e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABBAINO
14-
ABUSI EDILIZI
15-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
16-AGIBILITA'
17-ANAC (già AVCP)
18
-APPALTI
19-ARIA
20-ASCENSORE
21-ASL + ARPA
22-ATTI AMMINISTRATIVI
23-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
24-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
25-BARRIERE ARCHITETTONICHE
26-BOSCO
27-BOX
28-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
29-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro
30-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
31-CARTELLI STRADALI
32-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
33-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
34
-COMPETENZE GESTIONALI
35
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
36-CONDIZIONATORE D'ARIA
37-CONDOMINIO
38-CONSIGLIERI COMUNALI
39-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
40-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
41-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
42-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
43-DEBITI FUORI BILANCIO
44-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
45-DIA e SCIA
46-DIAP
47-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
48-DISTANZA dai CONFINI
49-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA
50-DISTANZA dalla FERROVIA

51-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
52-DURC
53-EDICOLA FUNERARIA
54-EDIFICIO UNIFAMILIARE
55-ESPROPRIAZIONE
56-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
57-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
58-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
59-INCENTIVO PROGETTAZIONE
60-INDUSTRIA INSALUBRE
61-L.R. 12/2005
62-L.R. 23/1997
63-LEGGE CASA LOMBARDIA
64-LICENZA EDILIZIA (necessità)
65-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
66-LOTTO INTERCLUSO
67-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
68-MOBBING
69-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
70-OPERE PRECARIE
71-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
72-PATRIMONIO
73-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU
74-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
75-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
76-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
77-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
78-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
82
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
83-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
84-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
85-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
86-PISCINE
87-PUBBLICO IMPIEGO
88-RIFIUTI E BONIFICHE
89-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
90-RUDERI
91-
RUMORE
92-SAGOMA EDIFICIO
93-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
94-SCOMPUTO OO.UU.
95-SEGRETARI COMUNALI
96-SIC-ZPS - VAS - VIA
97-SICUREZZA SUL LAVORO
98
-
SILOS
99-SINDACATI & ARAN
100-SOPPALCO
101-SOTTOTETTI
102-SUAP
103-SUE
104-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
105-
TELEFONIA MOBILE
106-TENDE DA SOLE
107-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
108-TRIBUTI LOCALI
109-VERANDA
110-VINCOLO CIMITERIALE
111-VINCOLO IDROGEOLOGICO
112-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
113-VINCOLO STRADALE
114-VOLUMI TECNICI

115-ZONA AGRICOLA

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

simone.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link ISTAT
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2 - link 3
link 4 - link 5
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
delle PP.AA.
delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di OTTOBRE 2014

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 24.10.2014

aggiornamento al 13.10.2014

aggiornamento al 07.10.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 24.10.2014

ã

UTILITA'

APPALTI: Centrali di Committenza e Soggetti Aggregatori - Acquisizioni di beni e servizi a far data dal 01.01.2015 e di lavori a far data dal 01.07.2015 (ANCI, scheda di sintesi per i Comuni - ottobre 2014).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Decorrenza dell’obbligo di verifica dei requisiti attraverso il sistema AVCPass (comunicato del Presidente 22.10.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Con il Comunicato del 22.10.2014 il Presidente dell’Anac precisa che la verifica dei requisiti attraverso il sistema AVCPass è da ritenersi obbligatoria per le procedure di affidamento il cui CIG è stato richiesto a partire dal 01.07.2014.

LAVORI PUBBLICI: Manuale dell’Autorità sulla qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro (comunicato del Presidente 16.10.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Pubblicato il Manuale sulla attività di qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro, che aggiorna, integra e razionalizza circa 300 atti tra Determinazioni, Comunicati e Deliberazioni - emanati negli ultimi 15 anni, dal 1999 ad oggi, dall’Autorità.
Il manuale ha l’obiettivo di offrire agli operatori del mercato strumenti per far fronte alle maggiori criticità del settore, alcune delle quali recentemente emerse anche a seguito di indagini giudiziarie. Con il manuale sono individuati per la prima volta, criteri rigorosi per l’utilizzo delle cessioni di rami di azienda ai fini del rilascio dell’attestato di qualificazione, sono forniti elementi dettagliati e stringenti per la valutazione dei lavori privati e sono introdotte verifiche più puntuali ai fini dell’accertamento dell’indipendenza di giudizio delle SOA e della vigilanza sulla loro attività.
Il Manuale diventa efficace a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione del Comunicato del Presidente in Gazzetta Ufficiale, sostituendo gli atti dell’Autorità citati in calce ai capitoli. Con successivo avviso sarà resa nota la data di pubblicazione in Gazzetta.

APPALTI: Affidamento di lavori pubblici nei settori ordinari: procedura aperta per appalto di sola esecuzione lavori, contratti di importo superiore a euro 150.000 euro, offerta al prezzo più basso (bando-tipo 02.09.2014 n. 2 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Pubblicato il Bando-tipo n. 2 del 02.09.2014 ‘Affidamento di lavori pubblici nei settori ordinari: procedura aperta per appalto di sola esecuzione lavori, contratti di importo superiore a euro 150.000 euro, offerta al prezzo più basso’.
Il modello, predisposto a seguito della consultazione pubblica degli operatori del mercato e previa acquisizione del parere del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, consiste in uno schema di disciplinare di gara accompagnato da una nota illustrativa.
La pubblicazione ha lo scopo di guidare e semplificare la complessa attività di predisposizione della documentazione di gara da parte delle stazioni appaltanti e di ridurre il contenzioso connesso, soprattutto, alla previsione nei bandi di cause di esclusione che non trovano fondamento normativo nell’art. 46, comma 1-bis, del Codice.
Trascorsi 12 mesi, durante i quali le stazioni appaltanti potranno formulare osservazioni e commenti, il modello sarà sottoposto a verifica di impatto della regolazione come previsto dall’apposito Regolamento dell’Autorità.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: INPS – Assenza per malattia e rientro anticipato al lavoro (ANCE di Bergamo, circolare 19.09.2014 n. 195).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: S. A. Angelelli, Appalto: Responsabilità solidale “senza tetto” del committente (22.10.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: B. Fenni, Sulla decadenza del premesso di costruire per mancato inizio dei lavori entro il termine prescritto. Nota a Tar Toscana, sezione III, n. 1515 del 03.10.2014 (20.10.2014 - tratto da www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: D. Minussi, Differenza tra servitù e limiti legali alla proprietà (20.10.2014 - link a www.e-glossa.it).

EDILIZIA PRIVATA: D. Minussi, Distanza fra costruzioni (20.10.2014 - link a www.e-glossa.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Lorenzotti, L’ampliamento degli interventi edilizi di manutenzione straordinaria secondo il decreto-legge “Sblocca Italia” (10.10.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Negoziazione dei diritti edificatori e relativa rilevanza fiscale, anche alla luce dell'art. 2643 n. 2-bis) c.c. (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 02-03.10.2014 n. 540-2014/T).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 21.10.2014, "Disposizioni inerenti la combustione dei residui vegetali agricoli e forestali in attuazione dell’art. 182, comma 6-bis, del decreto legislativo n. 152/2006 e dell’art. 12-bis della legge regionale n. 24/2006" (deliberazione G.R. 17.10.2014 n. 2525).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U. 18.10.2014 n. 243 "Svolgimento delle attività di cui al comma 5, art. 7 del decreto legislativo n. 163/2006 di rilevazione e comparazione dei prezzi di mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni aggiudicatrici" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 23.09.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 16.10.2014 n. 241 "Codice deontologico forense" (Consiglio Nazionale Forense, deliberazione 31.01.2014).

ENTI LOCALI: G.U. 15.10.2014 n. 240, suppl. ord. n. 78, "Adozione delle note metodologiche e dei fabbisogni standard per ciascun Comune e Provincia relativi alle funzioni generali di amministrazione di gestione e controllo" (D.P.C.M. 23.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 14.10.2014,  "Differimento del termine di entrata in vigore della nuova classificazione sismica del territorio approvata con d.g.r. 21.07.2014, n. 2129 «Aggiornamento delle zone sismiche in Regione Lombardia (l.r. 1/2000, art. 3, comma 108, lett. d)»" (deliberazione G.R. 10.10.2014 n. 2489).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 14.10.2014, "Sesto aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 09.10.2014 n. 9297).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Area demaniale.
Domanda
L'Amministrazione statale può, per motivi di uso generale, bloccare l'apertura di uno stabilimento balneare, pur in presenza di tutte le autorizzazioni comunali?
Risposta
È da dire, innanzitutto, che l'uso individuale del bene demaniale marittimo contrasta con l'interesse della collettività all'uso comune e generale del bene stesso. Infatti, come affermato dai giudici amministrativi, con diverse pronunce, alcune datate, ogni cittadino ha il diritto di godere liberamente delle bellezze naturali non solo in funzione del diritto al godimento dell'ambiente marino, ma anche quale proiezione del diritto a fruire di una gradevole qualità della vita, che, essendo un precipitato del diritto alla salute, riceve una tutela rafforzata dall'articolo 32 della Costituzione.
Da qui l'Autorità marittima (Capitaneria di porto), competente a provvedere, deve tenere conto sia delle comunicazioni autonomamente effettuate da parte del Comune competente, nel cui territorio rientra l'area interessata alla concessione, sia degli interessi di ordine ambientale in senso lato, la cui influenza sull'opportunità a preservare l'uso generale del bene demaniale è di evidenza oggettiva. Pertanto, è a escludersi l'uso individuale in area rientrante in un sito di interesse della comunità.
Né detto uso può essere considerato come normale . Infatti, la concessione, a fronte di quello che sarebbe l'uso normale di dette aree, comporterebbe un uso eccezionale del bene pubblico e implicherebbe la sottrazione di una particolare utilitas.
Peraltro, come affermato dal Consiglio di stato, con la sentenza del 03.03.2004, numero 4797, nel caso in cui l'area demaniale, individuata per iniziative di carattere imprenditoriale, è caratterizzata da esigenze pubblicistiche, deve essere privilegiato l'uso generalizzato del bene, attesa la sua vocazione al pieno godimento da parte di una massa indeterminata di soggetti con inevitabile soccombenza dell'interesse all'utilizzo particolare. È da sottolineare che, nella fattispecie, deve essere idoneamente motivato il provvedimento concessivo e non già il rifiuto alla concessione. E ciò perché la concessione comporta un uso diverso da quello del bene comune, il cui uso ha carattere di ordinarietà.
Inoltre, l'assentire in concessione un'area demaniale a spiaggia privata verrebbe a violare l'habitat naturale del litorale interessato, compromesso dal conseguente carico antropico, che verrebbe a determinarsi con l'afflusso di un maggior numero di utenti rispetto all'attualità (articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014.

EDILIZIA PRIVATA: Energia da fonti rinnovabili.
Domanda
Il mio fondo può essere soggetto a servitù coattiva a mezzo di pale di aerogeneratore per la produzione di energia da fonti rinnovabili?
Risposta
Il Consiglio di Stato, con la sentenza numero 3723, del 12.06.2009, partendo dalla considerazione che la produzione di energia da fonti rinnovabili è un servizio pubblico, ha affermato che la Pubblica amministrazione, sulla base del regime speciale costituito dall' articolo 43, comma 6-bis, del decreto legislativo 08.06.2001, numero 327, dall'articolo 1, comma 4, della legge 09.01.1991, numero 10, e dall'articolo 12 del decreto legislativo 29.12.2003, numero 387, ha il potere di costituire, con un proprio provvedimento, una servitù di contenuto non previsto dall'ordinamento.
La fattispecie affrontata dal Consiglio di stato riguardava la costituzione di una servitù di sorvolo a mezzo di pale di aerogeneratore sul fondo del vicino.
I giudici Palazzo Spada superano il pensiero del Giudice di primo grado (Tar Puglia) che aveva affermato che la costituzione coattiva di una servitù di sorvolo del fondo altrui a mezzo delle pale di un aerogeneratore di energia non figura tra quelle astrattamente descritte dalla legge in materia di energia e non estensibili al di fuori dei casi espressamente considerati stante la natura eccezionale della relativa disciplina.
Per il Consiglio di stato, la disciplina civilistica per la costituzione di servitù volontarie o coattive tra privati non è esaustiva, atteso che lo stesso codice civile , all'articolo 834, comma 2, prevede che regimi espropriativi speciali siano introdotti e disciplinati da apposite norma ad hoc. E in tali discipline speciali, per i Giudici, deve essere ricompresa, in particolare, anche la realizzazione di impianti eolici per la produzione di energia elettrica. È questa, per il Consiglio di stato, una materia che presuppone la possibilità, in relazione alle singole fattispecie concrete, di graduare il sacrificio da imporre ai privati in vista della realizzazione dell'interesse pubblico perseguito.
E ciò in ragione del combinato disposto dell'articolo 43 citato, che considera di interesse pubblico e di pubblica utilità l'utilizzazione delle fonti di energia rinnovabili, e dell'articolo 12, pure citato, che ribadisce il principio che le opere concernenti la realizzazione degli impianti i energia eolica sono di pubblica utilità, indifferibili e urgenti (articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Lo statuto non può vietare la mobilità tra i gruppi consiliari.
Un consigliere comunale, distaccatosi dal proprio gruppo consiliare formato da tre componenti, ha accettato la nomina di assessore e dichiarato di voler formare un gruppo autonomo. È possibile fuoriuscire da un gruppo consiliare formato da tre unità, numero minimo stabilito dallo statuto dell'ente?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000). La materia, pertanto, è regolata dalle apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38 citato.
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, atteso che non è dato conoscere il contenuto del regolamento in ordine alla disciplina di dettaglio dei gruppi consiliari, si rileva che la norma statutaria, oltre a fissare il numero minimo di tre componenti, dispone, altresì, che i gruppi consiliari «devono essere espressione politica della lista di partecipazione alle elezioni del consiglio». Oltre al vincolo numerico sussisterebbe, dunque, l'obbligo di cristallizzare i gruppi all'esito elettorale, senza alcuna possibilità di variazione successiva all'insediamento del consiglio.
Tale disposizione statutaria qualora venga interpretata anche nel senso di vietare i movimenti all'interno dei singoli gruppi costituiti, sembrerebbe violare il principio fondamentale, confermato dalla giurisprudenza (cfr. Tar Lazio, sentenza n. 649 del 21.07.2004) secondo il quale «non è configurabile alcun obbligo giuridico che vincoli l'eletto al proprio partito ovvero ai propri elettori che non permetta, nel corso della consiliatura, l'abbandono della coalizione d'origine e il contemporaneo transito in altra coalizione».
Va da sé che gli eventuali mutamenti, oltre a incidere sul numero dei gruppi, ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, influiscono sulla composizione delle commissioni consiliari, modificando i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio.
Fatta salva la verifica dell'effettivo contenuto delle disposizioni regolamentari, i vincoli statutari non consentirebbero le modificazioni evidenziate, sicché appare opportuna da parte dell'ente, la modifica delle stesse disposizioni dello statuto, ai sensi dell'articolo 6 del decreto legislativo n. 267/2000 ed, eventualmente, delle norme regolamentari, sia per eliminare il possibile divieto di mobilità tra gruppi che per il necessario adeguamento alle successive prescrizioni di legge che hanno variato la composizione dei consigli comunali, in quanto la norma statutaria appare «rapportata a una diversa composizione numerica del consiglio comunale» (articolo ItaliaOggi del 17.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Conferenza dei capigruppo.
L'omissione, da parte del sindaco, della convocazione della conferenza dei capigruppo prima di ogni adunanza consiliare è compatibile con quanto previsto dalle norme del decreto legislativo n. 267/2000?

Nel caso di specie, a seguito di modifica, con delibera consiliare, del regolamento comunale, che ha ridisegnato la configurazione giuridica della conferenza dei capigruppo, il sindaco ha omesso di convocare la conferenza stessa prima di ogni adunanza consiliare, ritenendo tale adempimento non più obbligatorio alla luce delle nuove norme regolamentari.
In merito, lo statuto del comune, oltre a prevedere l'istituzione della conferenza dei capigruppo, ne delinea la funzione giuridica riconducendo le relative competenze alla finalità principale di garantire e sostanziare il diritto di informazione dei consiglieri, sia come singoli che come gruppi, previsto dall'art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
In sostanza, lo statuto dell'ente locale, pur demandando a una successiva fonte regolamentare la disciplina concernente il funzionamento e le specifiche attribuzioni della conferenza dei capigruppo, non consentirebbe di modificarne la funzione giuridica rispetto alle finalità perseguite dalle disposizioni del citato Tuel, in materia di diritto all'informazione dei consiglieri (articolo ItaliaOggi del 17.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Responsabilità raccolta rifiuti.
Domanda
Il titolare di un'impresa di raccolta dei rifiuti può essere coinvolto nelle responsabilità dei propri dipendenti?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione terza penale, con la sentenza del 15.11.2013, numero 45932, ha affermato che il reato di cui all'articolo 256, del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, ha natura contravvenzionale, che si integra mediante semplice colpa.
Ne consegue, per la Suprema corte che esso è ascrivibile anche al titolare dell'impresa sotto il profilo dell'omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata. Inoltre la Corte di cassazione, sezione terza penale, con la sentenza del 25.05.2011, numero 23971, ha precisato che l'articolo 178 del citato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, «ha puntualmente ribadito il principio di “responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano rifiuti”».
E la Corte di cassazione, sezione terza penale, con la sentenza del 28.02.2013, numero 13739, ha affermato che «il reato di gestione di rifiuti non autorizzata è ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo dell'omessa vigilanza dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata» e aggiunge che «la responsabilizzazione e la cooperazione di tutti i soggetti coinvolti, a qualsiasi titolo, nel ciclo di gestione non soltanto dei rifiuti è ribadita dal dlgs 15 del 2006, art. 178 il quale... stabilisce che “la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente (..) ai principi di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti”».
E il Tribunale amministrativo regionale della Toscana (Tar), sezione seconda, con la sentenza del 05.10.2011, numero 1443, ebbe a puntualizzare che «è ipotizzabile a carico del produttore dei rifiuti un titolo di responsabilità concorsuale omissiva nella condotta commissiva dell'autore dell'abbandono, in ragione della violazione colposa degli obblighi di sorveglianza nascenti dalla posizione qualificata di garanzia». Confronta, pure, al riguardo, la sentenza della Corte di cassazione, sezione terza penale, del 02.07.2010, numero 37194 (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti alimentati.
Domanda
Il termine per la conclusione del procedimento di autorizzazione alla realizzazione di impianti alimentati da energie rinnovabili è un termine perentorio?
Risposta
Il termine per la conclusione del procedimento di autorizzazione alla realizzazione di impianti alimentati da energie rinnovabili è, alla luce della giurisprudenza abbastanza costante, perentorio.
Il Consiglio di stato, sezione quinta, con la sentenza del 14.10.2013, numero 5000, ha affermato che il termine di 180 giorni, previsto dall'articolo 12, comma 4, del decreto legislativo numero 387, del 29.12.2003, ha il carattere della perentorietà, atteso che esso è un principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia elettrica. Esso, peraltro, viene a rispondere a esigenze di celerità e semplificazione amministrativa, venendo così a garantire uniformemente sul territorio nazionale il rispetto di un termine valido verso tutti per il rilascio dell'autorizzazione unica. Pertanto, il mancato rispetto di detto termine legittima il ricorso avverso il silenzio–inadempimento.
Però, per i giudici del Consiglio di stato: «Il giudice, con riguardo alla azione avverso il silenzio, può pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata, o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'Amministrazione». Ne consegue che neanche il giudice può sostituirsi alla Pubblica amministrazione, nonché alle scelte a essa riservate. Il giudice, poi, non può pronunciarsi «con riferimento, come scrivono i giudici di Palazzo Spada, a poteri amministrativi non ancora esercitati».
Con l'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 03.03.2011, numero 28, il termine per la conclusione del procedimento autorizzatorio summenzionato è stato ridotto a novanta giorni e ha conservato il suo carattere di perentorietà. Tale affermazione trova conforto nella sentenza numero 5895, del 21.11.2012, del Consiglio di stato che ha condannato una Regione, competente in materia di autorizzazione unica, per la mancata conclusione del procedimento nel termine perentorio di novanta giorni.
In ogni caso, il mancato rispetto di detto termine viola una chiara disposizione normativa e contravviene allo spirito di massimo favor rispetto a tale tipologia di impianti alimentati da energie rinnovabili, voluto dal legislatore e, a monte, dalla direttiva dell'Unione europea e di altri accordi conclusi a livello internazionale, tesi all'aumento della produzione di energia rinnovabile (Tar Molise, Campobasso, 29.11.2006, numero 984) (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Aree protette.
Domanda
Si chiede se, in tema di parere da emettere da parte dell'Ente parco, possa esser invocato il cosiddetto silenzio-assenso.
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione quarta, con la sentenza numero 5188, del 28.10.2013, ha affermato che in materia di tutela dell'ambiente, il parere dell'Ente parco, che ha in tutela l'area protetta, deve essere sempre espresso. Per i giudici, nel caso, non esiste un'ipotesi di silenzio–assenso, per cui il diniego di nulla osta, anche se sopravvenuto oltre il termine fissato dalla legge deve essere considerato legittimo.
Il pronunciamento dà un'interpretazione di segno opposto rispetto a quella formulata dallo stesso Consiglio di stato, sezione sesta, con la sentenza del 29.12.2008, numero 6591.
Il Consiglio di stato, con la citata sentenza del 2013, numero 5188, sottolinea che la disposizione contenuta nell'articolo 13 della legge 06.12.1991, numero 394 (legge quadro sulle Aree protette), che disciplina il nulla osta relativo alle opere che devono essere effettuate all'interno dell'Ente parco, è stata abrogata dalla disposizione portata dall'articolo 20, comma quarto, della legge numero 241, del 1990, così come sostituita dalla legge numero 80 del 2005, che ha convertito il decreto legge in materia di competitività. Detta disposizione, per i predetti giudici abrogata, prevedeva che il suddetto nulla osta poteva essere rilasciato anche tramite il silenzio-assenso, una volta decorso il termine di sessanta giorni, prorogabile una volta soltanto per un massimo di trenta giorni.
Per il Consiglio di stato, infatti, nel caso, non esiste un rapporto di specialità che consenta alla citata disposizione di cui all'articolo 13 della legge 06.12.1991, numero 394, di sopravvivere anche dopo l'entrata in vigore della successiva disposizione di cui al summenzionato articolo 20, comma quarto, della legge numero 241, del 1990, così come sostituita dalla legge numero 80 del 2005. Si è in presenza di una successione nel tempo tra due norme generali e, di conseguenza, la legge posteriore, alla luce del noto principio (articolo 15 del codice civile), viene ad abrogare la legge anteriore, con essa incompatibile (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

TRIBUTI: Tassa smaltimento rifiuti urbani.
Domanda
Sono proprietario di un garage auto che per la vetustà dell'edificio è inutilizzabile. Sono tenuto al pagamento, per esso, della tassa sui rifiuti solidi urbani, dato che in esso non viene prodotto alcun rifiuto?
Risposta
Il presupposto impositivo della tassa sui rifiuti solidi urbani, ai sensi dell'articolo 62, comma primo, del decreto legislativo numero 507, del 1993, (analogamente è disposto in ordine alla Tares e alla Tari), è il possesso o la detenzione di locali suscettibili di produrre rifiuti solidi urbani. Il successivo comma due prevede alcuni casi per i quali la tassa non è dovuta.
Essi sono individuati nel caso in cui i locali non possono produrre rifiuti per la loro natura o per il particolare uso a cui essi sono destinati stabilmente e nel caso in cui sono i predetti locali sono in condizione di obiettiva inutilizzabilità. Questo dato deve essere indicato esplicitamente nella denuncia originaria o di variazione presentata al Comune.
La Corte di cassazione, all'uopo interessata, con l'ordinanza numero 12443, del 03.06.2014, ha affermato che la predetta normativa pone una presunzione legale in ordine alla produzione dei rifiuti a carico del contribuente. Infatti, per i Supremi giudici, su di esso grava l'onere di provare l'esistenza dei presupposti per potere usufruire dell'esenzione, come per legge.
Pertanto, nel caso, se nella denuncia originaria o in quella di variazione, presentata al Comune competente, non sono state evidenziate le obiettive condizioni di inutilizzabilità del garage, la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani è dovuta (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.201).

TRIBUTI: Pertinenze Imu.
Domanda
Ai fini dell'Imposta municipale propria (Imu), esiste un criterio certo per individuare le pertinenze dell'abitazione?
Risposta
La legge numero 147, del 2013 (legge di stabilità per l'anno 2014), puntualizzando meglio la normativa che regolamenta l'Imposta municipale propria (Imu), portata dall'articolo 13 del decreto legge numero 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge numero 214, del 2011, ha affermato che la suddetta imposta non si applica al possesso dell'abitazione principale e delle pertinenze.
Ha aggiunto, poi, che per pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6, C/7, nella misura massima di una unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità ad uso abitativo. La Corte di cassazione, con la sentenza del 30.11.2009, numero 25127, ebbe ad affermare che, ai sensi dell'articolo 817, del codice civile, son pertinenze le cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa. Quindi, ai fini dell'attribuzione della qualità di pertinenza occorre basarsi, per i Supremi giudici, «sul criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra, secondo la relativa definizione contenuta nell'articolo 817 del codice civile».
In materia fiscale, aggiungono i predetti giudici, «attesa la indisponibilità del rapporto tributario, la prova dell'asservimento pertinenziale, che grava sul contribuente (quando, come nella specie, ne derivi una tassazione attenuata) deve essere valutato con maggiore rigore rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo privatistico.
Se la scelta pertinenziale non è giustificata da reali esigenze (economiche, estetiche o di altro tipo), non può avere valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che impone la tassazione in ragione della reale natura del cespite
» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014.

EDILIZIA PRIVATA: Distanza dal mare per costruzioni.
Domanda
La battigia del mare e la distanza delle costruzioni da essa come devono essere definite e interpretate?
Risposta
Ai fini del calcolo della distanza dal mare per l'inedificabilità nell'ambito dei centocinquanta metri, un elemento che bisogna prendere in considerazione è la battigia del mare.
Normalmente per battigia del mare si intende quella zona delle coste sabbiose e limose che viene periodicamente sommersa e scoperta dalle onde con mare calmo.
Tale definizione, però, non tiene conto del fatto che, per lo più, nel nostro Paese, si è in presenza di coste rocciose. Pertanto, è bene ritenere che per battigia del mare si debba intendere il punto in cui avviene il contatto tra il mare e la terraferma. In tal modo si viene ad avere un criterio di valutazione conforme per tutto il territorio nazionale. Ora, al fine di determinare la distanza della costruzione dalla battigia del mare, alla luce di costante giurisprudenza del giudice amministrativo, è bene effettuare il calcolo non con riferimento allo sviluppo scosceso dell'abitazione al mare, bensì prendendo in esame la linea orizzontale tra i punti più vicini del manufatto e della costa, nel punto di intersezione con la linea verticale proiettata dalla battigia al mare.
Diversamente, se si misurasse la distanza seguendo l'andamento scosceso del terreno si avrebbe che i litorali bassi e sabbiosi, spesso caratterizzati da una certa uniformità di paesaggio, sarebbero tutelati da un divieto assoluto di edificare a distanze inferiore a centocinquanta metri, mentre per il litorali frastagliati e discontinui, generalmente più interessanti sotto il profilo naturalistico e paesaggistico, il divieto non varrebbe per quelle costruzioni che si porrebbero a una distanza solo formalmente superiore a quella minima di legge, in ragione del dislivello o della particolare conformazione del pendio, pur essendo obiettivamente in linea d'aria a una distanza dalla battigia del mare inferiore a quella prescritta.
Al riguardo, interessante è la sentenza n. 998 del 29.10.2009 del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

CONDOMINIO: Animali e condominio.
Domanda
Il divieto di tenere animali è una regola legittima da inserire nel regolamento di condominio?
Risposta
Il quinto comma dell'art. 1138 del cod. civ., introdotto dalla legge di riforma del condominio n. 220/2012, efficace dal 17/6/2013, dispone che «le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici».
Pur non mancando opinioni di segno opposto, la tesi più accreditata -conforme agli orientamenti manifestatisi in passato in seno alla Corte di cassazione, che si ritengono essere stati deliberatamente recepiti dal legislatore nella riforma del condominio- è che tale preclusione (quella, appunto, di vietare gli animali in condominio) operi soltanto con riferimento ai regolamenti di tipo assembleare approvati a partire dal 18.06.2013 e non per quelli assembleari già in vigore prima di tale data, né per quelli di tipo «contrattuale» posto che con riferimento a questi ultimi il 4° comma dello stesso art. 1138 da sempre dispone che «le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni» -intendendosi per tali anche i regolamenti contrattuali– «e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli artt. 1118, 2° comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Attività extra lavorativa e lavoro occasionale di tipo accessorio.
L'INPS ha chiarito (cfr. circolare n. 88/2009) che per i dipendenti pubblici è possibile svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio, previa acquisizione della prescritta autorizzazione da parte dell'amministrazione di appartenenza, ai sensi dell'art. 53 del d.lgs. 165/2001.
Il Comune chiede di conoscere se sia possibile autorizzare un proprio dipendente a part-time (30 ore settimanali), previa autorizzazione ex art. 53 del d.lgs. 165/2001, a svolgere attività di lavoro occasionale di tipo accessorio, remunerata con i c.d 'voucher', presso altra pubblica amministrazione.
Preliminarmente, in linea generale, si osserva che il lavoro occasionale di tipo accessorio trova compiuta disciplina nell'art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, che ha subito rilevanti modifiche nel corso degli anni.
Si sottolinea che, come rilevato dall'INPS
[1], le prestazioni di lavoro occasionale accessorio debbono intendersi quali attività lavorative di natura meramente occasionale e accessoria, non riconducibili a tipologie contrattuali tipiche di lavoro subordinato o di lavoro autonomo.
Pur non rientrando il lavoro accessorio tra le forme lavorative che danno origine a una tipologia di lavoro subordinato, è da notare che l'art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, inserisce comunque detta tipologia di prestazioni fra le forme di contratti flessibili di assunzione e di impiego del personale, utilizzabili dalle pubbliche amministrazioni per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali
[2] ha sottolineato inoltre come la modifica al testo dell'art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, apportata dalla l. n. 92/2012, abbia eliminato quella serie di causali soggettive e oggettive che consentivano in precedenza il ricorso a detto istituto, sostituendolo con una disposizione che prevede essenzialmente limiti di carattere economico.
Allo stato attuale, quindi, per il committente pubblico si prevede la possibilità di ricorrere al lavoro accessorio 'nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno'
[3].
Pertanto, è possibile utilizzare il lavoro accessorio in tutti i settori, da parte di qualsiasi committente, con qualsiasi soggetto
[4], nel rispetto di un compenso massimo stabilito in 5.000 euro per anno solare.
Ciò premesso a livello di inquadramento generale, si osserva che l'INPS
[5], in merito alla possibilità, da parte dei dipendenti pubblici, di svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio, ha precisato che, per questi, trova applicazione l'art. 53 del d.lgs. 165/2001, in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi; nello specifico, si è sottolineato che è obbligatoria la richiesta, all'amministrazione di appartenenza, del rilascio di autorizzazione preventiva per lo svolgimento, a favore di soggetti pubblici e privati, di incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d'ufficio, per i quali sia previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso (art. 53, comma 6).
La citata norma esclude dalla richiesta di autorizzazione i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento, i docenti universitari a tempo definito e le altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito, da disposizioni speciali, lo svolgimento di attività libero-professionali.
L'INPS specifica altresì che la richiesta di autorizzazione può essere effettuata, ai sensi del comma 10 del citato articolo 53, da parte dello stesso dipendente o dei soggetti pubblici e privati che intendono avvalersi delle prestazioni del lavoro occasionale. Conseguentemente, l'impiego di dipendenti pubblici, senza la preventiva autorizzazione, comporta -per il dipendente e per l'amministrazione pubblica interessata- le sanzioni previste dai commi 7 e 8 del medesimo articolo 53.
Un'ulteriore precisazione, rilevante al fine che ci occupa, è stata fornita dallo stesso Istituto previdenziale
[6], che ha ritenuto doveroso evidenziare come, in considerazione di finalità antielusive, il ricorso all'istituto del lavoro occasionale non sia compatibile con lo status di lavoratore subordinato (a tempo pieno o parziale), se impiegato presso lo stesso datore di lavoro titolare del contratto di lavoro dipendente.
Pertanto, preclusa la possibilità di utilizzare, con detta formula lavorativa, un proprio lavoratore dipendente, risulta invece ammissibile l'espletamento di detta attività extra lavorativa presso un altro datore di lavoro pubblico, previa autorizzazione preventiva dell'Ente di appartenenza.
Per quanto concerne, da ultimo, l'aspetto relativo alla fiscalità dei 'buoni lavoro', si osserva che l'art. 72, comma 3, del d.lgs. 276/2003 precisa che il compenso relativo ai voucher è esente da qualsiasi imposizione fiscale
[7].
--------------
[1] Cfr. INPS, circolare 03.02.2010 n. 17.
[2] Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
circolare 18.07.2012 n. 18/2012.
[3] Cfr. art. 70, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003.
[4] Cfr. INPS, circolare 29.03.2013 n. 49/2013, punto 2. Tipologie di prestatori e attività, ove si precisa che, a decorrere dal 18.07.2012, data di entrata in vigore della legge n. 92/2012, il lavoro occasionale accessorio può essere svolto da qualsiasi soggetto (disoccupato, inoccupato, lavoratore autonomo o subordinato, full-time o part-time, pensionato, studente, percettore di prestazioni a sostegno del reddito).
[5] Cfr. INPS, circolare 09.07.2009 n. 88/2009.
[6] Cfr. la già citata circolare n. 49/2013, punto 2. Tipologie di prestatori e attività.
[7] Cfr. anche Voucher: il sistema dei buoni lavoro, consultabile in: www.inps.it e Vademecum buoni lavoro per lavoro occasionale accessorio, consultabile in: www.lavoro.gov.it. Per eventuali chiarimenti si suggerisce di contattare direttamente la competente Agenzia delle entrate
(07.10.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Sostituzione dipendente a tempo indeterminato con tempo determinato.
L'art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001 dispone che le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili (tempo determinato, somministrazione lavoro, ecc.) per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale.
Il Comune ha chiesto di conoscere se sia possibile sostituire un operaio a tempo indeterminato, che sarà collocato in quiescenza, mediante assunzione a tempo determinato. L'Ente manifesta in proposito la volontà di non accollarsi un impegno di costo a lungo termine, causa l'incertezza della relativa capacità di bilancio negli anni futuri. L'Amministrazione istante vorrebbe pertanto acquisire delucidazioni in ordine alla fattibilità di quanto prospettato (assunzione a tempo determinato), mediante l'integrazione della dotazione organica e il ricorso alla mobilità di comparto, o ad altre procedure del caso.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione e relazioni sindacali, preliminarmente si ritiene utile fornire un quadro generale illustrativo dei presupposti e condizioni che disciplinano, allo stato attuale, il ricorso ad assunzioni a tempo indeterminato e determinato nelle amministrazioni pubbliche e, nello specifico, negli enti del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale.
Norme di principio, applicabili a tutte le amministrazioni elencate all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (enti locali compresi) sono rinvenibili all'art. 36, commi 1 e 2, del medesimo decreto.
Il citato comma 1 prevede infatti che, per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario, le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, seguendo le procedure di reclutamento previste dall'articolo 35 del d.lgs. 165/2001.
Il successivo comma 2 precisa altresì che, per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa
[1], nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti.
Il Dipartimento della funzione pubblica
[2] ha evidenziato come il richiamato comma 2 'con l'inserimento della parola 'esclusivamente' (esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale), ha rafforzato il principio secondo cui la regola nell'instaurazione dei rapporti di lavoro è il contratto a tempo indeterminato (contratto dominante)'.
Premesso un tanto, si rileva come, a mente della legislazione vigente, il ricorso a contratti di lavoro flessibile (tempo determinato) non sia giustificato per fronteggiare esigenze di natura stabile e continuativa quale, per l'appunto, la sostituzione di un dipendente a tempo indeterminato cessato dal lavoro.
Come rilevato anche dall'ANCI
[3], la normativa vigente concernente l'utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato nella P.A. prevede un obbligo, a carico del datore di lavoro, di effettuare una preventiva verifica ed istruttoria circa la sussistenza o meno dei presupposti e delle motivazioni che consentono di avvalersi di tale forma contrattuale di lavoro.
Pertanto, alla luce delle considerazioni espresse, l'Ente può valutare se ricorrano i presupposti per l'assunzione a tempo determinato dell'operaio di cui trattasi, solo per esigenze a carattere temporaneo o eccezionale
[4], mentre, a fronte di esigenze organizzative che si protraggano nel tempo, l'assunzione a tempo indeterminato si pone quale giusta soluzione ai sensi della disciplina vigente, in materia di assunzioni nel pubblico impiego.
Si aggiunge inoltre che, per procedere all'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato, non è necessario adottare atti modificativi e integrativi della dotazione organica dell'Amministrazione, risultando sufficiente la manifestazione di volontà espressa nell'adozione dell'atto di programmazione del fabbisogno di personale, che periodicamente viene approvato ed, eventualmente aggiornato, in corso d'anno. Il giudice amministrativo[5] ha sottolineato, infatti, che la programmazione del fabbisogno del personale rappresenta 'il momento ricognitivo delle esigenze dell'Ente a livello organizzativo ed è finalizzata ad assicurare che le assunzioni del personale dipendente avvengano per far fronte ai compiti istituzionali di ciascuna amministrazione rilevati sulla base di una previsione riferita ad un arco temporale piuttosto ampio (un triennio) e non sulla base di esigenze organizzative contingenti ed estemporanee'.
Ribadito che, ai sensi dell'art. 36, comma 5-ter, del d.lgs. 165/2001, il ricorso al tempo determinato può avvenire esclusivamente per esigenze di carattere temporaneo o eccezionale, non appare necessario che le assunzioni si riferiscano a posti esistenti e vacanti nella dotazione organica.
Si sottolinea altresì che, come disciplina di riferimento, a seguito dell'intervenuta sentenza della Corte costituzionale n. 54/2014, gli enti locali del comparto unico applicano, in materia di assunzioni, le disposizioni introdotte dalla l.r. 12/2014, all'articolo 4, fermi restando i principi di coordinamento della finanza pubblica e delle norme regionali in materia di patto di stabilità e contenimento della spesa di personale.
Il comma 2 del richiamato articolo 4 sancisce l'applicazione, alle amministrazioni del comparto unico, a decorrere dall'01.01.2014, ai fini dell'attivazione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato o con contratti di lavoro flessibile (anche somministrato), delle disposizioni previste a livello nazionale in materia di limiti assunzionali e relative fattispecie di deroga
[6].
Da ultimo si rileva come il comma 6 del citato articolo 4 della l.r. 12/2014 imponga l'esperimento della procedura prioritaria di mobilità all'interno del comparto unico esclusivamente per l'attivazione di rapporti di lavoro con contratto a tempo indeterminato, per la copertura di posti vacanti, e non anche nel caso di instaurazione di contratti a tempo determinato.
In relazione a quest'ultima fattispecie di lavoro flessibile, esclusivamente -si ribadisce- per esigenze di carattere temporaneo o eccezionale, l'Ente potrà invece, a propria discrezione, procedere a bandire una selezione per il reclutamento del personale o, in alternativa, decidere di attingere a graduatorie già approvate e ancora valide (anche di altre amministrazioni del comparto).
---------------
[1] L'art. 36, comma 5-ter, del d.lgs. 165/2001 dispone espressamente che le disposizioni previste dal d.lgs. 368/2001 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES) si applicano alle pubbliche amministrazioni, fermi restando per tutti i settori l'obbligo di rispettare il comma 1, la facoltà di ricorrere ai contratti di lavoro a tempo determinato esclusivamente per rispondere alle esigenze di cui al comma 2 e il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato.
[2] Cfr. circolare n. 5/2013.
[3] Cfr. parere del 17.06.2014.
[4] Considerato che non è ammissibile la sostituzione di personale a tempo indeterminato con assunzioni a tempo determinato (nel senso di 'copertura' di un posto a tempo indeterminato nella dotazione organica con un'assunzione a tempo determinato), l'Ente potrebbe comunque dimostrare la necessità di ricorrere a personale con contratto a termine, per un determinato periodo, per fronteggiare incombenze urgenti e per lo svolgimento di attività improcrastinabili.
[5] Cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. II, n. 2339/2013.
[6] Per le assunzioni a tempo indeterminato, vedasi l'art. 3, commi 5 e segg., del d.l. 90/2014, convertito in l. 114/2014; per i contratti flessibili, vedasi l'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in l.122/2010
(06.10.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATAL’art. 73, comma 1, della l.r. 12.2005 stabilisce a tal fine che “in ciascun comune, almeno l'8 per cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria è ogni anno accantonato in apposito fondo, risultante in modo specifico nel bilancio di previsione, destinato alla realizzazione delle attrezzature indicate all'articolo 71, nonché per interventi manutentivi, di restauro e ristrutturazione edilizia, ampliamento e dotazione di impianti, ovvero all'acquisto delle aree necessarie”.
Sicché, la concessione del finanziamento pubblico, nei limiti delle risorse accantonate nel bilancio dell’ente, sia subordinato ad uno specifico provvedimento amministrativo che ne accerti l’ammissibilità alla luce dei parametri indicati dalla legge.
A tal fine l’amministrazione comunale è tenuta, oltre che a verificare riconducibilità degli interventi richiesti con quelli normativamente previsti e la loro compatibilità con gli strumenti urbanistici in essere, anche a valutare, nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa, l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera in ragione della consistenza ed incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni religiose.
Né il comune risulta obbligato a finanziare totalmente il programma presentato, potendo il finanziamento essere concesso solo in parte.
In assenza di siffatta valutazione, destinata a trovare espressione in un provvedimento formale dei competenti organi comunali adeguatamente motivato con riguardo agli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, non appare configurabile in capo ai potenziali beneficiari alcun diritto soggettivo a conseguire direttamente il finanziamento nella misura dell’accantonamento previsto dalla legge.

--------------
Con la nota sopra citata, il Commissario straordinario del comune di Sedriano (MI), espone quanto segue.
La legge regionale 11.03.2005, n. 12 impone ai comuni di accantonare ogni anno almeno l'8 per cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria in un in apposito fondo diretto alla realizzazione di attrezzature di interesse comune destinate a servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della chiesa cattolica (o delle altre confessioni religiose aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell'ambito del comune) che ne facciano richiesta, presentando entro il 30 giugno di ogni anno un programma di massima, anche pluriennale, degli interventi da effettuare.
La stessa legge regionale stabilisce, inoltre, che il comune, entro Il successivo 30 novembre, dopo aver verificato che gli interventi previsti nei programmi presentati rientrano tra quelli finanziabili, ripartisce i predetti contributi, finanziando in tutto o in parte i programmi a tal fine presentati.
Richiamati i predetti riferimenti normativi si rappresenta che il comune non ha mai proceduto all'accantonamento in bilancio della quota prevista dalla legge, né ha mai impegnato tale somma, ma, a fronte delle ripetute richieste di finanziamento presentate dalla locale parrocchia, ha impegnato e, successivamente, liquidato una quota decisa sulla base della disponibilità di bilancio del momento, a prescindere sia dall'importo del contributo che doveva essere accantonato e sia dal programma di massima che la parrocchia stessa, tramite il proprio rappresentante legale, aveva fatto pervenire al comune, unitamente alle fatture che rendicontavano l'avvenuta realizzazione dei lavori.
Si è quindi è venuta a creare una situazione tale che, in alcuni anni, l'importo corrisposto dal comune risulta inferiore, in altri, superiore a quanto dovuto in base alla legge regionale sopra richiamata.
Tutto ciò premesso e allegata la documentazione relativa al caso di specie, si formulano i seguenti quesiti.
- se il comune debba riconoscere il finanziamento di tali contributi pari ad euro 281.457,81 debito fuori bilancio ai sensi dell'art. 194 del TUEL;
- se il comune possa compensare le somme dovute al culto religioso con l'eccedenza corrisposta in più nel corso degli anni pari ad euro 39.449,76.
...
L’esame del merito della questione, nei limiti sopra riferiti, richiede di chiarire gli obblighi incombenti sul Comune per effetto delle disposizioni contenute nella legge regionale 11.03.2005, n. 12 dirette a promuovere, la realizzazione di attrezzature di interesse comune destinate a servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica e delle altre confessioni religiose aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune.
L’art. 73, primo comma, della predetta legge regionale stabilisce a tal fine che “in ciascun comune, almeno l'8 per cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria è ogni anno accantonato in apposito fondo, risultante in modo specifico nel bilancio di previsione, destinato alla realizzazione delle attrezzature indicate all'articolo 71, nonché per interventi manutentivi, di restauro e ristrutturazione edilizia, ampliamento e dotazione di impianti, ovvero all'acquisto delle aree necessarie”.
Lo stesso art. 73 precisa quindi che “i contributi sono corrisposti agli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70 che ne facciano richiesta. A tal fine le autorità religiose competenti, secondo l'ordinamento proprio di ciascuna confessione, presentano al comune entro il 30 giugno di ogni anno un programma di massima, anche pluriennale, degli interventi da effettuare, dando priorità alle opere di restauro e di risanamento conservativo del proprio patrimonio architettonico esistente, corredato dalle relative previsioni di spesa. Entro il successivo 30 novembre, il comune, dopo aver verificato che gli interventi previsti nei programmi presentati rientrino tra quelli di cui all'articolo 71, comma 1, ripartisce i predetti contributi tra gli enti di cui all'articolo 70 che ne abbiano fatto istanza, tenuto conto della consistenza ed incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni religiose, finanziando in tutto o in parte i programmi a tal fine presentati. Tali contributi, da corrispondere entro trenta giorni dall'esecutività della deliberazione di approvazione del bilancio annuale di previsione, sono utilizzati entro tre anni dalla loro assegnazione e la relativa spesa documentata con relazione che gli enti assegnatari trasmettono al comune entro sei mesi dalla conclusione dei lavori”.
Dal quadro normativo definito dalle disposizioni sopra richiamate emerge chiaramente che
la concessione del finanziamento pubblico, nei limiti delle risorse accantonate nel bilancio dell’ente, sia subordinato ad uno specifico provvedimento amministrativo che ne accerti l’ammissibilità alla luce dei parametri indicati dalla legge.
A tal fine l’amministrazione comunale è tenuta, oltre che a verificare riconducibilità degli interventi richiesti con quelli normativamente previsti e la loro compatibilità con gli strumenti urbanistici in essere, anche a valutare, nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa, l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera in ragione della consistenza ed incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni religiose.
Né il comune risulta obbligato a finanziare totalmente il programma presentato, potendo il finanziamento essere concesso solo in parte.
In assenza di siffatta valutazione, destinata a trovare espressione in un provvedimento formale dei competenti organi comunali adeguatamente motivato con riguardo agli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, non appare configurabile in capo ai potenziali beneficiari alcun diritto soggettivo a conseguire direttamente il finanziamento nella misura dell’accantonamento previsto dalla legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 17.10.2014 n. 263).

ENTI LOCALI: Sull'erogazione di un contributo comunale a fondo perso in favore della locale parrocchia.
In base alle norme e ai principi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.

Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo”.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che la svolge e, in quanto tale, riceve il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, le cautele debbono essere maggiori, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa.
Il finanziamento concesso a privati, in particolare, deve essere tale da non incorrere nel divieto di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del decreto legge 31.05.2010, n. 78.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione è la relativa funzione: la spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine
.
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che (direttamente) da parte di Comuni e Province costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.

Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere indicato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione è inoltre tenuta ad evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio.
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare conforme al principio di congruità della spesa mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale.
Il Comune potrà avvalersi delle predette indicazioni per l’adozione degli atti di esclusiva competenza rispetto alla fattispecie concreta descritta nella richiesta di parere.

---------------
Con la nota sopra citata, il Sindaco del comune di Suello (LC), formula alla Sezione una richiesta di parere nei termini di seguito riportati.
Si chiede di conoscere se sia ammissibile l'erogazione di un contributo a fondo perso di Euro 70.000 in favore della locale parrocchia per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione degli spogliatoi dell'oratorio di proprietà parrocchiale.
A tal fine si premette che la stessa parrocchia ha richiesto di accedere ad un contributo comunale diretto a consentire l'adeguamento della struttura sportiva esistente consistente nell'unico campo di calcio del territorio comunale.
Si rappresenta al riguardo che il comune di Suello non dispone di un campo di calcio comunale e che, pertanto, l’adeguamento della struttura esistente alle disposizioni vigenti, costituisce una risposta effettiva alle esigenze della cittadinanza.
Si precisa inoltre che sebbene il contributo comunale a fondo perduto sia destinato a finanziare l'esecuzione di lavori su un bene immobile non di proprietà comunale, la scelta di contribuire all'investimento da parte dell'ente, potrebbe essere comunque più vantaggiosa che non quella di procedere alla realizzazione di una struttura di proprietà comunale.
Si realizzerebbe infatti l’interesse di tutta la cittadinanza, prescindendo da qualunque riserva religiosa, di avvalersi di un impianto adeguato alle vigenti disposizioni in materia di impiantistica sportiva, non facendo gravare sul bilancio comunale le future spese necessarie per la manutenzione dell’immobile.
...
L’esame del merito della questione, nei termini sopra riferiti, richiede quindi di stabilire se ed entro quali limiti un Comune possa finanziare soggetti privati per lo svolgimento di determinate attività.
Si richiama, al riguardo, il consolidato orientamento emergente dai pareri emessi sul punto da questa Sezione (deliberazioni n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012, n. 218/2014/PAR) nei quali è stato precisato che,
in base alle norme e ai principi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 262/2012/PAR).
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che la svolge e, in quanto tale, riceve il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata.
Si consideri anche, sotto questo profilo, che l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, le cautele debbono essere maggiori, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa.
Il finanziamento concesso a privati, in particolare, deve essere tale da non incorrere nel divieto di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del decreto legge 31.05.2010, n. 78.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione è la relativa funzione: la spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine
(Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 1075/2010/PAR).
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che (direttamente) da parte di Comuni e Province costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.

Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere indicato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione è inoltre tenuta ad evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio.
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare conforme al principio di congruità della spesa mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale.
Il Comune potrà avvalersi delle predette indicazioni per l’adozione degli atti di esclusiva competenza rispetto alla fattispecie concreta descritta nella richiesta di parere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 17.10.2014 n. 262).

SEGRETARI COMUNALILo stipendio del segretario non può essere «alleggerito». Corte dei conti. Inapplicabile il Dl Pa in caso di cambio di ente.
Vi sono molti dubbi sulla legittimità del divieto di reformatio in peius del trattamento economico dei segretari comunali che passano a un ente di fascia inferiore, in quanto questa materia si deve considerare compresa nella contrattazione collettiva. In ogni caso sono esenti i segretari in disponibilità.
Sono queste le indicazioni contenute nel parere 03.10.2014 n. 52 della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Liguria.
Se questa "coraggiosa" tesi sarà confermata, si pongono seri dubbi sulla legittimità della diminuzione del trattamento economico dei segretari che sono passati in un Comune di classe inferiore, soprattutto laddove tale passaggio sia avvenuto prima dello scorso 1° gennaio, data di entrata in vigore della nuova disposizione.
Ricostruiamo tutti i passaggi. La legge n. 147/2013, al comma 458, ha abrogato le norme che impedivano la reformatio in peius del trattamento economico dei dipendenti pubblici, vale a dire l'articolo 202 del Dpr n. 3/1957, che obbligava le Pubbliche amministrazioni all'erogazione di una indennità ad personam nel caso di mobilità che determinava il peggioramento del trattamento economico in godimento, e l'articolo 3, comma 57, della legge n. 537/1993, per cui questa indennità non era riassorbibile con i futuri miglioramenti e non era rivalutabile.
Sulla base di queste disposizioni, la disciolta Agenzia dei segretari comunali, con la deliberazione n.275/2001, aveva stabilito che il segretario nominato presso un Comune della fascia immediatamente inferiore rispetto a quella di iscrizione manteneva la retribuzione di posizione prevista per la propria fascia di iscrizione.
Sulla scorta della legge di stabilità l'unità di missione del ministero dell'Interno, cioè la struttura che ha preso il posto della disciolta Agenzia dei segretari, con la circolare n. 3636 (P) del 09.06.2014, peraltro senza revocare la deliberazione dell'Agenzia, ha chiarito che l'abolizione del divieto di reformatio in peius si applica ai segretari comunali e provinciali, «lasciando intendere (ci dice il parere dei giudici contabili della Liguria) la non operatività della norma nei confronti del segretari comunali e provinciali che si trovano nella particolare situazione della disponibilità».
Il parere, nel confermare l'esclusione per i segretari in disponibilità, ricorda che la materia del trattamento economico dei dipendenti è dal Dlgs n. 165/2001 riservata alla contrattazione collettiva nazionale. Ed ancora, si afferma che «per il futuro la regolamentazione non potrà che essere individuata dalla contrattazione collettiva».
Su questa base viene tratta la seguente conclusione: «Per i segretari comunali e provinciali perdura la regolamentazione prevista dalla normativa e dai contratti collettivi vigenti quantomeno sino alla nuova tornata contrattuale. La mancanza di una norma precettiva impone infatti l'applicazione ai rapporti di lavoro delle regole espressamente previste dalla normativa e dalla contrattazione collettiva esistente, che rappresentano le uniche fonti di regolamentazione dei rapporti di lavoro in esame»
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2014).

PATRIMONIONelle norme di contabilità non si rinviene alcuna disposizione che impedisca al Comune di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che, in base all’ordinamento, deve perseguire, tanto più in relazione alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost..
L’attribuzione patrimoniale è consentita solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la collettività insediata sul territorio. Nel caso di attribuzione a titolo gratuito, poiché non emerge con immediatezza il collegamento tra l’atto traslativo (o comunque attributivo del diritto) ed i fini istituzionali dell’ente, sarà onere del cedente evidenziare le ragioni sottese all’atto di disposizione nonché la finalità che con l’atto medesimo intende soddisfare.

