si è distaccato un consigliere
comunale il quale, accettando la nomina ad assessore ha
dichiarato di voler formare un gruppo autonomo.
Ciò, in contrasto con la previsione dell’art. 11, comma 1,
dello statuto comunale il quale prevede che i gruppi debbano
essere composti da almeno tre consiglieri.
Al riguardo, si evidenzia che l’esistenza dei gruppi
consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si
desume implicitamente da quelle disposizioni normative che
contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai
capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3 – art. 39,
comma 4 e art. 125 del d.lgs. n. 267/2000). La materia,
pertanto, è regolata dalle apposite norme statutarie e
regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell’ambito
dell’autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta
espressamente agli stessi dall’art. 38 citato.
I mutamenti che possono sopravvenire all’interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza,
comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari
ovvero l’adesione a diversi gruppi esistenti, sono
ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali,
nell’ambito della propria potestà di organizzazione, i
titolari della competenza a dettare norme, statutarie e
regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, atteso che non si è reso possibile
accedere al contenuto del regolamento in ordine alla
disciplina di dettaglio dei predetti gruppi, si rileva che
la norma statutaria, oltre a fissare il numero minimo di tre
componenti, dispone, altresì, che i gruppi consiliari “devono
essere espressione politica della lista di partecipazione
alle elezioni del Consiglio”. Oltre al vincolo numerico
sussisterebbe, dunque, l’obbligo di cristallizzare i gruppi
all’esito elettorale, senza alcuna possibilità di variazione
successiva all’insediamento del Consiglio.
Tale disposizione statutaria qualora venga interpretata
anche nel senso di vietare i movimenti all’interno dei
singoli gruppi costituiti, sembrerebbe violare il principio
fondamentale, confermato dalla giurisprudenza (cfr. TAR
Lazio, sentenza n. 649 del 21.07.2004) secondo il quale “non
è configurabile alcun obbligo giuridico che vincoli l’eletto
al proprio partito ovvero ai propri elettori che non
permetta, nel corso della consiliatura, l’abbandono della
coalizione d’origine ed il contemporaneo transito in altra
coalizione”.
Va da sé che gli eventuali mutamenti, oltre ad incidere sul
numero dei gruppi, ovvero sulla consistenza numerica degli
stessi, influiscono sulla composizione delle commissioni
consiliari, modificando i rapporti tra le forze politiche
presenti in consiglio.
Fatta salva la verifica dell’effettivo contenuto delle
disposizioni regolamentari, i vincoli statutari non
consentirebbero le modificazioni evidenziate, sicché appare
opportuna da parte dell’Ente, la modifica delle stesse
disposizioni dello statuto, ai sensi dell’articolo 6 del
decreto legislativo n. 267/2000 ed, eventualmente, delle
norme regolamentari, sia per eliminare il possibile divieto
di mobilità tra gruppi che per il necessario adeguamento
alle successive prescrizioni di legge che hanno variato la
composizione dei consigli comunali, in quanto la norma
statutaria (art. 11) appare “rapportata ad una diversa
composizione numerica del Consiglio comunale”.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione
all’ente interessato (12.08.2014 - link a http://incomune.interno.it). |
NEWS |
TRIBUTI:
Tasi, base imponibile ristretta. Sono escluse dal prelievo
le aree scoperte e i terreni.
I criteri per la corretta determinazione della nuova imposta
sui servizi indivisibili.
Base imponibile Tasi meno ampia rispetto alle previsioni
iniziali contenute nella legge di Stabilità (147/2013) che
l'ha istituita. Nel corso del 2014 sono state escluse dal
prelievo le aree scoperte, che non rientrano più nel campo
di applicazione del tributo. La nuova imposta sui servizi
comunali indivisibili, infatti, si paga solo sui fabbricati,
comprese le abitazioni principali, e le aree edificabili.
Esclusi espressamente dall'imposizione anche i terreni. La
base imponibile è la stessa dell'Imu.
Per la sua
determinazione occorre fare riferimento alla disciplina Ici.
Del resto l'articolo 13 del dl Monti (201/2011), istitutivo
dell'Imu sperimentale, dispone che la base imponibile è
costituita dal valore dell'immobile calcolato ai sensi
dell'articolo 5, commi 1, 3, 5 e 6 del decreto legislativo
504/1992. Mentre il valore dei fabbricati si determina
facendo riferimento alla rendita catastale, per le aree
edificabili il parametro da utilizzare è il valore di
mercato.
I fabbricati. Il metodo di calcolo della base imponibile è
uguale a quello già stabilito per l'Ici, ma si differenzia
per l'applicazione alla rendita catastale, rivalutata del
5%, di coefficienti di moltiplicazione ben più gravosi,
aumentati mediamente del 60%, con conseguente notevole
incremento dell'imposizione. Per i fabbricati iscritti in
catasto, il valore è calcolato sulla base delle rendite
catastali, vigenti al 1° gennaio dell'anno di imposizione,
moltiplicate per coefficienti individuati dalla legge per
ogni singola categoria catastale.
In particolare la rendita catastale rivalutata va
moltiplicata per:
a. 160 nel caso di fabbricati classificati nel gruppo
catastale A e nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, con
la sola esclusione della categoria catastale A/10;
b. 140 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale B
e nelle categorie catastali C/3, C/4 e C/5;
c. 80 per i fabbricati classificati nella categoria
catastale D/5;
d. 80 per i fabbricati classificati nella categoria
catastale A/10;
e. 60 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale D,
a eccezione dei fabbricati classificati nella categoria
catastale D/5, relativamente all'anno di imposta 2012,
mentre a partire dall'01/01/2013, il moltiplicatore verrà
elevato a 65;
f. 55 per i fabbricati classificati nella categoria
catastale C/1.
C'è già stato un generale incremento dell'imposizione dell'Imu
rispetto all'Ici, i cui effetti si estendono alla Tasi, che
vede penalizzate in misura maggiore le case di abitazione e
le relative pertinenze, le botteghe e i negozi, laboratori
per arti e mestieri. L'aumento dei moltiplicatori relativi
agli immobili abitativi, Cat. A, ha subito, infatti, un
incremento del 60% (da 50 a 80 per gli immobili classificati
come A/10, da 100 a 160 per i restanti immobili della
categoria A). Nel caso delle pertinenze, il moltiplicatore è
aumentato del 40% (da 100 a 140). Uguale aumento percentuale
hanno subito i laboratori per arti e mestieri (Cat. C/3), i
fabbricati e locali sportivi (Cat. C/4) gli stabilimenti
balneari (Cat. C/5) il cui coefficiente passa da 100 a 140.
L'aumento per i negozi, Cat. C/1 è invece pari al 61,76%,
considerato che il moltiplicatore viene portato da 34 a 55.
Meno incisivo, invece, è stato l'aumento sui fabbricati a
destinazione speciale (categoria D) che hanno visto un
minore aumento del moltiplicatore, che è passato da 50 a 60
nell'anno 2012 e a 65 a partire dal 2013, con l'eccezione
solo degli immobili adibiti per l'esercizio delle funzioni
di credito, cambio ed assicurazione per i quali l'aumento
incide per il 60% (da 50 a 80).
Diverso è il metodo di calcolo della base imponibile nelle
ipotesi di demolizione di fabbricato o di interventi di
recupero a norma dell'articolo 31, comma 1, lettere c), d)
ed e), della legge 05.08.1978, n. 457, così come per
l'ipotesi di utilizzo edificatorio del terreno. In questi
casi la base imponibile è costituita, ai sensi dell'art. 5,
comma 6, dlgs 504/1992, dal solo valore dell'area, sino a
quando sono ultimati i lavori di costruzione o ricostruzione
dell'edificio o comunque fino al momento del suo effettivo
utilizzo.
In presenza dell'edificazione di un fabbricato la
base imponibile è data dal valore dell'area (non viene
computato il valore del fabbricato in corso d'opera), dalla
data di inizio dei lavori di costruzione fino a quella di
ultimazione dei lavori, oppure fino al momento in cui il
fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è
antecedente a quello di ultimazione. Se il fabbricato non è
ultimato o effettivamente utilizzato manca il presupposto
per pagare la Tasi sul fabbricato, che è dovuta sul valore
dell'area.
Le aree edificabili. Sono soggette all'imposta sui servizi
indivisibili, dunque, anche le aree edificabili. Nulla è
cambiato per l'imposizione delle aree edificabili con la
disciplina Imu rispetto all'Ici. Le stesse regole valgono
per la Tasi. Il legislatore, infatti, ha richiamato
espressamente le disposizioni contenute negli articoli 2 e 5
del decreto legislativo 504/1992. Sia per quanto riguarda la
qualificazione dell'oggetto d'imposta sia per la
determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla
normativa Ici. Il valore dell'area si determina prendendo a
base il valore di mercato.
Per definire gli aspetti controversi della nozione di area
edificabile, il legislatore è intervenuto due volte con
norme di interpretazione autentica. L'Imu e la Tasi sono
dovute se l'area è inserita in un Piano regolatore generale
adottato dal consiglio comunale, ma non approvato dalla
Regione. L'articolo 36, comma 2 del decreto-legge legge
223/2006 (manovra Bersani) ha chiarito che un'area è da
considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo
edificatorio in base allo strumento urbanistico generale
deliberato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione
della Regione e dall'adozione di strumenti attuativi. La
qualificazione vale non solo per l'Ici, ma anche per l'Imu,
la Tasi, le imposte erariali, dirette e indirette.
E questa
è una norma di interpretazione autentica con effetti
retroattivi (si veda Corte di cassazione, sentenza 25506 del
30.11.2006 e Ctr Lazio, sentenza 238 del 03.10.2006). L'articolo 36 ha interpretato la norma che
disciplinava l'Ici (articolo 2 del decreto legislativo
504/1992), che a sua volta viene richiamata per l'Imu per
quanto concerne la definizione e qualificazione giuridica di
area edificabile. In effetti, che non fosse necessario un
piano di lottizzazione per il pagamento dell'Ici era già
stato disposto dall'articolo 11-quaterdecies, comma 16 del
collegato alla Finanziaria 2006 (legge 248/2005).
Non a
caso, nella circolare 28/2006 l'Agenzia delle entrate ha
precisato che con la norma del decreto Bersani (articolo 36)
è stato esteso alle imposte sui redditi, all'Iva e al
registro, il concetto di area edificabile contenuto
nell'articolo 11-quaterdecies, il cui ambito applicativo era
riservato alla sola imposta comunale sugli immobili.
Pertanto, un'area è soggetta all'imposta sui servizi
indivisibili quando è inserita nel piano regolatore
generale, anche se non approvato. Inoltre, il tributo è
dovuto anche se la potenzialità edificatoria è solo
parziale.
---------------
Zone edificabili, conta il valore di mercato.
Per la Tasi il valore di un'area edificabile deve essere
determinato in base ai criteri fissati dall'articolo 5 del
decreto legislativo 504/1992. Quindi, occorre stabilire il
valore venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio
dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di
mercato.
La norma prevede che occorra fare riferimento a: zona
territoriale di ubicazione dell'area, indice di
edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per
eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la
costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato
di aree aventi le stesse caratteristiche. I valori possono
essere deliberati anche dalla giunta comunale, sulla base di
una perizia redatta dall'ufficio tecnico.
Anche per la nuova imposta sui servizi indivisibili, come
per l'Imu, i comuni sono tenuti a fornire informazioni ai
contribuenti sulle variazioni urbanistiche e i cambi di
destinazione dei terreni in aree edificabili.
Nel caso in cui non venga inviata la comunicazione, non
devono essere irrogate al titolare dell'area né sanzioni né
interessi moratori sul tributo dovuto. Dunque, la regola
imposta dall'articolo 31, comma 20, della legge 289/2002
(Finanziaria 2003) vale sia per l'Imu che per la Tasi.
Questa norma prevede che debba essere informato il
contribuente delle variazioni apportate agli strumenti
urbanistici. Quando i comuni attribuiscono a un terreno la
natura di area fabbricabile sono obbligati a darne
comunicazione al contribuente, a mezzo posta, con modalità
idonee a garantire l'effettiva conoscenza
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, è già conto alla rovescia.
Esteso il bacino di soggetti obbligati a tenere i registri.
Tra 90 giorni scattano il nuovo sistema di tracciabilità e
quello tradizionale rinnovato.
Scattano tra 90 giorni, ossia il 01.01.2015, sia la
piena operatività del nuovo sistema di tracciamento
telematico dei rifiuti (meglio noto come «Sistri»), sia
l'applicazione della riformulata disciplina sul (residuale)
regime di tracciamento tradizionale costituito dagli storici
registri di carico/scarico e formulario di trasporto.
Con la
fine del 2014, infatti, entra in vigore il regime
sanzionatorio per la violazione degli obblighi Sistri
previsto dal «Codice Ambientale» e acquistano efficacia le
parallele nuove norme sulla tenuta delle scritture
ambientali previste dallo stesso dlgs 152/2006 per i
soggetti non operanti nel sistema telematico (ma con il
quale avranno comunque punti di contatto).
Il regime ordinario Sistri. Lo spirare dell'anno in corso
comporterà, in base al dl 101/2013 (l'ultimo provvedimento
in materia di termini di operatività del Sistri), la fine
dell'attuale regime transitorio a c.d. «doppio binario» che
prevede la sospensione dell'applicazione delle sanzioni per
le violazioni Sistri fino al 31.12.2014 imponendo però
ai soggetti obbligati al tracciamento telematico (partito
nel 2013) di continuare a osservare (sotto minaccia, in
questo caso, delle relative pene) anche le tradizionali
regole costituite da registri di carico/scarico, formulario
di trasporto, dichiarazione ambientale «Mud».
L'entrata a
pieno regime del Sistri interesserà, oltre ai soggetti che
utilizzano volontariamente il sistema, la vasta platea di
quelli obbligati per legge, ossia: enti/imprese produttori
iniziali di rifiuti speciali pericolosi (a eccezione, purché
non stocchino i propri rifiuti, delle aziende agricole
conferenti rifiuti a sistema di raccolta e le piccole
strutture individuate dal dm 24.04.2014); enti/imprese
di raccolta/trasporto a titolo professionale, di
trattamento, recupero, smaltimento, commercio,
intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi
produttori di rifiuti pericolosi; operatori del trasporto
intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi;
comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione
Campania.
Uno strascico del citato regime transitorio si
protrarrà tuttavia anche nel prossimo anno, poiché (come
ricordato anche dal Minambiente con circolare 31.10.2013) entro il 30.04.2015 i soggetti operanti in Sistri
dovranno comunque effettuare la (ultima) comunicazione «Mud»
in relazione ai rifiuti prodotti e gestiti nel corso del
2014 e non già in tal modo dichiarati tramite il «modello
unico di dichiarazione» ambientale presentato lo scorso 30
aprile.
Le sanzioni Sistri. Articolato e greve (seppur mitigato da
meccanismi calmieranti) il regime sanzionatorio previsto
dall'articolo 260-bis del «Codice ambientale» in vigore dal
prossimo 01.01.2015, sistema che punisce a titolo
amministrativo la violazione degli obblighi di iscrizione e
comunicazione dati imposti dal dlgs 152/2006 e a titolo
penale gli altri. In particolare, saranno perseguiti con
sanzioni amministrative pecuniarie (fino a 93 mila euro
unitamente, in alcuni casi, a provvedimenti interdittivi):
la mancata iscrizione al Sistri entro i termini; l'omesso
pagamento del contributo annuale; la mancata o scorretta
compilazione delle schede Sistri; l'inadempimento degli
«ulteriori» obblighi Sistri (compresi, evidentemente, quelli
sanciti dal dm 52/2011, il c.d. «Testo unico sistri» che
regola il funzionamento del sistema in attuazione del dlgs
152/2006).
Sono invece colpiti da sanzioni penali (con
reclusione fino a due anni): la predisposizione e l'utilizzo
di falsi certificati di analisi dei rifiuti; il trasporto
senza copia cartacea della relativa scheda Sistri e, quando
richiesto, dal certificato di analisi dei rifiuti (con
conseguente confisca dei veicoli utilizzati). A mitigare,
come accennato, le pesanti sanzioni due istituti previsti
dallo stesso articolo 260-bis: il «cumulo giuridico», che in
caso di più violazioni prevede l'applicazione della sola
sanzione più grave aumentata fino al triplo; il
«ravvedimento operoso», che rende indenne dalle (sole)
sanzioni amministrative chi entro 30 giorni dalla
commissione dell'illecito vi pone riparo adempiendo agli
obblighi sottesi e lo ammette al pagamento di delle sanzioni
(con esclusione di quelle accessorie) se definisce la
controversia entro 60 giorni dalla contestazione.
Una volta
in vigore, è bene sottolinearlo, il citato regime
sanzionatorio colpirà tutte le violazioni alla disciplina
Sistri in essere dal 01.01.2015 in poi, dunque anche i
persistenti omessi pagamenti dei contributi annuali di
iscrizione dovuti (salvo deroghe di legge) negli anni
pregressi. Ancora, gli illeciti penali ex articolo 260-bis
del «Codice ambientale» assumeranno rilevanza anche ai sensi
della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle
imprese prevista dal dlgs 231/2001.
Le novità sul tracciamento tradizionale. Con il nuovo anno,
come accennato, diventeranno operative anche le riformulate
disposizioni su registri di carico/scarico e formulario di
trasporto dei rifiuti introdotte nel «Codice ambientale» dal dlgs 205/2010 (e successive modifiche), disposizioni che
rimodulano il sistema di tracciamento tradizionale,
allargandone i confini e sincronizzandolo con il Sistri.
Filosofia della nuova disciplina sarà la sostanziale
sottoposizione alle storiche scritture ambientali di tutti i
produttori e gestori professionali di rifiuti che non
operano, per assenza di obbligo e di adesione volontaria, al
Sistri (si veda la tabella in pagina). In base al nuovo
articolo 190 del dlgs 152/2006 resteranno, infatti, fuori
dall'obbligo di tenuta dei registri di carico e scarico
unicamente: attività di raccolta e trasporto di propri
rifiuti speciali non pericolosi effettuate da enti e imprese
produttori iniziali; enti e imprese produttori iniziali di
speciali non pericolosi derivanti da attività agricole,
commerciali, di servizio, sanitarie; limitatamente ai non
pericolosi, i «centri di raccolta» di rifiuti urbani.
Stretta anche sulle tempistiche per la compilazione
iniziale, che verrà ridotta (da 10) a due giorni dalle
operazioni per intermediari e commercianti. Esordirà,
infine, un regime semplificato per i produttori di rifiuti
pericolosi non inquadrati in enti o imprese e per quelli
coincidenti con imprese agricole ex articolo 2135 del codice
civile, che assolveranno gli obblighi dei registri con la
tenuta delle schede Sistri rilasciate dai trasportatori dei
rifiuti.
Analoga filosofia di controllo sarà quella sottesa
al formulario di trasporto dei rifiuti, che a mente del
nuovo articolo 193 del dlgs 152/2006 dovrà essere tenuto da
tutti gli enti e imprese che raccolgono e trasportano
rifiuti non aderenti al Sistri
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
VARI: Mutui, lo Stato si fa garante.
Finanziamenti fino a 250 mila euro per l'acquisto.
In G.U. il decreto che regola il Fondo di garanzia per la
prima casa. Ecco come funziona.
Il mercato dei mutui per l'acquisto della casa mostra
segnali di ripresa (+30% di erogazioni nei primi sette mesi
del 2014 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno) e
un'ulteriore spinta potrebbe arrivare anche dallo Stato.
È
stato, infatti, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto
che regola il Fondo di garanzia per i finanziamenti fino a
250 mila euro destinati all'acquisto e alla ristrutturazione
della prima casa.
Vediamo come funziona e quali sono le condizioni.
Come funziona. Il Fondo di garanzia per la prima casa è
stato introdotto dalla legge di Stabilità per il 2014
(lettera c, comma 48, articolo 1, legge 147/2013) e sarà
attivato a breve. Il
decreto 31.07.2014 che lo istituisce è stato
infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 226 del 29.09.2014; per renderlo effettivamente operativo manca
ora solo il protocollo d'intesa tra il ministero
dell'economia e l'Associazione bancaria italiana che
disciplinerà l'accesso degli istituti di credito alle
garanzie e darà avvio alla concessione dei mutui.
Il Fondo
potrà contare su uno stanziamento complessivo di 600 milioni
di euro per il triennio 2014/2016 e potrà concedere garanzie
da parte dello Stato nella misura massima del 50% della
quota capitale sui mutui ipotecari per l'acquisto, la
ristrutturazione e il miglioramento dell'efficienza
energetica degli immobili destinati a prima casa.
Le condizioni di accesso. Per poter accedere occorre
rispettare alcune condizioni. In primis, l'importo dei mutui
ipotecari non può superare i 250 mila euro. L'abitazione da
acquistare o riqualificare non deve inoltre appartenere alle
categorie catastali A1 (abitazioni di tipo signorile), A8
(abitazioni in ville) e A9 (castelli, palazzi di eminenti
pregi artistici o storici) né presentare caratteristiche
riconducibili agli immobili di lusso.
Il decreto stabilisce
inoltre che alcune categorie hanno priorità di accesso al
fondo. Tra queste, le giovani coppie, i nuclei familiari con
un solo genitore con figli minori e i giovani con età
inferiore a 35 anni inquadrati con un contratto di lavoro
atipico. Alla data di presentazione della domanda è
necessario poi che il mutuatario non sia proprietario di
altri immobili a uso abitativo (a eccezione di quelli
acquisiti per successione o in uso a titolo gratuito a
genitori o fratelli).
La gestione del Fondo sarà affidata a Consap, concessionaria servizi assicurativi pubblici
controllata al 100% dal ministero dell'economia e delle
finanze, che procederà a esaminare le domande, istruire le
pratiche ed erogare le somme dovute in caso di esito
positivo.
Cosa avviene in caso di inadempimento. Nel caso di accesso
al fondo e di inadempimento da parte del mutuatario,
trascorsi 90 giorni dalla scadenza della prima rata (rimasta
anche parzialmente insoluta), il soggetto finanziatore
informa il gestore. Entro dodici mesi dalla comunicazione,
invia al mutuatario l'intimazione al pagamento. Se
quest'ultimo non salda il debito entro sei mesi, il soggetto
finanziatore può chiedere al gestore l'intervento della
garanzia del Fondo. A quel punto il mutuatario avrà
l'obbligo di restituire le somme pagate dal Fondo e gli
interessi maturati a decorrere dal giorno del pagamento fino
alla data del rimborso.
Un fondo in aiuto di chi perde il lavoro. A fianco del Fondo
di garanzia operano inoltre altri strumenti che offrono
tutela ai mutuatari. Uno di questi è il Fondo di solidarietà
per la sospensione del pagamento (fino a 18 mesi)
dell'intera rata del mutuo per l'acquisto dell'abitazione
principale. La possibilità è riservata a chi si trova a
vivere situazioni di temporanea difficoltà.
In particolare, la sospensione può essere chiesta in caso di
morte o riconoscimento di handicap grave dell'intestatario
del mutuo ovvero di invalidità civile non inferiore all'80%;
cessazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo
determinato o indeterminato (a eccezione delle ipotesi di
risoluzione consensuale, di risoluzione per limiti di età
con diritto a pensione di vecchiaia o di anzianità, di
licenziamento per giusta causa o giustificato motivo
soggettivo, di dimissioni del lavoratore non per giusta
causa). Cause di impedimento valide anche nel caso in cui si
chieda di sospendere le rate per la cessazione di rapporti
di lavoro parasubordinato e di rappresentanza commerciale o
di agenzia
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Dal consulente al valutatore, le opportunità del mattone.
Il mercato immobiliare, con l'intervento anche delle Casse,
apre nuovi spazi ai professionisti.
Il mercato immobiliare continua a regalare opportunità di
lavoro, anche in tempo di crisi. Certo, non si tratta di
costruire nuovi immobili, ma di valorizzare quelli
esistenti, pubblici o privati che siano, di riqualificarli
al meglio e poi metterli sul mercato. Oppure di venderli
rispettando determinati standard riconosciuti anche
dall'Europa.
Dunque il mattone continua a pagare, seppure in
modo differente rispetto al passato. Ecco, quindi, che si
può entrare a far parte di un elenco di consulenti esperti
per valutare e valorizzare il patrimonio immobiliare di
piccoli e grandi comuni e, in generale, delle
amministrazioni pubbliche. Oppure si può prendere la
qualifica o la certificazione di valutatore immobiliari. E
garantire così i finanziamenti delle banche o anche le
operazioni più complesse.
Diventare consulenti per la pubblica amministrazione.
Collaborare con le pubbliche amministrazioni per censire e
valorizzare i loro immobili d'ora in poi si può.
Un'opportunità concreta per utilizzare i fabbricati
scarsamente valorizzati che, con la buona volontà delle
pubbliche amministrazioni, porta nuovo lavoro ai
professionisti e alle imprese del settore immobiliare. A
scendere in campo in aiuto dei professionisti la Cassa dei
geometri e quella dei periti industriali che con il sostegno
dei rispettivi consigli nazionali hanno affiancato
l'iniziativa messa in atto dalla Fondazione patrimonio
comune.
Come fare in concreto.
Per diventare consulenti è necessario
abilitarsi alla piattaforma Vol, Valorizzazione online. Si
tratta di una procedura online sviluppata dalla Cassa
depositi e prestiti a seguito di convenzioni con
l'Associazione dei comuni italiani (Anci), con la
partecipazione di Cassa e Fondazione geometri e con l'Ente
di previdenza dei periti industriali (Eppi) come soci
sostenitori della Fondazione patrimonio comune costituita da
Anci. Dopo essersi abilitati alla procedura Vol. (tramite il
sito ww.abitantionline.it) e aver seguito un corso di
formazione e-learning ad hoc (gratuito per chi è in regola
con i contributi previdenziali) si entrerà a far parte di un
elenco dei consulenti della p.a.
I comuni e le altre
pubbliche amministrazioni quindi avranno a disposizione un
elenco, su base provinciale, di tutti i professionisti
iscritti all'albo e alle due casse che avranno completato la
formazione e si sono accreditati come consulenti esperti, al
quale potranno accedere per affidare le prestazioni che non
saranno in grado di eseguire direttamente con le proprie
strutture.
La formazione.
Prima di diventare consulenti è necessario
seguire uno specifico corso. Per i geometri la formazione
riguarda, in particolare, la normativa di riferimento, la
standardizzazione delle procedure per l'espletamento degli
incarichi, l'utilizzo dell'applicativo e la costruzione del
dossier del fabbricato. Per i periti industriali, invece, il
corso sarà dedicato in particolare alla verifica della parte
impiantistica. Il tutto realizzato tramite supporti
audiovisivi e un corso di e-learning con test di
apprendimento finale.
Quanti sono i beni su cui lavorare.
Le opportunità di lavoro
sono legate ai soli beni di proprietà dei comuni. Da un
rilevamento campionario effettuato dal ministero
dell'economia del 2013 al quale ha risposto circa il 60%
delle amministrazioni comunali, il patrimonio pubblico
complessivo è pari a oltre 1 milione di unità immobiliari,
di cui circa il 70% di proprietà dei comuni. Nel dettaglio
si tratta di 750 mila unità immobiliari su cui si può
lavorare.
Poi c'è tutta la fetta di beni di proprietà
statale in trasferimento ai comuni, circa 5 mila beni che
rientrano nel sistema del federalismo demaniale che permette
ai comuni, province e regioni (escluse quelle a statuto
speciale) di richiedere all'Agenzia del demanio i beni
immobili di proprietà dello stato presenti sul proprio
territorio, con il solo scopo di valorizzarli attribuendogli
nuove destinazioni. Il supporto per tutto il processo di
valorizzazione e di gestione attiva del patrimonio viene
garantito da Fpc attraverso la costituzione di un gruppo di
lavoro. Mentre ai professionisti residenti nella provincia
dei comuni coinvolti è offerta questa nuova possibilità.
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Perizie immobiliari più rigorose.
Valutatori immobiliari in cerca di una certificazione. Senza
un registro nazionale né uno specifico percorso formativo,
per gli esperti di estimo diventa importante acquisire un
attestato che riconosca professionalità ed esperienza. Così
come detta l'Europa.
Il punto è che attualmente sulla carta
non ci sono barriere per intraprendere la professione di
valutatore. E a fare questo lavoro attualmente ci sono gli
iscritti agli albi professionali: geometri in testa, periti
edili, ingegneri, architetti e agronomi. Ma anche le
categorie economico-giuridiche (commercialisti, avvocati) o
gli operatori del real estate (agenti immobiliari,
promotori, investitori). Lo stesso caos vale per la
formazione: gli organismi che propongono corsi per
valutatori sono molti e vari, si passa dalle università,
alle camere di commercio, dagli ordini professionali al
mondo bancario.
Le diverse certificazioni. Ma qualcosa per distinguersi in
Italia già c'è. Si tratta di una certificazione accreditata
(ISO17024) specifica per il valutatore immobiliare e che si
colloca in linea con altri paesi europei. L'unica società in
Italia che ha introdotto questo tipo di certificazione è la Crif certification services (Ccs) e attualmente i
professionisti certificati sulla base di questa norma sono
257. C'è chi poi si è mosso per un bollino di qualità.
E in
questo caso c'è il percorso della Royal institution of
chartered surveyors (Rics) e quello della Recognised
european valuer (Rev), designazione rilasciata dal Tegova in
base a standard comunitari e valida in tutti i Paesi Ue. Con
queste qualifiche si contano rispettivamente 400 163
professionisti. Ma l'Europa obbliga il valutatore
immobiliare italiano a voltar pagina. Sarà un soggetto
qualificato e valuterà gli immobili secondo standard
internazionali.
La direttiva europea per le valutazioni immobiliari.
All'inizio del 2014 il Consiglio ha adottato una nuova
direttiva sul credito ipotecario che sarà applicata a tutti
i prestiti concessi ai consumatori ai fini dell'acquisto di
una casa di abitazione e a tutti i prestiti concessi ai
consumatori garantiti da ipoteca o da altra garanzia simile
in tutta l'Unione europea.
L'obiettivo generale è di
garantire che i mercati ipotecari operino in maniera
responsabile, aumentando la tutela dei consumatori e
contribuendo alla stabilità finanziaria. In questo senso è,
tra l'altro, imposto agli stati membri di provvedere
affinché siano elaborati standard per la valutazione dei
beni immobili residenziali affidabili per la concessione del
credito.
Il sistema bancario. L'Italia è avanti per le valutazioni
immobiliari fatte per il sistema bancario. Lo standard di
riferimento, in questo caso, sono le «Linee guida per la
valutazione degli immobili in garanzia delle esposizioni
creditizie» volute dall'Abi, l'Associazione bancaria
italiana, elaborate con Tecnoborsa e con i consigli degli
ordini delle categorie tecniche (agrotecnici, dottori
agronomi e dottori forestali, geometri, ingegneri, periti
agrari, periti industriali).
Queste riprendono gli standard
internazionali sviluppati dall'International valuation
standard council e si sono affermate nel mercato delle
valutazioni immobiliari con l'adesione di 172 banche o
gruppi bancari (rappresentative in termini di sportelli di
circa il 73% del settore bancario), gli ordini e collegi
rappresentativi dei professionisti abilitati alla
valutazione, da numerose società di valutazione (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Per le terre da scavo oneri ridotti.
Procedura di smaltimento proporzionata alla grandezza del
cantiere.
Decreto sblocca Italia. In attesa del riordino difficoltà
legate alla successione di normative diverse.
Oneri proporzionati alle
dimensioni del cantiere: questo è l'obiettivo della ennesima
riforma della normativa sulle terre e rocce da scavo,
delineata nel decreto sblocca Italia (Dl 133/2014)
L'argomento è fonte di incertezza permanente tra gli
operatori in edilizia, anche per via delle modifiche
normative succedetesi negli ultimi anni.
Gli ultimi interventi
Dopo che la materia era stata temporaneamente regolamentata
dall'articolo 186 del Dlgs n. 152/2006, il ministero
dell'Ambiente, con il Dm 161/2012, ha introdotto specifiche
procedure di gestione delle terre e rocce da scavo volte a
garantire una maggior tutela ambientale.
Ma il nuovo regolamento ha sollevato una levata di scudi da
parte degli operatori a causa degli eccessivi oneri
economici e procedurali che derivavano dai nuovi
adempimenti. Le forti critiche hanno oscurato anche i
contenuti positivi del Dm che forniva indicazioni sulla
gestione dei riporti e permetteva anche il deposito
temporaneo dei terreni in attesa di riutilizzo.
Le problematiche maggiori riguardavano l'applicazione della
nuova disciplina ai piccoli cantieri, i quali -in effetti-
sarebbero stati negativamente condizionati dai nuovi oneri
procedurali.
Con il "decreto emergenze" (Dl 43/2013), dunque, il
legislatore è intervenuto per far chiarezza, precisando che
il Dm 161 non deve trovare applicazione nei piccoli
cantieri, ma solo per le opere soggette ad Aia
(autorizzazione integrata ambientale) o Via (valutazione di
impatto ambientale).
Il correttivo, tuttavia, non è risultato tra i più felici
poiché, da un lato, anche interventi sottoposti ad Aia o Via
potevano prevedere scavi di piccole dimensioni, e
dall'altro, si creava un vuoto normativo per i "grandi"
cantieri non soggetti ad Aia o Via, rispetto ai quali si è
ipotizzata una resurrezione del vecchio articolo 186.
Un nuovo correttivo, dunque, è stato inserito nel decreto
"del Fare," (Dl 69/2013) il cui articolo 41-bis ha
confermato l'applicazione del Dm 161 solo agli interventi
sottoposti a Aia e Via, prevedendo invece per tutti gli
altri una autodichiarazione del privato, che è tenuto ad
attestare la sussistenza dei requisiti per il riutilizzo dei
terreni scavati come sottoprodotti.
La materia, poi, risulta ulteriormente complicata dalla
specifica regolamentazione dei riporti che possono essere
equiparati al suolo naturale e, quindi, rientrare nel campo
di applicazione delle terre e rocce da scavo.
L'equiparazione, però, non è scontata e lo stesso decreto
"del Fare" (articolo 41) ha definito le condizioni che i
riporti devono soddisfare per non essere considerati rifiuti
o fonti di contaminazione.
I problemi interpretativi e applicativi hanno spinto il
Governo Renzi a programmare un riordino della materia in
ottica di semplificazione. L'articolo 8 del Dl sbocca
Italia, dunque, prevede che entro 90 giorni dalla
conversione in legge (prevista entro inizio novembre) sia
emanato uno specifico regolamento (sotto forma di decreto
del Presidente della repubblica) che coordini, sia
formalmente che sostanzialmente, le diverse disposizioni
vigenti in materia e apporti anche le modifiche necessarie a
rendere coerente il sistema di gestione delle terre e rocce
da scavo.
Questo Dpr dovrà quindi indicare espressamente le norme
abrogate e garantire proporzionalità tra le procedure da
seguire e l'entità degli interventi da realizzare. Inoltre,
dovrà vietare che vengano introdotti livelli di
regolamentazione superiori a quelli minimi previsti dalla
normativa comunitaria e in particolare a quella sulla
gestione dei rifiuti.
La fissazione di questi obiettivi e principi indirettamente
conferma il caos legislativo che si è creato negli ultimi
due anni e che sta complicando non poco la realizzazione di
opere pubbliche e private.
Gli scavi
Sempre il decreto sblocca Italia all'articolo 34 (commi 8 e
seguenti) introduce nuove disposizioni sui terreni
movimentati che cercano di coordinare le attività di scavo
con la procedura di bonifica sia rispetto alla fase di
caratterizzazione, sia in caso di messa in sicurezza.
Le nuove disposizioni prevedono anche una novità rilevante,
ossia la possibilità di riutilizzare in sito terreni
potenzialmente contaminati (con superamenti delle
concentrazioni soglia di contaminazione) previo accertamento
del rispetto delle soglie di rischio (approvate dalle
autorità competenti) e valutato l'impatto sulla falda
acquifera.
Ovviamente, anche queste previsioni dovranno essere
considerate nel Dpr destinato a riordinare la materia (articolo Il Sole 24 Ore
del 06.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifica urgente con iter negoziato.
Appalti. Non occorre sempre la gara.
Dopo la procedura di
bonifica semplificata introdotta dal Dl 91/2014 (si veda il
Sole 24 Ore del 15 settembre scorso), anche il decreto
sblocca Italia introduce ulteriori previsioni volte a
favorire il recupero dei siti contaminati.
L'articolo 34 del Dl 133/2014, in particolare, cerca di
semplificare gli interventi di bonifica da parte della
pubblica amministrazione (o comunque connessi alla
realizzazione di opere pubbliche) prevedendo semplificazioni
e deroghe alle procedure di affidamento degli appalti
pubblici.
Una semplificazione sicuramente rilevante -da confermare
però in sede di conversione in legge- è la possibilità di
affidare i lavori di bonifica e messa in sicurezza urgenti
attraverso la procedura negoziata senza preventiva
pubblicazione di un bando.
In questo caso, però, non è chiaro se l'urgenza debba
dipendere dal pericolo ambientale o possa anche essere
ricollegata all'urgenza dell'intervento principale di cui la
bonifica rappresenta un presupposto.
Sicuramente di portata più generale è l'estensione
dell'ambito di applicazione dell'articolo 70 del Dlgs
163/2006 (Codice dei contratti pubblici) alle procedure di
affidamento di lavori di bonifica o messa in sicurezza in
generale, con conseguente abbreviazione dei termini di
ricezione delle offerte.
In senso restrittivo, invece, è l'intervento modificativo
della disciplina sull'avvalimento. Quest'ultimo istituto,
infatti, viene espressamente escluso rispetto al requisito
di iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali,
quindi solo le società iscritte all'albo e in possesso dei
requisiti economico-finanziari potranno partecipare alle
gare di bonifica.
Infine, una ulteriore modifica di rilievo è quella
introdotta all'articolo 132 del Dlgs 163/06 secondo cui la
disciplina delle varianti in corso d'opera si applica anche
agli interventi di bonifica. Tuttavia, in questo caso
risulta difficile inquadrare il concetto di variante in
corso d'opera, atteso che ogni modifica al progetto di
bonifica deve essere espressamente approvata dalla
conferenza di servizi.
Per rendere efficace questa previsione, occorrerebbe
modificare il Dlgs 152/2006 introducendo una previsione
specifica che disciplini le varianti in corso d'opera ai
progetti di bonifica o messa in sicurezza.
Le ulteriori novità previste dal Dl sblocca Italia rispetto
alle bonifiche sono sempre contenute nell'articolo 34 e
hanno ad oggetto il coordinamento degli interventi di
bonifica o messa in sicurezza con l'eventuale esecuzione di
attività edilizie.
La norma, in particolare, consente espressamente di attuare
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria su
impianti e infrastrutture o rispetto ad opere lineari
interessate su siti potenzialmente contaminati a condizione
che gli interventi non pregiudichino la futura bonifica e
non creino rischi per la salute dei lavoratori e fruitori.
Invero, questa previsione, inserendo un elenco espresso di
interventi edilizi ammessi, esclude indirettamente ogni
altro diverso intervento edilizio su aree potenzialmente
contaminate, anche se propedeutico alla stessa bonifica (es.
demolizioni). È, dunque, auspicabile una rivisitazione della
norma in fase di conversione, in quanto l'attuale previsione
potrebbe creare non pochi problemi operativi e, soprattutto,
blocchi di cantieri (articolo Il Sole 24 Ore
del 06.10.2014). |
ENTI LOCALI: Comuni montani, pronto l'elenco.
In arrivo il decreto che riporta l'Imu su molti terreni oggi
esenti.
Bilanci. La nuova lista, più corta dell'attuale, deve
produrre un gettito di 350 milioni già a dicembre.
Arriverà nei prossimi
giorni il decreto dell'Economia con il nuovo elenco (più
snello) dei Comuni considerati «montani e collinari» in cui
continua ad applicarsi l'esenzione Imu per i terreni. Il
provvedimento, elaborato dopo aver raccolto i dati sui
terreni a proprietà collettiva che rimangono esenti, è
pronto per la firma del ministro, e permetterà di capire in
quali Comuni i proprietari dei terreni saranno chiamati a
pagare l'Imu 2014 entro il 16 dicembre.
Il decreto sui Comuni montani colloca un tassello importante
nel puzzle della finanza locale 2014, ma arriva a bilanci
ormai chiusi dopo la scadenza del termine al 30 settembre.
Un provvedimento con il rinvio al 30 novembre era pronto per
il Consiglio dei ministri di mercoledì scorso, ma non è
arrivato al traguardo e ora si discute della possibilità di
riaprire un termine scaduto (come già avvenuto fa con gli
obblighi di gestione associata, per esempio). Il problema
non è da poco: le esperienze recenti dicono che
probabilmente anche questo nuovo meccanismo di tagli al
fondo di riequilibrio da compensare con i soldi raccolti dai
contribuenti farà zoppicare i conti in molti Comuni, a causa
di stime diverse da quelle ministeriali, tanto più che a due
mesi dalla scadenza del saldo bisognerà chiamare alla cassa
i proprietari di terreni che finora sono sempre stati esenti
sia dall'Ici sia dall'Imu.
Questa incognita vale 350 milioni, e si aggiunge alle tante
che costellano in questa fase i conti di molti Comuni.
L'ultima in ordine di tempo è rappresentata dal taglio di
172 milioni prodotta dalla verifica del gettito da
fabbricati D, comunicata dall'Economia l'11 settembre e
decurtata ai singoli comuni dal ministero dell'Interno il 16
settembre, nonostante l'opposizione dell'Anci.
Un'altra partita non del tutto definita è quella aperta dal
comma 711 della legge 147/2013, che riconosce ai Comuni di
un contributo di 110,7 milioni a compensazione del minor
gettito Imu conseguente alla riduzione del moltiplicatore
dei terreni agricoli dei coltivatori, passato da 110 a 75, e
all'esenzione dei fabbricati rurali. Gli importi spettanti
ai Comuni sono stati concordati nella Conferenza Stato-città
ed autonomie locali dell'11 settembre e sul sito del
Viminale è pubblicato l'elenco, anche se manca la
formalizzazione con decreto ministeriale (che avrebbe dovuto
essere emanato in realtà entro il 31 gennaio).
Nella stessa condizione si trova la questione sollevata
dall'articolo 1, comma 6, del Dl 133/2013, dove si prevede il
riparto di 348,5 milioni di euro a compensazione del minor
gettito Imu sull'abitazione principale, anche in base ai
gettiti effettivi da mini-Imu (in questo caso la scadenza
del decreto era fissata al 28 febbraio).
L'articolo 2-bis, comma 2 del Dl 102/2013 prevede invece il
riparto di 18,5 milioni per i Comuni che nel saldo Imu 2013
hanno assimilato all'abitazione principale quella data in
comodato. C'è stato l'accordo in Conferenza unificata il 5
agosto, ma l'elenco dei Comuni beneficiari non è stato
pubblicizzato e manca il decreto che avrebbe dovuto essere
emanato entro il 14.12.2013.
A bocce ferme, l'unica possibilità per i Comuni per rivedere
i propri conti è data dall'assestamento di bilancio,
possibile fino al 30 novembre, ma al di là dei problemi
contabili a ostacolare molti è l'assenza delle risorse
necessarie a coprire i buchi prodotti da stime errate o
altri inciampi. Lo stesso accade alle Province, che dal
decreto attendevano l'ammorbidimento della spending da 100
milioni sulla scorta delle indicazioni maturate in
conferenza Unificata (articolo Il Sole 24 Ore
del 06.10.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale, limiti ad hoc per gli enti sperimentatori.
Ragioneria generale. Si considerano il 2011 (due volte) e il
2013.
Ora che gli enti locali
soggetti a Patto di stabilità hanno trovato un parametro di
riferimento, ai fini della riduzione delle spese di
personale, iniziano i primi dubbi operativi. Il Dl 90/2014
ha infatti previsto che, per applicare l'obbligo di
riduzione in valore assoluto delle spese di personale
previsto dal comma 557 della legge 296/2006 si debba fare
riferimento al «valore medio del triennio precedente alla
data di entrata in vigore della presente disposizione».
Con
nota
16.09.2014 n. 73024 di prot., la Ragioneria Generale
dello Stato ha confermato che si tratta degli anni 2011,
2012 e 2013.
Fino al 2013, in virtù di quanto stabilito dalla Corte dei
conti Sezione Autonomie, con la deliberazione n. 3/2010, la
base per la riduzione delle spese era il consolidato
dell'anno precedente. Un limite, quindi, dinamico destinato
a mutare di anno dopo anno, creando non pochi problemi agli
enti locali, sempre alle prese con la necessità di ridurre
(ma non troppo) la spesa di personale. Basti pensare a tutta
la vicenda correlata ai cosiddetti effetti prenotativi.
Finalmente, con il Dl 90/2014, viene fornito un tetto entro
il quale, dal 2014, le spese vanno "contenute" (termine
previsto dal legislatore) e non ridotte. In termini pratici,
stabilita la media del triennio 2011/2013, l'ente potrà
anche scendere anno dopo anno, non precludendosi, però, la
possibilità di risalire fino a questo limite.
Poiché il comma 557-quater, si applica solo a decorrere dal
2014, il legislatore fa salvo quanto operato in passato,
spiegando però alle amministrazioni come procedere da ora in
poi. Rimangono, quindi, confermate le voci di spesa da
includere e da escludere, anche se ci si chiede se, questa,
non sia l'occasione per «ripartire da zero». In altre
parole, il dubbio riguarda se sia necessario prendere i dati
del triennio 2011/2013, dai questionari già inviati alla
Corte dei conti, relativi ai rispettivi bilanci, oppure se
sia più corretto ripartire dagli impegni dei tre anni in
esame e ricostruire la spesa. Questo, soprattutto in
un'ottica di revisione degli importi relativi ai rinnovi
contrattuali, per i quali non avrebbe senso fare confronti
con gli anni passati.
In attesa, quindi, di maggiori istruzioni operative
provenienti dalle sezioni regionali della Corte dei conti,
la Ragioneria Generale dello Stato, con la nota del 16
settembre scorso, risolve la questione del calcolo del
triennio per gli enti che, dall'anno 2012, hanno iniziato la
sperimentazione dell'armonizzazione contabile. I valori del
triennio, proprio perché "misti", non permetterebbero un
esaustivo e corretto calcolo della media.
Pertanto, secondo
la Rgs, gli impegni degli enti a sperimentazione contabile
del 2012, non costituiscono una base corretta per calcolare
il valore medio del triennio, ai fini della verifica del
contenimento della spesa di personale. Perciò, in tali enti,
invece che al triennio 2011, 2012, 2013, si dovrà fare
riferimento al triennio costituito dagli esercizi 2011, 2011
e 2013 (articolo Il Sole 24 Ore
del 06.10.2014). |
APPALTI: Expo, gare al massimo ribasso.
Stop alla discrezionalità nell'aggiudicazione degli appalti.
Il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, detta le linee
per l'acquisto di beni e servizi.
Massima riduzione della discrezionalità negli affidamenti di
Expo 2015; aggiudicazione con il massimo ribasso per appalti
di beni e servizi standardizzati; limitazione dei requisiti
troppo selettivi per l'accesso alle gare e congrua
motivazione per i fatturati aziendali; preferire le
procedure competitive anche per piccoli incarichi;
comunicazione tempestiva delle varianti e dei subappalti.
Sono queste le indicazioni per la corretta gestione delle
procedure d'appalto connesse all'Expo 2015 contenute nel
documento di proposte indirizzate al Commissario di Expo
2015 dall'Autorità nazionale anticorruzione - Unità
operativa speciale Expo 2015, presieduta da Raffaele
Cantone. Tutto ciò alla vigilia della visita di Matteo Renzi
che, oggi, a Milano firma un protocollo tra l'Autorità
nazionale anti corruzione (Anac) e l'Ocse in vista di Expo
2015.
Le indicazioni vengono formulate prevalentemente in termini
negativi (cosa va evitato) iniziando dagli atti di gara con
l'invito a non utilizzare il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa tutte le volte in cui si
debbano acquisire «beni e servizi standardizzati, o lavori
che non lasciano margini di discrezionalità all'impresa»;
via libera quindi al massimo ribasso, ovviamente molto meno
soggetto a valutazioni discrezionali e quindi più oggettivo.
Quando invece si utilizza il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa l'indicazione di Cantone è di
una stretta correlazione e congruità fra regole e punteggi
di valutazione, da un lato, e oggetto del contratto;
necessario quindi evitare graduazioni arbitrarie delle
regole valutative.
Da evitare l'assegnazione ai commissari
di gara di una eccessiva discrezionalità nell'attribuzione
dei punteggi e quindi i criteri dovranno consentire giudizi
«quanto più possibile, misurabili e verificabili in termini
oggettivi e non arbitrari». Per quel che attiene all'accesso
alla gara, andrà assicurata la più ampia partecipazione e
quindi si chiede di evitare di «prevedere requisiti di
ammissione di carattere economico-finanziario e/o
tecnico-professionale troppo stringenti». Non si esclude la
possibilità di chiedere fatturati aziendali ma devono essere
sempre motivati e conformi al principio di proporzionalità.
Si afferma anche il divieto di presentare in gara varianti
progettuali quando si aggiudica l'appalto con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa e l'attribuzione
di premi di accelerazione (che però se ritenuti necessari,
dovranno essere motivati da un «apprezzabile interesse» e
calcolati analogamente ai criteri usati per le penali). In
positivo, invece, si suggerisce di prevedere esatti tempi di
esecuzione nella fase di progettazione e penali in caso di
ritardi, anche in corso di esecuzione, se vi sia scostamento
con il cronoprogramma.
Per la nomina dei commissari di gara
l'indicazione è di scegliere, garantendo adeguata rotazione,
tra professori universitari e professionisti (iscritti
all'albo da almeno dieci anni all'albo) «con consolidata
esperienza nella specifica materia, previo esame dei
relativi curricula vitae e mediante estrazione a sorte dei
componenti tra un'ampia rosa di candidati (rapporto non
inferiore a 1 a 5)».
Sulle modalità di affidamento il documento invita a
preferire modalità di aggiudicazione competitive a evidenza
pubblica ovvero affidamenti mediante cottimo fiduciario, con
consultazione di almeno cinque operatori economici anche per
procedure di importo inferiore a 40.000 euro. In fase
esecutiva occorrerà comunicare «tempestivamente» le
richieste di subappalto e le eventuali varianti
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Impianti termici, verifica uniforme.
L'Enea detta le linee guida per i controlli.
Regole più uniformi su tutto il territorio nazionale per gli
accertamenti sugli impianti termici degli edifici.
Suggerimenti alle regioni per tempistiche e tariffe delle
ispezioni in vista dell'adeguamento dei libretti entro il 15
ottobre. Modulistica per le comunicazioni tra l'utente e
l'autorità competente circa la nomina o cessazione del terzo
responsabile.
Questo è quanto contenuto nelle
linee guida
per l'esecuzione degli accertamenti delle ispezioni sugli
impianti termici degli edifici redatte dall'Enea, agenzia
nazionale per le nuove tecnologie, l'energia, dallo sviluppo
economico sostenibile, dal ministero dello sviluppo
economico e dal Comitato termotecnico italiano (Cti) che
costituiranno un riferimento per le autorità competenti.
All'interno del documento sono stati inseriti anche
possibili modelli per le comunicazioni tra l'utente e
l'autorità competente circa la nomina o cessazione del terzo
responsabile, la nomina o la cessazione dell'amministratore
del condominio, la disattivazione dell'impianto, l'avvenuto
adeguamento alle prescrizioni e la sostituzione del
generatore di calore, e infine un promemoria circa gli
adempimenti spettanti al responsabile, al terzo
responsabile, al manutentore e al conduttore dell'impianto.
Per quanto riguarda le ispezioni il documento contiene due
modelli di rapporto di prova, generatori a fiamma e macchine
frigorifere, comprensivi delle istruzioni di compilazione.
Il documento inoltre suggerisce, alle regioni una possibile
struttura delle tariffe, sia per la trasmissione dei
rapporti di controllo di efficienza energetica che per le
ispezioni.
La legislazione italiana, in merito alle ispezioni degli
impianti termici riguardanti l'osservanza delle norme
relative al contenimento dei consumi di energia
nell'esercizio e manutenzione, ha subito nel tempo
cambiamenti importanti che, via-via, hanno snellito il
compito delle autorità competenti, diminuito l'onere a
carico dei cittadini e responsabilizzato di più gli
installatori e i manutentori
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un albero per ogni neonato. E a fine mandato arriva il
bilancio arboreo.
Dopo il bilancio per antonomasia (quello contabile), il
bilancio sociale, il bilancio di genere e quello di fine
mandato arriva pure il bilancio arboreo. Che accenderà i
riflettori su come l'amministrazione comunale uscente ha
gestito il verde pubblico con particolare riferimento
all'obbligo imposto da una legge del 1992 (finora poco
attuata dai sindaci) di piantare un albero per ogni neonato
registrato all'anagrafe.
Lo ha chiarito il
Ministero
dell'ambiente nella
deliberazione 22.09.2014 n. 2.
Secondo il dicastero guidato da Gianluca Galletti, l'ora X
per l'entrata in vigore della norma che impone ai sindaci,
due mesi prima della scadenza del mandato, di censire e
classificare il verde pubblico, indicando il rapporto fra il
numero degli alberi piantati all'inizio della legislatura e
quello lasciato in eredità alla cittadinanza, è entrato
pienamente in vigore il 16.02.2014. Ossia un anno dopo
la legge n. 10/2013 («Norme per lo sviluppo degli spazi
verdi urbani») che ha dato ai comuni 12 mesi di tempo per
avviare il sistema di rendicontazione «verde»,
circoscrivendo però l'ambito di applicazione dell'obbligo di
piantare un albero per ogni neonato ai comuni con più di 15
mila abitanti.
Il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico presso il
Minambiente ha precisato che il censimento e la
classificazione degli alberi piantumati (propedeutici al
bilancio arboreo) non sono condizionati «ad alcun
adempimento da parte di autorità terze». Quanto alle
modalità con cui il bilancio arboreo dovrà essere reso
pubblico, il ministero dell'ambiente ha chiarito che tale
documento «si indirizza all'intera comunità locale,
piuttosto che solamente agli amministratori», perché in caso
contrario «resterebbe frustrato l'obiettivo di elevare
questo tema a terreno di potenziale competizione fra le
diverse offerte politiche a confronto».
I comuni che non dispongono di aree idonee alla messa a
dimora delle piante potranno utilizzare, mediante
concessione, aree demaniali che però in futuro non potranno
essere destinate a funzione diversa da quella di verde
pubblico
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2014). |
APPALTI:
Trasparenza sugli appalti: Cantone e Ance alleati.
Legalità. Confronto tra i costruttori e il presidente dell'Anac.
Massima trasparenza nelle
gare con meno deroghe possibili alle procedure ordinarie.
Non hanno fatto fatica a trovare un terreno di incontro i
costruttori dell'Ance e il presidente dell'Anac, Raffaele
Cantone. La lotta alla corruzione negli appalti è stata al
centro del primo faccia a faccia ufficiale ieri a Roma. Un
incontro «molto cordiale e fattivo» l'ha definito il
presidente dell'Ance Paolo Buzzetti.
«Ci siamo confermati l'interesse comune a far si che gli
appalti si svolgano nella massima trasparenza e assicurando
la massima concorrenza -ha commentato al termine Buzzetti-. Troppo spesso, anche in questa fase di massima difficoltà
del mercato, accade che a vincere non sia l'impresa che
offre le migliori garanzie. Dobbiamo fare si che accada
sempre meno». Un incontro «molto proficuo» anche agli occhi
di Cantone. «Abbiamo toccato molti punti nevralgici del
settore. Su tanti ci siamo trovati d'accordo. Abbiamo
impostato una discussione, su cui ci ritroveremo in
seguito».
Tra gli argomenti al centro della discussione anche il
progetto di riforma del codice dei contratti pubblici,
innescato dall'obbligo di recepire le nuove direttive
europee entro aprile 2016, sulla base del disegno di legge
delega approvato dal governo il 29 agosto. Il Ddl dovrebbe a
breve varcare la soglia di Palazzo Madama per essere
discusso in Senato.
Tra i criteri su cui si basa la delega al governo, Buzzetti
segnala il richiamo a evitare le deroghe rispetto alle
procedure ordinarie. «Non possiamo prendercela comoda quando
si tratta di pianificare gli interventi e poi chiedere alle
imprese di correre con le gare dimezzando i termini e
facendo saltare i paletti ordinari». Esempi che tornano di
attualità anche ora, con la nuove scorciatoie rispetto ai
percorsi ordinari sugli appalti inserite nel decreto Sblocca
Italia per gli interventi sulle scuole, la difesa del suolo
e le bonifiche, dopo le deroghe previste in passato per
l'Expo (con la possibilità di disapplicare ben 80 articoli
sui 257 del codice appalti) e per gli interventi urgenti di
restauro di Pompei decise con il cosiddetto «decreto
Cultura» (Dl 83/2014).
Per Cantone, sulla necessità di ridurre il ricorso alle
deroghe «c'è una stretta vicinanza, direi di tipo culturale»
con i costruttori. Discorso simile per le procedure con cui
vengono assegnate le gare. Cantone -anche nelle linee guida
per la gestione delle gare dell'Expo appena inviate al
commissario Sala (si veda l'articolo a fianco)- non fa
mistero di guardare con una certa diffidenza all'uso
ricorrente dell'offerta economicamente più vantaggiosa, che
rispetto al massimo ribasso offre ampi margini di
valutazione discrezionale alle commissioni giudicatrici.
Non poteva mancare un accenno alle varianti, che gli uffici
dell'Anac sono chiamati a verificare una per una, quando il
valore del contratto supera i 5,2 milioni e la correzione al
progetto produce un aumento di costi superiore al 10 per
cento. «Non nego che le varianti sono spesso utili alla
buona riuscita dell'opera -dice il presidente dell'Autorità
anticorruzione-, ma l'eccesso produce distorsioni: dal mio
punto di vista vanno limitate al massimo».
Guardando alla riforma del codice un passaggio ha riguardato
anche il sistema di qualificazione delle imprese attive nei
lavori pubblici. Cantone, molto critico in passato con le
società private (Soa) che rilasciano i certificati ai
costruttori ora sembra voler aggiustare il tiro. «I
meccanismi di controllo sulle Soa vanno rafforzati il più
possibile -dice- ma non sono certo un nostalgico del
vecchio albo nazionale costruttori» (articolo Il Sole 24 Ore
del 03.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: ANTICORRUZIONE/ Regolamento Anac sulla mancata adozione.
Multa in contraddittorio.
Il procedimento deve chiudersi in 120 giorni.
La sanzione fino a 10.000 euro in caso di mancata adozione
dei piani di prevenzione della corruzione nelle pubbliche
amministrazioni potrà essere adottata a seguito di
procedimento in contraddittorio avviato dall'Anac, da
concludersi entro 120 giorni.
È quanto prevede il
regolamento emesso dall'Autorità nazionale anti corruzione
in materia di esercizio del potere sanzionatorio di propria
competenza per l'omessa adozione dei Piani triennali di
prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di
trasparenza, dei Codici dì comportamento.
È infatti
l'articolo 19, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n.
90, convertito nella legge 114/2014 che stabilisce, salvo
che il fatto costituisca reato, che l'Autorità Nazionale
Anticorruzione applichi una sanzione amministrativa di
importo compreso fra 1.000 e 10.000 euro, nel caso in cui
sia stata omessa l'adozione del Piano triennale di
prevenzione della corruzione, del Programma triennale per la
trasparenza e l'integrità o dei Codici di comportamento.
Il responsabile del procedimento dell'Anac avvia l'iter di
accertamento sulla base delle segnalazioni pervenute e
svolge una articolata istruttoria, che può anche comprendere
l'audizione dei soggetti interessati. Alla fine
dell'istruttoria si potranno avere tre esiti: archiviazione,
diffida ad adottare i provvedimenti omessi, entro un termine
breve, non superiore ai 60 giorni e infine irrogazione, per
ciascuno dei soggetti obbligati, di una sanzione pecuniaria
di cui si definisce la quantità, in relazione alle
responsabilità accertate nella omessa adozione del
provvedimento.
L'importo della sanzione pecuniaria (da 1.000
a 10.000 euro) è definito in rapporto a diversi profili:
gravità dell'infrazione; rilevanza degli adempimenti omessi,
anche in relazione alla dimensione organizzativa
dell'amministrazione e al grado di esposizione
dell'amministrazione, o di sue attività, al rischio di
corruzione; eventuale reiterazione di comportamenti analoghi
a quelli contestati; opera svolta dall'agente per
l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze
dell'infrazione contestata.
Il procedimento deve concludersi
entro il termine massimo di 120 giorni dalla data di
comunicazione del suo avvio
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti, contributi ampi.
Interrogazione.
I contributi erogati dalla stazione appaltante a titolo di
contributo per la realizzazione di opere per le quali è
prevista l'aliquota Iva agevolata del 10% scontano tale
aliquota indipendentemente dal momento in cui sono erogati.
È quindi irrilevante che le somme siano corrisposte durante
la fase della costruzione oppure successivamente.
In ogni
caso, l'aliquota agevolata non può applicarsi alle somme non
correlate alla realizzazione dell'opera, ad esempio per la
gestione del servizio.
Lo ha chiarito ieri,
01.10.2014,
il vice-ministro all'economia, Casero, rispondendo a un
question-time in commissione finanze della camera
all'INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE n. 5/03676 dell'On.
Laffranco.
L'interrogante rappresentava che la remunerazione del
concessionario per la realizzazione e gestione di un'opera
pubblica «fredda», ai sensi dell'art. 153, comma 19, del dlgs n. 163/2006, è normalmente composta da: contributo
dell'appaltante sul costo di costruzione; canone di
disponibilità residuale, da versare periodicamente
dall'appaltante; canone di servizio, da versare
periodicamente dall'appaltante; ricavo dello sfruttamento
dell'opera da parte del concessionario.
Premesso che sulle prime tre voci la stazione appaltante
deve corrispondere al concessionario anche l'Iva e che è
pertanto necessario quantificare le risorse necessarie
all'intervento, il quesito mirava a sapere se, in caso di
concessione di costruzione e gestione di un'opera pubblica,
per le somme corrisposte in conto investimento l'aliquota
Iva del 10% si renda applicabile a prescindere dal momento
di erogazione, cioè in fase di costruzione o dopo
l'ultimazione del collaudo. Nella risposta si evidenzia
anzitutto che la genericità del quesito non consente di
individuare con precisione la fattispecie e di rispondere
quindi in modo circostanziato.
Tuttavia, in relazione alla
specifica questione, viene precisato che, qualora l'opera
rientri fra quelle agevolate ai sensi della tabella A, parte III,
allegata al dpr 633/1972, l'aliquota Iva del 10% tornerà
applicabile alle somme erogate a titolo di partecipazione al
costo indipendentemente dal momento di erogazione
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Impianti «fuori norma», il rogito rimane valido.
Chiavi in mano/guida all'acquisto.
Per evitare contestazioni su vizi della casa, nel
preliminare e nel definitivo va scritto che le parti
conoscono lo stato di conformità.
Gli obblighi sulla
certificazione energetica degli edifici hanno guidato, in
questi ultimi anni, a una maggior attenzione verso il tema
della conformità degli impianti alle norme di sicurezza. «Un
corollario importante: acquirenti e venditori sono molto più
consapevoli e il discorso dell'impiantistica, prima più
spesso sottovalutato, viene ora tenuto in gran conto –spiega Piercarlo Mattea, del Consiglio Notarile di Milano–.
A differenza dell'Ace (l'Attestato di certificazione
energetica che individua la classe di appartenza
dell'immobile, dalla A alla G a seconda dei consumi, ndr) la
cui menzione è obbligatoria, non c'è legge che imponga di
dar atto di tale conformità nel contratto di compravendita.
D'altra parte lo stato degli impianti non influisce sulla
commerciabilità di un immobile. Ma per evitare future
contestazioni relative ai vizi della casa e alla
responsabilità di provvedere alla messa a norma, è opportuno
che sia nel preliminare di compravendita sia nel definitivo
venga esplicitato che le parti sono a conoscenza della
conformità o meno».
Ma di quale conformità parliamo? Gli impianti esistenti
(elettrici, termici, idrici, eccetera) dovrebbero essere
tutti a norma. I requisiti sono però variati nel tempo e di
conseguenza possono essere diverse le prescrizioni da
osservare. Il principio generale prevede che gli impianti
siano conformi alla normativa vigente all'epoca in cui sono
stati realizzati, rifatti o adeguati. Se precedenti al 13.03.1990 (entrata in vigore della legge 46/1990) devono
rispettare alcuni criteri minimi come il "salvavita" e la
"messa a terra" nel caso di impianti elettrici. Se
successivi a quella data, devono –anche dopo l'entrata in
vigore del Dm 37/2008 che ha sostituito la legge 46/1990–
essere adeguati alle norme Uni e Cei in vigore al momento
dei lavori.
«Per gli edifici di nuova costruzione si deve
tener presente che, se gli impianti non sono conformi alle
norme di sicurezza, non viene rilasciata l'agibilità e
l'edificio non può essere utilizzato. Le eventuali
certificazioni –prosegue Mattea– non devono comunque
essere allegate al rogito, ma consegnate (insieme
all'eventuale libretto di uso e manutenzione) alla parte
acquirente in occasione della stipula dell'atto di
compravendita».
La legge consente però che siano oggetto di compravendita
immobili con impianti non a norma o in ogni caso "non
garantiti conformi". La conformità non influisce infatti
sulla commerciabilità giuridica ma, così come il certificato
di agibilità, incide sulla parte economica. Un aspetto che,
unito allo necessità di far subito chiarezza sul soggetto
responsabile dei necessari adeguamenti, impone che lo "stato
di cose" risulti dal rogito o ancor prima dal compromesso.
Se gli impianti sono conformi, il venditore lo dichiara in
atto e presta la relativa garanzia: ogni responsabilità per
eventuali incidenti causati dall'impianto ricade
sull'impresa che ha eseguito i lavori di realizzazione o
adeguamento e che deve essere dotata di copertura
assicurativa. «Quando invece gli impianti non sono conformi
–spiega il notaio Mattea– bisogna verificare la volontà
delle parti. L'acquirente può chiedere la messa a norma e
quindi il rinvio della stipula del definitivo al momento in
cui saranno completati i lavori di adeguamento. O può
accettare un immobile con impianto non in regola, perché ad
esempio intende comunque ristrutturarlo e così facendo
ottiene uno sconto sul prezzo».
Allo stesso modo, se il venditore non conosce lo stato degli
impianti e non è in grado di definire la conformità,
l'acquirente può accettare l'acquisto assumendo l'onere
della verifica e di un eventuale adeguamento (anche qui
"ridiscutendo" il prezzo) oppure pretendere la verifica
dello stato degli impianti, la loro messa a norma o –in
caso di conformità– la dichiarazione di rispondenza.
Quest'ultima, resa sempre da un professionista abilitato, è
possibile solo per gli impianti eseguiti prima del 27.03.2008 (entrata in vigore del Dm 37/2008) (articolo Il Sole 24 Ore
del 02.10.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Project financing con Iva al 10% sul costo delle opere.
Il question time. L'aliquota applicabile.
L'aliquota Iva ridotta
del 10% spetta solo sulle somme erogate per partecipare alla
copertura del costo delle opere rientranti nel cosiddetto
project financing.
Lo ha detto ieri 01.10.2014 il viceministro Luigi Casero in commissione Finanze alla Camera rispondendo, in un
question-time, al deputato Renate Gebhard (INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE N. 5/03674) sul trattamento da
riservare ai fini Iva alle somme corrisposte per opere che
siano finanziate ai sensi dell'articolo 153, comma 19, Dlgs
n. 163/2006, e cioè strutture d'interesse pubblico nelle
quali l'amministrazione concede a un soggetto la possibilità
di costruire e gestire una certa infrastruttura per un dato
periodo di tempo, in una prospettiva di equilibrio economico
finanziario.
Nella risposta, pur sottolineandosi che non è possibile
fornire indicazioni circostanziate in mancanza di
riferimenti specifici al caso concreto, è tuttavia precisato
che, per beneficiare della misura agevolata dell'imposta,
l'opera deve rientrare in una delle fattispecie previste dal
numero 127-quinquies della Tabella A, parte III, allegata al
decreto n. 633/1972 (opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, linee di trasporto metropolitane, impianti di
produzione e reti di distribuzione di calore-energia
eccetera).
Verificata la riconducibilità dell'intervento fra
quelli oggettivamente agevolati dalla disposizione, il
momento in cui le somme sono erogate dalla stazione
appaltante al concessionario per la realizzazione
dell'opera, risulta del tutto irrilevante per la misura
dell'imposta. Allo specifico fine, pertanto, non conta che
l'erogazione delle somme intervenga nella fase di
costruzione o anche successivamente, per esempio, dopo il
collaudo dell'opera. In tal senso, gli uffici ministeriali
richiamano le conclusioni già raggiunte nella risoluzione n.
395/E del 2002, con ciò volendo probabilmente fare
riferimento alla precisazione secondo cui il prezzo è
pagabile “anche” in un'epoca antecedente l'ultimazione
dell'opera.
Restano invece fuori dall'ambito applicativo della riduzione
di aliquota le somme che l'appaltante eroga al
concessionario, ma che non sono collegate alla realizzazione
dell'opera, bensì versate ad altro titolo. Potrebbe
trattarsi, per esempio, dei canoni versati per la gestione
dell'infrastruttura costruita con il progetto finanziato.
Tali importi, sempre se riconducibili al corrispettivo di
un'operazione rilevante agli effetti impositivi (normalmente
una prestazione di servizi), scontano il relativo regime Iva
con la pertinente aliquota d'imposta (articolo Il Sole 24 Ore
del 02.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Beni inagibili, mezza Tasi.
Imposta ridotta del 50% come per l'Imu.
La tesi del Mef non è però suffragata da una norma di legge.
Disciplina della Tasi lacunosa anche sulle agevolazioni. I
fabbricati inagibili, inabitabili e dimore storiche sono
soggetti al pagamento dell'imposta sui servizi indivisibili,
ma con lo sconto. Secondo il Ministero dell'economia e delle
finanze, i titolari di questi immobili sono tenuti a pagare
il nuovo balzello con la riduzione del 50%, come per l'Imu,
anche in assenza di una norma che attesti il diritto a
fruirne.
Dunque, chi possiede un immobile inagibile, inabitabile o di
interesse storico-artistico può calcolare il tributo sul 50%
della base imponibile, determinata con le stesso modalità
con cui ha calcolato l'Imu, nonostante nella legge di
Stabilità (147/2013) non vi sia una disposizione ad hoc che
riconosca questo beneficio fiscale.
Del resto, i proprietari hanno tutto l'interesse ad
allinearsi alla tesi ministeriale secondo la quale se la
base imponibile di Imu e Tasi è la stessa, non c'è alcun
motivo di dubitare che la riduzione si applichi anche a
quest'ultimo tributo.
È evidente, però, che questa interpretazione rappresenti una
forzatura del dato normativo, perché quando il legislatore
ha voluto riconoscere un'agevolazione lo ha fatto
espressamente. Infatti, mentre per l'Imu non c'è alcun
dubbio che l'imposta si paghi in misura ridotta, qualche
incertezza sussiste sullo sconto per la Tasi. La base
imponibile dei due tributi ex lege è la stessa, ma le
agevolazioni non sono le stesse. Ciò premesso, al di là
delle incertezze normative, non si capisce perché questi
immobili debbano pagare l'Imu ridotta al 50% e la Tasi per
intero. L'articolo 4 del dl 16/2012 ha disposto la riduzione
al 50% della base imponibile Imu, che si dovrebbe estendere
all'imposta sui servizi.
Va ricordato che l'inagibilità o inabitabilità dell'immobile
deve essere accertata dall'ufficio tecnico comunale con
perizia a carico del proprietario, che è tenuto ad allegare
idonea documentazione alla dichiarazione. In alternativa, il
contribuente ha facoltà di presentare una dichiarazione
sostitutiva. L'agevolazione, per la quale è richiesta
un'apposita istanza, è però limitata al periodo dell'anno
durante il quale sussiste lo stato di precarietà
dell'immobile. Le condizioni per ottenere la riduzione alla
metà della base imponibile non possono essere disciplinate
dai comuni, i quali non hanno più la facoltà di fissare, con
regolamento, le caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta
del fabbricato, non superabile con interventi di
manutenzione.