---------------
Il Sindaco del Comune di Giovinazzo chiede alla Sezione un parere in merito alla possibilità per un Comune di cedere in diritto di superficie un immobile, appartenente al patrimonio disponibile, in favore di un altro ente pubblico (ASL), senza corrispettivo in denaro e a tempo determinato, a fronte dell’impegno da parte del cessionario di realizzare, avvalendosi della possibilità di accedere a finanziamenti pubblici a destinazione vincolata, interventi di completamento, ristrutturazione e funzionalizzazione del bene concesso, da destinare a sede di pubblici servizi rivolti alla collettività locale.
Il Sindaco precisa, inoltre, che alla scadenza del termine previsto nell’atto di costituzione del diritto reale (da determinare in base al piano di ammortamento dell’investimento ed al valore del bene concesso), il Comune riacquisterebbe la piena proprietà dell’immobile
...
Passando al merito della richiesta, si tratta di valutare se sia ammissibile un trasferimento -a titolo gratuito e a tempo determinato -della proprietà superficiaria di un immobile, rientrante nel patrimonio disponibile comunale, a favore di altro ente pubblico, a fronte dell’impegno di tale ente di realizzare interventi sull’immobile medesimo che dovrà essere destinato allo svolgimento di pubblici servizi rivolti alla collettività locale.
Sul punto questa Corte si è già pronunciata più volte (cfr. Sezione regionale per il controllo Lombardia, deliberazione n. 262/PAR/2012 e Sezione regionale per il controllo Piemonte, deliberazione n. 36/PAR/2014, quest’ultima avente per oggetto l’attribuzione ad un soggetto terzo di un diritto di superficie, a titolo gratuito o dietro corrispettivo simbolico), rilevando come
nelle norme di contabilità non si rinviene alcuna disposizione che impedisca al Comune di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che, in base all’ordinamento, deve perseguire, tanto più in relazione alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost..
In altre parole,
l’attribuzione patrimoniale, anche a titolo gratuito, è consentita solo se risulta strumentale al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente, in quanto “se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Sezione regionale Lombardia deliberazione n. 262/PAR/2012).
In tale prospettiva,
rilievo fondamentale assume la relazione da mezzo a fine che deve esistere fra l’attribuzione patrimoniale ed i fini istituzionale dell’ente, mentre è indifferente sia il titolo-gratuito o oneroso- dell’attribuzione medesima sia la natura-pubblica o privata- del ricevente. Ed, infatti, “la natura pubblica o privata del soggetto che riceve attribuzione patrimoniale è indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata (cfr. Sezione regionale Lombardia deliberazione n. 262 cit.).
Siffatti principi sono stati ribaditi anche da questa Sezione con deliberazione n. 113 del 28.05.2014, ove
si è confermata l’ammissibilità di “attribuzione gratuita a terzi (anche soggetti privati) di beni pubblici se tale attribuzione era finalizzata al soddisfacimento di un adeguato interesse per la collettività insediata sul territorio”, precisando, tuttavia, che “negli atti di trasferimento sarà necessario evidenziare adeguatamente le motivazioni e le finalità pubblicistiche perseguite”.
In conclusione, questa Sezione ribadisce il principio generale per cui
l’attribuzione patrimoniale è consentita solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la collettività insediata sul territorio. Nel caso di attribuzione a titolo gratuito, poiché non emerge con immediatezza il collegamento tra l’atto traslativo (o comunque attributivo del diritto) ed i fini istituzionali dell’ente, sarà onere del cedente evidenziare le ragioni sottese all’atto di disposizione nonché la finalità che con l’atto medesimo intende soddisfare (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 25.09.2014 n. 165).

NEWS

APPALTI: Al via la spending review sugli acquisti della p.a..
Al via la spending review sugli acquisiti della pubblica amministrazione con la messa a punto da parte dell'Istat di un «paniere» di beni e servizi significativi; rispetto a questo paniere sarà scelto un campione di amministrazioni che dovranno fornire i prezzi di acquisto, pena la riduzione degli stanziamenti di bilancio, da confrontare con quelli di mercato; l'obiettivo finale sarà quello di arrivare a una tabella di confronto dei costi standardizzati, articolata per area territoriale e per tipologia di amministrazione.

È quanto prevede il decreto del ministero dell'economia del 23.09.2014 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18.10.2014, n. 243 che mette a punto modalità e criteri per la rilevazione e comparazione dei prezzi di mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni.
Come previsto dal codice dei contratti pubblici, saranno l'Istat, il ministero dell'economia e l'Anac, ad attuare questa prima fase necessaria all'implementazione della spending review sugli acquisiti della pubblica amministrazione, che mira alla comparazione, su base statistica, tra i costi sostenuti dalle amministrazioni e i prezzi effettivi di mercato, con elenchi dei prezzi rilevati da pubblicare in G.U. con cadenza almeno semestrale, entro il 30 giugno e il 31 dicembre.
In particolare il decreto ministeriale stabilisce che il «paniere» dei beni e servizi oggetto di rilevazione sarà individuato dall'Istat tenendo conto della incidenza della spesa, della diffusione presso le amministrazioni, della fattibilità della rilevazione e dell'esistenza di una domanda, per quei beni e servizi, confrontabile nel settore privato. Il paniere di beni e servizi rilevanti verrà poi sottoposto a revisione ed eventualmente aggiornato con cadenza almeno biennale. Le amministrazioni tenute a fornire i dati verranno scelte dall'Istat che individuerà un campione significativo di amministrazioni aggiudicatrici e lo comunicherà al ministero dell'economia.
Le amministrazioni che non risponderanno alle rilevazioni potranno essere oggetto di una proposta di riduzione da sugli stanziamenti di bilancio da parte del ministero dell'economia. La raccolta dei dati dovrà avvenire in due momenti: entro il 30 aprile e entro il 31 ottobre di ciascun anno, anche con apposite rilevazioni o avvalendosi delle camere di commercio (per i servizi informatici l'Istat si avvarrà dell'Agenzia per l'Italia digitale). Lo scopo sarà quello di arrivare a mettere a punto una tabella contenente gli elementi di confronto dei prezzi articolata per area territoriale e per tipologia di amministrazione.
Sarà sempre l'Istat a elaborare la metodologia di analisi dei dati; in ogni caso, poi, la tabella, i risultati della raccolta dei dati, la rilevazione dei prezzi di mercato e le relative elaborazioni, dovranno essere trasmessi all'Anac e al ministero dell'economia entro il 31 maggio e il 30 novembre di ciascun anno. Il decreto prevede che nei primi 18 mesi l'Istat possa effettuare la rilevazione anche rispetto ad un numero limitato di categorie di beni e servizi (articolo ItaliaOggi del 23.10.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATAPer l'Iva al 4% toccata e fuga. Priva di copertura l'agevolazione per chi ristruttura. SBLOCCA ITALIA/ Il dl si impantana sulle modifiche approvate in commissione.
Si va verso lo stop (per mancanza di copertura finanziaria) alla norma dello «Sblocca Italia», approvata dalla commissione ambiente della Camera, che prevede di far scendere al 4% l'Iva su ristrutturazioni e riqualificazione edilizia (si veda ItaliaOggi di ieri). Circostanza, peraltro, confermata dai tecnici del servizio bilancio della camera, nel loro dossier secondo cui la norma determina minor gettito e la copertura individuata (cioè l'aumento dell'Iva sulla vendita delle nuove costruzioni) «non determina necessariamente effetti positivi di gettito».
Non solo, aggiungono che è necessario anche «verificare» la compatibilità con la disciplina Ue. E, dagli stessi tecnici, arriva un'altra bocciatura: nel mirino le norme del testo sulla deroga al Patto di stabilità interno per le regioni, un intervento che, scrivono, «crea spazi finanziari che potranno essere utilizzati per il finanziamento di altre spese» e, proseguono, «appare dunque suscettibile di determinare effetti finanziari negativi sui saldi di fabbisogno e indebitamento».

Una situazione di incertezza per la quale ieri è slittato l'esame dell'aula di Montecitorio. E, con un voto dell'assemblea, è stata approvata la richiesta del Pd di invertire l'ordine dei lavori e di passare alla discussione generale sulla legge Comunitaria. Del decreto 133/2014 se ne potrebbe riparlare oggi, ma la ripresa dell'esame nell'emiciclo potrebbe slittare a lunedì, per dare alla commissione bilancio il tempo di recepire le relazioni della Ragioneria generale dello stato, così da esprimere il parere sulle coperture in settimana.
Per il presidente della V commissione Francesco Boccia (Pd), che ha partecipato alla riunione dei capigruppo, «l'esame del decreto potrà proseguire quando ci sarà il parere della commissione» e per questo è necessario avere «la relazione tecnica della Rgs». Non mancano, intanto, le critiche. L'aliquota al 4% per interventi di ristrutturazione degli edifici che beneficiano dell'eco bonus e del bonus casa si fonda su risorse per lo sconto che, però, sono «inspiegabilmente reperite dall'aumento dell'Iva dal 4 al 10% per le nuove costruzioni», affermano in una nota congiunta il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta e il deputato azzurro Rocco Palese.
«Bene incentivare le ristrutturazioni, anche se il provvedimento in questione potrebbe ricevere lo stop dall'Unione europea per una direttiva che limita l'applicabilità di aliquote Iva super ridotte. Ma, in ogni caso, non è accettabile usare come copertura finanziaria l'aumento delle tasse sulle nuove case (dal 4 al 10%), attaccando in questo modo il settore edilizio e le famiglia che vogliono acquistare una prima abitazione direttamente dai costruttori», aggiungono. Stessa posizione espressa dall'Aniem (Associazione nazionale delle imprese edili manifatturiere): in un «momento di persistente contrazione del mercato immobiliare e di scarsa propensione al consumo ci sembra una misura suicida quella di disincentivare ulteriormente la vendita di immobili», dichiara Alessandro Frascarolo, delegato all'edilizia privata.
La parola fine l'ha però probabilmente posta il sottosegretario all'economia Enrico Zanetti che sulla vicenda ha chiosato, via Facebook: «Per quanti mi hanno segnalato allarmati l'emendamento allo Sblocca Italia approvato in commissione ambiente che aumenterebbe al 10% l'Iva sulle cessioni di abitazioni nuove anche se prima casa, tranquillizzo in ordine al fatto che questa previsione normativa alla fine non ci sarà».
Verrà intanto reintrodotta nel testo del dl la norma (eliminata in commissione ambiente) che prevede, per usufruire della deduzione Irpef per l'acquisto di un immobile nuovo, l'obbligo di affittarla entro sei mesi e per otto anni. La norma era stata eliminata in commissione ambiente della camera con un emendamento, approvato, del Movimento 5 Stelle. Ma sul punto c'è il parere negativo del servizio bilancio della camera che sottolinea nel proprio dossier per l'aula come «l'emendamento non sembra coordinato con le restanti disposizioni dell'articolo modificato».
Non solo, tra i quattro nuovi emendamenti di «ritocco» presentati in comitato dei nove dalla relatrice Chiara Braga (Pd), ce n'è uno che introduce una nuova lettera a) al comma 4 dell'articolo 21 che dispone che, tra i requisiti per usufruire della deduzione Irpef al 20% del prezzo di acquisto dell'immobile, che «l'unità immobiliare acquistata sia destinata, entro sei mesi dall'acquisto o dal termine dei lavori di costruzione, alla locazione per almeno otto anni e purché tale periodo abbia carattere continuativo: il diritto alla deduzione tuttavia non viene meno se, per motivi non imputabili al locatore, il contratto di locazione si risolve prima del decorso del suddetto periodo e ne viene stipulato un altro entro un anno dalla data della suddetta risoluzione del precedente contratto» (articolo ItaliaOggi del 22.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Qualificazione, stretta di Cantone. Un manuale dell'Anac per superare le distorsioni del passato. Appalti. Controlli rigidi sulla certificazione dei lavori privati per evitare che si gonfino i fatturati.
Stop ai trasferimenti di «scatole vuote» utili solo all'aumento delle classifiche di partecipazione al mercato dei lavori pubblici. Controlli più stringenti sulla certificazione dei lavori eseguiti per conto dei privati, terreno in cui sono per anni girati pezzi di carta buoni solo per gonfiare ad arte il curriculum delle imprese.
Riordinando il monumentale corpus di documenti emanato negli anni per guidare le procedure di qualificazione dei costruttori interessati agli appalti pubblici, l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) coglie l'occasione per imprimere una sterzata sui due principali fenomeni che hanno ingrassato il fenomeno della corruzione legato al business della certificazione. Una manovra in cui è possibile vedere la mano di Raffaele Cantone, da qualche mese ormai alla guida della nuova Anac che ha fuso per incorporazione anche la vecchia Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
In 426 pagine il "manuale della qualificazione" mette ordine nel dedalo di provvedimenti emanati negli ultimi 15 anni dall'Avcp raccogliendo in un codice aggiornato oltre 300 tra determinazioni, delibere e comunicati. Un lavoro di disboscamento con alcune importanti novità.
La prima riguarda il fenomeno delle cessioni di ramo d'azienda, da cui ha preso origine anche una delle ultime inchieste della procura di Roma sul business della false attestazioni. Il manuale introduce una serie di indici utili a verificare la consistenza dell'operazione, in modo da scongiurare trasferimenti messi in atto solo per acquisire requisiti virtuali, mai guadagnati sul campo.
Il primo sensore che deve far scattare l'allarme delle società private incaricate di certificare le imprese (le Soa) è la cifra d'affari dichiarata dal ramo di impresa ceduto. Questa dovrà essere perlomeno pari al 50% del fatturato medio registrato negli ultimi 5 anni. Altri parametri da valutare sono il trasferimento di almeno una parte dello staff tecnico e della attrezzatura necessaria a garantire la continuità aziendale e da ultimo la sussistenza di rapporti giuridici in capo al ramo di società ceduta. «Bisognerà verificare -spiegano all'Autorità- che l'impresa trasferisca debiti e crediti in essere per garantire che l'operazione non sia fittizia».
Completa il quadro un modulo standard a uso dei periti incaricati di quantificare la consistenza delle imprese cedute che dovrebbe consentire la rilevazione omogenea dei dati, evitando le "discrezionalità" del passato.
L'altro intervento riguarda l'utilizzo dei lavori privati ai fini della qualificazione al mercato pubblico. Con il manuale l'Anac introduce paletti impossibili da aggirare senza trasformare i certificati lavori (Cel) in carta straccia. Qualche esempio: se in cantiere era prevista la presenza di un direttore lavori sarà necessario accompagnare il certificato con una sua dichiarazione che attesti il completamento dell'opera.
Allo stesso modo fatture e contratti dovranno avere un riscontro di veridicità legato al permesso di costruire o alla Dia presentati dalle impresa presso l'ente che ha dato il via libera all'intervento. In assenza di riscontri certi il certificato sarà scartato. Altri chiarimenti riguardano l'indipendenza delle Soa (ormai solo 26 in attività), con misure mutuate dalla legge 190/2012 (anticorruzione) e sulla possibilità (concessa) di usare i lavori realizzati in subappalto ai fini della qualificazione, anche se non indicati nel bando di gara.
Con un comunicato l'Anac torna poi sulle difficoltà riscontrate dagli enti pubblici nella gestione delle gare con il sistema Avcpass, denunciate da ultimo dal presidente Anci Fassino. L'Anac non nasconde le criticità (si veda anche Il Sole 24 Ore del 17.09.2014) del sistema ereditato dalla passata gestione su cui «il presidente ha già chiesto agli uffici competenti di intervenire, ponendovi rimedio» (articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2014).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazioni con Iva al 4%. Ma sale al 10% l'imposta per chi compra dai costruttori. SBLOCCA ITALIA/ Il dl approda in aula alla camera. Probabile il voto di fiducia.
Sforbiciata all'Iva (dal 10 al 4%) per interventi edili, effettuati ricorrendo agli incentivi per l'efficientamento energetico e a quelli per la ristrutturazione di casa e arredi. Ma per compensare i minori incassi passa dal 4 al 10% l'Iva sulle nuove case vendute da imprese.
Dopo un iter travagliato (conclusosi sabato mattina dopo varie sedute notturne) in commissione ambiente della camera il decreto 133/2014, cosiddetto «Sblocca Italia» (Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), sbarcato ieri in aula per la discussione generale, entra oggi nel vivo dell'esame, con probabile richiesta del voto di fiducia.
Sul testo si addensano novità dell'ultima ora, fra cui la correzione, sulla base di un emendamento del M5s, che rende più conveniente realizzare lavori nella propria abitazione, servendosi di misure rifinanziate nella legge di Stabilità: l'ecobonus e il bonus casa, le cui detrazioni Irpef al 65% e al 50% vengono prorogate nel 2015, risulteranno appetibili grazie a un taglio dell'Iva fino al 4% (misura compensata, però, come si diceva, dal rincaro dal 4 al 10% dell'imposta per nuove costruzioni vendute direttamente dalle imprese).
Via libera, inoltre, alla modifica del Pd che darà la possibilità alla Cassa depositi e prestiti di acquisire richieste di anticipazione di liquidità degli enti locali per il pagamento dei debiti commerciali, non pervenute nei tempi utili. E, mentre l'esecutivo sarebbe pronto a blindare il provvedimento, accelerandone il passaggio ai senatori, arrivano le critiche delle Regioni che approvano un documento con proposte emendative, orientate al ripristino del contributo di 560 milioni di euro destinati alle amministrazioni a statuto ordinario e alla definizione della proposta di deliberazione del Cipe per il riparto delle risorse del Servizio sanitario nazionale per l'anno 2014.
La somma decurtata, si legge, secondo ammissione dello stesso governo si sarebbe scaricata su «scuole paritarie, sul finanziamento delle borse di studio, sugli interventi per agevolare la fruizione dei libri di testo», nonché le misure destinate alle persone disabili e sugli investimenti per il trasporto pubblico locale, ma «solo grazie all'accordo con le Regioni queste politiche si sono salvate». A gettare un'ombra sul provvedimento, infine, la Commissione europea, giacché nel pomeriggio di ieri arriva la notizia che una norma dell'articolo 5 del decreto potrebbe causare l'apertura di una procedura d'infrazione nei confronti del nostro paese.
I riflettori di Bruxelles si soffermano sulla possibilità per i concessionari autostradali di avanzare la stipula di atti per la modifica dei rapporti concessori esistenti sulla base di nuovi piani economico-finanziari, strada che permetterebbe «significative modifiche» a intese esistenti riguardanti, in particolare, i lavori da realizzare e il livello delle tariffe (articolo ItaliaOggi del 21.10.2014).

EDILIZIA PRIVATARegolamento unico edilizio al via.
Al via il regolamento unico edilizio; nelle manutenzioni straordinarie con la comunicazione di inizio lavori sarà necessario l'elaborato progettuale del professionista e la compatibilità antisismica e energetica; previsto un contributo straordinario per gli oneri di urbanizzazione per le varianti urbanistiche; limiti alle concessionarie autostradali e all'in house per gli interventi nel settore del rischio idrogeologico.

Sono queste alcune delle modifiche apportate al decreto legge 133/2014 (Sblocca Italia) dalla commissione ambiente e territorio della camera che sabato ha licenziato il testo da ieri all'esame dell'Aula. Fra le diverse novità spicca la reintroduzione (era infatti in una delle bozze iniziali del decreto legge) del cosiddetto regolamento unico edilizio, che dovrebbe mettere fine a più di 8000 regolamenti comunali diversi uno dall'altro.
La disposizione approvata prevede che il governo, le regioni e le autonomie locali, concludano in sede di Conferenza unificata accordi o intese per l'adozione ai sensi dell'articolo 8 della legge 05.06.2003 di uno schema di regolamento edilizio-tipo al fine di semplificare e uniformare gli adempimenti. Gli accordi, secondo un rinvio di rango costituzionale, costituiranno livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Il regolamento edilizio-tipo dovrà essere adottato nei termini fissati con i suddetti accordi.
Per quel che concerne l'edilizia privata viene previsto, per gli interventi di manutenzione straordinaria per i quali si può procedere con comunicazione di inizio lavori (sale da 258 a 1.000 euro la sanzione per mancata comunicazione), che il professionista incaricato attesti che le modifiche da apportare siano in linea con le norme sul rendimento energetico e antisismiche e produca gli «elaborati progettuali». Con una modifica all'articolo 26 la Commissione ambiente ha anche introdotto una norma che agevola l'approvazione di alcuni interventi di valorizzazione urbana.
In particolare si prevede che avranno priorità di valutazione, fra gli interventi oggetto di accordi di programma per il recupero di immobili demaniali inutilizzati, i progetti di recupero di immobili a fini di edilizia residenziale pubblica, da destinare a nuclei familiari utilmente collocati nelle graduatorie comunali per l'accesso ad alloggi di edilizia economica e popolare e a nuclei sottoposti a provvedimenti di rilascio per morosità incolpevole, nonché gli immobili da destinare ad auto recupero, affidati a cooperative composte esclusivamente da soggetti aventi è requisiti per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica.
Da segnalare è anche la norma per il calcolo degli oneri di urbanizzazione relativi alle varianti urbanistiche per interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso. La norma precisa che il maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, dovrà essere suddiviso in misura non inferiore al 50% tra il comune e la parte privata.
Sarà poi il privato a erogare al comune l'importo, sotto forma di contributo straordinario, che attesta l'interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche
Per gli interventi in materia di rischio idrogeologico una importante modifica all'articolo 9 riguarda gli affidamenti che le regioni potranno effettuare per la progettazione e l'esecuzione degli interventi. Le convenzioni potranno essere siglate anche con «tutti i soggetti pubblici e privati, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica prescritte dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163».
Controparti delle Regioni non saranno quindi soltanto le società in house, bensì anche tutti gli altri soggetti pubblici e privati. Infine viene riformulata la disposizione sugli investimenti delle concessionarie autostradali, con l'obbligo per le concessionarie di elaborare le proposte di modifica e il nuovo piano economico finanziario entro fine 2014, da inviare al ministero delle infrastrutture (con parere dell'Authority dei trasporti di Torino e della commissioni parlamentari) e sul quale sarà decisivo il parere della Unione europea (articolo ItaliaOggi del 21.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAcquisizioni in due fasi.
Per gli interventi in project finance i comuni sono obbligati a fare ricorso alle centrali di committenza soltanto per la fase successiva all'individuazione dell'opera di interesse pubblico.

È quanto chiarisce l'Anci a commento dei due dpcm (vedasi ItaliaOggi del 18 e 25/09/2014), in attesa di pubblicazione, che disciplineranno le modalità di acquisizione di beni e servizi da parte dei comuni non capoluogo di provincia. Questi ultimi dal 01.01.2015 (per beni e servizi) e dal giugno 2015 (per lavori), dovranno procedere o attraverso unioni dei comuni, o con consorzi e avvalendosi degli uffici delle province, o ancora ricorrendo a un soggetto aggregatore o alle province.
L'Anci analizza con una scheda di sintesi di ciò che potranno fare i comuni in base alle diverse dimensioni demografiche.
Fra i diversi chiarimenti forniti, rispetto agli interventi in finanza di progetto, l'Anci chiarisce che per gli interventi di partenariato pubblico-privato tutti i comuni non capoluogo di provincia possono ricevere singolarmente e autonomamente proposte -ad iniziativa privata- per la realizzazione di lavori e gestione di servizi mediante contratti di partenariato pubblico-privato e procedere al loro inserimento negli strumenti di programmazione dell'ente, qualora valutate di pubblico interesse.
Dopo tale passaggio, però, la successiva procedura di aggiudicazione dei relativi contratti dovrà, in ogni caso, essere effettuate dalle Centrali uniche di committenza e soggetti aggregatori come indicato per le procedure a iniziativa pubblica (articolo ItaliaOggi del 21.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAIl decreto sblocca-Italia. Iva al 4% sui lavori in casa. L'ulteriore incentivo al recupero edilizio entra nello «sblocca-Italia» alla Camera.
Sorpresa nello sblocca-Italia. Chi fa lavori in casa utilizzando i bonus fiscali del 50% (ristrutturazioni) e del 65% (efficientamento energetico) pagherà l'Iva al 4% anziché all'attuale 10 per cento.

L'ulteriore spinta all'attività del recupero edilizio (e all'emersione del "nero") è contenuta infatti nel testo del decreto legge approvato dalla commissione Ambiente della Camera e ora all'esame dell'Aula di Montecitorio. Per trovare la copertura finanziaria all'incentivo la commissione ha aumentato a larga maggioranza l'Iva sulla vendita delle nuove costruzioni dal 4 al 10%.
La commissione Ambiente ha inoltre eliminato uno dei vincoli all'incentivo fiscale per aiutare la cessione del patrimonio invenduto dei costruttori: resta la deduzione Irpef del 20% sul prezzo dell'immobile (fino a un tetto di spesa di 300mila euro) per chi acquista un immobile nuovo o pesantemente ristrutturato da un costruttore, ma l'agevolazione non è più vincolata alla cessione in affitto a canone concordato dell'abitazione per almeno otto anni. La nuova deduzione -presa a prestito da una legge sperimentata in Francia- cambia quindi totalmente pelle e varrà anche per l'acquisto della prima casa.
Il testo dello sblocca-Italia è arrivato ieri nell'Aula di Montecitorio dove aspetta il parere della commissione Bilancio sulle coperture. «Conto che la commissione Bilancio dia il via libera alla riduzione dell'Iva per il recupero edilizio -dice la relatrice del provvedimento, Chiara Braga (Pd)- ma è altrettanto importante che siano salvaguardate misure come la proroga dello stato di calamità per le zone colpite, le risorse destinate al fondo per le calamità naturali, le misure per il patto di stabilità dei comuni e di finanza regionale».
L'emendamento sull'Iva al 4% è stato presentato dal grillino Davide Crippa ma sulle politiche per il rilancio dell'attività di recupero edilizio la commissione presieduta da Ermete Realacci ha spesso votato all'unanimità, anche quando si è trattato di chiedere la proroga dei due bonus fiscali del 50% e del 65% (che effettivamente in legge di stabilità sono stati prolungati al massimo livello fino alla fine del 2015).
Intanto dello sblocca-Italia si occupa anche la Dg Mercato interno della commissione Ue che ha messo sotto i riflettori l'articolo 5 sulle autostrade. L'Italia rischia una procedura di infrazione: la lettera apre infatti la pre-procedura Eu-Pilot, chiedendo alle autorità italiane di fornire approfondimenti su determinate questioni per decidere l'esito della procedura.
La norma del decreto originario prevede che, a fronte di fusioni tra concessionarie o razionalizzazioni di reti, si possa adeguare il termine di scadenza di tutte le concessioni a quello più lungo fra quelli delle società interessate.
Una proroga implicita che ha suscitato prima la perplessità della commissione Ambiente della Camera e ora anche di Bruxelles. La commissione Ambiente della Camera aveva infatti già modificato l'articolo prevedendo comunque un parere vincolante della Ue ai fini dell'operatività della norma, oltre che il parere del Nars e dell'Autorità di regolazione dei trasporti, che peraltro già si era espressa criticamente in audizione per voce del presidente Andrea Camanzi.
«La disposizione legislativa in questione -scrive Bruxelles- sembra consentire la realizzazione di significative modifiche a contratti di concessione esistenti riguardanti, in particolare, i lavori da realizzare nell'ambito del rapporto concessorio e il livello delle tariffe». La commissione vuole valutare se «modifiche contrattuali effettuate sulla base di questa disposizione legislativa» possano portare a «proroghe significative della durata di concessioni esistenti».
La Dg Mercato interno ricorda, in particolare, che «la Corte di giustizia ha statuito che al fine di assicurare la trasparenza delle procedure e la parità di trattamento degli offerenti, modifiche apportate alle disposizioni di un contratto pubblico in corso di validità costituiscono una nuova aggiudicazione quando presentino caratteristiche sostanzialmente diverse rispetto a quelle del contratto iniziale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZICentrali uniche, soglia a 200 milioni. Acquisti della Pa. In arrivo i decreti attuativi sulle nuove regole.
Per entrare a far parte dei «soggetti aggregatori», via obbligata per gli acquisti di beni e servizi da parte dei Comuni non capoluogo a partire dal 1° gennaio prossimo, occorrerà dimostrare di aver pubblicato, negli ultimi tre anni, bandi con importi di base superiori alla soglia comunitaria (204mila euro) per almeno 200 milioni di euro, senza mai scendere sotto a un ritmo da 50 milioni all'anno. Se rispondono a questi requisiti, potranno aspirare al ruolo di «soggetti aggregatori» anche le Province e le Città metropolitane, le associazioni, unioni, consorzi e convenzioni tra enti locali: nel caso di Città metropolitane e Province, la verifica del valore dei bandi nell'ultimo triennio riguarderà gli enti locali che fanno parte dell'area territoriale dell'ente attuale.
A stabilire i requisiti per le centrali uniche di committenza è il Dpcm attuativo delle nuove regole, scritte all'articolo 9, comma 2, del decreto 66/2014.
Il provvedimento ha completato l'esame in Conferenza Stato-Città ed è in corso di emanazione, insieme a un Dpcm parallelo che istituisce il «tavolo tecnico dei soggetti aggregatori», coordinato dal ministero dell'Economia e formato anche dai rappresentanti di Palazzo Chigi, Anci, Upi e Regioni, oltre che da un componente per ciascun soggetto aggregatore compreso nell'elenco definitivo.
I due provvedimenti sono il tassello essenziale per provare a far partire davvero la centralizzazione degli acquisti (il passaggio «da 32mila centrali di committenza a 35», per ricordare la parola d'ordine del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli), prevista fin dal decreto «Salva-Italia» di fine 2011 e poi costantemente prorogata proprio perché non era stato preparato il terreno per l'attuazione. In questo quadro, il decreto Irpef di aprile aveva tentato un'accelerazione che aveva finito per bloccare il sistema degli appalti, sfociando quindi nell'ennesimo rinvio (articolo 23-ter del Dl 90/2014) che ha spostato al 1° gennaio il debutto dei nuovi obblighi per gli acquisti di beni e servizi e al 1° luglio la centralizzazione degli appalti di lavori. Una guida operativa, disponibile sul sito dell'Anci, indica agli enti locali tutte le scelte operative possibili a seconda dei vari tipi di acquisti.
L'emanazione del Dpcm è attesa a breve, anche perché dopo questo primo passo l'Autorità nazionale anticorruzione dovrà indicare in un proprio provvedimento le modalità operative per presentare la richiesta di far parte dell'elenco: a questo punto, gli aspiranti «soggetti aggregatori» avranno 45 giorni di tempo per bussare alle porte dell'Autorità e chiedere si essere inseriti in elenco. Verificate le domande, l'Anac stilerà l'elenco dei soggetti aggregatori, secondo un ordine decrescente in base al valore complessivo dei bandi realizzati da ciascuno nel triennio di riferimento, fino ad arrivare al numero massimo di 35. Per partire davvero entro il 1° gennaio, come prevede il calendario attuale per quel che riguarda gli acquisti di beni e servizi, i tempi, insomma, sono stretti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati, dal 15 dicembre il nuovo codice deontologico. Professionisti. Regole di condotta pubblicate in «Gazzetta».
Conto alla rovescia per il debutto del nuovo codice deontologico forense. Sulla «Gazzetta ufficiale» n. 241 è stato pubblicato il testo con le regole di condotta cui dovranno uniformarsi gli avvocati iscritti all'Albo. La redazione del Codice era prevista sulla base della legge di riforma del l'ordinamento professionale, la n. 247 del 2012.
La disciplina entrerà in vigore il prossimo 15 dicembre e dovrà essere applicata dai nuovi organismi disciplinari, i consigli distrettuali di disciplina, che sono già stati costituiti e diventeranno operativi a partire dal 01.01.2015. La norma transitoria prevede l'applicazione anche ai procedimenti disciplinari in corso, a patto che le nuove norme siano più favorevoli al legale «sotto indagine».
Tra i punti qualificanti del nuovo impianto c'è innanzitutto una tendenziale tipizzazione degli illeciti disciplinari con la previsione della sanzione declinata nel minimo e nel massimo; una maggior grado di completezza delle norme deontologiche di riferimento, tra le quali sono ricomprese anche quelle sparse in diverse fonti legislative; la previsione di due nuovi titoli, il IV (Doveri dell'avvocato nel processo) e il V (Doveri verso le Istituzioni forensi).
Il primo è suggerito dalla tipicità della funzione difensiva; il secondo è elemento di rafforzamento del rapporto tra iscritti e Istituzioni rappresentative
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, ecobonus di lunga vita.
Lunga vita all'ecobonus. Con il ddl di stabilità 2015 il governo proroga fino a tutto il prossimo anno i bonus fiscali «casa» del 50% e del 65% che la manovra dell'anno scorso aveva messo in scadenza nel 2014.

Da quanto emerge dal documento approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 15 ottobre, ristrutturazione, risparmio energetico e nuovi arredi (bonus mobili) per la casa restano pertanto incentivati. Le dolenti note riguardano invece le ritenute fiscali sui bonifici, che dal 1° gennaio del prossimo anno passano dal 4% all'8%.
Le novità del ddl. Il governo ha confermato gli sconti fiscali previsti per i lavori di recupero edilizio con la quota Irpef al 50% e quelli per interventi di riqualificazione energetica con la quota al 65% per tutto il 2015, ma con alcune particolarità.
La manovra 2014 aveva previsto che il bonus al 50% poteva essere fruito per le spese sostenute fino al 31.12.2014, per poi ridursi al 40% dal 01.01.2015 e attestarsi al 36% dal 2016. Per le spese sostenute per interventi di riqualificazione energetica (es. coibentazione degli edifici, l'installazione di pannelli solari, la sostituzione di infissi e caldaie, ecc.), dall'attuale 65% si sarebbe passati dal 01.01.2015 al 50% e poi al 36% dal 2016. Il ddl della legge di Stabilità 2015 prevede per entrambi gli sconti fiscali la misura massima agevolata, al 50 e al 65%, per tutto l'anno prossimo, ma dal 2016 entrambe si ridurranno al 36%, senza aliquote intermedie.
Novità anche per lo sconto per gli interventi sulle parti comuni dei condomini. Finora si prevedeva lo sconto massimo al 65% fino al 30.06.2015, che doveva scendere al 50% fino al 30.06.2016. Ora il ddl cancella questo trattamento di favore prevedendo l'ecobonus al 65% per tutto il 2015 per poi assestarsi all'ordinario 36% dal 01.01.2016. Per ciò che riguarda i lavori di recupero antisismico degli edifici nelle zone 1 e 2 di pericolosità non ci sarà la proroga al prossimo anno, quindi dal 01.01.2015 la detrazione Irpef scenderà dall'attuale 65 al 50% e dal 01.01.2016 al 36%.
Confermato il bonus mobili, con la detrazione Irpef al 50% per l'acquisto di mobili e arredi ed elettrodomestici in classe A+ e A per i forni per tutto il 2015, nell'ambito dell'immobile oggetto di interventi edilizi (per cui si fruisce della detrazione per ristrutturazione).
Efficienza energetica. Per gli interventi di efficienza energetica, il ddl Stabilità 2015 ha previsto che la detrazione, per gli interventi sulle singole unità immobiliari, si applichi nella misura «potenziata» del 65% alle spese sostenute fino al 31.12.2015.
La manovra 2015 elimina, quindi, la rimodulazione prevista dalla legge di stabilità 2014 secondo cui per le spese sostenute dal 01.01.2015 a 31.12.2015, la percentuale di detrazione si sarebbe dovuta ridurre al 50%.
Inoltre, per gli interventi eseguiti sulle parti comuni condominiali (artt. 1117 e 1117-bis c.c.) o su tutte le unità immobiliari dell'edificio, con una riformulazione dell'art. 14, co. 2, del dl 63/2013, è stabilito che la misura della detrazione Irpef/Ires del 65% si applichi per le spese sostenute fino al 31.12.2015.
I principali tipi di interventi di efficienza energetica agevolabili, ai fini della detrazione Irpef/Ires, riguardano:
- interventi su strutture opache orizzontali, verticali, finestre comprensive di infissi (art. 1, c. 345, legge 296/2006);
- riqualificazione energetica globale (art. 1, c. 344, legge 296/2006);
- installazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda (art. 1, c. 346, legge 296/2006);
- sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con caldaie a condensazione (art. 1, c. 347, legge 296/2006);
- sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con pompe di calore ad alta efficienza (art. 1, c. 286, legge 244/2007);
- sostituzione di scaldacqua tradizionali con quelli a pompa di calore (art. 4, c. 4, dl 201/2011, conv. legge 214/2011).
Ristrutturazioni edilizie. Il ddl Stabilità 2015 interviene anche in materia di detrazioni per le ristrutturazioni edilizie, con una modifica dell'art. 16 del dl 63/2013 convertito, con modificazioni, nella legge 90/2013.
A tal riguardo, la detrazione Irpef per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio viene confermata nella seguente misura del 50% anche per le spese sostenute nel 2015.
Secondo la legge di stabilità 2014, invece, la detrazione era così modulata:
- 50% fino a 96 mila euro, per le spese sostenute nel 2014;
- 40% fino a 96 mila euro, per le spese sostenute nel 2015;
- 36% fino a 48 mila euro dal 01.01.2016.
Messa in sicurezza statica. Il ddl di stabilità 2015 conferma la disciplina della detrazione del 50% per gli interventi relativi all'adozione di misure antisismiche e messa in sicurezza statica prevista dell'art.16, co. 1-bis, del dl 63/2013. Si ricorda che l'agevolazione si rende applicabile agli interventi:
- le cui procedure autorizzatorie sono attivate a decorrere dal 4 agosto 2013;
- eseguiti su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2), di cui all'Opcm 20.03.2003 n. 3274;
- che si riferiscono a costruzioni adibite ad abitazione principale o ad attività produttive. Come chiarito dall'Agenzia delle entrate nella circolare n. 29/2013 possono beneficiare della nuova detrazione sia i soggetti passivi Irpef, che i soggetti passivi Ires.
Rimane invariato l'ammontare complessivo della spesa agevolabile, che non può essere superiore a 96 mila euro per unità immobiliare.
---------------
Bonifici, la ritenuta raddoppia all'8%.
È una delle sorprese meno gradite che questo capitolo della manovra riserva ai contribuenti, e che penalizzerà soprattutto le imprese. Al momento del pagamento del bonifico (si ricorda che per fruire della detrazione è necessario che i lavori siano pagati con bonifico bancario o postale), banche e poste devono operare una ritenuta a titolo di acconto dell'imposta dovuta dall'impresa che effettua i lavori. Dal 06.07.2011 questa ritenuta era stata ridotta dal 10% all'attuale 4%. Secondo il testo provvisorio della nuova legge di Stabilità 2015 dal 1° gennaio del prossimo anno la ritenuta salirà all'8%.
Si ricorda che, secondo la normativa di riferimento, i pagamenti interessati dalla misura riguardano quelli connessi ai lavori su cui il contribuente finale può usufruire della detrazione del 36% o del 55% e pertanto:
- gli interventi di recupero del patrimonio edilizio ex art. 1, legge 27.12.1997, n. 449 e successive modificazioni;
- gli interventi sugli immobili volti a conseguire un risparmio energetico ex art. 1, commi da 344 a 347, legge 27.12.2006, n. 296 e successive modificazioni (detrazione irpef del 55%).
Per avere diritto alle suddette detrazioni, il contribuente deve effettuare il versamento delle spese detraibili tramite bonifici bancari o postali che contengano:
- la causale del versamento;
- il codice fiscale del soggetto che paga (beneficiario dell'agevolazione);
- il codice fiscale o numero di partita Iva del beneficiario del pagamento (destinatario del bonifico).
Rimangono esclusi da tale modalità di pagamento gli oneri di urbanizzazione, le imposte di bollo, le ritenute fiscali sugli onorari dei professionisti e i diritti pagati per le concessioni, le autorizzazioni e le denuncie di inizio lavori, che non possono essere pagate tramite bonifico (risoluzione 04.01.2011, n. 3/E).
Nel trattenere detto ammontare le banche e le poste (che agiscono per conto del beneficiario) operano in qualità di sostituti d'imposta con la conseguenza che esse dovranno osservare tutti i relativi adempimenti:
- il versamento della ritenuta entro il 16 del mese successivo a quello in cui hanno operato la rivalsa;
- la certificazione delle somme trattenute;
- la compilazione del modello 770.
Per quanto riguarda la determinazione della ritenuta, l'Agenzia delle entrate con la circolare n. 40/2010 aveva precisato che, per esigenze di semplificazione e di economicità, nonché per evitare errori determinati da un'applicazione impropria della ritenuta, si assume che, ai fini dell'applicazione della norma in esame, l'Iva venga applicata con l'aliquota più elevata. Conseguentemente, la ritenuta d'acconto del 4% (che sarà elevata all'8% dal 1° gennaio 2015) deve essere operata sull'importo del bonifico decurtato dell'Iva del 22% (articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIADeposito rifiuti in sicurezza. Senza precauzioni ambientali scatta la gestione illecita. La Corte di cassazione fa il punto sullo stoccaggio temporaneo ex dlgs 152/2006.
A legittimare la particolare forma di raggruppamento di rifiuti conducibile fuori dall'ordinario regime autorizzatorio è, oltre il rispetto dei confini spaziali, quantitativi e temporali stabiliti dalla Legge, l'osservanza delle parallele norme di sicurezza a protezione dell'eco-sistema. E il solo difetto di queste ultime è sufficiente a provocare l'illiceità radicale dell'intero stoccaggio, con lo scattare delle relative sanzioni per gestione non autorizzata di rifiuti.

Tale principio di diritto, enucleato dalla Corte di cassazione con due recenti sentenze (del 16 e 23.09.2014, rispettivamente n. 37843 e n. 38676) sullo storico istituto del «deposito temporaneo» del produttore di rifiuti previsto dal dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») acquista rilievo anche in relazione al rinnovato istituto del cd. «deposito temporaneo del detentore» di rifiuti elettrici ed elettronici previsto dal dlgs 49/2014 e in vigore dallo scorso 12.04.2014.
E questo sia per le analogie tra le due figure, sia perché la violazione delle norme sul deposito dei Raee sancite dal nuovo dlgs 49/2014 viene comunque punita attraverso le fattispecie sanzionatorie del dlgs 152/2006.
Il deposito temporaneo del produttore. Le pronunce della Suprema corte hanno a oggetto la figura di stoccaggio prevista dall'articolo 183, comma 1, lettera bb), del «Codice ambientale» (ed esercitabile, a mente del successivo articolo 208, senza necessità di autorizzazione) coincidente con «il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti» nel rispetto di precise condizioni relative alla quantità e qualità dei rifiuti, al tempo di giacenza, alla organizzazione tipologica del materiale e al rispetto delle norme tecniche di prevenzione ambientale previste dallo stesso «Codice ambientale».
Con la sentenza 38676/14 il giudice di legittimità sottolinea come sia sufficiente la violazione di queste ultime regole (tra cui l'organizzazione tipologica dei materiali e il divieto di miscelazione dei rifiuti pericolosi) a far rientrare tale forma di stoccaggio nella relativa diversa fattispecie (illecita) di deposito incontrollato o, nei casi più gravi, di discarica abusiva (con lo scattare delle relative sanzioni previste dall'articolo 256 relativo alle attività di gestione di rifiuti effettuate in assenza di autorizzazione ambientale).
La stessa sentenza, unitamente alla 37843/2014, conferma però (è utile ricordarlo) l'orientamento del giudice di legittimità a una lettura allargata della nozione di «luogo di produzione», dovendosi per tale intendere non solo l'area fisica nella quale i rifiuti sono stati materialmente nati ma anche lo spazio nella disponibilità dell'impresa produttrice degli stessi «funzionalmente collegato» al primo (perché, per esempio, insistente nello stesso perimetro aziendale) nel quale sono stati collocati.
E il deposito «temporaneo del detentore» (di Raee). Analoga, come accennato, alla descritta figura del deposito temporaneo ex dlgs 152/2006 (per la sua conducibilità in assenza di autorizzazione ambientale), ma diversa per la qualifica dei soggetti che la effettuano (in quanto non «produttori», ma semplici «detentori» di rifiuti) e per le regole preventive da osservare è il «deposito preliminare alla raccolta presso i distributori» di apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. «Aee») dei tecno-rifiuti (c.d. «Raee») da essi ritirati presso l'utenza all'atto del vendita di analoghi nuovi beni previsto dal dlgs 49/2014.
In base al combinato disposto delle norme dettate dal nuovo decreto del 2014 (erede del dlgs 151/2005) e di quelle previste dal dm 65/2010 (adottato in attuazione del dlgs del 2005, ma vigente anche sotto il nuovo), distributori, installatori e centri di assistenza Aee possono effettuare il raggruppamento dei Raee ritirati con la citata formula del «one on one» presso i locali del proprio punto vendita (o presso altri luoghi preventivamente comunicati ex dm citato) senza necessità di preventiva autorizzazione, a condizione che siano osservate determinate regole di tutela ambientale.
In base alle predette norme, tale deposito di Raee è infatti «liberamente» conducibile se, oltre al rispetto di precisi limiti quantitativi e temporali, viene effettuato in locali idonei, non accessibili a terzi, pavimentati e coperti, assicurando la separazione tra rifiuti pericolosi ed evitando la fuoriuscita delle loro sostanze nocive. E dunque, declinando il principio ribadito dalle citate sentenze della Corte di cassazione per il «deposito temporaneo del produttore», è fondato ritenere che anche in questo caso la sola inosservanza delle descritte regole di sicurezza ambientale provocherebbe il «declassamento» del raggruppamento agevolato di Raee a deposito non autorizzato, con l'applicazione delle citate sanzioni previste dall'articolo 256 del «Codice ambientale».
Con il dlgs 49/2014 ha altresì fatto il suo esordio nell'Ordinamento giuridico anche la figura del «deposito preliminare alla raccolta presso i distributori» di nuove Aee che provvedono al ritiro (in forma obbligatoria, se titolari di superfici di vendita al dettaglio superiore ai 400 metri quadri) di Raee di piccole dimensioni senza contestuale fornitura di nuove apparecchiature (cd. ritiro «one on zero»).
Come per il deposito dei Raee ritirati «one on one», anche questo tipo di raggruppamento non soggiace (a mente dell'articolo 11, comma 3, del decreto legislativo in parola) a preventiva autorizzazione, ma (a differenza del primo) il legislatore non ha parallelamente provveduto a dettare norme di dettaglio su misure di sicurezza da adottare ed eventuali limiti quantitativi, qualitativi o temporali dello stoccaggio, limitandosi a demandare a futuro decreto ministeriale la determinazione delle modalità semplificate di ritiro e prescrivendo espressamente che nel mentre viga unicamente l'obbligo di raccolta separata e stoccaggio in sicurezza dei soli «Raee di illuminazione».
Nelle more di tale nuova disciplina regolamentare sembra dunque che le norme precauzionali da adottare per (condurre legalmente) tale deposito debbano essere rintracciate in quelle più generali del dlgs 152/2006, apparendo di difficile applicazione sia quelle specifiche per il descritto «deposito temporaneo» ex articolo 183 dello stesso «Codice ambientale» (poiché formalmente riservate ai «produttori» di rifiuti) sia quelle particolari ex dm 65/2010 (poiché dettate per il raggruppamento dei Raee ritirati «one on zero»).
Tuttavia, la logica di tutela ambientale sottesa ai principi di precauzione e azione preventiva dettati dal Trattato Ue (ripresi dalla direttiva madre sui rifiuti 2008/98/Ce e declinati nello stesso dlgs 152/2006) parrebbe suggerire agli operatori del settore, in attesa delle nuove norme, comunque l'adozione (per analogia) delle più restrittive prescrizioni in materia di raggruppamento «agevolato» di rifiuti rintracciabili tra quelle esistenti, e questo sia in relazione ai limiti quantitativi e temporali del deposito che alle regole di sicurezza da rispettare (articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAIl bonus del 65% allarga la platea dei beneficiari. Soggetti Ires ammessi anche in caso di «detenzione». Reddito d'impresa. Gli ultimi orientamenti sulla detrazione per il risparmio energetico.
A beneficiare della detrazione del 65% per la riqualificazione energetica non è solo il proprietario dell'immobile, ma anche il possessore o detentore.
Una nozione, quella di «detentore», che allarga in modo significativo la platea dei potenziali beneficiari, soprattutto in relazione ai soggetti Ires, anche se giurisprudenza ed Entrate non sono sempre allineate.
Gli immobili strumentali
In base al Dm Sviluppo economico del 19.02.2007, la detrazione si applica alle spese effettuate su immobili esistenti (o su porzioni di essi), di qualsiasi categoria catastale, che siano posseduti o detenuti dal contribuente. Una esplicita limitazione è prevista per gli immobili concessi in locazione finanziaria: in questo caso la detrazione è concessa esclusivamente all'utilizzatore in base al costo effettivamente sostenuto dalla società concedente.
L'Agenzia, con la circolare 11/E/2014 (paragrafo 6.1), ha ribadito che sono ammessi al beneficio gli interventi effettuati su immobili strumentali, posseduti o detenuti, presso i quali è svolta la propria attività. Risulta, quindi, confermato il criterio riduttivo riconducibile alla strumentalità dell'immobile alla produzione del reddito d'impresa. Già in passato, infatti, la prassi in materia aveva disconosciuto il diritto sugli immobili merce (risoluzione 340/E/2008) oppure su quelli concessi in locazione da titolari di reddito d'impresa (risoluzione 303/E/2008).
La giurisprudenza di merito, però, non ha condiviso tale impostazione "limitativa" (sentenza 37/2013 Ctp Bolzano e sentenza 54/2013 Ctp Lecco), sottolineando che l'unica peculiarità prevista dalla norma (articolo 2 del Dm 19.02.2007) è relativa agli immobili in leasing. Secondo i giudici, dunque, la ratio della norma punta a incentivare gli interventi di riqualificazione energetica indipendentemente dall'utilizzazione dell'immobile. Al momento, però, chi seguisse la tesi dei giudici dovrebbe mettere in conto il rischio di un contenzioso.
Appalto e detenzione
Il beneficio fiscale spetta al possessore o detentore dell'immobile che sostiene effettivamente le spese. Il discrimine, però, non è tanto tra possesso e detenzione –entrambe ammesse al bonus– quanto piuttosto alle varie forme di detenzione, benché la norma non faccia alcun distinguo. In particolare, secondo alcune interpretazioni, la detrazione andrebbe riconosciuta solo nel caso di detenzione qualificata e non, invece, quando la detenzione è non qualificata (risposta ad interpello della Direzione centrale normativa, protocollo 83168/2013). In base a questa impostazione si avrebbero due livelli di detenzione:
- non qualificata, cioè svolta nell'interesse altrui (in relazione all'adempimento di un obbligo verso terzi, come quello del depositario o del mandatario);
- qualificata, cioè svolta nell'interesse proprio (come quella del conduttore o comodatario).
La giurisprudenza –in sede di riconoscimento al detentore qualificato della tutela possessoria– ha costruito varie ipotesi nelle quali si riconosce la qualità di detentore qualificato. Ad esempio, contratto produttivo di una detenzione qualificata, oltre a quelli menzionati del comodato e della locazione, è l'appalto, in quanto l'appaltatore –fino alla consegna dell'opera al committente– detiene l'opera nel suo personale interesse, in virtù di un rapporto obbligatorio e deve, pertanto, considerarsi detentore qualificato (Cassazione civile, sez. II, 28.05.2003, n. 8522). Ciò avviene pacificamente per l'appalto di opere, nel quale la realizzazione del bene è anche l'oggetto del contratto.
Diversamente ha ritenuto la Corte in riferimento alla particolare ipotesi dell'appalto di servizi, ricordando –anche sulla base di precedenti pronunce di legittimità– che il committente, in questo caso, continua a esercitare il potere di custodia e di vigilanza sul bene (Cassazione civile, sez. III, 04.02.2005, n. 2278). Ciò detto, non appare corretto sostenere che l'agevolazione non risulti mai applicabile nel caso di appalto di servizi. In primis, va ricordato che le pronunce della Cassazione si occupavano soprattutto delle finalità di custodia del bene; in secondo luogo, va osservato che la detenzione del bene immobile potrebbe essere del tutto eventuale o casuale rispetto alla prestazione di servizi o, di contro, intimamente legata alla prestazione: in questo secondo caso la detrazione dovrebbe spettare, ma la questione è aperta.
Gli altri casi
Meno controversa la natura di detenzione qualificata di quella esercitata dai soci di una società di capitali, su beni il cui godimento è collegato alla titolarità delle azioni societarie o quello del promissario acquirente che sia stato immesso nella materiale disponibilità del bene e che eserciti la detenzione qualificata nel proprio interesse, ma alieno nomine (Cassazione civile, Sezioni unite, sentenza n. 7930/2008).
Anche il subconduttore e il subaffittuario sono detentori autonomi e qualificati, servendosi della cosa nel loro esclusivo interesse. Ovviamente non può considerarsi detenzione qualificata quella conseguente a mera tolleranza altrui o ad atti d'arbitrio
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAEsercizio a cavallo: tempi supplementari per finire i lavori. Il caso. Come calcolare la data limite.
Le continue proroghe complicano l'applicazione della detrazione per le riqualificazioni energetiche da parte delle società con esercizio non coincidente con l'anno solare (il cosiddetto "esercizio a cavallo").
Il disegno della legge di stabilità per il 2015 –varato mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri– conferma la detrazione del 65% per le spese sostenute fino al 31.12.2015. La legge di stabilità per il 2014 (legge 147/2013) aveva invece esteso il beneficio fiscale del 65% fino al 31.12.2014, prevedendo che per le spese sostenute dal 1° gennaio al 31.12.2015 la detrazione spettasse nella misura del 50 per cento.
La proroga in arrivo, comunque, non cambia la questione interpretativa. La difficoltà principale è comprendere come le diverse scadenze vadano applicate alle società con esercizio a cavallo. Il punto di partenza è che la spesa viene detratta sulla base del criterio di competenza –secondo quanto chiarito dalle circolari 36/E/2007 (par. 4) e 20/E/2011 (par. 3.3)– e quindi indipendentemente dalla data di pagamento individuata per cassa. Il momento di imputazione dei costi, in particolare, è:
- per le prestazioni di servizi, la data di ultimazione delle prestazioni;
- per i beni mobili, la data di consegna o di spedizione, a meno che sia diversa o successiva la data in cui si verifica l'effetto traslativo.
In genere le proroghe, compresa l'ultima, non contemplano "esplicitamente" le società con esercizio a cavallo, in quanto, il legislatore, definisce una data finale puntuale: ad esempio, il 31.12.2014 per il 65% e il 31.12.2015 per il 50 per cento. Da qui il dubbio sulle regole da seguire per le società con esercizio a cavallo che, al momento indicato dal legislatore, si trovano con l'esercizio ancora aperto.
La risposta è nella circolare delle Entrate 36/E del 31.05.2007, al paragrafo 6, con cui l'Agenzia si era già espressa in una accezione espansiva: «L'agevolazione prevista dai commi 344, 345, 346 e 347 consiste in una detrazione dall'imposta lorda, che può essere fatta valere sia sull'Irpef che sull'Ires, in misura pari al 55 per cento delle spese sostenute nel 2007 o, per i soggetti con periodo d'imposta non coincidente con l'anno solare, nel periodo d'imposta in corso alla data del 31.12.2007».
Di conseguenza, da una interpretazione logico-sistematica della normativa e della prassi, si può ritenere che le società con esercizio non coincidente con l'anno solare potranno beneficiare dell'agevolazione sino alla chiusura dell'esercizio in corso alla data indicata dalla legge, quindi ben oltre la data "puntuale" fissata dalla norma.
Ad esempio, alla luce della proroga prevista dal Ddl della legge di stabilità, se si considera una società con esercizio 1° luglio-30 giugno, questa società dovrebbe poter beneficiare della detrazione del 65% fino al 30.06.2016. Questo, almeno, stando al testo attuale del disegno di legge, che continua a non menzionare espressamente il caso delle società con esercizio a cavallo
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2014).