Lo stato di precarietà deve essere accertato dall'ente
impositore sia se il contribuente alleghi idonea
documentazione alla richiesta di riduzione dell'imposta, sia
se presenti dichiarazione sostitutiva e autocertifichi
questa situazione. Per avere diritto al beneficio previsto
dalla legge l'istanza deve essere inoltrata nel momento in
cui il fabbricato è inagibile o inabitabile, al fine di
consentire all'ente di verificare la dichiarazione da parte
del soggetto interessato. La richiesta dovrebbe sempre
precedere la concessione del beneficio.
Tuttavia, nel
rispetto dei principi dello Statuto dei diritti del
contribuente (articolo 10 della legge 212/2000),
l'interessato non è tenuto a provare per via documentale
all'ente impositore fatti e circostanze note e conosciute
(Cassazione, sentenza 23531/2008). È espressione del
principio di collaborazione e buona fede, che deve
improntare i rapporti tra amministrazione finanziaria e
contribuente, anche la regola in base alla quale non può
essere richiesta la prova di fatti noti al fisco.
Per l'Ici, ma il principio è applicabile anche a Imu e Tasi,
la giurisprudenza ha sostenuto che spetti il trattamento
agevolato anche nei casi in cui l'interessato non abbia
presentato la dichiarazione d'inagibilità o inabitabilità,
purché sia noto all'amministrazione comunale lo stato
dell'immobile. In queste situazioni la base imponibile deve
essere ridotta al 50%, a condizione che il fabbricato non
venga di fatto utilizzato
(articolo ItaliaOggi dell'01.10.2014). |
TRIBUTI: L'invenduto paga la Tasi.
Non si applica l'esenzione prevista per l'Imu.
Nulla impedisce ai comuni di deliberare agevolazioni per i
beni merce.
I fabbricati invenduti delle imprese sono soggetti al
pagamento della Tasi. Non si applica, infatti, l'esenzione
prevista per l'Imu.
Un legislatore a dir poco confuso
esonera questi immobili dall'Imu, che è un'imposta
patrimoniale, purché non siano locati, e li assoggetta alla
Tasi, il cui gettito è destinato a finanziare i servizi
forniti dall'ente dei quali gli stessi immobili per la
condizione in cui si trovano non possono fruire.
Stando così le cose, a normativa vigente, non c'è alcuno
dubbio che l'esenzione Imu non possa essere estesa
all'imposta sui servizi in assenza di una disposizione ad
hoc.
Le norme che prevedono agevolazioni sono di stretta
interpretazione. L'articolo 2 del dl 102/2013, oltre al
concedere il beneficio dell'esclusione del pagamento della
seconda rata a saldo dell'Imu dovuta per il 2013, ha
stabilito che i beni merce delle imprese non pagano l'Imu
dal 2014. L'agevolazione è condizionata dal fatto che gli
immobili non siano locati. Se dati in affitto anche per un
breve periodo perdono lo status imposto dalla norma di legge
e sono sottoposti all'imposta municipale.
Dunque, mentre
prima dell'intervento normativo per gli immobili costruiti
dalle imprese e destinati alla vendita il legislatore
demandava ai comuni il potere di concedere l'aliquota
agevolata, il dl 102 ha previsto un beneficio fiscale
differenziato per il 2013 e il 2014. Per il 2013, al fine di
dare una mano al settore dell'edilizia che è in forte crisi,
è stata abolita la seconda rata dell'imposta, mentre da
quest'anno gli immobili delle imprese costruttrici non sono
più tenuti al pagamento «sine die», vale a dire fino a che
non saranno venduti.
Inoltre, con l'aggiunta all'articolo 2
del comma 5-bis, in sede di conversione del dl 102, è stato
imposto ai titolari di presentare una dichiarazione nella
quale devono attestare il possesso dei requisiti e devono
elencare dettagliatamente gli immobili che hanno diritto a
fruire del beneficio fiscale, indicando i relativi
identificativi catastali. Il mancato riconoscimento della
stessa agevolazione per la Tasi fa emergere, se mai ce ne
fosse bisogno, una totale mancanza di strategia del nostro
legislatore.
In effetti, se gli immobili invenduti e non
locati devono essere esclusi dal prelievo, e se proprio
l'agevolazione deve essere limitata a un solo tributo, è più
corretto che l'esonero si applichi alla Tasi che all'Imu. La
condizione di immobili inutilizzati dovrebbe escludere
l'assoggettamento a un'imposta la cui finalità è quella di
finanziare i servizi indivisibili (trasporto locale,
illuminazione, manutenzione stradale, verde pubblico e così
via).
Peraltro, l'esenzione Tasi si applica in molti casi in cui
il beneficio spetta per l'Imu. Nello specifico, sono
esonerati gli immobili posseduti da stato, regioni,
province, comuni, comunità montane, consorzi fra detti enti,
ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario
nazionale, purché destinati esclusivamente ai compiti
istituzionali. Inoltre, le agevolazioni si estendono agli
immobili adibiti al culto, nonché a quelli utilizzati dagli
enti non commerciali. Per questi ultimi viene ribadito che
l'esenzione, totale o parziale, è condizionata dalla
destinazione degli immobili allo svolgimento delle attività
elencate dall'articolo 7, comma 1, lettera i) del decreto
legislativo 504/1992, con modalità non commerciali.
C'è da sottolineare, infine, che nulla impedisce ai comuni
di deliberare con regolamento eventuali agevolazioni. Le
amministrazioni locali possono stabilire riduzioni senza un
tetto massimo. E possono tener conto della situazione
familiare dei contribuenti soggetti al prelievo. In base al
comma 679 della legge di Stabilità (147/2013) detrazioni e
esenzioni possono essere concesse per: abitazioni con unico
occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso
stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree
scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da
soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei
mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso
abitativo
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2014). |
GIURISPRUDENZA |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Consiglieri comunali concussori. Gli interessati avevano
ceduto alla minaccia per non perdere un risultato lecito.
Cassazione. Reato «maggiore» se l'amministratore chiede
soldi o incarichi per trattare una pratica.
Concussione e non
induzione per l'amministratore comunale che chiede soldi o
incarichi per trattare una pratica, con la minaccia in caso
di rifiuto del "favore" di insabbiarla.
La Corte di Cassazione con la
sentenza 03.10.2014 n. 41110 non fa sconti ai consiglieri
comunali che decidevano del destino delle richieste di
varianti urbanistiche non in base alla legittimità della
domanda ma in funzione della disponibilità del privato a
cedere ai loro ricatti.
Le pretese variavano a seconda del campo di "interesse" del
pubblico ufficiale: dai soldi, agli appalti per installare
ascensori, agli incarichi. Minacce alle quali gli
interessati avevano ceduto per non veder sfumata la
possibilità di conseguire un risultato che comunque era
lecito.
Malgrado il comportamento non proprio esemplare i ricorrenti
negavano di aver costretto le loro "vittime" a pagare o fare
altri favori e, forti di questa convinzione, pretendevano di
essere puniti per il meno grave delitto di induzione
(articolo 319-quater del Cp) escludendo la concussione
(articolo 317 del Cp). Ma la Cassazione non li accontenta. I
giudici della Sesta sezione analizzano le differenze tra le
due ipotesi, in base alla nuova formulazione della legge
Severino (190/2012), e spiegano la ragione della loro
scelta. La concussione scatta quando un pubblico agente
minaccia, in maniera implicita o esplicita, di danneggiare
ingiustamente il privato, che può evitare il pregiudizio
dando del denaro od offrendo un'altra utilità indebita.
Diversa l'ipotesi dell'induzione che si realizza in maniera
più sottile, con la persuasione, la suggestione, l'inganno o
la pressione morale. Due gli elementi fondamentali che
distinguono l'induzione dalla concussione: la pressione più
leggera "non irresistibile" esercitata dal pubblico
ufficiale e il vantaggio indebito in gioco. Nel caso
dell'induzione, infatti, il destinatario pressato persegue
uno scopo non lecito, e gode di un maggior margine di
autodeterminazione.
Chiarita la portata delle due ipotesi criminose la
Cassazione motiva il suo verdetto. Gli imputati avevano
«avvertito» gli imprenditori che le varianti urbanistiche
alle quali erano interessati potevano trovare una corsia
preferenziale per una rapida attuazione o perdersi nei
meandri degli uffici comunali. Per far avverare la prima
ipotesi servivano soldi, appalti e anche un incarico di
amministratore di condominio su diversi stabili. Il danno
minacciato di non mettere all'ordine del giorno la pratica,
bocciare la domanda o rinviarne la discussione era
senz'altro ingiusto, i privati si sono trovati dunque a un
bivio: subire il ricatto o perdere la possibilità di
conseguire un risultato lecito in tempo utile.
La Cassazione
sottolinea come la gestione del tutto arbitraria della cosa
pubblica, piegata agli scopi personali, abbia indotto i
privati a piegarsi agli abusi per scongiurare il rischio di
vedere compromessi i loro interessi a causa di un'eventuale
ribellione. E i giudici a confermare il reato di
concussione, anche se per alcuni è scattata le prescrizione (articolo Il Sole 24 Ore
del 04.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
necessario riesame dell'abusività dell’opera provocato
dall’istanza di sanatoria determina la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto che
vale comunque a rendere inefficace il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso.
E’ qui appena il caso di richiamare
il maggioritario -e qui condiviso- orientamento secondo
cui il necessario riesame dell'abusività dell’opera
provocato dall’istanza di sanatoria determina la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di
rigetto che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso
(sul punto –ex plurimis-: Cons. Stato, IV, 28.11.2013;
id., V, 31.10.2012, n. 5553; id., IV, 12.05.2010,
n. 2844).
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.10.2014 n. 4966 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
è pur vero che la presentazione di un’istanza di sanatoria
non inficia la legittimità dell’ordine di demolizione
impartito in precedenza quando la domanda di sanatoria sia
stata poi respinta, è altresì vero che la presentazione di
una siffatta richiesta impedisce che l'amministrazione,
prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso
che potrebbe potenzialmente essere sanato e determina –di
conseguenza– la temporanea sospensione degli effetti
dell’ordine di demolizione già impartito.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha recentemente
chiarito, al riguardo, che la presentazione di una domanda
di sanatoria di abusi edilizi determina l’inefficacia dei
precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione,
inibitorie, ordini di sospensione dei lavori) atteso che,
sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto
ad esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di
condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della
situazione.
Al riguardo deve essere richiamato il
consolidato –e qui condiviso– orientamento secondo cui, se
è pur vero che la presentazione di un’istanza di sanatoria
non inficia la legittimità dell’ordine di demolizione
impartito in precedenza quando la domanda di sanatoria sia
stata poi respinta, è altresì vero che la presentazione di
una siffatta richiesta impedisce che l'amministrazione,
prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso
che potrebbe potenzialmente essere sanato e determina –di
conseguenza– la temporanea sospensione degli effetti
dell’ordine di demolizione già impartito (in tal senso –ex plurimis-: Cons. Stato, V, 31.03.2014, n. 1546; id., VI,
14.03.2014, n. 1292; id., VI, 07.05.2009, n. 2833).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha recentemente
chiarito, al riguardo, che la presentazione di una domanda
di sanatoria di abusi edilizi determina l’inefficacia dei
precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione,
inibitorie, ordini di sospensione dei lavori) atteso che,
sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto
ad esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di
condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della
situazione (Cons. Stato, V, 23.06.2014, n. 3143)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.10.2014 n. 4963 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Ricorso in sede giurisdizionale. Tempestività. Onere della
prova. Ricade sulla parte che eccepisce la tardività.
Realizzazione di canna fumaria a servizio di ristorante.
Certificato di collaudo e scontrini fiscali. Irrilevanza.
1.1. In tema di ricorsi in sede
giurisdizionale promossi dal proprietario di immobile
confinante con quello interessato dall'avversato intervento
edilizio, la prova della tardività dell'impugnazione incombe
sulla parte che la eccepisce, secondo i generali criteri di
riparto del relativo onere, ed essa deve essere assistita da
rigorosi e univoci riscontri, ossia da elementi documentali
dai quali possa arguirsi con assoluta certezza il momento
della piena conoscenza dell'atto o del fatto, nella specie
del completamento funzionale dell'impianto.
1.2. Al fine di valutare la tempestività o meno del ricorso
promosso dal proprietario di immobile confinante con quello
interessato da intervento edilizio volto a realizzare una
canna fumaria, non assume rilievo il certificato di collaudo
della canna fumaria, che costituisce dichiarazione di
tecnico di parte che non può assumere nel giudizio
amministrativo alcun valore privilegiato, né la
documentazione fiscale attestante l'esercizio dell'attività
di ristorazione al cui servizio è posta l'avversata canna
fumaria, trattandosi di documentazione che indica solo
l'esercizio di un'attività ma non può ex se comprovare che
l'impianto fosse stato completato in ogni sua parte (ben
potendo, in ipotesi, funzionare, sia pure in modo
irregolare, senza l'elemento di completamento).
La prima eccezione pregiudiziale
spiegata dagli appellanti, e proposta altresì dall'appellata
Roma Capitale, concerne la pretesa tardività del ricorso in
primo grado, in quanto proposto oltre il termine
decadenziale, il cui dies a quo andrebbe ricondotto,
se non all'avvio dei lavori, successivi alla presentazione
della prima d.i.a. (20 dicembre 2007) e delle due successive
in variante (rispettivamente del 29.04.2008 e 06.05.2008),
quantomeno alla data di ultimazione dei lavori (08.05.2008),
come desunta dal certificato di collaudo dell'impianto, con
conseguente individuazione del dies ad quem al più
tardi al 07.07.2008, laddove il ricorso è stato notificato
solo il 16.12.2008.
In tal senso si censura il rilievo svolto dal giudice
capitolino, secondo il quale "...dalla documentazione
fotografica allegata all’atto introduttivo si evince, come
al momento della presentazione del ricorso l’opera non
risultava completata, risultando mancante del comignolo di
scarico", sostenendo che tale documentazione non avrebbe
data certa, mentre per un verso s'invoca il certificato di
collaudo, per altro documentazione fiscale relativa
all'esercizio dell'attività di ristorazione.
Osserva il Collegio che la prova della tardività
dell'impugnazione incombe sulla parte che la eccepisce,
secondo i generali criteri di riparto del relativo onere, ed
essa deve essere assistita da rigorosi e univoci riscontri,
ossia da elementi documentali dai quali possa arguirsi con
assoluta certezza il momento della piena conoscenza
dell'atto o del fatto, nella specie del completamento
funzionale dell'impianto (cfr. solo tra le più recenti Cons.
Stato, Sez. IV, 13.12.2013, n. 6007 e 27.03.2013, n. 1740).
Non è quindi possibile, con un rovesciamento
logico-giuridico, censurare la sentenza nella parte in cui
ha valorizzato documentazione, comunque obiettiva,
proveniente dal ricorrente, e tesa solo a contrastare
l'avversa eccezione, quando quest'ultima non sia stata, a
sua volta e anzitutto, confortata da una prova piena,
persuasiva e conclusiva.
Tali caratteri non possono riconoscersi né al certificato di
collaudo, che costituisce dichiarazione di tecnico di parte
che non può assumere nel giudizio amministrativo e in
relazione alla specifica eccezione alcun valore
privilegiato, né alla documentazione fiscale, che indica
solo l'esercizio di un'attività ma non può ex se
comprovare che l'impianto fosse stato completato in ogni sua
parte (ben potendo, in ipotesi, funzionare, sia pure in modo
irregolare, senza l'elemento di completamento).
In difetto, quindi, di rigorosa prova in ordine alla
compiuta realizzazione dell'impianto completo in ogni sua
parte, e anzi in relazione al contrario riscontro fornito
dalla documentazione fotografica, non può sostenersi la
tardività dell'impugnazione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2014 n. 4962 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
D.I.A. edilizia. Ricorso in sede giurisdizionale avverso
provvedimento tacito abilitativo dell'intervento.
Ammissibilità e procedibilità se ricorso ante A.P. n.
15/2011.
Tenuto conto che, sino alla decisione
dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011,
era maggioritario l'orientamento giurisprudenziale che
qualificava la D.I.A. in materia edilizia come una
fattispecie a formazione progressiva costituita dalla
presentazione della d.i.a., dal decorso del termine
dilatorio per l'avvio dei lavori, e dall'inerzia
dell'amministrazione in ordine all'esercizio dei poteri
inibitori, come un provvedimento tacito abilitativo
dell'intervento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12 marzo 2009,
n. 1474 e 25 novembre 2008 n. 5811, Sez. VI, 5 aprile 2007,
n. 1550; n. 5811; vedi anche Sez. II, 28.5.2010, parere n.
1990; CONTRA Cons. Stato, Sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717,
secondo cui la D.I.A. sarebbe invece atto di natura privata
che abilita il dichiarante all'esercizio di un diritto
riconosciutogli direttamente dalla legge il potere
dell'amministrazione di vietare lo svolgimento dell'attività
-e ordinare l'eliminazione degli effetti già prodotti- entro
un ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli
interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di
pubblico interesse), va ritenuto ritualmente introdotto
nell'anno 2008 il ricorso impugnatorio avverso provvedimento
tacito, abilitativo dell'intervento edilizio, volto a
censurare, oltre al supposto provvedimento tacito positivo,
anche l'inerzia dell'Amministrazione Comunale in relazione
al mancato esercizio dei poteri inibitori doverosamente
correlati al denunciati carenti presupposti per la
formazione di legittima ed efficace fattispecie abilitativa
della realizzazione del manufatto.
2. (segue): novella dell'art. 19 legge n. 241/1990 ad opera
dell'art. 6 del d.l. 13.08.2011, n. 138, convertito con
modificazioni nella legge 14.09.2011, n. 148. Irrilevanza
per i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore.
L'art. 19 legge n. 241/1990, come
novellato dall'art. 6 del d.l. 13.08.2011, n. 138,
convertito con modificazioni nella legge 14.09.2011, n. 148,
ha portata innovativa, e non già interpretativa, e
soprattutto sostanziale e non già processuale. Ne consegue
che il riconoscimento dell'esperibilità, previa
sollecitazione all'Amministrazione in ordine all'esercizio
dei poteri inibitori, dell'azione disciplinata dall'art. 31
c.p.a., e quindi dell'azione di accertamento dell'obbligo di
provvedere corrispondente alla tradizionale impugnativa del
silenzio-rifiuto quale inadempimento dell'obbligo, non può
che essere rivolta de futuro e non può incidere, per giunta
frustrando i principi di pienezza, effettività, tempestività
della tutela giurisdizionale, sulle controversie pendenti,
anche secondo una lettura costituzionalmente orientata
rispettosa dei principi costituzionali relativi al diritto
di difesa (art. 24 Cost.), al giusto processo (art. 111
Cost.), alla tutela giurisdizionale amministrativa (art. 113
comma 2 Cost.).
3.2) La seconda eccezione pregiudiziale si
articola, in effetti, in due profili distinti, attinenti
rispettivamente:
- all'ammissibilità del ricorso, in funzione delle domande
con il medesimo proposte;
- all'improcedibilità del ricorso, in ragione del disposto
del comma 6-ter dell'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241,
come aggiunto dall'art. 6 del d.l. 13.08.2011, n. 138,
convertito con modificazioni nella legge 14.09.2011, n. 148.
3.2.1.) Quanto al primo profilo, si sostiene che in modo del
tutto erroneo l'impugnativa sarebbe stata rivolta avverso un
supposto provvedimento tacito di assenso, mentre la d.i.a.,
proprio alla luce della chiarificante sentenza dell'Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 15 del 29.07.2011, è
invece "...un atto privato volto a comunicare
l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente
ammessa dalla legge...", potendo al limite ammettersi,
in aderenza all'insegnamento del massimo consesso
giurisdizionale amministrativo, soltanto l'impugnazione
dell'inerzia dell'amministrazione in ordine all'esercizio
dei poteri inibitori, ivi configurato, come noto, alla
stregua di "...provvedimento tacito negativo equiparato
dalla legge ad un, sia pure non necessario, atto espresso di
diniego dell'adozione del provvedimento inibitorio".
Osserva il Collegio che l'eccezione è infondata sotto
duplice aspetto.
Al momento della proposizione del ricorso
(dicembre 2008) era maggioritario, se non addirittura
esclusivo l'orientamento giurisprudenziale che qualificava
la fattispecie a formazione progressiva costituita dalla
presentazione della d.i.a., dal decorso del termine
dilatorio per l'avvio dei lavori, e dall'inerzia
dell'amministrazione in ordine all'esercizio dei poteri
inibitori, come un provvedimento tacito, abilitativo
dell'intervento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2009,
n. 1474 e 25.11.2008 n. 5811, Sez. VI, 05.04.2007,
n. 1550; n. 5811; vedi anche Sez. II, 28.05.2010, parere n.
1990), laddove parte affatto minoritaria della
giurisprudenza, peraltro successiva all'introduzione
dell'impugnativa (cfr. Sez. VI, 09.02.2009, n. 717)
aveva ritenuto che essa fosse "...atto di natura privata che
abilita il dichiarante all'esercizio di un diritto
riconosciutogli direttamente dalla legge il potere
dell'amministrazione di vietare lo svolgimento dell'attività
(e ordinare l'eliminazione degli effetti già prodotti) entro
un ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli
interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di
pubblico interesse", epperò riconducendo la tutela
giurisdizionale del terzo ad una azione di accertamento
autonomo in ordine all'insussistenza dei presupposti
legittimanti l'attività.
In effetti quest'ultima è la prospettiva ermeneutica accolta
dall'Adunanza Plenaria, salva la ricostruzione del contenuto
della tutela giurisdizionale in termini impugnatori,
essenzialmente attraverso la fictio del provvedimento tacito
negativo in ordine all'esercizio del potere inibitorio.
Ne consegue che il ricorso è stato ritualmente introdotto in
forma impugnatoria censurandosi, bensì, oltre al supposto
provvedimento tacito positivo, anche l'inerzia
dell'Amministrazione Comunale in relazione al mancato
esercizio dei poteri inibitori doverosamente correlati al
denunciati carenti presupposti per la formazione di
legittima ed efficace fattispecie abilitativa della
realizzazione del manufatto.
Sotto quest'ultimo rilievo, poi, e al di là delle
espressioni utilizzate dal ricorrente, è indubbio che la
domanda sia volta all'accertamento dell'illegittimità
dell'attività edilizia siccome non assistita dai presupposti
cui è condizionato il perfezionamento di una valida
fattispecie riconducibile al paradigma dell'art. 23 del
d.P.R. 06.06.2011, n. 380.
La sentenza gravata, ancorché nel dispositivo abbia
annullato in senso generico e impreciso il "silenzio-significativo maturatosi sulla d.i.a. presentata dalla
controinteressata", nella motivazione all'opposto ha ben
compreso e qualificato il contenuto della domanda,
riferendola sia alla carenza di uno dei presupposti
condizionanti la formazione della fattispecie abilitativa
("...la dichiarazione presentata in assenza del predetto
parere non poteva essere assentita dall’Amministrazione...")
sia al mancato illegittimo esercizio del potere inibitorio
("... si appalesa illegittimo il mancato esercizio da parte
dall’Amministrazione comunale dell’attività di controllo,
cui consegue la necessità che l’Amministrazione si attivi
successivamente nell’ambito dei poteri di autotutela").
3.2.2) Non ha maggior fondatezza l'altra eccezione
d'improcedibilità, formulata in relazione alla novella
dell'art. 19 della legge n. 241/1990, come introdotta
dall'art. 6 del d.l. 13.08.2011, n. 138, convertito con
modificazioni nella legge 14.09.2011, n. 148.
Tale disposizione, come noto, ha stabilito che:
"La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia
e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli
interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione di cui all' art. 31, commi
1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104".
Orbene, ad avviso del Collegio, in disparte ogni
considerazione sul rapporto tra lo schema generale ex art.
19 e la disciplina speciale di cui all'art. 23 del d.P.R. n.
380/2001, la norma, in quanto intesa a qualificare la
fattispecie ha portata innovativa, e non già interpretativa,
e sopratutto sostanziale e non già processuale; del pari il
successivo riconoscimento dell'esperibilità, previa
sollecitazione all'Amministrazione in ordine all'esercizio
dei poteri inibitori, dell'azione disciplinata dall'art. 31
c.p.a., e quindi dell'azione di accertamento dell'obbligo di
provvedere corrispondente alla tradizionale impugnativa del
silenzio-rifiuto quale inadempimento dell'obbligo, non può
che essere rivolta de futuro e non può incidere, per giunta
frustrando i principi di pienezza, effettività, tempestività
della tutela giurisdizionale, sulle controversie pendenti,
anche secondo una lettura costituzionalmente orientata
rispettosa dei principi costituzionali relativi al diritto
di difesa (art. 24 Cost.), al giusto processo (art. 111
Cost.), alla tutela giurisdizionale amministrativa (art.
113, comma 2, Cost.)
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2014 n. 4962 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione
paesistica, la quale è preordinata a garantire un armonioso
sviluppo della zona protetta che si vuole tutelare per la
particolarità ed unicità della sua bellezza, costituisce
atto autonomo e presupposto del permesso di costruire, i cui
lavori è onere della parte provare nella loro legittimità
sulla base di precisi e persuasivi indizi.
---------------
La produzione di una dichiarazione sostitutiva di atto
notorio non può assurgere al rango di prova, seppure
presuntiva, sull'epoca di anteriore realizzazione dell'abuso
edilizio-paesaggistico rispetto al vincolo apposto, in
assenza di minimi riscontri documentali o di altri elementi
di prova eventualmente anche indiziari ma concordanti.
Pertanto, in applicazione del principio generale di cui
all'art. 2697 c.c., chi realizza interventi ritenuti
abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare
rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di
legge, lo stato della preesistenza, posto che, in tali casi,
solo il privato dispone, ed è normalmente in grado di
esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili
elementi di valutazione quali fotografie con data certa
dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il
progetto originario e i suoi allegati, e quant’altro di
utile.
Di conseguenza, va ritenuto sufficientemente motivato il
provvedimento che, a fronte di un abuso
edilizio-paesaggistico, ne ordina la demolizione con
richiamo al verbale di sopralluogo dei tecnici comunali dato
che, com'è noto, il provvedimento sanzionatorio in materia
edilizia ha natura del tutto vincolata giacché è conseguente
ad un accertamento tecnico della consistenza delle opere
abusive realizzate.
Infatti, il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e
dai tecnici del comune a seguito di sopralluogo, attestante
l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico,
fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art.
2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate, sia
relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status
quo ante.
In punto di diritto va invece osservato come
l’autorizzazione paesistica, la quale è preordinata a
garantire un armonioso sviluppo della zona protetta che si
vuole tutelare per la particolarità ed unicità della sua
bellezza, costituisca atto autonomo e presupposto del
permesso di costruire, i cui lavori è onere della parte
provare nella loro legittimità sulla base di precisi e
persuasivi indizi.
La giurisprudenza di questo Consiglio è concorde
nell’affermare che la produzione di una dichiarazione
sostitutiva di atto notorio non può assurgere al rango di
prova, seppure presuntiva, sull'epoca di anteriore
realizzazione dell'abuso edilizio-paesaggistico rispetto al
vincolo apposto, in assenza di minimi riscontri documentali
o di altri elementi di prova eventualmente anche indiziari
ma concordanti (Cons. St., sez. VI, 05.08.2013, 4075;
Sez. IV, 14.02.2012, n. 703; Sez. V, 06.06.2001, n.
3067).
Pertanto, in applicazione del principio generale di cui
all'art. 2697 c.c., chi realizza interventi ritenuti
abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare
rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di
legge, lo stato della preesistenza, posto che, in tali casi,
solo il privato dispone, ed è normalmente in grado di
esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili
elementi di valutazione quali fotografie con data certa
dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il
progetto originario e i suoi allegati, e quant’altro di
utile.
Di conseguenza, va ritenuto sufficientemente motivato il
provvedimento che, a fronte di un abuso
edilizio-paesaggistico, ne ordina la demolizione con
richiamo al verbale di sopralluogo dei tecnici comunali dato
che, com'è noto, il provvedimento sanzionatorio in materia
edilizia ha natura del tutto vincolata giacché è conseguente
ad un accertamento tecnico della consistenza delle opere
abusive realizzate.
Infatti, il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e
dai tecnici del comune a seguito di sopralluogo, attestante
l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico,
fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art.
2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate, sia
relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status
quo ante.
Ciò comporta che in questa sede, tanto l’atto impugnato in
primo grado quanto la sentenza criticata, si configurino
esenti dalle censure mosse, in particolare da quelle di
difetto di istruttoria e di motivazione perché, nella
mancanza di allegazioni idonee a smentire i presupposti di
fatto dell'ordinanza e in assenza della querela di falso,
erroneamente le ricorrenti pretendono, con inammissibile
inversione dell'onere della prova, che sia l'Amministrazione
a provare giudizialmente i fatti posti a base della sua
azione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.10.2014 n. 4957 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'incameramento
della cauzione e la segnalazione all'Autorità sono
consequenziali all'esclusione ai sensi dell'art. 48 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, configurandosi come attività
affatto vincolata alla ricognizione dei presupposti legali,
né potrebbe revocarsene in dubbio la piena legittimità in
relazione alla carenza del requisito in capo al progettista,
posto che sul concorrente grava onere di diligenza in ordine
alla scelta del professionista e alla verifica dei requisiti
di quest'ultimo, onde la sanzione si ricollega a fatto
proprio colpevole (su tale profilo, e con riferimento al
dovere di diligenza assunto dai concorrenti che "...con la
domanda di partecipazione, sottoscrivono e si impegnano ad
osservare le regole della relativa procedura, delle quali
hanno piena contezza...".
4.) L'appello in epigrafe è
destituito di fondamento giuridico e deve essere rigettato
con la conseguente conferma della sentenza gravata.
4.1) Il punto III.2.3 lettera e) del bando di gara
richiedeva espressamente una "dichiarazione relativa al
numero medio annuo, con riferimento ai migliori tre anni
(anche non consecutivi) del quinquennio antecedente la data
di pubblicazione del presente bando, del personale tecnico
componente l'unità richiedente (comprendente i soci attivi,
i dipendenti ed i consulenti con contratto di collaborazione
su base annua, ai sensi della normativa vigente di
riferimento); tale requisito dovrà risultare almeno pari a 2
(due) volte le unità stimate per lo svolgimento
dell'incarico, indicate al punto II.2.1 del bando".
Trattasi di clausola riproduttiva dell'art. 263, comma 1,
lettera d), del d.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante
"Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163"), che pure, tra i
requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi per
la partecipazione alle gare, si riferisce "al numero medio
annuo del personale tecnico utilizzato negli ultimi tre anni
(comprendente i soci attivi, i dipendenti, i consulenti su
base annua iscritti ai relativi albi professionali, ove
esistenti, e muniti di partiva IVA e che firmino il
progetto, ovvero firmino i rapporti di verifica del
progetto, ovvero facciano parte dell'ufficio di direzione
lavori e che abbiano fatturato nei confronti della società
offerente una quota superiore al cinquanta per cento del
proprio fatturato annuo, risultante dall'ultima
dichiarazione IVA, e i collaboratori a progetto in caso di
soggetti non esercenti arti e professioni), in una misura
variabile tra 2 e 3 volte le unità stimate nel bando per lo
svolgimento dell'incarico".
4.2) Orbene non è contestabile, secondo i condivisibili
rilievi del giudice amministrativo salernitano, che il
possesso di tale requisito non sia stato documentato, in
sede di verifica a sorteggio, non potendosi revocare in
dubbio la nozione di "collaboratori su base annua", in
quanto denotante un rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa almeno annuale, ancorché non necessariamente
coincidente con l'anno solare, a tal fine non assumendo
rilievo le generiche indicazioni, carenti di specificazioni
sulla natura e sulla durata temporale delle collaborazioni,
rivenienti dai modelli di dichiarazione fiscale dei redditi
della società di persone, né e per le medesime ragioni da
fatture passive emesse nei confronti della Piemme Engeneering.
4.3) Né la motivazione del provvedimento di esclusione può
considerarsi carente o insufficiente, dovendo rapportarsi
relazionalmente al requisito richiesto e alla documentazione
prodotta, in disparte la contestata applicabilità dell'art.
21-octies, come opinata dal giudice amministrativo
salernitano con evidente riferimento a un orientamento
giurisprudenziale più recente, ancorché non univoco (nel
senso che anche la motivazione possa essere fornita in sede
di giudizio, senza violazione del divieto di integrazione in
sede giudiziale, cfr. Cons. Stato, Sez. V 20.08.2013, n.
4194 e Sez. IV 09.10.2012, n. 5257; in senso contrario
Sez. IV 27.05.2010, n. 3377 e Sez. VI, 03.03.2010, n.
1241).
4.4) L'incameramento della cauzione e la segnalazione
all'Autorità sono consequenziali all'esclusione ai sensi
dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163,
configurandosi come attività affatto vincolata alla
ricognizione dei presupposti legali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
24.05.2013, n. 2832 e 16.02.2012, n. 810, Sez. V,
06.03.2013, n. 1373), né potrebbe revocarsene in dubbio la
piena legittimità in relazione alla carenza del requisito in
capo al progettista, posto che sul concorrente grava onere
di diligenza in ordine alla scelta del professionista e alla
verifica dei requisiti di quest'ultimo, onde la sanzione si
ricollega a fatto proprio colpevole (su tale profilo, e con
riferimento al dovere di diligenza assunto dai concorrenti
che "...con la domanda di partecipazione, sottoscrivono e
si impegnano ad osservare le regole della relativa
procedura, delle quali hanno piena contezza..." vedi
Cons. Stato, Sez. V, 18.04.2012, n. 2232 e 10.09.2012, n.
4778)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2014 n. 4951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Divieto di quota lite solo per i difensori.
Professionisti. La modalità di determinazione del compenso.
Il divieto del patto di
quota lite, già previsto dal Codice civile e poi
reintrodotto dalla riforma dell'ordinamento forense, si
riferisce a chi svolge un'attività difensiva. Ne è pertanto
escluso il consulente del lavoro che punta a ottenere un
risparmio per la società sua cliente e che non svolge certo
un'attività di assistenza e rappresentanza in giudizio.
Lo
chiarisce la Corte di Cassazione con la
sentenza
02.10.2014 n. 20839
della II Sez. civile.
Il patto di
quota lite prevede che l'avvocato o il professionista
percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del
bene oggetto della prestazione professionale. Il divieto era
prima previsto dal Codice civile (momento cui si riferisce
la pronuncia della Cassazione), poi rivisto nel l'ambito
delle "lenzuolate" del l'allora ministro Pier Luigi Bersani
e infine reintrodotto dal nuovo ordinamento forense.
Il consulente era stato ingaggiato da una società per
l'individuazione di soluzioni giuridiche che permettessero
alla stessa di godere del beneficio delle agevolazioni
(sgravio degli oneri sociali sui contributi Inps) previste
per le aziende industriali del Mezzogiorno. A titolo di
compenso veniva previsto il 25% dei contributi già pagati e
recuperati. Ottenuta l'agevolazione, però, la società aveva
citato il consulente per vedere annullato il contratto di
prestazione d'opera professionale sostenendo il divieto del
patto di quota lite. Sia in primo grado sia in appello il
professionista aveva visto sconfitta la propria tesi e
negato il compenso.
Ora la Cassazione ribalta i verdetti e precisa che il
divieto, anche nella vecchia versione del Codice civile, si
riferiva solo al professionista che svolge attività
difensiva. Non solo l'avvocato, ma anche il dottore
commercialista, il ragioniere e il consulente quando
svolgono attività di patrocinio davanti alle commissioni
tributarie.
La prestazione svolta dal consulente del lavoro,
nel caso esaminato dalla Cassazione, non rientrava certo
nell'attività di assistenza e di rappresentanza in giudizio
della società, quanto piuttosto in un impegno a ottenere
dall'Inps il riconoscimento in via amministrativo contabile
del diritto della società a ottenere lo sgravio
(articolo Il Sole 24 Ore
del 03.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il divieto del cosiddetto patto di quota
lite tra l’avvocato ed il cliente, sancito dalla norma di
cui all’art. 2233 cod. civ., trova il suo fondamento
nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto
patrimoniale di un peculiare rapporto di opera
intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e
la dignità e la moralità della professione forense, che
risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella
convenzione concernente il compenso, sia, comunque,
ravvisabile la partecipazione del professionista agli
interessi economici finali ed esterni alla prestazione,
giudiziale o stragiudiziale, richiestagli.