EDILIZIA PRIVATASottotetti abitabili: slalom tra i requisiti fissati dalle Regioni. Decisivi gli oneri, le altezze medie e i rapporti aero-illuminanti. Ristrutturazioni. Il punto sulle normative dopo le ultime modifiche.
Prosegue l'aggiornamento della normativa regionale che disciplina la trasformazione in abitazioni dei sottotetti con l'approvazione quest'anno delle leggi di Emilia Romagna e Puglia. In alcune Regioni (per esempio Piemonte, Valle D'Aosta, Veneto, Emilia Romagna) è stato possibile realizzare questo tipo di intervento già dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Altre (come Calabria e Sardegna) hanno approfittato dell'emanazione della propria legge sul piano casa –con i premi di volumetria per gli interventi di ampliamento e demolizione e ricostruzione– per metter mano anche ai sottotetti.
Una normativa specifica per rendere abitabili i sottotetti è necessaria per derogare alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, ai parametri costruttivi previsti dai regolamenti edilizi e alle norme sulle altezze e sui requisiti igienici e sanitari stabiliti dal Dm del 05.07.1975: quando da un sottotetto si ricavano stanze da letto, cucina e bagno, sono quasi certi un aumento della superficie utile dell'immobile (oltre i limiti previsti dal progetto iniziale e dal Prg) e il mancato rispetto dello standard di altezza e di rapporto tra luci e superfici.
Le possibilità, le condizioni, i limiti e la convenienza a trasformare le soffitte in spazi abitabili stabilite da ogni Regione costituiscono una sorta di caleidoscopio: l'immagine cambia a seconda del parametro che si sceglie per analizzare l'insieme delle leggi regionali.
Tutte le Regioni richiedono altezze inferiori ai 270 cm regolari, ma con differenze, anche notevoli, da una all'altra. L'altezza media più prescritta per il locali abitabili è di 240 centimetri (per esempio Basilicata, Emilia Romagna, Marche, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sardegna, Veneto). In alcuni casi, per i locali di servizio, bagni, corridoi, viene abbassata di 10 cm. Qualche regione accorda una riduzione dell'altezza (-20 cm, in genere) anche nei Comuni classificati montani o semimontani, o comunque al di sopra di una certa altitudine: lo fanno, tra le altre, Calabria, Emilia Romagna e Molise. Le normative laziali, liguri, toscane, pugliesi prevedono che al di sotto di un'altezza minima gli spazi debbono essere chiusi con muri o mobili, se non sono in corrispondenza di fonti di luce.
È generalizzata la possibilità di aprire finestre e lucernai per illuminare i locali con luce solare (in alcuni casi sotto particolari prescrizioni o con l'esclusione di zone del territorio). Nelle Regioni che lo indicano, il rapporto aero-illuminante (in pratica la superficie delle finestre e quella del pavimento) è prevalentemente 1/16; è più alto solo in Basilicata, Calabria e Molise.
In quasi la metà delle Regioni (tra le quali Campania, Molise, Toscana, Veneto), per raggiungere le altezze medie e minime richieste dalle loro normative, non è permesso alzare la quota del colmo o modificare la pendenza del tetto. Una variabile non indifferente. Altre consentono questa operazione, ma la sottopongono a condizioni: in Liguria a seguito dell'innalzamento dei muri, la nuova altezza dell'edificio non deve superare quella prevista dal piano regolatore; nel Lazio si può cambiare tutto (altezza di colmo e gronda, pendenza della copertura) purché non comporti un aumento superiore al 20% della volumetria del sottotetto esistente. Qualche Regione esclude da questo tipo di intervento particolari aree: in Emilia Romagna le altezze di colmo e il resto non si possono toccare nei centri storici, in Sardegna nelle zone B (quelle totalmente o parzialmente edificate non classificate come centri storici).
Per recuperare in altezza non si devono necessariamente alzare i muri: lo stesso risultato può essere ottenuto abbassando il solaio del sottotetto, se quest'operazione non riduce l'altezza dell'ultimo piano a meno di quella standard. È permesso, tra l'altro, in Calabria, in Puglia, in Emilia Romagna e in Molise (in queste due Regioni a condizione che il prospetto del fabbricato non cambi).
Le normative di alcune Regioni riservano ai Comuni l'ultima parola su ciò che si può fare e su dove farlo. In Liguria, Piemonte, Sicilia, Sardegna occorre verificare presso i Comuni se hanno ristretto –entro i termini, ormai scaduti, previsti dalle leggi– le aree o tipologie di immobili nei quali i sottotetti non possono essere recuperati. In altre regioni (Emilia Romagna, Molise, Umbria, Veneto) i sindaci possono sempre decidere limitazioni o porre vincoli alla trasformazione dei sottotetti in abitazioni.
---------------
Oneri concessori alleggeriti in caso di ampliamento. I costi. In genere il conto aumenta quando si crea una nuova unità abitativa.
Variano da Regione e Regione i costi da sostenere per trasformare un sottotetto in un alloggio vivibile, in regola con le norme sull'agibilità. Impossibile, però, fare una graduatoria della convenienza territoriale per questo tipo di intervento. La spesa per realizzare l'intervento edilizio dipende dallo stato dell'immobile, dall'estensione della superficie che si vuole (o si può) rendere abitabile e dalla qualità dei materiali che vengono utilizzati. A questi importi si devono aggiungere quelli imposti dai vincoli e dalle prescrizioni normative, che non dipendono dalla volontà del proprietario.
Una voce di spesa che può essere più o meno rilevante è quella per il pagamento degli oneri concessori, che variano da Regione a Regione. Il recupero dei sottotetti, infatti, è classificato come ristrutturazione edilizia e si pagano gli oneri nella misura prevista per questa tipologia di interventi. In Emilia-Romagna si paga solo il contributo relativo al costo di costruzione. In Abruzzo, oltre a questo contributo, è richiesto il pagamento a tariffa doppia degli oneri di urbanizzazione: l'importo di questa maggiorazione non finisce nelle casse dei Comuni (che realizzano strade fognature scuole e palestre), ma in quelle dalla Regione; quest'ultima a sua volta li userà per finanziare interventi nei Comuni, ma senza garantire che ciascuno di loro riceverà una somma proporzionata a quanto dato.
Anche in Sicilia queste operazioni possono costare care: oltre agli oneri concessori, il proprietario deve versare alla Regione il 20% dell'incremento di valore dell'immobile determinato dalla trasformazione (e valutato in base alla variazione della rendita catastale). I Comuni marchigiani, invece, su questi interventi incassano un contributo sul costo di costruzione scontato del 20 per cento. La legge ligure, infine, prevede uno sconto del 50% degli oneri concessori se l'intervento di recupero non comporta la creazione di una nuova unità abitativa, ma solo l'ampliamento di una già esistente (per esempio con la creazione di una scala interna). Lo stesso sconto viene concesso anche se gli immobili interessati sono di edilizia residenziale pubblica.
La possibilità di creare, dal recupero del sottotetto, nuove unità abitative è un altro elemento differenziazione tra le Regioni. Il Friuli Venezia Giulia e la Toscana, per esempio, non lo permettono. Al contrario questa opportunità è offerta nelle Marche e in Emilia-Romagna: in questo caso chi realizza l'intervento, oltre agli spazi per i parcheggi pertinenziali all'immobile interessato dal recupero, deve cedere al Comune anche le aree per i parcheggi e il verde pubblico (in mancanza di spazi, il tutto può essere monetizzato). In alcune Regioni, inoltre, è richiesto il rispetto di certi standard solo per trasformare il sottotetto in abitazione autonoma da quella sottostante. In Lazio, Liguria e Puglia solamente in questo caso sono necessari i parcheggi pertinenziali: un mq di area di sosta ogni 10 mc di volumetria recuperata; se non ci sono aree si monetizza (in Lazio in base al costo di costruzione di un mq di parcheggio, in Liguria al prezzo di mercato).
Per calcolare i costi di un recupero, infine, occorre considerare le eventuali prescrizioni costruttive, che possono cambiare da un Comune all'altro (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2014).

LAVORI PUBBLICIIl bando «giudica» i salari. Il costo del lavoro deve essere inserito nella valutazione dell'offerta. Appalti. Le istruzioni operative nel modello Anac per i lavori assegnati in base al criterio del prezzo più basso.
Le amministrazioni che intendono aggiudicare un appalto di lavori con il metodo di valutazione del prezzo più basso devono utilizzare il bando-tipo approvato dall'Autorità nazionale anticorruzione, potendo integrarlo in alcune parti.
La nota illustrativa che accompagna il format fornisce una serie di importanti indicazioni sulla nuova disciplina delle categorie specialistiche e super-specialistiche introdotta dall'articolo 12 della legge 80/2014, facendo rilevare come la nuova normativa abbia apportato una riduzione delle tipologie.
In base alle nuove disposizioni non sono più infatti considerate super-specialistiche le categorie OS3 (impianti idrico-sanitari, cucine, lavanderie), OS8 (opere di impermeabilizzazione) OS20A e OS20B (rilevanti topografici e indagini geognostiche) e pertanto possono essere eseguite direttamente dall'aggiudicataria, se in possesso della relativa qualificazione, ovvero possono essere subappaltate per l'intero importo, senza necessità di partecipazione in raggruppamento verticale.
L'Anac propone anche una soluzione molto operativa per l'attuazione della norma sul rispetto dei minimi salariali (comma 3-bis dell'articolo 82 del Codice), confermando come la valutazione del costo del lavoro debba trovare la sua corretta collocazione nell'ambito della verifica di congruità dell'offerta (quindi richiedendo all'aggiudicatario la descrizione del modello organizzativo adottato per l'appalto e i contratti collettivi applicati), ma anche specificando che negli appalti di lavori edili potrà essere inserita nel bando una clausola che richiede l'applicazione, ai lavoratori coinvolti nei lavori oggetto della gara, del contratto nazionale e territoriale dell'edilizia sottoscritti dalle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
In ordine ai raggruppamenti temporanei di imprese, nel bando-tipo sono assunte le novità determinate dalla legge n. 80/2014 con riferimento alla distribuzione delle quote tra mandataria e mandanti, per cui le stesse possono essere liberamente stabilite entro i limiti consentiti dai requisiti di qualificazione posseduti dall'associato. Nell'ambito dei propri requisiti posseduti, la mandataria in ogni caso deve assumere, in sede di offerta, i requisiti in misura percentuale superiore rispetto a ciascuna delle mandanti con riferimento alla specifica gara.
Resta quindi fermo il principio secondo cui la mandataria deve essere in possesso di almeno il 40% dei requisiti di qualificazione e che le mandanti devono continuare a coprire, cumulativamente, il restante 60%, coprendone almeno il 10% ciascuna. Tuttavia le quote di partecipazione al raggruppamento possono essere ora liberamente stabilite, nel rispetto ovviamente dei limiti di qualificazione di ciascun componente del raggruppamento e dei vincoli sopra richiamati (almeno il 40% per la mandataria e almeno il 10% per le mandanti).
Inoltre, l'abrogazione del comma 13 dell'articolo 37 del Codice fa venir meno l'obbligo della corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione dei lavori dichiarate in sede di offerta.
Le stesse quote di esecuzione possono essere successivamente modificate, in fase di realizzazione dell'opera, con il consenso della stazione appaltante, nei limiti della qualificazione posseduta da ciascun componente il raggruppamento (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIL'Avcpass blocca le aggiudicazioni. Verifiche. L'allarme dei sindaci.
I Comuni lanciano l'allarme sulle criticità per le gare derivanti dall'utilizzo del sistema Avcpass e sollecitano l'Anac a intervenire.
Il presidente dell'Anci, Piero Fassino, ha segnalato a quello dell'Anac, Raffaele Cantone, i numerosi problemi che Comuni e imprese incontrano nell'utilizzo del sistema informatico per la verifica dei requisiti.
Molti enti lamentano che Avcpass non garantisce celerità di gestione delle informazioni, dando evidenza alle difficoltà riscontrate nella tempistica di messa a disposizione di vari tipi di documenti, da parte di enti certificanti.
L'Anci rileva che la questione più critica è determinata dal fatto che i Comuni, dopo aver esperito le gare, incontrano problemi operativi nell'utilizzo del sistema che impediscono, di fatto, l'aggiudicazione, poiché non consentono di verificare i requisiti.
Il sistema Avcpass è lo strumento informatico che consente l'accesso alla banca dati nazionale dei contratti pubblici (articolo 6-bis del Codice): la norma prevede che dal 1° luglio di quest'anno l'acquisizione dei documenti probatori per la verifica del possesso dei requisiti dichiarati dai concorrenti in gara sia effettuata solo attraverso Avcpass.
Un Comune che incontra problemi con il supporto informatico, se decide di acquisire i documenti probatori con la procedura tradizionale (quindi richiedendo a ciascun ente certificatore e all'operatore economico, per i documenti in sua esclusiva disponibilità) violerebbe l'obbligo perentorio, con la possibile contestazione di un'illegittimità evidente nello sviluppo del procedimento di gara.
La mancata acquisizione dei documenti una volta intervenuta l'aggiudicazione definitiva impedisce il conferimento di efficacia alla stessa e inibisce al Comune sia la stipulazione del contratto sia, in casi estremi, l'avvio d'urgenza dell'appalto. L'Anci evidenzia come l'impossibilità di avviare l'appalto crei gravi problemi, soprattutto per interventi urgenti (come la messa a norma di plessi scolastici).
L'Anac ha peraltro già operato alcune modifiche al sistema, rilevabili dalla versione 2.1. del manuale operativo per le stazioni appaltanti, ma Avcpass è ancora molto rigido, tanto che, qualora la stazione appaltante perfezioni il Cig non specificando correttamente alcuni aspetti dei requisiti, gli operatori economici hanno difficoltà a concretizzare il collegamento virtuale con i documenti e i dati che caricano nel sistema: risultano frequenti le richieste di chiarimenti, che obbligano l'amministrazione a rientrare nel sistema per le specificazioni nel Cig, dovendo tuttavia chiedere lo sblocco all'Anac
 (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Formazione, spese deducibili al 50%. Lo sconto diventa integrale per i «minimi» e per i corsi pagati ai dipendenti dalla società.
Nel caso del professionista dotato di partita Iva le spese sostenute per la frequenza di corsi di aggiornamento professionale sono deducibili per il 50 per cento. La deduzione avviene in base al principio di cassa e quindi nell'anno in cui effettivamente sostenute.

L'articolo 54 del Tuir, Dpr 917/1986, introduce di fatto una presunzione legale di inerenza attenuata, secondo la quale una quota parte di tali spese (il 50%) è da ritenere sostenuta per finalità di carattere ludico o, comunque... (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATASblocca-Italia in Aula verso la fiducia Torna il regolamento edilizio unico. Camera. La commissione Ambiente ha concluso l'esame alle 5 di ieri mattina.
C'è voluta una nottata di votazioni, finita ieri mattina alle 5.30, per completare l'esame del decreto legge Sblocca-Italia in commissione Ambiente della Camera. Domani il provvedimento è atteso nell'Aula di Montecitorio dove è pressoché scontato che il governo metterà la fiducia per evitare l'ostruzionismo del Movimento 5 Stelle che già in commissione ha provato a bloccare l'esame. Forti critiche anche dalla Lega che a un certo punto ha abbandonato l'aula della commissione.
«Sono stati presentati oltre 3mila emendamenti nel corso dell'esame –dice il presidente della commissione, Ermete Realacci– e ne abbiamo votati circa 1.200, con quattro notti di lavoro. Mi pare che il confronto costruttivo non sia mancato e sono soddisfatto dell'esito perché c'è stato un miglioramento del testo in molti punti critici del provvedimento». Si tenga conto che Realacci ha anche dichiarato inammissibili quasi una decina di emendamenti presentati dal governo, cosa che non succede molto spesso.
Tra questi quello che estendeva l'attività delle società di ingegneria (contro cui si erano schierati gli ordini degli architetti e degli ingegneri), quello che consentiva assunzioni a tempo determinato per l'Expo e quello che pretendeva di dichiarare «di pubblico interesse» tutti gli impianti legati al trasporto, allo stoccaggio e alla raffinazione degli idrocarburi.
Tra le misure approvate nell'ultimo tour de force con la regìa della relatrice Chiara Braga (Pd) c'è la reintroduzione dello schema di regolamento edilizio unico valido per tutti i comuni, proposto originariamente dal Consiglio nazionale degli architetti che infatti hanno subito commentato positivamente. Una norma che dovrebbe aiutare a superare lo spezzatino di norme e definizioni del settore edile. Correzione di rotta, invece, per l'articolo 5 sulle autostrade: i piani di fusione e le connesse proroghe dei termini di scadenza delle concessioni potranno essere approvati soltanto dopo il via libera preventivo dell'Unione europea.
Anche l'articolo 17 sulle semplificazioni edilizie e urbanistiche ha subìto numerosi modifiche. Centrali in questo capitolo gli emendamenti presentati dal pd Roberto Morassut: «Introduzione del contributo straordinario per le varianti urbanistiche e deroghe edilizie che consentiranno ai comuni una seria tassazione della rendita urbana per la prima volta nella storia urbanistica italiana; eliminazione dell'iniziale intenzione di lasciare in carico ai privati le opere pubbliche di convenzione; eliminazione del permesso di costruire in deroga per gli interventi di ristrutturazione urbanistica; obbligo di voto per i consigli comunali e di pubblicazione per i "permessi di costruire convenzionati"».
---------------
GLI EMENDAMENTI APPROVATI
Regolamento edilizio unico
È stato approvato dalla commissione Ambiente l'emendamento che introduce nel decreto legge Sblocca-Italia la previsione di uno schema nazionale di regolamento edilizio unico. Inizialmente proposta dal Consiglio nazionale degli architetti, la norma era rimasta nelle bozze del provvedimento urgente in agosto ma poi era stata eliminata nel testo finale per le osservazioni del Quirinale. La nuova versione supera quelle obiezioni. È una innovazione forte che supera lo «spezzatino» di norme tecniche e definizioni di 8mila comuni
Autostrade: serve l'ok della Ue
Correzione di rotta sostanziale per l'articolo 5 del decreto legge sulle concessionarie autostradali: i piani di fusione fra società concessionarie e di razionalizzazione della rete e le connesse proroghe dei termini di scadenza delle concessioni potranno essere approvati soltanto dopo il via libera preventivo dell'Unione europea. I piani autostradali dovranno ricevere anche il parere del Nars e quello dell'Autorità di regolazione dei trasporti. Salta di fatto la procedura straordinaria e accelerata che aveva voluto il ministro Lupi per velocizzare gli investimenti programmati
Semplificazioni urbanistiche
Accolto un emendamento Morassut che prevede l'introduzione del contributo straordinario per le varianti urbanistiche e per le deroghe edilizie che consentiranno ai comuni una seria tassazione della rendita urbana, l'eliminazione dell'iniziale intenzione di lasciare in carico ai privati le opere pubbliche di convenzione, l'eliminazione del permesso di costruire in deroga per gli interventi di ristrutturazione urbanistica, l'obbligo di voto per i consigli comunali e di pubblicazione per i «permessi di costruire convenzionati»
 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALa legge di stabilità. Raffica di detrazioni per ristrutturazioni e acquisto di mobili. Agevolato anche il risparmio energetico.
Il disegno di legge di stabilità per il 2015, approvato mercoledì scorso dal Governo, prevede la proroga a tutto il prossimo anno della detrazione Irpef del 50% sulle ristrutturazioni edilizie, sui mobili e sui grandi elettrodomestici e di quella Irpef e Ires del 65% sui lavori per il risparmio energetico qualificato.
Non è stata modificata, invece, la detrazione Irpef ed Ires del 65% sugli interventi antisismici "qualificati", che quindi sarà ridotta al 50% per i pagamenti del 2015. Infine, per i lavori verdi sulle parti comuni condominiali, il bonus del 65% è stato prorogato dal 30.06.2015 al 31.12.2015, eliminandolo definitivamente dal 2016.
A seguito di queste proroghe, non è necessario modificare i riferimenti normativi da indicare nei bonifici, quindi, per il risparmio energetico qualificato (compresi gli interventi verdi nei condomini) la norma agevolativa è sempre l'articolo 1, commi da 344 a 347, della Legge 296/2006, mentre per le ristrutturazioni edilizie, le misure antisismiche "qualificate" e l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici va indicato l'articolo 16-bis del Tuir.
Risparmio energetico
Il disegno di legge ha prorogato sino alla fine del 2015 l'aumento dal 55% al 65% della detrazione Irpef e Ires sugli interventi per il risparmio energetico qualificato degli edifici, in vigore dal 06.06.2013. In precedenza, era previsto che le spese sostenute nel 2015, fossero agevolate al 50 per cento.
Dal 2016 questa agevolazione per i lavori verdi "qualificati", prevista dalla Legge 296/2006, non sarà più utilizzabile, ma si potrà applicare solo l'articolo 16-bis, comma 1, lettera h), del Tuir per il risparmio energetico generico (basta il bonifico parlante e non va inviata la scheda tecnica all'Enea, entro 90 giorni dalla fine del lavori), il quale incentiva tutti gli interventi «relativi alla realizzazione di opere finalizzate al conseguimento di risparmi energetici», senza dover rispettare i rigidi requisiti previsti dal decreto dello Sviluppo economico 11.03.2008 e dalla Legge 296/2006 (si veda Il Sole 24 Ore del 26.07.2012).
Condomini efficienti
Per gli interventi sul risparmio energetico «relativi a parti comuni degli edifici condominiali di cui agli articoli 1117 e 1117-bis del Codice Civile» o che interessano «tutte le unità immobiliari di cui si compone il singolo condominio», la detrazione del 65%, in vigore dal 06.06.2013, è stata prorogata dal Dl di stabilità 2015 fino al 31.12.2015. In precedenza, era previsto che le spese sostenute fino al 30.06.2015 fossero agevolate al 65% e che quelle sostenute dall'01.07.2015 e fino al 30.06.2016 beneficiassero del bonus del 50%.
La riduzione del periodo agevolato di 6 mesi (prima metà del 2016), quindi, è stata bilanciata con l'aumento della percentuale del bonus dal 50% al 65% per il secondo semestre del 2015.
Limiti 55-65%
Per gli interventi sul risparmio energetico, l'aumento delle percentuali di detrazione dal 55% al 65% (dal 06.06.2013 al 31.12.2015) non incidono sull'importo massimo dello sconto Irpef ed Ires spettante, in quanto la variazione influenza la spesa massima agevolabile. La norma istitutiva della detrazione del 55%, infatti, prevede solo dei limiti di "detrazione" e non dei livelli massimi di spesa agevolabile; l'aumento della percentuale comporta, quindi, una diminuzione della spesa massima agevolabile per lo stesso intervento.
Recupero patrimonio edilizio
La maxi-detrazione del 50% sugli interventi sul recupero del patrimonio edilizio (manutenzioni, ristrutturazioni e restauro e risanamento conservativo), applicabile dal 26.06.2012, è stata prorogata sino alla fine del 2015. In precedenza era previsto che le spese sostenute nel 2015 fossero agevolate al 40 per cento. Dall'01.01.2016, comunque, si ritornerà a regime alla percentuale ordinaria del 36 per cento.
La proroga riguarda anche il limite massimo di spesa per singola unità immobiliare, che rimarrà di 96mila euro sino a fine 2015, per tornare ai consueti 48mila euro dal 2016. L'importo massimo della detrazione per singola unità immobiliare, quindi, sarà di 48mila euro sino a fine 2015 e di 17.280 dal 2016 in poi.
Misure antisismiche
Il disegno di legge non ha modificato, invece, la detrazione Irpef ed Ires del 65% sulle misure antisismiche dell'abitazione principale o delle costruzioni adibite ad attività produttive ("edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità", zone 1 e 2, Opcm 20.03.2003, n. 3274), quindi, solo per i bonifici effettuati dal 04.08.2013 al 31.12.2014 si potrà beneficiare, con le regole delle ristrutturazioni edilizie, della percentuale super-agevolata del 65%, mentre per i pagamenti del 2015 si dovrà applicare la minore detrazione del 50 per cento
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.10.2014 - tratto da www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATADiritti edificatori con registro al 3%. Uno studio del Consiglio nazionale notariato.
I diritti edificatori di cui all'art. 2643, n. 2-bis, c.c., non sono assimilabili ai diritti reali; di conseguenza, il loro trasferimento, ai fini dell'imposta di registro, non dovrebbe essere tassato con le aliquote previste per i beni e diritti immobiliari dall'art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al dpr n. 131/86 (in genere, 9%), ma con l'aliquota del 3%.

Ad affermarlo è lo studio 16.10.2014 n. 540-2014/T del Consiglio nazionale del notariato.
Il documento prende le mosse dalla novella dell'art. 5 del dl n. 70/2011, che ha introdotto nell'art. 2643 c.c. il numero 2-bis, il quale assoggetta a trascrizione nei registri immobiliari i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano diritti edificatori comunque denominati, previsti da norme statali o regionali ovvero da strumenti di pianificazione territoriale.
In relazione al «capostipite» di tali diritti, ossia il diritto di cubatura, l'amministrazione, basandosi su una ricostruzione elaborata dalla Corte di cassazione, nella risoluzione n. 250948/76 ha affermato trattarsi di diritto assimilabile ai diritti reali immobiliari di godimento, con i conseguenti effetti fiscali, in particolare l'applicazione, agli atti di trasferimento, dell'imposta di registro con le aliquote proporzionali previste per i beni e diritti reali immobiliari.
Questo orientamento, condiviso «in linea di massima» dal precedente studio del notariato n. 24/2002/T, è stato recentemente seguito dalla risoluzione n. 233/2009 in relazione alla cessione del diritto di rilocalizzazione degli edifici ai sensi della legge n. 38/1998 dell'Emilia Romagna.
Il nuovo studio, richiamando le opinioni dottrinarie contrarie e valorizzando la ratio del recente intervento legislativo, mette in dubbio l'orientamento consolidato, ritenendo preferibile la teoria che identifica nel diritto edificatorio non un diritto reale, ma un interesse legittimo tutelato dall'ordinamento, o anche una sorta di aspettativa di diritto in senso lato ma non un vero e proprio diritto soggettivo reale, oppure un bene immateriale di origine immobiliare.
La cessione di tali diritti sarebbe quindi soggetta all'imposta di registro del 3% ai sensi dell'art. 2 o dell'art. 9 della tariffa, con i connessi effetti sull'imposta ipotecaria e, eventualmente, catastale (articolo ItaliaOggi del 18.10.2014).

EDILIZIA PRIVATADetrazioni 50% e 65% applicabili un altro anno.
La ritenuta sui bonifici per i pagamenti delle spese di ristrutturazione raddoppia: dal 4 all'8%. Ma le attuali detrazioni del 50 e del 65%, per la ristrutturazione e il risparmio energetico, saranno applicabili per una ulteriore annualità, ovvero fino al 31/12/2015.

Il ddl Stabilità 2015 interviene sul dl 63/2013 allungando l'applicazione del bonus sul risparmio energetico, nella misura peri al 65%, anche alle spese sostenute nell'intervallo tra il 06/06/2013 e il 31/12/2015 e sulle ristrutturazioni edilizie, nella misura del 50%, dal 26/06/2012 al 31/12/2015.
La vera novità, però, riguarda l'innalzamento della ritenuta sui bonifici che, inizialmente, il legislatore fiscale, con l'art. 25, del dl 78/2010, convertito nella legge 122/2010 aveva indicato nella misura del 10% a titolo di acconto imposta, ponendo il prelievo a carico dei beneficiari del pagamento, per tutti i bonifici effettuati proprio da chi intende avvalersi di deduzioni e detrazioni fiscali.
Successivamente, il dl 98/2011, ha ridotto la misura della citata ritenuta, dal 10% al 4%, ferme restando le modalità di esecuzione, tenendo conto che le ritenute operate sono versate dalle banche e dalle Poste italiane, ai sensi dell'art. 17, dlgs 241/1997, con il modello «F24» ed entro il giorno 16 del mese successivo a quello in cui sono state operate. Le ritenute subite dai soggetti beneficiari dei bonifici sono scomputate, in sede di dichiarazione dei redditi, dall'Irpef o dall'Ires dovuta, secondo le regole generali (artt. 22 e 79, dpr 917/1986).
Come indicato in una specifica risposta ad una interrogazione parlamentare (q.t. 10/02/2011 n. 5-04177), il contribuente può utilizzare in compensazione, nel modello «F24», ai sensi dell'art. 17, dlgs 241/1997, l'eventuale credito di imposta risultante dalla dichiarazione dei redditi (modello Unico), dopo aver scomputato le ritenute d'acconto complessivamente subite nel periodo d'imposta e gli acconti versati.
La detta compensazione può essere effettuata dal giorno successivo a quello in cui si è chiuso il periodo d'imposta nel quale si è formato il credito medesimo, purché il contribuente sia in grado di eseguire i relativi conteggi e il credito, utilizzato per effettuare la compensazione, sia quello effettivamente spettante sulla base della dichiarazione che sarà successivamente presentata; in alternativa alla compensazione, l'eventuale credito può essere chiesto a rimborso (articolo ItaliaOggi del 17.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOSPECIALE LEGGE DI STABILITA'. Congelamento prolungato al 31/12/2015. P.a., confermato il blocco del Ccnl.
Confermato il blocco della contrattazione e dei salari per i dipendenti pubblici. Come già ampiamente annunciato nelle settimane scorse dal ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, la legge di stabilità 2015 prolunga fino al 31.01.2015 il congelamento degli emolumenti del pubblico impiego.
La prima mossa consiste nel prorogare gli effetti dell'articolo 9, comma 17, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010, ai sensi del quale: non è possibile dare corso, senza possibilità di recupero nel futuro, alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012 dei dipendenti pubblici; e per le procedure contrattuali e negoziali ricadenti negli anni 2013, 2014 e 2015 i contratti collettivi saranno ammessi per la sola parte normativa e senza possibilità di recupero per la parte economica.
Il secondo blocco riguarda l'indennità di vacanza contrattuale. Infatti, la legge di stabilità porta al quadriennio 2015-2018 il congelamento dell'indennità di vacanza contrattuale all'importo in godimento alla data del 31.01.2015.
In terzo luogo, la legge di stabilità inchioda anche le carriere. Infatti, resteranno valide fino al 31.12.2015 anche le misure stabilite dall'articolo 9, comma 21, del dl 78/2010, ai sensi del quale non sarà possibile effettuare né progressioni verticali, oggi sostituite comunque dai concorsi pubblici con riserva di posti, né progressioni orizzontali, ottenere, cioè, incrementi stipendiali. Eventuali progressioni orizzontali potrebbero avere, fino a tutto il 2015, solo effetti economici, secondo indicazioni date dalla Corte dei conti, per altro non corrette e condivisibili, dal momento che nel comparto regioni ed enti locali le progressioni orizzontali hanno solo effetti economici e non giuridici.
Dimagrimento anche per gli stipendi dei componenti degli uffici di diretta collaborazione dei ministri, come capi gabinetto o consiglieri legislativi. La legge di Stabilità estende a questi soggetti il limite massimo stipendiale previsto dall'articolo 23-ter del dl 201/2011, convertito in legge 214/2011 (il cosiddetto «salva Italia»), cioè il trattamento economico del primo presidente della Cassazione, senza possibilità di conservare quanto percepito, se l'incaricato provenga da amministrazioni presso le quali non operi tale limite (articolo ItaliaOggi del 17.10.2014).

LAVORI PUBBLICIEcco i bandi-tipo. Meno discrezionalità per le p.a.. APPALTI/ I modelli sono stati pubblicati dall'Anac.
Meno discrezionalità negli appalti pubblici di lavori oltre i 150 mila euro con il bando-tipo dell'Anac per i contratti da affidare con procedura aperta al prezzo più basso; nel disciplinare di gara che potranno utilizzare le stazioni appaltanti anche le indicazioni sul costo del lavoro, qualificazione delle imprese, verifiche dei requisiti (con il sistema Avcpass) e pagamento delle imprese.

È quanto emerge dalla lettura del bando-tipo n. 2 del 02.09.2014, emesso dall'Anac (Autorità nazionale anti corruzione) in attuazione dell'art. 64, comma 4-bis, del decreto legislativo 163/2006 (codice dei contratti pubblici).
Il lavoro, pubblicato ieri sul sito dell'Authority, consiste in un modello di disciplinare di gara per procedura aperta di un appalto di sola esecuzione di lavori di importo superiore a euro 150 mila euro.
Il modello, predisposto a seguito della consultazione pubblica di febbraio, e previa acquisizione del parere del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, è il primo bando-tipo per i lavori; a breve dovrebbero essere varati via definitiva anche i restanti modelli relativi alla sola esecuzione lavori con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e quelli per gli «appalti integrati» di progettazione ed esecuzione dei lavori.
L'obiettivo è quello di guidare e semplificare la complessa attività di predisposizione della documentazione di gara da parte delle stazioni appaltanti e di ridurre la disomogeneità fra i diversi bandi, oltre che il contenzioso connesso, soprattutto, alla previsione nei bandi di cause di esclusione che non trovano fondamento normativo nell'art. 46, comma 1-bis, del Codice si compone di un contenuto prescrittivo vincolante, in cui sono ricomprese le clausole relative alle cause tassative di esclusione, e di un contenuto prescrittivo discrezionale, riferito ad aspetti della procedura che devono necessariamente essere regolamentati nella documentazione di gara.
Fra le diverse indicazioni emerge quella sul costo del lavoro per il quale si prevede che siano le stazioni appaltanti a chiedere di inserirli nell'offerta anche se, in assenza di tale indicazione, non scatterebbe l'esclusione dalla gara. Per la verifica dei requisiti confermata l'utilizzabilità del sistema Avcpass.
Un bollino blu per le imprese
E sempre ieri Raffaele Cantone, presidente dell'Anac, ha dato la propria ricetta per fare emergere e premiare le aziende più corrette negli appalti. «Per la lotta alla corruzione», ha affermato il magistrato, «stiamo ragionando con Confindustria che ho trovato molto disponibile. Bisogna lavorare su due aspetti: per prima cosa prevedendo sanzioni per quegli imprenditori che espongono in essere fatti di corruzione o che non collaborano con l`autorità giudiziaria. E poi forse bisognerà fare una nuova rivoluzione e cioè premiare gli imprenditori che si comportano bene, accettano i controlli e sono trasparenti, magari con una sorta di bollino blu sulle imprese. Un bollino che potrebbe prevedere premi sulla possibilità di ottenere appalti. La rivoluzione deve essere quindi anche sul piano culturale. Ci sono troppe norme, la semplificazione sicuramente è un obiettivo ma senza abbassare il livello dei controlli» (articolo ItaliaOggi del 15.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIAppalti, al Tar ricorsi più veloci. CALAMITÀ/ Le modifiche dopo Genova.
Il Tar potrà evitare la fase cautelare e fissare direttamente il merito di un ricorso relativo ad appalti di lavori relativi ad eventi calamitosi, se l'interesse all'incolumità pubblica verrà ritenuto prevalente.

È questa l'immediata risposta del governo ai ritardi nella realizzazione delle opere di mitigazione del rischio idrogeologico di Genova, contenuta in un emendamento presentato ieri in commissione ambiente della camera.
La norma, inserita nell'ambito dell'articolo 9 sui lavori di estrema urgenza in materia di vincolo idrogeologico, antisismica e di messa in sicurezza, stabilisce che, per legge, dovranno intendersi come connaturate da esigenze imprecative connesse a un interesse generale anche «quelle funzionali alla tutela dell'incolumità pubblica».
Data questa qualificazione dell'interesse, il governo propone che in tutte le procedure di appalto («avviate o da avviarsi») e nelle procedure conseguenti alla redazione di un verbale di somma urgenza per interventi conseguenti alla dichiarazione dello stato di calamità naturale, il Tar può accogliere un ricorso cautelare soltanto se i requisiti di estrema gravità e urgenza previsti dal codice del processo amministrativo «siano ritenuti prevalenti rispetto alle esigenze di incolumità pubblica evidenziate dalla stazione appaltante».
In questi casi il giudice sarà tenuto, quindi, a fissare l'esame del merito del ricorso entro trenta giorni, saltando quindi la fase cautelare e con una decisione che potrebbe giungere entro un massimo di 30/40 giorni dalla presentazione del ricorso (articolo ItaliaOggi del 15.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIBando-tipo Anac per i lavori pubblici al massimo ribasso. Appalti. Obiettivo: gare uniformi, meno ricorsi.
L'Anticorruzione accelera sui bandi-tipo: i modelli previsti dal codice per ridurre il contenzioso negli appalti, provando a uniformare le prassi delle migliaia di stazioni appaltanti attive in Italia.
Dopo uno stop di alcuni mesi, ieri è stato pubblicato il modello standard per l'affidamento dei bandi di lavori pubblici di importo superiore a 150mila euro. Un documento fondamentale perché include la gran parte del mercato degli appalti relativi alle infrastrutture, anche se uscito in una versione ridotta rispetto al provvedimento messo in consultazione dalla vecchia Avcp a febbraio.
Il modello pubblicato ieri si riferisce infatti agli appalti di sola esecuzione da assegnare al massimo ribasso. Restano per ora fuori -e magari saranno oggetto di nuovi interventi dell'Autorità- le indicazioni per gli appalti integrati di progettazione e lavori e quelli da assegnare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa: formula che oltre al prezzo prende in considerazione anche gli aspetti tecnici di esecuzione del contratto e verso la quale spingono le nuove direttive Ue .
Il bando tipo si compone di una nota illustrativa e di un disciplinare. Quest'ultimo, chiarisce subito l'Anac, contiene alcune prescrizioni vincolanti (tra cui quelle relative alle cause di esclusione) e altre discrezionali. Le prime vanno riportate così come sono e «sono derogabili dalle stazioni appaltanti previa specifica motivazione ed entro i limiti del rispetto del principio di tassatività». Fanno parte di questo gruppo «le cause di esclusione», «le modalità di costituzione della cauzione provvisoria e le dichiarazioni su requisiti di ordine generale e speciale da rendere in sede di gara». Sulle seconde rimane un margine di discrezionalità della Pa.
Per ora l'Anac bypassa il nodo del cosiddetto «soccorso istruttorio», introdotto dal decreto legge 90/2014, causa di non pochi problemi interpretativi per le stazioni appaltanti,: sarà oggetto di una determinazione ad hoc.
Un'importante precisazione arriva invece sul contratto da utilizzare nei cantieri. L'Anac sposa l'indicazione data dal ministero del Lavoro su sollecitazione dei costruttori, segnalando l'opportunità di prevedere l'applicazione del contratto nazionale dell'edilizia negli «appalti di natura edile o prevalentemente edile».
Altri chiarimenti riguardano i costi di sicurezza, l'uso obbligatorio dell'Avcpoass, la gestione dei subappalti, l'avvalimento, la certificazione di qualità e i pagamenti. Oltre al bando tipo sui lavori, l'Anac ha messo a punto lo standard per le gare di servizi e forniture.
Questo schema-tipo diventerà però operativo solo dopo aver raccolto le osservazioni degli operatori tramite la consultazione on line aperta fino al 20 novembre
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Tecno-rifiuti tracciabili a 360°. Via a marcatura Aee alla fonte e gestione Raee a valle. Entra nel vivo la disciplina disegnata dai decreti legislativi 27/2014 e 49/2014.
Marcatura delle nuove apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. «Aee») con gli estremi del produttore, a partire dal 09.10.2014 e controllo telematico Sistri della gestione dei relativi rifiuti (cd. «Raee») dietro minaccia di sanzioni dal 01.01.2015.

Queste, insieme a più elasticità nell'utilizzo di sostanze pericolose nella fabbricazione delle Aee e nella scelta da parte degli stessi produttori del miglior sistema per garantire gli standard minimi di recupero/riciclo una volta a fine vita, le ultime novità che interessano la riformulata disciplina ambientale sulle tecno-apparecchiature, in vigore dalla seconda metà del 2014.
Il quadro normativo di riferimento. Le novità gravitano intorno ai due provvedimenti nazionali che nella prima parte del 2014 hanno riformulato le regole sulla eco-compatibilità di Aee e Raee: il dlgs 27/2014 sulla produzione ambientalmente sostenibile delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (adottato in attuazione della direttiva 2011/65/Ue e in vigore dal 30.03.2014) che prevede, sulla falsariga della precedente disciplina, la restrizione della commercializzazione di Aee contenenti determinate sostanze pericolose (piombo, mercurio, cadmio, cromo esavalente, bifenili polibromurati, eteri di bifenile polibromurato) e il dlgs 49/2014 (emanato in attuazione della direttiva 2012/19/Ue, in vigore dal 12.04.2014) sulla gestione dei relativi rifiuti.
Entrambe le nuove discipline (che sostituiscono pressoché integralmente quella dello storico dlgs 151/2005, lasciandone però in vita l'attuativo dm 65/2010 sul tracciamento semplificato dei rifiuti) sono fondate sulla logica di «catalogo aperto» che riconduce sostanzialmente sotto il loro campo di applicazione ogni apparecchiatura inquadrabile come «Aee» o «Raee». Il dlgs 27/2014 si applica, infatti, fin dal marzo scorso a tutte le apparecchiature elettriche ed elettroniche, con l'unica eccezione dei pannelli fotovoltaici installati in loco da professionisti. Il dlgs 49/2014 coprirà invece fino al 14.08.2018 solo un novero limitato di Aee a fine vita (coincidente con quello ex dlgs 151/2005, più i pannelli fotovoltaici) mentre dal 15.08.2018 si applicherà a tutte le Aee da dismettere (a eccezione di quelle per sicurezza nazionale, militare e spaziale).
Nuova marcatura Aee. Dal 09.10.2014, come anticipato, tutte le nuove apparecchiature elettriche ed elettroniche da immettere sul mercato devono essere provviste di un marchio identificativo del produttore e di un simbolo che ricordi l'obbligo di raccolta separata delle stesse una volta divenute rifiuti.
Ai sensi dell'articolo 28 del dlgs 49/2014 il marchio, conforme alla normativa «Cei En» di settore, deve contenere almeno un elemento tra nome del produttore, suo logo (se registrato), numero di iscrizione al Registro nazionale dei soggetti obbligati al finanziamento dei sistemi di gestione Raee. In aggiunta, dunque non in alternativa, è possibile apporre sulle Aee sistemi di identificazione a radio frequenza (Rfid), previa comunicazione e approvazione da parte del Comitato di vigilanza e controllo.
Nel tenore del dlgs 49/2014 il marchio apposto «deve consentire di individuare in maniera inequivocabile il produttore delle Aee e che le stesse sono state immesse sul mercato successivamente al 13.08.2005», imponendo dunque gli operatori in parola a intervenire anche sui beni già prodotti ma ancora non commercializzati alla data del 09.10.2014 (scadenza indicata dall'articolo 40 come termine iniziale dell'obbligo in parola).
Insieme al marchio deve altresì essere obbligatoriamente apposto il (noto) simbolo del contenitore dei rifiuti barrato indicante il divieto di smaltimento indifferenziato. Entrambe le etichettature devono essere apposte sulla superficie dell'Aee, su una sua parte visibile dopo la rimozione di un componente che non necessiti di utensili o, in caso di impossibilità per dimensioni o funzioni del prodotto, su imballaggio e istruzioni.
Deroghe per sostanze pericolose nelle Aee. Dallo scorso 26.09.2014 hanno inoltre piena vigenza sul territorio nazionale le eccezioni al divieto generale di utilizzo di alcune sostanze pericolose nella fabbricazione di nuove Aee introdotte dagli ultimi provvedimenti tecnici Ue del 2014.
Mediante il dm Ambiente 25.07.2014 sono infatti state trasposte nel dlgs 27/2014 (sulle apparecchiature elettriche ed elettroniche) le deroghe sancite dalle ultime otto direttive delegate (numerate dalla 69 alla 76) adottate dall'Unione europea in attuazione della direttiva madre 2011/65/Ue sulla restrizione dell'uso di determinate sostanze pericolose nei tecno-prodotti.
Le deroghe consentono l'uso in via eccezionale del piombo in strumenti di monitoraggio di impianti industriali, apparecchiature mediche, controllo motori e l'impiego del mercurio in monitor professionali e tubi luminosi. Il tutto sul presupposto dell'attuale insostituibilità tecnica delle sostanze in parola, condizione che, secondo l'attuale tenore del riformulato dlgs 27/2014, ne giustificherà l'impiego in alcuni casi anche fino al 2024.
Adempimento obblighi recupero/riciclo Raee. Dal 21.08.2014 vige anche una maggior libertà per i produttori di nuove apparecchiature nello scegliere il proprio sistema ottimale per garantire gli obblighi di recupero e riciclaggio minimi dei Raee generati dal consumo delle proprie Aee.
La legge 116/2014 ha infatti ritoccato le norme recate dal dlgs 49/2014 sulle opzioni offerte ai soggetti in parola (adempimento in forma individuale o collettiva), stabilendo che la scelta della seconda formula (adesione a sistema collettivo) può essere in qualsiasi momento revocata tramite fuoriuscita dal consorzio al quale si è aderito o passaggio da un ente all'altro.
Sistri per Raee. Dal 01.01.2015, invece, la piena operatività del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti (coincidente con il termine dell'obbligo della parallela tenuta delle tradizionali scritture ambientali e lo scattare della vigenza delle sanzioni Sistri) interesserà anche molti produttori e gestori di Raee.
In base al dlgs 152/2006 e provvedimenti satellite l'obbligo di tracciamento telematico riguarda infatti tutti i medio-grandi produttori di rifiuti speciali pericolosi (poiché eccezioni per alcune piccole imprese con meno di 10 dipendenti che non stoccano i propri residui sono previste dal recente dm Ambiente 24 aprile 2014) e i soggetti che provvedono a trasporto e trattamento degli stessi.
Potranno invece continuare a effettuare il tracciamento dei rifiuti fuori dal Sistri distributori, installatori e gestori dei centri di assistenza tecnica Aee ammessi (in relazione ai corrispondenti rifiuti ritirati) dal dlgs 49/2014 alla tenuta delle scritture ambientali «light» ex dm 65/2010 (tenuta dello «schedario di carico e scarico» e del «documento di trasporto», versioni semplificate dei più complessi e storici «registri di carico e scarico» e «formulario di trasporto dei rifiuti»).
«Aia» per trattamento Raee. Dall'11.04.2014, lo ricordiamo, è inoltre necessario essere in possesso di «autorizzazione integrata ambientale» per poter effettuare frantumazione di ingenti quantitativi di Raee.
Ad imporlo è il dlgs 46/2014, l'ultimo provvedimento in materia di emissioni industriali che ha riscritto l'elenco del dlgs 152/2006 relativo alle attività che necessitano di «Aia» per poter essere esercitate, inserendovi il trattamento superiore ai 50 megagrammi al giorno di rifiuti metallici in frantumatori, residui tra i quali rientrano anche i Raee (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire: i limiti all'annullamento. I giudici frenano sul potere di cancellazione a distanza di anni. Titoli abilitativi. La giurisprudenza chiarisce i contorni dell'istituto dell'autotutela.
Anche dopo otto-dieci anni il permesso di costruire può essere annullato, dai giudici o dal Comune. Con inevitabili conseguenze sulla legittimità della costruzione già realizzata. Il permesso di costruire o una sua eventuale variante, sono infatti suscettibili di annullamento ad opera del giudice amministrativo, oppure in via di autotutela, sia da parte dello stesso Comune che li aveva assentiti, sia ad opera della Regione, nelle ipotesi contemplate dall'articolo 39, del Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001).
Ma passando in rassegna il contenzioso (inevitabile) che si viene a creare dopo l'annullamento emerge che la giurisprudenza ha via via precisato i confini entro i quali l'annullamento può muoversi.
Gli effetti
Come ricordato in una pronuncia del Tar Piemonte (sezione II, n. 1171/2014) l'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire sancisce la qualificazione di abusività delle opere edilizie in base ad esso realizzate, per cui il Comune, «stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali».
Tuttavia, precisa la sentenza richiamando l'analogo orientamento del Consiglio di Stato (sezione VI, n. 3571/2011), i provvedimenti non devono necessariamente portare alla demolizione delle opere eseguite. Ciò in quanto l'articolo 38 del Testo unico prescrive che in caso di annullamento del permesso di costruire il dirigente del competente ufficio comunale debba effettuare una nuova valutazione circa la possibilità di restituzione in pristino e, nel caso in cui la demolizione non risulti possibile, dovrà irrogare una sanzione pecuniaria nei termini stabiliti dalla medesima norma.
Inoltre, la nuova valutazione andrà comunque effettuata sulla base della normativa esistente al momento della notifica della sentenza di annullamento poi passata in giudicato, venendo così in rilievo anche la nuova disciplina eventualmente intervenuta nelle more del giudizio (Consiglio di Stato, sezione V, n. 5169/2009).
L'errore del Comune
Diversa l'ipotesi dell'annullamento in sede di autotutela da parte del Comune, che può verificarsi, ad esempio, quando l'ente non abbia considerato che l'area interessata aveva già espresso in tutto o in parte la volumetria edificabile.
Su questo potere e sulle motivazioni dell'atto si registrano due posizioni giurisprudenziali, recentemente richiamate dal Tar Toscana (sezione III, n. 688/2014). Per il primo orientamento, l'annullamento d'ufficio di un permesso edilizio non necessiterebbe di una espressa motivazione sul pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo nell'interesse della collettività al rispetto dell'ordinato assetto del territorio delineato dalla disciplina urbanistica (Consiglio di Stato, sezione IV, n. 4300/2012; sezione V, n. 3037/2013; Tar Sardegna, n. 651/2013).
Il secondo indirizzo, maggioritario, prende in considerazione la natura discrezionale del potere di autotutela, frutto di una scelta di opportunità che deve essere congruamente giustificata e che deve rispondere ai generali requisiti di legittimità codificati nell'articolo 21-nonies, della legge n. 241/1990, consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione. Interesse che è diverso dal mero ripristino della legalità e che va comparato con i contrapposti interessi dei privati (Consiglio di Stato, sezione III, n. 2683/2012).
Ne deriva che l'annullamento d'ufficio del permesso di costruire richiede un'espressa motivazione in ordine all'effettivo interesse pubblico che giustifica il ricorso al potere di autotutela, non essendo sufficiente, anche in materia edilizia, l'intento di operare un'astratta reintegrazione della legalità violata (Consiglio di Stato, sezione IV, n. 1605/2013, n. 905/2013).
I tempi
Il Tar Campania (Napoli, sezione VIII, n. 3608/2014) ha sancito l'illegittimità dell'annullamento in autotutela di una concessione edilizia a dieci anni dal suo rilascio, motivata solo con la violazione della fascia di rispetto autostradale e senza tener conto dell'affidamento ingenerato nel privato; mentre il Consiglio di Stato (sezione IV, n. 1986/2012) ha ritenuto legittimo un provvedimento annullatorio emesso a sei anni di distanza dal rilascio del titolo, considerando che, ai sensi dell'articolo 39, del Dpr n. 380/2001, l'annullamento regionale in autotutela può intervenire sino al decimo anno dal rilascio del permesso di costruire.
I giudici di Palazzo Spada (sezione IV n. 32/2013) hanno anche chiarito che il potere della Regione ha carattere sostitutivo e che, «a differenza del potere di autotutela riconosciuto al Comune, non comporta un riesame del precedente operato da parte del soggetto titolare del potere di annullamento, ma è finalizzato ad assicurare da parte delle Amministrazioni comunali il rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia».
---------------
Le pronunce
01 | LE CONSEGUENZE
L'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali.
Tuttavia tali provvedimenti non devono avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate. La norma prescrive, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso articolo 38.
Tar Piemonte, sezione II - sentenza 08.07.2014 n. 1171
02 | I TEMPI
È illegittimo il provvedimento con il quale un Comune, a distanza di dieci anni dal rilascio, ha annullato in autotutela una concessione edilizia, motivato con esclusivo riferimento alla violazione della fascia di rispetto autostradale sancita in 25 metri, all'epoca del rilascio della concessione edilizia, ex articolo 8, legge n. 729 del 1961.
A fronte del considerevole lasso di tempo decorso dal rilascio del titolo abilitativo edilizio annullato d'ufficio, il canone di ragionevolezza del termine massimo per l'esercizio del potere di autotutela avrebbe dovuto suggerire una scelta più attenta e rispettosa verso la consolidata posizione di affidamento ingenerato nel privato ricorrente circa la legittimità dell'atto di concessione rilasciatogli
Tar Campania - Napoli, sezione VIII, sentenza 02.07.2014 n. 3608
03 | LA MOTIVAZIONE
È illegittimo l'annullamento d'ufficio di una autorizzazione edilizia adottato dal Comune nel caso in cui, si faccia solo accenno alla prevalenza, nella valutazione comparativa, dell'interesse pubblico alla conservazione dello stato dei luoghi, atteso che quest'ultima costituisce una semplice formula stereotipata.
Nel caso in questione, tenuto altresì conto del lungo lasso di tempo intercorso dal rilascio del provvedimento ritirato (oltre otto anni), invece, incombeva sull'amministrazione un ben più pregnante onere di motivazione, non adeguatamente assolto dall'utilizzo di una clausola di stile apposta a sostegno della determinazione assunta
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 19.03.2013, n. 1605
04 | GLI INTERESSI
L'annullamento in autotutela di una concessione edilizia presuppone anche la disamina dell'interesse pubblico alla sua rimozione nel bilanciamento con il contrapposto interesse del soggetto cui la stessa è stata rilasciata. Peraltro detta concessione, ove rilasciata in violazione delle norme urbanistiche, pregiudica di per sé gli interessi alla cui salvaguardia è preordinata la stessa normativa con la conseguenza che il contrapposto interesse del titolare della concessione edilizia può avere rilievo qualora sia incolpevole e consolidato e solo in quel caso può essere posto a raffronto con quello al rispetto della programmazione urbanistica comunale
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 03.06.2013, n. 3037
05 | LA PROCEDURA
L'esercizio dell'potere di annullamento in autotutela autotutela da parte della Pa richiede il previo avviso di avvio del procedimento, dal momento che l'interessato deve essere messo in condizione di argomentare, in contraddittorio con l'amministrazione, sulla eventuale insussistenza di un prevalente interesse alla rimozione dell'atto ritenuto illegittimo e/o inopportuno
Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 15.05.2012, n.2805
06 | I PAGAMENTI
Il contributo concessorio è strettamente connesso alla concreta ed effettiva attività di trasformazione del territorio assentita col titolo edilizio rilasciato e, quindi, se tale circostanza non si verifica, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare. Argomentando diversamente, in assenza di restituzione, si determinerebbe in favore del Comune un indebito oggettivo, ai sensi dell'articolo 2033 del Codice civile.
Tar Puglia - Bari, sezione III - sentenza 08.11.2013, n. 1526
07 | LO STOP PARZIALE
Il Comune deve assolvere pienamente all'onere motivazionale concernente le valutazioni afferenti il potere-dovere di non procedere ad annullamento dell'intero permesso di costruire, ma solo della parte del ridetto permesso di costruire che abbia ad oggetto i vani eccedenti la volumetria assentibile.
Tar Marche, sentenza 12.12.2013, n.906
08 | I VIZI FORMALI
La sanzione alternativa pecuniaria prevista dall'articolo 38, comma 1, del Dpr 380/2001 si applica solo alle costruzioni assentite mediante titoli abilitativi edilizi annullati per soli vizi formali, e non anche per quelli annullati a causa di vizi sostanziali.
Tar Campania-Napoli, sezione VIII, sentenza 10.09.2010, n. 17398
--------------
Lo stop va sempre motivato. Da restituire i contributi. Le conseguenze. La demolizione non è l'unica strada percorribile.
La decisione assunta dalla Pa di adottare in autotutela il provvedimento di annullamento del titolo abilitativo costituisce espressione di un potere discrezionale, a fronte del quale sussiste quindi l'obbligo di comunicare agli interessati l'avvio del procedimento. Sul punto, è principio ormai consolidato che la preventiva comunicazione di cui all'articolo 7, della legge n. 241/1990, «costituisce una regola generale dell'azione amministrativa, soprattutto quando l'amministrazione eserciti il potere d'annullamento d'ufficio (nella specie, di un permesso di costruire) per il quale occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell'atto o alla cessazione dei suoi effetti» (Consiglio di stato, sezione IV, n. 3060/2012; Tar Lazio-Latina, n. 646/2013).
Inoltre l'interessato deve essere messo in condizione di argomentare, in contraddittorio con l'amministrazione, sulla eventuale insussistenza di un prevalente interesse pubblico alla rimozione dell'atto ritenuto illegittimo (Consiglio di stato, sezione III, n. 2805/2012), oppure di una sua parte. La giurisprudenza ha anche segnalato la necessità che il Comune valuti se sia possibile effettuare un annullamento soltanto parziale del titolo abilitativo, come nel caso di eccessi di cubatura rispetto a quella teoricamente ammissibile, configurando un «potere-dovere di non procedere ad annullamento dell'intero permesso di costruire, ma solo della parte del permesso di costruire che abbia ad oggetto i vani eccedenti la volumetria assentibile» (Tar Marche, n. 906/2013).
L'annullamento del permesso di costruire in via di autotutela non determina in via automatica il ripristino dei luoghi, potendo l'amministrazione modulare le misure operative che ne conseguono in forza di quanto stabilito dall'articolo38 del testo unico, ove si dispone che, quando sia stata motivatamente valutata l'impossibilità di rimuovere i vizi delle procedure amministrative o di ridurre in pristino quanto abusivamente eseguito, il dirigente del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite.
La demolizione andrà quindi considerata solo come «extrema ratio (Consiglio di stato, sezione IV, n. 1535/2010). Peraltro, una parte della giurisprudenza (Tar Campania-Salerno, sezione I, n. 738/2012; Consiglio di stato, sezione IV, n. 3772/2008) ritiene ammissibile l'irrogazione della sanzione pecuniaria solo nel caso in cui l'illegittimità della costruzione sia dovuta a vizi formali dell'iter procedimentale e non anche di fronte a vizi sostanziali, per inosservanza di prescrizioni urbanistiche.
Se dall'annullamento del permesso consegue la demolizione totale o parziale del manufatto, viene meno anche il titolo in base al quale era stato effettuato il pagamento degli oneri urbanizzativi. Per giurisprudenza consolidata, il contributo concessorio di cui all'articolo 16 del Tu edilizia è strettamente connesso alla effettiva attività di trasformazione del territorio assentita col titolo edilizio rilasciato. Quindi se scatta la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, «il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare» (Tar Puglia-Bari n.1526/2013).
Trattandosi di indebito oggettivo, al titolare del diritto al rimborso non spetta la rivalutazione monetaria ma i soli interessi legali (Consiglio di stato, sezione V, n. 1207/1997), che decorrono dalla domanda, da proporsi entro dieci anni (Tar Lombardia-Milano, n. 728/2010)
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Progetti, rischio caos sulla divisione dei premi. Dl Pa. Gli effetti.
Come ogni intervento normativo che riguardi voci stipendiali, anche la riscrittura della disciplina sui compensi per la progettazione comporta una serie di problematiche applicative.
L'articolo 13 del Dl 90/2014 abroga la vecchia normativa, mentre il successivo articolo 13-bis, inserito in sede di conversione del provvedimento, detta le nuove disposizioni che, per alcuni aspetti, differiscono in maniera sostanziale dalla disciplina ormai non più applicabile.
Una prima novità riguarda l'esclusione del personale con qualifica dirigenziale dai soggetti a cui è possibile corrispondere il compenso. Risulta chiaro che, d'ora in poi, si dovrà prestare particolare attenzione nella individuazione dei soggetti che ricoprono i ruoli per i quali è possibile pagare l'emolumento (responsabile della sicurezza, della direzione lavori, eccetera), per determinare, a priori, le funzioni svolte il dirigente per le quali si dovrà portare in economia la relativa quota parte di compenso.
In ogni caso, il regolamento, che ogni amministrazione dovrà riadottare per conformalo al disposto del Dl 90/2014, determinerà tra l'altro i criteri di riparto delle risorse destinate ai dipendenti, tenendo conto delle responsabilità assunte, che esulano dall'attività ordinaria, della complessità dell'opera, dei tempi e dei costi preventivati. Appare evidente che i parametri imposti dalla norma possono essere oggetto di ampio dibattito circa la loro importanza e il peso da assegnare a ciascuno. Questo implica il grosso rischio di contenziosi, soprattutto in opere con un significativo impatto economico.
Relativamente alla quantificazione dei tempi e dei costi degli interventi, questi devono essere pubblicati sul sito dell'amministrazione a mente delle norme sulla trasparenza (articolo 38 del Dlgs 33/2013). Saranno disponibili anche ai dipendenti coinvolti, che non potranno protestare in caso di applicazione delle riduzioni, da definire nel regolamento, per mancato rispetto del budget e del cronoprogramma, fatti salvi i giustificati motivi.
Sicuramente sono da escludere, per espressa previsione normativa, le manutenzione fra gli interventi per i quali è possibile corrispondere i compensi ex Merloni. Anche in questo caso, la disposizione non brilla per chiarezza non risultando, nel nostro panorama legislativo, una definizione chiara e precisa di «manutenzioni». La genericità della locuzione porta inoltre alla difficoltà di individuazione delle opere da escludere. Nessun dubbio sulle manutenzioni ordinarie, tra l'altro espunte anche in passato in via interpretativa, mentre le perplessità restano sulle manutenzioni straordinarie.
Altro elemento spinoso sarà rappresentato dal possibile, e per niente difficile, comportamento elusivo della norma, che potrà portare a inquadrare in altre tipologie di interventi, quali le ristrutturazioni, quelle che in realtà sono manutenzioni.
Da ultimo, il problema della decorrenza delle nuove disposizioni. Su questo punto, nel silenzio della norma, le amministrazioni possono far riferimento alle precedenti esperienze di modifica della percentuale massima prevista per i compensi della progettazione. A proposito dell'andamento altalenante che tale percentuale ha subito negli anni 2009 e 2010, la Corte dei Conti, sezione delle Autonomie, con la delibera n. 7/2009, ha avuto modo di affermare che il momento rilevante ai fini della quantificazione del compenso è identificato nel tempo in cui si porta a compimento l'attività incentivata, a nulla rilevando modifiche normative che intervengono fra prestazione e liquidazione del compenso (lettura confermata anche dalla delibera 183/2014 della sezione Emilia Romagna)
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2014).