Ne consegue che detto patto (legittimamente ravvisabile
anche sotto forma di promessa unilaterale, costituendo
questa una fattispecie negoziale ove l’astrazione della
causa risulta limitata all’ambito processuale) va rinvenuto
non soltanto nella ipotesi in cui il compenso del legale
consista in parte dei beni o crediti litigiosi, secondo
l’espressa previsione della norma (che costituisce, in
relazione alla ratio della tutela, soltanto la tipizzazione
dell’ipotesi di massimo coinvolgimento del legale e che,
pertanto, non esaurisce il divieto), ma anche qualora tale
compenso sia stato, comunque, convenzionalmente correlato al
risultato pratico dell’attività svolta, realizzandosi, cosi,
quella (non consentita) partecipazione del professionista
agli interessi pratici esterni della prestazione.
Ne consegue che la nullità di quel patto, sancita dall’art.
2233 terzo comma cod. civ., prescinde dalla circostanza del
verificarsi di un indebito lucro per il professionista, e
può essere fatta valere da ciascuno dei contraenti, senza
che si richieda la deduzione e dimostrazione di uno
specifico interesse a rimuoverne gli effetti
(tratta da http://renatodisa.com). |
APPALTI:
Sulla dichiarazione dei requisiti per la
partecipazione a gare d'appalto, ex art. 38 del D.Lgs. n.
163 del 2006: principi giurisprudenziali consolidati.
In tema di dichiarazione dei requisiti per la partecipazione
a gare d'appalto, ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006,
possono ritenersi ormai consolidati i seguenti principi:
a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai
concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale
spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai
concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le
condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro,
ciò implicando un giudizio meramente soggettivo
inconciliabile con la ratio della norma;
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della
puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della
dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresenta lo
strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per
contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei
concorrenti alla semplificazione e all'economicità del
procedimento di gara (a non essere, in particolare,
assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche
sotto il profilo strettamente economico, come la prova
documentale di stati e qualità personali, che potrebbero
risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle
amministrazioni appaltanti, di poter verificare con
immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne
per reati gravi che incidono sulla moralità professionale,
potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello
svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta
del contraente, così realizzando quanto più celermente
possibile l'interesse pubblico perseguito proprio con la
gara di appalto, così che la sola omessa dichiarazione dei
precedenti penali o di anche solo taluno di essi,
indipendentemente da ogni giudizio sulla relativa gravità,
rende legittima l'esclusione dalla gara;
c) anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex
specialis, stante la sua eterointegrazione con la norma
di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento
della presentazione della domanda di partecipazione le
dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163
del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che
sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale;
d) in caso di omessa dichiarazione di precedenti penali non
può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si
tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e
dal bando di gara a pena di esclusione, con la precisazione
che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli
predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente
incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o
equivoca del bando non può determinarsi l'esclusione dalla
gara per l'incompletezza della dichiarazione resa (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4932 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Le concessioni di servizi possono essere affidate
solo all'esito di una procedura caratterizzata dalla
predeterminazione dei criteri selettivi.
L'art. 30, c. 3, del d.lgs. n. 163/2006, dispone che: "La
scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei
principi desumibili dal Trattato e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei
principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non
discriminazione, parità di trattamento, mutuo
riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui
sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in
tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto
della concessione, e con predeterminazione dei criteri
selettivi".
Pertanto, sebbene la normativa comunitaria abbia
tendenzialmente escluso dal proprio ambito le concessioni di
servizi, le stesse non si sottraggono al rispetto dei
principi fondamentali del Trattato tra i cui corollari si
apprezza proprio quello della predeterminazione dei criteri
selettivi. Strumento quest'ultimo indispensabile per
assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, non
discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità.
Di conseguenza, sia pure nell'ambito di una gara informale,
le concessioni di servizi possono essere affidate solo
all'esito di una procedura caratterizzata dalla
predeterminazione dei criteri selettivi (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4913 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
E' da escludere un falso 'innocuo' quando il
bando di una gara d'appalto prevede una dichiarazione dal
contenuto completo, anche sui 'carichi pendenti', e il
partecipante rende una autodichiarazione non veritiera.
Non è configurabile un falso 'innocuo' quando il
bando di una gara d'appalto prevede una dichiarazione dal
contenuto completo, anche sui 'carichi pendenti', e
il partecipante rende una autodichiarazione non veritiera,
atteso che, nelle procedure di evidenza pubblica, la
completezza delle dichiarazioni sul possesso dei requisiti
generali è già di per sé un valore da perseguire, perché
consente, anche in ossequio al principio di buon andamento
dell'amministrazione e di proporzionalità, la celere
decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico
alla gara; conseguentemente una dichiarazione inaffidabile
perché, al di là dell'elemento soggettivo sottostante, è
falsa, deve ritenersi già di per sé stessa lesiva degli
interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto
che l'impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla
gara (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2014 n. 4896 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di una costruzione
abusiva integra una sanzione di natura oggettiva e reale che
costituisce atto vincolato che non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di questo con gli interessi pubblici coinvolti
e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né,
infine, è configurabile un affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero
decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi
del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi.
---------------
In ragione del carattere vincolato dell’atto, non occorre
alcun avviso di avvio del procedimento per gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui l’ordine di
demolizione della costruzione abusiva; così come nel caso di
diniego di concessione in sanatoria su istanza di condono,
la successiva ordinanza di demolizione non è viziata per
violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 in
quanto, essendo stata adottata all’esito del procedimento
avviato con istanza di condono dell’interessato, non si
verte nell’ambito di applicazione dello stesso art. 7
Tutte le questioni sottoposte al giudice d’appello sono
infondate.
In ordine alla prima la giurisprudenza, ancora di recente,
ha avuto modo di osservare: “L’ordine di demolizione di
una costruzione abusiva integra una sanzione di natura
oggettiva e reale che costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi pubblici coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; né, infine, è
configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione
di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del
tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto
che l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente
i dovuti atti repressivi” (Cons. St. VI, 15.10.2013,
5011).
In ordine alla seconda è stato ribadito il costante
orientamento secondo il quale: “In ragione del carattere
vincolato dell’atto, non occorre alcun avviso di avvio del
procedimento per gli atti sanzionatori in materia edilizia,
tra cui l’ordine di demolizione della costruzione abusiva;
così come nel caso di diniego di concessione in sanatoria su
istanza di condono, la successiva ordinanza di demolizione
non è viziata per violazione dell’art. 7 della legge n. 241
del 1990 in quanto, essendo stata adottata all’esito del
procedimento avviato con istanza di condono
dell’interessato, non si verte nell’ambito di applicazione
dello stesso art. 7” (Cons. St. VI, 04.03.2013, n. 1268)
(Consiglio di Stato, Sez. IVI,
sentenza 01.10.2014 n. 4878 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’edificazione
in zone sottoposte a vincolo paesistico deve essere
rispettosa dei valori estetici difesi dal vincolo.
Nell’applicare questo principio, in particolare quando si
tratti di un intervento di demolizione e ricostruzione, si
pongono due questioni:
(a) se sia necessario che l’impatto della nuova edificazione
non superi quello degli edifici preesistenti;
(b) se la tutela paesistica possa trasformarsi in un vincolo
di immodificabilità dello stato dei luoghi.
---------------
Relativamente
al primo problema si osserva che la costruzione di
nuovi edifici in zone vincolate non è subordinata alla
dimostrazione dell’impatto zero sullo stato dei luoghi, ma
richiede più semplicemente l’individuazione di un rapporto
accettabile tra l’edificazione e la perdita delle
caratteristiche ambientali preesistenti.
Possono quindi essere
assentiti anche fabbricati più impattanti per volume o
caratteristiche costruttive rispetto a quelli preesistenti,
purché il vincolo paesistico rimanga nel complesso ancora
leggibile. Poiché il vincolo cade non su singoli particolari
ma sull’insieme degli elementi che compongono un determinato
paesaggio, occorre valutare se nel contesto le innovazioni
risultino adeguatamente diluite.
Per quanto riguarda il secondo problema, occorre
sottolineare che la valutazione paesistica può certamente
essere anche sfavorevole al privato, ma non può essere
svolta con un metodo talmente conservativo da imporre la
cosiddetta opzione zero, ossia la sostanziale vanificazione
delle potenzialità edificatorie del lotto.
Le aspettative edificatorie fondate sulla
disciplina urbanistica costituiscono una posizione giuridica
opponibile anche ai soggetti pubblici che effettuano la
valutazione paesistica, i quali hanno il potere di
conformarle attraverso prescrizioni e limitazioni in modo
che risultino coerenti con il vincolo paesistico, senza
tuttavia poterle cancellare del tutto.
Sulle valutazioni paesistiche.
22. L’edificazione in zone sottoposte a vincolo paesistico
deve essere rispettosa dei valori estetici difesi dal
vincolo. Nell’applicare questo principio, in particolare
quando si tratti di un intervento di demolizione e
ricostruzione, si pongono due questioni: (a) se sia
necessario che l’impatto della nuova edificazione non superi
quello degli edifici preesistenti; (b) se la tutela
paesistica possa trasformarsi in un vincolo di
immodificabilità dello stato dei luoghi.
23. La risposta a entrambi i quesiti è negativa.
Relativamente al primo problema si osserva che la
costruzione di nuovi edifici in zone vincolate non è
subordinata alla dimostrazione dell’impatto zero sullo stato
dei luoghi, ma richiede più semplicemente l’individuazione
di un rapporto accettabile tra l’edificazione e la perdita
delle caratteristiche ambientali preesistenti (v. TAR
Brescia Sez. I 11.01.2010 n. 9). Possono quindi essere
assentiti anche fabbricati più impattanti per volume o
caratteristiche costruttive rispetto a quelli preesistenti,
purché il vincolo paesistico rimanga nel complesso ancora
leggibile. Poiché il vincolo cade non su singoli particolari
ma sull’insieme degli elementi che compongono un determinato
paesaggio, occorre valutare se nel contesto le innovazioni
risultino adeguatamente diluite.
24. Per quanto riguarda il secondo problema, occorre
sottolineare che la valutazione paesistica può certamente
essere anche sfavorevole al privato, ma non può essere
svolta con un metodo talmente conservativo da imporre la
cosiddetta opzione zero, ossia la sostanziale vanificazione
delle potenzialità edificatorie del lotto (v. TAR Brescia
Sez. I 10.04.2012 n. 598; TAR Brescia Sez. I 08.03.2010 n. 1146). Le aspettative edificatorie fondate sulla
disciplina urbanistica costituiscono una posizione giuridica
opponibile anche ai soggetti pubblici che effettuano la
valutazione paesistica, i quali hanno il potere di
conformarle attraverso prescrizioni e limitazioni in modo
che risultino coerenti con il vincolo paesistico, senza
tuttavia poterle cancellare del tutto.
25. Nello specifico, la decisione negativa del Comune, e
prima ancora della Soprintendenza, sembra sconfinare in una
difesa sproporzionata del vincolo paesistico. Come si è
visto sopra, l’elevata sensibilità paesistica riconosciuta
dal PGT all’area in esame non deve far dimenticare che è lo
stesso PGT ad ammettere l’edificazione, prevedendo una
disciplina comunque rigorosa ma meno penalizzante per i
privati rispetto ad altre parti del territorio. Allo stesso
modo, dal fatto che la nuova porcilaia sia più impattante
delle strutture demolite non si può desumere automaticamente
un giudizio negativo circa la compatibilità paesistica,
perché occorre dimostrare in concreto l’insostenibilità del
nuovo fabbricato.
26. In proposito, il provvedimento di diniego omette di
considerare dati importanti quali: (a) la riduzione delle
previsioni di sbancamento (v. nota di controdeduzioni del 27.05.2010); (b) la vicinanza della nuova porcilaia alle
strutture aziendali storiche, che hanno già introdotto una
significativa alterazione dello stato dei luoghi in questo
punto del paesaggio; (c) le similitudini costruttive che
accomunano la nuova porcilaia all’analoga struttura presente
presso l’allevamento e destinata a rimanere al suo posto (v.
relazione del dott. agronomo Claudio Leoni del 28.03.2011); (d) la presenza di barriere naturali che schermano la
nuova porcilaia rispetto ai principali punti di osservazione
e anche rispetto al fondovalle, dove si trovano il borgo
storico e il lago di Castellaro Lagusello (v. ancora la
citata relazione del 28.03.2011); (e) la previsione di
misure di mitigazione concordate con il Parco del Mincio.
27. In definitiva, sembra che il provvedimento di diniego
esponga un rischio paesistico superiore a quello reale, e
non individui in modo corretto le criticità che normalmente
segnalano un irrimediabile contrasto tra il progetto e
l’insieme paesistico tutelato dal vincolo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 01.10.2014 n. 1024 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
diritto pubblico di transito può coincidere con una servitù
privatistica a favore di un ente pubblico, ma può anche
emergere in modo autonomo dalla sistemazione dei luoghi
impressa dall’amministrazione per una finalità di interesse
collettivo.
Normalmente il tempo di formazione di un diritto pubblico di
transito coincide con quelli dell’usucapione ordinaria. Si
può tuttavia osservare la costituzione del diritto pubblico
in un termine molto inferiore, se il titolo in base al quale
è stata acquisita la proprietà lo consente e se sull’area si
è insediata un’attività di interesse collettivo.
Sul diritto pubblico di transito.
14. Passando al punto centrale del ricorso, occorre
precisare che il diritto pubblico di transito può coincidere
con una servitù privatistica a favore di un ente pubblico,
ma può anche emergere in modo autonomo dalla sistemazione
dei luoghi impressa dall’amministrazione per una finalità di
interesse collettivo.
15. Normalmente il tempo di formazione di un diritto
pubblico di transito coincide con quelli dell’usucapione
ordinaria. Si può tuttavia osservare la costituzione del
diritto pubblico in un termine molto inferiore, se il titolo
in base al quale è stata acquisita la proprietà lo consente
e se sull’area si è insediata un’attività di interesse
collettivo (v. TAR Brescia Sez. II 08.05.2013 n. 440).
16. Questo è quanto si è verificato nel caso in esame.
L’atto di acquisto del 15.06.1989 menziona espressamente
un diritto di transito sui mappali n. 416 e 737. Si tratta
di una ricognizione di diritti costituiti o acquisiti in
epoca anteriore, che corrisponde allo stato dei luoghi,
rimasto immutato. Pertanto, anche se il contratto è
intercorso tra il Comune e soggetti diversi dai danti causa
dei ricorrenti, si può ravvisare in questo documento la
prova dell’esistenza di una servitù di passo, o quantomeno
il presupposto materiale di un simile diritto. Da qui in
avanti gli approfondimenti sul piano privatistico spettano
al giudice ordinario, ma per quanto rileva nel presente
giudizio occorre sottolineare che su questo presupposto si è
innestata l’azione amministrativa. Il Comune ha infatti
ristrutturato gli edifici acquistati e ha attribuito agli
stessi una funzione pubblica, nella specie dell’edilizia
residenziale pubblica. Di conseguenza, essendo intervenuta
una finalità di interesse collettivo, il transito ha
acquistato un rilievo pubblicistico.
17. Si sono dunque combinati gli elementi (titolo
privatistico non contrastante, apparenza dei luoghi,
asservimento a una funzione pubblica) che, indipendentemente
dal tempo trascorso, consentono di individuare la presenza
di un diritto pubblico di transito. Questa conclusione trova
sostegno nell’art. 22, comma 3, della legge 2248/1865 all. F.
In base a tale norma devono essere qualificati come parte
della viabilità pubblica tutti gli spazi e i vicoli interni
all’abitato, a meno che il titolo di proprietà non vi si
opponga, e purché ricorrano le seguenti caratteristiche: (a)
adiacenza alla via pubblica; (b) accesso dalla via pubblica;
(c) potenziale utilizzazione collettiva.
18. Si può quindi ritenere che sui mappali n. 416 e 737 si
sia stabilito, da quando il condominio comunale è stato
integrato nel programma di edilizia residenziale pubblica,
un diritto pubblico di transito.
19. La presenza di un accesso diretto tra il condominio
comunale e via Libertà non appare in contrasto con questa
ricostruzione. Si tratta infatti di un accesso autonomo, che
non è mai stato messo in qualche relazione con il transito
sui mappali n. 416 e 737. Inoltre, le caratteristiche e le
dimensioni di questo accesso non sono tali da consentire il
passaggio agevole dei veicoli, e neppure la sicurezza dei
pedoni. È quindi ragionevole supporre che il transito con
veicoli si sia sempre indirizzato verso i mappali n. 416 e
737.
20. In quanto titolare di un diritto pubblico di transito,
il Comune è tenuto a esercitare i poteri di regolamentazione
secondo gli ordinari principi che dirigono l’azione
amministrativa. Di conseguenza, il Comune non può limitarsi
a reprimere i tentativi di chiusura del percorso, ma deve
assicurarsi, attraverso la predisposizione di norme di
comportamento e l’effettuazione di controlli, che il
transito avvenga in condizioni di sicurezza e che i disagi
per i proprietari del sedime e dei fabbricati circostanti
siano ridotti al minimo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 01.10.2014 n. 1023 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Nelle
gare aventi ad oggetto servizi esclusi dall'applicazione del
Codice dei contratti pubblici (allegato II B), <<la mancanza
nel bando di una previsione specifica non esenta i
concorrenti dal dovere di indicare gli oneri della sicurezza
aziendali e dall'osservare le norme in materia di sicurezza
sul lavoro, ma comporta soltanto che, ove la stazione
appaltante non si sia autovincolata nella legge di gara ad
osservare la disciplina di dettaglio dettata dagli artt. 86,
commi 3-bis e 3-ter, e 87, comma 4, del succitato Codice dei
contratti pubblici, il concorrente, che non abbia indicato i
suddetti oneri della sicurezza nella propria offerta, deve
essere chiamato a specificarli successivamente, nell'ambito
della fase di verifica della congruità dell'offerta,
all'evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di
adempiere al suo onere (che sussiste anche al di fuori del
procedimento di verifica delle offerte anomale) di
verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei
fondamentali interessi dei lavoratori in relazione
all'entità ed alle caratteristiche del servizio>>.
Evidenziato:
- che è parimenti infondato il secondo motivo di ricorso;
- che anzitutto la lex specialis non conteneva alcuna regola
specifica sull’indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali;
- che la recente giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez.
III – 21/1/2014 n. 280) ha statuito che, nelle gare aventi
ad oggetto servizi esclusi dall'applicazione del Codice dei
contratti pubblici (allegato II B), <<la mancanza nel bando
di una previsione specifica non esenta i concorrenti dal
dovere di indicare gli oneri della sicurezza aziendali e
dall'osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro,
ma comporta soltanto che, ove la stazione appaltante non si
sia autovincolata nella legge di gara ad osservare la
disciplina di dettaglio dettata dagli artt. 86, commi 3-bis e
3-ter, e 87, comma 4, del succitato Codice dei contratti
pubblici, il concorrente, che non abbia indicato i suddetti
oneri della sicurezza nella propria offerta, deve essere
chiamato a specificarli successivamente, nell'ambito della
fase di verifica della congruità dell'offerta, all'evidente
scopo di consentire alla stazione appaltante di adempiere al
suo onere (che sussiste anche al di fuori del procedimento
di verifica delle offerte anomale) di verificare il rispetto
di norme inderogabili a tutela dei fondamentali interessi
dei lavoratori in relazione all'entità ed alle
caratteristiche del servizio>>;
- che ad analoghe conclusioni era pervenuto il Consiglio di
Stato, sez. V – 06/08/2012 n. 4510, che ha affrontato una
vicenda analoga riguardante un appalto di refezione
scolastica;
- che merita di essere richiamata altresì la pronuncia del
Consiglio di Stato, sez. III – 04/03/2014 n. 1030;
- che l’art. 7 del disciplinare di gara, evocato in giudizio
dalla ricorrente, richiama gli artt. 87 e 88 del Codice dei
contratti esclusivamente ai fini delle giustificazioni sulla
congruità dell’offerta;
- che la controinteressata ha peraltro evidenziato
l’avvenuta esibizione degli oneri di sicurezza aziendale nei
chiarimenti resi nell’ambito del sub-procedimento di
verifica dell’anomalia, con un importo (25.288,65 €) che non
risulta in alcun modo contestato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 01.10.2014 n. 1016 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1.
ATI. Offerta. Garanzia fideiussoria. Riconducibilità a tutti
i componenti dell'ATI. Criteri ermeneutici.
1.1. In tema di polizza fideiussoria
prodotta ex art. 75 cod. contratti pubblici a corredo
dell’offerta presentata da ATI, al fine di verificare se la
polizza sia intestata alla mandataria o anche agli altri
soggetti facenti parti del raggruppamento concorrente, è
necessaria l’interpretazione complessiva della polizza,
anche alla luce dei canoni interpretativi di cui all’art.
1362 c.c..
1.2. Legittimamente la stazione appaltante ammette a gara
pubblica ATI che, a corredo della propria offerta, abbia
allegato ex art. 75 cod. contratti pubblici una polizza
fideiussoria riconducibile a tutti i componenti della
costituenda ATI, siccome emerga che la garanzia prestata dal
fideiussore sia ben riferibile, oltre che alla ditta
mandataria, la cui denominazione figura nel riquadro della
scheda intestato “contraente (obbligato principale)”, anche
alle imprese mandanti (nella specie la polizza recava un
distinto riquadro intestato come “descrizione opera”, in cui
era specificato che si trattava di un intervento in ATI;
inoltre in calce alle pagine della medesima polizza, sotto
la dicitura “il contraente”, erano presenti le firme di
tutti i soggetti componenti la costituenda ATI).
2. Dichiarazioni sulla c.d. moralità professionale.
Direttore tecnico cessato dalla carica. Dichiarazione resa
dall'attuale direttore tecnico anche con riguardo al
precedente. Sufficienza. Soccorso istruttorio. Necessità.
In tema di dichiarazioni sulla c.d.
moralità professionale, legittimamente la Commissione di
gara ritiene che la dichiarazione dell’attuale direttore
tecnico possa rendere specifiche dichiarazioni, ai sensi
dell’art. 47 del DPR 445/2000, circa l’assenza di pregiudizi
di cui all’art. 38, co. 1, lett. b) e c), D.Lgs. n. 163/2006
anche a carico del precedente direttore tecnico, cessato
dalla carica nell’ultimo triennio, anche perché se pure il
seggio di gara avesse diversamente opinato (sulla base di un
rigoroso formalismo), stante l’assimilabilità delle due
tipologie di dichiarazioni (quelle previste in bando e
quelle effettivamente rese) e l’evidente intento dei
soggetti dichiaranti di affermare l’inesistenza di cause
ostative alla partecipazione, essa avrebbe comunque dovuto
attivare l’istituto del soccorso istruttorio e richiedere
alla partecipante integrazioni sul punto, e non certo
procedere ad una sua immediata esclusione.
3. Lex specialis di gara. Ricorso in sede giurisdizionale.
Interesse al ricorso. Salvo clausole impeditive la
partecipazione, sorge con l'aggiudicazione.
3.1. In tema di ricorsi in sede
giurisdizionale avverso atti di procedura di gara pubblica
di appalto, opera la regola generale secondo cui i bandi di
gara e le lettere invito vanno, normalmente, impugnati
unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal
momento che sono questi ultimi ad identificare l’effettivo
soggetto leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e
concreta la lesione della situazione soggettiva
dell’interessato: pertanto, pur in presenza di una clausola
illegittima del bando di gara, il partecipante non è ancora
titolare di un interesse attuale all’impugnazione, non
potendo egli stabilire se l’astratta e potenziale
illegittimità della predetta clausola si risolverà in un
esito negativo per la sua partecipazione alla procedura,
determinandosi così un’effettiva lesione del suo interesse.
3.2. Ogni questione concernente i requisiti soggettivi dei
partecipanti, diversa da quella relativa alle clausole
impeditive della partecipazione, è suscettibile di essere
proposta in sede di impugnazione dell'atto di
aggiudicazione.
4. Divieto di subappalto di opere specialistiche di valore
superiore al 15% dell'intero importo dell'appalto. Ambito
applicativo. Beni ricadenti in zona paesaggisticamente
vincolata. Irrilevanza.
4.1. Posto che l’art. 37, comma 11,
D.Lgs. n.163/2006 (riproduttivo del precedente art. 13,
comma 7, legge n. 109/1994), nel testo vigente anteriormente
alla novella di cui all'art. 1, comma 1, lettera h), del
D.Lgs. 11.09.2008, n. 152, stabiliva il divieto di
subappalto per le opere per le quali sarebbero stati
necessari lavori o componenti di notevole contenuto
tecnologico o di rilevante complessità tecnica, ove tali
lavorazioni avesse superato in valore il 15 % dell'importo
totale dell'appalto, deve escludersi che i lavori rientranti
nella categoria OG2 rientrino nell’ambito applicativo
dell’art. 37, comma 11, D.Lgs. n. 163/2006, dal momento che,
alla stregua del DPR 34/2000, risultano incontestatamente
riconducibili ad una categoria di opere generali (OG2) e non
alle opere speciali (OS).
4.2. La circostanza che l'appalto di lavori riguardi beni
ricadenti in zona paesaggisticamente vincolata ex D.Lgs. n.
42/2004 non è sufficiente a ricondurre lavorazioni
rientranti nella categoria OG2 tra le opere speciali OS.
Ancorché vi siano più norme che prendono in considerazione i
casi in cui i lavori da eseguirsi riguardano immobili
vincolati ai sensi del Decr. Leg.vo 42/2004, tuttavia ciò
non comporta –non sussistendo i caratteri espressamente
previsti dall’art. 37, co. 11, D.Lgs. n. 163/2006–
l’automatica applicabilità di tale norma nei descritti
frangenti: occorre all’uopo, infatti, previamente verificare
che si tratti di lavori di “contenuto tecnologico o di
rilevante complessità tecnica”.
Quindi, ciò che rileva ai fini dell’applicabilità della
norma in commento è la connotazione dell’intervento e non le
caratteristiche del bene su cui l’intervento va effettuato;
né la particolarità del bene fa sì che l’intervento debba
necessariamente qualificarsi come tecnicamente complesso
(come desumibile proprio dal fatto che il DPR 34/2000
preveda per i beni immobili sottoposti a tutela culturale e
ambientale un’apposita categoria di opere, ma di tipo
generale -proprio la OG2- e non speciale): perciò, la detta
peculiarità presenta sì rilievo, ma solo ai limitati fini
previsti di volta in volta dalle norme che la prendono in
considerazione (e tra queste –si ribadisce– non è
annoverabile l’art. 37, co. 11, D.Lgs. n. 163/2006).
Invero, in ordine al primo dei motivi articolati, va detto
che dalla prodotta copia della polizza fideiussoria
presentata in sede di gara a titolo di cauzione provvisoria
dalla costituenda ATI avente come capofila la Edilverde di
Michele Genovese, emerge che la garanzia prestata
nell’occasione dalla Compagnia Italiana Assicurazioni era
ben riferibile, oltre che alla ditta mandataria, la cui
denominazione figura nel riquadro della scheda intestato “contraente
(obbligato principale)”, anche alle due imprese
mandanti, poiché nel distinto riquadro intestato come “descrizione
opera” appare specificato che si tratta di un intervento
“in ATI con Cuzzolino Costruzioni scarl/Consorzio Corona”;
nonché perché in calce ad entrambe le pagine dell’atto,
sotto la dicitura “il contraente”, sono presenti le
firme di tutti e tre i soggetti componenti l’ATI in
commento: è pertanto l’interpretazione complessiva della
polizza, anche alla luce dei canoni interpretativi di cui
all’art. 1362 c.c., che consente di affermare la
riconducibilità della prestata garanzia a tutti i componenti
della costituenda ATI (cfr. Cons. di Stato Ad. Plen. n. 8
del 04.10.2005; Cons. di Stato sez. V, n. 2169 del
07.04.2011).
Quanto al secondo dei motivi articolati, osserva il Collegio
che dalle depositate copie della domanda di partecipazione
alla gara del Consorzio Corona e dell’allegato atto scritto
contenente dichiarazioni dell’attuale direttore tecnico di
questo, arch. Nadia Paragliola (atti entrambi prodotti in
sede concorsuale), emerge che oggetto di specifiche
dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 47 del DPR 445/2000 è
stata l’assenza di pregiudizi di cui all’art. 38, co. 1,
lett. b) e c), del Decr. Leg.vo 163/2006 a carico tanto
appunto dell’attuale direttore tecnico del Consorzio citato,
quanto a carico dell’arch. Rosario Savarese, precedente
direttore tecnico, cessato dalla carica nell’ultimo
triennio: ebbene, deve dirsi corretto il giudizio della
Commissione di gara che ha ritenuto tali dichiarazioni
idonee al rispetto delle previsioni del bando in proposito
(dichiarazioni da rendere esclusivamente in ordine alle
risultanze del certificato del Casellario Giudiziale e a
quello dei Carichi Pendenti), anche perché se pure avesse
diversamente opinato (sulla base di un rigoroso formalismo),
stante l’assimilabilità delle due tipologie di dichiarazioni
(quelle previste in bando e quelle effettivamente rese) e
l’evidente intento dei soggetti dichiaranti di affermare
l’inesistenza di cause ostative alla partecipazione, essa
avrebbe comunque dovuto attivare l’istituto del soccorso
istruttorio e richiedere alla partecipante integrazioni sul
punto, e non certo procedere ad una sua immediata
esclusione.
Può, a questo punto, passarsi all’esame delle problematiche
involte dal ricorso principale.
In proposito, vanno preliminarmente disattese le eccezioni
in rito sollevate dal Comune di Napoli (incentrate su di
un’asserita tardività dell’impugnazione del bando e di
un’acquiescenza della ricorrente principale rispetto alle
previsioni di questo, determinata dalla sua partecipazione
alla gara senza alcuna riserva), in quanto deve dirsi che le
clausole del bando interessate dal proposto gravame
principale non presentavano alcun carattere “escludente”
per l’ATI avente come capogruppo/mandataria la Edilverde di
Michele Genovese, cosicché, prima del concreto svolgimento
delle operazioni che hanno portato all’aggiudicazione alla
società controinteressata, esse non presentavano alcuna
lesività suscettibile di determinare un onere di immediata
impugnazione: conseguentemente, non può che trovare
applicazione nella fattispecie la regola generale secondo
cui i bandi di gara e le lettere invito vanno, normalmente,
impugnati unitamente agli atti che di essi fanno
applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad
identificare l’effettivo soggetto leso dal provvedimento, ed
a rendere attuale e concreta la lesione della situazione
soggettiva dell’interessato: pertanto, pur in presenza di
una clausola illegittima del bando di gara, il partecipante
non è ancora titolare di un interesse attuale
all’impugnazione, non potendo egli stabilire se l’astratta e
potenziale illegittimità della predetta clausola si
risolverà in un esito negativo per la sua partecipazione
alla procedura, determinandosi così un’effettiva lesione del
suo interesse (cfr. Cons. di Stato Ad. Plen. n. 1 del
29.01.2003; Cons. di Stato Sez. V, n. 3203 del 25.06.2014;
Cons. di Stato Sez. V, n. 1665 dell’08.04.2014; Cons. di
Stato Sez. V, n. 5155 del 24.10.2013).
In giurisprudenza, è stato poi, in particolare, chiarito che
ogni questione concernente i requisiti soggettivi dei
partecipanti, diversa da quella relativa alle clausole
impeditive della partecipazione, è suscettibile di essere
proposta in sede di impugnazione dell'atto di aggiudicazione
(Cons. di Stato Sez. III, 13.01.2011 n. 2463; TAR
Lombardia-Milano n. 1240 del 13.05.2014).
Nel merito, il ricorso principale è infondato e va respinto.
Quanto al primo dei due motivi di ricorso proposti, va
rilevato che la Edilverde di Michele Genovese esattamente
individua “il fulcro della presente controversia in
ordine all’illegittimità dell’impugnato bando di gara… nella
ricomprensione dei lavori rientranti nella categoria OG2
nell’ambito applicativo dell’art. 37, comma 11, del Decr.
Leg.vo n. 163/2006” (cfr. memoria depositata in data
11.01.2007, pag. 5); tesi che, tuttavia, così come
prospettata non può essere condivisa.
Posto, infatti, che l’art. 37, co. 11, Decr. Leg.vo 163/2006
(riproduttivo del precedente art. 13, co. 7, L. 109/1994),
di cui parte ricorrente invoca l’applicazione, si riferisce
a “opere per le quali sono necessari lavori o componenti
di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità
tecnica, quali strutture, impianti e opere speciali”,
osserva il Collegio che i lavori di cui si discute non
presentano in realtà alcuna di dette caratteristiche, tant’è
che essi, alla stregua del DPR 34/2000, risultano
incontestatamente riconducibili ad una categoria di opere
generali (OG2) e non alle opere speciali (OS); tra le quali
ultime è sì ricompresa una categoria di opere a farsi su
immobili oggetto di vincolo culturale, ma aventi un ambito
limitato e caratteristiche altamente specifiche, ovvero
quelle riguardanti “superfici decorate e beni mobili di
interesse artistico” (OS2, che però non figurano tra
quelle qui in discussione).
Né ai fini dell’applicazione del comma 11 dell’art. 37 Decr.
Leg.vo 163/2006 appaiono decisivi, sul presupposto che
trattasi di lavori da eseguire in zona paesaggisticamente
vincolata ai sensi del Decr. Leg.vo 42/2004, i diversi
indici cui fa riferimento la difesa di parte ricorrente
(ovvero l’essere tali opere descritte, nel medesimo DPR
34/2000, come “insieme coordinato di lavorazioni
specialistiche necessarie a recuperare, conservare,
consolidare, trasformare, ripristinare, ristrutturare,
sottoporre a manutenzione gli immobili di interesse storico
soggetti a tutela a norma delle disposizioni in materia di
beni culturali e ambientali”; la circostanza che il
Codice degli Appalti dedichi specificamente il capo II del
titolo IV ai “contratti relativi ai beni culturali”;
l’aver la sentenza del TAR Campania-Napoli n. 11259 del
26.08.2003, sottolineato la specificità di questo tipo di
lavori, consistente “non tanto nella peculiarità tecnica
e oggettuale degli interventi, ma nella particolarità del
bene oggetto di tali interventi”; il riferimento al
disposto di cui all’art. 72, co. 4, lett. a), del DPR
554/1999, secondo il quale “si considerano strutture,
impianti e opere speciali, le seguenti opere specializzate
se di importo superiore a quelli indicati all’articolo 73,
comma 3: a- il restauro, la manutenzione di superfici
decorate di beni architettonici, il restauro di beni mobili,
di interesse storico, artistico ed archeologico”).
In contrario, per vero, deve dirsi che, se pure vi sono più
norme che prendono in considerazione i casi in cui i lavori
da eseguirsi riguardano immobili vincolati ai sensi del
Decr. Leg.vo 42/2004 (e, peraltro, nel caso di specie si
tratta di un vincolo d’insieme e non individuo), tuttavia
ciò non comporta –non sussistendo i caratteri espressamente
previsti dall’art. 37 co. 11 citato– l’automatica
applicabilità di tale norma nei descritti frangenti: occorre
all’uopo, infatti, previamente verificare che si tratti di
lavori di “contenuto tecnologico o di rilevante
complessità tecnica”; caratteristiche che però nella
specie mancano, come in sostanza riconosce la stessa parte
ricorrente allorché punta a sopperire al difetto di tale
requisito mediante la valorizzazione dell’intrinseca
particolarità del bene oggetto d’intervento.
Quindi, ciò che rileva ai fini dell’applicabilità della
norma in commento è la connotazione dell’intervento e non le
caratteristiche del bene su cui l’intervento va effettuato;
né la particolarità del bene fa sì che l’intervento debba
necessariamente qualificarsi come tecnicamente complesso
(come desumibile proprio dal fatto che il DPR 34/2000
preveda per i beni immobili sottoposti a tutela culturale e
ambientale un’apposita categoria di opere, ma di tipo
generale - proprio la OG2 - e non speciale): perciò, la
detta peculiarità presenta sì rilievo, ma solo ai limitati
fini previsti di volta in volta dalle norme che la prendono
in considerazione (e tra queste – si ribadisce – non è
annoverabile l’art. 37 co. 11 citato). A quest’ultimo
proposito, per di più, non può non notarsi come la sentenza
n. 11259 del 26.08.2003 di questo Tribunale, pure richiamata
dalla ricorrente, si limiti ad affermare l’ascrivibilità
all’appropriata categoria generale OG2 ( e non alla
parimenti generale categoria OG1) di opere da eseguirsi su
di un bene immobile sottoposto a tutela storico-artistica, e
non ad affermare il carattere assolutamente speciale delle
stesse.
Neppure, infine, appaiono in contrasto con la descritta
ricostruzione le affermazioni giurisprudenziali ricordate
dalla ricorrente, secondo cui il divieto di subappalto posto
dall’art. 37 Decr. Leg.vo 163/2006 non si applicherebbe solo
alle categorie di opere specializzate, bensì anche a quelle
generali, purché connotate da un elevato grado di
specificità e complessità: va notato, infatti, che tutte le
pronunzie richiamate riguardano la sola categoria di opere
OG11, rispetto alla quale però la cosa è ben spiegabile
proprio perché questa ha ad oggetto la fornitura, il
montaggio e la manutenzione di impianti tecnologici, così da
consentire la sostanziale valutazione (conformemente alla
lettera dell’art. 37, co. 11, Decr. Leg.vo 163/2006) delle
modalità degli interventi a farsi, e non delle sole
caratteristiche dei beni sui quali operare.
Del resto, l’impostazione qui seguita risulta anche conforme
ad un precedente giurisprudenziale richiamato dalla società
controinteressata e del tutto in termini, (TAR Marche n. 127
del 04.02.2005)
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 30.09.2014 n. 5122 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Allorquando
una tettoia sia di notevoli dimensioni ed incida in modo
significativo sull’assetto del territorio, pur se connessa
ad altro bene (c.d. principale) e di facile rimozione, si
sottrae per ciò stesso ad una definizione in termini di
pertinenza, il che implica il rilascio del titolo
concessorio.
Ed, infatti, con riguardo al concetto di «pertinenza»
assoggettata a mera «autorizzazione», detta giurisprudenza
ha evidenziato, da un lato, la diversità rispetto
all’articolo 817 c.c. che evoca un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale,
dall’altro, che per potersi avere pertinenza è
indispensabile che il manufatto destinato sia di dimensioni
ridotte ragion per cui, «soggiace a concessione edilizia la
realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che
modifica l’assetto del territorio e che occupa aree diverse
rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo
di servizio o d’ornamento nei riguardi di essa».
Nel caso, è facile osservare come le dimensioni del
manufatto, lungi dal poter essere definite “modeste”, devono
invece ritenersi considerevoli in quanto la superficie della
tettoia in discussione è pari a mq. 70.
La giurisprudenza si è costantemente orientata nel senso
che, allorquando una tettoia sia di notevoli dimensioni ed
incida in modo significativo sull’assetto del territorio,
pur se connessa ad altro bene (c.d. principale) e di facile
rimozione, si sottrae per ciò stesso ad una definizione in
termini di pertinenza, il che implica il rilascio del titolo
concessorio (Consiglio di Stato, sez. V, 28.04.2014, n.
2196; 19.07.2013. n. 3939).
Ed, infatti, con riguardo al concetto di «pertinenza»
assoggettata a mera «autorizzazione», detta
giurisprudenza ha evidenziato, da un lato, la diversità
rispetto all’articolo 817 c.c. che evoca un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale,
dall’altro, che per potersi avere pertinenza è
indispensabile che il manufatto destinato sia di dimensioni
ridotte ragion per cui, «soggiace a concessione edilizia
la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che
modifica l’assetto del territorio e che occupa aree diverse
rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo
di servizio o d’ornamento nei riguardi di essa».
Nel caso, è facile osservare come le dimensioni del
manufatto, lungi dal poter essere definite “modeste”,
devono invece ritenersi considerevoli in quanto la
superficie della tettoia in discussione è pari a mq. 70,
come si evince dal rapporto distinto con il n. 346 del
20.07.2010
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 30.09.2014 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia
dell’amministrazione, comporta la nascita di una posizione
di affidamento nel privato cittadino, in relazione alla
quale l’esercizio del potere repressivo è subordinato ad un
onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche
all’entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico
interesse, diverso da quello relativo al mero ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
Il ricorrente censura quindi l’ordinanza per difetto di
motivazione ed eccesso di potere con riguardo alla mancata
indicazione di un interesse pubblico specifico e diverso
rispetto a quello del ripristino della legalità violata. Il
motivo è fondato.
Dal rapporto n. 346 in data 20.07.2010, della Polizia
Municipale del comune di Settefrati emerge, infatti, che «presumibilmente
l’opera è stata iniziata e terminata dopo il sisma del
08/05/1984» il che sostiene la circostanza fondante la
censura.
Ciò posto, deve allora applicarsi il pacifico orientamento
secondo il quale, il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia
dell’amministrazione, comporta la nascita di una posizione
di affidamento nel privato cittadino, in relazione alla
quale l’esercizio del potere repressivo è subordinato ad un
onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche
all’entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico
interesse, diverso da quello relativo al mero ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato (Consiglio di Stato, sez. V,
03.10.2013, n. 4889; sez. V, 24.10.2013, n. 5158)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 30.09.2014 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nelle
gare di appalto, l’aggiudicazione provvisoria è atto
endoprocedimentale che determina una scelta non ancora
definitiva del soggetto aggiudicatario della gara.
La possibilità che ad un’aggiudicazione provvisoria non
segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico,
disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del
D.Lgs. n. 163 del 2006, inidoneo di per sé a ingenerare
qualunque affidamento tutelabile e obbligo risarcitorio,
qualora non sussista nessuna illegittimità nell'operato
dell'Amministrazione, a prescindere dall'inserimento nel
bando di apposita clausola che preveda l'eventualità di non
dare luogo alla gara o di revocarla.
Legittimamente la Stazione appaltante provvede alla revoca
di procedura di gara senza che occorra una completa
istruttoria e un'adeguata motivazione circa l'interesse
pubblico, laddove il provvedimento di revoca intervenga
anteriormente alla aggiudicazione provvisoria, nonché
laddove risulti che nella lex specialis di gara era inserito
l'avviso ai partecipanti della facoltà della P.A. di non dar
luogo alla gara o revocarla; in siffatta ipotesi infatti non
sussiste alcun affidamento in capo ai partecipanti alla gara
pubblica di appalto, meritevole di tutela.
---------------
La responsabilità precontrattuale -seppur configurabile in
astratto anche in presenza di una revoca legittima degli
atti di gara nel caso di affidamento suscitato nell'impresa-
non è configurabile anteriormente alla scelta del
contraente, nella fase, cioè, in cui gli interessati non
abbiano ancora la qualità di futuri contraenti, ma soltanto
quella di partecipanti alla gara e vantino esclusivamente
una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio
dei poteri della pubblica amministrazione, mentre non
sussiste una relazione specifica di svolgimento delle
trattative.
La censura è infondata e da disattendere.
Occorre, in via prioritaria, chiarire che la revoca della
procedura di gara è intervenuta prima dell’aggiudicazione
provvisoria della stessa, come si evince chiaramente dalla
lettura del provvedimento impugnato laddove si afferma
testualmente “di non dover riconoscere alcun indennizzo
nei confronti dei ricorrenti, in quanto la revoca interviene
in una fase antecedente all’aggiudicazione provvisoria in
cui non si sono consolidate le posizioni dei concorrenti
stessi e non è maturato alcun vincolo giuridicamente
perfezionato”.
Né tale circostanza, ribadita dall’Ente Parco nella memoria
difensiva depositata il 29.06.2013, è stata smentita dalla
ditta ricorrente.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza,
condiviso dal Collegio, nelle gare di appalto,
l’aggiudicazione provvisoria è atto endoprocedimentale che
determina una scelta non ancora definitiva del soggetto
aggiudicatario della gara. La possibilità che ad
un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva è
un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt.
11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del D.Lgs. n. 163 del 2006,
inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento
tutelabile e obbligo risarcitorio, qualora non sussista
nessuna illegittimità nell'operato dell'Amministrazione, a
prescindere dall'inserimento nel bando di apposita clausola
che preveda l'eventualità di non dare luogo alla gara o di
revocarla (Cfr. Consiglio di Stato Sez. III - sentenza
24.05.2013, n. 2838).
Ne discende che nel caso di specie, in assenza anche della
sola aggiudicazione provvisoria, nonché in presenza
dell’avviso ai partecipanti nella determinazione n. 646 del
14.12.2012 della facoltà della P.A. di non procedere
all’aggiudicazione in caso di perfezionamento dell’intesa
con il Comune di San Martino D’Agri per la realizzazione
unitaria degli interventi finanziati dal PSR regionale, non
sussiste alcun affidamento ingenerato nei partecipanti e,
quindi, nella ditta ricorrente e conseguentemente sotto tale
profilo appaiono del tutto destituite di fondamento le
censure dalla stessa sollevate.
---------------
Né, infine, alla luce della richiamata posizione di mero
partecipante alla gara, può dirsi ravvisabile nella
fattispecie un’ipotesi di responsabilità precontrattuale,
che, pur configurabile in astratto anche in presenza di una
revoca legittima degli atti di gara nel caso di affidamento
suscitato nell'impresa (in tal senso la più recente
giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, Ad. plen.,
05.09.2005, n. 6; Id., sez. V, 30.11.2007, n. 6137; Id.,
sez. V, 08.10.2008, n. 4947), secondo un consolidato
orientamento, dal quale il Collegio non ritiene di
discostarsi (Cass. Civ., Sez. I, 18.6.2005, n. 13164; Cons.
St., A.P. 05.09.2005, n. 6; Sez. IV, 11.11.2008, n. 5633; da
ultimo, Cons. St., V, 08.09.2010, n. 6489), non è
configurabile anteriormente alla scelta del contraente,
nella fase, cioè, in cui gli interessati non hanno ancora la
qualità di futuri contraenti, ma soltanto quella di
partecipanti alla gara e vantano esclusivamente una
posizione di interesse legittimo al corretto esercizio dei
poteri della pubblica amministrazione, mentre non sussiste
una relazione specifica di svolgimento delle trattative
(Cass. S.U. 26.05.1997, n. 4673)
(TAR Basilicata,
sentenza 30.09.2014 n. 707 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
la configurazione della qualità di soggetto
controinteressato risulta necessaria sia la presenza di un
interesse al mantenimento della situazione esistente (cd.
elemento sostanziale), sia l’espressa indicazione dei
titolari di tale interesse nel provvedimento impugnato (cd.
elemento formale).
Più precisamente, nella materia dell’edilizia i proprietari
confinanti hanno la legittimazione attiva in relazione
all’impugnazione delle autorizzazioni edilizie, rilasciate
ai vicini, ma non rivestono la qualità di controinteressati
nelle controversie, azionate dai vicini destinatari dei
provvedimenti repressivi, anche se sono stati proprio loro a
denunciare le irregolarità.
Secondo un prevalente e condivisibile orientamento
giurisprudenziale (cfr. C.d.S. Sez. IV n. 5776 del
04.12.2013 e n. 4233 del 13.07.2011) per la configurazione
della qualità di soggetto controinteressato risulta
necessaria sia la presenza di un interesse al mantenimento
della situazione esistente (cd. elemento sostanziale), sia
l’espressa indicazione dei titolari di tale interesse nel
provvedimento impugnato (cd. elemento formale).
Più precisamente, nella materia dell’edilizia i proprietari
confinanti hanno la legittimazione attiva in relazione
all’impugnazione delle autorizzazioni edilizie, rilasciate
ai vicini, ma non rivestono la qualità di controinteressati
nelle controversie, azionate dai vicini destinatari dei
provvedimenti repressivi, anche se sono stati proprio loro a
denunciare le irregolarità (sul punto cfr. per es. C.d.S.
Sez. IV n. 3380 del 06.06.2011)
(TAR Basilicata,
sentenza 30.09.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine decadenziale ex art. 29 Cod. Proc.
Amm. di 60 giorni per l’impugnazione del permesso di
costruire, con riferimento alle violazioni diverse dalle
distanze tra i fabbricati, decorre dopo che siano avvenute
sia la pubblicazione nell’Albo Pretorio dell’apposito
avviso, sia l’effettivo inizio dei lavori con l’esposizione
nel cantiere del cartello con gli estremi del permesso di
costruire rilasciato.
Sul punto va evidenziato che secondo questo Tribunale (cfr.
Sentenze nn. 515 e 517 del 04.09.2007, n. 337 del
27.06.2008, n. 65 del 05.03.2009; n. 202 del 15.05.2009 e n.
27 del 20.01.2010), tenuto conto del combinato disposto di
cui agli artt. 20, comma 6, penultimo ed ultimo periodo, DPR
n. 380/2001 e 41, comma 2, Cod. Proc. Amm. ed eccetto il
caso in cui il Comune impedisce l’accesso agli atti, il
termine decadenziale ex art. 29 Cod. Proc. Amm. di 60 giorni
per l’impugnazione del permesso di costruire, con
riferimento alle violazioni diverse dalle distanze tra i
fabbricati, decorre dopo che siano avvenute sia la
pubblicazione nell’Albo Pretorio dell’apposito avviso, sia
l’effettivo inizio dei lavori con l’esposizione nel cantiere
del cartello con gli estremi del permesso di costruire
rilasciato
(TAR Basilicata,
sentenza 30.09.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 4, comma 2, DPR n. 380/2001 la
Commissione Edilizia non costituisce più un organo
obbligatorio, in quanto i Comuni devono contemplarla in un
apposito Regolamento, che ne disciplina la composizione ed
il funzionamento, indicando soprattutto “gli interventi
sottoposti al preventivo parere di tale organo consultivo”.
Inoltre, la Commissione Edilizia non può più essere composta
da politici, ma solo da professionisti e/o esperti del
settore, atteso che dopo l’entrata in vigore del principio
della separazione tra poteri di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e
l’emanazione di tutti gli atti di gestione amministrativa,
attribuita esclusivamente ai Dirigenti, sancito prima dalla
Leggi n. 142/1990 e n. 127/1997 e poi dall’art. 107 D.Lg.vo
n. 267/2000 (cfr. pure art. 4 D.Lg.vo n. 165/2001), sia
l’istruttoria, sia l’emanazione del provvedimento conclusivo
dei procedimenti edilizi compete solo ai Dirigenti e/o
funzionari comunali.
Comunque, tale censura risulta pure irrilevante, sia perché
il parere endoprocedimentale della Commissione Edilizia e/o
del competente funzionario comunale non è mai di natura
vincolante, sia perché la normativa in materia di edilizia è
sempre di tipo vincolato e mai di carattere discrezionale.
Sul punto, va rilevato che ai sensi dell’art. 4, comma 2,
DPR n. 380/2001 la Commissione Edilizia non costituisce più
un organo obbligatorio, in quanto i Comuni devono
contemplarla in un apposito Regolamento, che ne disciplina
la composizione ed il funzionamento, indicando soprattutto “gli
interventi sottoposti al preventivo parere di tale organo
consultivo”.
Inoltre, la Commissione Edilizia non può più essere composta
da politici, ma solo da professionisti e/o esperti del
settore, atteso che dopo l’entrata in vigore del principio
della separazione tra poteri di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e
l’emanazione di tutti gli atti di gestione amministrativa,
attribuita esclusivamente ai Dirigenti, sancito prima dalla
Leggi n. 142/1990 e n. 127/1997 e poi dall’art. 107 D.Lg.vo
n. 267/2000 (cfr. pure art. 4 D.Lg.vo n. 165/2001), sia
l’istruttoria, sia l’emanazione del provvedimento conclusivo
dei procedimenti edilizi compete solo ai Dirigenti e/o
funzionari comunali.
Comunque, tale censura risulta pure irrilevante, sia perché
il parere endoprocedimentale della Commissione Edilizia e/o
del competente funzionario comunale non è mai di natura
vincolante, sia perché la normativa in materia di edilizia è
sempre di tipo vincolato e mai di carattere discrezionale
(TAR Basilicata,
sentenza 30.09.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La ristrutturazione edilizia mediante demolizione
e ricostruzione può essere effettuata soltanto nel caso di
preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura, cioè di un
immobile in stato di conservazione tale da consentire la sua
fedele ricostruzione, mentre la ricostruzione di un rudere
e/o di un immobile diruto costituisce a tutti gli effetti
una nuova opera, che, come tale, risulta assoggettata ai
limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica.
Sul punto, va rilevato che secondo un condivisibile e
prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr. C.d.S. Sez.
V n. 3221 dell’11.06.2013; C.d.S. Sez. V n. 1452
dell’08.03.2011; Cd.S. Sez. IV n. 7476 del 13.10.2010;
C.d.S. Sez. IV n. 5375 del 15.09.2006; C.d.S. Sez. IV n.
5791 dell’08.07.2004; C.d.S. Sez. V n. 2142 del 15.04.2004;
C.d.S. Sez. V n. 475 del 10.02.2004; C.d.S. Sez. V n. 2021
dell’01.12.1999; C.d.S. Sez. V n. 740 del 10.03.1997; C.d.S.
Sez. V n. 1261 del 04.11.1994; TAR Salerno Sez. I n. 2244
del 05.12.2012; TAR Catanzaro n. 581 del 13.06.2012; TAR
Umbria n. 159 del 27.04.2012; TAR Napoli Sez. III n. 1645 del
05.04.2012; TAR Lecce Sez. III n. 491 del 12.03.2012; TAR
Catania Sez. I n. 73 del 13.01.2012; TAR Palermo Sez. III n.
1 del 04.01.2012; TAR Napoli Sez. II n. 1593 del 21.03.2011;
TAR Milano Sez. II n. 3968 dell’11.06.2009; TAR Molise n. 98
del 27.03.2009; TAR Veneto Sez. II n. 1667 del 05.06.2008;
TAR Trento n. 84 del 15.03.2005; TAR Liguria Sez. I n. 451
del 03.04.2003) la ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione può essere effettuata soltanto
nel caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di
mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, cioè di
un immobile in stato di conservazione tale da consentire la
sua fedele ricostruzione, mentre la ricostruzione di un
rudere e/o di un immobile diruto costituisce a tutti gli
effetti una nuova opera, che, come tale, risulta
assoggettata ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina
urbanistica
(TAR Basilicata,
sentenza 30.09.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Comodato revocabile per crisi. L'immobile può essere
riassegnato per motivi economici.
La Corte di cassazione sull'occupazione della casa coniugale
a seguito di separazione.
Comodato revocato causa crisi finanziaria. Motivi seri e
urgenti come, ad esempio, la mancanza di liquidità e il
crollo dei consumi, possono giustificare la revoca del
comodato della casa coniugale assegnata dal giudice della
separazione a nuora e nipoti.
Confermando l'orientamento
generale sancito dalle Sezioni unite della Suprema corte
poco più di dieci anni fa, il Massimo consesso del
Palazzaccio, con la
sentenza
29.09.2014 n. 20448,
Sezz. Unite civili, ha respinto il ricorso del proprietari della casa data in
comodato al figlio e alla nuora che, dopo la separazione, ne
era divenuta l'assegnataria.
I Supremi giudici hanno dato torto all'anziano che non era
riuscito a provare la necessità urgente del rilascio
dell'immobile, come una accertata crisi finanziaria.
In particolare, secondo l'orientamento confermato, «in
ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di
un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a
casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione
in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o
convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza
loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di
divorzio, non modifica la forma e il contenuto del titolo di
godimento sull'immobile, ma determina una concentrazione in
capo alla persona dell'assegnatario, di detto titolo di
godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato,
con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la
continuazione del godimento per l'uso previsto dal
contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente e
imprevisto bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c.».
Né una successiva decisione opposta del 2007, rimasta
peraltro isolata, né i dubbi sollevati con l'ordinanza di
remissione della questione, nuovamente alle Sezioni unite,
sono riuscite a far vacillare l'ormai consolidato principio.
Di fatto, però, questa volta il Massimo consesso di Piazza
Cavour ha suggerito quali potrebbero essere dei validi
motivi per il rilascio dell'immobile: uno, fra tutti, la
necessità di vendita e di locazione per mancanza di
liquidità. In un passaggio chiave della sentenza, infatti,
si legge espressamente che «il bisogno per la revoca del
contratto non deve essere grave, ma solo imprevisto»,
quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e
urgente. Urgenza, quest'ultima, da intendersi come
imminenza. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non
voluttuario, né capriccioso o ritorsivo.
«Pertanto», hanno affermato i giudici, «non solo
la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire
imprevisto del deterioramento della condizione economica,
che obiettivamente giustifichi la restituzione del bene
anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione
del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche
se la destinazione sia quella di casa familiare»
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2014).
---------------
MASSIMA
Il comodante può richiedere la
restituzione dell’immobile della “casa familiare” quando c’è
un bisogno ex art. 1809 c.c. La portata di questo bisogno
non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto,
quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e
urgente.
L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando
quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non
concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente
il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né
capriccioso o artificiosamente indotto.
Pertanto. non solo la necessità di uso diretto, ma anche il
sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione
economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione
del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia
locazione del bene immobile, consente di porre fine al
comodato anche se la destinazione sia quella di casa
familiare.
È da notare soltanto che, essendo in gioco valori della
persona, ed in particolare le esigenze di tutela della
prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra,
giustifica massima attenzione in quel controllo di
proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia
contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il
bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo
compara al contrapposto interesse del comodatario
(massima tratta da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
piano urbanistico, la costruzione o il posizionamento di una
canna fumaria costituisce un intervento che nella previgente
normativa richiedeva un’autorizzazione edilizia (v. art. 7,
comma 2-a, del DL 23.01.1982 n. 9) e attualmente è
subordinato a DIA semplice (v. art. 4, comma 7-f, del DL
05.10.1993 n. 398; art. 22, commi 1 e 2, del DPR 380/2001).
Questo inquadramento si fonda sull’assimilazione delle canne
fumarie ai volumi tecnici e sul collegamento funzionale tra
le canne fumarie e gli impianti tecnologici. Ne consegue che
l’esecuzione senza titolo di tali opere ricade nella
disciplina sulla regolarizzazione di cui all’art. 37 del DPR
380/2001.
Più in dettaglio, sembra applicabile l’ipotesi prevista dal
comma 4 dell’art. 37 del DPR 380/2001 (regolarizzazione in
presenza di conformità urbanistica), in quanto la nota
dirigenziale del 22.01.2010, con la quale sono stati
comunicati i motivi ostativi al rilascio del titolo edilizio
per il prolungamento della canna fumaria, non menziona
impedimenti di natura urbanistica.
---------------
Sul piano paesistico, parimenti, la canna fumaria è sanabile
ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42,
non essendo idonea a formare volume o superficie utile.
---------------
Quanto è sanabile sul piano urbanistico e paesistico
potrebbe però non esserlo in relazione alla normativa
igienico-sanitaria. Questo è precisamente il problema nel
caso in esame, in quanto la collocazione della canna fumaria
al di sotto e in prossimità delle finestre degli
appartamenti comunali si pone in diretto contrasto con gli
art. 3.4.32 e 3.4.43 del titolo III del regolamento locale
di igiene.
Il contrasto con una norma igienico-sanitaria può essere
risolto in vari modi: con una deroga, con la modifica del
manufatto non conforme, o con la rimozione dello stesso.
Esclusa l’ipotesi della deroga, che non è stata chiesta
neppure dalla ricorrente, l’amministrazione è tenuta, per il
principio di proporzionalità, ad applicare la misura meno
afflittiva per il privato, a parità di beneficio per
l’interesse pubblico.
La particolarità del caso in esame consiste nel fatto che la
misura meno afflittiva, ossia la sopraelevazione della canna
fumaria oltre il colmo dell’edificio di proprietà comunale,
richiede anche un assenso di natura privatistica da parte
del Comune. Quest’ultimo dovrebbe infatti concedere una
servitù di appoggio del tubo al muro dell’edificio comunale.
Il rifiuto del Comune di concedere tale servitù non appare
condivisibile. L’elemento privatistico si inserisce in
realtà in una fattispecie amministrativa, e dunque viene
attratto negli schemi pubblicistici applicabili a
quest’ultima. Occorre infatti sottolineare che l’utilizzo
privatistico dei propri beni da parte del Comune è comunque
sottoposto ai principi generali di buona fede e di
astensione dai comportamenti emulativi. Questi principi si
trasformano in un obbligo rafforzato di collaborazione
quando la concessione di un diritto marginale sui beni
comunali potrebbe mettere il privato nella condizione di
risolvere un problema che arreca danno all’interesse
pubblico. A maggior ragione, l’obbligo di collaborazione si
manifesta quando il problema che il privato potrebbe
risolvere incide negativamente sugli stessi beni comunali.
Il Comune come autorità locale in materia igienico-sanitaria
deve quindi imporre la sopraelevazione della canna fumaria
che disturba gli appartamenti vicini, e come proprietario
dell’edificio a cui può essere appoggiato il tubo è tenuto a
permettere tale operazione attraverso la costituzione di
un’apposita servitù. In questo quadro il diniego della
servitù non è affatto insindacabile, e potrebbe
giustificarsi solo in relazione a un prevalente interesse
pubblico, che nello specifico non è stato indicato.
La servitù di appoggio non deve essere necessariamente a
titolo gratuito, né incondizionata o perenne. Il Comune può
infatti esigere un corrispettivo adeguato all’utilità
concessa al privato, e allo stesso modo può stabilire
prescrizioni o condizioni a tutela del proprio bene e delle
future utilizzazioni.
... per l'annullamento:
- dell’ordinanza del responsabile del Settore Edilizia
Privata n. 62 del 20.07.2010, con la quale è stata ingiunta
la rimozione di una canna fumaria realizzata in assenza di
titolo edilizio;
- della nota del responsabile del Settore Edilizia Privata
prot. n. 1224 del 22.01.2010, nella quale sono esposti i
motivi ostativi al rilascio del titolo edilizio per il
prolungamento in altezza della canna fumaria;
...
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono
svolgere le seguenti considerazioni:
(a) un titolo edilizio che autorizzi la canna fumaria
esistente non è stato rintracciato. Occorre quindi esaminare
la vicenda contenziosa sul presupposto della mancanza di un
titolo specifico;
(b) sul piano urbanistico, la costruzione o il
posizionamento di una canna fumaria costituisce un
intervento che nella previgente normativa richiedeva
un’autorizzazione edilizia (v. art. 7, comma 2-a, del DL
23.01.1982 n. 9) e attualmente è subordinato a DIA semplice
(v. art. 4, comma 7-f, del DL 05.10.1993 n. 398; art. 22,
commi 1 e 2, del DPR 380/2001). Questo inquadramento si
fonda sull’assimilazione delle canne fumarie ai volumi
tecnici e sul collegamento funzionale tra le canne fumarie e
gli impianti tecnologici (v. TAR Bari Sez. III 30.10.2012 n.
1859). Ne consegue che l’esecuzione senza titolo di tali
opere ricade nella disciplina sulla regolarizzazione di cui
all’art. 37 del DPR 380/2001 (v. TAR Brescia Sez. II
16.01.2013 n. 37);
(c) più in dettaglio, sembra applicabile l’ipotesi prevista
dal comma 4 dell’art. 37 del DPR 380/2001 (regolarizzazione
in presenza di conformità urbanistica), in quanto la nota
dirigenziale del 22.01.2010, con la quale sono stati
comunicati i motivi ostativi al rilascio del titolo edilizio
per il prolungamento della canna fumaria, non menziona
impedimenti di natura urbanistica;
(d) è vero che tale nota deve ancora essere seguita da un
formale provvedimento di diniego, il quale almeno in
astratto potrebbe anche argomentare sulla mancanza di
conformità urbanistica. Tuttavia, considerato il tempo
trascorso, si può ritenere che la posizione del Comune abbia
ormai assunto un contenuto definitivo;
(e) sul piano paesistico, parimenti, la canna fumaria è
sanabile ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42, non essendo idonea a formare volume o
superficie utile. Del resto, circa il prolungamento della
canna fumaria il Comune si è già espresso favorevolmente con
l’autorizzazione paesistica dell’11.05.2009, e dunque non
sembrano esservi ostacoli neppure alla regolarizzazione del
manufatto esistente, che ha dimensioni più contenute;
(f) quanto è sanabile sul piano urbanistico e paesistico
potrebbe però non esserlo in relazione alla normativa
igienico-sanitaria. Questo è precisamente il problema nel
caso in esame, in quanto la collocazione della canna fumaria
al di sotto e in prossimità delle finestre degli
appartamenti comunali si pone in diretto contrasto con gli
art. 3.4.32 e 3.4.43 del titolo III del regolamento locale
di igiene;
(g) il contrasto con una norma igienico-sanitaria può essere
risolto in vari modi: con una deroga, con la modifica del
manufatto non conforme, o con la rimozione dello stesso;
(h) esclusa l’ipotesi della deroga, che non è stata chiesta
neppure dalla ricorrente, l’amministrazione è tenuta, per il
principio di proporzionalità, ad applicare la misura meno
afflittiva per il privato, a parità di beneficio per
l’interesse pubblico;
(i) la particolarità del caso in esame consiste nel fatto
che la misura meno afflittiva, ossia la sopraelevazione
della canna fumaria oltre il colmo dell’edificio di
proprietà comunale, richiede anche un assenso di natura
privatistica da parte del Comune. Quest’ultimo dovrebbe
infatti concedere una servitù di appoggio del tubo al muro
dell’edificio comunale;
(j) il rifiuto del Comune di concedere tale servitù non
appare condivisibile. L’elemento privatistico si inserisce
in realtà in una fattispecie amministrativa, e dunque viene
attratto negli schemi pubblicistici applicabili a
quest’ultima. Occorre infatti sottolineare che l’utilizzo
privatistico dei propri beni da parte del Comune è comunque
sottoposto ai principi generali di buona fede e di
astensione dai comportamenti emulativi. Questi principi si
trasformano in un obbligo rafforzato di collaborazione
quando la concessione di un diritto marginale sui beni
comunali potrebbe mettere il privato nella condizione di
risolvere un problema che arreca danno all’interesse
pubblico. A maggior ragione, l’obbligo di collaborazione si
manifesta quando il problema che il privato potrebbe
risolvere incide negativamente sugli stessi beni comunali;
(k) il Comune come autorità locale in materia
igienico-sanitaria deve quindi imporre la sopraelevazione
della canna fumaria che disturba gli appartamenti vicini, e
come proprietario dell’edificio a cui può essere appoggiato
il tubo è tenuto a permettere tale operazione attraverso la
costituzione di un’apposita servitù. In questo quadro il
diniego della servitù non è affatto insindacabile, e
potrebbe giustificarsi solo in relazione a un prevalente
interesse pubblico, che nello specifico non è stato
indicato;
(l) la servitù di appoggio non deve essere necessariamente a
titolo gratuito, né incondizionata o perenne. Il Comune può
infatti esigere un corrispettivo adeguato all’utilità
concessa al privato, e allo stesso modo può stabilire
prescrizioni o condizioni a tutela del proprio bene e delle
future utilizzazioni.
12. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati. L’effetto
conformativo della presente pronuncia impone al Comune di
concedere la servitù di appoggio, come sopra specificato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.09.2014 n. 999 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: (a)
i divieti di edificazione e movimento terra previsti
dall’art. 96, comma 1-f, del RD 523/1904 a tutela del
vincolo idraulico (integrati a livello locale dalla
disciplina regionale di cui alla DGR n. 7/7868 del
25.01.2002, e successive modifiche, sulla polizia idraulica
di competenza comunale) devono essere intesi non tanto come
strumenti di protezione dello stato attuale dei luoghi, ma
come misure dirette a impedire l’alterazione del regolare
deflusso delle acque;
(b) per alcuni interventi edilizi le due situazioni tendono
a coincidere (ad esempio, una nuova costruzione altera lo
stato dei luoghi e pone con la sua sola presenza un ostacolo
al regolare deflusso delle acque, talvolta un ostacolo
attuale, talvolta un ostacolo connesso al verificarsi di
particolari eventi meteorologici). Per altre opere è invece
più agevole tenere distinto l’aspetto della modifica dello
stato dei luoghi da quello del regolare deflusso delle
acque;
(c) la necessità di questa distinzione si manifesta
specificamente nei movimenti terra finalizzati a riparare o
modificare le infrastrutture presenti. La sistemazione o
l’ampliamento di una strada possono in effetti comportare la
modifica dell’alveo di un torrente, ma questo non significa
che tali interventi siano automaticamente in contrasto con
il vincolo idraulico. In realtà, il compito dei comuni
nell’esercizio delle funzioni di polizia idraulica è proprio
quello di individuare le condizioni tecniche idonee a
garantire il potenziamento delle infrastrutture e allo
stesso tempo il mantenimento (e se possibile il
miglioramento) del regolare deflusso delle acque;
... per l'annullamento dell’ordinanza del dirigente del
Servizio Tecnico n. 1 del 04.01.2007, con la quale è stato
annullato il permesso di costruire rilasciato il 06.05.2005
ed è stata ingiunta la demolizione di alcune opere abusive
realizzate nei pressi di via Odas;
...
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono
svolgere le seguenti considerazioni:
(a) i divieti di edificazione e movimento terra previsti
dall’art. 96, comma 1-f, del RD 523/1904 a tutela del vincolo
idraulico (integrati a livello locale dalla disciplina
regionale di cui alla DGR n. 7/7868 del 25.01.2002, e
successive modifiche, sulla polizia idraulica di competenza
comunale) devono essere intesi non tanto come strumenti di
protezione dello stato attuale dei luoghi, ma come misure
dirette a impedire l’alterazione del regolare deflusso delle
acque;
(b) per alcuni interventi edilizi le due situazioni tendono
a coincidere (ad esempio, una nuova costruzione altera lo
stato dei luoghi e pone con la sua sola presenza un ostacolo
al regolare deflusso delle acque, talvolta un ostacolo
attuale, talvolta un ostacolo connesso al verificarsi di
particolari eventi meteorologici). Per altre opere è invece
più agevole tenere distinto l’aspetto della modifica dello
stato dei luoghi da quello del regolare deflusso delle
acque;
(c) la necessità di questa distinzione si manifesta
specificamente nei movimenti terra finalizzati a riparare o
modificare le infrastrutture presenti. La sistemazione o
l’ampliamento di una strada possono in effetti comportare la
modifica dell’alveo di un torrente, ma questo non significa
che tali interventi siano automaticamente in contrasto con
il vincolo idraulico. In realtà, il compito dei comuni
nell’esercizio delle funzioni di polizia idraulica è proprio
quello di individuare le condizioni tecniche idonee a
garantire il potenziamento delle infrastrutture e allo
stesso tempo il mantenimento (e se possibile il
miglioramento) del regolare deflusso delle acque;
(d) nello specifico, la circostanza che l’amministrazione
abbia rilasciato l’originario permesso di costruire in data
06.05.2005 dimostra l’esistenza di un interesse pubblico
alla sistemazione dell’alveo del torrente e alla messa in
sicurezza della strada demaniale, che risulta esposta alle
esondazioni. Questo interesse è compatibile con quello dei
privati a migliorare il transito sulla medesima strada,
ampliandone il sedime e prolungandone il tracciato verso le
loro proprietà. Al vantaggio per la sicurezza della
viabilità si aggiunge l’assenza di oneri per
l’amministrazione;
(e) naturalmente, non devono essere causati danni alla
proprietà di terzi, né la stessa deve essere invasa senza
uno specifico atto di assenso, ma su questo punto i
ricorrenti avevano già provveduto a formulare alcune
correzioni con la richiesta di variante. Una volta ricevuta
l’istanza, era compito degli uffici comunali verificare
l’adeguatezza del nuovo progetto e imporre eventuali
modifiche tramite prescrizioni tecniche. Un’eventuale
ordinanza di demolizione avrebbe potuto riguardare solo i
lavori già eseguiti non approvati in sede di variante;
(f) in definitiva, la presenza del vincolo idraulico non
impedisce la realizzazione di un intervento come quello
proposto dai ricorrenti, a condizione che il Comune (anche
avvalendosi delle competenti strutture tecniche regionali e
provinciali) stabilisca esattamente le prescrizioni tecniche
in grado di preservare, e possibilmente migliorare, il
regolare deflusso delle acque;
(g) non sussiste alcun impedimento neppure sotto il profilo
urbanistico, in quanto la classificazione della strada in
zona agricola non determina l’immodificabilità della stessa.