GIURISPRUDENZA

SICUREZZA LAVOROCantieri sicuri anche per gli estranei. Cassazione. La tutela vale per chi accede senza autorizzazione.
Le norme di prevenzione possono essere classificate in almeno due tipologie. Talune impongono misure di carattere oggettivo, altre soggettivo.
Tra le prime rientrano le misure i cui contenuti risultano definiti a prescindere da qualsivoglia riferimento a un particolare destinatario (per esempio, per le attrezzature); tra le seconde, quelle che si indirizzano a una specifica tipologia di soggetti (per esempio, l'obbligo di sorveglianza sanitaria è posto esplicitamente a protezione dei lavoratori).

È quanto sta alla base della sentenza 15.10.2014 n. 43168 della Corte di Cassazione, IV Sez. penale, con la quale viene riconosciuta la responsabilità penale del titolare di un cantiere, ubicato in un centro cittadino, all'interno del quale si erano introdotti tre ragazzini uno dei quali subiva un infortunio mortale per essere precipitato al suolo attraverso una apertura non protetta di un solaio.
Il cantiere, seppure recintato su tre lati, sul quarto era protetto da un muro nel quale tuttavia era aperto un varco attraverso il quale si è verificata l'intrusione dei tre minori. La condanna in primo e secondo grado, confermata in Cassazione, è stata inflitta al ricorrente per la mancata protezione dell'apertura sul solaio e la conseguente violazione all'articolo 589 del Codice penale e relativa aggravante in quanto l'infortunio è avvenuto con violazione delle norme di prevenzione.
La distinzione nelle norme di sicurezza ha come conseguenza il principio secondo cui, in materia di prevenzione infortuni nei luoghi di lavoro, beneficiario della tutela è anche il terzo estraneo all'organizzazione dei lavori. Pertanto, dell'infortunio che sia occorso all'estraneo risponde il debitore di sicurezza, sempre che l'infortunio stesso rientri nell'area di rischio quale definita dalla regola cautelare violata e che il terzo non abbia posto in essere un comportamento di volontaria esposizione al rischio. Tale fattore potrà verificarsi allorché il soggetto sia pienamente consapevole della esistenza e della natura del pericolo; diversamente, è ovvio, non sarebbe concepibile una volontarietà del comportamento.
Nel caso in esame la Corte ha ritenuto che non può certo parlarsi di volontarietà di esposizione al rischio da parte di un soggetto che, perché minore, non era in possesso della necessaria consapevolezza della fonte di pericolo costituita da un cantiere e dalle aperture nel solaio; in tal caso la volontarietà dell'ingresso nel sito e il transito in esso non corrisponde a una volontaria esposizione a pericolo. La sentenza precisa che per quanto concerne, in particolare, il cantiere, l'area di rischio che il datore di lavoro deve necessariamente governare comprende anche la possibilità di un ingresso abusivo di estranei nel cantiere stesso.
Diversamente non sarebbe richiesto un ostacolo fisso, quale la recinzione, verosimilmente previsto per la ritenuta inidoneità allo scopo delle sole segnalazioni interdittive, volendosi con ciò fronteggiare anche il rischio cui potrebbe essere esposto l'estraneo al cantiere
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGORevoca del part-time senza consenso. La direttiva esclude solo che l'opposizione del lavoratore sia causa di licenziamento. Contratti. Per la Corte Ue legittima la norma che consente la trasformazione in full-time per esigenze delle amministrazioni.
È legittima la norma italiana che consente alle pubbliche amministrazioni di trasformare il contratto da part-time a tempio pieno anche senza il consenso del dipendente: questo il principio, per nulla scontato, affermata dalla Corte di giustizia europea con la sentenza 15.10.2014 n. C-221/13.
Una funzionaria del ministero della Giustizia, titolare di un contratto di lavoro a tempo parziale verticale, si è vista trasformare il regime d'orario a tempo pieno –e senza il proprio consenso– dopo l'approvazione della legge 183/2010 (il cosiddetto collegato lavoro), che all'articolo 16 ha ammesso la possibilità per le pubbliche amministrazioni di cambiare unilateralmente il regime di orario dei dipendenti in part-time. La dipendente si è opposta, sostenendo che la normativa italiana andrebbe in contrasto con la direttiva comunitaria 97/81, la quale sancirebbe un principio secondo cui il lavoratore non può vedere trasformato il suo contratto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno contro la propria volontà.
Il Tribunale ordinario di Trento, ritenendo fondata la questione, ha chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire se la direttiva comunitaria vieti alle legislazioni nazionali degli Stati membri di prevedere la possibilità –per il datore di lavoro– di disporre la trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a tempo pieno, anche contro la volontà del lavoratore.
La Corte di giustizia, con la sentenza depositata ieri, ha escluso che sussista questo tipo di divieto nel diritto comunitario, partendo dall'assunto che la direttiva 97/81 persegue la finalità di promuovere il lavoro a tempo parziale e di eliminare le discriminazioni tra i lavoratori, lasciando liberi gli Stati membri di scegliere la forma e i mezzi con cui conseguire questi risultati.
La Corte ricorda che l'accordo quadro il quale ha dato vita alla direttiva rimette agli Stati membri e alle parti sociali la definizione delle modalità di applicazione dei principi generali concordati a livello comunitario; uno di questi principi –la clausola 5, punto 2– stabilisce che il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non può costituire motivo valido per il licenziamento (pur essendo possibile procedere al recesso, se esistono altre ragioni quale, ad esempio, la necessità di funzionamento dell'azienda).
La Corte di giustizia ritiene che, sulla base di questa clausola, non esiste alcun obbligo per gli Stati membri di adottare una normativa che subordini al consenso del lavoratore la trasformazione del suo contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno. La regola è volta unicamente ad escludere che l'opposizione di un lavoratore a una simile trasformazione del proprio contratto di lavoro possa costituire l'unico motivo del suo licenziamento, in assenza di altre ragioni obiettive. Sulla base di questa normativa, quindi, uno Stato membro può legittimamente consentire al datore di lavoro di disporre, per ragioni obiettive, la trasformazione del contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno senza il consenso del lavoratore.
La sentenza, quindi, lascia ampia libertà agli Stati membri di decidere come regolare la trasformazione; in questo senso, non sembra esserci alcun impatto sulla normativa esistente (fatta salva la conferma della legittimità del collegato lavoro per il pubblico impiego) in quanto ogni Paese è libero di richiedere oppure no il consenso
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGOIn tempo pieno. Part-time trasformato senza l'ok.
È legittima e non contraria al diritto dell'Ue la norma del collegato lavoro del 2010 (legge n. 183/2010) che ha previsto la possibilità per le pubbliche amministrazioni di (ri)trasformare il regime di un rapporto di lavoro da part-time a tempo pieno. È legittima perché i principi Ue (in particolare quelli dettati dalla direttiva n. 97/81/Ce) non vietano che una normativa possa riconoscere al solo datore di lavoro la facoltà di disporre la trasformazione di un contratto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, cioè senza il consenso del lavoratore interessato.

Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea, Sez. III, nella sentenza 15.10.2014 n. C-221/13.
La questione riguardava la posizione di una dipendente del ministero della giustizia, alla quale era stato posto fine al regime di part-time ottenuto dal 28.08.2000 con il ritorno al tempo pieno dal 01.04.2011, per via dell'art. 16 del collegato lavoro.
La lavoratrice ricorreva al tribunale di Trento lamentando che la decisione dovesse essere dichiarata illegittima, perché assunta dal ministero unilateralmente, senza il suo consenso, quindi contraria alla direttiva Ue n. 97/81 la quale sancisce il principio per cui il lavoratore non può vedere trasformato il suo contratto di lavoro contro la sua volontà. Il tribunale ha rimesso la questione alla corte Ue al fine di verificare se davvero l'art. 16 della legge n. 183/2010 possa ritenersi contrario alla direttiva Ue.
La Corte è stata di parere contrario: una cosa è la trasformazione da tempo pieno a tempo parziale (in cui si riducono le tutele al lavoratore, che nel caso rappresentate dal maggiore tempo di lavoro e dunque da una maggiore retribuzione), un'altra la trasformazione da tempo parziale a pieno (in cui, invece, le tutele aumentano).
Pertanto, nel ritenere legittima la norma del collegato lavoro, la Corte ha affermato che le norme Ue (clausola 5, punto 2, della direttive n. 97/81) «non osta a una normativa nazionale in base alla quale il datore di lavoro può disporre la trasformazione di un contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno senza il consenso del lavoratore interessato» (articolo ItaliaOggi del 16.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGONo a nuovi concorsi, prima gli idonei. Per un altro bando va spiegato il mancato utilizzo di una graduatoria valida. Tar Lazio. Bocciata la selezione interna alla Pa, identica alla precedente, per 250 allievi marescialli carabinieri.
Nuove speranze di assunzione per chi supera un concorso ma non si colloca in una posizione utile: lo precisa il TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, con la sentenza 14.10.2014 n. 10318. L'amministrazione deve infatti motivare la propria scelta tra attingere idonei da una precedente graduatoria oppure bandire un nuovo concorso.
Per indire un nuovo concorso occorre indicare le ragioni della mancata utilizzazione di una graduatoria ancora valida ed efficace. Nel caso specifico è stato ritenuto illegittimo il bando di concorso interno, per titoli ed esami, per 250 allievi marescialli dell'arma dei carabinieri, perché l'amministrazione della Difesa non ha, nel decreto che ha approvato il bando stesso, fornito un'adeguata motivazione circa le ragioni del mancato scorrimento della graduatoria ancora valida ed efficace del precedente identico concorso.
Il criterio generale da applicare è che, nel motivare l'opzione preferita, l'amministrazione deve tenere nel massimo rilievo la circostanza che l'attuale ordinamento afferma un generale favore circa l'utilizzazione della graduatoria degli idonei, favore che viene meno solo in presenza di speciali discipline di settore, di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalente che devono, comunque, essere puntualmente specificate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso. Da tempo è infatti emersa (Consiglio di Stato, adunanza plenaria 14/2011) una sostanziale inversione del rapporto tra l'opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace.
Quest'ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre l'indizione del nuovo concorso costituisce l'eccezione e richiede un'apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico.
Una motivata deroga alla graduatoria valida ed efficace potrebbe essere consentita, ad esempio, in presenza di: a) graduatorie estremamente datate; b) ricerca di personale dotato di requisiti fondamentalmente diversi da quelli in possesso dei precedenti idonei; c) tipo differente di selezione decisa, eventualmente con passaggi più rigorosi; d) presenza di speciali disposizioni legislative che impongano una precisa cadenza periodica del concorso, collegata anche a peculiari meccanismi di progressioni nelle carriere; e) esigenza preminente di determinare, attraverso le nuove procedure concorsuali, la stabilizzazione del personale precario; f) intervenuta modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace, con particolare riguardo al contenuto delle prove di esame e ai requisiti di partecipazione.
Ad esempio vi può essere un particolare rilievo dell'introduzione di una prova di lingua straniera o una più specifica indicazione dell'oggetto delle prove di contenuto giuridico, tecnico, o anche solo di uso di apparecchiature informatiche. Sul tema della validità delle graduatorie, il Consiglio di Stato (6247/2013) aveva già sottolineato il fenomeno delle proroghe generalizzate al 31.12.2012 (articolo 1, comma 4, Dl 216/2011, cosiddetto Milleproroghe); successivamente, l'articolo 4, comma 4, del Dl 101/2013 (legge 125) ha prorogato al 31.12.2016 l'efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato.
Una proroga peraltro che pone diversi interrogativi, in parte risolti dalla circolare del ministero per la Semplificazione 5/2013, ma sempre sulla base del favore per i soggetti idonei, seppur non utilmente graduati (articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune legittimamente dichiara la intervenuta decadenza del permesso di costruire una volta accertata la impossibilità di accordare la richiesta proroga e quindi l’inverarsi di una colpevole inerzia nell’osservanza dei tempi di inizio e completamento dei lavori, quale presupposto di fatto e di diritto per la dichiarazione di decadenza.
Quanto al motivo costituito dalla crisi congiunturale dell’edilizia trattasi, invero, di ragioni di carattere generale attinenti a considerazioni di tipo economico del tutto generiche, non aventi, per l’astrattezza delle stesse, rilevanza alcuna con l’obbligo di osservare i tempi di inizio e completamento dei lavori, sicché appare del tutto impossibile considerare la “crisi congiunturale” un motivo valido per giustificare l’inerzia.

Le doglianze di parte appellante non appaiono condivisibili.
Dunque la richiesta di proroga di che trattasi è stata avanzata dagli interessati come esposto nel provvedimento in contestazione, per due precipue ragioni:
a) per le incertezze economiche e finanziarie derivanti dall’operazione immobiliare in relazione al contenzioso intercorso col Comune circa la quantificazione del contributo di costruzione;
b) per la grave crisi economica che ha afflitto il settore dell’edilizia con le relative, concrete ricadute.
Occorre andare a verificare se tali ragioni collimano con le circostanze previste dall’art. 15 del DPR n.380/2001 per farsi luogo alla proroga, come sostenuto dalla parte appellante, oppure no, come in sostanza assunto dall’Amministrazione comunale.
Il citato articolo di legge prevede che “i termini possono essere prorogati con provvedimento motivato per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso” e ancora che … “la proroga può essere accordata con provvedimento motivato esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle particolari caratteristiche tecnico- costruttive:..”.
Ebbene, il diniego risulta essere stato correttamente adottato, atteso che le ragioni addotte a sostegno della richiesta di proroga appaiono eccedere l’ambito naturale descritto dal citato art. 15 per la concessione del beneficio de quo.
La norma in questione presuppone infatti una condizione ben precisa, costituita dalla sopravvenienza di fatti estranei alla volontà del titolare della concessione edilizia e tali non sono le circostanze dedotte dai sigg.ri Marconi.
Quanto al motivo costituito dalla crisi congiunturale dell’edilizia, trattasi invero, di ragioni di carattere generale attinenti a considerazioni di tipo economico del tutto generiche, non aventi, per l’astrattezza delle stesse, rilevanza alcuna con l’obbligo di osservare i tempi di inizio e completamento dei lavori, sicché appare del tutto impossibile considerare la “crisi congiunturale” un motivo valido per giustificare l’inerzia.
Alcuna incidenza diretta e concreta può altresì avere la pendenza tra le stesse parti del contenzioso in ordine alla quantificazione del contributo di costruzione, la cui determinazione, come stabilita dal Comune, peraltro, nasce ed è conosciuta in coincidenza del rilascio del titolo ad aedificandum (e non successivamente).
Non si riesce in ogni caso a comprendere invero il ruolo per così dire “paralizzante” della questione del quantum degli oneri concessori con riguardo ai termini fissati dal citato art. 15, se non come circostanza del tutto estranea alla tempistica dei lavori, dovendosi altresì rilevare, a voler entrare nell’ottica della “pesantezza” dei costi finanziari da sostenersi per l’operazione immobiliare, che non viene data dimostrazione della concreta incidenza sulla situazione finanziaria degli appellanti e tenuto altresì conto del fatto che in teoria un eventuale esito positivo della controversia consentirebbe la ripetizione degli oneri richiesti (in più) in pagamento.
Ferma restando la inattendibilità ai fini della proroga delle circostanze addotte, neppure si invera la condizione, pure prevista dall’art. 15 citato, secondo cui la proroga potrebbe essere possibile in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive: invero circostanze relative alla difficoltà di esecuzione delle modalità di realizzazione dell’opera edilizia non vengono minimamente in rilievo dalla documentazione di causa e comunque non sono rappresentate dagli interessati e tantomeno documentate.
In definitiva sul punto occorre convenire che a sostegno della chiesta proroga parte appellante ha posto delle “problematiche” che non rispondono ai requisiti dettati dall’art. 15 citato, perché non possono farsi rientrare tra i “fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso”.
Se così è, il Comune ha del pari correttamente proceduto a dichiarare la intervenuta decadenza del permesso di costruire, una volta accertata la impossibilità di accordare la richiesta proroga e quindi l’inverarsi di una colpevole inerzia nell’osservanza dei tempi di inizio e completamento dei lavori, quale presupposto di fatto e di diritto per la dichiarazione di decadenza (cfr Cons. Stato Sez. IV 07/09/2011 n. 5028; idem 29/01/2008 n. 249) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.10.2014 n. 4975 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La mancata indicazione degli oneri da rischi specifici non comporta l'esclusione del concorrente dalla gara.
L'art. 87, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, che fa espresso riferimento agli oneri relativi alla sicurezza, non contiene alcun elemento testuale da far ritenere che la mancata indicazione degli oneri da rischi specifici comporti l'esclusione del concorrente dalla gara; né tale indicazione è contenuta in altre previsioni normative (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.10.2014 n. 1624 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Dalle più recenti pronunzie del Consiglio di Stato, suffragate da costante giurisprudenza precedente, si traggono i seguenti principi di diritto:
a) la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell'organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, come per esempio lo scioglimento dell'organo o la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo rispetto all'organo di cui fa parte;
b) la legittimazione ad agire del consigliere non risiede nella deviazione dell'atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una sua prerogativa inerente all'ufficio, occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, alla natura e al contenuto della delibera impugnata e non già delle norme interne relative al funzionamento dell'organo;
c) la contestazione del componente di un organo collegiale non può limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di formazione della deliberazione del medesimo organo, senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazioni di forma o di sostanza nell'adozione di un atto deliberativo.

5.1. Dalle più recenti pronunzie del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V, 19.04.2013, n. 2213; Cons. Stato, Sez. V, 07.07.2014, n. 3446), suffragate da costante giurisprudenza precedente, si traggono i seguenti principi di diritto:
a) la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell'organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, come per esempio lo scioglimento dell'organo o la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo rispetto all'organo di cui fa parte (Cons. Stato, Sez. V, 31.01.2001, n. 358, e, più recentemente, Cons. Stato, Sez. V, 19.02.2007, n. 826; 09.10.2007, n. 5280; Cons. Stato, Sez. V, 29.04.2010, n. 2457; Cons. Stato, Sez. V, 24.03.2011, n. 1771; Cons. Stato, Sez. V, 21.03.2012, n. 1610);
b) la legittimazione ad agire del consigliere non risiede nella deviazione dell'atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una sua prerogativa inerente all'ufficio, occorrendo in ogni caso aver riguardo a questo fine, alla natura e al contenuto della delibera impugnata e non già delle norme interne relative al funzionamento dell'organo (Cons. Stato, Sez. V, 15.12.2005, n. 7122);
c) la contestazione del componente di un organo collegiale non può limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di formazione della deliberazione del medesimo organo, senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione delle sue prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazioni di forma o di sostanza nell'adozione di un atto deliberativo (Cons. Stato, Sez. V, 29.04.2010, n. 2457).
5.2. Alla luce della giurisprudenza richiamata, la domanda dei ricorrenti deve essere dichiarata inammissibile, in quanto essi, con il ricorso proposto, non hanno denunziato in alcun modo una violazione delle prerogative consiliari, ma solo la deviazione del procedimento di approvazione del bilancio consultivo dagli schemi legali.
Né gli argomenti spesi dalla difesa dei ricorrenti nel corso della discussione valgono a mutare le conclusioni testé illustrate: nonostante l’illegittimità lamentata, i ricorrenti sono stati messi nelle condizioni di partecipare all’adunanza del Consiglio Comunale e di incidere, partecipando alla discussione ed esercitando il diritto di voto, sulla deliberazione finale. La circostanza che essi non abbiano, in tutto o in parte, esercitato le proprie prerogative non comporta che queste siano state lese (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.10.2014 n. 1602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sugli oneri per la sicurezza nelle gare di appalto.
In tema di gare pubbliche, si distinguono due tipologie di oneri per la sicurezza: quelli per le c.d. "interferenze" (relativi a quei contatti rischiosi che possono prodursi tra il personale della stazione appaltante e quello dell'appaltatore o tra quello delle varie imprese che operano congiuntamente nel cantiere), i quali sono predeterminati dall'amministrazione e quelli da rischio c.d. "specifico" o "aziendale", che variano in rapporto alla qualità ed entità dell'offerta e che, normalmente, non sono predeterminabili dalla P.A..
Ritenuto che, specie nel settore delle forniture e degli appalti di servizi intellettuali (dove il rischio aziendale ha minore possibilità d'incidenza), il combinato disposto degli art. 86, c. 3-bis e 87, c. 4, D.lgs. 12.04.2006 n. 163, nonché dell'art. 26, c.6, D.lgs. 09.04.2008 n. 81 non impone alle imprese partecipanti l'obbligo, a pena di esclusione, di indicare già in sede di offerta gli oneri per la sicurezza "aziendale", trattandosi di elementi che vanno viceversa specificati e verificati ai soli fini del giudizio di anomalia. E ciò a maggior ragione, in presenza di una dichiarazione di oneri pari a zero, ovvero quando queste siano comunque di entità talmente esigua da essere assimilabili a zero.
Pertanto, nel caso di specie, in presenza di tali presupposti (presentazione da parte dell'aggiudicataria di una dichiarazione in cui si indica che gli oneri in questione sono pari a zero, mancata dimostrazione da parte della ricorrente di fattori di rischi nell'appalto tali da incidere sulla congruità dell'offerta, valutazione positiva di congruità da parte della stazione appaltante), la contestata misura espulsiva appare frutto di un'impostazione esclusivamente formalistica, che non risponde né all'interesse sostanziale dell'amministrazione, né alle esigenze di tutela della sicurezza dei lavoratori, in presenza, peraltro, di una richiesta dichiarazione, da rendersi ai sensi del D.P.R. n. 445/2000, "di osservare le norme tutte dettate in materia di sicurezza dei lavoratori, in particolare di rispettare tutti gli obblighi in materia di sicurezza e condizioni nei luoghi di lavoro, come dettate dal D.lgs. n. 81/2008", che l'amministrazione si riserva di verificare (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.10.2014 n. 1601 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata sottoscrizione integrale del capitolato non integra una legittima causa di esclusione, essendo in contrasto con il principio di tassatività espresso dall’art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006, n. 163;
Parimenti, la mancata allegazione della copia conforme del certificato del sistema di qualità, allegato dalla ricorrente ai fini del dimezzamento della cauzione provvisoria ed effettivamente in suo possesso, non integra una causa di esclusione, in ragione della previsione dell’art. 75 del codice degli appalti, richiamato dalla lettera di invito, ma determina, piuttosto, l’attivazione del dovere di soccorso da parte della stazione appaltante.
Ritenuto in particolare che:
- la lex specialis di gara richiama espressamente l’art. 125 del codice degli appalti, sicché la procedura in esame risulta sottoposta ai principi generali del codice, compreso quello di tassatività delle cause di esclusione, quanto meno in ragione dell’autovincolo risultante dalla disciplina di gara (in argomento Consiglio di Stato, Ad. Pl., 25.02.2014, n. 9);
- di conseguenza, la mancata sottoscrizione integrale del capitolato non integra una legittima causa di esclusione, essendo in contrasto con il principio di tassatività espresso dall’art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006, n. 163;
- parimenti, la mancata allegazione della copia conforme del certificato del sistema di qualità, allegato dalla ricorrente ai fini del dimezzamento della cauzione provvisoria ed effettivamente in suo possesso, non integra una causa di esclusione, in ragione della previsione dell’art. 75 del codice degli appalti, richiamato dalla lettera di invito, ma determina, piuttosto, l’attivazione del dovere di soccorso da parte della stazione appaltante.
Ritenuto, in definitiva, che il ricorso è fondato e deve essere accolto, mentre le spese seguono la soccombenza nei rapporti tra la ricorrente e l’amministrazione resistente e vengono liquidate in dispositivo, ferma restandone la compensazione nei rapporti tra le altre parti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 01.10.2014 n. 2411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTITurbativa d'asta sempre reato. Non è rilevante il risultato: è sufficiente la condotta. CASSAZIONE/ Una sentenza sminuisce il peso dell'influenza sull'esito della gara.
La turbativa d'asta è un reato di pericolo teso ad assicurare i principi di parità di trattamento, trasparenza e neutralità nell'ambito delle procedure indette dalle stazioni appaltanti, per cui deve ritenersi integrato anche in mancanza di una influenza delle condotte collusive sul risultato della gara, essendo sufficiente che siano state tenute condotte che sono previste dalla legge di per sé stesse idonee a determinare la turbativa.
Lo ha stabilito la VI Sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza 29.09.2014 n. 40304.
Nel caso concreto il rappresentante legale di una ditta che ha preso parte ad una gara d'appalto indetta da una società pubblica è stato sottoposto a procedimento penale per i reati di turbata libertà degli incanti e corruzione.
In dettaglio, il rimprovero mosso nei suoi confronti è stato quello di aver turbato lo svolgimento della selezione insistendo -anche per il tramite di regalie- con il referente della procedura affinché questi sottoponesse a serrata verifica di anomalia l'offerta di altra partecipante. È essenziale precisare che la richiesta sottobanco -ancorché in contrasto con i più elementari principi di trasparenza e imparzialità dell'azione amministrativa- ha, comunque, permesso di snidare irregolarità essenziali dell'offerta sottoposta a verifica. Da qui l'esclusione dell'impresa concorrente e l'aggiudicazione della gara in favore dell'imputato.
All'esito dei giudizio di primo grado, il tribunale ha condannato l'imprenditore per entrambi i reati lui ascritti. La Corte d'appello, diversamente, ha confermato la condanna per turbativa d'asta e assolto l'imputato dal reato di corruzione per insufficienza di prova.
All'imprenditore non è rimasto che rivolgersi in ultima istanza alla Suprema corte di cassazione. Agli ermellini è stato chiesto di annullare la sentenza della Corte d'appello a cagione degli evidenti vizi in cui si sarebbero imbattuti i giudici del collegio: secondo la difesa, infatti, il reato contestato abbisogna della realizzazione dell'evento di pericolo, in particolare l'effettiva alterazione del risultato della gara causato da perturbamenti e alterazioni. Ciò che, sempre a dir della difesa, non si sarebbe verificato nel caso di specie posto che il comportamento dell'imputato -pure biasimevole- non avrebbe comunque influito sulla individuazione del migliore offerente da parte della stazione appaltante.
La Corte, nel confermare il giudizio di reità dell'imprenditore, ha spiegato la natura del reato di turbativa d'asta, osservando come l'evento naturalistico, in tale fattispecie, possa essere costituito oltre che dall'impedimento della gara anche da un semplice turbamento, situazione quest'ultima che si verifica quando la condotta fraudolenta o collusiva abbia -anche soltanto influito- sulla regolare procedura della gara medesima, essendo irrilevante che si produca un'effettiva alterazione dei risultati della medesima.
Inoltre, è stato sottolineato come la norma faccia riferimento ai concetti di «collusione» e «turbamento»: per collusione deve intendersi qualsiasi rapporto clandestino, intercorrente tra soggetti privati in qualsiasi modo interessati alla gara o tra questi e i preposti alla gara, diretto a influire sull'esito della stessa; per turbamento, invece, deve intendersi la influenza della condotta collusiva sulle regolari procedure di gara, essendo irrilevante che il risultato di essa sia o meno conforme a quello che si sarebbe prodotto senza tali interferenze: ciò che conta ai fini della configurabilità del reato è «lo sviamento del processo decisionale a individuazione del vincitore».
In conclusione, la fattispecie di cui all'art. 353, comma 2, del codice penale, è un chiaro esempio di «reato di pericolo», teso a minare la trasparenza e neutralità dell'azione della pubblica amministrazione per l'acquisizione della miglior offerta e la garanzia di condizioni di parità di trattamento tra concorrenti, secondo principi di lealtà e correttezza; esso è integrato anche in mancanza di una influenza delle condotte collusive sul risultato della gara, «essendo sufficiente che siano state tenute condotte che sono previste dalla legge di per sé stesse idonee a determinare la turbativa» (articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014).
---------------
MASSIMA
L'evento naturalistico del reato di turbata libertà degli incanti può essere costituito oltre che dall'impedimento della gara anche da un suo turbamento, situazione quest'ultima che si verifica quando la condotta fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla regolare procedura della gara medesima, essendo irrilevante che si produca un'effettiva alterazione dei risultati di essa (tratta da www.neldiritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Atti sul lavoro non toccati dall'autotutela della p.a..
Gli atti gestionali del rapporto di lavoro posti in essere dalla p.a., sono espressione di poteri privatistici e quand'anche incautamente adottati in odore di responsabilità amministrativa per danno erariale, non possono essere vanificati dal regime dell'autotutela amministrativa a danno dei «diritti acquisiti» dai lavoratori sul piano privatistico.

Con sentenza 25.09.2014 il Giudice del lavoro del Tribunale di Potenza ha condannato un'Azienda sanitaria, la quale, in assoluta controtendenza rispetto al diffuso clima di razionalizzazione e revisione della spesa pubblica, adottava una delibera aziendale che, in recepimento di accordi fissati in sede di contrattazione integrativa aziendale, riconosceva in capo a detti dirigenti una provvidenza retributiva accessoria mensile definita «assegno ad personam». Salvo poi, successivamente annullarla, avvedendosi solo tardivamente dell'inesistenza di una previsione normativa o collettiva nazionale giustificativa di tale emolumento retributivo accessorio.
La sentenza spiega anche la compatibilità dell'assegno ad personam con il principio della parità di trattamento contrattuale, sul presupposto che il principio paritetico vada normativamente inteso come rispetto di un limite minimo del trattamento contrattuale, riservato alla «parte debole» del rapporto di lavoro, da cui ben può residuare la negoziazione di un trattamento migliorativo differenziato per determinate categorie di lavoratori, di concerto con le parti sociali ancorché adottato solamente in sede decentrata (articolo ItaliaOggi Sette del 20.10.2014).

APPALTI: È illegittima l'esclusione di una ditta che in sede di gara ha reso delle dichiarazioni in lingua straniera tradotta in italiano, la cui interpretazione presentava dei dubbi.
Il primo motivo del ricorso principale è infondato:
- la dichiarazione resa dalla casa costruttrice SEAT S.A. soddisfa il requisito previsto dal bando di gara in quanto la dichiarazione resa dalla casa costruttrice di autorizzare la Volkswagen Group Firenze a partecipare alla gara, ad offrire i prodotti SEAT, e a stipulare i relativi contratti di fornitura implica l’assunzione della responsabilità della casa costruttrice circa l’esatto adempimento contrattuale da parte della società concorrente, costituendo idonea garanzia per la stazione appaltante circa la corretta esecuzione della fornitura e del connesso servizio di “service”;
- qualora vi fossero stati dubbi o incertezze circa l’interpretazione della dichiarazione, resa in lingua straniera e poi tradotta in italiano, la stazione appaltante –in applicazione dell’art. 46, c. 1, del D.lgs. 163/2006, espressamente richiamato nel bando, avrebbe dovuto chiedere chiarimenti e giammai avrebbe potuto disporre l’esclusione dell’offerente non essendo la dichiarazione mancante (cfr. Cons. Stato Sez. III 09/05/2014 n. 2376), tanto più se si tiene conto della disposizione recata dall’art. 46 comma 1-ter, del D.Lgs. 163/2006, introdotto dal D.L. 90/2014 convertito in L. 114/2014, che estende la disposizione dell’art. 38, comma 2-bis, anche ai casi di mancanza, incompletezza o irregolarità di dichiarazioni anche di soggetti terzi che devono essere prodotte dai concorrenti in sede di gara, che pur non essendo direttamente applicabile alla fattispecie in esame –in quanto il bando è stato pubblicato prima dell’entrata in vigore del D.L. 90/2014- offre quale indice ermeneutico, la chiara volontà del Legislatore di valorizzare il soccorso istruttorio (cfr. Cons. Stato A.P. 30/07/2014 n. 16);
- la pretesa della ricorrente diretta ad ottenere l’esclusione della controinteressata deve ritenersi di conseguenza destituita di fondamento e quindi il primo motivo deve essere respinto (Tar Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 26.09.2014 n. 10028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALIRevisori legali senza limiti. Il Tar Sicilia sugli incarichi ai consulenti.
Consulenti del lavoro, incarichi da revisori legali senza limitazioni.

Il TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, con la sentenza 16.09.2014 n. 2285, ha deciso infatti che i Consulenti del lavoro, iscritti all'Albo dei revisori Legali, possono svolgere la funzione di presidente o componente del Collegio dei revisori dei conti negli Enti locali.
La sentenza interviene sospendendo l'esecuzione della delibera consiliare n. 27/2009, con la quale si dichiarava la decadenza del Consulente del Lavoro, già iscritto all'albo dei revisori legali, dalla carica di componente del Collegio revisori dei conti dell'Ente, perché non iscritto anche all'Albo dei «dottori commercialisti ed esperti contabili» come imposto dalla legge 142/1990.
Ma l'abilitazione all'esercizio della professione di revisore legale è stabilita dal dlgs 27.01.1992 n. 88, che dispone che «il presidente e i componenti dei collegi dei revisori dei conti, degli enti locali, devono essere iscritti nel registro dei revisori contabili».
Pertanto, conseguita I'abilitazione e l'iscrizione nel relativo registro è preclusa ogni ulteriore discriminazione in ragione dell'iscrizione o meno ad altri albi. Di conseguenza i Consulenti del lavoro possono essere revisori legali senza limitazioni (articolo ItaliaOggi del 14.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Per il compenso del legale pesa l'interesse del cliente.
Quando si valuta il compenso professionale spettante al legale, per l'incarico svolto, non si deve tener conto solo del valore complessivo dell'affare convenzionalmente stabilito nel contratto, ma è opportuno considerare anche l'interesse della parte, che ha accordato l'incarico, rispetto al risultato da raggiungere.

Lo hanno affermato i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione, con sentenza 15.09.2014 n. 19406.
I giudici di piazza Cavour si sono espressi circa il caso in cui una società si opponeva al decreto ingiuntivo chiesto e ottenuto da un avvocato per il pagamento degli onorari, a seguito dell'attività stragiudiziale regolarmente svolta. La società deduceva che il legale non aveva effettuato tutte le prestazioni indicate. In primo grado il tribunale accoglieva l'opposizione. In secondo grado i giudici accoglievano, poi, il gravame proposto dal legale, stabilendo che il compenso doveva essere commisurato al valore complessivo delle opere quale poteva ricavarsi dalla lettera di conferimento.
La società, lamentando l'errore della Corte d'appello che non aveva condiviso l'individuazione dell'oggetto, proponeva ricorso per cassazione, considerando sufficiente e necessaria la sola prospettazione della lettera di incarico, indicante il valore convenzionale dell'affare. Secondo la Suprema corte, la Corte d'appello «non ha mai in alcun modo affrontato la questione posta circa la determinazione del valore dell'oggetto dell'incarico, essendosi limitata a considerare che la sola indicazione dell'importo di 3 miliardi contenuta nell'oggetto della lettera d'incarico riguardasse il valore convenzionale attribuito all'oggetto del contratto, prescindendo da ogni ulteriore valutazione in ordine alla situazione nella quale si trovava la lottizzazione e al relativo iter, così da poter meglio definire quale fosse l'effettivo e specifico interesse della parte che conferiva l'incarico rispetto al risultato dello stesso».
Pertanto al fine del calcolo dell'onorario del professionista si deve valutare non soltanto l'importanza della prestazione svolta ma anche i risultati e i vantaggi che il cliente ha ottenuto (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

TRIBUTI: Cessioni neutre per le cubature. Nessun incremento di valore fino al rilascio della concessione edilizia. Imposte locali. La Ctr respinge la pretesa del Comune che aveva rettificato il valore del terreno ai fini Ici.
La cessione di cubatura non determina, di per sé, un incremento di valore ai fini Ici dei beni immobili dell'acquirente. Allo scopo è infatti necessario che il Comune rilasci in favore di quest'ultimo una concessione edilizia.
Così si è espressa la Ctr di Milano, sez. staccata di Brescia, nella sentenza 11.09.2014 n. 4569/64/14.
Si tratta di una questione molto diffusa che va assumendo sempre maggiore rilevanza. Nel caso in esame, il proprietario di un terreno edificabile aveva ceduto a terzi, con atto di donazione modale, la cubatura realizzabile sull'area. Il Comune aveva notificato al donatario un avviso di accertamento di valore ai fini Ici, nel quale si determinava l'imponibile delle aree da questi possedute tenendo conto anche della maggiore volumetria realizzabile in ragione della suddetta donazione.
La Commissione ha accolto la tesi del contribuente e ha annullato l'avviso, compensando tuttavia le spese. Secondo i giudici di secondo grado, la cessione di cubatura rappresenterebbe una fattispecie a formazione progressiva il cui momento di perfezionamento sarebbe costituito dall'assenso del Comune, espresso tramite rilascio di una concessione edilizia in favore dell'acquirente. Fino ad allora, il negozio giuridico tra le parti avrebbe effetti meramente obbligatori.
Nel caso di specie, il Comune si era limitato a eccepire che la mera inclusione di un'area nello strumento urbanistico generale era condizione necessaria e sufficiente ai fini dell'attribuzione della qualifica di edificabilità, ma non aveva in alcun modo comprovato il rilascio dell'autorizzazione a edificare in favore del donatario. È peraltro evidente che, in tale ottica interpretativa, il Comune sarebbe stato legittimato a pretendere il pagamento dell'Ici sull'area del donante, senza tener conto della "spoliazione" intervenuta, in quanto non ancora perfezionata.
Su natura e portata della cessione di cubatura in passato si sono confrontate molte tesi. Va sottolineato che la controversia decisa dai giudici lombardi riguarda l'annualità 2006, molto precedente alla modifica apportata con il Dl 70/2011 che ha introdotto l'articolo 2643-bis del Codice civile, imponendo la trascrizione degli atti che trasferiscono o modificano diritti edificatori, comunque denominati. In virtù di tale novella, l'opinione maggioritaria propende per la natura di diritto reale sui generis della cubatura. La questione tuttavia rimane aperta, seppure sotto un diverso profilo. E invero, l'Ici, come l'Imu, si applica necessariamente solo su ciò che possa essere incorporato su beni immobili ben individuati.
Si ipotizzi allora il caso, piuttosto diffuso, in cui il proprietario cede, con effetti reali per l'appunto, la cubatura relativa a un terreno di sua proprietà a un terzo che si riserva di individuare se e su quale bene concretamente sfruttare tale maggiore volumetria. In situazioni simili, l'area che ha originato la volumetria iniziale ha perso gran parte del suo valore. Nel contempo però questa differenza di valore resta intassabile ai fini Imu, sino a quando essa non si incorpora in un immobile
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo idrogeologico non comporta l’inedificabilità assoluta, ma semmai l’approntamento di particolari cautele: non ogni opera edilizia in zona vincolata può ritenersi pregiudizievole all'interesse pubblico, ma soltanto quelle che, in seguito a puntuale accertamento, risultino in contrasto con lo stesso
Con la seconda censura la parte istante sostiene che l’area di Opini è sottoposta a vincolo idrogeologico per l’intera superficie, con la conseguenza che il divieto di edificare riguardante le aree boscate si dovrebbe estendere ai terreni non boschivi.
Il rilievo è infondato.
Il vincolo idrogeologico non comporta l’inedificabilità assoluta, ma semmai l’approntamento di particolari cautele: non ogni opera edilizia in zona vincolata può ritenersi pregiudizievole all'interesse pubblico, ma soltanto quelle che, in seguito a puntuale accertamento, risultino in contrasto con lo stesso (TAR Piemonte, I, 13.06.2007, n. 2593; TAR Puglia, Lecce, I, 24.08.2005, n. 4122) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 01.07.2014 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di legittimazione processuale delle associazioni e dei comitati, il prevalente orientamento della giurisprudenza in base al quale, impregiudicato il criterio legale di legittimazione che la attribuisce agli enti a carattere nazionale iscritti nell'apposito elenco tenuto dal Ministero dell'ambiente, ai sensi dell'art. 13 della l. 08.07.1986 n. 349, è possibile che il riconoscimento della titolarità dell’azione sia attribuito ad associazioni o enti esponenziali locali i quali perseguano statutariamente, in modo non occasionale, obiettivi di tutela di determinati interessi della collettività ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un'area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione pubblica che si assume leso.
---------------
Anche in materia di interessi diffusi, nel nostro ordinamento non è ammessa l’azione popolare, vale a dire la possibilità per il quisque de populo di intraprendere un’iniziativa giurisdizionale in assenza della titolarità, sul piano sostanziale, di un interesse diretto, concreto e personale che lo ponga su un piano differenziato rispetto alla generalità dei consociati.
---------------
Ai fini della legittimazione ad agire di un’associazione o di un comitato, non è sufficiente il mero scopo associativo o la finalità statutaria per differenziare l’interesse diffuso, specie quando, come nel caso in esame, il Comitato si è costituito non molto tempo prima della proposizione dell’impugnativa, con la conseguenza che, al momento del ricorso, il Comitato stesso non poteva reputarsi radicato nel territorio; la carenza di adeguata rappresentatività e radicamento nel territorio deve valutarsi anche in relazione al numero dei componenti, che, stando allo statuto, sono solo dieci.

Va richiamato, in tema di legittimazione processuale delle associazioni e dei comitati, il prevalente orientamento della giurisprudenza in base al quale, impregiudicato il criterio legale di legittimazione che la attribuisce agli enti a carattere nazionale iscritti nell'apposito elenco tenuto dal Ministero dell'ambiente, ai sensi dell'art. 13 della l. 08.07.1986 n. 349, è possibile che il riconoscimento della titolarità dell’azione sia attribuito ad associazioni o enti esponenziali locali i quali perseguano statutariamente, in modo non occasionale, obiettivi di tutela di determinati interessi della collettività ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un'area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione pubblica che si assume leso (cfr., ex multis, Cons. Stato sez. IV, 08.11.2010, n. 7907; TAR Lombardia Brescia, sez. I, 11.03.2011, n. 398).
Per contro è indubitabile che, anche in materia di interessi diffusi, nel nostro ordinamento non è ammessa l’azione popolare, vale a dire la possibilità per il quisque de populo di intraprendere un’iniziativa giurisdizionale in assenza della titolarità, sul piano sostanziale, di un interesse diretto, concreto e personale che lo ponga su un piano differenziato rispetto alla generalità dei consociati (TAR Toscana, sez. II, 18.11.2011, n. 1765).
Orbene, gli enti esponenziali, onde poter essere ammessi alla tutela giurisdizionale, debbono agire per la difesa di specifici fini individuati nello Statuto; tuttavia tale specificità nel caso di specie manca, giacché lo Statuto del Comitato ricorrente opera un riferimento generico ed omnicomprensivo a finalità di tutela e valorizzazione della zona di Opini (documento n. 1 depositato in giudizio dai deducenti).
Ciò posto, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini della legittimazione ad agire di un’associazione o di un comitato, non è sufficiente il mero scopo associativo o la finalità statutaria per differenziare l’interesse diffuso (Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2008, n. 2546; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 26.03.2010, n. 866), specie quando, come nel caso in esame, il Comitato si è costituito non molto tempo prima della proposizione dell’impugnativa, con la conseguenza che, al momento del ricorso, il Comitato stesso non poteva reputarsi radicato nel territorio (TAR Toscana, sez. II, 01.04.2011, n. 567); la carenza di adeguata rappresentatività e radicamento nel territorio deve valutarsi anche in relazione al numero dei componenti (TAR Toscana, sez. II, 01.04.2011, n. 567; idem, sez. I, 28.02.2012, n. 397), che, stando allo statuto, sono solo dieci (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 01.07.2014 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Legittimità Ordinanza rimozione, smaltimento e ripristino dello stato dei luoghi, previa presentazione di un Piano di rimozione dei materiali da scavo.
L’onere probatorio della verifica della sussistenza di tutte le condizioni per l’applicazione del regime di favore e differenziato dei sottoprodotti rispetto a quello dei rifiuti è a carico di colui che lo invoca.
I provvedimenti impugnati risultano sostanzialmente immuni dalle censure dedotte in ragione della piena legittimità dell’ordine di rimozione e avvio a recupero e/o smaltimento del materiale depositato sull’area, ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, che compete senza alcun dubbio al Sindaco nell’ipotesi di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti.
Né avrebbe potuto in alcun modo ricevere applicazione la disciplina del recupero di rifiuti in sito a mezzo di impianto mobile di cui agli artt. 214 e 216 del codice dell’ambiente, nonché la correlata disciplina nazionale (d.M. 05.02.1998) e regionale (DGR Lombardia 10098/2009), che è rigorosamente subordinata alla circostanza che i rifiuti siano recuperati nel luogo di produzione e all’esito di severe valutazioni correlate alla qualità e provenienza del rifiuto.

Assunta la suddetta normativa di riferimento, il cui rispetto è essenziale ai fini dell’applicazione della disciplina dei sottoprodotti proprio per garantire che il materiale risponda ai requisiti dalla stessa prescritti, quello depositato presso l’area gestita dalla Suardi S.p.a. avrebbe potuto essere considerato sottoprodotto e non rifiuto solo ed esclusivamente alle condizioni e nel rispetto della procedura dettata dalla normativa di settore, ed in particolare mediante la presentazione del piano di utilizzo del materiale entro il perentorio termine previsto dalle disposizioni dell’art. 15 del d.m. 161 del 2012 (180 giorni dall’entrata in vigore del Regolamento) e secondo le modalità di cui all’art. 5 dello stesso d.m. 161/2012.
L’onere probatorio della verifica della sussistenza di tutte le condizioni per l’applicazione del regime di favore e differenziato dei sottoprodotti rispetto a quello dei rifiuti è, infatti, a carico di colui che lo invoca, come confermato anche dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, per la quale:
- “In tema di gestione dei rifiuti, l'esclusione dall'applicazione della disciplina sui rifiuti per le terre e rocce da scavo (art. 186, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile” (Cass. pen., sez. III, 12.06.2008, n. 37280);
- “Secondo l'attuale definizione contenuta nell'art. 183, comma 1, lett. p), d.lgs. n. 152 del 2006 (come modificata dal d.lgs. n. 4 del 2008), per la qualificazione di un residuo come sottoprodotto (nella specie, materiale proveniente dalla demolizione di un muro) si devono rispettare le seguenti condizioni: le sostanze ed i materiali -aventi un valore economico di mercato– devono essere originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione; il loro riutilizzo deve essere preventivamente programmato, certo, integrale ed avvenire direttamente nel corso del processo di produzione o utilizzazione; il materiale -senza necessità di trattamenti o di trasformazioni preliminari  deve soddisfare determinati requisiti merceologici e di qualità ambientale; in mancanza di una sola di dette condizioni, il residuo deve considerarsi un rifiuto” (Cass. pen., sez. III, 04.11.2008, n. 47085);
- “Quella dei sottoprodotti è una disciplina che prevede l'applicazione di un diverso regime gestionale in condizioni di favore, con la conseguenza che l'onere di dimostrare l'effettiva sussistenza di tutte le condizioni di legge incombe comunque su colui che l'invoca. … Deve affermarsi il principio secondo il quale i materiali provenienti da demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all'abbandono; l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'obbligo di disfarsi; l'eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi la invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge” (Cass. pen., sez. III, 29.04.2011, n. 16727).
Né la normativa della quale l’amministrazione ha invocato l’applicazione pare porsi in contrasto con l’ordinamento europeo, risultando, al contrario, il frutto di modifiche intervenute proprio in attuazione del medesimo, ed in particolare delle direttive 75/442/CEE, 91/156/CE, 2006/12/CE e 2008/98/CE per ragioni di tutela ambientale.
I provvedimenti impugnati risultano, dunque, sostanzialmente immuni dalle censure dedotte in ragione della piena legittimità dell’ordine di rimozione e avvio a recupero e/o smaltimento del materiale depositato sull’area, ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, che compete senza alcun dubbio al Sindaco nell’ipotesi di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti.
Né avrebbe potuto in alcun modo ricevere applicazione la disciplina del recupero di rifiuti in sito a mezzo di impianto mobile di cui agli artt. 214 e 216 del codice dell’ambiente, nonché la correlata disciplina nazionale (d.m. 05.02.1998) e regionale (DGR Lombardia 10098/2009), che è rigorosamente subordinata alla circostanza che i rifiuti siano recuperati nel luogo di produzione e all’esito di severe valutazioni correlate alla qualità e provenienza del rifiuto, indagini che, nella specie, non sono state effettuate, come detto, per omissioni imputabili alla società ricorrente (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 02.05.2014 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo stradale opera anche per sopraelevazioni.
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale, prescritto dal D.M. n. 1404 del 1968, si traduce in un divieto assoluto di edificazione che rende le aree legalmente inedificabili, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale.
Tale vincolo deve ritenersi operante anche con riferimento a costruzioni realizzate ad un diverso livello da quello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.

Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, infatti, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale, prescritto dal D.M. n. 1404 del 1968, si traduce in un divieto assoluto di edificazione che rende le aree legalmente inedificabili, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale.
Tale vincolo, inoltre, deve ritenersi operante anche con riferimento a costruzioni realizzate ad un diverso livello da quello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 03.11.2010, n. 22422; TAR Toscana , sez. III, 23.07.2012, n. 1349).
Ciò detto, il Collegio rileva che, nella fattispecie in esame, i lavori abusivi, oggetto della richiesta di sanatoria, rientravano pienamente nella fascia di rispetto stradale in quanto, lungi dal costituire un manufatto distinto e ulteriore rispetto a quello originario, rappresentavano un ampliamento, peraltro di non irrilevante consistenza, dell’edificio originario che, a sua volta fronteggiava la sede stradale.
Risultava, pertanto, indiscussa l'operatività del vincolo imposto con D.M. n. 1404/1968.
Per tali ragioni, l’Amministrazione correttamente faceva applicazione dell’art. 33 della L. 28.02.1985 n. 47 ed escludeva la sanabilità dell’abuso. (cfr. ex multis, Cons. St., sez. IV, 12.02.2010, n. 772; TAR Lazio, Roma, sez. I, 12.11.2008, n. 10100; Cons. St., sez. IV, 18.10.2002 n. 5716).
Il vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale, infatti, deve essere qualificato come un vincolo di inedificabilità assoluta, incompatibile per sua natura, con qualunque manufatto, con la conseguenza che, a differenza del vincolo di cui all’art. 32, lo stesso determina un divieto di edificazione a carattere assoluto e la non sanabilità dell’opera realizzata dopo la sua imposizione, a nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la sicurezza del traffico. (Cons. Stato, Sez. IV, 05.07.2000, n. 3731) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.04.2014 n. 705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Volumetria residua area edificabile frazionata.
Nel caso in cui un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
Sotto il secondo profilo non può essere condivisa la tesi dell’IEEP secondo la quale la particella 134, distinta dalle altre porzioni risultanti dal frazionamento del lotto originario di estensione pari a 9243 mq, avrebbe una propria autonoma dotazione edificatoria indipendente da quella già espressa dalle altre particelle dell’originario compendio.
Se così fosse basterebbe frazionare i lotti già impegnati con la massima cubatura esprimibile per moltiplicare il carico urbanistico di zona ben oltre il limite consentito dagli indici di fabbricazione.
E’ infatti pacifico in giurisprudenza (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 25.11.2011, n. 1629) che ove un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto (giurisprudenza costante: Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n. 3120 Cons. St., sez. IV, del 22.05.2012, n. 2941).
Ne consegue che il diniego adottato dal Comune di Bari è correttamente fondato sul presupposto che la particella 134, come parte di un più ampio lotto urbanisticamente unitario, in tal guisa considerato all’epoca delle precedenti concessioni edilizie, dovesse scontare la volumetria già realizzata (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 01.04.2014 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Differenze tra legittimazione impugnazione di attività edificatoria e disposizioni contenute nel P.R.G. o in una sua variante.
L’esistenza di uno stabile collegamento col terreno interessato dall’intervento edilizio è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell’interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell’attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo.
Nel caso d’impugnazione di disposizioni contenute nel P.R.G. o in una sua variante, è certamente ammissibile anche il ricorso proposto dai proprietari di aree vicine o confinanti con quelle cui si riferisce la prescrizione contestata, ma in tal caso occorre che sia dimostrata anche la sussistenza di un pregiudizio specifico e attuale riveniente ai suoli del ricorrente per effetto della scelta pianificatoria della quale si assume l’illegittimità.

4. Per vero, la Sezione reputa che il contrasto giurisprudenziale sul punto della legittimazione e dell’interesse a insorgere in sede giurisdizionale avverso gli strumenti urbanistici, che sembra emergere dalle contrapposte argomentazioni delle parti, si rivela più apparente che reale ad una più attenta analisi delle pronunce succedutesi negli ultimi anni in subiecta materia.
4.1. Innanzi tutto, anche se spesso nelle decisioni che si sono occupate della questione i due profili appaiono sovrapposti o confusi, è opportuno ribadire la differenza esistente fra le due diverse condizioni dell’azione costituite dalla legittimazione processuale e dall’interesse a ricorrere: come è noto, secondo i comuni principi, mentre la prima consiste nella titolarità in capo a chi agisce di una posizione giuridica differenziata e qualificata che astrattamente abiliti ad insorgere in sede giudiziale, la seconda si ricollega necessariamente alla sussistenza di un interesse concreto e attuale, in relazione ad una specifica ed effettiva utilità che l’istante si riproponga di conseguire come conseguenza immediata dell’accoglimento della propria domanda giudiziale.
Con specifico riferimento al processo amministrativo ed alla sua struttura impugnatoria, mentre la legittimazione processuale s’identifica nella titolarità di una situazione giuridica soggettiva (di interesse legittimo ovvero, nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, anche di diritto soggettivo) che differenzia la posizione del ricorrente da quella di quisque de populo, l’interesse a ricorrere sussiste a condizione che egli riceva una lesione concreta ed attuale dal provvedimento oggetto di impugnazione, di modo che la rimozione di quest’ultimo gli produca un vantaggio diretto e immediato.
Tanto premesso e precisato, è superfluo aggiungere che perché il ricorso possa dirsi ammissibile le condizioni testé descritte devono sussistere entrambe contemporaneamente al momento delle proposizione della domanda giudiziale.
4.2. Venendo dunque al punto specifico dell’impugnazione dei provvedimenti amministrativi in materia di urbanistica ed edilizia, da un sia pur sommario esame della giurisprudenza al riguardo è agevole desumere che profondamente diverse sono le conclusioni raggiunte, in ordine alla posizione del proprietario confinante, a seconda che ad essere oggetto di impugnazione sia un titolo che abiliti immediatamente all’edificazione (permesso di costruire o equivalente) oppure un mero atto di pianificazione (P.R.G. o equivalente e sue varianti).
Nel primo caso, l’orientamento largamente prevalente è nel senso che la mera vicinitas –ossia l’esistenza di uno stabile collegamento col terreno interessato dall’intervento edilizio- sia sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell’interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell’attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, nr. 3456; Cons. Stato, sez. VI, 01.02.2013, nr. 631; Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, nr. 361; id., 29.08.2012, nr. 4643; id., 07.05.2012, nr. 2620).
Non così nel caso di impugnazione di disposizioni contenute nel P.R.G. o in una sua variante, laddove l’indirizzo prevalente è –al contrario– nel senso che, fuori dei casi in cui il ricorrente si dolga di prescrizioni che direttamente incidano sui suoli in sua proprietà (censurandone ad esempio la destinazione, ovvero l’imposizione su di essi di vincoli espropriativi), è certamente ammissibile anche il ricorso proposto dai proprietari di aree vicine o confinanti con quelle cui si riferisce la prescrizione contestata, ma in tal caso occorre che sia dimostrata anche la sussistenza di un pregiudizio specifico e attuale riveniente ai suoli del ricorrente per effetto della scelta pianificatoria della quale si assume l’illegittimità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.03.2011, nr. 1205; id., 19.03.2009, nr. 1653; nonché, in sede consultiva, Cons. Stato, sez. I, parere 19.07.2011, nr. 4417).
Si aggiunge anche che tale pregiudizio non deve necessariamente risolversi in una lesione delle facoltà connesse al diritto dominicale di cui il ricorrente è titolare in relazione ai suoli in sua proprietà, ma può consistere anche nella perdita di utilità ulteriori e diverse, come quando –ad esempio– sia documentata un’oggettiva e immediata perdita di valore dei suoli dell’istante quale effetto diretto della pianificazione involgente le aree limitrofe o circostanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.07.2005, nr. 4018).
In altri termini, nelle ipotesi da ultimo considerate la semplice esistenza di una situazione di stabile collegamento fra i suoli del ricorrente e le aree interessate dalla variante urbanistica –quand’anche provata in modo incontrovertibile– può essere al più idonea a fondare un’astratta legitimatio ad causam, ma è insufficiente a dimostrare anche l’attualità dell’interesse a ricorrere, per il quale occorre allegare e provare una lesione concreta e attuale; tale lesione deve essere altresì specifica, e quindi non può risolversi nel generico pregiudizio all’ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell’ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione (e che, oltre tutto, porrebbe l’ulteriore problema di individuare il limite al di là del quale non si sia più in presenza di una lesione specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare).
Insomma, riconoscere l’impugnabilità degli atti di pianificazione urbanistica da parte dei proprietari di suoli più o meno prossimi alle aree direttamente incise dagli atti medesimi, indipendentemente dall’allegazione e dalla prova di una specifica lesione, significherebbe aprire la via a vere e proprie forme di azione popolare, connesse alla mera qualità di cittadino residente nel territorio interessato dalla pianificazione, in contrasto con elementari principi processuali.
4.3. Questa la giurisprudenza, dalla quale la Sezione non ravvisa motivo per discostarsi.
È appena il caso di precisare, peraltro, che i piani principi che si sono riassunti non appaiono per nulla contraddetti dagli arresti, apparentemente di segno opposto, che gli appellati richiamano nei propri scritti difensivi in replica alle deduzioni di parte appellante: infatti, una semplice lettura delle decisioni così richiamate evidenzia che queste si riferiscono tutte a casi nei quali l’atto di pianificazione o di variante era impugnato unitamente a uno specifico titolo ad aedificandum, e quindi quale atto presupposto rispetto a quello col quale si era materializzata la lesione lamentata dal ricorrente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.07.2013, nr. 3882; id., 04.06.2013, nr. 3055; id., 28.03.2011, nr. 1868), ovvero l’impugnazione investiva un piano attuativo al quale erano ricollegabili effetti diretti nei riguardi di un singolo, specifico immobile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2009, nr. 4756).
Pertanto, si trattava sempre di situazioni nelle quali la legittimazione e l’interesse a ricorrere si sostanziavano in una situazione di vicinitas fra la proprietà del ricorrente e un’area specificamente individuata, rispetto alla quale gli atti impugnati erano destinati a produrre effetti immediati in termini di edificazione (realizzata o da realizzare): di modo che, ricadendosi nella prima delle due situazioni innanzi esaminata, quella dell’impugnazione del titolo abilitativo all’edificazione, legittimazione e interesse venivano sostanzialmente a coincidere, col risultato che appaiono confermate, piuttosto che smentite, le conclusioni della giurisprudenza maggioritaria che si sono richiamate (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.12.2013 n. 6082 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Illegittimità ordinanza sindacale per contenimento rumore attività azienda agricola
E’ illegittima l’ordinanza con la quale il Sindaco ha prescritto al titolare dell’azienda agricola, di provvedere ad isolamento acustico idoneo a eliminare i rumori e le vibrazioni del mulino per la macinazione del grano, di innalzare la parete della stalla esistente per eliminare il diffondersi dei rumori prodotti dalla mungitrice e di non effettuare attività rumorose ovvero moleste al di fuori di dati orari.
Come dispone l’art. 36 del regolamento di polizia urbana del Comune richiamato proprio nelle ordinanze suddette, le stesse si qualificano come provvedimenti ordinari, non come ordinanze di urgenza, e le competenze per la repressione dei rumori molesti sono ripartite fra il Sindaco e la dirigenza.
Secondo il comma 2 del citato articolo, è infatti il dirigente di settore ad avere la competenza a intervenire in tutti i casi in cui la fonte del disturbo sia un’attività produttiva e si tratti di eliminarla senza pregiudicare l’attività stessa; il Sindaco, organo di vertice dell’amministrazione comunale, interviene invece in un caso più grave, previsto dal comma 3, ovvero quando la fonte del disturbo sia un’attività esercitata all’interno di una privata abitazione. In tal caso, il Sindaco provvede a far cessare l’attività in questione, perché essa in tale collocazione non è consentita, così come prevede la norma stessa al successivo comma 5.
Nel caso di specie, poiché l’attività svolta dal ricorrente è pacificamente un’attività produttiva di azienda agricola, e l’ordinanza mira a disciplinare i rumori da essa generati, non certo a farla cessare in quanto tale, la relativa competenza apparteneva al dirigente.

2. E’ infatti fondato e assorbente il primo motivo di ricorso. Come dispone l’art. 36 del regolamento di polizia urbana del Comune di Gavardo (doc. 14 ricorrente, copia di esso), richiamato proprio nelle ordinanze suddette, che detto per inciso si qualificano come provvedimenti ordinari, non come ordinanze di urgenza, in tale Comune le competenze per la repressione dei rumori molesti sono ripartite fra il Sindaco e la dirigenza.
3. Secondo il comma 2 del citato articolo, è infatti il dirigente di settore ad avere la competenza a intervenire in tutti i casi in cui la fonte del disturbo sia un’attività produttiva e si tratti di eliminarla senza pregiudicare l’attività stessa; il Sindaco, organo di vertice dell’amministrazione comunale, interviene invece in un caso più grave, previsto dal comma 3, ovvero quando la fonte del disturbo sia un’attività esercitata all’interno di una privata abitazione. In tal caso, il Sindaco provvede a far cessare l’attività in questione, perché essa in tale collocazione non è consentita, così come prevede la norma stessa al successivo comma 5. Ciò è confermato anche dall’ordinanza 31.01.2012 n. 13, emessa dal Sindaco con esclusivo riguardo ad attività svolte appunto nelle private abitazioni.
4. Nel caso di specie, poiché l’attività svolta dal ricorrente è pacificamente un’attività produttiva di azienda agricola, e l’ordinanza mira a disciplinare i rumori da essa generati, non certo a farla cessare in quanto tale, la relativa competenza apparteneva al dirigente. E’quindi fondato il motivo che sull’incompetenza fa centro.
5. Tale motivo è altresì assorbente, nel senso di precludere l’esame dei restanti. Secondo il prevalente orientamento, espresso per tutte da C.d.S. sez. IV 12.12.2006 n. 7271, infatti, una volta ritenuta incompetente l'autorità che ha emanato l'atto impugnato, la valutazione sui vizi sostanziali si risolverebbe in un giudizio meramente ipotetico sull'ulteriore attività amministrativa dell'organo competente, oltretutto ora in aperto contrasto con la norma dell’art. 34, comma 2 c.p.a., per cui “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati” (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.12.2013 n. 1085 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Legittimità ingiunzione di pagamento della sanzione per escavazione non autorizzata in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
La tutela del paesaggio nel nostro sistema giuridico, è certamente assicurata da misure prettamente sanzionatorie che hanno in via principale funzione deterrente, come quelle di cui all’art. 167 del D.Lgs. 42/2004, le quali prescindono dalla sussistenza effettiva del danno ambientale.
Nello specifico, è stato di recente precisato che la motivazione della sanzione è ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, sostanzialmente equitativa, insuscettibile di una dimostrazione articolata ed analitica, sfuggendo il danno paesaggistico, per la sua intrinseca natura, a una indagine dettagliata e minuta.

4.1 La tutela del paesaggio, nel nostro sistema giuridico, è certamente assicurata da misure prettamente sanzionatorie che hanno in via principale funzione deterrente, come quelle di cui all’art. 167 del D. Lgs. 42/2004 (cfr. sentenza TAR Brescia 18/04/2008 n. 388), le quali prescindono dalla sussistenza effettiva del danno ambientale (TAR Sicilia Catania, sez. II – 27/09/2013 n. 2328). Nello specifico, è stato di recente precisato che la motivazione della sanzione è ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, sostanzialmente equitativa, insuscettibile di una dimostrazione articolata ed analitica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 17/09/2013 n. 4631 che richiama sez. IV – 14/04/2010 n. 2083), sfuggendo il danno paesaggistico, per la sua intrinseca natura, a una indagine dettagliata e minuta (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII – 09/02/2012 n. 695).
4.2 Tuttavia, al di là della premessa teorica sviluppata dal perito, ciò che deve essere sottoposta a valutazione è la tecnica di costruzione del danno dallo stesso elaborata, tenuto conto che la norma non fornisce alcun suggerimento operativo al riguardo. Anche il D.M. 26/09/1997 –avente ad oggetto “Determinazione dei parametri e delle modalità per la qualificazione della indennità risarcitoria per le opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo”– si limita a contemplare una perizia di valutazione del danno determinato dall’intervento abusivo, mentre reca norme puntuali per la sola quantificazione del profitto (articolo 3).
4.3 Ad avviso del Collegio, è corretta l’asserzione per la quale i parametri di commisurazione della sanzione sono tra loro alternativi, e tuttavia ciò non esclude che il valore di una delle due voci (nella specie il danno ambientale, singolarmente considerato), possa essere in concreto stabilito elaborando un indice complesso nel quale trovi spazio –tra i vari fattori– anche il profitto.
In buona sostanza, in assenza di indicazioni normative, nel caso sottoposto all’esame del Collegio il perito ha ritenuto che il profitto conseguito fosse uno degli indicatori utili per giungere ad una congrua quantificazione della voce “danno ambientale”: detta scelta non può dirsi a priori illogica, dato che il carattere remunerativo di un’attività economica intrapresa in violazione delle regole costituisce elemento rivelatore della natura impattante dell’intervento, e un lucro maggiore è ordinariamente accompagnato da una compromissione più accentuata del bene ambiente. Ovviamente, possono riscontrarsi casi peculiari o eccezionali i quali smentiscono detta argomentazione, che tuttavia non si sono verificati (in assenza di specifiche dimostrazioni e deduzioni) presso l’area di cui si discorre (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 27.11.2013 n. 1019 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Legittimità ordinanza rimozione recupero e smaltimento dei rifiuti inquinanti abbandonati sul terreno.
L’assenza di materiale inquinante è circostanza del tutto ininfluente ai fini dell’emanazione dell’ordine di rimozione di rifiuti ai sensi dell’art. 192 T.U. ambientale d.lgs. n. 152/2006.
Quest’ultimo risulta infatti legittimamente emanato al ricorrere del presupposto consistente nell’esistenza di un deposito incontrollato di rifiuti, a prescindere dalla loro potenzialità inquinante. Tale ulteriore presupposto fonda infatti il diverso provvedimento consistente nell’ordine di bonifica dei terreni contaminati ex artt. 244 e 245 d.lgs. n. 152/2006.
L’assenza di materiale inquinante è circostanza del tutto ininfluente ai fini dell’emanazione dell’ordine di rimozione di rifiuti ai sensi dell’art. 192 t.u. ambientale. Quest’ultimo risulta infatti legittimamente emanato al ricorrere del presupposto consistente nell’esistenza di un deposito incontrollato di rifiuti, a prescindere dalla loro potenzialità inquinante. Tale ulteriore presupposto fonda infatti il diverso provvedimento consistente nell’ordine di bonifica dei terreni contaminati ex artt. 244 e 245 d.lgs. n. 152/2006.
Per quanto concerne invece l’assunto con cui l’appellante incidentale nega di essere l’autore del deposito incontrollato di rifiuti, lo stesso appare del tutto pretestuoso, alla luce della chiara ammissione ricavabile dall’atto di citazione dallo stesso proposto davanti al Tribunale civile di Genova per l’usucapione del terreno, nel quale il sig. Giusto riconosce di avere per anni depositato materiale di risulta di lavori edili nell’ambito della propria attività di imprenditore del settore. Si legge infatti nell’atto di citazione: “deve rilevarsi che dagli anni settanta il signor Mario Giusto, imprenditore edile, ha preso a depositare/prelevare su un lembo di terreno comune ad entrambi i mappali materiale edile”.
Correttamente, pertanto, l’amministrazione comunale ed il TAR hanno valorizzato tale circostanza ai fini, rispettivamente, dell’emissione dell’ordine impugnato e della reiezione delle censure di eccesso di potere per illogicità, carenza di motivazione ed istruttoria sul punto (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.11.2013 n. 5609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento parziale titolo edilizio.
Secondo l’opinione espressa dalla giurisprudenza maggioritaria, non è possibile procedere all’annullamento parziale dei titoli edilizi giacché, ammettendo il contrario, si consentirebbe all’amministrazione (o al giudice qualora l’annullamento sia effettuato da quest’ultimo) di disporre modificazioni al progetto di costruzione predisposto dal privato, e di sostituirsi, in sostanza, alla volontà di quest’ultimo.
Invero, secondo l’opinione espressa dalla giurisprudenza maggioritaria, cui si intende in questa sede aderire, non è possibile procedere all’annullamento parziale dei titoli edilizi giacché, ammettendo il contrario, si consentirebbe all’amministrazione (o al giudice qualora l’annullamento sia effettuato da quest’ultimo) di disporre modificazioni al progetto di costruzione predisposto dal privato, e di sostituirsi, in sostanza, alla volontà di quest’ultimo (cfr. ex multis T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 30.03.2012 n. 3065). La giurisprudenza citata dalla parte (Consiglio di Stato, sez. IV, 14.04.2011 n. 2326; TAR Sicilia Catania, sez. I, 25.03.2010 n. 937) sembra peraltro inconferente, in quanto non riguardante l’ipotesi dell’annullamento in autotutela di titoli edilizi (la sentenza del Consiglio di Stato ha ad oggetto un provvedimento di rigetto di istanza di rilascio di permesso di costruire ed una ordinanza di demolizione di opere ritenute abusive; mentre quella del TAR Catania riguarda una deliberazione di acquisizione al patrimonio comunale di opera ritenuta abusiva).
Va comunque osservato che l’interesse del privato volto a mantenere in essere quella parte di progetto e di opere non in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia è adeguatamente salvaguardato dalla possibilità di presentare istanza di permesso di costruire in sanatoria, previa modifica delle parti progettuali che sono invece in contrasto con la normativa stessa (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2013 n. 2605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Legittimità provvedimento di delocalizzazione dell’impianto GSM-UMTS installato sulla copertura di stabilimento termale.
Il Piano di Coordinamento per il rilascio di concessione d’impianti s.r.b. emittenti campi elettromagnetici, adottato previo confronto ed acquisizione delle indicazioni fornite dagli enti gestori per le esigenze di copertura dei medesimi, prevede la delocalizzazione degli impianti installati su aree destinate ad attrezzature sanitarie.
L’articolo 36, comma 2, della L. n. 833/1978 comporta la riconducibilità dello stabilimento termale alla tipologia delle strutture sanitarie e la conseguente operatività dei divieti e delle tutele introdotte dal suddetto Piano di Coordinamento.

Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente, premesso che il Piano di coordinamento GSM del 2001 è inidoneo ad assicurare la copertura della rete UMTS, lamenta che l’Amministrazione non avrebbe adeguatamente valutato le esigenze della nuova rete ed il minor impatto elettromagnetico delle nuove tecnologie e non avrebbe ottemperato al principio dell’accordo circa la localizzazione delle SRB di cui all’art. 86, comma 2, del D.Lgs. n. 259/2003 individuando siti inidonei.
Il motivo è infondato.
Il dedotto mancato coinvolgimento dei gestori è smentito dalla già illustrata sequenza provvedimentale che testimonia una attiva partecipazione della ricorrente nell’individuazione delle aree alternative.
Il piano di coordinamento adottato con delibera di Giunta n. 253/2001, è stato approvato con delibera consiliare n. 6/2002 previo confronto con gli enti gestori ed acquisizione delle loro posizioni nel corso di più incontri di cui è dato atto nella delibera consiliare n. 59/2002.
Sulla base delle soluzioni concordate la ricorrente ha sottoscritto con l’Amministrazione, unitamente ad altri gestori, apposita convenzione (13.09.2002) per la delocalizzazione dell’impianto in località Tabiano.
Di detto impegno ad utilizzare le aree tecnicamente attrezzate dall’Amministrazione comunale è dato ulteriormente atto nella delibera consiliare n. 285 del 10.12.2002 e risulta confermato in documenti provenienti dalla stessa ricorrente che con atto n. 4226/MP/NI del 18.03.2003 “a fronte dell’impegno” dalla medesima assunto “a realizzare a propria cura e spese le opere di urbanizzazione primaria dei siti multi gestori per telefonia mobile approvati con atto della Giunta Comunale n. 285 del 10/12/2002” dichiarava “la propria disponibilità a versare anticipatamente le annualità del canone di locazione stabilite nell’accordo sottoscritto ed approvato dall’Amministrazione”.
Quanto alla affermata inidoneità dei siti, peraltro mai rappresentata dalla ricorrente all’Amministrazione nel corso della compiuta e prolungata istruttoria, deve considerarsi circostanza affermata anapoditticamente senza alcun elemento probatorio o sostegno.
Si evidenzia, tuttavia, che si tratta di ben otto siti differenti dei quali 4 sono oggi utilizzati.
Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente contesta la qualificazione dello stabilimento termale quale area destinata a struttura sanitaria nei sensi di cui all’art. 9, comma 1, della L.R. n. 30/2000.
In particolare sostiene che l’art. 36, comma 2, della L. n. 833/1978, prevedendo che “la legge regionale promuove la integrazione e la qualificazione sanitaria degli stabilimenti termali pubblici, in particolare nel settore della riabilitazione, e favorisce altresì la valorizzazione sotto il profilo sanitario delle altre aziende termali” avrebbe introdotto un principio in base al quale la qualificazione sanitaria degli stabilimenti termali potrebbe essere operata solo dalle Regioni e per i soli stabilenti termali pubblici.
Nessuna qualificazione nel senso sarebbe stata operata e l’impianto in questione, di pertinenza dell’azienda termale Società Terme di Salsomaggiore Terme S.p.A. non sarebbe in ogni caso uno stabilimento pubblico contemplato dalla norma richiamata (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 20.11.2013 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento giurisdizionale di concessione edilizia.
Secondo costante orientamento giurisprudenziale in materia urbanistica, nelle ipotesi di annullamento giurisdizionale di un diniego di concessione edilizia, la nuova valutazione della domanda di concessione deve essere effettuata con riferimento alla disciplina urbanistica vigente al momento in cui viene notificata al Comune interessato la sentenza di annullamento del diniego, venendo così in rilievo anche la nuova disciplina intervenuta nelle more del giudizio.
Secondo costante orientamento giurisprudenziale “in materia urbanistica, nelle ipotesi di annullamento giurisdizionale di un diniego di concessione edilizia, la nuova valutazione della domanda di concessione deve essere effettuata con riferimento alla disciplina urbanistica vigente al momento in cui viene notificata al Comune interessato la sentenza di annullamento del diniego, venendo così in rilievo anche la nuova disciplina intervenuta nelle more del giudizio” (Cons. St., sez. IV, 24.12.2008 , n. 653; sezione V, 03.09.2009, n. 5169; sezione IV, 10.07.2007, n. 3890) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli Sez. II, sentenza 24.05.2013 n. 2749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Differente tipologia di soppalchi e norma applicabile.
La distinzione tra i soppalchi la cui realizzazione sia "rivolta a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili" (art. 31, I comma, lettera c, L. 457/1978, e, oggi, art. 3, comma I, lettera c, del DPR 380/2001) e soppalchi che, invece, per le loro caratteristiche (soprattutto dimensionali) rientrano a pieno titolo nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, di cui all'art. 10, I comma, lettera c del medesimo Testo unico, che viene in considerazione allorché la loro posa in opera determini una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico.
Questa sezione ha avuto modo di affermare –con orientamento che non appare meritevole di ripensamenti- la distinzione (presente anche nell’art. 15 del regolamento edilizio comunale di Napoli) tra i soppalchi la cui realizzazione sia "rivolta a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili" (art. 31, I comma, lettera C, L. 457/1978, e, oggi, art. 3, comma I, lettera C, del DPR 380/2001) e soppalchi che, invece, per le loro caratteristiche (soprattutto dimensionali) rientrano a pieno titolo nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, di cui all'art. 10, I comma, lettera C del medesimo Testo unico, che viene in considerazione allorché la loro posa in opera determini una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico (TAR Campania Napoli, sez. IV, 28.11.2008, n. 20563; 12.06.2012 n. 2776 ).
Nel caso in esame le dimensioni del soppalco, pari a trenta metri quadrati su complessivi sessantacinque circa, comportano, nella sostanza, l'introduzione nell'appartamento in questione di due ambienti in più rispetto al passato (che, infatti, in ricorso sono qualificati, rispettivamente, come camera munita di bagno e come studio), e, pertanto, di nuove superfici utili.
Dette opere, allora, ben lungi dal potere essere qualificate pertinenziali, integrano un caso di ristrutturazione edilizia, tale da richiedere il preventivo permesso di costruire; e ledono senz’altro l’interesse tutelato dalla normativa edilizia che il Comune assume violata, palesando la legittimità della conseguente sanzione (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.05.2013 n. 2649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva.
Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'Amministrazione in relazione al provvedere.
Infatti, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di demolizione, una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi.
Anche questa Sezione ha avuto modo di precisare che l'Amministrazione non dispone -a fronte degli illeciti edilizi- di alcun margine di discrezionalità e ha quindi l'obbligo di intervenire con un atto repressivo, dovuto nell'an e vincolato nel suo contenuto, senza che su di esso possa influire alcuna comparazione tra interessi pubblici ed interessi privati.
----------------
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
La violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato.

5. – Medesima sorte di rigetto tocca ai motivi secondo e quinto, anch’essi da scrutinare congiuntamente perché riferiti, entrambi, ad un preteso difetto di motivazione dell’atto impugnato.
Va rilevato, infatti, che la motivazione dell'atto gravato è sufficiente a sorreggere il medesimo, poiché l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento.
Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'Amministrazione in relazione al provvedere.
Infatti, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi (TAR Campania Napoli, sez. VI, 25.02.2009, n. 1100; sez. III, 23.01.2009, n. 315).
Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di demolizione, una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi (TAR Campania Napoli, sez. VII, 03.03.2009, n. 1209).
Anche questa Sezione ha avuto modo di precisare che l'Amministrazione non dispone -a fronte degli illeciti edilizi- di alcun margine di discrezionalità e ha quindi l'obbligo di intervenire con un atto repressivo, dovuto nell'an e vincolato nel suo contenuto, senza che su di esso possa influire alcuna comparazione tra interessi pubblici ed interessi privati (TAR Campania Napoli, sez. IV, 13.05.2008, n. 4256; 03.01.2013 n. 61).
Né si comprende per quale ragione il Comune avrebbe dovuto motivare il provvedimento in relazione ad un asserito lungo lasso di tempo che sarebbe trascorso dalla commissione dell’abuso alla sua repressione, circostanza di fatto di cui non v’è traccia agli atti di causa.
6. - Va altresì respinta la censura di mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, poiché, per consolidata regola giurisprudenziale, ampiamente condivisa da questo TAR, i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797).
È poi stato precisato che la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato (Consiglio di stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029)
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.05.2013 n. 2649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Ordinanza sindacale di rimozione rifiuti e rimessione in pristino.
In caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il titolare in uso di fatto del terreno non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Per completezza e sinteticamente, converrà comunque osservare che è certamente fondata la censura con la quale si contesta l’omesso invio della comunicazione di avvio del procedimento al ricorrente Consorzio, così privato della facoltà del contraddittorio, atteso che il ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente, o anche avente valenza ambientale, giustifica l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento unicamente in presenza di un’”urgenza qualificata”, in relazione alle circostanze del caso concreto, che, però, deve essere debitamente esplicitata in specifica motivazione sulla necessità e l’urgenza di prevenire il grave pericolo alla cittadinanza (Cfr: TAR Campania, Sez. V, 03.02.2005, n. 764). Motivazione che, nel caso di specie, con tutta evidenza, è mancata.
Ed è altresì fondata la censura con la quale è stata dedotta la violazione del D.L.vo n. 152/2006 e segnatamente dell’art. 192 del codice dell’ambiente. In relazione a questa norma, infatti, la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex multis, cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004) che, in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il titolare in uso di fatto del terreno non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 16.05.2013 n. 2549 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Come risulta dagli atti, la progettazione e la realizzazione dell’edificio industriale assentito con l’impugnata concessione edilizia non è imputabile unicamente -o comunque, in modo prevalente- al Geometra ma anche ad altri professionisti laureati, e, soprattutto, proprio per le opere in conglomerato cementizio, circostanza peraltro già evidente prima del rilascio della concessione stessa.
Del resto, in materia di progettazione di opere private, deve ritenersi senz’altro consentito l’intervento di un ingegnere (o di un architetto) ad integrazione dei limiti della competenza dei geometri, dal momento che la finalità delle norme a disciplina delle competenze professionali degli ingegneri è quella di assicurare l’incolumità delle persone e ciò ben può ravvisarsi nei casi in cui essi provvedano ai calcoli statici delle strutture ed alla verifica della loro idoneità, anziché alla redazione integrale del progetto ed alla direzione altrettanto integrale dei relativi lavori.

Il 06.04.1990 il Sindaco di Montegranaro ha rilasciato al sig. Di Battista Vincenzo la concessione edilizia n. 78 per la costruzione di un edificio industriale in località Quazzetti, su progetto redatto sia dal Geom. Angelo Squarcia, indicato anche come direttore dei lavori, sia dall’ing. Paolo Enrico Svampa, indicato quale progettista e direttore delle opere in conglomerato cementizio.
La concessione edilizia è stata impugnata dall’Ordine degli Ingegneri di Ascoli Piceno con il ricorso in epigrafe indicato, notificato il 02.06.1990 e depositato 12 successivo, deducendosene l’illegittimità per violazione delle norme che disciplinano la competenza professionale dei geometri, in quanto la progettazione dell’opera assentita, per la sua consistenza, destinazione, ubicazione in zona sismica ed impiego di strutture in cemento armato, è da annoverarsi tra quelle riservate alla competenza professionale degli ingegneri.
Nelle more del deposito del ricorso, il titolare della concessione, con nota inviata al Comune di Montegranaro il 21.06.1990 e con riferimento a quanto già comunicato il 27.04.1990 nella denuncia depositata presso il Servizio regionale decentrato oo.pp. di Ascoli Piceno (ex Genio civile) ai sensi dell’art. 17 della legge n. 64/1974, ha però, indicato il Geom. Angerlo Squarcia come progettista e direttore dei lavori non strutturali, l’Ing. Silvano Rometta come progettista delle strutture prefabbricate, l’ing. Alberto Del Lago come progettista del tegolo prefabbricato “Ondal”, l’ing. Paolo Enrico Svampa come progettista e direttore dei lavori delle strutture in opera, l’ing. Gianni Sellavita come direttore delle strutture prefabbricate, l’Arch. Fabio Marcaccioli come direttore di montaggio delle strutture prefabbricate ed il Geom. Maurizio Manfredini come capo cantiere delle strutture prefabbricate.
Il 23.07.1990 si è costituito in giudizio il Geom. Angerlo Squarcia, il cui difensore ha depositato il 18.01.2008 la sua dichiarazione dell’11.04.1991 in merito all’attività professionale effettivamente svolta (rilievi e pratiche catastali, stesura grafica del progetto sulla base delle bozze dell’Ing. Svampa, progettazione sistemazione area di pertinenza, compilazione ed inoltro pratica edilizia, rapporti con il cliente e con la società fornitrice dei prefabbricati, operazioni topografiche di cantiere, misura e contabilità dei lavori) nonché copia della relazione di collaudo dell’Ing. Alteriano Renzi, depositata il 9.8.1991 presso il Servizio regionale decentrato oo.pp. di Ascoli Piceno: con memoria depositata l’08.02.2008 ha, quindi, replicato ai dedotti gravami, chiedendo che il ricorso sia respinto in quanto infondato.
Le altre parti intimate non si sono costituite in giudizio.
Tanto premesso, il Collegio considera il ricorso infondato perché, come risulta dagli atti sopra indicati, la progettazione e la realizzazione dell’edificio industriale assentito con l’impugnata concessione edilizia, non è imputabile unicamente -o comunque, in modo prevalente- al Geom. Angelo Squarcia, ma anche ad altri professionisti laureati, e, soprattutto, proprio per le opere in conglomerato cementizio, circostanza peraltro già evidente prima del rilascio della concessione stessa.
Del resto, in materia di progettazione di opere private, deve ritenersi senz’altro consentito l’intervento di un ingegnere (o di un architetto) ad integrazione dei limiti della competenza dei geometri, dal momento che la finalità delle norme a disciplina delle competenze professionali degli ingegneri è quella di assicurare l’incolumità delle persone e ciò ben può ravvisarsi nei casi in cui essi provvedano ai calcoli statici delle strutture ed alla verifica della loro idoneità, anziché alla redazione integrale del progetto ed alla direzione altrettanto integrale dei relativi lavori (TAR Marche, sentenza 13.03.2008 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Il Collegio non intende disconoscere il più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa che propende per l’esclusione dalla competenza dei geometri della progettazione di co-struzioni civili che comportano l’adozione di strutture in cemento armato, con la sola eccezione delle piccole costruzioni accessorie nell’ambito degli edifici rurali o destinate ad industrie agricole che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportano pericolo per la persona.
Per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, non può tuttavia essere ignorato che la legittimità degli atti impugnati deve necessariamente essere valutata alla luce dell’orientamento giurisprudenziale prevalente alla data di rilascio delle concessioni edilizie oggetto di gravame (anni 1991/1992/1993), in tema di competenza progettuale dei geometri che, per quanto concerne il parametro della modestia delle costruzioni, caratterizzante tale competenza professionale non aveva fornito univoci responsi, soprattutto per quanto concerne l’individuazione dei limiti volumetrici delle costruzioni esorbitanti tale competenza progettuale, dal momento che l’art. 2 della legge 05.11.1971, n. 1086, recante la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato normale precompresso ed a struttura metallica non esclude in assoluto la competenza dei geometri.
Ciò comporta che, alla luce delle genericità degli elementi di discrimine tra la competenza professionale degli ingegneri e dei geometri individuati dalla giurisprudenza alla data d’adozione degli atti impugnati in questa sede, il Collegio ritiene che gli stessi siano da valutare immuni dai vizi denunciati dalla parte ricorrente, in quanto la sottoscrizione dei progetti da parte di un geometra non può essere di per sé ritenuta elusiva della riferita disciplina in materia di opere in cemento armato, se si considera che, come risulta provato in atti, i calcoli relativi alla struttura in conglomerato cementizio dell’edificio oggetto di concessione edilizia allegati al progetto sono stati elaborati da un ingegnere che ha provveduto anche all’effettuazione del collaudo statico degli elementi in calcestruzzo armato e dell’intero fabbricato, garantendo in tal modo l’affidabilità tecnica e strutturale della stessa, ai fini della salvaguardia dell’incolumità delle persone che la giurisprudenza si preoccupa di assicurare attraverso la collaborazione tecnica e professionale degli ingegneri.
Il coinvolgimento nell’attività di progettazione degli elementi strutturali dell’edificio di un ingegnere, ad avviso del Collegio, contribuisce, quindi, nel caso che occupa a legittimare l’attività progettuale del geometra che ha sottoscritto gli elaborati grafici ed a dare necessarie garanzie di professionalità all’intera attività di elaborazione tecnica dell’intervento costruttivo in termini di affidabilità statica ed edilizia.

Ad identiche conclusioni d’infondatezza conduce anche l’esame della residua censura preordinata a far dipendere la dedotta illegittimità delle impugnate concessioni edilizie dalla circostanza che i progetti della costruzione con le medesime assentiti sono stati sottoscritti da un geometra, anziché da un ingegnere o da un architetto.
Al riguardo il Collegio non intende disconoscere il più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa che propende per l’esclusione dalla competenza dei geometri della progettazione di co-struzioni civili che comportano l’adozione di strutture in cemento armato, con la sola eccezione delle piccole costruzioni accessorie nell’ambito degli edifici rurali o destinate ad industrie agricole che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportano pericolo per la persona (ex multis, Cons. St., sez. V, 31.01.2001, n. 348).
Per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, non può tuttavia essere ignorato che la legittimità degli atti impugnati deve necessariamente essere valutata alla luce dell’orientamento giurisprudenziale prevalente alla data di rilascio delle concessioni edilizie oggetto di gravame (anni 1991/1992/1993), in tema di competenza progettuale dei geometri che, per quanto concerne il parametro della modestia delle costruzioni, caratterizzante tale competenza professionale non aveva fornito univoci responsi, soprattutto per quanto concerne l’individuazione dei limiti volumetrici delle costruzioni esorbitanti tale competenza progettuale, dal momento che l’art. 2 della legge 05.11.1971, n. 1086, recante la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato normale precompresso ed a struttura metallica non esclude in assoluto la competenza dei geometri (Corte Cost., 19/27.04.1993, n. 199).
Ciò comporta che, alla luce delle genericità degli elementi di discrimine tra la competenza professionale degli ingegneri e dei geometri individuati dalla giurisprudenza alla data d’adozione degli atti impugnati in questa sede, il Collegio ritiene che gli stessi siano da valutare immuni dai vizi denunciati dalla parte ricorrente, in quanto la sottoscrizione dei progetti da parte di un geometra non può essere di per sé ritenuta elusiva della riferita disciplina in materia di opere in cemento armato, se si considera che, come risulta provato in atti, i calcoli relativi alla struttura in conglomerato cementizio dell’edificio oggetto di concessione edilizia allegati al progetto sono stati elaborati da un ingegnere che ha provveduto anche all’effettuazione del collaudo statico degli elementi in calcestruzzo armato e dell’intero fabbricato (vedi certificato di collaudo a firma dell’ing. Carlo Cingolani del 27.08.1993 in atti), garantendo in tal modo l’affidabilità tecnica e strutturale della stessa, ai fini della salvaguardia dell’incolumità delle persone che la giurisprudenza si preoccupa di assicurare attraverso la collaborazione tecnica e professionale degli ingegneri.
Il coinvolgimento nell’attività di progettazione degli elementi strutturali dell’edificio di un ingegnere, ad avviso del Collegio, contribuisce, quindi, nel caso che occupa a legittimare l’attività progettuale del geometra che ha sottoscritto gli elaborati grafici ed a dare necessarie garanzie di professionalità all’intera attività di elaborazione tecnica dell’intervento costruttivo in termini di affidabilità statica ed edilizia.
In conclusione, dalle considerazioni che precedono discende che il ricorso deve essere in parte dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse, per quanto riguarda le censure preordinate a denunciare, attraverso il rilascio delle concessioni edilizie oggetto di impugnativa, l’avvenuta realizzazione di abusi edilizi a fronte dell’inter-venuta loro regolarizzazione in pendenza del giudizio con il rilascio di apposita concessione in sanatoria (TAR Marche, sentenza 23.11.2001 n. 1220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.10.2014

ã

IN EVIDENZA

INCENTIVO PROGETTAZIONE:

dal 19.08.2014, data di entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge n. 114/2014 al d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, devono fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale.

QUINDI??

     Quindi, dal 19.08.2014 se non si adotta (alla svelta, dato che i provvedimenti amministrativi non hanno efficacia retroattiva) il nuovo regolamento interno, previo nuovo accordo decentrato, l'incentivo alla progettazione non potrà essere riconosciuto (liquidato) ... detto altrimenti, le (eventuali) prestazioni svolte saranno state rese a titolo gratuito (con gli impliciti ringraziamenti dell'Amministrazione di appartenenza).

NON SOLO:

vale la pena di ricordare (poiché, forse, il concetto non è stato ben memorizzato dagli interessati) che al R.U.P. spetta l'incentivo (pro-quota regolamentare) solamente se la redazione dell’atto sia avvenuta all’interno dell’ente. Qualora sia avvenuta all’esterno la stessa non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli uffici tecnici dell’ente.
13.10.2014 - LA SEGRETERIA PTPL
 

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Se sia possibile il riconoscimento del diritto agli incentivi in capo al RUP nel caso di progettazione affidata all’esterno dell’Ente, pur in presenza dello svolgimento interno di altre fasi della realizzazione dell’opera (nello specifico, direzione lavori e collaudo).
L’art. 13 del decreto legge n. 90/2014 ha abrogato i commi 5 e 6 dell’articolo 92 del codice dei contratti.
Peraltro, contestualmente la stessa normativa ha introdotto, nel successivo articolo 93, commi 7-bis e seguenti, una disciplina degli incentivi alla progettazione del tutto analoga –per quanto qui interessa– alla precedente.

La modifica di maggior sostanza, infatti,
attiene alle modalità di determinazione della provvista per l’erogazione degli incentivi: mentre in precedenza la determinazione del compenso e la sua ripartizione avveniva per ogni singola opera o lavoro appaltato, nell’attuale previsione normativa le risorse destinate, in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, vengono fatte confluire in un apposito “Fondo per la progettazione e l’innovazione”.
Le modalità e i criteri di ripartizione, nello specifico, sono demandati ad un apposito regolamento dell’amministrazione.
I parametri normativi per l’erogazione sono rimasti i medesimi: la ripartizione avviene “tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione”.
Non sussistono motivi, pertanto, per discostarsi dalla lettura interpretativa espressa dalla Sezione e richiamata dall’Ente nel corpo del parere.

Va ribadito che la norma, laddove circoscrive il compenso al responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, “àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto sia avvenuta all’interno dell’ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli uffici tecnici dell’ente”.
In conclusione, “
con specifico riferimento alla figura del responsabile del procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai sensi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di progettazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio”.
Non induce a difforme conclusione la circostanza che da tale disciplina siano esclusi i dirigenti:
si tratta, infatti, di scelta legislativa discrezionale volta a ritenere prevalente, per tale categoria di dipendenti, il principio di onnicomprensività della retribuzione in relazione all’ampiezza di compiti e responsabilità che gravano sui dirigenti.
---------------
Il sindaco del Comune di Venaria Reale, con nota n. 19163 del 11.09.2014, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in ordine alla corresponsione degli incentivi alla progettazione di cui all’articolo 93 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
In particolare, il Sindaco del comune di Venaria Reale, ricordata l’avvenuta abrogazione dei commi 5 e 6 dell’art. 92 del citato decreto ad opera dell’articolo 13 del d.l. n. 90/2014, convertito nella legge n. 114/2014, ed il contestuale inserimento dei commi 7-bis e seguenti all’interno dell’articolo 93 del codice dei contratti, chiede se sia possibile riconoscere l’incentivo alla progettazione in caso di:
a) progettazione esterna, direzione lavori interna e collaudo esterno;
b) progettazione, direzione lavori e collaudo esterni.
...
   
Il comune di Venaria Reale, richiamate le novità normative introdotte dal decreto legge 24.06.2014, n. 90 –così come convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114– chiede
se sia possibile il riconoscimento del diritto agli incentivi in capo al RUP nel caso di progettazione affidata all’esterno dell’Ente, pur in presenza dello svolgimento interno di altre fasi della realizzazione dell’opera (nello specifico, direzione lavori e collaudo).
Come evidenziato dallo stesso Ente,
l’articolo 13 del decreto legge n. 90/2014 ha abrogato i commi 5 e 6 dell’articolo 92 del codice dei contratti.
Peraltro, contestualmente la stessa normativa ha introdotto, nel successivo articolo 93, commi 7-bis e seguenti, una disciplina degli incentivi alla progettazione del tutto analoga –per quanto qui interessa– alla precedente.

La modifica di maggior sostanza, infatti, attiene alle modalità di determinazione della provvista per l’erogazione degli incentivi: mentre in precedenza la determinazione del compenso e la sua ripartizione avveniva per ogni singola opera o lavoro appaltato, nell’attuale previsione normativa le risorse destinate, in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, vengono fatte confluire in un apposito “Fondo per la progettazione e l’innovazione”.
Le modalità e i criteri di ripartizione, nello specifico, sono demandati ad un apposito regolamento dell’amministrazione.
Al di là delle modalità di collazione delle risorse,
i parametri normativi per l’erogazione sono rimasti i medesimi: la ripartizione avviene “tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione”.
Non sussistono motivi, pertanto, per discostarsi dalla lettura interpretativa espressa dalla Sezione e richiamata dall’Ente nel corpo del parere.

Ciò posto, come già chiarito con il parere 30.08.2012 n. 290 e
parere 19.12.2013 n. 434, va ribadito che la norma, laddove circoscrive il compenso al responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, “àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto sia avvenuta all’interno dell’ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli uffici tecnici dell’ente”.
In conclusione, “
con specifico riferimento alla figura del responsabile del procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai sensi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di progettazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio”.
Non induce a difforme conclusione la circostanza che da tale disciplina siano esclusi i dirigenti (l’ultimo periodo dell’articolo 93, comma 7-ter, cod. contr., prevede che “Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale”): si tratta, infatti, di scelta legislativa discrezionale volta a ritenere prevalente, per tale categoria di dipendenti, il principio di onnicomprensività della retribuzione in relazione all’ampiezza di compiti e responsabilità che gravano sui dirigenti (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 02.10.2014 n. 197).

INCENTIVO PROGETTAZIONEA decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, devono fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
La nuova disciplina si pone in sostanziale prosecuzione della precedente, prevedendo esplicitamente che beneficiari dei compensi in discorso possano essere i dipendenti interni incaricati delle funzioni di responsabile del procedimento, della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori.
Allo stesso modo la nuova disciplina ribadisce la confluenza in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti sopra indicati, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione (ovvero prive, novità normativa, dell’accertamento dell'effettivo rispetto, nella fase realizzativa dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo).
---------------
E' stato sottolineato come la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione in materia di contratti pubblici.
Quest’ultima
(cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, codificato anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie) in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale interno occorre far riferimento, ai fini della loro remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001
).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
---------------

Il c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui denominazione risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994), costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione. In quanto tale costituisce un’eccezione di stretta interpretazione con divieto di analogia (art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile).
---------------
La legge pone alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014, risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a base di gara).
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza
;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione;
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
---------------
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto che il nuovo art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 (riprendendo analoga formulazione del precedente art. 92, comma 5)
dispone che “la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”. Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, scatta la medesima regola della devoluzione in economia esaminata in precedenza.
---------------
Il Sindaco del comune di Settala, con nota del 06.06.2014, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto i compensi incentivanti previsti dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, oggetto di recente abrogazione ad opera dell’art. 13 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2004, ma la cui disciplina è confluita nei nuovi commi 7-bis, 7-ter e 7-quater dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, inseriti dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014.
Premette che, nella recente giurisprudenza, relativamente a casistiche che prevedono l'affidamento all'esterno dell'attività di progettazione di opere/lavori, si riscontrerebbero interpretazioni e posizioni contrastanti. Infatti, la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti della Calabria, in un giudizio di responsabilità, con sentenza 03.02.2014 n. 22 ha affermato che, nel caso di progettazione esterna di un’opera pubblica, l'unico incentivo legittimamente percepibile dai dipendenti dell'Ente, è quello correlato all'attività di responsabile di procedimento (RUP).
Di contro, la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo del Piemonte, con parere 28.02.2014 n. 39 ha affermato quanto segue: “in relazione specifica poi alla posizione del responsabile del procedimento (RUP), si osserva che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli regolamenti degli Enti, attuativi del citato comma 5 dell'art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, prende parte alla ripartizione dell'incentivo in relazione ad atti di progettazione interna collegati alla realizzazione di opere pubbliche. La partecipazione del responsabile del procedimento al riparto degli emolumenti, tuttavia, non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell'attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente, tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell'Ente, a partecipare alla distribuzione dell'incentivo. Viceversa nel caso contrario in cui l'attività venga svolta all'esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell'ufficio, non vi é neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un'attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d'ufficio (cfr. Sez. contr. Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290)”.
Facendo quindi riferimento alla circostanza in cui l'attività di progettazione di un’opera/lavoro pubblico, viene affidata e svolta da un professionista esterno all'Ente, il Comune chiede se sia corretto o meno riconoscere al dipendente comunale interno, nominato responsabile unico del procedimento (RUP), in ragione delle particolari responsabilità cui è soggetto (identiche sia nei casi di progettazione interna che esterna), il compenso incentivante in argomento secondo la percentuale (ulteriormente ridotte in presenza di incarichi esterni di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento) definita nell'apposito regolamento vigente nell'Ente.
...
Risulta necessario premettere che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, su cui si incentra la richiesta di parere, risulta abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014. Tuttavia, il legislatore ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014.
Quest’ultima norma ha inserito, nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies), il cui contenuto si riporta per comodità espositiva: "7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento e all'accrescimento dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente articolo.
".
Di conseguenza,
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
Circa il quesito specifico posto dal Comune istante, invece,
la nuova disciplina si pone in sostanziale prosecuzione della precedente, prevedendo esplicitamente che beneficiari dei compensi in discorso possano essere i dipendenti interni incaricati delle funzioni di responsabile del procedimento, della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori.
Allo stesso modo la nuova disciplina ribadisce la confluenza in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti sopra indicati, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione (ovvero prive, novità normativa, dell’accertamento dell'effettivo rispetto, nella fase realizzativa dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo).

I dubbi posti dal Comune istante sono stati ampiamente oggetto dell’attività consultiva della magistratura contabile, con motivazioni e conclusioni che, sul punto, permangono valide, anche alla luce della nuova disciplina legislativa (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259).
Prima di richiamarli è opportuno precisare come non emergono, dalla lettura dei precedenti richiamati nell’istanza di parere,
sentenza 03.02.2014 n. 22 della Sezione giurisdizionale per la Calabria e parere 28.02.2014 n. 39 della Sezione Piemonte, i profili di contrasto interpretativo evidenziati dal Comune. La deliberazione della Sezione Piemonte, infatti, ribadisce l’orientamento delle Sezioni di controllo (attribuzione dell’incentivo per le sole attività concretamente affidate ed espletate, con confluenza in economia delle quote parti del fondo incentivante corrispondenti agli incarichi affidati all’esterno), mentre la pronuncia giurisdizionale si riferisce a fattispecie specifica in cui è stata accertata l’illegittima erogazione di somme a titolo di progettazione, non per l’espletamento delle attività di responsabile del procedimento.
Nelle deliberazioni della Sezione parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453, dopo averne richiamato il tenore letterale, è stato sottolineato come la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, codificato anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie) in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale interno occorre far riferimento, ai fini della loro remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenza 20.07.2010 n. 464
, sentenza 22.07.2010 n. 475 e sentenza 02.08.2010 n. 487).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Tuttavia, la fonte legislativa, oltre a disciplinare la struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e seguenti).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui denominazione risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994), costituisce, infatti, uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione. In quanto tale costituisce un’eccezione di stretta interpretazione con divieto di analogia (art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile, cfr. altresì Sezione Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma,
la legge pone alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014, risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a base di gara).
Limitando l’analisi ai soli quesiti avanzati dal comune istante,
i punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia all'Autorità di vigilanza con la deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18
e deliberazione 02.05.2001 n. 150);
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto che il nuovo art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 (riprendendo analoga formulazione del precedente art. 92, comma 5) dispone che “la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”. Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, scatta la medesima regola della devoluzione in economia esaminata in precedenza (cfr. in tal senso, sia pure nel previgente contesto normativo, la
deliberazione 22.06.2005 n. 69 dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 01.10.2014 n. 247).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Dal Sindaco del Comune di Gorlago sono stati esplicitati i seguenti quesiti:
1) se gli interventi citati nella stessa nota, realizzati su progetto e sotto la direzione del personale dell'ufficio tecnico comunale, rientrano nel concetto di opere e/o lavori soggetti all'applicazione dell'incentivo in parola.
Inammissibile;
2) se l'importo del progetto, e il fatto di essere o meno inserito nell'elenco annuale delle opere pubbliche, pregiudica l'applicazione dell'incentivo di cui sopra;
3) se le opere di manutenzione sono completamente escluse dall'applicazione del predetto incentivo, oppure è necessario valutare, caso per caso, lo svolgimento di un'attività progettuale da parte dell'ufficio tecnico.
In merito al secondo quesito,
non si rinviene alcuna limitazione normativa quantitativa nel nuovo art. 93, commi 7-bis e 7-ter, citati, rimettendosi, invece, all’amministrazione la possibilità di introdurre dei limiti, specificando espressamente come l’ammontare effettivo del fondo per la progettazione e l’innovazione, costituito da una somma non superiore al 2% dell’importo posto a base di gara, debba essere stabilito “in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare”.
Soluzione negativa va data in riscontro al terzo quesito a seguito dell’entrata in vigore della novella del 2014 (L. n. 114/2014).
---------------
A decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) ed un accordo integrativo decentrato, da recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale
(comma 7-ter, ultimo periodo).
---------------
E' stato sottolineato come la disciplina (oggi avente fonte nell’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico-professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici.
Quest’ultima (cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio (codificato in linea generale anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001), in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti colmabile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie) in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale interno, occorre far riferimento, ai fini della loro remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione.
Secondo questi ultimi
nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Tuttavia, la legge, oltre a disciplinare la struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001), può, in omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento economico nonché attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e seguenti).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” costituisce, infatti, uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
Come tale l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 (e, oggi, l’art. 93, commi 7-bis e seguenti) costituisce un’eccezione di stretta interpretazione, per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile.
---------------
La legge pone alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014, risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a base di gara).
Limitando l’analisi ai quesiti avanzati dal comune istante,
si evidenzia come la norma come non richieda un limite d’importo minimo dei lavori o opere, oggetto di aggiudicazione/esecuzione, al fine di costituire il “fondo per la progettazione e l’innovazione”. I limiti d’importo, indicati dall’art. 128 del medesimo decreto legislativo al fine di includere un’opera o lavoro nella programmazione triennale e annuale, esplicano, infatti, la propria portata applicativa alla specifica materia, mentre non si rinviene alcuna limitazione quantitativa nel nuovo art. 93, commi 7-bis e 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 (cosi come non sussisteva nella previgente disciplina, avente fonte nell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006).
La legge rimette, invece, all’amministrazione la possibilità di introdurre dei limiti, specificando espressamente come l’ammontare effettivo del fondo, costituito da una somma non superiore al 2% dell’importo posto a base di gara, deve essere stabilito “in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare”.
Di conseguenza, nell’esercizio della propria discrezionalità, l’amministrazione potrà prevedere aliquote percentuali meno elevate del 2% per le opere ed i lavori aventi importo inferiore a determinate soglie (che siano quelle previste per l’inserimento nell’elenco annuale ex art. 128 del d.lgs. n. 163/2006 o altre prestabilite). Inoltre potrà prevedere, come ancora la norma permette, una diversa quantificazione del fondo anche in relazione alla tipologia qualitativa dell’opera o lavoro da aggiudicare ed eseguire, valutandone preventivamente la maggiore o minore complessità.
---------------

I paletti che il regolamento interno deve rispettare in punto di lavori di manutenzione sono stati esplicitati nelle precedenti deliberazioni della Sezione di cui al parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 15.10.2013 n. 442, le cui conclusioni permangono valide per le attività espletate, ma non ancora liquidate, sino alla data di entrata in vigore della legge n. 114/2014.
In quelle occasioni era stato evidenziato come l’incentivo alla progettazione non possa essere riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria o straordinaria effettuato sui beni dell’ente locale, ma solo per quelli alla cui base vi sia un’attività di progettazione. Vi esulavano, pertanto, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non era necessaria un’attività progettuale, come delineata negli articoli 90, 91 e 92 del decreto n. 163/2006.
Tale conclusione, frutto di un’interpretazione sistematica dell’articolato normativo,
va rivista per gli incarichi tecnici attribuiti per opere e lavori aggiudicati ed eseguiti dopo l’entrata in vigore della legge n. 114/2014 che, nel disciplinare il nuovo “fondo per la progettazione e l’innovazione”, ha espressamente escluso le attività manutentive da quelle oggetto di incentivazione.
Di conseguenza, il regolamento di costituzione del fondo (art. 93, comma 7-bis, d.lgs. n. 163/2006) e quello di ripartizione (ex art. 93, comma 7-ter, quest’ultimo adottato previa contrattazione integrativa decentrata) non potranno più prevedere forme di incentivazione per il personale interno cui sono conferiti gli incarichi previsti dalla norma (RUP, progettista, direttore dei lavori, etc.) in caso di lavori qualificabili, ai sensi del codice dei contratti e del regolamento di attuazione (DPR n. 207/2010), e relativi allegati, come lavori di manutenzione (a prescindere dalla presenza o meno, all’interno del relativo procedimento di aggiudicazione, di un’attività di progettazione).