In realtà, il divieto di interventi edilizi desumibile dagli
art. 43 e 46 delle NTA deve essere riferito alle nuove
opere, ossia agli interventi che alterano per la prima volta
lo stato dei luoghi. Gli interventi di sistemazione e
ampliamento di infrastrutture esistenti, anche se non
espressamente menzionati nella disciplina urbanistica, sono
invece da considerare pienamente ammissibili quando siano
collegati a un preciso interesse pubblico, che nel caso in
esame è ravvisabile nella messa in sicurezza della viabilità
comunale.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati. L’effetto
conformativo derivante dalla presente pronuncia comporta
l’obbligo per il Comune di esaminare la richiesta di
variante al permesso di costruire originario, fermo restando
il potere di imporre modifiche al progetto per salvaguardare
e migliorare il regolare deflusso delle acque, e comunque
per minimizzare l’impatto ambientale dell’intervento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.09.2014 n. 998 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’incameramento della cauzione provvisoria, se
l'aggiudicatario non stipula il contratto, ex art. 30 della
l. 109/1994 (di contenuto analogo al vigente art. 75 del
d.lgs. 163/2006), garantisce l'obbligo di serietà
dell'offerta e, sempre “nella ratio della disposizione,
l'incameramento della cauzione non esclude, però, la
possibilità del committente di richiedere il maggior danno
per la lesione patrimoniale derivatagli dal comportamento
dell'aggiudicatario… Nella scia dell'art. 332 della legge
sui lavori pubblici, l'art. 30 della legge n. 109/1994
configura la garanzia fideiussoria come una vera e propria
caparra confirmatoria e non già come semplice clausola
penale o pegno irregolare”.
Invero, diversamente da tali istituti, “ove il danno
sopportato dal creditore è risarcito con l'assegnazione,
sino a concorrenza, del pegno ad opera del giudice ovvero
con la promessa di una prestazione di una somma di danaro o
cose fungibili (art. 1382 c.c.), la caparra confirmatoria
consente all'amministrazione non solo di rivalersi
immediatamente sulle somme oggetto di cauzione che vengono
incamerate, sebbene di richiedere che le venga anche
risarcito il maggior danno da inadempimento”.
Tale interpretazione è stata espressamente condivisa da
successive decisioni dello stesso giudice, fino alla più
recente, per cui la cauzione provvisoria “oltre a svolgere
la funzione di garantire la serietà dell'offerta, sicché ove
l'aggiudicatario non stipuli il contratto decade
dall'aggiudicazione e la stessa [cauzione] viene incamerata
dall'appaltante, si configura come caparra confirmatoria, e
non come clausola penale o come pegno irregolare;
conseguentemente (…) al contraente beneficiario è
consentito, non solo di incamerare immediatamente le somme
oggetto della cauzione, ma anche di richiedere il
risarcimento del maggior danno da inadempimento”.
---------------
Come noto, l’art. 2932 c.c. stabilisce che, se colui il
quale è obbligato a concludere un contratto non adempie
l'obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile e non
sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che
produca gli effetti del contratto non concluso.
Ordinariamente, la norma si applica per conseguire il
trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la
costituzione o il trasferimento di un altro diritto, ma il
rimedio “deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi
di contratto preliminare non seguito da quello definitivo,
ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga
l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento
o la costituzione di un diritto, sia in relazione a un
negozio unilaterale, sia in relazione a un atto o fatto dai
quali detto obbligo possa sorgere ex lege”.
A sua volta, come si è già accennato, l’art. 1385, II comma,
c.c., nel disciplinare l’istituto della caparra
confirmatoria, dispone che, se la parte che ha dato la
caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto,
ritenendo la caparra; se però la parte che non è
inadempiente preferisce domandare l'esecuzione o la
risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è
regolato dalle norme generali.
Ora, il rimedio di cui all’art. 2932 c.c. è finalizzato a
dare esecuzione a un contratto –ovvero ad un negozio
equivalente- ed è dunque alternativo alla scelta della
ritenzione della caparra confirmatoria, che appunto esclude
l’esecuzione.
A sua volta, come si è visto, secondo l’interpretazione
prevalente, la cauzione provvisoria è una caparra
confirmatoria: ma, diversamente da quella comune, essa per
legge –segnatamente l’art. 75, VI comma, d.lgs. 163/2006-
deve, e non può, essere incamerata dall’Amministrazione, nel
caso in cui l’aggiudicatario non voglia più sottoscrivere il
contratto.
Non sembra esservi dunque, per i contratti pubblici, se è prescritta la
cauzione provvisoria, la possibilità di preferire
l’esecuzione, e così, di avvalersi del rimedio di cui
all’art. 2932 c.c..
La regola è invece quella dell’incameramento della cauzione,
seguito, di norma, dalla stipulazione del contratto con il
concorrente seguente in graduatoria, se esistente, fatta
salva la richiesta dei danni ulteriori: d’altronde, l’azione
ex art. 2932 c.c. per la sua inevitabile durata, è
tendenzialmente incompatibile con le esigenze di efficienza
e di efficacia dell’attività amministrativa.
4.3.3. Tale soluzione è stata tuttavia contrastata dal
Consiglio di Stato, anzitutto con la decisione 29.03.2001, n. 1840, della IV Sezione.
Dopo aver rilevato che l’incameramento della cauzione
provvisoria, se l'aggiudicatario non stipula il contratto,
ex art. 30 della l. 109/1994 (di contenuto analogo al vigente
art. 75 del d.lgs. 163/2006), garantisce l'obbligo di serietà
dell'offerta, la sentenza aggiunge che, sempre “nella ratio
della disposizione, l'incameramento della cauzione non
esclude, però, la possibilità del committente di richiedere
il maggior danno per la lesione patrimoniale derivatagli dal
comportamento dell'aggiudicatario… Nella scia dell'art. 332
della legge sui lavori pubblici, l'art. 30 della legge n.
109/1994 configura la garanzia fideiussoria come una vera e
propria caparra confirmatoria e non già come semplice
clausola penale o pegno irregolare”.
Invero, prosegue la motivazione, diversamente da tali
istituti, “ove il danno sopportato dal creditore è risarcito
con l'assegnazione, sino a concorrenza, del pegno ad opera
del giudice ovvero con la promessa di una prestazione di una
somma di danaro o cose fungibili (art. 1382 c.c.), la
caparra confirmatoria consente all'amministrazione non solo
di rivalersi immediatamente sulle somme oggetto di cauzione
che vengono incamerate, sebbene di richiedere che le venga
anche risarcito il maggior danno da inadempimento”.
4.3.4. Tale interpretazione è stata espressamente condivisa
da successive decisioni dello stesso giudice (C.d.S., V, 01.10.2003, n. 5676; C.d.S., VI,
03.03.2004 n. 1058: ma
contra, nel senso della riconducibilità alla clausola
penale, C.d.S., V, 11 dicembre 2007, n. 6362), fino alla più
recente, per cui la cauzione provvisoria “oltre a svolgere
la funzione di garantire la serietà dell'offerta, sicché ove
l'aggiudicatario non stipuli il contratto decade
dall'aggiudicazione e la stessa [cauzione] viene incamerata
dall'appaltante, si configura come caparra confirmatoria, e
non come clausola penale o come pegno irregolare;
conseguentemente (…) al contraente beneficiario è
consentito, non solo di incamerare immediatamente le somme
oggetto della cauzione, ma anche di richiedere il
risarcimento del maggior danno da inadempimento” (C.d.S., V
15.04.2013, n. 2061; esattamente negli stessi termini si
è anche pronunciata Cass. s.u., 04.02.2009, n. 2634;
sulla funzione della cauzione provvisoria, v. anche C.d.S., a.p.
04.10.2005, n. 8).
5.1. Il Collegio non ritiene di potersi discostare da tale
conclusione, che porta linearmente, come si vedrà, ad
escludere la compatibilità dell’esecuzione specifica
dell'obbligo di concludere un contratto, ex art. 2932 c.c.
con l’istituto della cauzione provvisoria, quale caparra
confirmatoria, sia pure sui generis poiché non esclude il
risarcimento del danno ulteriore, rispetto alla somma
versata come cauzione, in contrasto con il combinato
disposto dell’art. 1385, II e III comma, c.c., che sembra –v. ultra– considerarli come alternativi.
5.2.1. Invero, come noto, l’art. 2932 c.c. stabilisce che,
se colui il quale è obbligato a concludere un contratto non
adempie l'obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile
e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che
produca gli effetti del contratto non concluso.
5.2.2. Ordinariamente, la norma si applica per conseguire il
trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la
costituzione o il trasferimento di un altro diritto, ma il
rimedio “deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi
di contratto preliminare non seguito da quello definitivo,
ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga
l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento
o la costituzione di un diritto, sia in relazione a un
negozio unilaterale, sia in relazione a un atto o fatto dai
quali detto obbligo possa sorgere ex lege” (Cass. 30.03.2012, n. 5160; e, nello stesso senso,
08.08.1987, n.
6792).
5.2.3. A sua volta, come si è già accennato, l’art. 1385, II
comma, c.c., nel disciplinare l’istituto della caparra
confirmatoria, dispone che, se la parte che ha dato la
caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto,
ritenendo la caparra; se però la parte che non è
inadempiente preferisce domandare l'esecuzione o la
risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è
regolato dalle norme generali.
5.2.4. Ora, il rimedio di cui all’art. 2932 c.c. è
finalizzato a dare esecuzione a un contratto –ovvero ad un
negozio equivalente- ed è dunque alternativo alla scelta
della ritenzione della caparra confirmatoria, che appunto
esclude l’esecuzione.
5.2.5. A sua volta, come si è visto, secondo
l’interpretazione prevalente, la cauzione provvisoria (quale
parte integrante dell’offerta, ex C.d.S., V, 12.09.2012, n. 4841) è una caparra confirmatoria: ma, diversamente
da quella comune, essa per legge –segnatamente l’art. 75, VI comma, d.lgs. 163/2006- deve, e non può, essere
incamerata dall’Amministrazione, nel caso in cui
l’aggiudicatario non voglia più sottoscrivere il contratto.
5.2.6. Non sembra esservi dunque, per i contratti pubblici,
se è prescritta la cauzione provvisoria, la possibilità di
preferire l’esecuzione, e così, di avvalersi del rimedio di
cui all’art. 2932 c.c..
La regola è invece quella dell’incameramento della cauzione,
seguito, di norma, dalla stipulazione del contratto con il
concorrente seguente in graduatoria, se esistente, fatta
salva la richiesta dei danni ulteriori: d’altronde, l’azione
ex art. 2932 c.c. per la sua inevitabile durata, è
tendenzialmente incompatibile con le esigenze di efficienza
e di efficacia dell’attività amministrativa.
5.3. In ogni caso, ove pure non si volesse riconoscere la
generale incompatibilità, secondo l’ordinamento positivo,
tra la cauzione provvisoria e l’esecuzione coattiva, non c’è
dubbio che, nel caso in esame, il rimedio ex art. 2932 c.c.
è comunque precluso, poiché il Comune di Commezzadura ha
proceduto –in corretta applicazione del bando di gara-
all’incameramento della cauzione, rinunciando all’esecuzione
e, pertanto, allo strumento processuale che ora
indebitamente invoca
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 29.09.2014 n. 333 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
materia di contratti pubblici, la giurisprudenza –sia pure
per l’ipotesi, decisamente più comune, che la richiesta
risarcitoria provenga dal privato e non dalla stazione
appaltante– ha chiarito che anche dopo l’aggiudicazione, se
questa sia successivamente revocata prima della stipulazione
del contratto, la responsabilità è di natura
precontrattuale: così, sussiste tale responsabilità della
stazione appaltante se questa, dopo aver bandito e
aggiudicato una gara, decida di non concludere il contratto
(e di revocare quindi gli atti di gara) a causa di una
sopravvenuta carenza di risorse finanziarie, imputabile a
una scelta consapevolmente e volontariamente effettuata,
“compiuta in un momento in cui già vi era un provvedimento
di aggiudicazione e, quindi, era configurabile in capo
all'aggiudicatario un tale affidamento meritevole di tutela
e di prudente considerazione”.
Ne consegue che dove al contratto non si è giunti, si può
astrattamente prendere in considerazione soltanto una
responsabilità precontrattuale della Gentilini, ex art. 1337
c.c. (“Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella
formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona
fede”).
Ora, come già accennato, nelle ipotesi di culpa in
contrahendo, il danno risarcibile non comprende ciò che la
parte avrebbe ricavato dalla stipulazione del contratto, ma
è costituito unicamente dalle perdite che sono derivate
dall'aver fatto affidamento nella conclusione del contratto
e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle
altre occasioni contrattuali perdute; l’interesse negativo,
è, invero quello “a non essere coinvolto in trattative
inutili, a non investire inutilmente tempo e risorse
economiche partecipando a trattative (o, nello specifico, a
gare d'appalto) destinate poi a rivelarsi del tutto inutili
a causa del recesso scorretto della controparte”.
Per quanto concerne la responsabilità precontrattuale della
stazione appaltante, vi sono così inclusi:
a) il rimborso delle spese inutilmente sopportate in vista della
conclusione del contratto (cosiddetto "danno emergente");
b) la perdita di ulteriori occasioni di stipula di contratti
altrettanto o maggiormente vantaggiosi (cosiddetta perdita
di "chances") - per queste ultime ricercando la prova
attraverso il processo deduttivo elaborato dalla Cassazione
del "più probabile che non";
c) il danno curricolare, liquidato in via equitativa, ove sia già
sicura l'individuazione del contraente, per essere
intervenuta la revoca dopo l'aggiudicazione: non è invece
risarcibile “il mancato utile relativo alla specifica gara
d'appalto revocata, invece da considerare in caso di revoca
illegittima”, ciò che costituisce invece l’oggetto
principale della domanda dell’Ente qui ricorrente.
In particolare, sempre per il caso che sia la stazione
appaltante a recedere, “all'impresa aggiudicataria deve
essere risarcita la perdita della cd. chance contrattuale
alternativa, consistente nella rinuncia, a seguito
dell'aggiudicazione dell'appalto, ad altre proposte
contrattuali provenienti da altre possibili committenti”,
danno per cui è sufficiente “che si dimostri che vi era una
reale e concreta possibilità di concludere un diverso e
fruttuoso contratto e che questo non è stato concluso
proprio per effetto dell'affidamento concretamente e
seriamente ingenerato dall'aggiudicazione poi indebitamente
ritirata dalla stazione appaltante”; e, se i possibili
contratti alternativi sono molteplici, andrà preso in
considerazione soltanto “un contratto di importo
assimilabile, per importanza, a quello oggetto della gara
revocata”.
6.3.1. In materia di
contratti pubblici, la giurisprudenza –sia pure per
l’ipotesi, decisamente più comune, che la richiesta
risarcitoria provenga dal privato e non dalla stazione
appaltante– ha chiarito che anche dopo l’aggiudicazione, se
questa sia successivamente revocata prima della stipulazione
del contratto, la responsabilità è di natura
precontrattuale: così, sussiste tale responsabilità della
stazione appaltante se questa, dopo aver bandito e
aggiudicato una gara, decida di non concludere il contratto
(e di revocare quindi gli atti di gara) a causa di una
sopravvenuta carenza di risorse finanziarie, imputabile a
una scelta consapevolmente e volontariamente effettuata,
“compiuta in un momento in cui già vi era un provvedimento
di aggiudicazione e, quindi, era configurabile in capo
all'aggiudicatario un tale affidamento meritevole di tutela
e di prudente considerazione” (C.d.S., VI, 01.02.2013,
n. 633).
6.3.2. Ne consegue che, nella fattispecie, dove al contratto
non si è giunti, si può astrattamente prendere in
considerazione –come rilevato peraltro dalla parte
resistente nelle sue difese– soltanto una responsabilità
precontrattuale della Gentilini, ex art. 1337 c.c. (“Le
parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione
del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”).
6.4.1. Ora, come già accennato, nelle ipotesi di culpa in contrahendo, il danno risarcibile non comprende ciò che la
parte avrebbe ricavato dalla stipulazione del contratto, ma
è costituito unicamente dalle perdite che sono derivate
dall'aver fatto affidamento nella conclusione del contratto
e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle
altre occasioni contrattuali perdute (ex multis, Cass. 10.06.2005, n. 12313); l’interesse negativo, è, invero
quello “a non essere coinvolto in trattative inutili, a non
investire inutilmente tempo e risorse economiche
partecipando a trattative (o, nello specifico, a gare
d'appalto) destinate poi a rivelarsi del tutto inutili a
causa del recesso scorretto della controparte” ( C.d.S., VI
01.02.2013, n. 633).
6.4.2. Per quanto concerne la responsabilità precontrattuale
della stazione appaltante, vi sono così inclusi “a) il
rimborso delle spese inutilmente sopportate in vista della
conclusione del contratto (cosiddetto "danno emergente"); b)
la perdita di ulteriori occasioni di stipula di contratti
altrettanto o maggiormente vantaggiosi (cosiddetta perdita
di "chances") - per queste ultime ricercando la prova
attraverso il processo deduttivo elaborato dalla Cassazione
del "più probabile che non"; c) il danno curricolare,
liquidato in via equitativa, ove sia già sicura
l'individuazione del contraente, per essere intervenuta la
revoca dopo l'aggiudicazione” (C.d.S., IV, 07.02.2012,
n. 662; in termini, id. III, 19.01.2012, n. 253): non è
invece risarcibile “il mancato utile relativo alla specifica
gara d'appalto revocata, invece da considerare in caso di
revoca illegittima” (C.d.S., VI, 05.09.2011, n. 5002),
ciò che costituisce invece l’oggetto principale della
domanda dell’Ente qui ricorrente.
6.4.3. In particolare, sempre per il caso che sia la
stazione appaltante a recedere, “all'impresa aggiudicataria
deve essere risarcita la perdita della cd. chance
contrattuale alternativa, consistente nella rinuncia, a
seguito dell'aggiudicazione dell'appalto, ad altre proposte
contrattuali provenienti da altre possibili committenti”,
danno per cui è sufficiente “che si dimostri che vi era una
reale e concreta possibilità di concludere un diverso e
fruttuoso contratto e che questo non è stato concluso
proprio per effetto dell'affidamento concretamente e
seriamente ingenerato dall'aggiudicazione poi indebitamente
ritirata dalla stazione appaltante”; e, se i possibili
contratti alternativi sono molteplici, andrà preso in
considerazione soltanto “un contratto di importo
assimilabile, per importanza, a quello oggetto della gara
revocata” (C.d.S., VI, n. 633/2013 cit.)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 29.09.2014 n. 333 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Chi ha debiti col fisco può conservare l'appalto.
Il Consiglio di stato sulle irregolarità dei vincitori di
gara.
Anche chi ha debiti col fisco può non perdere l'appalto che
ha vinto. A patto che l'irregolarità tributaria che la
stazione appaltante ha rilevato sia di un importo tale da
non mettere a rischio la solvibilità di chi contratta con la
pubblica amministrazione. E ciò anche prima che il decreto
sviluppo introducesse il requisito della «gravità»
dell'esposizione del privato verso l'erario per far scattare
la revoca dell'aggiudicazione di un servizio pubblico: il
principio comunitario della proporzionalità e lo stesso
trattato di funzionamento dell'Unione europea escludono
interpretazioni troppo formalistiche del codice degli
appalti.
Risultato: per una pendenza di 30 mila euro con le entrate
la banca non può perdere la gestione dei servizi di cassa
dell'Asl.
È quanto emerge dalla
sentenza
26.09.2014 n. 4854, pubblicata
dalla III Sez. del Consiglio di Stato.
Situazione complessiva. Accolto il ricorso dell'istituto di
credito che si è visto estromettere dal contratto pubblico
in favore di un concorrente in base all'acquisizione dei
debiti esistenti presso l'Agenzia delle entrate: la stazione
appaltante l'ha compiuta con riferimento alla scadenza del
termine per la partecipazione alla gara.
In base
all'articolo 45, comma 2, lett. f), della direttiva CE
2004/18 il requisito dell'affidabilità e della solidità
finanziaria di chi lavora per la pubblica amministrazione
deve tuttavia essere valutato nel concreto: bisogna dunque
tenere conto della complessiva dimensione societaria di chi
partecipa alla procedura a evidenza pubblica così come non
si può ignorare l'eventuale ravvedimento operoso intervenuto
nelle more.
Insomma: chi ha pendenze con il fisco ma appare
in grado di pagarle senza problemi può ben conservare
l'appalto ancora prima dell'avvento del decreto legge
70/2011, che ha imposto di escludere gli aggiudicatari
soltanto in casi di gravi violazioni e di cospicui importi
dei debiti con il fisco.
Nella specie l'istituto di credito
ha dimensioni notevoli, mentre l'esposizione verso l'erario
risulta ora modesta grazie al pagamento avvenuto nel corso
del procedimento di verifica del requisito: l'esclusione
dalla procedura può invece scattare soltanto di fronte a un
effettivo inadempimento tributario in atto che abbia una
certa consistenza in relazione alla complessiva situazione
patrimoniale dell'aggiudicatario.
In seguito è intervenuto il decreto sviluppo che ha sì
puntato ad ampliare la platea dei soggetti ammessi alle
procedure di gara ma senza perdere di vista la necessaria
tutela del contraente pubblico, che ha interesse a evitare
di mettersi in affari con soggetti gravati da debiti
tributari che incidono in modo significativo sulla loro
solidità finanziaria. Spese di lite compensate
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Sulla causa di esclusione ex art. 38, c. 1, lett.
g), del D.lgs. 163/2006.
Solo i debiti tributari che mettano seriamente in dubbio la
complessiva affidabilità patrimoniale e professionale del
concorrente, e quindi che compromettano seriamente la
prospettiva di una puntuale esecuzione dell'appalto, sono
idonee ad integrare la causa di esclusione ex art. 38, c. 1,
lett. g), del D.lgs 163/2006 (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.09.2014 n. 4854 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Esclusione dalle gare: l’irregolarità fiscale deve essere
grave.
Negli appalti pubblici l’esclusione di una ditta concorrente
per irregolarità fiscale è legittima solo in presenza del
requisito della gravità della violazione; la garanzia di
solvibilità e solidità finanziaria della ditta concorrente
con la contestuale “sistemazione” dell’irregolarità tramite
l’istituto del ravvedimento operoso, rappresenta un
sufficiente motivo per non procedere alla esclusione
dell’impresa.
L’interpretazione
dell’art. 38, comma 1, lett. g) del codice degli appalti
fatta propria dal primo giudice appare all’appellante avulsa
dalle disposizioni e principi comunitari invocati.
Osserva il Collegio che l’art. 38, comma 1, lett. g),
del D.lgs 163/2006 citato, nel testo vigente all’epoca di
pubblicazione del bando e di svolgimento della gara di cui
trattasi, prevedeva che sono esclusi dalla partecipazione
alle procedure di affidamento delle concessioni e degli
appalti di lavori, forniture e servizi i soggetti “che hanno
commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto
agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse,
secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui
sono stabiliti”.
La ratio della norma risponde all'esigenza di garantire
l'amministrazione pubblica in ordine alla solvibilità e alla
solidità finanziaria del soggetto con il quale essa contrae
(C.d.S. A.P. 20.08.2013, n. 20).
Secondo l’interpretazione dell’A.P., inoltre ( riferita al
nuovo testo della norma, che ha introdotto l’ulteriore
elemento della “gravità” della irregolarità fiscale) l'attribuzione di un effetto rigidamente preclusivo
all'inadempimento fiscale legislativamente qualificato
risponde all'esigenza di contemperare la tendenza
dell'ordinamento ad ampliare la platea dei soggetti ammessi
alle procedure di gara, alla stregua del canone del favor partecipationis, con la necessaria tutela dell' interesse
del contraente pubblico ad evitare la stipulazione con
soggetti gravati da debiti tributari “che incidono in modo
significativo sull'affidabilità e sulla solidità finanziaria
degli stessi” (C.d.S., A.P., 05.06.2013, n. 15).
La sentenza richiamata evidenzia, in altri termini, sebbene
nell’esegesi del nuovo testo della lett. g) dell’art. 38
cit. e in una prospettiva più sostanzialistica fatta propria
da ultimo dal legislatore, come solo i debiti tributari che
mettano seriamente in dubbio la complessiva affidabilità
patrimoniale e professionale del concorrente, e quindi che
compromettano seriamente la prospettiva di una puntuale
esecuzione dell’appalto, siano idonee ad integrare la causa
di esclusione.
Ritiene il Collegio che l’interpretazione più conforme
alla ratio della norma, anche nel testo vigente nel
2009, tenuto conto della evoluzione legislativa successiva,
e letta alla luce della norma europea che ne costituisce la
fonte (l’art. 45, comma 2, lett. f), direttiva CE 2004/18),
sia quella che tenga conto concretamente della sussistenza
del requisito dell’affidabilità e solidità finanziaria del
concorrente e attribuisca rilievo, pertanto, ancora prima
della modifica legislativa di cui al D.L. 70/2011, che ha
introdotto il detto requisito della “gravità” della
violazione, sia all’importo del debito tributario, che non
deve essere irrisorio in relazione alla complessiva
dimensione societaria del concorrente, sia all’intervenuto
ravvedimento operoso
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza
26.09.2014 n. 4854 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulle caratteristiche che debbono avere i
provvedimenti interdittivi come base per giustificare la
loro adozione da parte dell'autorità prefettizia competente,
in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa.
L'informativa antimafia prescinde dall'accertamento della
rilevanza penale dei fatti, e neppure occorre che il
pericolo di condizionamento delle scelte dell'impresa sia
concretamente provato, in quanto la finalità perseguita si
concretizza nella massima anticipazione dell'azione di
prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di
sicurezza, rispetto alla quale assumono rilievo fatti e
vicende solo "sintomatici ed indiziari".
Sebbene il pericolo dell'infiltrazione mafiosa non deve
essere immaginario, ma fondato su elementi presuntivi e
indiziari concretamente individuati, la relativa valutazione
è rimessa alla lata discrezionalità del Prefetto,
sindacabile in sede di legittimità solo sotto il profilo
della illogicità, incoerenza o inattendibilità. Tuttavia, la
valutazione discrezionale, per non sconfinare in mero
arbitrio, può dirsi ragionevole e attendibile se sorretta
almeno da presunzioni semplici, ovvero da una pluralità di "indizi
seri, precisi e concordanti", oggettivamente
riscontrabili, che secondo l'esperienza comune assumono un
significato univoco.
Anche di recente, si è sottolineata l'importanza che,
seppure in ragione della speciale pervasività e pericolosità
sociale riconosciuti al fenomeno mafioso sia giustificato il
carattere preventivo/repressivo di provvedimenti di
limitazione e contenimento della libertà di iniziativa
economica, la deroga non può spingersi fino al punto da
giustificare provvedimenti interdittivi basati su un "semplice
sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale,
pena, altrimenti lo stravolgimento dei principi di legalità
e di certezza del diritto del nostro ordinamento democratico".
Pertanto, la giurisprudenza indica nella 'attualità'
'obiettiva congruità' e 'concretezza' i
caratteri che debbono manifestare gli elementi assunti dai
provvedimenti interdittivi come base per giustificare la
loro adozione da parte dell'autorità prefettizia competente,
in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 26.09.2014 n. 4852 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Solo chi paga l'Erario recupera i crediti.
Consiglio di Stato. Chi ha debiti iscritti a ruolo non può
incassare dalle pubbliche amministrazioni.
L'etichetta di «soggetto
inadempiente» si elimina solo pagando. Questa è l'arma che
l'Erario usa per riscuotere i propri crediti, e solo
saldando il debito si può ottenerne la cancellazione.
Lo
sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.09.2014
n. 4694, decidendo una lite che contrapponeva un
professionista a Equitalia.
La lite era per il pagamento di
una parcella, fermata per l'esistenza del segnale di
«soggetto inadempiente» dovuta a un debito di poco superiore
a 10mila euro iscritto al ruolo. Il professionista lamentava
l'omesso preavviso di inserimento nella lista degli
inadempienti e la mancata proporzionalità fra debito
tributario e credito vantato verso altro soggetto pubblico.
Il Consiglio di Stato si pronuncia per il rispetto delle
regole, poiché la norma sulla riscossione (articolo 48-bis Dpr 602/1973) prevede rigidi formalismi del rapporto tra
creditori e debitori di Pa. Basta quindi una cartella
superiore a 10mila euro non pagata per far scattare la
qualifica di «contribuente inadempiente».
L'iscrizione a ruolo, peraltro, avviene per un ampio spettro
di pretese eterogenee, per un complesso di titoli che
cumulandosi possono agevolmente superare 10mila euro.
Raggiunta la soglia, si blocca il pagamento anche di importi
superiori e derivanti da titoli diversi. Non ha rilievo né
l'eventuale sproporzione tra debito e credito, né la
circostanza che il debito verso la Pa sia contestato. Il
Consiglio di Stato sottolinea che controversie
giurisdizionali o amministrative non hanno effetto sul
l'iscrizione in elenco dei contribuenti inadempienti. Solo
una sospensione dell'autorità (in autotutela) o una
pronuncia della magistratura sui presupposti del
l'iscrizione a ruolo possono impedire l'operatività del
filtro.
Riemerge quindi la sentenza della Corte
costituzionale (21 del 1961) con il principio del «solve et
repete». Una circolare dell'Economia (27 del 2011) ritiene
soggetti al filtro dell'articolo 48 bis e della
compensazione anche i pagamenti a privati di somme dovute da
soggetti pubblici in base a sentenza, mentre sfuggono (e
quindi pagati) gli importi assegnati dal giudice
dell'esecuzione dopo un pignoramento, nonché gli importi di
incentivi o finanziamenti alle imprese. Chi riceve la
cartella di pagamento per un debito iscritto al ruolo vedrà,
decorsi 60 giorni, filtrate tutte le richieste di pagamento
indirizzate alla Pa.
Tra i privati esiste un meccanismo (articoli 1241 e seguenti
del Codice civile) ma le pubbliche amministrazioni sono
avvantaggiate perché l'etichetta di contribuente
inadempiente frena tutti i pagamenti a fronte di qualsiasi
debito iscritto al ruolo.
La soglia di 10mila euro è in qualche modo coerente a quella
che negli appalti pubblici consente l'accesso alle gare di
chi ha pendenze economiche per tributi o per oneri
previdenziali (articolo 38 Dlgs 163/2006 Codice appalti),
con una differenza: l'irregolarità nei rapporti con il Fisco
o con gli istituti previdenziali deve essere grave e
definitivamente accertata, ammettendo un sindacato da parte
del giudice (Consiglio di Stato, 5186/2011). Invece, nel
caso del generico filtro a contribuenti inadempienti
(articolo 48-bis Dpr 603) solo una dilazione rispettata o
una sospensione della pretesa dell'ente pubblico possono
sottrarre il contribuente dallo scomodo elenco degli
inadempienti (articolo Il Sole 24 Ore
del 04.10.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Per il conferimento di incarichi requisiti vincolati ai
contratti.
Cassazione. Pesano le indicazioni dei ccnl.
La pubblica
amministrazione nel conferire incarichi di posizione
organizzativa può legittimamente inserire dei criteri
d'accesso, purché essi siano conformi alla contrattazione
collettiva.
Il caso riguarda un caposervizio addetto alla manutenzione
stradale di un Comune, che aspirava a ricoprire uno degli
incarichi per i quali venivano richiesti il possesso del
diploma di laurea e l'inquadramento nella categoria D3, due
requisiti da lui non posseduti. Il caposervizio, ritenendo
che la previsione di tali criteri lo escludesse
illegittimamente dall'attribuzione della posizione
organizzativa, tenuto anche conto delle mansioni che aveva
ricoperto, aveva fatto ricorso prima al Tribunale di
Macerata, che aveva respinto l'istanza, poi alla Corte
d'appello, la quale aveva confermato quanto deciso in primo
grado
Nell'esaminare i motivi di ricorso, la Cassazione, con
sentenza 11.09.2014 n. 19223
(tratta da www.quotidianolavoro.ilsole24ore.com),
preliminarmente non manca di ribadire un principio, ormai
acquisito, che qualifica il bando di selezione per il
conferimento delle posizioni organizzative non come atto
amministrativo, ma come atto assunto con le capacità e i
poteri del privato datore di lavoro (ex art. 5, comma 2 del
Dlgs 165/2001). La decisione in merito ai criteri da assumere
ai fini dell'attribuzione delle posizioni organizzative
costituisce, pertanto, un atto di gestione che afferisce
alla sfera di discrezionalità del datore di lavoro.
Tale discrezionalità non può, tuttavia, trasformarsi in
arbitrio e per questo non solo la scelta del soggetto a cui
conferire l'incarico non può prescindere da una valutazione
comparativa degli aspiranti (Cass. Civ. Sez. Lav.
sentenza 16.07.2014 n. 16247), ma anche i criteri assunti ai fini
dell'attribuzione della posizione organizzativa sono
sottoposti al limite del rispetto dei principi di
correttezza e buona fede che presiedono allo svolgimento del
rapporto di lavoro (articoli 1175 e 1375 c.c.).
Nel verificare se, nel caso di specie, si fosse agito
conformemente a tali principi i giudici di legittimità fanno
salva la decisione dell'ente convenuto.
Tra i criteri che l'articolo 9, comma 2, del ccnl del
comparto Regioni-Autonomie locali prevede ai fini del
conferimento delle posizioni organizzative viene indicato,
infatti, anche quello relativo ai «requisiti culturali
posseduti». La valorizzazione del possesso della laurea e
dell'inquadramento nella categoria D3 risulterebbe quindi
conforme ai criteri indicati dalla contrattazione collettiva
e ciò varrebbe ad escludere, secondo la Corte, che nel caso
in esame abbia potuto verificarsi una violazione dei
principi di correttezza e buona fede a danno del ricorrente.
Nell'indicare i criteri per il conferimento degli incarichi
di posizione organizzativa, il contratto collettivo
connette, tuttavia, la loro concreta regolamentazione da
parte degli enti «rispetto alle funzioni e alle attività da
svolgere». C'è da chiedersi, allora, se nel caso di specie
la restrizione ai soli soggetti in possesso di laurea e
inquadrati nella categoria D3 fosse realmente giustificabile
in relazione all'oggetto dell'incarico di posizione
organizzativa che si andava ad assegnare.
Ma è questo un aspetto che avrebbe dovuto essere oggetto di
specifiche allegazioni e di comprovate circostanze da parte
del ricorrente nei pregressi gradi di merito, non più
valutabile, qualora non tempestivamente dedotto, in sede di
legittimità
(articolo Il Sole 24 Ore
del 03.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare
che per “edificio di interesse pubblico”, proprio ai fini
del rilascio del titolo edilizio in deroga, deve intendersi
ogni manufatto edilizio idoneo, per caratteristiche
intrinseche o per destinazione funzionale, a soddisfare
interessi di rilevanza pubblica, potendo in tale categoria
ricomprendersi anche una struttura alberghiera ed il suo
ampliamento.
D’altra parte, se è vero che la concessione edilizia in
deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, quale
espressione di un potere di natura eccezionale, necessita di
un’adeguata e congrua motivazione, è altrettanto vero che
nel caso di specie la lettura della impugnata delibera
consiliare (ed in particolare il contenuto degli interventi
svolti dai consiglieri comunali sullo specifico argomento
all’ordine del giorno) esclude, al di là di ogni ragionevole
dubbio, la sussistenza del dedotto vizio di motivazione del
predetto provvedimento, emergendo in modo chiaro ed in
equivoco l’iter logico–giuridico che determinato la scelta
dell’organo consiliare; tanto meno poi sono ictu oculi
apprezzabili macroscopiche contraddittorietà della delibera
in questione, esse non potendo coincidere con il soggettivo
dissenso degli appellanti alla deroga concessa
dall’amministrazione.
Neppure, sotto altro concorrente profilo, può condividersi
l’assunto secondo cui la deroga non avrebbe riguardato le
previsioni urbanistiche generali, bensì quelle contenute nel
piano di recupero edilizio di iniziativa privata che
disponeva l’obbligo di aderenza tra edifici ad una minore
altezza, con sua conseguente illegittimità, manifestamente
erronea essendo, sempre secondo gli appellanti, anche
l’affermazione circa l’intervenuta scadenza del piano
attuativo per decorso del termine decennale, tale scadenza
riguardando esclusivamente gli interventi dichiarati di
pubblica utilità.