---------------
Il Sindaco del comune di Gorlago, con nota del 25.06.2014, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto i compensi incentivanti previsti dall’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 (oggetto di recente abrogazione ad opera dell’art. 13 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2004, ma la cui disciplina è confluita nei nuovi commi 7-bis, 7-ter e 7-quater dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, inseriti dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014).
In particolare i quesiti vertono sull'applicazione dell'incentivo al personale interno dell'ufficio tecnico coinvolto nell'attività di progettazione relativa ai seguenti interventi sul patrimonio immobiliare comunale:
- asfaltatura e manutenzione dei manti stradali, consistente nella realizzazione di nuovi tappeti bituminosi; rettifica di marciapiedi con la rimozione e posa di nuovi cordoli; opere complementari. Importo totale di progetto: € 57.400,35;
- realizzazione di frangisole della nuova biblioteca comunale, consistente nell'ideazione progettuale e nella realizzazione di una struttura esterna atta a proteggere l'edificio dal sole. Importo totale di progetto: € 20.000,00;
- adeguamento antincendio della palestra e dell'auditorium, consistente in opere murarie, serramentistiche, impiantistiche ed affini. Importo totale di progetto € 50.829,65.
Premette che, per la realizzazione dei sopra citati interventi, è stato individuato il responsabile unico del procedimento (RUP), sono state seguite dal personale interno dell'ufficio tecnico comunale le fasi di progettazione, direzione dei lavori, e contabilità finale, compresa l'emissione del certificato di regolare esecuzione.
Precisa, altresì, che il Comune di Gorlago è dotato di un regolamento relativo alla ripartizione dell'incentivo, che contempla le opere di manutenzione.
L’istanza evidenzia come la fattispecie è stata più volte esaminata da diverse Sezioni della Corte dei conti (per esempio, Lombardia parere 06.03.2013 n. 72;
parere 15.10.2013 n. 442), dall’esame dei quali risulterebbe condiviso il concetto di ritenere che sia l'art. 90, che l'art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 facciano riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e che quest’ultima norma (la cui disciplina è oggi refluita nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del d.lgs. n. 163/2006) presuppone l'attività di progettazione, finalizzata alla costruzione dell'opera pubblica.
Il Comune istante ha pertanto necessità di chiarire se i lavori sopra elencati possano rientrare nel concetto di "opera pubblica", avendo le caratteristiche ascrivibili alla manutenzione ordinaria, straordinaria o di completamento (detti lavori, dato il non elevato importo, non risultano inseriti nell'elenco annuale delle opere pubbliche, alla luce dei limiti di importo previsti dall’art. 128 del d.lgs. n. 163/2006).
Alla luce di quanto esposto, il Comune pone i seguenti quesiti:
1) con il primo chiede se le tipologie di interventi citati in premessa, realizzati su progetto e sotto la direzione del personale dell'ufficio tecnico comunale, rientrano nel concetto di opere e/o lavori soggetti all'applicazione dell'incentivo previsto dall'art. 92 comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 (oggi, art. 93, commi 7-bis e seguenti);
2) con il secondo chiede se l'importo del progetto, e il fatto di essere o meno inserito nell'elenco annuale delle opere pubbliche, pregiudica l'applicazione dell'incentivo di cui sopra;
3) con il terzo chiede se le opere di manutenzione sono completamente escluse dall'applicazione del predetto incentivo, oppure è necessario valutare, caso per caso, lo svolgimento di un'attività progettuale da parte dell'ufficio tecnico.
...
Risulta necessario premettere che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, su cui si incentra la richiesta di parere, risulta abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014. Tuttavia, il legislatore ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014.
Quest’ultimo ha inserito nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies), il cui contenuto si riporta per comodità espositiva: "7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento e all'accrescimento dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente articolo.
".
Di conseguenza,
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) ed un accordo integrativo decentrato, da recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
La disciplina del c.d. incentivo alla progettazione (denominazione risalente all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994), in costanza del previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, è stata oggetto di costante attenzione da parte della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57, parere 30.05.2012 n. 259, parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453), alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per i profili generali.
Nei precedenti indicati
è stato sottolineato come la disciplina (oggi avente fonte nell’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico-professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici.
Quest’ultima (cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio (codificato in linea generale anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001), in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti colmabile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie) in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale interno, occorre far riferimento, ai fini della loro remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenza 20.07.2010 n. 464
, sentenza 22.07.2010 n. 475 e sentenza 02.08.2010 n. 487). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Tuttavia, la legge, oltre a disciplinare la struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001), può, in omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e seguenti).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” costituisce, infatti, uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
Come tale l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 (e, oggi, l’art. 93, commi 7-bis e seguenti) costituisce un’eccezione di stretta interpretazione, per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso, cfr. Sezione Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma,
la legge pone alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014, risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a base di gara).
Limitando l’analisi ai quesiti avanzati dal comune istante,
si evidenzia come la norma come non richieda un limite d’importo minimo dei lavori o opere, oggetto di aggiudicazione/esecuzione, al fine di costituire il “fondo per la progettazione e l’innovazione”. I limiti d’importo, indicati dall’art. 128 del medesimo decreto legislativo al fine di includere un’opera o lavoro nella programmazione triennale e annuale, esplicano, infatti, la propria portata applicativa alla specifica materia, mentre non si rinviene alcuna limitazione quantitativa nel nuovo art. 93, commi 7-bis e 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 (cosi come non sussisteva nella previgente disciplina, avente fonte nell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006).
La legge rimette, invece, all’amministrazione la possibilità di introdurre dei limiti, specificando espressamente come l’ammontare effettivo del fondo, costituito da una somma non superiore al 2% dell’importo posto a base di gara, deve essere stabilito “in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare”.
Di conseguenza, nell’esercizio della propria discrezionalità, l’amministrazione potrà prevedere aliquote percentuali meno elevate del 2% per le opere ed i lavori aventi importo inferiore a determinate soglie (che siano quelle previste per l’inserimento nell’elenco annuale ex art. 128 del d.lgs. n. 163/2006 o altre prestabilite). Inoltre potrà prevedere, come ancora la norma permette, una diversa quantificazione del fondo anche in relazione alla tipologia qualitativa dell’opera o lavoro da aggiudicare ed eseguire, valutandone preventivamente la maggiore o minore complessità.
Per quanto riguarda, invece, il terzo quesito,
i paletti che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) in punto di lavori di manutenzione sono stati esplicitati nelle precedenti deliberazioni della Sezione di cui al parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 15.10.2013 n. 442, le cui conclusioni permangono valide per le attività espletate, ma non ancora liquidate (cfr., in tal senso, mutatis mutandis, il parere 06.12.2010 n. 58 delle Sezioni Riunite in sede controllo), sino alla data di entrata in vigore della legge n. 114/2014.
In quelle occasioni era stato evidenziato come l’incentivo alla progettazione non possa essere riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria o straordinaria effettuato sui beni dell’ente locale, ma solo per quelli alla cui base vi sia un’attività di progettazione. Vi esulavano, pertanto, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non era necessaria un’attività progettuale, come delineata negli articoli 90, 91 e 92 del decreto n. 163/2006 (sulla stessa linea era stata richiamata il parere 13.11.2012 n. 293 della Sezione Toscana).
Tale conclusione, frutto di un’interpretazione sistematica dell’articolato normativo, va rivista per gli incarichi tecnici attribuiti per opere e lavori aggiudicati ed eseguiti dopo l’entrata in vigore della legge n. 114/2014 che, nel disciplinare il nuovo “fondo per la progettazione e l’innovazione”, ha espressamente escluso le attività manutentive da quelle oggetto di incentivazione.
Di conseguenza, il regolamento di costituzione del fondo (art. 93, comma 7-bis, d.lgs. n. 163/2006) e quello di ripartizione (ex art. 93, comma 7-ter, quest’ultimo adottato previa contrattazione integrativa decentrata) non potranno più prevedere forme di incentivazione per il personale interno cui sono conferiti gli incarichi previsti dalla norma (RUP, progettista, direttore dei lavori, etc.) in caso di lavori qualificabili, ai sensi del codice dei contratti e del regolamento di attuazione (DPR n. 207/2010), e relativi allegati, come lavori di manutenzione (a prescindere dalla presenza o meno, all’interno del relativo procedimento di aggiudicazione, di un’attività di progettazione) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 01.10.2014 n. 246).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: Sull'adozione di un atto amministrativo a doppia firma (dirigente e Segretario Comunale)
La giurisprudenza ha ritenuto ammissibile la doppia sottoscrizione (firma) del provvedimento unicamente nell’ipotesi in cui il provvedimento sia contestualmente sottoscritto anche dal responsabile del procedimento, perché la firma anche da parte di quest’ultimo non può far sorgere dubbi su quale sia l’effettiva volontà manifestata dalla P.A., evidenziata dal provvedimento, né basta a far ipotizzare contraddittorietà di valutazioni o di posizioni.
La sottoscrizione dell’atto anche da parte del responsabile del procedimento non incide, cioè, sulla posizione della P.A..
---------------
Nel caso qui in esame nessuno dei due organi firmatari del provvedimento l’ha sottoscritto quale mero responsabile del procedimento, o almeno non sono stati forniti elementi in tal senso dalla P.A., cosicché deve ritenersi che il Capo Settore 6° – Urbanistica – Demanio abbia sottoscritto l’ordine di demolizione in qualità di organo deputato in via esclusiva alla sua adozione, ai sensi dell’art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000.
Sicché, la contestuale sottoscrizione del provvedimento da parte del Segretario Generale, in difetto della prova di una competenza specifica di quest’ultimo, produce l’effetto di non rendere detto provvedimento imputabile in via esclusiva all’Ufficio amministrativo ad esso preposto, con il corollario dell’illegittimità dello stesso.
Inoltre, essendo stata la doppia sottoscrizione apposta da organi diversi, portatori di funzioni e compiti diversi ed autonomi, essa non può che ingenerare il dubbio su quale sia stato il potere effettivamente esercitato.
Più in dettaglio, qualora fosse ravvisabile una competenza esclusiva del Segretario Generale alla sottoscrizione del provvedimento, questo sarebbe comunque viziato per l’apposizione contestuale della firma da parte del Capo Settore 6° – Urbanistica – Demanio (che, si ribadisce, non pare in alcun modo averlo firmato quale mero responsabile del procedimento). Né vi sono elementi per ritenere che il Segretario Generale abbia avocato a sé la competenza alla trattazione della pratica (anzi, una simile ipotesi è esclusa dalla contestuale sottoscrizione del predetto capo Settore). Donde l’incertezza sul potere effettivamente esercitato nella vicenda in esame, mentre la firma dell’ordine di demolizione compete in via esclusiva all’organo preposto all’Ufficio deputato a trattare la pratica (art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000).
Comunque, ad ulteriore riprova dell’illegittimità della doppia sottoscrizione di un provvedimento, essa rende quanto mai incerto il regime della responsabilità del dipendente conseguente alla sua adozione (proprio per i dubbi circa la competenza ad adottarlo).

... per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Arpino n. 53/09, prot. gen. n. 4647/6 del 01.04.2009, notificata in pari data, con cui è stata ingiunta la demolizione di opere edilizie abusive descritte nell’ordinanza stessa e realizzate sul terreno distinto in catasto al fg. n. 66, mapp. n. 1134.
...
● Considerato, infatti, che nel caso di specie l’ordinanza impugnata risulta sottoscritta da due distinti organi del Comune di Arpino (il Capo Settore 6° – Urbanistica – Demanio ed il Segretario Generale del Comune), ognuno dotato di una propria esclusiva sfera di competenza, non sovrapponibile alle sfere di competenza altrui, con il corollario dell’impossibilità di imputare il provvedimento all’uno o all’altro organo, come dovrebbe invece avvenire, sulla base dell’organizzazione interna dell’Ente locale delineata dallo statuto e dai regolamenti (v. art. 107 del d.lgs. n. 267/2000);
● Considerato, più in dettaglio, che la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile la doppia sottoscrizione del provvedimento unicamente nell’ipotesi in cui il provvedimento sia contestualmente sottoscritto anche dal responsabile del procedimento, perché la firma anche da parte di quest’ultimo non può far sorgere dubbi su quale sia l’effettiva volontà manifestata dalla P.A., evidenziata dal provvedimento, né basta a far ipotizzare contraddittorietà di valutazioni o di posizioni (cfr. TAR Liguria, Sez. I, 05.02.02014, n. 186). La sottoscrizione dell’atto anche da parte del responsabile del procedimento non incide, cioè, sulla posizione della P.A.;
● Considerato, tuttavia, che nel caso qui in esame nessuno dei due organi firmatari del provvedimento l’ha sottoscritto quale mero responsabile del procedimento, o almeno non sono stati forniti elementi in tal senso dalla P.A., cosicché deve ritenersi che il Capo Settore 6° – Urbanistica – Demanio abbia sottoscritto l’ordine di demolizione in qualità di organo deputato in via esclusiva alla sua adozione, ai sensi dell’art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000;
● Considerato che la contestuale sottoscrizione del provvedimento da parte del Segretario Generale, in difetto della prova di una competenza specifica di quest’ultimo, produce l’effetto di non rendere detto provvedimento imputabile in via esclusiva all’Ufficio amministrativo ad esso preposto, con il corollario dell’illegittimità dello stesso (TAR Liguria, Sez. I, 09.02.2007, n. 225);
● Considerato, inoltre, che, essendo stata la doppia sottoscrizione apposta da organi diversi, portatori di funzioni e compiti diversi ed autonomi, essa non può che ingenerare il dubbio su quale sia stato il potere effettivamente esercitato (TAR Liguria, Sez. I, n. 186/2014, cit.);
● Considerato, più in dettaglio, che qualora fosse ravvisabile una competenza esclusiva del Segretario Generale alla sottoscrizione del provvedimento, questo sarebbe comunque viziato per l’apposizione contestuale della firma da parte del Capo Settore 6° – Urbanistica – Demanio (che, si ribadisce, non pare in alcun modo averlo firmato quale mero responsabile del procedimento). Né vi sono elementi per ritenere che il Segretario Generale abbia avocato a sé la competenza alla trattazione della pratica (anzi, una simile ipotesi è esclusa dalla contestuale sottoscrizione del predetto capo Settore). Donde l’incertezza sul potere effettivamente esercitato nella vicenda in esame, mentre la firma dell’ordine di demolizione compete in via esclusiva all’organo preposto all’Ufficio deputato a trattare la pratica (art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000);
● Considerato, ad ulteriore riprova dell’illegittimità della doppia sottoscrizione di un provvedimento, che essa rende quanto mai incerto il regime della responsabilità del dipendente conseguente alla sua adozione (proprio per i dubbi circa la competenza ad adottarlo);
● Considerato che, a fronte di ciò che si è esposto, si appalesano del tutto irrilevanti le argomentazioni della difesa comunale, la quale si limita ad obiettare sul punto che anche la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio reca la surriferita doppia sottoscrizione e che il Segretario Generale avrebbe firmato gli atti in veste di direttore generale dell’Ente locale;
● Considerato che, secondo l’orientamento (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 13.04.2013, n. 941) cui ha aderito anche questa Sezione (cfr., ex multis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 02.12.2013, n. 925; id., 24.06.2013, n. 578), l’accoglimento della doglianza incentrata sul dedotto vizio di incompetenza comporta l’annullamento del provvedimento impugnato e la rimessione dell’affare al Comune di Arpino, con assorbimento degli altri motivi di impugnazione, come già previsto dall’art. 26, secondo comma, della l. TAR, ed ora dall’art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a., il quale ha statuito l’impossibilità, per il G.A., di pronunciarsi in riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati;
● Ritenuto quindi, alla luce di quanto si è detto, di dover dichiarare il ricorso manifestamente fondato ai sensi dell’art. 74 c.p.a., attesa la fondatezza della censura di incompetenza avanzata con il quarto motivo e con assorbimento di ogni altra censura;
● Ritenuto, perciò, di dover disporre l’annullamento dell’ordinanza impugnata e di dover rimettere la questione al Comune di Arpino per le eventuali ulteriori determinazioni (TAR Lazio-Latina, sentenza 29.07.2014 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Libretto impianto a pagine singole.
E’ da oggi disponibile, oltre alla preesistente versione del libretto e dei rapporti di controllo di efficienza energetica autocompilabili, una nuova versione autocompilabile a pagine singole dei file del libretto di impianto, che consente di stampare eventuali pagine integrative. In quest’ultimo caso però si informa che il campo “codice catasto” deve essere compilato per ogni nuova pagina.
Il DM 10.02.2014 “Modelli di libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 74/2013” specifica che “al fine di facilitare e uniformare la compilazione dei libretto di impianto per la climatizzazione e dei rapporti di controllo di efficienza energetica, il CTI mette a disposizione degli esempi applicativi per le tipologie impiantistiche più diffuse” (07.10.2014 - link a www.cti2000.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 10.10.2014, "Linee guida per la progettazione e gestione sostenibile delle discariche" (deliberazione G.R. 07.10.2014 n. 2461).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 07.10.2014 n. 233 "Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità nazionale anticorruzione per l’omessa adozione dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di trasparenza, dei Codici di comportamento" (A.N.AC., delibera 09.09.2014).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 39 del 23.09.2014, "Tipologie di intervento a favore del patrimonio scolastico prioritariamente finanziabili per l’annualità 2014 - Approvazione bando per la realizzazione di interventi di edilizia scolastica" (deliberazione G.R. 19.09.2014 n. 2373).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: aggiornamento Piano Provinciale Rischio Sismico. Nuova classificazione Sismica (Provincia di Bergamo, nota 08.10.2014 n. 84186 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modello Unico di Trasmissione degli Atti (impianti di distribuzione di carburanti per autotrazione) (Regione Lombardia - Direzione Generale Commercio, Turismo e Terziario - Commercio, Reti Distributive e Tutela dei Consumatori - Programmazione, Semplificazione e Risorse, nota 08.10.2014 n. 9047 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Vigilanza sull'attività edilizio-urbanistica. Trasmissione dei dati relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente. Art. 31, comma 7, del DPR 06.06.2001, n. 380 - Chiarimenti (Prefettura di Bergamo, nota 06.10.2014 n. 30480 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta a quesito relativo alle visite mediche al di fuori degli orari di servizio (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 06.10.2014 n. 18/2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Oggetto: Formazione professionale continua - Linee guida attività formativa a distanza (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 11.09.2014 n. 9238 di prot.).

INCARICHI PROFESSIONALIOggetto: Regolamenti in materia di formazione professionale continua e Tirocinio (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 27.08.2014 n. 8775 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: S. M. Corso, Appalti pubblici: legittimo richiedere il protocollo di legalità (07.10.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: J. Cortinovis, Nuove semplificazioni per il completamento della banda larga mobile.
Nel caso di modifiche delle caratteristiche degli impianti già provvisti di titolo abilitativo, che comportino aumenti delle altezze non superiori a 1 metro e aumenti della superficie di sagoma non superiore a 1,5 metri quadri, è sufficiente una autocertificazione descrittiva.
Non è inoltre soggetta ad autorizzazione paesaggistica la installazione o la modifica di impianti di radiotelefonia mobile, che comportino la realizzazione di pali di supporto per antenna di altezza non superiore a 1,5 metri e superficie delle medesime antenne non superiore a 0,5 metri quadrati (07.10.2014 - link a studiospallino.blogspot.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni e personale, tetti alle assunzioni con principio di cassa. Enti locali. Le istruzioni della Corte dei conti.
I tetti di spesa di personale negli enti locali vanno conteggiati sulla spesa effettivamente sostenuta nel 2011/2013, senza possibilità di includere «figurativamente» nella base di calcolo somme previste ma non erogate in tempo per problemi di cassa; dal rispetto del vincolo non possono sfuggire nemmeno le spese alimentate con fondi nazionali a specifica destinazione.

A fissare i parametri rigidi sull'interpretazione dei limiti alle uscite per stipendi nei Comuni (nelle Province è in vigore il blocco totale delle assunzioni) è la sezione Autonomie della Corte dei conti, nell'ambito di una serie di delibere diffuse negli ultimi giorni sui temi caldi della finanza locale.
Personale
In fatto di personale, l'indicazione più importante arriva dalla deliberazione 06.10.2014 n. 25/2014, pubblicata ieri, che stabilisce il parametro di cassa nei calcoli sul rispetto dei tetti di spesa. Le norme di riferimento sono i commi 557 e seguenti della Finanziaria 2007 (legge 296/2006), che dopo la modifica intervenuta con il decreto sulla Pa (articolo 3, comma 5-bis, del Dl 90/2014) chiedono ai Comuni sopra i mille abitanti di assicurare la riduzione della spesa rispetto alla media registrata nel triennio 2011/2013.
Un ente ha chiesto alla sezione Piemonte, che ha rimandato il problema alla sezione Autonomie, se fosse possibile inserire nella base di calcolo 2011/2013 anche importi previsti ma non erogati in tempo, applicando il principio della competenza finanziaria. La Corte, come quasi sempre accade quando ci si occupa di vincoli di finanza pubblica, nega la possibilità di un'interpretazione flessibile, e impone di tenere in considerazione solo la spesa effettiva, evitando di alzare la base di calcolo (e quindi le uscite possibili) con l'inserimento di altre voci.
In base allo stesso criterio, che nega interpretazioni estensive quando in gioco ci sono tetti di spesa, la sezione Autonomie nega anche (nella delibera 21/2014) la possibilità di escludere dai vincoli le assunzioni finanziate con fondi nazionali. L'esclusione, sottolinea la Corte, è limitata ai finanziamenti Ue, e non può essere estesa "analogicamente" anche se questo comporta il rischio di perdere i fondi nazionali.
Indennità
La sezione Autonomie si è occupata anche delle indennità dei sindaci (delibera 24/2014, pubblicata ieri), spiegando che se un aumento nel numero di abitanti fa passare il Comune nella classe demografica superiore, l'assegno al sindaco può crescere di conseguenza.
Anticipazioni di tesoreria
Un'altra delibera (la 23/2014) affronta invece il tema dei limiti alle anticipazioni di tesoreria, che in base all'articolo 222 del Tuel non possono superare i tre dodicesimi delle entrate correnti accertate nel rendiconto del penultimo anno: il limite, spiega la Corte, è «dinamico», per cui la restituzione delle anticipazioni precedenti apre nei conti degli enti locali spazio per nuove iniezioni di liquidità
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI: Sull'erogazione di un contributo comunale a istituto religioso: acquisto piattaforma elevatrice per disabili a servizio immobile, di istituto religioso, per rimuovere barriera architettonica ospiti non autosufficienti.
In base alle norme ed ai principi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla conservazione del patrimonio storico e artistico) il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo”.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali, etc.), soggetti aventi natura privata.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, occorre adottare adeguate cautele, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e di non discriminazione (cardini dell’attività amministrativa). Nello specifico, il finanziamento concesso a privati deve essere tale da non incorrere nel divieto di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione è la funzione. La spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine. Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che, direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere esplicitato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento. L’Amministrazione, inoltre, in aderenza alle regole generali (art. 3 legge n. 24/1990) è tenuta ad evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla base dell’erogazione, nonché il rispetto dei criteri di imparzialità e predeterminazione dei criteri per l’attribuzione di contributi (art. 12 legge n. 241/1990).
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare conforme al principio di congruità della spesa, presupponente una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale e dell’essenzialità dell’erogazione ai fini della prestazione del servizio.

---------------
Il sindaco del comune
di Pianello del Lario (CO) rivolge istanza per il rilascio di un parere in merito alla possibilità di erogare un contributo a un istituto religioso, per l'acquisto di una piattaforma elevatrice per disabili a servizio dell'immobile ubicato nel territorio di Pianello del Lario, di proprietà dell'istituto religioso citato nel quale è operativa una residenza sanitaria assistenziale.
La casa gestita dall’istituto è accreditata come struttura sanitaria presso la Regione Lombardia alla luce del carattere non lucrativo della Congregazione che la gestisce, e dell'esercizio delle opere di assistenza sociale in forza delle relative previsioni statutarie, con particolare riferimento all’attività svolta (a favore di persone anziane in generale, autosufficienti e in condizione di semi-autosufficienza o in stato di cronicità o infermità; di soggetti con handicap intellettivi o fisici; di minori di età compresa nel ciclo della scuola materna e d'obbligo).
L’ente precisa in particolare che la Congregazione ha presentato richiesta di contributo per l'acquisto di detta piattaforma elevatrice al fine di rimuovere un'insuperabile barriera architettonica per gli ospiti non autosufficienti, e che il vigente regolamento comunale per la concessione di contributi e benefici economici a soggetti pubblici e privati all'art. 3, commi 1 e 2, prevede che "Possono accedere a contributi e ad altre forme di sostegno economico finanziario, salvo eventuali deroghe previste nei successivi articoli, i soggetti che hanno un legame con il territorio del comune di Pianello del Larici o che comunque svolgono una attività di particolare interesse per la collettività o per la promozione dell' immagine del comune e che agiscono quali: a) enti pubblici; b) associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato, dotate di personalità giuridica (...)" e che "In casi particolari, adeguatamente motivati, l'attribuzione di interventi economici può essere disposta (...) per concorrere ad iniziative d'interesse generale rispetto alle quali la partecipazione del Comune assume rilevanza sotto il profilo dei valori sociali, morali, culturali, economici che sono presenti nella comunità alla quale l'ente è preposto".
...
Il comune di Pianello del Lario auspica che, in considerazione della riconducibilità dell'opera di abbattimento delle barriere architettoniche della residenza a finalità di interesse pubblico, nonché della sua della partecipazione istituzionale alla funzione pubblica di assistenza socio-sanitaria della Congregazione, e, da ultimo, delle ricadute positive sui residenti in termini dì abbattimento indiretto dei costi, l’istituto possa beneficiare del contributo richiesto.
Preliminarmente occorre rilevare che, in quanto indirizzato a favore dei soli ospiti della struttura in epigrafe, la realizzazione di una struttura elevatrice non può collocarsi all’interno delle misure adottate dai comuni per consentire la mobilità dei disabili all’interno del proprio territorio, ma deve essere inquadrata come strumentale alla realizzazione delle finalità proprie di una struttura assistenziale.
Peraltro, questione analoga a quella proposta dal comune istante è stata affrontata di recente dalla Sezione nel parere 15.07.2014 n. 218.
In quest’ultimo è stato richiamato il consolidato orientamento sul punto (deliberazioni n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012) teso a precisare come,
in base alle norme ed ai principi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla conservazione del patrimonio storico e artistico) il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (cfr.
parere 27.06.2013 n. 262).
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali, etc.), soggetti aventi natura privata.
Nei precedenti richiamati è stato ricordato, altresì, come l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta tuttavia un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, occorre adottare adeguate cautele, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e di non discriminazione (cardini dell’attività amministrativa). Nello specifico, il finanziamento concesso a privati deve essere tale da non incorrere nel divieto di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione è la funzione. La spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine (cfr. parere 23.12.2010 n. 1075). Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che, direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere esplicitato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento. L’Amministrazione, inoltre, in aderenza alle regole generali (art. 3 legge n. 24/1990) è tenuta ad evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla base dell’erogazione, nonché il rispetto dei criteri di imparzialità e predeterminazione dei criteri per l’attribuzione di contributi (art. 12 legge n. 241/1990).
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare conforme al principio di congruità della spesa, presupponente una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale e dell’essenzialità dell’erogazione ai fini della prestazione del servizio (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 02.10.2014 n. 254).

ENTI LOCALI: Sulla concessione di un contributo comunale in conto capitale al fine di preservare l'integrità della chiesa parrocchiale,
Se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla conservazione del patrimonio storico e artistico) il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo”.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali, etc.), soggetti aventi natura privata.
Ogniqualvolta, tuttavia, un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, occorre adottare adeguate cautele, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e di non discriminazione (cardini dell’attività amministrativa).
Nello specifico, il finanziamento concesso a privati deve essere tale da non incorrere nel divieto di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione è la funzione. La spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine. Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che, direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere esplicitato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento. L’Amministrazione, inoltre, in aderenza alle regole generali (art. 3 legge n. 24/1990) è tenuta ad evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla base dell’erogazione, nonché il rispetto dei criteri di imparzialità e predeterminazione dei criteri per l’attribuzione di contributi (art. 12 legge n. 241/1990).
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare conforme al principio di congruità della spesa, presupponente una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale.
---------------
Il Sindaco del comune di Fontanella Barbata, con nota del 09.07.2014, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto la concessione di un contributo in conto capitale al fine di preservare l'integrità della chiesa parrocchiale, che necessita di urgenti interventi di manutenzione straordinaria.
A parere del Comune non si ravviserebbe una violazione dell’art. 6, comma 9, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, in quanto la liquidazione del contributo avrebbe finalità di tutela del patrimonio storico ed artistico presente sul territorio e non configurerebbe spesa di sponsorizzazione.
...
Questione analoga a quella proposta dal comune istante è stata affrontata di recente dalla Sezione nel parere 15.07.2014 n. 218.
In quest’ultimo è stato richiamato il consolidato orientamento sul punto (deliberazioni n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012) teso a precisare come, in base alle norme ed ai principi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla conservazione del patrimonio storico e artistico) il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (cfr.
parere 27.06.2013 n. 262).
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali, etc.), soggetti aventi natura privata.
Nei precedenti richiamati è stato ricordato, altresì, come l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta, tuttavia, un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, occorre adottare adeguate cautele, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, di parità di trattamento e di non discriminazione (cardini dell’attività amministrativa).
Nello specifico, il finanziamento concesso a privati deve essere tale da non incorrere nel divieto di spese per sponsorizzazioni previsto dall’articolo 6, comma 9, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione è la funzione. La spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine (cfr. parere 23.12.2010 n. 1075). Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che, direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.
Questo profilo, come detto, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere esplicitato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento. L’Amministrazione, inoltre, in aderenza alle regole generali (art. 3 legge n. 24/1990) è tenuta ad evidenziare i presupposti di fatto e il percorso logico alla base dell’erogazione, nonché il rispetto dei criteri di imparzialità e predeterminazione dei criteri per l’attribuzione di contributi (art. 12 legge n. 241/1990).
In ogni caso, l’eventuale attribuzione deve risultare conforme al principio di congruità della spesa, presupponente una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 01.10.2014 n. 248).

QUESITI E PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Attività connessa all'attuazione dei progetti finanziati con fondi europei e della cooperazione.
La Corte dei conti ritiene che le spese per missioni sostenute nell'ambito della realizzazione di progetti comunitari finanziati dall'Unione Europea vadano escluse dal computo delle spese per missioni dell'Ente soggette all'applicazione riduttiva di cui all'art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010.
La magistratura contabile ha comunque evidenziato che le previsioni di spesa per i viaggi e le trasferte strettamente legati alla realizzazione di detti progetti e le successive procedure di rendicontazione devono essere effettuate con particolare attenzione in quanto, qualora gli organi comunitari riconoscano, in sede di liquidazione, importi inferiori a quelli anticipati dagli enti per tali spese, le somme non liquidate e a suo tempo anticipate, rimangono a carico degli enti locali.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche concernenti lo svolgimento di attività connessa all'attuazione di alcuni progetti finanziati con fondi europei e della cooperazione. L'Ente rappresenta che, per l'effettuazione dell'attività connessa allo svolgimento di detti progetti, si rende necessaria la partecipazione alle attività di coordinamento e di assistenza tecnica del responsabile del relativo servizio, in località spesso non raggiungibili ordinariamente con mezzi pubblici o il cui raggiungimento con mezzi pubblici comporterebbe una rilevante dispersione di tempo.
Ciò premesso, in relazione alla limitazione delle spese d'esercizio relative ai mezzi di servizio dell'Amministrazione, previsti dalle vigenti normative, chiede di conoscere se sia possibile derogare a tali limitazioni, trattandosi non di mere missioni, ma di esigenze connaturate e necessariamente previste nelle attività progettuali. Inoltre l'Ente gradirebbe conoscere se il dipendente interessato possa essere autorizzato all'utilizzo del mezzo proprio, analogamente a quanto avviene nell'Amministrazione regionale per analoghe attività.
Per quanto concerne il richiamo operato dall'Ente alle limitazioni delle spese d'esercizio relative ai mezzi di servizio dell'Amministrazione, previste nelle recenti normative, si osserva quanto segue.
L'art. 5, comma 2, del d.l. 95/2012
[1] dispone che, a decorrere dal 01.05.2014, le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione (enti locali compresi) non possono effettuare spese di ammontare superiore al 30 per cento della spesa sostenuta nell'anno 2011 per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi. Tale limite può essere derogato, per il solo anno 2014, esclusivamente per effetto di contratti pluriennali già in essere.
La norma precisa altresì che tale limite non si applica alle autovetture utilizzate dall'Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco o per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, per i servizi sociali e sanitari svolti per garantire i livelli essenziali di assistenza, ovvero per i servizi istituzionali svolti nell'area tecnico-operativa della difesa e per i servizi di vigilanza e intervento sulla rete stradale gestita da ANAS S.p.a. e sulla rete delle strade provinciali e comunali, nonché per i servizi istituzionali delle rappresentanze diplomatiche e degli uffici consolari svolti all'estero.
Premesso un tanto, in relazione a quanto prospettato dall'Ente istante, si ritiene che la situazione sottoposta possa essere esaminata comunque sotto un diverso profilo, nello specifico con riferimento alla vigente disciplina in materia di missioni, anche all'estero, del personale dipendente, al limite di spesa previsto per dette fattispecie e alle eventuali possibilità di deroga al predetto limite.
Si sottolinea innanzitutto che la disposizione contemplata all'art. 12, comma 21, della l.r. 22/2010, che introduceva uno specifico limite di spesa per le missioni del personale degli enti del comparto unico per gli anni 2011, 2012 e 2013, non è stata riproposta in successivi provvedimenti legislativi e non dispiega pertanto più la propria efficacia.
Conseguentemente, a partire dall'anno 2014, gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, per quanto riguarda le spese per missione del personale dipendente, sono assoggettati agli stessi limiti in vigore per le altre amministrazioni del conto consolidato della pubblica amministrazione. In particolare, si richiama quanto precisato dalla Ragioneria Generale dello Stato
[2], che ha ribadito l'applicazione dell'art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010.
La richiamata norma prevede che, a decorrere dall'anno 2011, le predette amministrazioni non possono effettuare spese per missioni, anche all'estero, con esclusione delle missioni internazionali di pace e delle Forze armate, delle missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale di magistratura, nonché di quelle strettamente connesse ad accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare la partecipazione a riunioni presso enti e organismi internazionali o comunitari, nonché con investitori istituzionali necessari alla gestione del debito pubblico, per un ammontare superiore al 50 per cento della spesa sostenuta nell'anno 2009.
La disposizione in esame precisa altresì che gli atti e i contratti posti in essere in violazione di tale prescrizione costituiscono illecito disciplinare e determinano responsabilità erariale.
Si stabilisce inoltre che il limite di spesa fissato può essere superato in casi eccezionali, previa adozione di un motivato provvedimento adottato dall'organo di vertice dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente.
Per la questione che ci occupa è da rilevare che la Corte dei conti
[3] ritiene che le spese per missioni sostenute nell'ambito della realizzazione di progetti comunitari finanziati dall'Unione Europea vadano escluse dal computo delle spese per missioni dell'Ente soggette all'applicazione riduttiva di cui al citato art. 6, comma 12.
A tal proposito la Corte ha evidenziato quanto sostenuto da altra sezione regionale di controllo
[4], nel ritenere che la norma di cui all'art. 6, comma 12, del d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010, possa essere intesa alla stregua della norma di cui all'art. 6, comma 7, del d.l. 78/2010 (riferita alla spesa per studi e consulenze), quale disposizione che introduce un principio di riduzione della spesa in rapporto al tetto di un anno di riferimento, e perciò strettamente collegata all'impatto sul bilancio del singolo ente considerato. Da ciò -sottolinea la Corte- 'può farsi discendere l'interpretazione che tende all'esclusione dal computo della spesa sostenuta in una determinata annualità di quanto oggetto di finanziamento da parte di soggetti pubblici o privati terzi'.
Tuttavia la magistratura contabile ha rilevato quanto disposto dal secondo periodo del comma 12 in argomento, che recita testualmente: 'Gli atti e i contratti posti in essere in violazione della disposizione contenuta nel primo periodo del presente comma costituiscono illecito disciplinare e determinano responsabilità erariale'.
Si è evidenziato quindi che le previsioni di spesa per i viaggi e le trasferte strettamente legati alla realizzazione dei progetti dell'Unione Europea, e le successive procedure di rendicontazione, devono essere effettuate con particolare attenzione in quanto, qualora gli organi comunitari riconoscano, in sede di liquidazione, importi inferiori a quelli anticipati dall'Ente per dette spese, le somme non liquidate e a suo tempo anticipate, rimangono a carico degli enti locali, rientrando conseguentemente nel computo della riduzione operata dal legislatore.
Per quanto riguarda inoltre la possibilità di autorizzare il personale inviato in missione all'utilizzo del mezzo proprio, si evidenzia che per gli enti locali del comparto unico della Regione Friuli Venezia resta in vigore il disposto di cui all'art. 12, comma 23, della l.r. 22/2010, considerato che non è stata prevista, in detto contesto, una valenza temporale limitata a specifiche annualità, come avvenuto in relazione al comma 21 del medesimo articolo.
Il citato comma 23 stabilisce infatti che, per lo svolgimento della missione, il personale delle amministrazioni del comparto unico è tenuto a utilizzare i mezzi di servizio ovvero i mezzi pubblici. Qualora l'uso dei mezzi pubblici sia inconciliabile con lo svolgimento della missione ovvero qualora l'uso del mezzo proprio risulti economicamente più conveniente, può essere autorizzato l'utilizzo del mezzo proprio.
E' necessario pertanto che si verifichi prioritariamente la sussistenza dei predetti presupposti.
E' da tenere inoltre presente che la norma in esame prevede che la disciplina in vigore per il personale regionale, in ordine ai rimborsi spettanti per l'utilizzo del mezzo proprio, si applica anche alle Amministrazioni del comparto unico diverse dalla Regione, cioè agli enti locali.
---------------
[1] Come sostituito, da ultimo, dall'art. 15, comma 1, del d.l. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 89/2014.
[2] Cfr. circolare n. 2 del 05.02.2013.
[3] Cfr. sez. reg. di controllo per il Veneto, deliberazione n. 392/2011/PAR.
[4] Cfr. sezione regionale di controllo per la Toscana, deliberazione n. 179/2011/PAR. Nella citata deliberazione si richiamava, a sua volta, la deliberazione delle Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 7 del 2011, in cui era stato espresso il seguente principio di massima: 'Con riferimento alla composizione della spesa per studi e consulenze è da ritenere che debbano escludersi dal computo gli oneri coperti mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati. Diversamente si finirebbe con l'impedire le spese per studi e consulenze, seppur integralmente finanziate da soggetti estranei all'ente locale (stante la provenienza comunitaria, statale o privatistica delle risorse), in ossequio al principio della universalità del bilancio ed al rispetto del tetto di spesa programmato. Il tetto di spesa per studi e consulenze non avrebbe la funzione di conseguire dei risparmi sul bilancio del singolo ente, ma di ridurre tout court, le spese connesse a suddette prestazioni, a prescindere dall'impatto sul bilancio dell'ente'
(10.10.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Sindaci, no a doppi giochi. Chi guida un ente è ineleggibile per un altro. Lo stesso soggetto non può candidarsi a rappresentare due comunità.
È legittima la candidatura a sindaco di candidati di due diverse liste presentate nel comune in questione che ricoprono, uno, la carica di consigliere comunale in un comune, e l'altro, la carica di sindaco in altro ente locale?

L'art. 60, comma 1, n. 12, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede l'ineleggibilità alla carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale per chi riveste le stesse cariche, rispettivamente in altro comune, provincia o circoscrizione.
La Cassazione civile, sez. I, con sentenza n. 11894 del 20.05.2006 ha interpretato estensivamente la predetta norma, chiarendo che l'ipotesi di ineleggibilità alla carica di sindaco opera anche per chi ricopre la carica di consigliere in altro comune.
Tali cause di ineleggibilità cessano solo con la presentazione di formali e tempestive dimissioni degli interessati dalla carica ricoperta, non essendo possibili rimedi equipollenti, quali il collocamento in aspettativa previsto per altre ipotesi di ineleggibilità.
La ratio di tale interpretazione si fonda sul principio che il medesimo soggetto «non può far parte di più assemblee rappresentative di altrettante collettività comunali», in nome della esigenza che chiunque è impegnato nella cura di interessi generali di una comunità comunale, ad essa è vincolato in via esclusiva fino a quando non abbia reciso il legame instaurato con la sua elezione (cfr sul punto Cassazione civile, sez. I, n. 11894 del 20.05.2006 e sentenza della Corte costituzionale 02.03.1991, n. 97).
Nella fattispecie, se è pur vero che dopo l'elezione gli interessati rappresentano, ognuno, una sola collettività comunale, al momento della candidatura esiste la condizione di rappresentare una collettività e l'interesse a voler rappresentare un'altra collettività comunale, condizione questa non consentita dalla normativa vigente in materia che prevede, come già detto, l'obbligo delle dimissioni, ai sensi dell'art. 60, comma 3, del citato decreto legislativo n. 267/2000, al fine di non incorrere nelle cause di ineleggibilità di cui al citato art. n. 60, comma 1, n. 12).
Le cause di ineleggibilità riguardano situazioni idonee a provocare effetti distorsivi nella parità di condizioni tra i vari candidati, nel senso che, avvalendosi della particolare posizione in cui versa, il soggetto non eleggibile può variamente influenzare a suo favore il corpo elettorale. Diversa è la situazione di incompatibilità, che non si riflette sulla parità di condizioni tra i candidati, ma attiene alla concreta possibilità, per l'eletto, di esercitare pienamente le funzioni connesse alla carica per motivi concernenti il conflitto di interessi in cui il soggetto verrebbe a trovarsi se fosse eletto. Di conseguenza, il soggetto ineleggibile deve eliminare ex ante la situazione in cui versa, mentre il soggetto incompatibile è tenuto ad optare ex post, cioè ad elezione avvenuta, tra il mantenimento della precedente carica e il munus pubblico derivante dalla conseguita elezione (cfr. Corte costituzionale n. 283/2010)
Per quanto concerne le iniziative praticabili per far valere l'ineleggibilità, si rammenta che, ai sensi dell'art. 41, comma 1, del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, il consiglio comunale dell'ente, nella prima seduta e prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto, dovrà esaminare la condizione degli eletti, per dichiarare la decadenza dell'amministratore interessato, in presenza di una delle cause di ineleggibilità.
Ciò in quanto, fatta salva la norma di chiusura di cui all'art. 70 della stesso decreto legislativo, in conformità al principio generale per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la valutazione in ordine all'eventuale sussistenza di un'ipotesi ostativa all'esercizio del mandato elettorale è rimessa al consiglio comunale del quale l'interessato fa parte (articolo ItaliaOggi del 10.10.2014).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO: Congedo a ore solo sulla carta. L'Inps smentisce il ministero del lavoro.
Congedo parentale a ore ancora ai box. La possibilità di usufruire dei permessi con frazionamento orario non è ancora entrato a regime nonostante sia da quasi due anni che la legge 24.12.2012 n. 228 (legge di stabilità 2013), recependo la direttiva 2010/18/Ce dell'08.03.2010, ha previsto detta possibilità attribuendo alla contrattazione collettiva di settore il compito di stabilire le relative modalità di fruizione, nonché i criteri di calcolo della medesima base oraria e l'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.
L'Inps infatti non solo non dispone ancora delle necessarie istruzioni e procedure operative affinché questo strumento a sostegno della genitorialità e della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro possa decollare; ma anzi, smentisce nei fatti il ministero del lavoro che, con risposta a interpello 22.07.2013, n. 25, ha precisato che stante l'assenza di un esplicito riferimento normativo al livello «nazionale» della contrattazione, non vi sono motivi ostativi a una interpretazione in virtù della quale i contratti collettivi possano essere anche quelli di secondo livello (aziendale e territoriale).
La domanda di congedo parentale (mod. Ast/Fac cod. SR23) che deve essere inviata all'Inps con modalità telematiche da parte del richiedente non è stata ancora aggiornata per raccogliere la novità (consente infatti di selezionare il congedo a giorni ma non a ore), ma soprattutto non esistono istruzioni per i datori di lavoro circa i codici di recupero delle somme anticipate al dipendente ai fini della predisposizione del flusso «uniemens».
Inoltre, a fronte della domanda corredata dell'accordo aziendale di secondo livello, l'Inps adotta un provvedimento di rigetto rinviando al proprio messaggio n. 1635 del 28.01.2013 secondo cui in attesa che la contrattazione collettiva (nazionale) definisca le modalità e i criteri richiesti dalla legge, non è possibile riconoscere eventuali richieste di fruizione del congedo parentale su base oraria.
Peccato però che, successivamente, sia intervenuto l'interpello n. 25 che evidentemente non è stato considerato né tanto meno recepito (articolo ItaliaOggi del 10.10.2014).

SEGRETARI COMUNALIDirigenti p.a., riforma bocciata. Squitieri: autonomia a rischio. Più costi dal ruolo unico. Audizione del presidente Corte conti sul ddl. L'abolizione dei segretari è controproducente.
La Corte conti boccia la riforma della dirigenza pubblica contenuta nel ddl Madia. La delega «accresce i margini di discrezionalità nel conferimento degli incarichi» e rischia di sacrificare l'autonomia dei dirigenti. La creazione del ruolo unico, l'abolizione dell'attuale articolazione in due fasce, la breve durata degli incarichi attribuiti, «il rischio che il mancato conferimento di una funzione possa provocare la decadenza del rapporto» sono tutti elementi che, secondo la magistratura contabile, potrebbero limitare l'indipendenza dei manager.
L'abolizione dei segretari comunali, poi, «suscita perplessità» ed è controproducente dal punto di vista finanziario perché la previsione di un utilizzo dei segretari comunali di fascia C come dirigenti responsabili anche presso comuni di minori dimensioni, attualmente privi di figure dirigenziali, rischia di produrre «esorbitanze di spesa, a fronte del conferimento di funzioni di scarsa utilità per enti di dimensioni particolarmente ridotte».

In audizione davanti alla commissione affari costituzionali del senato, il presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri con l'AUDIZIONE DELLA CORTE DEI CONTI NELL’AMBITO DELL’INDAGINE CONOSCITIVA SUL DISEGNO DI LEGGE IN MATERIA DI RIORGANIZZAZIONE DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE (AS 1577), punta il dito contro uno dei punti più qualificanti del disegno di legge di riforma della p.a., ossia quel ruolo unico della dirigenza pubblica «già sperimentato nelle amministrazioni statali con esiti non del tutto positivi» tra il 1998 e il 2002.
A preoccupare Squitieri è l'assenza nel ddl Madia di un punto di equilibrio tra l'esigenza di assicurare la flessibilità dei modelli organizzativi e la salvaguardia di un'effettiva autonomia dei dirigenti nei confronti del potere politico.
«La riforma proposta», ha sottolineato, «aumenta i margini di discrezionalità per il conferimento degli incarichi, una discrezionalità solo in parte temperata dalla previsione di requisiti legati alla particolare complessità degli uffici e al grado di responsabilità che i dirigenti sono chiamati ad assumere».
Ma i timori della Corte conti derivano soprattutto dai costi che il ruolo unico della dirigenza potrebbe far lievitare.
L'abolizione dell'attuale articolazione della dirigenza pubblica in due fasce implicherà, si legge nell'audizione, «la necessità di rideterminare in un unico valore l'ammontare dei trattamenti fissi spettanti agli interessati che saranno inquadrati nella medesima posizione retributiva». Secondo Squitieri, dall'introduzione di un omogeneo trattamento retributivo per l'unica qualifica dirigenziale, «necessariamente più alto di quello attualmente previsto per la seconda fascia, non potranno che derivare maggiori costi a regime con riferimento all'ammontare dei trattamenti da corrispondere ai soggetti assunti con i nuovi concorsi». Oggi infatti la retribuzione d'ingresso è parametrata a quella prevista per la fascia più bassa della dirigenza (articolo ItaliaOggi del 10.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGOPa, pronti i criteri per la mobilità. Madia. «Entro l'anno via alla nuova valutazione».
Le «tabelle di equiparazione» tra i diversi comparti della Pa sono pronte. Si tratta dello strumento cardine per far scattare la sperimentazione della mobilità obbligatoria tra uffici pubblici entro un raggio massimo di 50 Km previsto dal Dl 90, la cui legge di conversione è in vigore dal 2 settembre scorso.
Ad annunciare il passo avanti nell'attuazione del decreto è stato, ieri, lo stesso ministro per la Semplificazione e la Pa, Marianna Madia. Sulle nuove tabelle, che superano quelle mai utilizzate del 2009, c'è un'intesa con il ministro Pier Carlo Padoan e riguardano la Pa centrale. Giovedì 16 ottobre è previsto un incontro in Conferenza unificata per discuterne l'estensione anche alle amministrazioni locali, le Regioni e le Asl. Dopo questo passaggio ci sarà la convocazione dei sindacati.
Le tabelle di equiparazione consentono di far capire al dipendente pubblico trasferito da un'amministrazione all'altra che qualifica e retribuzione avrà. «Credo che ciò dovrebbe consentire di approvarle secondo la procedura ordinaria, fermo restando –ha detto Madia– che in caso di mancato accordo c'è la possibilità di ricorrere a un atto unilaterale di approvazione».
Finora non sono state indicate platee potenziali di dipendenti che potrebbero essere interessati dalla mobilità obbligatoria: il Ddl delega Pa, all'articolo 7, prevede una riorganizzazione di sedi e uffici che potrebbe sfociare nella definizione di eventuali esuberi, mentre la legge Delrio sulle province prevede una procedura diversa. Il ministro ha confermato che «in prospettiva, con la delega sulla Pa, la volontà del governo è superare il concetto di pianta organica ed arrivare al concetto di fabbisogno».
Entro fine anno, poi, è stato annunciato il nuovo regolamento sulla valutazione delle performance dei dipendenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATA: Libretto d'impianto new style. Per gli edifici.
Nuova versione autocompilabile a pagine singole dei file del libretto di impianto degli edifici, che consente di stampare eventuali pagine integrative.
In quest'ultimo caso però si informa che il campo «codice catasto» deve essere compilato per ogni nuova pagina.
La nuova versione dei libretti può essere utilizzata entro il prossimo 15 di ottobre.

Il comitato termotecnico italiano ha pubblicato sul suo sito oltre alla preesistente versione del libretto e dei rapporti di controllo di efficienza energetica autocompilabili, una nuova versione auto compilabile a pagine singole dei file del libretto di impianto, che consente di stampare eventuali pagine integrative.
Il comitato ha messo a disposizione degli esempi applicativi per le tipologie impiantistiche più diffuse per facilitare e uniformare la compilazione dei libretto di impianto per la climatizzazione e dei rapporti di controllo di efficienza energetica (articolo ItaliaOggi del 09.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGOVisite mediche sempre al lavoro. Dipendenti ritenuti in servizio se il controllo è extra orario. Il chiarimento sugli obblighi relativi alla sorveglianza sanitaria in un interpello del ministero.
Salute dei dipendenti «cara» all'azienda. Le visite mediche vanno eseguite durante l'attività di lavoro, altrimenti il datore di lavoro deve giustificare con ragioni produttive l'organizzazione dei controlli sanitari all'infuori del normale orario di lavoro.
In quest'ultimo caso i lavoratori vanno comunque considerati in servizio per tutto il tempo di svolgimento dei controlli medici, con diritto quindi a retribuzione e ogni altra competenza collegata.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 06.10.2014 n. 18/2014 a risposta di un quesito dell'unione sindacale di base dei Vigili del fuoco.
Visite mediche periodiche. La richiesta dei sindacati riguarda la corretta interpretazione dell'art. 41 del T.u. sicurezza (approvato dal dlgs n. 81/2008), il quale disciplina obbligo e modalità per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria. In particolare, è stato chiesto di sapere se nell'effettuazione delle visite periodiche per il rinnovo dell'idoneità psicofisica all'impiego, come previsto dal citato art. 41 del T.u. sicurezza, la visita vada svolta necessariamente in orario di lavoro, oppure se il datore di lavoro abbia facoltà di inviare il lavoratore a visita anche quando non si trovi al lavoro (cioè fuori dal normale orario di servizio). In quest'ultima ipotesi, inoltre, è stato chiesto di sapere se il tempo impiegato dal lavoratore per effettuare la visita debba o meno essere retribuito come ore di lavoro straordinario.
Sorveglianza sanitaria. La sorveglianza sanitaria (disciplinata dall'art. 41 del T.u. sicurezza) rientra fra gli obblighi del datore di lavoro elencati dall'art. 18 del medesimo T.u. Il fine è quello della tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, attraverso la valutazione (medica) delle compatibilità tra condizioni di salute e compiti lavorativi. L'art. 20 del T.u., inoltre, sancisce fra gli obblighi dei lavoratori quello di sottoporsi ai controlli sanitari disposti dal datore di lavoro.
Salute «cara» all'azienda. Secondo la commissione ministeriale i controlli medici relativi alla sorveglianza sanitaria sono a carico dell'azienda in tutto e per tutto. Il contenuto tassativo e la «ratio» dell'art. 18 del T.u., spiega, non lasciano spazi o deroghe circa l'osservanza dell'obbligo prescritto e finalizzato alla tutela dell'integrità fisica e psichica del lavoratore. Le visite mediche non possono, per nessun motivo in considerazione della particolarità del bene tutelato (la salute dei lavoratori), essere omesse o trascurate dal datore di lavoro (che è il soggetto obbligato) e, di contro, il lavoratore non può esimersi dal sottoporsi all'effettuazione dei controlli medici.
Inoltre, secondo la commissione ministeriale, pur se non è previsto espressamente dall'art. 41 del T.u. che debba essere eseguita durante l'attività lavorativa, l'effettuazione della visita medica «è funzionale all'attività lavorativa e pertanto il datore di lavoro dovrà comunque giustificare le motivazioni produttive che determinano la collocazione temporale della stessa fuori dal normale orario di lavoro». Ciò significa che le visite vanno fissate, «normalmente», durante l'orario di lavoro e che per la programmazione in un diverso orario è necessaria una «motivazione produttiva».
Quanto ai «costi» dei controlli sanitari, infine, la commissione ministeriale ritiene che l'unico a doverli sopportare sia il datore di lavoro, in virtù dell'art. 15, comma 2, del T.u. il quale stabilisce che «le misure relative alla sicurezza, all'igiene e alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori».
Pertanto, conclude la commissione, i controlli sanitari vanno strutturati tenendo ben presente gli orari di lavoro e la reperibilità dei lavoratori; e ove per giustificate esigenze lavorative il controllo sanitario sia effettuato in orari diversi, «il lavoratore dovrà comunque considerarsi in servizio a tutti gli effetti» (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Nuove procedure di calcolo per la certificazione energetica degli edifici.
Dal 2 ottobre sono cambiate le procedure di calcolo per la certificazione energetica degli edifici. L'Uni ha redatto le nuove versioni delle norme Uni/Ts 11300-1 e Uni/Ts 11300-2 per la determinazione, rispettivamente, del fabbisogno di energia termica dell'edificio per la climatizzazione estiva e invernale e del fabbisogno di energia primaria e dei rendimenti per la climatizzazione invernale e per la produzione di acqua calda sanitaria.