---------------
Va richiamata la giurisprudenza consolidata secondo cui il
piano di recupero costituisce uno strumento attuativo delle
previsioni urbanistiche contenute nel piano regolatore
generale, equivalente ad un piano particolareggiato e di
livello gerarchicamente subordinato.
E’ pertanto inconciliabile, dal punto di vista
logico–giuridico, ammettere la derogabilità del piano
regolatore generale e l’inderogabilità di quello attuativo,
per sua natura subordinato al primo, ciò senza contare che
nel caso di specie, come correttamente rilevato dai primi
giudici, le deroghe (che concernono il distacco dai
fabbricati contermini, indicato in ml. 3,80, anziché in
aderenza, e l’altezza massima, prevista in ml. 13, come
peraltro già disciplinato dalle N.T.A., indipendentemente
dalla sagoma dei fabbricati contermini) non attengono
affatto al piano di recupero (attuativo), ma alle stesse
previsioni del piano regolatore generale ed alla sua
concreta e particolare attuazione quanto alla specifica area
interessata dalla concessione edilizia in deroga.
E’ innanzitutto destituita di
fondamento la tesi degli appellanti circa l’inammissibilità
del rilascio della concessione edilizia in deroga per un
albergo, in quanto quest’ultimo non potrebbe essere
considerato un edificio o impianto pubblico o di interesse
pubblico, mancando in tal senso qualsiasi adeguata
motivazione.
La giurisprudenza ha invero avuto modo di evidenziare che
per “edificio di interesse pubblico”, proprio ai fini del
rilascio del titolo edilizio in deroga, deve intendersi ogni
manufatto edilizio idoneo, per caratteristiche intrinseche o
per destinazione funzionale, a soddisfare interessi di
rilevanza pubblica (Cons. St., sez. V, 20.12.2013, n.
6136), potendo in tale categoria ricomprendersi anche una
struttura alberghiera ed il suo ampliamento (Cons. St., sez. IV, 29.10.2002, n. 5913; 28.10.1999, n. 1641; 15.07.1998, n. 1044).
D’altra parte, se è vero che la concessione edilizia in
deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, quale
espressione di un potere di natura eccezionale, necessita di
un’adeguata e congrua motivazione (Cons. St., sez. V, 20.12.2013, n. 6136; sez. IV, 23.07.1999, n. 4664;
03.02.1981, n. 128), è altrettanto vero che nel caso di
specie la lettura della impugnata delibera consiliare (ed in
particolare il contenuto degli interventi svolti dai
consiglieri comunali sullo specifico argomento all’ordine
del giorno) esclude, al di là di ogni ragionevole dubbio, la
sussistenza del dedotto vizio di motivazione del predetto
provvedimento, emergendo in modo chiaro ed in equivoco
l’iter logico–giuridico che determinato la scelta
dell’organo consiliare; tanto meno poi sono ictu oculi
apprezzabili macroscopiche contraddittorietà della delibera
in questione, esse non potendo coincidere con il soggettivo
dissenso degli appellanti alla deroga concessa
dall’amministrazione.
Neppure, sotto altro concorrente profilo, può condividersi
l’assunto secondo cui la deroga non avrebbe riguardato le
previsioni urbanistiche generali, bensì quelle contenute nel
piano di recupero edilizio di iniziativa privata che
disponeva l’obbligo di aderenza tra edifici ad una minore
altezza, con sua conseguente illegittimità, manifestamente
erronea essendo, sempre secondo gli appellanti, anche
l’affermazione circa l’intervenuta scadenza del piano
attuativo per decorso del termine decennale, tale scadenza
riguardando esclusivamente gli interventi dichiarati di
pubblica utilità.
Al riguardo va richiamata la giurisprudenza consolidata
secondo cui il piano di recupero costituisce uno strumento
attuativo delle previsioni urbanistiche contenute nel piano
regolatore generale, equivalente ad un piano
particolareggiato e di livello gerarchicamente subordinato
(ex multis, sez. IV, 29.12.2010, n. 9537; 29.07.2009, n. 4756;
05.03.2008, n. 922).
E’ pertanto inconciliabile, dal punto di vista logico–giuridico, ammettere la derogabilità del piano regolatore
generale e l’inderogabilità di quello attuativo, per sua
natura subordinato al primo, ciò senza contare che nel caso
di specie, come correttamente rilevato dai primi giudici, le
deroghe (che concernono il distacco dai fabbricati
contermini, indicato in ml. 3,80, anziché in aderenza, e
l’altezza massima, prevista in ml. 13, come peraltro già
disciplinato dalle N.T.A., indipendentemente dalla sagoma
dei fabbricati contermini) non attengono affatto al piano di
recupero (attuativo), ma alle stesse previsioni del piano
regolatore generale ed alla sua concreta e particolare
attuazione quanto alla specifica area interessata dalla
concessione edilizia in deroga
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4518 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha
affermato che, ferma restando l'inderogabilità, da parte
della concessione edilizia, delle norme della l. 17.08.1942,
n. 1150, l'art. 1 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, esclude
espressamente che le disposizioni contenute nei successivi
articoli si applichino direttamente e con immediata forza
precettiva in assenza della necessaria mediazione
rappresentata dal loro recepimento in uno strumento
urbanistico o in un regolamento edilizio, cosa che implica
la novazione della fonte regolatrice dei rapporti esterni
tra pubblica amministrazione e privati o tra privati, che
s'identifica nelle specifiche norme d'attuazione del piano
regolatore, con la conseguenza che queste ultime, per la
tipica natura di dettaglio (tale, cioè, da non involgere i
criteri generali e le linee direttrici su cui il piano
regolatore si basa), rientrano pacificamente tra le
previsioni derogabili, ai sensi dell'art. 41-quater, l. n.
1150 del 1942 e dell'art. 3 l. 21.12.1955, n. 1357, dalla
pubblica amministrazione per assentire un intervento
edilizio destinato al preminente soddisfacimento di un
interesse pubblico o generale.
Quanto poi alla pretesa
illegittimità della concessione edilizia in deroga per la
violazione dell’art. 8, comma 1, punto 1, del D.M. 02.04.1968, va rilevato che la giurisprudenza (Cons. St., sez. V,
05.11.1999, n. 1841) ha affermato che, ferma restando
l'inderogabilità, da parte della concessione edilizia, delle
norme della l. 17.08.1942, n. 1150, l'art. 1 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, esclude espressamente che le
disposizioni contenute nei successivi articoli si applichino
direttamente e con immediata forza precettiva in assenza
della necessaria mediazione rappresentata dal loro
recepimento in uno strumento urbanistico o in un regolamento
edilizio, cosa che implica la novazione della fonte
regolatrice dei rapporti esterni tra pubblica
amministrazione e privati o tra privati, che s'identifica
nelle specifiche norme d'attuazione del piano regolatore,
con la conseguenza che queste ultime, per la tipica natura
di dettaglio (tale, cioè, da non involgere i criteri
generali e le linee direttrici su cui il piano regolatore si
basa), rientrano pacificamente tra le previsioni derogabili,
ai sensi dell'art. 41-quater, l. n. 1150 del 1942 e
dell'art. 3 l. 21.12.1955, n. 1357, dalla pubblica
amministrazione per assentire un intervento edilizio
destinato al preminente soddisfacimento di un interesse
pubblico o generale (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4518 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In tema di valutazione dell’anomalia dell’offerta
e del relativo procedimento di verifica sono da considerare
acquisiti i seguenti principi:
a) il procedimento di verifica dell’anomalia non ha
carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica,
mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel
suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione
alla corretta esecuzione dell'appalto: esso mira piuttosto a
garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente
perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di
gara per la effettiva scelta del miglior contraente
possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che
l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della
sua offerta è l’effetto della valutazione (operata
dall’amministrazione appaltante) di complessiva
inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica
presuppone l’effettività del contraddittorio (tra
amministrazione appaltante ed offerente), di cui
costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni
alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento
della scadenza del termine di presentazione delle offerte;
la immodificabilità dell'offerta ed al contempo la sicura
modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità
di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra
sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo
complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale
momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta
costituisce espressione di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità
complessiva dell’offerta;
d) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni
della pubblica amministrazione sotto il profilo della
logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria,
senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica
della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò
rappresentando un’inammissibile invasione della sfera
propria della pubblica amministrazione;
e) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai
concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria
offerta rientra nella discrezionalità tecnica
dell’amministrazione, con la conseguenza che soltanto in
caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidente
errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate
da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare
il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di
sostituire il proprio giudizio a quello
dell’amministrazione;
f) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere
globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in
modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento
che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento
dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già
delle singole voci che lo compongono, non può considerarsi
viziato il procedimento di verifica per il fatto che
l’amministrazione appaltante e per essa la commissione di
gara si sia limitata a chiedere le giustificazioni per le
sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché
il concorrente, per illustrare la propria offerta e
dimostrane la congruità, può fornire, ex art. 87, comma 1,
D.Lgs, n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su
qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non
direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue,
così che se un concorrente non è in grado di dimostrare
l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il
richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati
nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò
non può essere ascritto a responsabilità della stazione
appaltante per erronea o inadeguata formulazione della
richiesta di giustificazioni.
Occorre premettere che in tema di
valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo
procedimento di verifica (che costituisce l’oggetto della
controversia in esame) sono da considerare acquisiti i
seguenti principi:
a) il procedimento di verifica dell’anomalia non ha
carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica,
mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel
suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione
alla corretta esecuzione dell'appalto: esso mira piuttosto a
garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente
perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di
gara per la effettiva scelta del miglior contraente
possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto (ex multis,
C.d.S., sez. III, 14.12.2012, n. 6442; sez. IV, 30.05.2013, n. 2956; sez. V, 18.02.2013, n. 973, 15.04.2013, n. 2063), così che l’esclusione dalla gara
dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto
della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante)
di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine
da raggiungere;
b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica
presuppone l’effettività del contraddittorio (tra
amministrazione appaltante ed offerente), di cui
costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni
alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento
della scadenza del termine di presentazione delle offerte;
la immodificabilità dell'offerta ed al contempo la sicura
modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità
di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra
sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo
complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale
momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto
(ex pluribus, C.d.S., sez. IV, 22.03.2013, n. 1633; 23.07.2012, n. 4206; sez. V, 20.02.2012, n. 875; sez. VI, 24.08.2011, n. 4801; 21.05.2009, n. 3146);
c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta
costituisce espressione di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità
complessiva dell’offerta (Cons. Stato, sez. V, 26.06.2012, n. 3737; 22.02.2011, n. 1090;
08.07.2008, n.
3406; 29.01.2009, n. 497);
d) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni
della pubblica amministrazione sotto il profilo della
logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria,
senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica
della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò
rappresentando un’inammissibile invasione della sfera
propria della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. V,
18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732);
e) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai
concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria
offerta rientra nella discrezionalità tecnica
dell’amministrazione, con la conseguenza che soltanto in
caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidente
errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate
da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare
il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di
sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione
(Cons. Stato, sez. V, 06.06.2012, n. 3340; 29.02.2012, n. 1183);
f) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere
globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in
modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento
che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento
dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già
delle singole voci che lo compongono (Cons. Stato, sez. V,
27.08.2012, n. 4600; sez, V, 16.08.2011, n. 4785;
sez. IV, 14.04.2010, n. 2070; sez. VI, 02.04.2010, n.
1893; sez. V, 18.03.2010, n. 1589; 12.06.2009, n.
3762), non può considerarsi viziato il procedimento di
verifica per il fatto che l’amministrazione appaltante e per
essa la commissione di gara si sia limitata a chiedere le
giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non
per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la
propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex
art. 87, comma 1, D.Lgs, n. 163 del 2006, spiegazioni e
giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi
anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione
come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di
dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta
attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli
individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di
principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della
stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione
della richiesta di giustificazioni (Cons. Stato, A.P.,
29.11.2012, n. 36)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2014 n. 4516 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Diritti di segreteria. Indennità shock, comune ko per discriminazione.
Cinquecento euro per un certificato di idoneità alloggiativa.
Il salasso richiesto dal Comune di Bolgare è discriminatorio
nei confronti dei cittadini stranieri, finendo per
comprometterne i diritti fondamentali.
Per questo motivo il TRIBUNALE di Bergamo, I Sez.
civile, ha condannato l'ente lombardo (ordinanza
06.08.2014 - tratta da www.cgil.bergamo.it) a
revocare la delibera n. 6 del 15 gennaio scorso, con la
quale aveva elevato il costo del tributo, divenuto in breve
tempo il più alto d'Italia. Basti dire che, appena tre anni
fa, i diritti di segreteria per ottenere il documento
ammontavano ad appena 30 euro, lievitati poi a 150 euro nel
2011, fino all'ultimo contestato aumento.
Un'operazione di tassazione punitiva su base etnica, secondo
i legali dei tre stranieri che hanno presentato ricorso.
L'amministrazione comunale, dal canto suo, aveva
giustificato la manovra con la necessità di addebitare alle
«individualità extracomunitarie» che chiedevano
l'iscrizione all'Anagrafe i costi (peraltro non documentati)
necessari per assicurare condizioni di sicurezza ai propri
cittadini.
Una motivazione che, per il Tribunale, conferma la
distinzione basata sull'origine nazionale, integrando la
fattispecie prevista dall'art. 43 del Testo Unico
sull'immigrazione. Per i cittadini stranieri, infatti, il
certificato in questione è indispensabile per avviare una
serie di procedimenti amministrativi, come il
ricongiungimento familiare, la richiesta della carta di
soggiorno, la sottoscrizione del permesso di soggiorno per
lavoro subordinato.
La decisione, pertanto, riconosce il carattere
discriminatorio del provvedimento amministrativo, sia nei
confronti dei ricorrenti, «gravati da oneri maggiori e a
condizioni non paritarie per una pratica amministrativa
necessaria nell'esercizio di una serie di diritti
fondamentali», sia nei confronti di tutti i cittadini
stranieri che vogliono risiedere nel comune, chiedendo un
importo «sproporzionato e ingiustificato» per la
certificazione.
Da qui la condanna alla revoca della delibera n. 6/2014,
alla restituzione di 350 euro a titolo di risarcimento a
tutti gli stranieri che avevano versato l'importo nel
periodo di validità della delibera, nonché alla
pubblicazione dell'ordinanza
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2014). |
VARI: Quote rosa per gli avvocati. Si dimette la consigliera?
Subentra un'altra donna.
Per il Tar Lazio non rileva la mancanza del regolamento:
basta la Costituzione.
Quando a dimettersi dall'Ordine forense è una consigliera,
deve subentrarle un'altra donna, anche se il primo dei non
eletti è un uomo. E ciò benché il regolamento previsto dal
nuovo statuto dell'avvocatura non sia stato ancora
approvato: da qualche giorno è approdato in Parlamento,
all'esame delle commissioni competenti. La legge previgente
non si può applicare perché nel 1944 non erano previste le
quote rosa: l'equilibrio fra i generi, invece, è un
principio costituzionale e dunque bisogna applicare i
principi affermati dalla legge 247/2012, nonostante la norma
secondaria stia completando il suo iter.
Lo stabilisce il
TAR Lazio-Roma con la
sentenza
05.08.2014 n. 8681, pubblicata dalla III Sez..
Immediata applicazione. Vince la sua battaglia l'avvocatessa
romana dopo che la collega ha gettato la spugna abbandonando
l'organo rappresentativo.
Irragionevole l'interpretazione
dell'articolo 28, comma 6, della riforma forense sostenuta
dall'Ordine degli avvocati (e dal controinteressato),
secondo cui l'unica disposizione normativa dovrebbe essere
scissa in due parti: la parte contenuta nel primo capoverso,
sul subentro del primo dei non eletti in caso di dimissioni
di un consigliere, sarebbe suscettibile d'immediata
applicazione, mentre dovrebbe aspettare il regolamento
attuativo la seconda parte, relativa al rispetto e
mantenimento dell'equilibrio dei generi.
La riforma forense prevede che il genere meno rappresentato
deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri eletti. La
vecchia normativa disponeva le elezioni suppletive per le
dimissioni rassegnate nel corso del mandato. Ma va
disapplicata per un evidente contrasto con la novella, che
afferma la parità dei sessi come principio fondamentale. Fra
le due norme astrattamente applicabili si configura
un'incompatibilità: mentre il sistema di elezione (e, di
conseguenza, anche di sostituzione) dei consiglieri è
sostanzialmente «neutro» rispetto ai generi nel
disegno normativo del 1944, il meccanismo deve comunque
essere orientato a rispettare l'equilibrio nel sistema
voluto dal legislatore del 2012 (Tar Lazio 7632/2014).
Sono allora le norme sulle quote rosa, secondo i giudici,
che devono ritenersi di immediata applicazione, nelle more
del via libera al regolamento. Spese compensate per la
novità della questione
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2014). |
CONDOMINIO: Acqua, conteggio millesimale.
No al pagamento in proporzione al numero di occupanti.
La Cassazione: in mancanza di contatori si ricorre al
principio all'art. 1123 del c.c..
Il criterio da utilizzare per il riparto della spesa per il
consumo dell'acqua rimane, in alcuni casi, quello generale
(di cui all'art. 1123 del codice civile), ovvero il
riferimento ai millesimi di proprietà. In mancanza dei
contatori di sottrazione nelle singole unità immobiliari, le
spese per il consumo dell'acqua, infatti, non possono essere
suddivise in base al numero delle persone che le occupano,
salvo che risulti uno specifico accordo sottoscritto da
tutti i condomini.
Nemmeno si può stabilire con delibera assembleare a
maggioranza che gli appartamenti vuoti siano sottratti a
tale onere di contribuzione.
Il principio è stato
pronunciato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
01.08.2014 n.
17557.
Nella specie alcuni condomini avevano impugnato siccome
illegittimo il preventivo di gestione approvato
dall'assemblea condominiale e che, tra le altre cose,
ripartiva le spese per il consumo dell'acqua sulla base del
numero di occupanti le singole unità abitative, con esonero
totale dei proprietari di quelle vuote. Nel condominio in
questione i singoli appartamenti erano privi di contatori di
sottrazione (si veda altro articolo in pagina) e anche il
regolamento condominiale non conteneva alcuna disposizione
specifica. Sia in primo che in secondo grado i giudici
avevano però respinto l'impugnazione, ritenendo che il
criterio sotteso al riparto del bilancio preventivo fosse
«idoneo (non meno di altri) a commisurare, in via
preventiva, l'entità dei rispettivi usi dei condomini».
La decisione della Corte di appello era stata quindi
impugnata dinanzi alla Suprema corte che, con la sentenza in
questione, ha chiarito come il criterio del numero di
occupanti di ciascun immobile ai fini del riparto delle
spese dell'acqua sia valido e utilizzabile soltanto nei casi
in cui ogni appartamento sia dotato di un contatore che
permetta di verificare in maniera oggettiva l'effettivo
consumo di ogni unità immobiliare (soluzione tecnica
evidentemente preferita dall'ordinamento in considerazione
della conseguente razionalizzazione dei consumi e
dell'eliminazione degli sprechi). In caso contrario, e salva
diversa specifica convenzione, non si può che fare
applicazione del normale criterio del riparto millesimale,
suddividendo la spesa in base all'incidenza di ciascuna
proprietà esclusiva sullo stabile condominiale.
Di
conseguenza anche l'eventuale delibera con cui l'assemblea
approvi a maggioranza la ripartizione delle spese per
l'acqua sulla base del numero di occupanti delle singole
unità immobiliari non può che essere ritenuta illegittima
per violazione del menzionato criterio generale di cui
all'art. 1123 c.c., basato su una corrispondenza
proporzionale tra l'onere contributivo e il valore della
proprietà di cui ciascun condomino è titolare.
Per gli stessi motivi la Suprema corte ha ritenuto che il
criterio in contestazione non possa nemmeno essere ascritto
nel campo applicativo di cui al secondo comma della
disposizione or ora citata, poiché il sistema di riparto
basato sul numero di occupanti «appare inidoneo, per la sua
irrazionalità, a fissare un congruo rapporto tra la spesa e
l'uso individuale». Infatti, come evidenziato dalla
Cassazione, anche l'appartamento vuoto può portare a usi,
seppure minimi, di acqua e le relative tariffe prevedono
comunque un costo minimo quale quota fissa per la
disponibilità del servizio da parte del gestore e che è
indipendente dal consumo effettivo.
---------------
La disciplina.
Meglio conoscere il consumo effettivo.
Per ripartire le spese relative all'acqua si utilizzano
generalmente dei contatori individuali che consentono di
misurare il consumo effettivo da parte dei singoli
condomini. Quindi ogni unità abitativa deve possedere un
proprio contatore (c.d. di sottrazione) che permetta di
verificare il consumo effettivo. Naturalmente il consumo
complessivo condominiale viene rilevato dal contatore
generale di cui è dotato ogni impianto centralizzato di
adduzione dell'acqua.
Il principio applicabile per la ripartizione delle spese
dell'acqua (fredda) è dunque quello del pagamento in base al
consumo. In particolare, qualora la consegna e la
misurazione dell'acqua avvenga per utenze raggruppate, la
ripartizione interna dei consumi deve essere organizzata, a
cura e spese dell'utente, tramite l'installazione di singoli
contatori per ciascuna unità immobiliare. Ogni condomino ha
diritto di pretendere, se del caso ricorrendo al giudice di
pace, il rispetto di questo principio.
A questo proposito è opportuno evidenziare come sia stato
ritenuto pienamente legittimo che l'assemblea decida la
rimozione dell'impianto idrico obsoleto e la trasformazione
dello stesso in altro più moderno ed efficiente ad acqua
diretta, anche se ciò comporti l'inapplicabilità della
previsione contenuta nel regolamento condominiale circa la
ripartizione della relativa spesa in parti uguali e il
passaggio ai consumi di acqua individuali previa
installazione di appositi contatori.
La realizzazione di un nuovo e diverso impianto comportante
la ripartizione delle spese dell'acqua in misura
proporzionale al consumo stesso si deve quindi intendere
legittimamente deliberata a maggioranza dall'assemblea
condominiale, anche nel caso di diversa previsione
regolamentare. In ogni caso la mera sostituzione del
precedente impianto idrico condominiale non costituisce
innovazione, ai sensi dell'art. 1120 c.c., ma solo una
modifica diretta a un miglior godimento dell'impianto
comune, incidente sulle modalità di svolgimento del
servizio, ma non sul diritto dei singoli condomini di
usufruirne.
Rientra, infatti, nelle attribuzioni
dell'assemblea l'intera gestione delle cose e dei servizi
comuni in modo per così dire dinamico, nel senso, cioè, di
un loro adattamento nel tempo al fine di una più razionale
ed efficiente utilizzazione, con eventuale dismissione di
beni comuni e ciò anche se il servizio sia disciplinato da
un regolamento contrattuale. Al contrario è annullabile la
delibera che adotti a maggioranza criteri iniqui per la
ripartizione del costo dell'acqua, ad esempio imponendo agli
studi professionali o ai proprietari dei locali destinati ad
attività commerciali una maggiorazione del servizio
dell'acqua potabile comune.
Agevolazioni tariffarie. Si è posto in ambito condominiale
il problema di come ripartire eventuali riduzioni tariffarie
derivanti da accordi contrattuali di favore ottenuti con
l'ente erogatore dell'acqua. L'applicazione delle tariffe
agevolate discende da un determinato consumo di acqua
complessivo, ma può accadere che non tutti i condomini
giungano al consumo minimo per appartamento che consente
l'applicazione delle stesse. Ma è giusto attribuire il
beneficio tariffario derivante dalla contabilizzazione
complessiva solo ai condomini che, individualmente, abbiano
superato il consumo minimo per appartamento che da diritto
all'applicazione delle tariffe agevolate e di quella
unificata?
Secondo i giudici l'amministratore che abbia
stipulato con l'ente erogatore un contratto avente a oggetto
il consumo complessivo del fabbricato per beneficiare
dell'applicazione di una tariffa agevolata, può poi, del
tutto legittimamente, calcolare la ripartizione interna
delle spese pro quota in considerazione dei singoli ed
effettivi consumi di ciascuno dei condomini, a prescindere
dalla circostanza che questi, singolarmente considerati, non
avrebbero garantito l'applicazione della suddetta tariffa di
favore.
Se, quindi, il consumo complessivamente è tale da ottenere
la tariffa agevolata, nell'ambito di tale tariffa ciascun
condomino pagherà secondo il proprio consumo effettivo, così
da escludere che chi sia rimasto sotto il livello minimo
contrattualmente previsto paghi per intero la tariffa del
servizio.
Acqua calda centralizzata. Secondo l'attuale legge nei
condomini riforniti da una fonte di riscaldamento centrale o
da una rete di teleriscaldamento devono essere installati
entro il 31 dicembre 2016 contatori individuali per misurare
il consumo di calore o di acqua calda per ciascuna unità, se
tecnicamente possibile ed efficiente in termini di costi.
La
procedura di ripartizione della spesa totale di
riscaldamento e acqua calda sanitaria avviene secondo la
norma Uni 10200, cioè dividendo la spesa dell'energia
termica utile prodotta in base ai consumi volontari (quota
variabile), che vanno ripartiti in base alle indicazioni
fornite dai contatori e consumi involontari (quota fissa),
ovvero quelli indipendenti dall'azione dell'utente e cioè
principalmente le dispersioni di calore della rete di
distribuzione, che vanno ripartiti in base ai millesimi di
riscaldamento.
Le controversie sulla quantità di acqua consumata. Nel caso
di controversia circa la quantità di acqua consumata è
pacifico che il condomino non possa rifiutarsi di
corrispondere la quota di spese per la fornitura in quanto
l'eccezione di inadempimento nei rapporti tra condominio e
condomini non è applicabile e, in ogni caso, il richiamo a
detto principio presuppone la dimostrazione che non sia
stato erogato il servizio del quale sia stata ripartita la
spesa.
Del resto, come è stato precisato dalla
giurisprudenza, qualora la controversia con la restante
parte della collettività condominiale non riguardi la
fruizione del servizio dell'acqua erogata, ma semplicemente
la quantità di acqua consumata, e cioè il corrispettivo
della prestazione ricevuta, la delibera condominiale di
approvazione e riparto del consuntivo di spesa, se non
impugnata nei termini di legge, assume efficacia vincolante
e non può più essere contestata dal condomino
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dipendente pubblico naviga su siti porno? C'è doppio reato.
Il
delitto di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) è
integrato anche qualora la persona offesa non abbia
concretamente subito un danno, essendo sufficiente per la
sussistenza del reato de quo che il soggetto attivo si
appropri di un bene entrato nell’altrui patrimonio.
È quanto emerge dalla
sentenza 25.06.2014 n. 27528 della II Sez. penale della
Suprema Corte.
Il caso vedeva come protagonista il dipendente di una
società, il quale, al fine di visualizzare taluni siti
internet dal contenuto pedopornografico, si appropriava
della linea telefonica presente nel posto di lavoro. Nel
fare ciò, inoltre, lo stesso distoglieva il computer dalla
gestione dell'impianto pubblico di illuminazione comunale,
così determinando il blocco di tale servizio pubblico.
La questione centrale affrontata dagli Ermellini concerne la
necessità o meno che il soggetto attivo abbia, con la
propria condotta, cagionato un danno alla persona offesa dal
reato. Nel dare risposta negativa, i Giudici di Piazza
Cavour si sono mantenuti nel solco di un orientamento già
espresso in precedenti pronunce all’uopo richiamate (Cass.
sez. 6A, 23/10/2000 n. 3879; sez. 6A, 9/5/2006 n. 25273;
sez. 6A, 26/2/2007 n. 21335).
Il problema, nel caso di specie, risultava particolarmente
rilevante, poiché la società-datore di lavoro godeva di un
c.d. contratto “flat”
con il fornitore del servizio di telecomunicazione, tale per
cui un maggiore o minore uso della linea non avrebbe
determinato alcun aumento dell’importo dovuto o diminuzione
della qualità o quantità della linea stessa e, di
conseguenza, una concreta diminuzione della capacità del
patrimonio di soddisfare gli interessi del suo titolare.
Nel confermare la sentenza d’Appello, il percorso seguito
dalla Corte è stato il seguente: anzitutto, essa ha
affermato che risulta <<irrilevante>> l’accertamento
di un danno al titolare del bene protetto. In secondo luogo,
che il fatto, così come ricostruito dal giudice di merito, è
consistito non tanto nell’uso dell’apparecchio telefonico
quale oggetto fisico, così come aveva prospettato il
ricorrente, quanto piuttosto <<delle energie costituite
da impulsi elettronici>> già entrate a far parte del
patrimonio dell’offeso.
L’iter argomentativo del Supremo Consesso impone alcune
riflessioni.
Nulla da eccepire in ordine alla seconda affermazione. Il
corpus che può divenire oggetto materiale della condotta,
infatti, è non solo la <<cosa mobile>>, intesa come
porzione materiale della realtà fisica, ma anche, ai sensi
dell’art. 624, comma 2, c.p. <<l'energia elettrica e ogni
altra energia che abbia un valore economico>>. La
ricostruzione operata dal giudice di prime cure, dunque,
coglie nel segno.
Meno chiara, anche in punto di connessione logica, è la
prima affermazione, secondo cui non rileverebbe la mancanza
di un danno alla persona offesa per il fatto che questa, in
virtù del contratto flat, sostenesse un costo unico e
fisso per il servizio internet. Più esattamente, non si
comprende anzitutto in cosa dovrebbe consistere l’asserita
<<irrilevanza>> del danno; le conclusioni lasciano
intuire che, con tale espressione, i giudicanti si
riferiscano al fatto che l’art. 646 c.p., diversamente da
altre disposizioni (es. art. 640 c.p.), non prevede il
nocumento come elemento costitutivo della fattispecie. In
altri termini, il danno non sarebbe necessario per integrare
una appropriazione indebita.
Sul punto occorre esprimere alcune perplessità.
Il sistema dei delitti del Titolo XII ruota attorno al bene
giuridico <<patrimonio>>. Questo svolge,
principalmente, una funzione garantista, quella, cioè, di
escludere la rilevanza penale di fatti che ad esso non
arrechino una reale offesa. Tale assunto è tanto più vero
alla luce del principio di offensività (ritenuto oramai
unanimanente accolto da dottrina e giurisprudenza; art. 49
c.p.), in base al quale il reato sussiste (nullum crimen
sine iniuria) solo se esso si traduce in una reale
offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, offesa,
si badi, che può arrestarsi alla fase del pericolo, o
giungere fino a quella della lesione. Tale principio emerge
come espressione di un diritto penale a base
(prevalentemente) oggettivistica, come il nostro, in cui,
cioè, la risposta penale scatta non già di fronte alla
semplice volontà antigiuridica, ma solo come conseguenza di
condotte realmente offensive. Una deroga nell’ottica di un
diritto penale a base soggettivistica, inteso come
anticipazione della soglia di punibilità ad atti ancora non
concretamente offensivi, può giustificarsi solo per ragioni
di contingente eccezionalità o per la tutela di beni
primari.
Alla luce di tali considerazioni, dunque, può agevolmente
concludersi che i delitti contro il patrimonio, nel silenzio
della norma, vanno interpretati nel senso che è sempre
necessario l’accertamento di un danno concreto (salvo che
sia richiesto il semplice pericolo: es. artt. 630 e 642
c.p.). Prova, questa, non fornita nel caso in esame.
La sentenza in commento va infine evidenziata per un
ulteriore profilo, questa volta di natura processuale. Tra
gli elementi di prova su cui si fonda la condanna, rientrano
anche quelli che emergono dalle videoriprese effettuate
dalla persona offesa, sul luogo del lavoro, in maniera
autonoma e successivamente all’apertura delle indagini.
La Corte dimostra come ormai sia divenuto ius receptum
l’approdo raggiunto dalle Sezioni Unite nella nota sentenza
n. 26795/2006 in materia di videoriprese, con la quale è
stato chiarito in modo netto il discrimen tra atti e
documenti. Anche nella pronunzia in esame, infatti, si
ribadisce che l’art. 234 c.p.p. si riferisce ai soli
documenti formati fuori, pur se non necessariamente prima,
del processo; in altre parole, è documento la sola
rappresentazione di fatti, persone o cose, contenuta su una
base materiale, e formata per finalità extraprocessuali.
Gli Ermellini hanno dunque correttamente ritenuto
ininfluente l’elemento temporale, poiché esso non rileva ai
termini della fattispecie ex art. 234 c.p.p.
Per completezza, vale ricordare che neppure un richiamo
(mancante) all’art. 4, L. 300/1970, nella parte in cui vieta
gli impianti volti al controllo dell’attività dei
lavoratori, avrebbe potuto escludere l’utilizzabilità dei
risultati probatori. Tralasciando l’annosa questione
dell’irrilevanza processuale di violazioni sostanziali
nell’iter di acquisizione della prova, è sufficiente notare
che le finalità di tutela del patrimonio aziendale e di
prevenzione dei reati sono idonee, di per sé, ad escludere
l’illiceità e l’inutilizzabilità dei risultati delle
videoriprese effettuate nel luogo di lavoro.
In questi termini si è espressa più volte la stessa
Cassazione (Cass. Sez. V n. 20722/2010; Cass. Sez. V n.
34842/2011), affermando che l’art. 4, L. 300/1970 vieta i
soli impianti audiovisivi tesi al controllo dell’attività
dei lavoratori, e non anche, invece, quelli impiegati per
tutelare il patrimonio aziendale da offese altrui, inclusi i
lavoratori. Di conseguenza, conclude la Corte, i risultati
probatori delle videoriprese effettuate per tali ultime
finalità sono pienamente utilizzabili nel processo
(link a www.altalex.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La Pec non aspetta il software.
Notifica valida anche con l'impossibilità tecnica di aprire
gli allegati.
Processo telematico. Non si può invocare la mancata
ricezione se il programma non è stato installato.
La volontaria mancata
installazione del software per leggere gli allegati della
posta elettronica certificata (Pec) rappresenta un
comportamento colposo in senso lato. Se si tiene questa
condotta, pertanto, non si può invocare la forza maggiore in
caso di mancata conoscenza di un allegato decreto ingiuntivo
ricevuto ritualmente via Pec. È quindi inammissibile
l'opposizione tardiva allo stesso decreto ingiuntivo.
Lo ha affermato il TRIBUNALE di
Mantova con la
sentenza 03.06.2014.
La vicenda
Un artigiano ha aperto, come richiede la normativa, una
casella di Pec. Il 26 febbraio scorso ha visto l'e-mail di
un avvocato, senza, però, riuscire ad aprire gli allegati.
Ha chiesto chiarimenti al professionista, ma non ha ricevuto
risposta. Il 27 marzo ha fatto intervenire un tecnico di
computer, apprendendo solo allora che l'allegato era la
notifica di un decreto ingiuntivo per un suo debito verso un
dipendente.
Solo il 7 aprile scorso, pertanto ben oltre i
termini di legge, ha proposto opposizione contro il decreto,
adducendo come giustificazione che nessuno gli aveva
segnalato la necessità di installare programmi ad hoc per
"scaricare" notifiche e sostenendo, comunque, la
tempestività dell'opposizione perché il termine utile era
decorso dal 27 marzo, data di effettiva conoscenza della
notifica.
Il lavoratore, da parte sua, ha sostenuto che la
notificazione via Pec è legittima dal 24.05.2013, data
di entrata in vigore delle modifiche alla legge 53/1994
sulla facoltà di notificazione da parte degli avvocati, e,
considerato che erano trascorsi i termini per l'opposizione,
ha chiesto al tribunale di dichiarare inammissibile
l'opposizione per tardività.
La decisione
In primo luogo, il tribunale ha affermato, sulla base degli
articoli 1 e seguenti della legge 53/1994, che:
- l'avvocato, rispettando i presupposti di legge, può
notificare atti con Pec, salvo che l'autorità giudiziaria
disponga la notifica di persona;
- la notificazione telematica va eseguita all'indirizzo del
destinatario risultante da pubblici elenchi;
- la notifica va fatta allegando, al messaggio Pec, l'atto
da notificare;
- la notifica si perfeziona, per il notificante, al momento
della generazione della ricevuta di accettazione prevista
dall'articolo 6, comma 1, del Dpr 68/2005, e, per il
destinatario, nel momento in cui è generata la ricevuta di
avvenuta consegna prevista dall'articolo 6, comma 2, dello
stesso Dpr.