Quattro le novità introdotte dalle nuove norme ed evidenziate dall'associazione nazionale per l'isolamento termico e acustico (Anit) in una breve guida. Le conseguenze delle modifiche sottolinea l'associazione riguardano i calcoli per il rispetto della ex-legge 10 (dlgs 192/2005, dlgs 311/2007 e dpr 59/2009) e per la certificazione degli edifici di nuova costruzione ed esistenti per tutte le regioni che richiamano le norme Uni TS 11300 per tali calcoli. Ecco in sintesi le novità fotografate dall'associazione.
Ponti termici e e. I ponti termici vengono valutati solo attraverso i coefficienti lineici e. Viene cancellato l'utilizzo della maggiorazione percentuale semplificata e l'utilizzo dell'abaco della norma Uni En 14683. Le valutazioni dei coefficienti lineici devono essere fatte con calcolo agli elementi finiti o con atlanti dei ponti termici realizzati in accordo con la Un En ISO 14683. È possibile utilizzare metodi di calcolo manuale per edifici esistenti.
Trasmittanza termica U. Le caratteristiche dei materiali e in particolare la conducibilità termica devono essere opportunamente corrette per tener conto delle condizioni in cui si opera in accordo con la norma Uni En ISO 10456. Per edifici esistenti è inoltre disponibile il rapporto tecnico UNI/TR 11552, anch'esso pubblicato il 02.10.2014, che riporta un abaco di strutture opache verticali e orizzontali, con proprietà termo fisiche indicative.
Perdite per ventilazione. Nella precedente versione la ventilazione era condensata in due pagine. Attualmente sono dieci le pagine dedicate alle perdite per ventilazione con due appendici specifiche. La valutazione diventa molto più raffinata e vengono considerati in maniera più idonea gli impianti che gestiscono la ventilazione all'interno degli edifici.
Guadagni solari. Viene introdotta la modifica già presente nella procedura di calcolo della regione Lombardia che valuta un solo fattore di riduzione per ombreggiatura esterno (il peggiorativo) tra l'aggetto verticale e orizzontale. Inoltre viene implementata la caratterizzazione della trasmittanza di energia solare totale attraverso la parte vetrata (il fattore g) con una migliore definizione dei fattori di esposizione. Sono presenti altre modifiche (per esempio la trattazione dei locali non riscaldati, la sottrazione di energia con l'extraflusso, la valutazione degli apporti interni latenti e la valutazione degli apporti solari sulle superfici opache).
Varie. Da evidenziare che ci sono inoltre altre modifiche quali la trattazione dei locali non riscaldati, la sottrazione di energia con l'extraflusso, la valutazione degli apporti interni latenti e la valutazione degli apporti solari sulle superfici opache (articolo ItaliaOggi del 07.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTINorme antimafia al secondo correttivo.
Possibilità per la p.a. di stipulare i contratti pubblici dopo 30 giorni dalla richiesta della certificazione antimafia, fatti salvi provvedimenti interdittivi del prefetto. In casi di urgenza, i controlli sono tutti a posteriori, potendosi firmare il contratto subito.

Sono tra le novità del secondo decreto correttivo del Codice antimafia (dlgs 159/2011, modificato con il dlgs 218/2012) ieri all'esame del Consiglio dei ministri.
La bozza del provvedimento entrato all'esame dell'esecutivo prevede che le certificazioni antimafia siano distinte in comunicazioni e informazioni antimafia. Mentre la comunicazione attesta le misure di prevenzione applicate a carico di un'impresa, l'informazione ha contenuto più ampio ed evidenzia anche i tentativi di infiltrazione mafiosa. Per i contratti pubblici di valore più basso viene acquisita, tramite le prefetture, la comunicazione mentre per gli appalti di valore più elevato ci vuole l'informazione.
Il correttivo, per le comunicazioni, prevede, in relazione alla futura banca dati nazionale (un grande archivio a disposizione delle amministrazioni procedenti), l'acquisizione diretta da parte delle stazioni appaltanti. Se emergeranno notizie ostative ci vorrà comunque il provvedimento conclusivo (liberatorio o interdittivo) del prefetto della provincia di sede dell'impresa. Sempre per le comunicazioni, viene ridotto il tempo per la risposta delle prefetture.
Il contratto deve comunque prevedere la clausola di scioglimento nel caso di provvedimento interdittivo del prefetto. Se non si tratta di appalti, ma di provvidenze pubbliche subordinate alla regolarità antimafia, sarà l'amministrazione concedente a dover decidere se procedere subito o aspettare comunque la risposta prefettizia (articolo ItaliaOggi del 07.10.2014).

GIURISPRUDENZA

APPALTI SERVIZI: Con particolare riferimento all’indicazione degli oneri di sicurezza, la giurisprudenza prevalente, alla quale il Collegio intende aderire, ha ritenuto che tali voci, non essendo assimilabili a principi generali, non possono dar luogo ad alcuna eterointegrazione degli atti di gara, salvo che in tal senso abbia disposto la stazione appaltante, né un obbligo di indicazione può farsi discendere automaticamente dall’art. 26, c. 6.
---------------
Quando la procedura concorsuale riguarda un servizio compreso fra quelli elencati nell’allegato II B del d.lgs. n. 163/2006 non è dato che la disciplina di gara possa ricevere, indipendentemente da uno specifico richiamo in essa, immediata integrazione con le previsioni dettate dall’art. 86 sulla specificazione dei costi della sicurezza afferenti la prestazione dedotta in rapporto.

Con un primo motivo, la ricorrente sostiene la illegittimità degli atti impugnati sostenendo che l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa non avendo la stessa assolto all’obbligo, ai sensi dell’art. 86, c. 3-bis, e art. 87, c. 42, di evidenziare, oltre agli oneri di sicurezza indicati nel bando di gara relativi ai rischi da interferenza, anche gli oneri aziendali specifici di sicurezza.
La censura non tiene conto che l’appalto in esame ha a oggetto i servizi, come definiti dall’art. 4 del bando di gara, di cui al d.lgs. 163/2006 categoria 27 CPC – allegato II B e pertanto esclusi dall’ambito di applicazione delle norme di dettaglio contenute nel Codice stesso.
Con particolare riferimento all’indicazione degli oneri di sicurezza, la giurisprudenza prevalente (per tutte C.d.S. 355/2014; TAR Piemonte Torino n. 1254 del 24.10.2013), alla quale il Collegio intende aderire, ha ritenuto che tali voci, non essendo assimilabili a principi generali, non possono dar luogo ad alcuna eterointegrazione degli atti di gara, salvo che in tal senso abbia disposto la stazione appaltante, né un obbligo di indicazione può farsi discendere automaticamente dall’art. 26, c. 6.
Nella fattispecie, la lex specialis non prevedeva alcuna prescrizione in tal senso e, analogamente, l’apposito modello, predisposto e fornito dalla stazione appaltante in allegato al bando di gara, non conteneva alcuna prescrizione per l’indicazione di tali oneri.
Tali considerazioni impedivano alla P.A., anche in ossequio al principio della tassatività delle cause di esclusione, previsto dal comma 1-bis dell’art. 46 del d.lgs. 163/2006 (il quale dispone che la stazione appaltante possa escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte) di escludere la Salento Port Service.
Pertanto, “quando la procedura concorsuale riguarda un servizio compreso fra quelli elencati nell’allegato II B del d.lgs. n. 163/2006 non è dato che la disciplina di gara possa ricevere, indipendentemente da uno specifico richiamo in essa, immediata integrazione con le previsioni dettate dall’art. 86 sulla specificazione dei costi della sicurezza afferenti la prestazione dedotta in rapporto” (cfr. C.d.S. III, n. 6640/2011, 3706 e 5070/2013, 280/2014; V, n. 4510/2012 e 2517/2014) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.10.2014 n. 2453 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La giurisprudenza, privilegiando l’interpretazione sostanziale, ha ritenuto illegittima l’esclusione da una gara d’appalto dell’impresa che abbia omesso una dichiarazione, nel caso in cui la stessa sia in realtà comunque in possesso dei requisiti richiesti (e la lex specialis non preveda una sanzione espulsiva per la mera omissione).
Quanto all’omessa sottoscrizione della prima pagina dell’offerta economica, deve ritenersi sufficiente, ai fini della riconducibilità dell’offerta al suo autore, che sussista la firma in calce alla stessa, atteso che è quest’ultima a manifestare la consapevole assunzione della paternità di una dichiarazione e la responsabilità in ordine al suo contenuto.

Sono pure infondate le censure con le quali la ricorrente lamenta che l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa in quanto la sig.ra Maria Cafaro, in qualità di amministratore cessato dalla carica, non avrebbe prodotto la dichiarazione ex art. 38 d.lgs. 163/2006.
Piuttosto, tale soggetto ha fornito comunque la dichiarazione ex art. 38 citato, sia pure in qualità di socio di capitali.
Con principi applicabili al caso in esame, la giurisprudenza, privilegiando l’interpretazione sostanziale, ha ritenuto illegittima l’esclusione da una gara d’appalto dell’impresa che abbia omesso una dichiarazione, nel caso in cui la stessa sia in realtà comunque in possesso dei requisiti richiesti (e la lex specialis non preveda una sanzione espulsiva per la mera omissione) (TAR Umbria, Sezione I - Sentenza 01/04/2011 n. 103; in termini più ampi Ad .Pl. n. 16 del 2014).
Quanto all’omessa sottoscrizione della prima pagina dell’offerta economica, deve ritenersi sufficiente, ai fini della riconducibilità dell’offerta al suo autore, che sussista la firma in calce alla stessa, atteso che è quest’ultima a manifestare la consapevole assunzione della paternità di una dichiarazione e la responsabilità in ordine al suo contenuto (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 625/2011; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, n. 634/2012) .
Peraltro, la formalità della sottoscrizione dell’offerta in ogni pagina non risulta affatto prevista e sanzionata, in caso di omissione, dal bando di gara, limitandosi quest’ultimo a richiedere che l’offerta sia contenuta nell’apposito plico interno debitamente sigillato con strumenti idonei a garantire la sicurezza contro eventuali manomissioni, controfirmato sui lembi di chiusura, recante l’indicazione del mittente e l’oggetto della gara, sicché la circostanza lamentata, non prevista neppure dall’art. 74 del d.lgs. 163/2006, risulta del tutto innocua ai fine dell’ammissione alla procedura de qua.
In conclusione, i provvedimenti impugnati resistono alle censure rassegnate nel ricorso il quale deve quindi essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.10.2014 n. 2453 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel caso di rifiuti abbandonati in un terreno, qualora l’autore materiale della violazione non sia identificato, al fine di individuare il soggetto obbligato alla rimozione dei rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi, è necessario procedere al duplice accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali o personali di godimento sulla stessa.
---------------
E' illegittimo l’ordine di rimozione e smaltimento dei rifiuti impartito al ricorrente laddove non sia potendosi ravvisare, a carico dello stesso, l’imputabilità, a titolo di dolo o colpa, dello sversamento dei rifiuti.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che la responsabilità per colpa, di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, si ravvisa tutte le volte in cui vi sia un comportamento negligente (da verificare caso per caso) da parte del soggetto ritenuto responsabile, che può anche consistere in un fatto omissivo..
L’obbligo di diligenza, inoltre, deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va ascritta la responsabilità per colpa al proprietario non autore dello sversamento quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente proporzionato.
--------------
Il ricorrente ha subito furti nel fabbricato e danneggiamenti al muro a secco e agli infissi interni ed esterni denunciando l’accaduto, ha provveduto ad affittare il terreno in questione a terzi nonché ha provveduto prontamente a denunciare lo sversamento dei rifiuti.
Il Collegio ritiene che gli accorgimenti tenuti possano, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, ritenersi sufficienti al fine di escludere che allo stesso sia ascrivibile alcuna responsabilità a titolo di dolo o colpa per l’abbandono dei rifiuti oggetto dell’impugnata ordinanza; peraltro l’A.C. nell’imporre di dotare il fondo in questione di “recinzione di sufficiente altezza” non ha tenuto conto, oltre che dell’estensione del fondo, dell’esistenza del muro a secco ivi esistente, cioè dell’esistenza di un ostacolo in genere idoneo ad evitare lo sversamento di rifiuti, e dell’estraneità all’ordinaria diligenza di cautele ulteriori.

... per l'annullamento dell'ordinanza priva di numero comunicata con nota datata 16/01/2014, notificata il 18/1 successivo, con cui il Dirigente del Settore Ambiente, Igiene, Prot. Civile del Comune di Lecce ha ordinato al ricorrente di procedere, entro 20 giorni a far data dalla notifica, alla rimozione e smaltimento dei rifiuti insistenti sul terreno sito alla via F. Perulli "C.da Marsello" Agro di Lecce Folt. 207 P.lla 34, e di dotare il terreno in questione di recinzione di sufficiente altezza al fine di evitare il reiterarsi il fenomeno di discarica abusiva di rifiuti, con l'avvertenza che l'inottemperanza al provvedimento costituisce reato e che, decorso il termine fissato per provvedere, si procederà d'ufficio alla esecuzione in danno;
...
L’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce che “fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio al recupero o allo smaltimento dei rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Pertanto, qualora l’autore materiale della violazione non sia identificato, al fine di individuare il soggetto obbligato alla rimozione dei rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi, è necessario procedere al duplice accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali o personali di godimento sulla stessa.
Nella fattispecie, come risulta dall’ordinanza impugnata, l’A.C. premettendo che “con nota del Corpo di polizia Provinciale del 07.01.2014 e da successivo sopralluogo per la vigilanza del territorio, eseguito dal personale in servizio presso l’Ufficio Ambiente, si è riscontrato che un terreno sito alla via F. Perulli è tenuto in gravi condizioni igienico – sanitarie, con la presenza di rifiuti anche nocivi di varia natura tra cui onduline in materiale presunto amianto, pneumatici in disuso, materiale ferroso e materiale plastico” ha ordinato gli interventi di pulizia (rimozione e smaltimento) dei rifiuti di cui in premessa, al fine del ripristino dello stato dei luoghi, nonché la recinzione (di sufficiente altezza) di tutto il terreno.
Ciò posto, il Collegio ritiene la illegittimità dell’ordine di rimozione e smaltimento dei rifiuti impartito al ricorrente, non potendosi ravvisare, a carico dello stesso, l’imputabilità, a titolo di dolo o colpa, dello sversamento dei rifiuti.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che la responsabilità per colpa, di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, si ravvisa tutte le volte in cui vi sia un comportamento negligente (da verificare caso per caso) da parte del soggetto ritenuto responsabile, che può anche consistere in un fatto omissivo (TAR Toscana Firenze, sez. II, 23.12.2010, n. 6862; TAR Campania Napoli, sez. V, 08.06.2010, n. 13059).
L’obbligo di diligenza, inoltre, deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va ascritta la responsabilità per colpa al proprietario non autore dello sversamento quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente proporzionato.
Inoltre, l’idoneità delle cautele adottate dal soggetto proprietario o utilizzatore del bene va valutata in concreto, tenendosi conto di una serie di circostanze obiettive.
Nella specie, dai documenti esibiti in giudizio, risulta che il ricorrente ha subito furti nel fabbricato e danneggiamenti al muro a secco e agli infissi interni ed esterni denunciando l’accaduto, ha provveduto ad affittare il terreno in questione a terzi (contratti d’affitto del 14.10.2013 e del 20.09.2012) nonché ha provveduto prontamente a denunciare lo sversamento dei rifiuti.
Il Collegio ritiene che gli accorgimenti tenuti possano, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, ritenersi sufficienti al fine di escludere che allo stesso sia ascrivibile alcuna responsabilità a titolo di dolo o colpa per l’abbandono dei rifiuti oggetto dell’impugnata ordinanza; peraltro l’A.C. nell’imporre di dotare il fondo in questione di “recinzione di sufficiente altezza” non ha tenuto conto, oltre che dell’estensione del fondo, dell’esistenza del muro a secco ivi esistente, cioè dell’esistenza di un ostacolo in genere idoneo ad evitare lo sversamento di rifiuti, e dell’estraneità all’ordinaria diligenza di cautele ulteriori.
In conclusione, il provvedimento impugnato sconta il denunciato deficit istruttorio e motivazionale (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.10.2014 n. 2452 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La scansione procedimentale ex art. 8 DPR 160/2010 prevede che, successivamente alla conferenza di servizi, si pronunci, nella prima seduta utile, il consiglio comunale, il quale è comunque titolare di un potere discrezionale circa l’approvazione o meno del progetto (che quindi può legittimamente fondare -anche indipendentemente da precisi divieti ambientali- su valutazioni di ordine generale, purché razionalmente ed equilibratamente rapportate, in relazione alla natura ed entità dell'intervento, all'esigenza di evitare la compromissione di valori paesaggistici, urbanistici o comunque inerenti la tutela dell'assetto del territorio).
Nessun potere risulta invece conferito dalla norma al Responsabile dell’UTC, nella more della decisione del consiglio comunale, circa la sospensione del procedimento per ragioni di carattere edilizio o urbanistico che, anche laddove non esaminate in sede di conferenza di servizi, potranno pur sempre essere valutate dal consiglio comunale.

Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
L’art. 8 D.P.R. 160/2010 tipizza il particolare procedimento comportante l’approvazione di progetti in variazione di strumenti urbanistici: “1. Nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva l'applicazione della relativa disciplina regionale, l'interessato può richiedere al responsabile del SUAP la convocazione della conferenza di servizi di cui agli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, e alle altre normative di settore, in seduta pubblica. Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, ove sussista l'assenso della Regione espresso in quella sede, il verbale è trasmesso al Sindaco ovvero al Presidente del Consiglio comunale, ove esistente, che lo sottopone alla votazione del Consiglio nella prima seduta utile. Gli interventi relativi al progetto, approvato secondo le modalità previste dal presente comma, sono avviati e conclusi dal richiedente secondo le modalità previste all'articolo 15 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
2. È facoltà degli interessati chiedere tramite il SUAP all'ufficio comunale competente per materia di pronunciarsi entro trenta giorni sulla conformità, allo stato degli atti, dei progetti preliminari dai medesimi sottoposti al suo parere con i vigenti strumenti di pianificazione paesaggistica, territoriale e urbanistica, senza che ciò pregiudichi la definizione dell'eventuale successivo procedimento; in caso di pronuncia favorevole il responsabile del SUAP dispone per il seguito immediato del procedimento con riduzione della metà dei termini previsti
.”
Appare evidente che la scansione procedimentale suindicata prevede che, successivamente alla conferenza di servizi, si pronunci, nella prima seduta utile, il consiglio comunale, il quale è comunque titolare di un potere discrezionale circa l’approvazione o meno del progetto (che quindi può legittimamente fondare -anche indipendentemente da precisi divieti ambientali- su valutazioni di ordine generale, purché razionalmente ed equilibratamente rapportate, in relazione alla natura ed entità dell'intervento, all'esigenza di evitare la compromissione di valori paesaggistici, urbanistici o comunque inerenti la tutela dell'assetto del territorio: cfr C.d.S. Sez. IV, sent. n. 1038 del 03.03.2006).
Nessun potere risulta invece conferito dalla norma al Responsabile dell’UTC, nella more della decisione del consiglio comunale, circa la sospensione del procedimento per ragioni di carattere edilizio o urbanistico che, anche laddove non esaminate in sede di conferenza di servizi, potranno pur sempre essere valutate dal consiglio comunale.
A ciò aggiungasi che la motivazione addotta dal responsabile dell’UTC per supportare la disposta sospensione procedimentale (omessa rimozione di manufatto abusivo), come già rilevato dalla sezione nell’ordinanza cautelare n. 134/2014, lungi dal costituire ostacolo al procedimento come tipizzato dall’art. 5 DPR 447/1998 (oggi art. 8 DPR 160/2010), assume rilievo solo sotto il profilo sanzionatorio, estraneo alla modifica della strumentazione urbanistica in questione (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.10.2014 n. 2451 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLicenziabile chi lavora in malattia. Non rileva il fatto che l'attività sia stata svolta presso il negozio di un familiare. Cassazione/1. Per i giudici legittimo l'allontanamento per giusta causa di un dipendente con ernia e depressione.
Lo svolgimento di attività lavorativa presso soggetti diversi dal proprio datore di lavoro, durante il periodo di malattia, legittima il licenziamento per giusta causa del dipendente, anche se i terzi sono familiari del dipendente; l'eventuale compatibilità dell'attività svolta con la malattia deve essere provata dal lavoratore, anche nel caso in cui la patologia denunciata sia una depressione.
Con queste conclusioni, coerenti con gli orientamenti maggioritari della giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza 07.10.2014 n. 21093) ha rigettato l'impugnativa proposta da un lavoratore, licenziato dopo essere stato scoperto -mediante indagini apposite- a lavorare presso il negozio di un familiare durante il periodo di malattia.
Dopo essere stato sconfitto in entrambi i gradi di merito, il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione lamentando di aver svolto alcune semplici prestazioni gratuite in favore di familiari che non potevano essere considerate come attività lavorativa, in quanto si erano concretizzate nello svolgimento di piccoli lavori (in particolare, la riparazione di un piccolo elettrodomestico, e null'altro).
Lo stesso lavoratore sosteneva, nel proprio ricorso, che l'attività lavorativa durante il periodo di malattia sarebbe preclusa solo qualora fosse fornita la prova della simulazione dello stato patologico, oppure qualora fosse dimostrato che l'attività svolta avesse compromesso la guarigione.
La Corte di Cassazione ha respinto queste censure, partendo da un'esatta ricostruzione del fatto.
La sentenza ricorda, in particolare, che nelle precedenti fasi di merito era stato accertato che il lavoratore, denunciando una doppia malattia (una depressione e una cervicobrachialgia da ernia discale), si era assentato dal lavoro per un certo periodo ma, negli stessi giorni, aveva lavorato in maniera sistematica presso il negozio di casalinghi del fratello, dove aveva svolto mansioni tutt'altro che occasionali (sistemazione delle merci negli scaffali, vigilanza contro i furti, assistenza ai clienti). In relazione a questi fatti, la Corte evidenzia che le sentenze di merito hanno correttamente ritenuto incompatibili le attività svolte con le patologie denunciare.
È interessante notare che la sentenza evidenzia che l'onere della prova circa tale compatibilità avrebbe dovuto essere assolto dal lavoratore, e non dal datore di lavoro, che aveva solo il diverso onere -nel caso, ampiamente assolto- di provare che era stata svolta attività lavorativa in favore di terzi durante la malattia. Sulla base di queste valutazioni, la Corte esclude che l'ernia discale fosse compatibile con l'attività di riparazione di elettrodomestici, ma anche che l'attività di sorveglianza contro i furti potesse conciliarsi con la denunciata depressione, in quanto questo compito richiede una focalizzazione costante dell'attenzione e un contatto anche conflittuale con la clientela
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2014).

ATTI AMMINISTRATIVIL'art. 24 l. 07.08.1990, n. 241, nella parte in cui esclude il diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano, va interpretato nel senso che la inaccessibilità agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla fase di mera “pendenza” del procedimento tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta.
Conseguentemente, devesi riconoscersi il diritto di accesso qualora l'amministrazione abbia concluso il procedimento con l'emanazione del provvedimento finale e, quindi, in via generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
---------------
L’interesse del contribuente alla ostensione degli atti propedeutici a procedure di riscossione è riconosciuto anche in via legislativa, mediante la previsione di obblighi in capo al concessionario alla riscossione.
Invero, l’art. 26 d.P.R. 29.09.1973, n. 602, in tema di riscossione delle imposte sul reddito, recita: "Il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o l'avviso del ricevimento ed ha l'obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell'amministrazione".
In particolare, il suddetto articolo ha introdotto due obblighi per la società concessionaria: a) la conservazione per cinque anni e b) l'obbligo di esibizione a richiesta del contribuente.
Ne consegue che, in relazione alla cartella esattoriale, la richiesta di accesso, ai sensi degli artt. 22 ss., l. 07.08.1990, n. 241, si pone come strumentale rispetto alla tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme consentite dall'ordinamento giuridico ritenute più rispondenti ed opportune.
Diversamente opinando, si finirebbe con l’introdurre una ingiustificata limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del contribuente, rendendo, comunque, estremamente difficoltosa la tutela giurisdizionale, che dovrebbe impegnarsi in una defatigante ricerca delle copie delle cartelle.
---------------
Quanto alla sussistenza del diritto di accedere alle cartelle di pagamento, benché al contribuente siano state fornite copie degli estratti di ruolo correlativi alle cartelle de quibus, si rileva che il Consiglio di Stato ha chiarito, con riferimento al già più volte citato art. 26, comma 4, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602, come con esso il legislatore abbia individuato direttamente un obbligo di custodia degli atti ed un dovere di ostensione su mera richiesta del contribuente.
Le disposizioni sul diritto di accesso risultano pertanto di maggiore definizione e speciali rispetto alla disciplina generale del procedimento amministrativo in quanto, in questo caso, la valutazione sulla sussistenza di un interesse all'esibizione è fatta direttamente dalla legge, e non va più svolta caso per caso. A maggior ragione, quindi, la richiesta del contribuente non può mai essere valutata sotto il profilo della meritevolezza soggettiva da parte del concessionario, obbligato ex lege alla custodia ed all'esibizione, senza che allo stesso residui alcun margine di scelta.
Ciò in quanto “la copia della cartella di pagamento ex se costituisc(e) strumento utile alla tutela giurisdizionale delle ragioni della ricorrente e che la concessionaria non ha quindi alcuna legittimazione a sindacare le scelte difensive eventualmente operate dal privato”.
Va infatti sottolineato come la cartella di pagamento, ossia l'atto di cui il ricorrente ha chiesto l'ostensione, ed il documento ricevuto, intestato "estratto cartella" e stampigliato come "copia conforme dell'estratto di ruolo", siano documenti diversi. In particolare, la cartella esattoriale è prevista dall'art. 25 del d.P.R. 29.09.1973, n. 602 quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli e deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle Finanze (attualmente con modello approvato dall'Agenzia delle Entrate). Il documento ricevuto dal ricorrente è invece un elaborato informatico formato dall'esattore, sebbene sostanzialmente contenente gli stessi elementi della cartella originale.
La differenza ontologica tra i due documenti non può però essere superata dall'omogeneità contenutistica, omogeneità che peraltro non è stata messa in dubbio dalle parti. La ragione per cui non è permesso all'amministrazione, ed al privato che esercita funzioni pubbliche, di sostituire arbitrariamente il documento richiesto con altro sebbene equipollente deriva espressamente dalla legge 07.08.1990, n. 241, che all'art. 22, lett. d), fornisce la nozione di documento amministrativo e nello stesso contesto, alla lett. a) precisa come il diritto di accesso sia "il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi", ossia un diritto di acquisizione di quegli stessi documenti o delle loro copie e non di succedanei.
In questa ottica, la giurisprudenza ha già evidenziato come elemento fondante dell'actio ad exhibendum sia la conformità del documento esibito al privato all'originale, non avendo neppure rilievo scusante l'esistenza per la pubblica amministrazione di impedimenti tecnici.
A maggior ragione, l'accesso documentale non può essere soddisfatto dall'esibizione di un documento che l'amministrazione, e non il privato ricorrente, giudica equipollente.

5.1. Secondo la giurisprudenza di questa Sezione (cfr., tra le molte, TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 10.07.2014, n. 1358), l'art. 24 l. 07.08.1990, n. 241, nella parte in cui esclude il diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano, va interpretato nel senso che la inaccessibilità agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla fase di mera “pendenza” del procedimento tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta.
Conseguentemente, devesi riconoscersi il diritto di accesso qualora l'amministrazione abbia concluso il procedimento con l'emanazione del provvedimento finale e, quindi, in via generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
Sotto altro aspetto, va evidenziato che l’interesse del contribuente alla ostensione degli atti propedeutici a procedure di riscossione è riconosciuto anche in via legislativa, mediante la previsione di obblighi in capo al concessionario alla riscossione.
Invero, l’art. 26 d.P.R. 29.09.1973, n. 602, in tema di riscossione delle imposte sul reddito, recita: "Il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o l'avviso del ricevimento ed ha l'obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell'amministrazione".
In particolare, il suddetto articolo ha introdotto due obblighi per la società concessionaria: a) la conservazione per cinque anni e b) l'obbligo di esibizione a richiesta del contribuente.
Ne consegue che, in relazione alla cartella esattoriale, la richiesta di accesso, ai sensi degli artt. 22 ss., l. 07.08.1990, n. 241, si pone come strumentale rispetto alla tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme consentite dall'ordinamento giuridico ritenute più rispondenti ed opportune.
Diversamente opinando, si finirebbe con l’introdurre una ingiustificata limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del contribuente, rendendo, comunque, estremamente difficoltosa la tutela giurisdizionale, che dovrebbe impegnarsi in una defatigante ricerca delle copie delle cartelle.
5.2. Quanto alla sussistenza del diritto di accedere alle cartelle di pagamento, benché al contribuente siano state fornite copie degli estratti di ruolo correlativi alle cartelle de quibus, si rileva che il Consiglio di Stato (da ultimo con la sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2014, n. 2422, in precedenza Cons. Stato Sez. IV, 30.11.2009, n. 7486) ha chiarito, con riferimento al già più volte citato art. 26, comma 4, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602, come con esso il legislatore abbia individuato direttamente un obbligo di custodia degli atti ed un dovere di ostensione su mera richiesta del contribuente.
Le disposizioni sul diritto di accesso risultano pertanto di maggiore definizione e speciali rispetto alla disciplina generale del procedimento amministrativo in quanto, in questo caso, la valutazione sulla sussistenza di un interesse all'esibizione è fatta direttamente dalla legge, e non va più svolta caso per caso. A maggior ragione, quindi, la richiesta del contribuente non può mai essere valutata sotto il profilo della meritevolezza soggettiva da parte del concessionario, obbligato ex lege alla custodia ed all'esibizione, senza che allo stesso residui alcun margine di scelta.
Ciò in quanto “la copia della cartella di pagamento ex se costituisc(e) strumento utile alla tutela giurisdizionale delle ragioni della ricorrente e che la concessionaria non ha quindi alcuna legittimazione a sindacare le scelte difensive eventualmente operate dal privato” (Cons. Stato Sez. IV, 30.11.2009, n. 7486).
Va infatti sottolineato come la cartella di pagamento, ossia l'atto di cui il ricorrente ha chiesto l'ostensione, ed il documento ricevuto, intestato "estratto cartella" e stampigliato come "copia conforme dell'estratto di ruolo", siano documenti diversi. In particolare, la cartella esattoriale è prevista dall'art. 25 del d.P.R. 29.09.1973, n. 602 quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli e deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle Finanze (attualmente con modello approvato dall'Agenzia delle Entrate). Il documento ricevuto dal ricorrente è invece un elaborato informatico formato dall'esattore, sebbene sostanzialmente contenente gli stessi elementi della cartella originale.
La differenza ontologica tra i due documenti non può però essere superata dall'omogeneità contenutistica, omogeneità che peraltro non è stata messa in dubbio dalle parti. La ragione per cui non è permesso all'amministrazione, ed al privato che esercita funzioni pubbliche, di sostituire arbitrariamente il documento richiesto con altro sebbene equipollente deriva espressamente dalla legge 07.08.1990, n. 241, che all'art. 22, lett. d), fornisce la nozione di documento amministrativo e nello stesso contesto, alla lett. a) precisa come il diritto di accesso sia "il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi", ossia un diritto di acquisizione di quegli stessi documenti o delle loro copie e non di succedanei.
In questa ottica, la giurisprudenza ha già evidenziato come elemento fondante dell'actio ad exhibendum sia la conformità del documento esibito al privato all'originale, non avendo neppure rilievo scusante l'esistenza per la pubblica amministrazione di impedimenti tecnici (Consiglio di Stato, sez. IV, 10.04.2009, n. 2243). A maggior ragione, l'accesso documentale non può essere soddisfatto dall'esibizione di un documento che l'amministrazione, e non il privato ricorrente, giudica equipollente (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.10.2014 n. 1607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimamente l'Amministrazione comunale ingiunge la rimozione di manufatto edilizio insistente su porzione di strada comunale onde rendere fruibile all'uso pubblico il tratto di strada secondo il percorso originario, laddove sia incontestata la natura demaniale della porzione di strada vicinale comunale sul cui sedime è stato realizzato il manufatto edilizio.
L'immanenza dei poteri di polizia demaniale esclude ogni rilevanza all'esistenza di tracciato alternativo e l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi e all'uso pubblico giustifica il provvedimento di rimozione, risultando irrilevante che, per effetto del medesimo provvedimento ripristinatorio, possa avvantaggiarsi terzo privato inciso da tracciato alternativo non conforme a quello originario realizzato proprio in relazione all'usurpazione della porzione della strada vicinale comunale che l'ha sottratta all'uso pubblico.

L'appello in epigrafe è destituito di fondamento giuridico e deve essere rigettato, con la conferma della sentenza gravata.
Infatti, incontestata la natura demaniale della porzione di strada vicinale comunale sul cui sedime è stato realizzato il corpo di fabbrica in ampliamento al preesistente fabbricato, l'immanenza dei poteri di polizia demaniale esclude ogni rilevanza all'esistenza di tracciato alternativo e l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi e all'uso pubblico giustifica il provvedimento impugnato in primo grado, risultando irrilevante che, per effetto del medesimo, possa avvantaggiarsi terzo privato inciso da tracciato alternativo non conforme a quello originario realizzato proprio in relazione all'usurpazione della porzione della strada vicinale comunale che l'ha sottratta all'uso pubblico (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2014 n. 4941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso prescritto stanato con Google maps. Una sentenza del Tar Toscana.
Non basta aver spianato o soltanto picchettato il terreno dove si vuole edificare l'opera per evitare la decadenza annuale dal permesso ottenuto dal comune: per interrompere la «prescrizione» del titolo abilitativo, infatti, serve un inizio dei lavori vero e proprio, cioè caratterizzato da interventi che denotano un «serio intento» di costruire. E l'amministrazione locale per «stanare» chi non ha cominciato in tempo i lavori assentiti ricorre alle immagini scaricate da Google Maps in modo da provare in modo certo l'intervenuta «prescrizione».

È quanto emerge dalla sentenza 03.10.2014 n. 1515 pubblicata dalla III Sez. del TAR Toscana.
Assunto infondato
Niente da fare per l'ex titolare dell'autorizzazione non sfruttata dopo che il comune ha dichiarato la decadenza per mancato tempestivo avvio dei lavori ai sensi dell'articolo 15 del Testo unico dell'edilizia. Non risultano sufficienti a evitare la «tagliola» dell'ente le mere «verifiche del caso», vale a dire un semplice picchettamento per determinare l'esatta posizione del capannone da realizzare.
In realtà dopo aver rimosso il terreno vengono fuori le rocce, e gli operai sono costretti a fermarsi: troppo presto per poter invocare un regolare inizio dei lavori in base all'articolo 15 del dpr 380/2001, che esclude la sussistenza di effetti interruttivi anche in caso di meri scavi di sondaggio. E altrettanto vale nell'ipotesi di livellamento. L'amministrazione locale porta in giudizio le foto tratte da Google Maps per dimostrare che nell'ottobre 2011 i lavori di cui al permesso di costruire in considerazione non erano ancora stati avviati. Ma prima ancora delle immagini scaricate dal popolare motore di ricerca pesa l'infondatezza dell'assunto del titolare del permesso.
Decorso oggettivo
Inutile invocare il maltempo in Maremma che avrebbe bloccato i lavori. La forza maggiore non può comportare una sospensione legale del termine di inizio e ultimazione dei lavori, al massimo può legittimare una richiesta di proroga da parte dell'interessato: sarà l'ufficio a valutare poi i fatti rappresentati.
Insomma: la decadenza si verifica per l'oggettivo decorso del termine quando il cittadino non presenta un'istanza tempestiva. Nulla per le spese (articolo ItaliaOggi del 09.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che per aversi “inizio dei lavori”, tale da escludere la pronuncia di decadenza nel termine annuale dal rilascio del permesso di costruire, occorre aver dato avvio ad opere che denotino un <serio intento costruttivo>, sicché sono inidonei a configurare un effettivo “inizio dei lavori” il mero spianamento del terreno o meri scavi di sondaggio o anche la “mera picchettatura” del terreno interessato dalla costruzione e il suo livellamento.
---------------
La presenza di elementi di “forza maggiore” che avrebbero impedito l’avvio tempestivo dei lavori nei termini di legge non può comportare una sospensione legale del termine di inizio e ultimazione dei lavori, semmai potendo legittimare una richiesta di proroga da parte dell'interessato all’Amministrazione, cui seguirà una valutazione dei fatti rappresentati da parte dell’ufficio pubblico competente.
Ne segue che la decadenza si verifica invece per l'oggettivo decorso del termine quando, come nel caso in esame, l'interessato non abbia presentato una tempestiva istanza di proroga del termine rappresentato all’Amministrazione l’essersi verificati fatti oggettivamente impeditivi all’avvio dei lavori.

6 – Con il primo mezzo parte ricorrente evidenzia che non sussisterebbero nella specie i presupposti per la declaratoria di decadenza del permesso di costruire, avendo essa avviato l’inizio dei lavori nel termine annuale, da computarsi dalla data di ritiro del permesso di costruire, e contestando parte ricorrente gli accertamenti svolti dall’Amministrazione e i profili probatori sui quali la parte pubblica fonda il proprio assunto di mancato avvio dei lavoro nell’anno (in particolare le fotografie tratte da Google Maps).
La censure è infondata.
Rileva il Collegio che non vi è neppure necessità di affrontare la questione, sulla quale la ricorrente si diffonde, relativa alla idoneità delle fotografie tratte da Internet a dimostrare che nell’ottobre 2011 i lavori di cui al permesso di costruire in considerazione non sarebbero ancora stati avviati; infatti tale questione è superata dalla infondatezza dell’assunto stesso di parte ricorrente secondo cui l’avvio di esecuzione che essa avrebbe posto in essere nei primi giorni di gennaio 2011 sarebbe idoneo ad escludere la pronuncia di decadenza; infatti parte ricorrente afferma di aver posto in essere in quel periodo “i primi lavori necessari, ovvero il picchettamento per determinare l’esatta posizione del nuovo capannone”, aggiungendo che “si evidenziava quasi subito, tolto il primo strato terroso, che vi era stata una sottovalutazione di quello pietroso inferiore”, affermando quindi il compimento di operazioni che, alla luce delle costante elaborazione giurisprudenziale, non risultano sufficienti a integrare “l’inizio dei lavori” di cui alla’art. 15 del DPR n. 380 del 2001.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che per aversi “inizio dei lavori”, tale da escludere la pronuncia di decadenza nel termine annuale dal rilascio del permesso di costruire, occorre aver dato avvio ad opere che denotino un <serio intento costruttivo>, sicché sono inidonei a configurare un effettivo “inizio dei lavori” il mero spianamento del terreno o meri scavi di sondaggio o anche la “mera picchettatura” del terreno interessato dalla costruzione e il suo livellamento (TAR Torino, sez. 1^, 03.01.2014, n. 2), che è quanto la ricorrente afferma di aver effettuato nella specie.
7 – Con il secondo mezzo parte ricorrente evidenzia le avversità che le hanno impedito di procedere più speditamente all’avvio dei lavori, come il rinvenimento di strati pietrosi o la pessima situazione metereologica che ha interessato la Maremma.
La censura è infondata.
Nella sostanza la ricorrente invoca la presenza di elementi di “forza maggiore” che le avrebbero impedito l’avvio tempestivo dei lavori. Osserva tuttavia il Collegio che la forza maggiore non può comportare una sospensione legale del termine di inizio e ultimazione dei lavori, semmai potendo legittimare una richiesta di proroga da parte dell'interessato all’Amministrazione, cui seguirà una valutazione dei fatti rappresentati da parte dell’ufficio pubblico competente; ne segue che la decadenza si verifica invece per l'oggettivo decorso del termine quando, come nel caso in esame, l'interessato non abbia presentato una tempestiva istanza di proroga del termine rappresentato all’Amministrazione l’essersi verificati fatti oggettivamente impeditivi all’avvio dei lavori (Cons. St., sez. 3^, 03.04.2013, n. 1870).
8 – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 03.10.2014 n. 1515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. L'installazione di canna fumaria a servizio di attività di ristorazione va ricondotto nel novero dei lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, e, dunque, soggetto al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. n. 380/2001 laddove comporti una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce.
2. In tema di installazione di canne fumarie, è necessario il previo rilascio del permesso di costruire, qualora esse non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile, e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile.

Osserva il Collegio che l'intervento in esame deve ritenersi riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, e, dunque, soggetto al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce, peraltro riscontrabile dalle riproduzioni fotografiche in atti.
Occorre inoltre sul punto ricordare che, nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha ravvisato la necessità del previo rilascio del permesso di costruire, qualora esse non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile, e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile.
Nel caso di specie, dalle riproduzioni fotografiche depositate in atti, la canna fumaria installata sull'edificio in esame per dimensioni, altezza, relativa conformazione, risulta incidere notevolmente sul prospetto e la sagoma della costruzione su cui è installata.
D’altro canto non risulta dagli atti la prova che la canna fumaria in questione abbia sostituito –come sostiene il ricorrente- una canna fumaria precedente (della cui esistenza il ricorrente fa unicamente cenno nel ricorso, ma non nella domanda di condono), né risultano le dimensioni e la precisa localizzazione di quest’ultima.
In ogni caso, anche se se si trattasse effettivamente di sostituzione di una canna fumaria avente le stesse dimensioni e identica localizzazione rispetto alla precedente, l’intervento andrebbe considerato di manutenzione straordinaria, soggetto comunque anch’esso a sanatoria, come dispone l’allegato 1 del d.l. 269/2003 (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 02.10.2014 n. 10134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualora una variante urbanistica riguardi beni specifici ed incida direttamente su determinati soggetti, come nel caso di specie, essa ha carattere particolare, così che la pubblica amministrazione ha l'obbligo di notificare direttamente agli interessati il provvedimento e solo da tale adempimento decorre il termine di impugnazione e non dal perfezionamento della fase di pubblicazione degli atti.
E’ infondata anche l'eccezione di tardività del ricorso NRG. 1551 del 1998, con cui le ricorrenti hanno impugnato in primo grado la delibera di Giunta regionale n. 2759 del 27.05.1987, per essere stato lo stesso proposto soltanto l'08.04.1998, ben oltre il termine di sessanta giorni decorrente dall'avvenuta pubblicazione sul bollettino ufficiale regionale.
Precisato che con il predetto ricorso era stata impugnata in parte qua la delibera di approvazione della variante al piano regolatore generale recante la ritipizzazione di alcun aree, tra cui quelle sulle quali era stato assentito l'intervento edilizio di cui alla concessione edilizia n. 255 del 18.11.1991, occorre rilevare che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualora una variante urbanistica riguardi beni specifici ed incida direttamente su determinati soggetti, come nel caso di specie, essa ha carattere particolare, così che la pubblica amministrazione ha l'obbligo di notificare direttamente agli interessati il provvedimento e solo da tale adempimento decorre il termine di impugnazione e non dal perfezionamento della fase di pubblicazione degli atti (Cons. St., sez, VI, 03.03.2014, n. 595; 15.12.2009, n. 7963; sez. IV, 22.08.2013, n. 4243; 15.02.2013, n. 922)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4933 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La concessione edilizia in deroga, com'è noto, si differenzia radicalmente, sia dal punto di vista procedimentale che da quello sostanziale, rispetto alla ordinaria concessione edilizia, che consente all'Amministrazione di esercitare un potere ampiamente discrezionale per perseguire un interesse pubblico ritenuto preminente, consistente nella disapplicazione di una norma a una fattispecie concreta, che pure presenta tutti gli elementi per essere assoggettata alla disciplina da essa dettata e che, costituendo una vera decisione urbanistica rientra nella competenza esclusiva del Consiglio comunale.
Devono essere innanzitutto respinte le censure sollevate con i motivi aggiunti notificati il 13.12.2014, puntualmente riproposti con l'appello principale, concernenti l'asserita illegittimità della concessione edilizia n. 255 del 18.11.1991 rilasciata alla società Sud Costruzioni s.r.l. e della successiva concessione -per variante in corso d’opera ed intestazione– n. 88 del 29.01.1993, rilasciata alla società Rubino G. & P. s.n.c., per la mancata approvazione del progetto delle realizzande residenze universitarie da parte del Consiglio Comunale di Bari e per la mancata predisposizione e approvazione della convenzione per il corretto utilizzo delle stesse.
Invero, ancorché la concessione edilizia n. 255 del 18.11.1991 (e la successiva n. 88 del 29.01.1993) riguardi la realizzazione di un edificio di interesse pubblico, tali potendo essere qualificate le residenze universitarie, non può tuttavia negarsi che né nella richiesta di rilascio della concessione, né in quest'ultima (e nella successiva variante) si riscontra un sia pur minimo accenno alla circostanza che si tratti di una concessione edilizia in deroga, che, com'è noto, si differenzia radicalmente, sia dal punto di vista procedimentale che da quello sostanziale, rispetto alla ordinaria concessione edilizia, che consente all'Amministrazione di esercitare un potere ampiamente discrezionale per perseguire un interesse pubblico ritenuto preminente, consistente nella disapplicazione di una norma a una fattispecie concreta, che pure presenta tutti gli elementi per essere assoggettata alla disciplina da essa dettata (Cons. St, sez.. IV, 23.07.2009, n. 4664) e che, costituendo una vera decisione urbanistica rientra nella competenza esclusiva del Consiglio comunale
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4933 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Se è vero che le scelte urbanistiche in ordine alla zonizzazione del territorio costituiscono tipica espressione del potere discrezionale di cui è titolare l’amministrazione per il corretto uso del territorio che non necessita di altra motivazione, al di là del richiamo ai criteri tecnico–urbanistici seguiti nell’impostazione del piano e rinvenibili nella relazione di accompagnamento al piano regolamento generale, d’altra parte un preciso onere di motivazione si impone quando le scelte urbanistiche diano vita ad una variante specifica riguardanti beni specifici ed incidano quindi su posizioni giuridicamente differenziare ovvero.
Sussiste infatti il dedotto difetto di motivazione dell’impugnata variante, dovendo al riguardo rilevarsi che se è vero che le scelte urbanistiche in ordine alla zonizzazione del territorio costituiscono tipica espressione del potere discrezionale di cui è titolare l’amministrazione per il corretto uso del territorio che non necessita di altra motivazione, al di là del richiamo ai criteri tecnico–urbanistici seguiti nell’impostazione del piano e rinvenibili nella relazione di accompagnamento al piano regolamento generale, d’altra parte un preciso onere di motivazione si impone quando le scelte urbanistiche diano vita ad una variante specifica riguardanti beni specifici ed incidano quindi su posizioni giuridicamente differenziare ovvero (ex multis, Cons. St., sez. IV, 24.01.2013, n 431; 04.06.2013, n. 3055)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4933 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTAZIONE: Appalti, conta la data di pubblicazione del bando.
Nelle gare di appalto pubbliche la verifica sui cinque anni di abilitazione del giovane professionista va effettuata rispetto alla data di pubblicazione del bando e non alla scadenza del termine di presentazione delle offerte.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 02.10.2014 n. 4929 prendendo in esame, per un appalto integrato, un'eccezione sui requisiti soggettivi del cosiddetto «giovane professionista» che deve essere sempre presente nei raggruppamenti temporanei di progettisti.
Al riguardo l'art. 90, comma 7, del codice dei contratti pubblici si limita a rinviare al regolamento attuativo (dpr 207/2010) e quest'ultimo (art. 253, comma 5) stabilisce che occorre garantire nel raggruppamento temporaneo la «presenza di un professionista, abilitato all'esercizio della professione da meno di cinque anni» che dovrà svolgere la funzione di «progettista».
Nel caso di specie il professionista indicato risultava iscritto all'albo degli ingegneri, alla data di scadenza della presentazione delle offerte, da più di cinque anni (e quindi da più di cinque anni abilitato). I giudici, chiamati a chiarire a quale termine si dovesse fare riferimento per verificare la scadenza dei cinque anni, in assenza di indicazioni né nel codice, né nel citato articolo 253, richiamano quanto previsto nell'allegato L del dpr 207 per sostenere che la verifica va effettuata al momento della pubblicazione del bando di gara.
Infatti l'allegato al regolamento afferma che per tutti i concorrenti il punteggio è incrementato del 5% qualora sia presente quale progettista nel candidato almeno un professionista che, alla data di pubblicazione del bando di cui all'articolo 264, abbia ottenuto l'abilitazione all'esercizio professionale da non più di cinque anni.
Per i giudici, quindi, la previsione regolamentare, nell'indicare quale termine non quello di scadenza per la presentazione delle offerte, ma quello della data di pubblicazione del bando, risponde a una logica di ampliamento del bacino di soggetti che possono utilizzare il giovane professionista e così facendo incrementa le possibilità di partecipazione a favore dei giovani professionisti «rispetto a un lasso temporale di cinque anni, che appare abbastanza ristretto» (articolo ItaliaOggi del 09.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione e rimozione di abusi edilizi (oltre che di rimessione in pristino dello stato dei luoghi), costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall'accertamento della relativa realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie d'illecito previste dalla legge, che esclude la necessità di una sua particolare motivazione (essendo in tal senso sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata), né una previa espressa comparazione tra l'interesse pubblico alla rimozione dell'opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione.
Il carattere vincolato dell’ordinanza impugnata rispetto al diniego di sanatoria rende priva di fondamento giuridico anche la censura con cui è stata lamentata la mancata acquisizione, ai fini dell’emanazione dell’ordinanza impugnata, del nuovo ed ulteriore parere della commissione edilizia comunale, trattandosi di un’attività procedimentale inutile ed irrilevante.

Per di più, va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’ordinanza di demolizione e rimozione di abusi edilizi (oltre che di rimessione in pristino dello stato dei luoghi), costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall'accertamento della relativa realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie d'illecito previste dalla legge, che esclude la necessità di una sua particolare motivazione (essendo in tal senso sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata), né una previa espressa comparazione tra l'interesse pubblico alla rimozione dell'opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione (ex multis, Cons. St., sez. V, 13.03.2014, n. 1230; 30.06.2014, n. 3282; sez. IV, 28.04.2014, n. 2194; sez. VI, 11.11.2013, n. 5368; 11.12.2013, n. 5943).
Il carattere vincolato dell’ordinanza impugnata rispetto al diniego di sanatoria rende priva di fondamento giuridico anche la censura con cui è stata lamentata la mancata acquisizione, ai fini dell’emanazione dell’ordinanza impugnata, del nuovo ed ulteriore parere della commissione edilizia comunale, trattandosi di un’attività procedimentale inutile ed irrilevante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4926 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Il principio delle certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati deve far ritenere che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio nella perdurante incertezza circa la sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo nell'impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (nel caso di specie i vicini confinanti) si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori, che ex post potrebbero essere dichiarati illegittimi.
2. Il principio della certezza delle situazioni giuridiche è posto a tutela di tutte le parti, direttamente o indirettamente interessate al provvedimento, ivi compreso, naturalmente, anche l’interesse del soggetto titolare del permesso di costruire, eventualmente illegittimo, a non realizzare affatto una costruzione che sia suscettibile di un futuro abbattimento.
3. Qualora sia oggetto di contestazione la stessa astratta possibilità di edificare in un certo terreno la mera conoscenza dell'iniziativa in corso appare elemento sufficiente ed essenziale ai fini dell'identificazione del dies a quo per l'impugnazione.
4. Chi assume essere intervenuta violazione di un vincolo di inedificabilità ha il preciso dovere di tutelare senza indugio i propri interessi legittimi, né è a tal fine indispensabile, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, che sia necessaria la conoscenza di tutti gli elementi del permesso di costruire, essendo sufficiente che sia nota l'esistenza e la lesività del titolo, dato che resta sempre salva la possibilità di proporre motivi aggiunti, qualora dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità.
5. Se il principio cardine cui ancorare la conoscenza piena è da individuarsi nell' ultimazione dei lavori, è anche vero che questo principio non può essere invocato da chi assume che l'intervento edilizio sia ex se lesivo, in relazione alla presenza di vincoli (anche distanze), in quanto in tal caso la lesività è immediatamente percepibile all'atto dell'inizio delle attività di cantiere.
6. Allorquando il proprietario di fondo confinante con area interessata da intervento edilizio censuri, dinanzi al GA, titoli edilizi per violazione delle prescrizioni generali in materia di distanze di cui al D.M. 1444/1968, va tenuto conto -al fine di vagliare la tempestività del ricorso in sede giurisdizionale- della specificità delle suddette censure, che attengono a profili di illegittimità suscettibili di apprezzamento in ragione del mero inizio dell’attività costruttiva. In tale ipotesi è tardivamente proposto il ricorso in sede giurisdizionale, laddove risulti attestato da verbale di sopralluogo di Polizia Municipale che, ben oltre 60 giorni prima dalla proposizione del ricorso, erano già state erette le mura perimetrali del contestato edificio, per cui, anche se i lavori non risultavano ancora ultimati, era di facile rilevazione la difformità dell'opera dai limiti sulle distanze tra edifici invocati dal ricorrente.