Il tribunale ha non solo constatato che la notificazione è
avvenuta secondo legge, ma anche che non è emersa una causa
di forza maggiore, essendo la mancata conoscenza del decreto
ingiuntivo dovuta a comportamento volontario e "lato sensu"
colposo dell'ingiunto, che non ha installato il software per
leggere gli allegati.
Il tribunale ha stabilito che l'opposizione è stata tardiva
e, quindi, inammissibile, determinando il passaggio in
giudicato del decreto ingiuntivo. L'inammissibilità del
ricorso ha precluso valutazioni sul merito. Inoltre, il
giudice ha comunque osservato che l'opponente, avendo pagato
in udienza, ha riconosciuto l'obbligazione.
Verso la telematica
La normativa sulla notifica via Pec è in vigore dal 24.05.2013. Si tratta, quindi, di disposizioni che hanno
preceduto l'obbligatorietà del deposito telematico del
decreto ingiuntivo e degli atti endoprocessuali, che si
applica ai procedimenti iniziati dal 30 giugno scorso (articolo Il Sole 24 Ore
del 06.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO:
Riscaldamento centralizzato: condomino che si distacca
concorre alle spese?
Con la sentenza che si annota la Suprema Corte torna a
occuparsi del distacco dall’impianto centralizzato di
riscaldamento e della misura del contributo alle spese di
esercizio da parte del soggetto che rinuncia all’impianto
condominiale.
La questione è già stata ampiamente affrontata, per
stabilire quali oneri possano essere addebitati al condomino
che si è distaccato dall’impianto condominiale.
Un tema ampiamente dibattuto che ha visto la S.C. assumere
posizioni ormai consolidatesi nel tempo. Secondo i più
recenti e costanti orientamenti “Il condomino può
legittimamente rinunziare all’uso del riscaldamento
centralizzato e distaccare le diramazioni della sua unità
immobiliare dall’impianto termico comune, senza necessità di
autorizzazione od approvazione degli altri condòmini, e,
fermo il suo obbligo di pagamento delle spese per la
conservazione dell’impianto, è tenuto a partecipare a quelle
di gestione, se e nei limiti in cui il distacco non si
risolve in una diminuzione degli oneri del servizio di cui
continuano a godere gli altri condòmini” (Cass. civ.,
sez. VI, sentenza n. 5331/2012).
Conformandosi a tale orientamento, con la sentenza n. 9526
del 30.04.2014, la Suprema Corte pone l’accento sulle novità
in materia introdotte con la L. 220/2012 evidenziando che “[…],
un orientamento giurisprudenziale che ha assunto, adesso,
veste di diritto positivo in ragione del quarto comma del
nuovo art. 1118 c.c. […] il quale, ha, espressamente,
ammesso la possibilità del singolo condomino di distaccarsi
dall’impianto centralizzato di riscaldamento o di
raffreddamento qualora dimostri che dal distacco non
derivino notevoli squilibri di funzionamento od aggravi di
spesa per gli altri condòmini”.
“In altri termini, e in sintesi, […], continuano ad
essere obbligati a partecipare alle spese di consumo del
carburante o di esercizio […] perché se il costo di
esercizio dell’impianto (rappresentato anche dall’acquisto
di carburante necessario per l’esercizio dell’impianto) dopo
il distacco non è diminuito e se la quota non sarebbe posta
a carico del condomino distaccante, gli altri condòmini
sarebbero aggravati nella loro posizione dovendo farsi
carico anche della quota spettante al condomino distaccato”.
Premesso che il pronunciamento è riferito ad un caso ante L.
220/2012, a parere di chi scrive, appare improprio il
riferimento ai costi per l’acquisto del combustibile, non
potendosi fare riferimento in termini di aggravio o
risparmio ai costi sostenuti per il combustibile, poiché i
costi di esercizio di una centrale termica per i quali
concorrono diversi elementi, tra cui anche il combustibile,
sono annualmente vincolati a fattori esterni non dipendenti
dalla volontà dei soggetti utilizzatori del servizio.
L’andamento più o meno rigido di ogni stagione invernale va
a incidere in maniera sostanziale sui costi di esercizio e
gestione dell’impianto e, pertanto, l’aggravio o un
ipotetico risparmio in conseguenza di un distacco non può
essere ricondotto a una semplice operazione aritmetica.
Altrettanto poco calzante il riferimento al novellato art.
1118 c.c. che, nonostante sia stato salutato favorevolmente
dai primi commentatori, pur esplicitando il diritto del
condomino al distacco dall’impianto di riscaldamento
condominiale, nella realtà pone limiti difficilmente
superabili perché il distacco possa concretizzarsi.
Al contrario della normativa previgente quando, sulla base
dei principi giurisprudenziali della S.C., il condomino
poteva staccarsi dall’impianto pur restando tenuto a
concorrere alle spese di conservazione ed a quelle di
gestione “se e nei limiti in cui il distacco non si
risolve in una diminuzione degli oneri del servizio di cui
continuano a godere gli altri condòmini”, il novellato
art. 1118 non recepisce in toto la posizione
giurisprudenziale e, quindi, esclude la possibilità per il
condomino di distaccarsi dall’impianto condominiale se non è
in grado di fornire prova dell’assenza delle condizioni che,
se presenti anche singolarmente, determinano l’impossibilità
del distacco.
La novellata norma contenuta nell’art. 1118 c.c. anziché
rispondere alle aspettative di quanti l’hanno salutata con
favore, appare al contrario foriera di nuove dispute e
contenziosi in ambito condominiale.
Il Giudice adito non potrà che limitarsi al vaglio
dell’inesistenza o meno delle condizioni che ne impediscono
il distacco, senza poter prevedere, contrariamente alle
posizioni giurisprudenziali ante legge di riforma della
disciplina in materia di condominio, un obbligo di
contribuzione alle spese di gestione per il condomino
distaccante.
Giova anche sottolineare come il condomino distaccante,
prima di operare materialmente il distacco, sia tenuto a
formalizzare la sua intenzione poiché ex art. 1122 c.c. “[…]
il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle
parti comuni […]”. “In ogni caso è data preventiva
notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea”.
E’ fuor di dubbio che l’intervento sull’impianto di
riscaldamento possa recare un pregiudizio “notevole o
trascurabile” e da ciò l’esigenza della preventiva
informazione al condominio.
In considerazione del fatto che il novellato art. 1118 c.c.
prevede che il condomino che intende distaccarsi deve
fornire prova che “dal suo distacco non derivino notevoli
squilibri o aggravi di spesa per gli altri condòmini”,
la preventiva informazione dovrà necessariamente essere
corredata dalla documentazione tecnica attraverso la quale
egli possa dare prova dell’assenza di “notevoli squilibri”
e di “assenza di aggravi” per i condomini che
continueranno a servirsi dell’impianto condominiale.
Tuttavia, poiché il quarto comma del novellato art. 1118
c.c. non è rientrante tra le norme inderogabili richiamate
all’art. 1138 c.c., non è escluso che i partecipanti al
condominio possano in via convenzionale concludere accordi
che consentano comunque il distacco, anche in presenza di
aggravi, addivenendo anche alla determinazione della
partecipazione del distaccante alle spese di gestione.
A parere dello scrivente, tale possibilità resterà
circoscritta alla determinazione delle parti, mentre sarà da
escludersi che ciò possa essere oggetto di un provvedimento
del giudice.
Quanto alla sentenza che si annota, per risultare più
aderente ad una corretta applicazione del principio
giurisprudenziale, senza l’improvvido riferimento alla
novella introdotta dalla L. 220/2012, la S.C. avrebbe potuto
individuare elementi utili nella norma UNI-CTI n.
10200:2013, peraltro richiamata, nella precedente versione
del 2005, anche nel DPR n. 569/2009 in materia di
contabilizzazione e ripartizione delle spese di
riscaldamento, potendosi con essa quantificare con esattezza
i costi di gestione per i quali, in vigenza della disciplina
ante L. 220/2012, sarebbero stati chiamati a partecipare i
distaccati, al fine di non determinare aggravi per i
condòmini ancora allacciati all’impianto centralizzato
condominiale.
Per la norma UNI alla spesa per l’impianto centralizzato
concorrono due componenti: 1) il consumo volontario; 2) il
consumo involontario. E’ su quest’ultima componente che
dovrebbe focalizzarsi l’attenzione per la determinazione di
quei costi, non dipendenti dalla volontà del singolo
condomino che, in caso di distacco, determinerebbe un
aggravio per i restanti condòmini allacciati. A titolo
esemplificativo e non esaustivo possiamo ricondurre a questa
voce le perdite al camino e le dispersioni termiche della
rete di distribuzione alle singole unità immobiliari.
Un richiamo alla suddivisione delle spese di riscaldamento
in una “quota fissa” da deliberarsi in assemblea e in
una “quota a consumo”, si rinviene anche nel Decreto
della Giunta Provinciale di Bolzano n. 573 del 15.04.2013
che al n. 5 dell’Allegato “A”, in vigore da gennaio 2015,
impone da quella data la contabilizzazione dei costi per il
riscaldamento e il raffrescamento secondo “una quota
fissa per coprire le spese fisse per la gestione
dell’impianto, determinata in sede di assemblea
condominiale, ripartita tra le utenze in funzione dei
millesimi” e “una quota variabile, ripartita tra le
utenze in base al consumo individuale determinato dagli
strumenti”. Definizioni di “quota fissa” e “quota
variabile” mutuate dalla norma UNI 10200:2005 che oggi,
nella versione più recente sono meglio definite in “consumo
involontario” e “consumo volontario”.
Da ciò appare evidente come qualsiasi distacco dall’impianto
centralizzato comporta un aggravio di spesa per gli altri
condòmini.
Pertanto, venendo meno una delle due condizioni poste dal
legislatore perché sia ammissibile il distacco dall’impianto
centralizzato, la possibilità di distaccarsi appare
scarsamente praticabile.
Infatti, se da un verso è riconosciuto che possa verificarsi
un qualche squilibrio che, finché non sarà notevole, dovrà
essere sopportato dal resto della compagine condominiale,
dall’altro, qualunque aggravio, a prescindere dalla sua
entità, farebbe venir meno le condizioni che consentono il
distacco.
Il principio contenuto nella sentenza in commento, circa gli
obblighi di contribuzione anche sulle spese di esercizio e
gestione, appare superato proprio per effetto del novellato
art. 1118 c.c., che tale obbligo/possibilità non contempla,
e con le riserve espresse in merito ad un’individuazione
sic et simpliciter meramente aritmetica dei costi di
esercizio che si vorrebbe fossero da addebitare comunque al
condomino distaccatosi.
Oggi colui che intenda distaccarsi dovrà, in presenza di “aggravi”
per i restanti condòmini, rinunciare dal porre in essere il
distacco onde evitare che possa essere chiamato al
ripristino dello status quo ante.
In via residuale, dovrà preventivamente manifestare la
disponibilità a concorrere alla voce di spesa “involontaria”
legata a tutte le unità immobiliari, a prescindere dall’uso
che in concreto possano aver fatto o possano continuare a
fare i condòmini, giungendo ad un accordo in via
convenzionale con tutte le altre parti.
Né l’interessato potrà eccepire che ex art. 1118 c.c. “il
distaccato è tenuto a concorrere al pagamento delle sole
spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per
la sua conservazione e messa a norma”, poiché tale
possibilità è prevista solo per quei soggetti che abbiano
potuto distaccarsi, dopo aver superato le forche caudine,
per essere riusciti a provare che dal loro distacco “non
derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di
spesa per gli altri condomini”.
Per altro, già nei fabbricati con impianto termico
centralizzato a distribuzione orizzontale, i condòmini
possono gestire autonomamente i consumi interni alla loro
unità immobiliare, operando de facto un distacco
dall’impianto e limitandosi a concorrere ai costi
ascrivibili ai consumi “involontari”.
Principio questo che rinveniamo in Cass. sez. II, n.
11857/2011 che, accogliendo il ricorso avverso la sentenza
del Tribunale di merito, "esclude il configurarsi di uno
squilibrio termico nella variazione di temperatura
all’interno degli appartamenti prossimi a quelli distaccati.
[…], in quanto nell’ambito di un condominio ogni unità
immobiliare confina con almeno un’altra unità immobiliare,
per cui il distacco dall’impianto centralizzato da parte di
uno dei condòmini provocherebbe sempre quel tipo di
squilibrio termico […], anche in considerazione che la
stessa situazione, senza che il condominio potesse
lamentarsi per lo squilibrio termico conseguente, si sarebbe
potuta verificare ove il S. avesse chiuso i propri radiatori.”
Situazione questa che rinveniamo sovente in quei condomìni a
destinazione mista residenziale/periodica, ove i condòmini
che utilizzano la loro unità immobiliare solo per limitati
periodi nell’arco dell’anno, comunque partecipano ai costi “involontari”
in proporzione alla loro caratura millesimale.
Per analogia identico trattamento potrebbe essere riservato
al condomino che intenda distaccarsi, se frutto del citato
accordo convenzionale.
Appare opportuno che la quota di consumo involontario
dell’intero edificio in condominio venga quantificata
attraverso una perizia termotecnica, in modo che la relativa
quota spettante al condomino che intenda distaccarsi possa
essere ragguagliata a un “X”% rispetto ai costi complessivi
annuali dell’impianto di riscaldamento centralizzato.
Una valutazione di tal fatta consentirebbe di poter
rapportare in termini percentuali quelli che sono i costi
involontari, con un margine di errore molto contenuto e ciò
a prescindere dai fattori esterni legati all’andamento
climatico delle stagioni invernali, diversamente da quanto
richiamato dalla Suprema Corte che ipotizzerebbe la
necessità di un risparmio in termini di costi dopo il
distacco da parte di un condomino.
L’adozione da parte dell’assemblea condominiale di rapporti
percentuali dei consumi involontari, senza il supporto della
perizia tecnica, esporrebbe la delibera alla contestazione
da parte del soggetto distaccante che potrebbe eccepire il
vizio del deliberato dell’assemblea per eccesso di potere.
Al contrario, la delibera adottata sulla base della perizia
termotecnica sarebbe immune da vizi e tale da mettere al
riparo da contestazioni da parte del condomino distaccante e
renderebbe meno irto di ostacoli il percorso per giungere ad
un accordo.
Traendo spunto dalla sentenza in commento, appare evidente
come la problematica relativa al distacco dall’impianto
centralizzato di riscaldamento e raffrescamento condominiale
resti di piena attualità ed anche l’intervento del
legislatore, con le modifiche apportate all’art. 1118 c.c. e
la poco felice formulazione della norma, non contribuisce a
dirimere il contenzioso in materia e, al contrario, le
frizioni all’interno della compagine condominiale sono
destinate ad ampliarsi maggiormente.
Allo stesso modo va sottolineato che la possibilità concessa
al singolo di rinunciare all’impianto comune si pone in
contrasto con quel complesso di norme emanate, anche quale
recepimento di Direttive della U.E., dirette al
raggiungimento di obiettivi di risparmio energetico e di
riduzione delle emissioni di CO2 (Cfr. D.Lgs. n. 192/2005,
art. 1, n. 1; D.Lgs. n. 311/2006, all. A, n. 34; D.P.R. n.
59/2009).
Ciò traspare anche dai lavori preparatori della II
Commissione permanente Giustizia del Senato – resoconto del
11.07.2012, pag. 118: “[…] rilevando come il distacco
dall’impianto di riscaldamento centralizzato, per come è
formulata la disposizione, contrasta con le direttive
europee sull’efficienza energetica e l’emissione di anidride
carbonica”.
Solo parzialmente più condivisibile l’emendamento all’art.
1118 c.c., che si rinviene nel resoconto citato, ma non
inserito nel testo definitivo della L. 220/2012, che
limitava il distacco in presenza di oggettive situazioni: “Il
condomino, ove venga oggettivamente constatato che il
proprio immobile non gode della normale erogazione di
calore, a causa di problemi tecnici dell’impianto
condominiale, e questi, nell’arco di un’intera stagione di
riscaldamento, non sono risolti dal condominio, può
rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato[…]”.
Lascia perplessi il fatto che beffardamente, pur consentendo
(obbligando) il distacco per oggettive carenze dell’impianto
non sanabili dal condominio, il distaccato resterebbe
obbligato a partecipare ai costi di conservazione e
manutenzione di un impianto non in grado di erogare calore
sufficiente nella sua unità immobiliare.
La materia in discussione, suscettibile di far sorgere
ulteriore contenzioso, meriterebbe una rivisitazione da
parte del legislatore.
Il D.Lgs. n. 102/2014 (G.U. n. 165 del 18/07/2014) approvato
di recente dal Consiglio dei Ministri, che intende stabilire
misure dirette alla promozione ed al miglioramento
dell’efficienza energetica, avrebbe potuto essere occasione
propizia per apportare le opportune modifiche al testo
dell’art. 1118 c.c., con il parziale recepimento di
quell’emendamento che, se introdotto, potrebbe consentire di
limitare la possibilità della rinuncia all’impianto di
riscaldamento centralizzato solo ai casi in cui ci si trovi
in presenza di oggettive carenze dell’impianto condominiale
che non consentano ad una unità immobiliare di poter godere
della normale erogazione di calore e non sia possibile
intervenire sull’impianto per ovviare alle disfunzioni
lamentate. Ovviamente con le opportune modifiche che evitino
al distaccato(obbligato) di aggiungere al danno anche la
beffa.
Modifica questa che risulterebbe più rispondente alle
esigenze di contenimento dei consumi energetici e di
riduzione delle emissioni di CO2, allineandosi ai
provvedimenti di legge in materia di risparmio energetico (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 30.04.2014 n. 9526 -
link a www.altalex.com). |
TRIBUTI: Il vincolo abbatte la Tasi.
I limiti del Prg riducono il valore di mercato.
I chiarimenti da sentenze di Cassazione e commissioni
tributarie.
La presenza di vincoli nei piani regolatori comunali non fa
venir meno il regime fiscale dei suoli edificabili, ma ha
un'incidenza sul loro valore venale e sulla base imponibile
dei tributi locali. Pertanto la Tasi è dovuta, anche se in
misura ridotta, poiché i limiti imposti dai piani
urbanistici alle aree edificabili comportano una diminuzione
del loro valore di mercato.
L'edificabilità di un'area, dunque, non può essere esclusa
dalla presenza di vincoli o di particolari destinazioni
urbanistiche. In questi casi l'area è comunque soggetta al
pagamento dell'Ici e dell'Imu, anche se la presenza di
vincoli ne riduce il valore di mercato.
In questi termini si
è espressa la Corte di Cassazione, con la
sentenza
05.03.2014 n. 5161.
Il principio è applicabile anche al nuovo
tributo sui servizi indivisibili, la cui base imponibile è
analoga a quella dell'imposta municipale. Si tratta di una
questione controversa e dibattuta da tempo quella che
riguarda l'assoggettabilità all'imposta municipale delle
aree vincolate. Anche la posizione della Cassazione non è
stata univoca.
Con quest'ultima pronuncia, però, ha chiarito
che l'edificabilità non può essere esclusa dalla ricorrenza
di vincoli o destinazioni urbanistiche che condizionino, in
concreto, l'edificabilità del suolo. La presenza di vincoli,
però, ha un'incidenza sul valore venale in comune commercio
dell'area e sulla base imponibile. Questo comporta che
l'imposta va versata in misura ridotta.
Con la sentenza 25672/2008, invece, la Cassazione aveva
affermato che se il piano regolatore generale del comune
prevede che un'area sia destinata a verde pubblico
attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al
privato di poter edificare. L'area non è soggetta al
pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità risulta dallo
strumento urbanistico. Mentre con la sentenza 19131/2007
aveva sostenuto che l'Ici fosse dovuta su un'area
edificabile sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a
essere espropriata: quello che conta è il valore di mercato
dell'immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione.
Con questa decisione, tra l'altro, i giudici avevano
precisato che l'Ici non ricollega il presupposto
dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla
sua attitudine a incrementare il proprio valore. Il valore
dell'immobile assume rilievo solo per determinare la misura
dell'imposta. L'area deve essere considerata edificabile
anche se qualificata «standard» e vincolata a esproprio.
L'orientamento non è uniforme neppure nella giurisprudenza
di merito. Per esempio, secondo la commissione tributaria
regionale di Milano (sentenza 71/2013) un'area compresa in
una zona destinata dal piano regolatore generale a verde
pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici. Il
vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area
edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare
qualsiasi trasformazione del bene. Per il giudice d'appello
lo strumento urbanistico destina l'area a spazio pubblico
per parco, giochi e sport, rendendo palese il vincolo di
utilizzo meramente pubblicistico con la conseguente
inedificabilità.
Sempre la Cassazione, con l'ordinanza 15729 del 09.07.2014, ha chiarito un altro aspetto importante. In
particolare, i vincoli urbanistici o paesaggistici non
escludono che un'area possa essere qualificata edificabile e
che sia soggetta al pagamento delle imposte locali.
Tuttavia, l'amministrazione comunale deve verificare se i
vincoli posti dal piano regionale impediscono
l'edificabilità dell'area o se le limitazioni ne riducono il
valore di mercato. I piani paesaggistici regionali
prevalgono sugli strumenti urbanistici comunali.
Per quantificare il valore dell'area occorre fare
riferimento ai criteri fissati dall'articolo 5 del decreto
legislativo 504/1992: zona territoriale di ubicazione,
indice di edificabilità, lavori di adattamento del terreno,
destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di
adattamento del terreno necessari per la costruzione. Una
particolare rilevanza, infine, viene attribuita dai comuni
ai valori medi di mercato indicati dalle parti negli atti di
compravendita di beni similari
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titoli abilitativi e poteri del giudice penale.
Il giudice penale, nel valutare la
sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio,
deve verificarne la conformità a tutti i parametri di
legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli
strumenti urbanistici e dal titolo abilitativo edificatoria.
Deve escludersi infatti che, qualora sussista difformità a
previsioni normative statali o regionali ovvero a
prescrizioni degli strumenti urbanistici, il giudice debba
comunque concludere per la mancanza di illiceità penale
qualora sia stata rilasciata concessione edilizia o permesso
di costruire, in quanto detti provvedimenti non sono idonei
a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed
edilizio dell’opera realizzanda.
Il ricorso deve essere
rigettato, perché infondato. 1. L'illiceità del permesso di
costruire è stata ricondotta, nella fattispecie in esame,
alle seguenti vantazioni:
- il titolo abitativo era stato rilasciato per un intervento
di demolizione integrale e ricostruzione da eseguirsi in
zona "A", individuata dal piano regolatore come
"residenziale conservativa, vecchio centro, soggetta a piani
di recupero";
- la relazione al PRG vigente aveva evidenziato che nel
vecchio centro cittadino si imponeva la "ristrutturazione
dell'intera zona per comparti mediante risanamento edilizio
o demolizione e ricostruzione, secondo modalità e quantità
da stabilire in sede di piano particolareggiato esecutivo (PPE)",
in quanto erano "carenti ed inadeguate le infrastrutture
primarie (fogne, acquedotto, strade) e secondarie",
mancavano del tutto spazi di verde attrezzato per il gioco e
lo sport, nonché parcheggi pubblici adeguati al numero degli
abitanti ed erano insufficienti le attrezzature scolastiche
e quelle di interesse comune;
- sempre secondo la relazione al PRG, gli strumenti
urbanistici esecutivi dovevano essere redatti "nel rispetto
della volumetria complessiva preesistente, che si assume
come tetto non superabile";
- la necessità del piano particolareggiato di esecuzione era
ribadita anche dall'art. 7 delle norme tecniche di
attuazione (NTA) del P.R.G., ove si stabiliva che, nelle
more dell'adozione del PPE, erano consentiti esclusivamente
interventi di manutenzione ordinaria e di risanamento
igienico dei singoli edifici (comma 12). La difesa ha
sostenuto -e ribadisce in ricorso- che non tutta
l'edificazione della zona "A" sarebbe stata subordinata alla
redazione di un piano attuativo, ma solo quella relativa
agli immobili che nella grafica di lottizzazione ricadevano
nel puntinato scuro; nella restante parte delta zona "A"
(ove si trovava il fabbricato demolito) sarebbero stati
realizzabili anche interventi di "sostituzione edilizia", ai
sensi dell'art. 7, commi da 13 a 16, delle NTA, che
consentivano anche la demolizione e ricostruzione con
cubatura aggiuntiva.
Tali argomentazioni difensive sono state disattese dai
giudici del merito, i quali hanno illustrato come i commi da
ultimi citati -nel contesto di una complessiva disciplina
che a priori escludeva l'implementazione edilizia della zona
"A" senza un'adeguata ridefinizione delle opere urbanizzative primarie e secondarie- non potessero
ritenersi razionalmente riferiti ad una possibilità di
immediata realizzazione di nuove costruzioni, ma
riguardassero piuttosto le disposizioni che avrebbero dovuto
essere introdotte dai redigendi piani attuativi.
Trattasi di argomentazioni la cui logicità è inconfutabile e
non risulta smentita dalla riproposizione, nei motivi di
ricorso, delle eccezioni già ineccepibilmente respinte dalla
Corte territoriale. Con valenza assorbente va evidenziato,
inoltre, che -pure avendo il D.P.R. n. 380 del 2001, art.
3, comma 1, lett. d), come modificato dal d.Lgs. n.
301/2002, esteso la nozione di "ristrutturazione edilizia"
ricomprendendovi anche gli interventi ricostruttivi
"consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica"- in ipotesi siffatte, comunque, volumetria e
sagoma debbono rimanere identiche.
Nella vicenda in esame, al contrario, l'attività demolitorio-ricostruttiva autorizzata non coincide, nella volumetria e
nella sagoma, con il manufatto precedente ed è stata
permessa la realizzazione di un piano abitabile in più e di
locali commerciali che prima non esistevano (con parziale
mutamento della destinazione d'uso); ne consegue che
l'intervento eseguito è stato esattamente qualificato come
"nuova costruzione", e tale tipo di intervento edilizio
sicuramente non era consentito nel centro storico dal PRG
vigente nel Comune di Crispano.
2. Va poi ribadito il principio secondo il quale il giudice
penale, nel valutare la sussistenza o meno della liceità di
un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a
tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai
regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dai
titolo abitativo edificatorio (vedi Cass., Sez. Un.,
28.11.2001, Salvini).
Deve escludersi infatti che -qualora sussista difformità
dell'opera edilizia rispetto a previsioni normative statali
o regionali ovvero a prescrizioni degli strumenti
urbanistici- il giudice debba comunque concludere per la
mancanza di illiceità penale qualora sia stata rilasciata
concessione edilizia o permesso di costruire, in quanto
detti provvedimenti non sono idonei a definire
esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio
dell'opera realizzanda.
Nel caso di accertata difformità da
disposizioni legislative o regolamentari, ovvero dalle
prescrizioni degli strumenti urbanistici, non si configura
una non consentita "disapplicazione", da parte del giudice
penale dell'atto amministrativo concessorio (vedi Cass.,
Sez. Un., 12.11.1993, Borgia), in quanto lo stesso giudice,
qualora come presupposto o elemento costitutivo di una
fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo
ovvero l'autorizzazione del comportamento dei privato da
parte di un organo pubblico, non deve limitarsi a verifica
re l'esistenza ontologica dell'atto o provvedimento
amministrativo, ma deve verificare l'integrazione o meno
della fattispecie penale, "in vista dell'interesse
sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella
quale gli elementi di natura extrapenale convergono
organicamente, assumendo un significato descrittivo" (vedi
Cass.: Sez. Un., 28.11.2001, Salvini; nonché Sez. 6^,
18.03.1998, n. 3396, Calisse).
Punto fermo è, dunque, che il reato di esecuzione di lavori
edilizi in assenza di permesso di costruire può ravvisarsi
anche in presenza di un titolo edilizio illegittimo (si
vedano le ampie argomentazioni svolte in proposito da questa
Sezione con la sentenza 21.03.2006, Di Mauro, che il Collegio
Integralmente condivide).
Vanno ribaditi altresì i principi (enunciati già da Cass.,
Sez. 3^, 28.09.2006, Consiglio) secondo i quali:
a) Il giudice penale, allorquando accerta profili di
illegittimità sostanziale di un titolo abitativo edilizio,
procede ad una identificazione in concreto della fattispecie
sanzionata e non pone in essere alcuna "disapplicazione"
riconducibile alla L. 20.03.1865, n. 2248, art. 5,
allegato E), ne' incide, con indebita ingerenza, sulla sfera
riservata alla Pubblica Amministrazione, poiché esercita un
potere che trova fondamento e giustificazione nella stessa
previsione normativa incriminatrice;
b) la non conformità dell'atto amministrativo alla
normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni
legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici può
essere rilevata non soltanto se l'atto medesimo sia
illecito, cioè frutto di attività criminosa, ed a
prescindere da eventuali collusioni dolose del soggetto
privato interessato con organi dell'amministrazione. Il
sindacato del giudice penale, al contrario, è possibile
tanto nelle ipotesi in cui l'emanazione dell'atto sia
espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste
dalla legge quanto in quelle di mancato rispetto delle norme
che regolano l'esercizio del potere.
3. Quanto al delitto di abuso d'ufficio, ribadisce il
Collegio che il permesso di costruire, per essere legittimo,
deve conformarsi -ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
12, comma 1,- "alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente".
3.1 Dall'espresso rinvio della norma agli strumenti
urbanistici discende che il titolo abitativo edilizio
rilasciato senza rispetto del piano regolatore integra,
certamente, una "violazione di legge", rilevante ai fini
della configurabilità del reato di cui all'art. 323 c.p..
È chiaro però che, a tal fine, occorre verificare se detta
"violazione di legge" non violi il principio di "stretta
legalità", secondo i contenuti delineati, in materia penale,
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 282/1990.
Tale principio, infatti, può ritenersi soddisfatto, sotto il
profilo delta riserva di legge, allorquando la legge
determini, con sufficiente specificazione, il fatto cui la
sanzione penale è riferita, essendo necessario che la stessa
legge consenta di poter distinguere la sfera del lecito da
quella dell'illecito, ponendo ai riguardo un'indicazione
normativa sufficiente a poter orientare la condotta degli
agenti.
Il Giudice delle leggi testualmente ha rilevato che: "non
contrasta, perciò, con il principio della riserva, sia la
funzione integrativa svolta da un provvedimento
amministrativo, rispetto ad elementi normativi del fatto,
sottratti alla possibilità di un'anticipata individuazione
particolareggiata da parte della legge, sia l'ipotesi in cui
il precetto penale assume una funzione latu sensu
sanzionatoria, rispetto a provvedimenti emanati
dall'autorità amministrativa, ove sia la legge ad indicarne
i presupposti, contenuti, caratteri e limiti, in modo che il
precetto penale riceva intera la sua enunciazione con la
imposizione dei divieto".
Ciò posto -e ribadito che la
norma di cui all'art. 323 c.p., richiede, per la sanzionabilità della condotta del pubblico ufficiale, che la
stessa sia caratterizzata da sostanziale e non solo formale
o meramente procedimentale inosservanza di norme introdotte
da leggi o da regolamenti, in rapporto di necessario nesso
causale con l'ingiusto vantaggio patrimoniale (che, nella
specie, emerge motivatamente evidente dal testo della
impugnata sentenza)- nel caso di specie, avuto riguardo
agli univoci termini della contestazione ed agli
accertamenti in fatto compiuti dai giudici del merito, non
vi è dubbio della sussistenza del reato contestato di abuso
di ufficio. Infatti, per disposizione di legge, in senso
proprio, a fronte del dovere di chi voglia edificare di
munirsi del permesso di costruire, sussiste il dovere della
competente autorità amministrativa di provvedere D.P.R. n.
380 del 2001, ex art. 13, secondo te procedure e con gli
effetti di cui al successivi art. 20.
Ed è proprio sulla base di tali dati normativi che il
principio discriminante la condotta lecita da quella
illecita è fissato con precisione tale da non essere
soggetta ad interpretazioni ambigue o incerte. Detto
principio deriva dalla impostazione della volontà statuale a
mezzo dello strumento della legge e, quanto alla norma di
mediazione, sempre nella legge tale principio fa riferimento
agli elementi descrittivi dell'obbligo di comportamento con
rinvio di quest'ultimo proprio agli strumenti urbanistici
esistenti.
Si deve, dunque, ritenere che gli strumenti della
pianificazione comunale partecipino soltanto a determinare
il contesto applicativo materiale dell'attività del pubblico
ufficiale, pienamente descritta, sotto il profilo della
doverosità della condotta, da specifica disposizione di
legge, la quale soltanto costituisce oggetto della
violazione contemplata dall'art. 323 c.p., ai fini della
sussistenza dell'elemento materiale del reato. Ne consegue
che, come già affermato da questa Corte (cfr. Cass., Sez.
6^, 02.05.1999, n. 7581, Fravili), "consumandosi la
mediazione dell'elemento normativo, fissato dalla legge per
le concessioni edilizie, all'interno di un circuito
normativo di fonti primarie, l'apparato prescrittivo degli
strumenti urbanistici si definisce in funzione di
presupposto di fatto della norma di legge violata, che
delimita la possibilità di concessione edilizia" alla
conformità di questa alle previsioni degli strumenti
urbanistici anzidetto di guisa da impedire possibili,
residui margini di incertezza sulla individuazione della
condotta contra legem.
3.2 Nella vicenda che ci occupa, ove si riscontra una
decisione dei giudici della Corte territoriale
sostanzialmente corretta alla stregua dei rilievi e principi
di diritto innanzi tracciati, le contrarie deduzioni
articolate con i motivi di gravame sono infondate.
Né è dato cogliere -a fronte di una puntuale motivazione
attinente gli elementi, anche in punto di logica,
supportanti la sussistenza pure dell'elemento psicologico
del reato de quo- la fondatezza dell'asserita buona
fede nella condotta del ricorrente medesimo. 3.3 Ai fini
dell'integrazione del reato di abuso d'ufficio è necessario
che sussista la cosiddetta doppia ingiustizia -nel senso
che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da
violazione di legge, ed ingiusto deve essere l'evento di
vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al
diritto oggettivo regolante la materia (vedi, ex multis,
Sez. 6^, n. 35381 del 27.06.2006; Sez. 5^, n. 16895 del
02.12.2008, dep. il 21.04.2009)- mentre nessuna intesa
preventiva è richiesta tra l'agente ed il beneficiano
dell'illecita condotta, dovendosi ritenere sufficiente, al
riguardo, che il beneficiario stesso sia specificamente
individuato (Sez. 6^, n. 21085 del 28.01.2004).
La sussistenza di entrambi tali elementi, nella specie, è
stata correttamente illustrata dai giudici del merito e,
allo stesso modo, congruamente motivato ed esente da censure
deve ritenersi l'apprezzamento della Corte territoriale in
ordine al requisito della intenzionalità del dolo, desunto
dal succedersi di evidenti anomalie procedimentali:
assunzione, da parte dell'architetto Minichino, della doppia
funzione di istruttore della pratica e di firmatario del
permesso di costruire; presenza di un parere favorevole al
rifascio del permesso di costruire rilasciato da un
responsabile del procedimento mai nominato; tempi
inusitatamente brevi di svolgimento e conclusione della
procedura.
Anche al riguardo, pertanto, l'impugnata pronuncia si è
doverosamente attenuta al quadro dei principi fissati da
questa Suprema Corte, secondo i quali: - in tema di elemento
soggettivo del defitto di abuso di ufficio, il dolo
intenzionale riguarda soltanto l'evento del reato, mentre
gli altri elementi della fattispecie sono oggetto di dolo
generico (vedi Cass., Sez. 6^, 20.04.2011, n. 34116);
- la prova del dolo intenzionale, che qualifica (a
fattispecie criminosa dell'abuso d'ufficio, non richiede
l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si
intende favorire, perché l'intenzionalità del vantaggio,
voluto dall'agente e non semplicemente previsto ed accettato
come possibile conseguenza della propria condotta, ben può
prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel
privato interessato alla singola vicenda amministrativa
(vedi Cass., Sez. feriale, n, 38133 del 25.08.2011);
- il dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio non è
escluso dalla mera compresenza di una finalità pubblicistica
nella condotta del pubblico ufficiale, essendo necessario,
per ritenere insussistente l'elemento soggettivo, erte il
perseguimento del pubblico interesse costituisca il fine
primario dell'agente (vedi Cass., Sez. 3^, 24.02.2011, n.
18895)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.10.2012 n. 39462 -
link a www.lexambiente.it). |
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