L'appello è infondato e va respinto.
Appare utile esaminare, preliminarmente, il primo motivo di censura, con il quale gli appellanti lamentano l'erroneità della sentenza del TAR Veneto, laddove il tribunale ha ritenuto irricevibile il ricorso in primo grado per tardività, deducendo essi, che il verbale della polizia municipale non sarebbe elemento sufficiente a provare la piena conoscenza, fin dal febbraio 2002, da parte dei proprietari degli immobili siti nei fondi finitimi, dell'avanzato stato di realizzazione dell'opera e dunque della lesività della concessione edilizia rilasciata alla società Perale Edilizia s.r.l..
Orbene, la censura non può trovare accoglimento, atteso che, come evidenziato dal TAR, i provvedimenti dell'amministrazione originariamente censurati, attengono "alla violazione delle prescrizioni generali in materia di distanze di cui al D.M. 1444/1968 ed alla L.R. n. 61/1985, art. 23”. Se si tiene conto della specificità delle suddette censure, che attengono a profili di illegittimità suscettibili di apprezzamento in ragione del mero inizio dell’attività costruttiva, il ricorso e i motivi aggiunti appaiono tardivamente proposti, in quanto, così come risulta attestato dal verbale di sopralluogo dei VV.UU. del 01.02.2002, a tale epoca risultavano già erette le mura perimetrali del piano terra e del primo piano, per cui, anche se i lavori non risultavano ancora ultimati, era di facile rilevazione la difformità dell'opera dai limiti sulle distanze tra edifici invocati dai ricorrenti".
Al riguardo, questo Consiglio di Stato ha costantemente affermato che il principio delle certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati, deve far ritenere che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio nella perdurante incertezza circa la sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo nell'impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (nel caso di specie i vicini confinanti) si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori, che ex post potrebbero essere dichiarati illegittimi.
Il principio della certezza delle situazioni giuridiche è, infatti, posto a tutela di tutte le parti,direttamente o indirettamente interessate al provvedimento, ivi compreso, naturalmente, anche l’interesse del soggetto titolare del permesso di costruire, eventualmente illegittimo, a non realizzare affatto una costruzione che sia suscettibile di un futuro abbattimento.
Conseguentemente, qualora sia oggetto di contestazione la stessa astratta possibilità di edificare in un certo terreno, e non solo, come nel caso di specie, le distanze tra edifici, la mera conoscenza dell'iniziativa in corso appare elemento sufficiente ed essenziale ai fini dell'identificazione del dies a quo per l'impugnazione.
Pertanto, chi assume essere intervenuta violazione di un vincolo di inedificabilità, specie se di contenuto parziale, ha il preciso dovere di tutelare senza indugio i propri interessi legittimi, né è a tal fine indispensabile, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, che sia necessaria la conoscenza di tutti gli elementi del permesso di costruire, essendo sufficiente che sia nota l'esistenza e la lesività del titolo, dato che resta sempre salva la possibilità di proporre motivi aggiunti, qualora dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità (cfr. Consiglio di Stato, sez, V, 12.07.2010, n. 4482).
In definitiva, se il principio cardine cui ancorare la conoscenza piena è da individuarsi nell' ultimazione dei lavori, è anche vero che questo principio non può essere invocato da chi assume che l'intervento edilizio sia ex se lesivo, in relazione alla presenza di vincoli (anche distanze), in quanto in tal caso la lesività è immediatamente percepibile all'atto dell'inizio delle attività di cantiere.
Nel caso in esame, un ritardo di diversi mesi dal giorno in cui (01.02.2002) veniva accertata l'esecuzione di lavori non assentiti, certamente già da tempo in corso, non può essere considerato un comportamento diligente.
La parte ricorrente in primo grado ha evidentemente fatto luogo ad attività alquanto dilatorie, mentre avrebbe dovuto senz'altro attivarsi tempestivamente.
In definitiva, si deve concludere che il ricorso in primo grado è stato tardivamente notificato il 07.06.2002, in quanto l'asserita illegittimità dell'attività costruttiva era immediatamente percepibile dagli appellanti fin dal momento in cui i lavori del rustico erano stati completati (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4901 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ruderi da ricostruire: non bastano le tracce. Cassazione. Circoscritto il Dl del fare.
Più difficile ricostruire ruderi, se mancano segni concreti della preesistenza
: lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con sentenza 30.09.2014 n. 40342.
La questione si è posta all'indomani dell'entrata in vigore del "decreto del fare" (69/2013). L'articolo 30, modificando l'articolo 3 del Tu edilizia 380/2001, colloca le ricostruzioni tra gli interventi di ristrutturazione edilizia, sottraendoli alla più complessa ristrutturazione urbanistica. La norma del 2013 richiede, per ricostruire, una generica possibilità di accertare la preesistente consistenza: basterebbero, quindi, generici rilievi desunti da quelli depositati presso uffici pubblici (catasto) o addirittura le fotografie da album personali, per poter dimostrare una preesistenza e quindi ripristinare superfici e volumi.
Ciò ha reso di colpo appetibili tutte le aree con ruderi, spesso testimonianze di manufatti un tempo particolarmente consistenti. L'unico limite starebbe nei vincoli ambientali paesaggistici, ma per le zone non vincolante, un rudere poteva diventare l'inizio di una ritrovata edificabilità.
Ora la Cassazione adotta un'interpretazione restrittiva, esigendo la presenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), in modo che possa essere determinata la volumetria, ovvero che essa possa essere oggettivamente desunta da apposita documentazione storica o attraverso una verifica dimensionale sul luogo.
In precedenza, si richiedeva che il rudere consentisse l'individuazione dei connotati essenziali di un edificio, senza che fosse necessario dimostrarne l'abitazione: è stata così ritenuta sufficiente un'immagine desunta da Google maps (Tar Catanzaro 443/2014), oppure la riconoscibilità dell'originaria area attraverso residui e segmenti consistenti del muro perimetrale (Consiglio di Stato 735/2014).
Non bastano quindi «poche pietre in un declivio erboso» (Tribunale di Trento 306/2013), e nemmeno può recuperarsi ciò che era stato demolito cinquant'anni prima (Consiglio giustizia amministrativa 1200/2010). Non ci sono invece problemi se sono crollati il tetto e uno o più solari: la ricostruzione in questi casi deve rispettare la sagoma dell'edificio preesistente. Sagoma che tuttavia può contenere una maggiore superficie rispetto a quella del passato
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2014).

PATRIMONIO: E' illegittimo il Regolamento comunale di Polizia mortuaria laddove riserva al comune stesso l’attività di fornitura e posa delle lastre di chiusura di colombari e cellette, dei relativi arredi votivi e decorazioni funebri.
La disciplina comunitaria in materia di rapporto tra libero mercato e disciplina dei servizi di interesse economico generale, prevede che l’amministrazione possa concedere diritti esclusivi ad un’impresa pubblica o privata soltanto qualora il libero confronto concorrenziale sia di ostacolo alla missione affidata a tale impresa.
Nel caso di specie, al di là della questione se i lavori oggetto di appalto siano da considerarsi resi all’interno di un disegno complessivo di servizio pubblico, il comune ha ritenuto di “chiudere” il mercato, seppure all’esito di una gara ad evidenza pubblica, per motivazioni di natura estetica, oltre che per tutelare un’esigenza di risparmio nei costi di sepoltura.
Tuttavia, la rimozione di manufatti lapidei, le incisioni e forniture di arredi e lastre per colombari e cellette, nonché le conseguenti riparazioni manutentive, non appaiono configurarsi alla stregua di lavori che debbano per loro natura essere svolti da un unico soggetto in esclusiva.
Invero, da un lato, le ragioni di uniformità estetiche possono essere perseguite tramite l’imposizione di prescrizioni all’atto del rilascio delle singole autorizzazioni, dall’altro, non è affatto scontato, né è stato nel caso di specie dimostrato, che la tariffa praticata dall’unico concessionario determini un risparmio di spesa rispetto alle tariffe che applicherebbero soggetti operanti in concorrenza tra di loro. Appare anzi vero il contrario, salvo non voler contestare in radice le ragioni fondanti l’istituzione del libero mercato, tra cui, per l’appunto, quella di garantire, in regime di normalità, un abbassamento dei prezzi tramite il gioco della concorrenza.
Non sussistendo dunque nel caso in esame alcuna ragionevole motivazione tale da indurre il comune alla chiusura del mercato, gli atti di gara descritti in epigrafe vanno annullati, in conseguenza della illegittimità dei commi 3 e 4 dell’art. 70 del regolamento di Polizia mortuaria del comune, nella parte in cui riservano al comune stesso l’attività di fornitura e posa delle lastre di chiusura di colombari e cellette, dei relativi arredi votivi e decorazioni funebri.

Venendo infine al nucleo centrale delle contestazioni dedotte nel ricorso (primo motivo), la società Fratelli Ferrario sostiene che in ambito cimiteriale la normativa di riferimento riserverebbe alla cura del soggetto pubblico unicamente le funzioni preordinate alla tutela di esigenze pubblicistiche di carattere igienico-sanitario, di sicurezza e di ordine pubblico legare alla sepoltura e al culto dei defunti, e che esulerebbe da tale riserva la fornitura e posa in opera di arredi funebri, trattandosi di attività commerciali e imprenditoriali integralmente sottoposte al regime di libera commerciale.
Deduce, altresì, la ricorrente, che non sono oggetto di impugnazione, nel presente giudizio, le previsioni del regolamento comunale di polizia mortuaria del comune di Busto Arsizio afferenti alla caratteristiche morfologiche ed estetiche delle lastre, bensì le previsioni che configurano una riserva esclusiva all’amministrazione per la fornitura e la posa degli stessi.
Dal canto loro, Agesp Servizi S.r.l. e l’amministrazione resistente hanno dedotto che le uniche opere riservate al comune sarebbero le lastre di chiusura di colombari e cellette, e che ciò sarebbe necessario per specifiche e comprensibili ragioni di uniformazione estetica, oltre che per tutelare un’esigenza di risparmio nei costi di sepoltura.
Ad ogni modo, secondo le resistenti, la concessione del servizio sarebbe avvenuta a seguito di gara finalizzata “a compulsare il mercato alla ricerca delle migliori condizioni che questo è in grado di esprimere in un determinato contesto territoriale e momento storico”.
Ritiene il Collegio che la tesi della ricorrente sia fondata.
La disciplina comunitaria in materia di rapporto tra libero mercato e disciplina dei servizi di interesse economico generale, prevede che l’amministrazione possa concedere diritti esclusivi ad un’impresa pubblica o privata soltanto qualora il libero confronto concorrenziale sia di ostacolo alla missione affidata a tale impresa.
Nel caso di specie, al di là della questione se i lavori oggetto di appalto siano da considerarsi resi all’interno di un disegno complessivo di servizio pubblico, il comune di Busto Arsizio ha ritenuto di “chiudere” il mercato, seppure all’esito di una gara ad evidenza pubblica, per motivazioni di natura estetica, oltre che per tutelare un’esigenza di risparmio nei costi di sepoltura.
Tuttavia, la rimozione di manufatti lapidei, le incisioni e forniture di arredi e lastre per colombari e cellette, nonché le conseguenti riparazioni manutentive, non appaiono configurarsi alla stregua di lavori che debbano per loro natura essere svolti da un unico soggetto in esclusiva.
Invero, da un lato, le ragioni di uniformità estetiche possono essere perseguite tramite l’imposizione di prescrizioni all’atto del rilascio delle singole autorizzazioni, dall’altro, non è affatto scontato, né è stato nel caso di specie dimostrato, che la tariffa praticata dall’unico concessionario determini un risparmio di spesa rispetto alle tariffe che applicherebbero soggetti operanti in concorrenza tra di loro. Appare anzi vero il contrario, salvo non voler contestare in radice le ragioni fondanti l’istituzione del libero mercato, tra cui, per l’appunto, quella di garantire, in regime di normalità, un abbassamento dei prezzi tramite il gioco della concorrenza.
Non sussistendo dunque nel caso in esame alcuna ragionevole motivazione tale da indurre il comune alla chiusura del mercato, gli atti di gara descritti in epigrafe vanno annullati, in conseguenza della illegittimità dei commi 3 e 4 dell’art. 70 del regolamento di Polizia mortuaria del comune di Busto Arsizio, nella parte in cui riservano al comune stesso l’attività di fornitura e posa delle lastre di chiusura di colombari e cellette, dei relativi arredi votivi e decorazioni funebri (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 24.09.2014 n. 2378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuesto Tribunale ha precisato che la soprintendenza deve esprimere il proprio parere -in ordine ad una istanza di compatibilità paesaggistica- entro novanta giorni dalla ricezione degli atti, e qualora non provveda nel termine perentorio ad essa assegnato il parere non ha più portata obbligatoria e vincolante e l’amministrazione deve motivare autonomamente a prescindere dall’eventuale portata del parere tardivo.
---------------
È stato osservato che “la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica, non determina l'illegittimità del parere reso oltre il termine previsto. Semplicemente, quest'ultimo perde il carattere vincolante impresso dalla legge, proprio perché si colloca al di fuori del quadro normativo, ma costituisce sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione deve valutare, potendosene motivatamente discostare.
A tale conclusione porta:
a) la previsione di un termine espressamente definito come perentorio dalla norma e quindi il rilievo attribuito dalla legge all'intervento dell'atto nel termine prescritto;
b) l'assenza di una previsione analoga a quella dell'art. 146, nono comma, del d.lgs. n. 42 del 2004, che circoscrive il lasso di tempo oltre il quale l'amministrazione può procedere indipendentemente dall'apporto della Soprintendenza;
c) il rilievo che l'ordinamento attribuisce all'intervento consultivo nelle materie ambientale, paesistica-territoriale, della salute dei cittadini.
Il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell'azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli "enti o organi specifici" è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell'amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata, e senza la necessità di dover attendere un lasso di tempo determinato dopo lo scadere del termine assegnato dalla legge al Soprintendente”.

... per l'annullamento:
- dell'atto 04/04/2014 prot. n. 3 dell'U.T.C. del Comune di Otranto, con il quale il Responsabile del procedimento ha respinto l'istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica in sanatoria, ai sensi degli artt. 167 e 181 del D.Lgs. n. 42/2004, per la realizzazione di "ripari ombreggianti di facile rimozione e temporanei a servizio di un bar su suolo pubblico in concessione alla via Bastione dei Pelasgi";
- della nota 19/03/2014 prot. n. 4008 del MiBAC - Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Province di Lecce, Brindisi e Taranto, con la quale è stato espresso parere di non compatibilità paesaggistica delle strutture realizzate dalla società ricorrente;
- della nota 04/04/2014 prot., n. 3413 dell'U.T.C. del Comune di Otranto, ricevuta dalla società ricorrente in data 08/04/2014, con la quale il Responsabile del procedimento ha comunicato ed allegato il provvedimento di diniego;
- della nota 15/04/2014 prot. n. 3812 dell'U.T.C. del Comune di Otranto, con la quale il Responsabile dell'Area Tecnica ha comunicato l'avvio del procedimento ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990 per l'adozione dei provvedimenti definitivi relativi alla rimozione dei ripari ombreggianti di che trattasi;
- dell'ordinanza 27/5/2014 n. 257, notificata in data 06/06/2014, con cui il Responsabile dell'area Tecnica del Comune di Otranto ha ingiunto la rimozione, entro 20 gg., della struttura installata;
...
Il ricorso è fondato.
L’amministrazione ha negato l’autorizzazione paesaggistica ponendo a fondamento del proprio diniego il parere negativo della soprintendenza.
Questo Tribunale ha precisato che la soprintendenza deve esprimere il proprio parere entro novanta giorni dalla ricezione degli atti, e qualora non provveda nel termine perentorio a lei assegnato il parere non ha più portata obbligatoria e vincolante e l’amministrazione deve motivare autonomamente a prescindere dall’eventuale portata del parere tardivo (Tar Lecce, sez. I, 15.06.2011, n. 1069).
È stato osservato che “la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica, non determina l'illegittimità del parere reso oltre il termine previsto. Semplicemente, quest'ultimo perde il carattere vincolante impresso dalla legge, proprio perché si colloca al di fuori del quadro normativo, ma costituisce sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione deve valutare, potendosene motivatamente discostare.
A tale conclusione porta: a) la previsione di un termine espressamente definito come perentorio dalla norma e quindi il rilievo attribuito dalla legge all'intervento dell'atto nel termine prescritto; b) l'assenza di una previsione analoga a quella dell'art. 146,nono comma, del d.lgs. n. 42 del 2004, che circoscrive il lasso di tempo oltre il quale l'amministrazione può procedere indipendentemente dall'apporto della Soprintendenza; c) il rilievo che l'ordinamento attribuisce all'intervento consultivo nelle materie ambientale, paesistica-territoriale, della salute dei cittadini.
Il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell'azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli "enti o organi specifici" è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell'amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata, e senza la necessità di dover attendere un lasso di tempo determinato dopo lo scadere del termine assegnato dalla legge al Soprintendente
” (Tar Lecce, sez. I, 12.07.2013, n. 1681).
Nel caso in esame, risulta che la documentazione relativa all’intervento è pervenuta alla Soprintendenza il 01.10.2013 e che il parere negativo è del 19.03.2014 e quindi è stato messo oltre il termine di 90 giorni ex art. 167 d.lgs. 42/2004.
Pertanto, l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante (Cons. St., sez. VI, 15.03.2013 n. 1561).
In sostanza, il provvedimento impugnato è carente di motivazione, proprio perché si è limitato a richiamare il parere negativo della soprintendenza senza motivare adeguatamente
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.09.2014 n. 2375 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Il comune aumenta le tariffe? Può farlo, nessun diritto alla gratuità. Il Tar Piemonte ha assolto l'amministrazione di Torino.
I comuni sono liberi di chiedere agli utenti dei servizi di partecipare pro quota ai costi per l'erogazione dei suddetti i servizi. Pertanto, non esiste un diritto soggettivo in capo ai cittadini di ottenere quel servizio in forma gratuita. Inoltre, il meccanismo dell'Isee (indicatore della situazione economica equivalente) è adeguato per definire chi può e chi non può accedere in forma agevolata a tali servizi.

È questo il principio sancito dal TAR Piemonte, Sez. I, nella sentenza 31.07.2014 n. 1365.
Una sentenza che può essere letta come guida anche per altri casi, come quello di Roma, dove è scoppiata la protesta per gli aumenti dei costi degli asili.
Il ricorso era stato presentato da alcuni genitori nei confronti della determinazione del Comune di Torino che aveva stabilito gli indirizzi per l'esercizio 2013 del sistema tariffario dei servizi educativi, approvando così le quote e le tariffe per l'anno scolastico 2013/2014. I ricorrenti contestavano che il comune guidato da Piero Fassino, rispetto agli anni precedenti, avesse aumentato la quota a carico delle famiglie degli allievi, imputando tale aumento al sistema ISEE utilizzato. Di qui la richiesta di pronunciare la illegittimità dell'atto impugnato perché il servizio, a loro dire, avrebbe dovuto essere erogato gratuitamente.
Secondo il Tar, il servizio di refezione scolastica è un servizio pubblico locale a domanda individuale. Ne consegue che l'ente locale non ha l'obbligo né di istituire né di organizzare il servizio. Qualora lo istituisca, l'ente locale deve individuare il costo complessivo del servizio, includendo sia i costi diretti effettivamente pagati per la sua erogazione, sia quelli indiretti. Nel fare ciò il Comune deve definire la misura percentuale del costo finanziabile con risorse comunali e fissare la residua percentuale da finanziare con tariffe e contribuzioni a carico diretto dell'utenza. Pertanto, il Tar del Piemonte ha ritenuto legittime le scelte del Comune di Torino che ha agito nell'ambito dei propri poteri discrezionali.
Le tariffe del servizio di refezione scolastica non sono aumentate perché il Comune ha applicato automaticamente gli scaglioni ISEE, bensì perché il Comune ha deciso, motivatamente, di aumentare la percentuale di contribuzione dell'utenza sul costo complessivo del servizio stabilito per l'anno scolastico 2013-2014, così come la legge gli consentiva di fare (articolo ItaliaOggi del 07.10.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Compensi professionali per attività di progettazione – Convenzione che subordina il pagamento del compenso all’ottenimento della concessione edilizia – Condizione potestativa mista – Ritiro della domanda di concessione edilizia da parte del committente in pendenza della condizione – Recesso anticipato del committente dall’incarico professionale ex art. 2237 c.c. – Fictio iuris di avveramento della condizione – Artt. 1358 e 1359 c.c. – Diritto al compenso – Sussistenza.
Nell’ipotesi di convenzione che subordina il pagamento del compenso in favore del professionista per prestazioni di progettazione al rilascio della concessione edilizia deve ritenersi operante la fictio iuris di avveramento della condizione, ex art. 1359 c.c., qualora il committente provveda autonomamente al ritiro della domanda di concessione edilizia, dovendosi valutare l’esistenza di un interesse contrario all’avveramento della condizione (rilascio della concessione edilizia) in capo al committente non in termini astratti o facendo riferimento al solo momento della conclusione del contratto, ma valorizzando il dato dell’effettivo interesse delle parti all’epoca in cui si è verificato il fatto o comportamento che ha reso impossibile l’avveramento della condizione.
L'art. 1359 cod. civ., in forza del quale la condizione si ha per avverata se è mancata per causa imputabile alla parte controinteressata al suo avveramento, non si riferisce solo a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di chi in concreto ha dimostrato, con una successiva condotta, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, ponendo in essere atti tali da contribuire a far acquistare al contratto un elemento modificativo dell''iter' attuativo della sua efficacia. Detta norma è applicabile anche alla c.d. condizione potestativa mista, il cui avveramento dipende in parte dal caso e in parte dalla volontà di uno dei contraenti.
L'art. 1359 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui l'interesse di una delle parti -originariamente convergente con quello della controparte- si modifichi in corso di rapporto fino a risultare contrario all'avveramento della condizione, avuto anche riguardo alla previsione di cui all’art. 1358 c.c., che impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, e che va osservato anche con riguardo all’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista.
Non può negarsi che il ritiro di un'istanza di concessione edilizia sia chiaramente sintomatico del venir meno dell'interesse ad ottenerla da parte di chi tale istanza aveva presentato e deve ritenersi pertanto che integri un comportamento idoneo a configurare un'ipotesi di 'interesse contrario' comportante l'operatività della previsione dell'art. 1359 c.c..
L'art. 2237, 1° co. c.c. ('il cliente può recedere dal contratto, rimborsando al prestatore d'opera le spese sostenute e pagando il compenso per l'opera svolta'), bilanciando i contrapposti interessi tra le parti, riconosce al cliente un illimitato diritto di recesso, ma — al tempo stesso - garantisce al professionista il rimborso delle spese e il pagamento del compenso per le attività svolte fino al momento della revoca dell'incarico.
A fronte della revoca dell'incarico professionale (o recesso) da parte del committente, il professionista non ha di norma interesse a richiedere la risoluzione del contratto (già verificatasi per effetto del recesso) ed il conseguente risarcimento dei danni, ma può senz'altro agire per conseguire il pagamento delle spettanze maturate per l'attività svolta
(Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 18.07.2014 n. 16501 - massima tratta da www.diritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Aria. Legittimità ordinanza divieto di transito veicolare sulla piazza e sulla strada per contenimento dell’inquinamento atmosferico.
Le misure di regolazione, disciplina e controllo della circolazione stradale, che l'art. 7, d.lgs. 30.04.1992 n. 285, attribuisce al Sindaco, sono ormai rimesse, di norma, alla competenza della dirigenza amministrativa, salvo che per quelle di maggiore impatto sull'intera collettività locale, per le quali la legge prevede l'intervento di un organo politico, come nel caso della delimitazione delle aree pedonali e delle zone a traffico limitato, per la quale si provvede con deliberazione della Giunta (art. 7, comma 9, d.lgs. n. 285 del 1992), ovvero di quelle limitazioni connesse al rispetto dei limiti del tasso di inquinamento atmosferico.
Con il primo motivo viene dedotta l’incompetenza del dirigente responsabile del servizio ad adottare il provvedimento.
L’assunto è privo di pregio.
Le misure di regolazione, disciplina e controllo della circolazione stradale, che l'art. 7, d.lgs. 30.04.1992 n. 285, attribuisce al Sindaco, sono ormai rimesse, di norma, alla competenza della dirigenza amministrativa, salvo che per quelle di maggiore impatto sull'intera collettività locale, per le quali la legge prevede l'intervento di un organo politico, come nel caso della delimitazione delle aree pedonali e delle zone a traffico limitato, per la quale si provvede con deliberazione della Giunta (art. 7, comma 9, d.lgs. n. 285 del 1992), ovvero di quelle limitazioni connesse al rispetto dei limiti del tasso di inquinamento atmosferico (TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 28.02.2013, n. 458; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.06.2010, n. 15012; TAR Campania, Napoli, sez. I, 04.11.2008, n. 19212).
In ordine all’omessa indicazione del termine e dell’Autorità cui ricorrere, dedotta con il secondo motivo, è sufficiente rammentare il pacifico orientamento della giurisprudenza secondo cui detta omissione non determina l'illegittimità del provvedimento amministrativo, ma solo una mera irregolarità. La previsione dell'art. 3, comma 4, della l. n. 241 del 1990, infatti, tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, per cui la segnalata omissione potrebbe dar luogo, nel concorso di significative ulteriori circostanze, alla sola concessione del beneficio della rimessione in termini per proporre impugnazione (Cons. Stato, Sez. VI, 28.01.2014, n. 422; TAR Lazio, Latina, 17.02.2014, n. 138) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 16.06.2014 n. 1033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Traslazione edificio.
Secondo un costante e consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa la traslazione dell’edificio comporta che l’intervento di demolizione e ricostruzione non possa essere qualificato come ristrutturazione integrando, invece, una nuova costruzione.
Il ricorso è infondato.
Risulta dagli atti come i lavori di ristrutturazione eseguiti dal ricorrente sulla tettoia ne abbiano comportato la traslazione di circa un metro.
Secondo un costante e consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa la traslazione dell’edificio comporta che l’intervento di demolizione e ricostruzione non possa essere qualificato come ristrutturazione integrando, invece, una nuova costruzione (TAR, Lazio, Roma, I, 06/07/2012 n. 6176; TAR Lecce, 12/03/2012 n. 484; TAR L’Aquila, 14/12/2009 n. 548).
I lavori eseguiti, avendo posto in essere una struttura nuova, in alcun modo riconducibile a quella di cui era stata chiesta la sanatoria, non rientrano in nessuna delle tipologie ammesse dal regolamento edilizio del Comune di Firenze sugli immobili oggetto di domanda di condono.
Nulla si può, quindi, eccepire alla decisione del Comune di rigettare la domanda di sanatoria per essere venuto a mancare il manufatto a cui essa si riferiva.
Né può ritenersi che le autorizzazioni rilasciate dal Comune per l’esecuzione dei lavori di rifacimento della tettoria rendessero automatico l’accoglimento dell’istanza di sanatoria non potendo il suo esito prescindere dalla permanenza del manufatto da sanare.
Il ricorso deve, quindi, essere respinto (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.06.2014 n. 1024 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità ordinanza demolizione per scadenza autorizzazione temporanea per ricovero attrezzi.
L’avvenuta scadenza dell’autorizzazione ha sostanzialmente reso privo di titolo edilizio il manufatto, il quale è così divenuto abusivo, con la conseguenza che la contestata misura demolitoria è legittimata dall’art. 7 della legge n. 47/1985; non è invocabile al riguardo la disciplina in materia di autoannullamento della concessione edilizia, giacché nel caso in esame rileva un titolo inefficace in relazione alla permanenza dell’opera dopo il prestabilito termine.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce che l’opera non può ritenersi abusiva, in quanto a suo tempo assentita, sia pure in via provvisoria; aggiunge che la condonabilità delle opere realizzate in forza di concessione edilizia illegittima è subordinata all’annullamento in autotutela della concessione stessa e che la sopravvenuta previsione del PRG, consentendo la permanenza del manufatto, rende illegittima l’ordinanza di demolizione.
I rilievi non hanno pregio.
L’avvenuta scadenza dell’autorizzazione rilasciata il 02.12.1992 ha sostanzialmente reso privo di titolo edilizio il manufatto, il quale è così divenuto abusivo, con la conseguenza che la contestata misura demolitoria è legittimata dall’art. 7 della legge n. 47/1985 (TAR Piemonte, I, 25.03.1999, n. 177); non è invocabile al riguardo la disciplina in materia di autoannullamento della concessione edilizia, giacché nel caso in esame rileva un titolo inefficace in relazione alla permanenza dell’opera dopo il prestabilito termine del 31.05.1993 (TAR Piemonte, II, 15.04.2010, n. 1892; TAR Toscana, III, 25.10.2011, n. 1543) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 03.06.2014 n. 964 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Posatura fresato d’asfalto in area vincolata.
E’ legittimo l’ordine di demolizione, ex art. 27 del d.P.R. 380 del 2001, di opere realizzate abusivamente in area vincolata paesaggisticamente, consistenti in: posa a terra di fresatura, costituita da asfalto stradale, per una superficie di circa mq. 450, con realizzazione, al centro della suddetta area, di griglie contigue per la raccolta delle acque piovane.
Infatti, a nulla rilevando la sua mancata verticalizzazione, l’intervento abusivo, opera pacificamente una notevole trasformazione del territorio assoggettato a vincolo paesaggistico.

A mezzo del ricorso in esame, notificato il 10.10.2008 e depositato il successivo giorno 27 dello stesso mese, il sig. P.S., nella dichiarata qualità di usufruttuario dell’immobile sul quale sono state realizzate le opere come appresso sanzionate, si duole, in una a quelli presupposti, del provvedimento prot. n. 171 del 23.06.2008, notificato il successivo giorno 30 dello stesso mese, recante l’ordine di demolizione, di ufficio ex art. 27 del d.P.R. 380 del 2001, di opere realizzate abusivamente alla via Fondobosso del territorio comunale e così descritte nell’atto medesimo: “posa a terra di fresatura, costituita da asfalto stradale, per una superficie di circa mq. 450, con realizzazione, al centro della suddetta area, di griglie contigue per la raccolta delle acque piovane”.
...

4- Infondato è poi il secondo mezzo di impugnazione poiché:
- a differenza di quanto nel suo seno sostenuto l’art. 27 del d.P.R. 380 del 2001 sanziona con la demolizione la realizzazione di nuove opere avutasi in zone assoggettate a vincolo di inedificabilità sia assoluta che relativa: quest’ultimo sì rimuovibile, ma previa formale previa autorizzazione qui non avutasi (cfr., sempre ex multis, fra le ultime, Tar Campania, questa sesta sezione, n. 4204 del 23.10.2012, n. 2636 del 05.06.2012 e n. 1302 del 16.03.2012);
- sempre a differenza di quanto con esso sostenuto, il provvedimento sanzionatorio emesso si appalesa sorretto da giustificazione adeguata, per tanto essendo sufficiente:
   - la specificazione nel dettaglio dell’intervento eseguito che, a nulla rilevando la sua mancata verticalizzazione, opera pacificamente una notevole trasformazione del “territorio assoggettato a vincolo paesaggistico generico giusta d.m. 09.09.1952”;
   - il richiamo all’abusività dell’intervento e, quindi, all’assenza di “margini di discrezionalità” alla luce del disposto “dell’art. 27 del d.P.R. 380 del 2001”, di cui è stata fatta applicazione (cfr. la giurisprudenza della Sezione già sopra cennata e cfr. anche, per una fattispecie similare anche in fatto, la pronuncia, sempre della Sezione, n. 4207 del 23.10.2012);
- in definitiva sul punto, la trasformazione del territorio protetto operata abusivamente non poteva essere assoggettata a sanzione diversa da quella demolitoria (cfr. ancor più di recente, Tar Campania, ancora questa sesta sezione, 06.02.2013, n. 760 e n. 28 del 02.01.2013) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.05.2013 n. 2631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Legittimità ordinanza del Comune ad ANAS s.p.a. di provvedere alla rimozione dei rifiuti.
Se è vero che l’art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997 (oggi D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 3) prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli  di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente.
Per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi. Si deve poi aggiungere che, in materia di strade, il canone dell’ordinaria diligenza va definito in relazione all’art. 14 del codice della strada (D.L.vo n. 285/19992) che prevede un obbligo da parte del gestore di provvedere alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze.

Il Collegio ritiene che debba essere prioritariamente esaminato il motivo del ricorso rilevante l’incompetenza del Dirigente comunale ad adottare la gravata ordinanza, rientrando –a dire della ricorrente- tale tipologia di provvedimenti nelle attribuzioni del Sindaco e non della Dirigenza comunale. Il motivo é infondato, in quanto, anteriormente all’art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 192, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che l’ordinanza di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997 rientri fra le attribuzioni della dirigenza comunale (Cons. Stato, sez. V, n. 3765/2009; TAR Emilia-Romagna –BO- sez. II, n. 513 del 2012; TAR Sardegna, sez. II, n. 1086 del 2008).
Non merita accoglimento, inoltre, la censura con cui si segnala violazione dell’art. 7 della L. n. 241 del 1990, risultando palese, già dal testo dell’ordinanza in questione, che il Comune in data 04/05/2007 ha regolarmente provveduto ad inviare ad ANAS s.p.a. detto avviso, in riferimento al quale, la stessa ricorrente ha dato formale riscontro presentando le proprie osservazioni riguardo al procedimento avviato (v. docc. n. 4 e 5 dep. dal Comune).
Per quanto concerne gli ulteriori motivi di ricorso, il Collegio ne deve parimenti rilevare l’infondatezza. La società ricorrente deduce, in concreto, il mancato accertamento di una propria responsabilità relativamente all’abbandono dei rifiuti nell’area, in località Cona, adibita a piazzola di sosta nella superstrada Ferrara–Mare, con conseguente asserita insussistenza dell’ obbligo di smaltimento, sia in relazione alle caratteristiche del bene, sia avuto riguardo alla sua estensione e sia, infine, alla sua difficile controllabilità.
Al riguardo si deve osservare che la questione controversa ha trovato soluzione con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 84 che ha richiamato la Cassazione Civile, Sezioni Unite, 25.02.2009, n. 4472. Secondo tale pronuncia, se è vero che l’art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997 (oggi sostituito dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 3) prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi.
Si deve poi aggiungere che, in materia di strade, il canone dell’ordinaria diligenza va definito in relazione all’art. 14 del codice della strada (D.L.vo n. 285/19992) che prevede un obbligo da parte del gestore di provvedere alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze.
Tale norma, fatto salvo il caso fortuito, impone quindi all’ANAS obblighi particolari anche in materia di rimozione dei rifiuti che insistono non solo sulla carreggiata, ma anche sulle pertinenze; ne consegue che il comune non era tenuto ad una motivazione particolare (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 21.05.2014 n. 524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DM 1444/1968 concetto di “altezza media degli edifici circostanti”.
Il D.M. n. 1444 del 1968, in relazione al concetto di “altezza media degli edifici circostanti”, ha incluso, tra essi, non solo quelli effettivamente confinanti con quello la cui altezza è da misurare, ma anche quelli ubicati in prossimità dello stesso.
Le considerazioni che precedono trovano poi ulteriore conferma nella giurisprudenza amministrativa che, sul punto, in riferimento a casi analoghi a quello in trattazione, ha osservato che la norma di attuazione “…non ha usato il termine: confinanti: termine che avrebbe potuto autorizzare una diversa lettura, ma la locuzione: circostanti il cui significato non è equivocabile.

Il Collegio deve osservare che, sul punto, risulta persuasiva la tesi del Comune, ove rileva che la norma attuativa del P.R.G. debba essere interpretata conformemente alla fonte normativa statale di riferimento: il D.M. n. 1444 del 1968, che, a sua volta, proprio in relazione al concetto di “altezza media degli edifici circostanti”, ha incluso, tra essi, non solo quelli effettivamente confinanti con quello la cui altezza è da misurare, ma anche quelli ubicati in prossimità dello stesso.
Le considerazioni che precedono trovano poi ulteriore conferma nella giurisprudenza amministrativa che, sul punto, in riferimento a casi analoghi a quello in trattazione, ha osservato che la norma di attuazione “…non ha usato il termine: confinanti: termine che avrebbe potuto autorizzare una diversa lettura, ma la locuzione: circostanti il cui significato non è equivocabile" (v. TAR Friuli V.G. n. 51 del 2002).
Nella specie, risulta pertanto errato il presupposto (calcolata l’altezza dei soli fabbricati confinanti e non anche quella dei fabbricati circostanti) sulla base del quale parte ricorrente ha ritenuto contra legem l’altezza del fabbricato della controinteressata, con conseguente infondatezza della censura, stante che non risulta contestato il rispetto dell’altezza massima di ml. 13,50; misura residuale anch’essa espressamente prevista dal citato art. 62 N.T.A. del P.R.G. (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 21.05.2013 n. 375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Centrali termoelettriche all’interno dell’abitato.
Anche se le centrali termoelettriche sono espressamente annoverate ai sensi del D.M. 05.09.1994 tra le industrie insalubri di prima classe, si rammenta che “l’installazione nell’abitato di un’industria insalubre non è di per sé vietata in assoluto, dal momento che l'art. 216, T.U.L.S. 27.07.1934 n. 1265, lo consente se la stessa installazione è accompagnata dall’introduzione di particolari metodi produttivi o cautele in grado di escludere qualsiasi rischio di compromissione della salute del vicinato.
17. Parimenti da rigettare sono gli ulteriori motivi di gravame.
17.1. In particolare, in merito al motivo sub a.5.) si rammenta che “l’installazione nell’abitato di un’industria insalubre non è di per sé vietata in assoluto, dal momento che l'art. 216, T.U.L.S. 27.07.1934 n. 1265, lo consente se la stessa installazione è accompagnata dall’introduzione di particolari metodi produttivi o cautele in grado di escludere qualsiasi rischio di compromissione della salute del vicinato (cfr. Cons. Stato, IV, 02.09.2011, n. 4952)” (cfr. questa sezione 25.03.2013, n.1622).
17.2. Ebbene i ricorrenti non hanno dedotto alcunché circa l’assenza di tali cautele, né a tal fine è idonea a costituire valido principio di prova la perizia di parte depositata l’08.02.2013 dalla quale si desume che “l’impianto di cogenerazione della CO.MA.SA., quand’anche avesse adottato le particolari cautele alle quali la legge fa riferimento, è comunque un impianto potenzialmente pericoloso per l’ambiente e per la salute dei cittadini”. E, infatti, dalla predetta perizia emerge che non vi è alcun elemento certo, idoneo a comprovare che l’esercizio dell’impianto de quo produca danni all’ambiente e alla salute dei cittadini, ma che “il rischio, conseguente all’accadimento di evento pericoloso, è alto” e che, pertanto, anche in ipotesi di perfetta regolarità tecnica ed osservanza delle normative vigenti, “le doverose pratiche di prudenza e cautela avrebbero dovuto senz’altro inibire la realizzazione di tale impianto nell’ambito del centro abitato del Comune di Casalnuovo”.
17.3. Al contrario la società controinteressata ha fornito gli esiti delle ispezioni eseguite dall’ARPAC dai quali emerge la conformità delle emissioni ai parametri previsti dalla legge e l’adozione di tutte le cautele e le precauzioni prescritte, con ogni conseguenza ai sensi dell’art. 64, comma 2, c.p.a., ai fini del raggiungimento della prova (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 15.05.2013 n. 2518 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Differenza tra costo di costruzione e oneri di urbanizzazione.
In merito al costo di costruzione, preme rammentare che, secondo l’attuale sistema normativo (art. 16 del DPR 380/2001 che ricalca l’art. 6 della legge 10/1977, il costo di costruzione costituisce una prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente paratributaria, essendo volta a colpire l’incremento di ricchezza derivante dall’attività edilizia svolta, a differenza degli oneri di urbanizzazione, che attengono invece all’incremento del carico urbanistico.
In merito al costo di costruzione, preme rammentare che, secondo l’attuale sistema normativo (art. 16 del DPR 380/2001 che ricalca l’art. 6 della legge 10/1977 e l’art. 48 della legge regionale della Lombardia n. 12/2005), il costo di costruzione costituisce una prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente paratributaria, essendo volta a colpire l’incremento di ricchezza derivante dall’attività edilizia svolta, a differenza degli oneri di urbanizzazione, che attengono invece all’incremento del carico urbanistico (così, fra le tante, le sentenze del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6160 e 6161 del 2013, docc. 16 e 17 della ricorrente, di cui si tratterà più diffusamente nel prosieguo, oltre a TAR Sicilia, Catania, sez. I, 19.09.2013, n. 2249).
In altri termini, come del resto indicato espressamente nelle citate decisioni del giudice amministrativo d’appello, il costo di costruzione è dovuto in relazione ai “vantaggi economici”, connessi alla trasformazione edilizia (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.05.2014 n. 1248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alle concrete modalità di determinazione del costo di costruzione in caso di recupero abitativo dei sottotetti (ai sensi dell’art. 64, comma 7°, della citata legge regionale 12/2005), il Collegio condivide quanto affermato dal Consiglio di Stato nelle due pronunce n. 6160 e 6161 del 20.12.2013 in forza delle quali:
- continua a trovare applicazione, nella Regione Lombardia, il decreto del Ministro per i lavori pubblici del 10.5.1977 (cfr. il doc. 13 del resistente), adottato in attuazione dell’art. 6 della legge 10/1977, per il quale il costo si calcola sulla base della superficie complessiva (Sc), pari alla somma della superficie utile (Su) e del 60% della superficie non residenziale per servizi e accessori (Snr), con gli incrementi previsti dal decreto in relazione alle classi di edifici;
- per i sottotetti, non devono prendersi in considerazione le scale nell’ambito della Snr utile.

Quanto alle concrete modalità di determinazione del costo suddetto in caso di recupero abitativo dei sottotetti (ai sensi dell’art. 64, comma 7°, della citata legge regionale 12/2005), il Collegio condivide quanto affermato dal Consiglio di Stato nelle due pronunce n. 6160 e 6161 del 20.12.2013 sopra menzionate, in forza delle quali:
- continua a trovare applicazione, nella Regione Lombardia, il decreto del Ministro per i lavori pubblici del 10.5.1977 (cfr. il doc. 13 del resistente), adottato in attuazione dell’art. 6 della legge 10/1977, per il quale il costo si calcola sulla base della superficie complessiva (Sc), pari alla somma della superficie utile (Su) e del 60% della superficie non residenziale per servizi e accessori (Snr), con gli incrementi previsti dal decreto in relazione alle classi di edifici;
- per i sottotetti, non devono prendersi in considerazione le scale nell’ambito della Snr utile (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.05.2014 n. 1248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Superficie minima degli alloggi e “vivibilità”.
L’art. 4, 1° comma, del d.P.R. 380/2001, consente ai Comuni di stabilire, con disposizioni regolamentari, la superficie di minima degli alloggi di nuova costruzione, atteso che la "vivibilità" alla quale tale norma si riferisce va intesa in senso ampio, comprensivo di tutti gli aspetti che l’Ente, nella sua sfera di competenza, ritenga rilevanti per il normale vivere civile dei propri cittadini, anche in termini di tutela del territorio e della qualità della vita.
E questa "vivibilità" può legittimamente essere ricercata imponendo, con una norma del regolamento edilizio, caratteristiche dimensionali tali da limitare, in concreto, la costruzione delle c.d. seconde case, con le tensioni dei prezzi e l’aggravio del carico urbanistico che queste inevitabilmente comportano.

Il terzo motivo è infondato.
Con esso la ricorrente sostiene che lo strumento urbanistico non potrebbe imporre un limite minimo alla superficie degli alloggi atteso che tale limite è stabilito a tutela dell’igiene e della salubrità degli edifici da norme di rango statale in particolare il d.m. 05.07.1975.
L’assunto è infondato
La giurisprudenza ha recentemente affermato che l’art. 4, 1° comma, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 - T.U. edilizia (secondo cui "il regolamento che i Comuni adottano ai sensi dell'articolo 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi") consente ai Comuni di stabilire, con disposizioni regolamentari, la superficie di minima degli alloggi di nuova costruzione, atteso che la "vivibilità" alla quale tale norma si riferisce va intesa in senso ampio, comprensivo di tutti gli aspetti che l’Ente, nella sua sfera di competenza, ritenga rilevanti per il normale vivere civile dei propri cittadini, anche in termini di tutela del territorio e della qualità della vita.
E questa "vivibilità" può legittimamente essere ricercata imponendo, con una norma del regolamento edilizio, caratteristiche dimensionali tali da limitare, in concreto, la costruzione delle c.d. seconde case, con le tensioni dei prezzi e l’aggravio del carico urbanistico che queste inevitabilmente comportano (C.S. IV 17.02.2014 n. 747, VI 06.05.2013 n. 2433) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Liguria, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 711 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fabbricato abusivo al momento della ripresa aerofotografica interamente coperto da teloni, legittimità diniego dell'istanza di condono edilizio.
Il fatto che il fabbricato al momento della ripresa aerofotografica fosse interamente coperto da teloni grigi sorretti da tubi di ferro e che l’area grigia visibile nelle fotografie può essere ricondotta al tipo di copertura e struttura propria del manufatto, non consente di stabilire la data di ultimazione delle opere.
Non è dato sapere, infatti, ove anche, per ipotesi, il manufatto fosse stato realmente esistente e riparato da un telone, se lo stesso fosse stato ultimato o meno alla data in questione. La dichiarazione di notorietà non è idonea a confutare le risultanze del rilievo aerofotogrammetrico, e dimostrare la data di ultimazione dei lavori.

Il secondo motivo con cui si sostiene l’anteriorità della realizzazione delle opere rispetto al termine finale previsto dalla normativa sul condono è parimenti infondato.
Da un primo punto di vista occorre rilevare come l’onere della prova in ordine all’anteriorità della data di ultimazione delle opere incomba in capo al ricorrente.
L’accertamento comunale è fondato sul rilievo aerofotogrammetrico.
Il ricorrente sostiene che il fabbricato al momento della ripresa aerofotografica era interamente coperto da teloni grigi sorretti da tubi di ferro e che l’area grigia visibile nelle fotografie può essere senz’altro ricondotta al tipo di copertura e struttura propria del manufatto.
Le argomentazioni non appaiono persuasive attesa la loro inidoneità stabilire la data di ultimazione delle opere. Non è dato sapere, infatti, ove anche, per ipotesi, il manufatto fosse stato realmente esistente e riparato da un telone, se lo stesso fosse stato ultimato o meno alla data in questione.
Né il ricorrente riesce, al di là della dichiarazione di notorietà che come noto non è idonea a confutare le risultanze del rilievo aerofotogrammetrico (TAR Puglia, Bari, II 10.09.2003 n. 3248), a dimostrare la data di ultimazione dei lavori (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Liguria, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 694 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Illegittimità ordinanza del Sindaco di iniziare l’attività nello stabilimento alle ore 5,30 antimeridiane a tutela della salute pubblica.
Non è sufficiente che uno stabilimento industriale produca emissioni acustiche o di altro genere per giustificare provvedimenti lato sensu repressivi, dovendo l’autorità competente accertare che tali emissioni superino i limiti di legge e/o quelli indicati nel provvedimento autorizzativo.
Nella specie, nessun elemento è stato fornito quanto alle emissioni acustiche, mentre le emissioni di altro genere non sono oggetto dell’impugnata ordinanza.

La domanda impugnatoria va accolta.
Non sono fondate le censure di ordine formale - procedurale, in quanto il Comune ha provato che Sintexcal era comunque da tempo a conoscenza della sussistenza di problematiche in ordine alle emissioni prodotte dall’impianto e delle lamentele sollevate dai cittadini residenti nella zona.
Dal contesto del ricorso emerge altresì che la ricorrente ha ben compreso in base a quali disposizioni di legge il Sindaco ha adottato l’impugnata ordinanza; le relative censure vanno dunque respinte in quanto improntate a chiaro formalismo.
Vanno invece condivise le doglianze con cui si deduce il difetto di istruttoria (doglianze che il Tribunale ha già mostrato di condividere in sede cautelare) e l’assenza dei presupposti di cui agli artt. 9 L. n. 447/1995 e 50 e 54 T.U.E.L. Ed in effetti:
- seppure è vero che vi sono state le summenzionate lamentele, il Comune non ha provato di avere proceduto ad effettuare, in proprio o avvalendosi dell’ARPAM o di altri organismi pubblici, misurazioni fonometriche. Anzi, dal documento depositato in giudizio dall’amministrazione in data 7/3/2014, emerge che ARPAM era stata incaricata di tali misurazioni, ma che, alla data di adozione del provvedimento impugnato, la campagna non era ancora terminata e quindi alcun risultato era stato ancora fornito al Comune;
- l’amministrazione si è dunque basata solo sulle lamentele dei residenti, ma in tal modo ha violato il principio di adeguata istruttoria. Non è sufficiente, in effetti, che uno stabilimento industriale produca emissioni acustiche o di altro genere per giustificare provvedimenti lato sensu repressivi, dovendo l’autorità competente accertare che tali emissioni superino i limiti di legge e/o quelli indicati nel provvedimento autorizzativo. Nella specie, nessun elemento è stato fornito quanto alle emissioni acustiche, mentre le emissioni di altro genere non sono oggetto dell’impugnata ordinanza. Ed è ancora più strano che i risultati della campagna di misurazioni eseguite da ARPAM non siano stati depositati nemmeno in vista dell’udienza di trattazione del merito (incombente per il cui assolvimento il Comune ha avuto a disposizione circa 10 anni);
- una volta accertata l’assenza dei dati relativi all’asserito inquinamento acustico, ne consegue che il provvedimento impugnato è stato adottato in carenza dei presupposti di contingibilità ed urgenza richiesti dalla L. n. 447/1995 e dal D.Lgs. n. 267/2000 (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Marche, sentenza 05.05.2014 n. 478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Legittimità diniego approvazione del documento di analisi del rischio sulla base della destinazione urbanistica risalente al 2000.
Non può dubitarsi che l’amministrazione non avesse altra scelta che chiedere alla società ricorrente di predisporre il documento di Analisi dei rischi in linea con lo stato di fatto dell’area interessata.
Predisporre un documento dei rischi sulla base dell’originaria destinazione urbanistica risalente al 2000 vorrebbe dire creare un documento privo di alcuna utilità perché non in grado di fornire informazioni necessarie in relazione all’intervento di bonifica. Non può poi essere sottaciuto che il valore primario che emerge in tale vicenda e che va certamente tutelato è il diritto alla salute dei cittadini che vivono in prossimità della zona indicata.
Il Comune di Milano, una volta evidenziata la presenza di insediamenti residenziali, non poteva fare altro che chiedere alla società ricorrente di tener conto di tali fattori, in considerazione del fatto che tutto il procedimento di bonifica in realtà è diretto alla salvaguardia del diritto alla salute e dell’ambiente.

La controversia verte intorno alla correttezza del comportamento dell’amministrazione che ha richiesto alla società ricorrente di tener conto nel documento di analisi dei rischi anche delle abitazioni e della scuola presenti all’interno dell’area interessata, nonostante l’area fosse a destinazione commerciale e industriale come emerso anche dai verbali delle Conferenze di Servizi precedenti a quello in questa sede contestato.
Non può dubitarsi che, nel caso di specie, l’amministrazione non avesse altra scelta che chiedere alla società ricorrente di predisporre il documento di Analisi dei rischi in linea con lo stato di fatto dell’area interessata. Predisporre un documento dei rischi sulla base dell’originaria destinazione urbanistica risalente al 2000 vorrebbe dire creare un documento privo di alcuna utilità perché non in grado di fornire informazioni necessarie in relazione all’intervento di bonifica.
Non può poi essere sottaciuto che il valore primario che emerge in tale vicenda e che va certamente tutelato è il diritto alla salute dei cittadini che vivono in prossimità della zona indicata. Il Comune di Milano, una volta evidenziata la presenza di insediamenti residenziali, non poteva fare altro che chiedere alla società ricorrente di tener conto di tali fattori, in considerazione del fatto che tutto il procedimento di bonifica in realtà è diretto alla salvaguardia del diritto alla salute e dell’ambiente. Né rileva, sotto tale profilo la circostanza che l’amministrazione non si è attivata tempestivamente o non ha impedito la realizzazione di insediamenti residenziali abusivi, perché tale doglianza potrebbe rilevare al più sotto il profilo risarcitorio, ma non rende illegittimi i provvedimenti in questa sede impugnati.
Né la mancata convocazione di tutti i soggetti interessati può avere rilievo nel caso di specie, non avendo provato la società ricorrente che l’intervento degli stessi avrebbe modificato il contenuto del provvedimento. Può anzi rilevarsi in senso contrario che gli interessati verosimilmente, se convocati, avrebbero avvallato i provvedimenti impugnati, in quanto a loro favorevoli (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.04.2014 n. 1116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Classificazione di una strada come pubblica.
Costante giurisprudenza amministrativa afferma che per classificare una data strada come pubblica l’atto di inclusione nei relativi elenchi, che ha valore soltanto dichiarativo, costituisce una presunzione semplice, superabile avuto riguardo alla concreta situazione della strada stessa.
La strada pubblica, infatti, si caratterizza per essere interessata dal passaggio di una collettività di persone appartenenti ad un medesimo gruppo territoriale, tipicamente i cittadini del Comune o di una frazione; per essere in concreto idonea a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse; per essere assistita da “titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile”.
A tali elementi, se ne aggiunge uno ulteriore, ovvero la necessità di considerare “il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica”, ovvero in termini banali di verificare se il Comune il quale assume l’uso pubblico si sia mai preoccupato di garantirlo, curando la manutenzione della strada ed eventualmente adeguandola al transito della generalità dei cittadini.

1. Alla decisione del presente ricorso si applicano i principi e criteri evidenziati per analoga fattispecie nella sentenza di questo Tribunale sez. I 21.11.2011 n. 1772, che si riassumono di seguito per chiarezza espositiva.
2. In tema di riparto di giurisdizione allorquando, come nella specie, sia controverso il carattere pubblico ovvero privato di una strada, un costante orientamento giurisprudenziale afferma anzitutto che spetta non al Giudice amministrativo adito nella sede presente, ma alla Autorità giudiziaria ordinaria, la giurisdizione sulla “controversia promossa dal privato per negare che il proprio fondo sia gravato da una servitù di pubblico transito affermata da un provvedimento della P.A.”, il quale in tal caso assume efficacia meramente dichiarativa, non già costitutiva.
3. In tal caso, l’attore chiede infatti l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di un diritto soggettivo, in quanto “contesta in radice il potere dell'amministrazione comunale di ‘classificazione’ delle strade di uso pubblico, per mancanza del suo presupposto”; non si duole invece dei criteri seguiti per l’esercizio del potere stesso, ipotesi nella quale sussisterebbe invece la giurisdizione del giudice amministrativo: in tali esatti termini, Cass. civ. S.U. 17.03.2010 n. 6406, da cui tutte le citazioni; conforme altresì, fra le più recenti, anche Cass. civ. S.U. 27.01.2010 n. 1624.
4. Solo apparentemente contraria, sempre nella giurisprudenza recente, è Cass. civ. S.U. 24.12.2009 n. 27366, la quale, come risulta a lettura della motivazione completa, riguarda una vicenda di segno opposto, in cui un Comune, evidentemente con un atto di carattere autoritativo, aveva preteso di escludere il pubblico passaggio su una strada, considerandola privata.
5. Ad escludere la giurisdizione ordinaria in favore di quella amministrativa, infine, non vale nemmeno la presenza di un “provvedimento” di classificazione come pubblica della strada per la quale è causa: tale preteso provvedimento, infatti, meglio si qualificherebbe come mero atto, dal momento che ha efficacia soltanto dichiarativa, e non già costitutiva, come puntualizzato dalla citata Cass. civ. 1624/2010.
6. In tali termini, non va condivisa la isolata TAR Umbria 22.11.2002 n. 845 da essa citata, secondo il quale una controversia di tal tipo dovrebbe comunque rientrare nella giurisdizione amministrativa in quanto inerente in generale ad un “uso del territorio” e quindi ricompresa nel disposto dell’allora vigente art. 34 d.lgs. 31.03.1998 n. 34. Si risponde, sulla scorta della giurisprudenza successiva, e in primo luogo della nota C. cost. 06.07.2004 n. 204, oltre che della già citata Cass. 6406/2010, che la giurisdizione esclusiva in parola ha pur sempre come presupposto un agire autoritativo della p.a., e quindi una compresenza nella fattispecie di diritti soggettivi ed interessi legittimi; non può quindi estendersi a casi in cui, come nella specie, si controverta esclusivamente di diritti soggettivi.
7. Il giudice amministrativo, invece, può e deve risolvere la questione del carattere pubblico ovvero privato di una strada allorquando sia richiesto di risolverla non già come questione principale, sulla quale pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come questione preliminare ad altra, ovvero alla questione, dedotta in via principale –e all’evidenza rientrante nella sua giurisdizione- concernente la legittimità di un provvedimento che in senso ampio imponga una certa regolamentazione dell’uso della strada: ciò presuppone infatti che di uso pubblico e non privato si tratti, e quindi che appunto si sia di fronte ad una strada non privata. In tali termini, fra le molte, C.d.S. sez. IV 07.09.2006 n. 5209 e, fra le pronunce di primo grado, TAR Campania Salerno sez. II 07.06.2010 n. 8536; Sardegna sez. II 17.03.2010 n. 312; Valle d'Aosta 13.11.2009 n. 86; Calabria Catanzaro sez. I 01.04.2009 n. 323 e Toscana sez. III 06.11.2007 n. 3599.
8. Applicando i principi appena delineati al caso di specie, la prima conseguenza è la necessità di dichiarare il difetto di giurisdizione in favore dell’A.G.O. così come in dispositivo quanto alla domanda di “annullamento” della deliberazione consiliare del Comune di Mapello 54/2007, nella parte in cui classifica come comunale la via Quarenghi per cui è causa.
9. Così come affermato, fa le molte, da C.d.S. sez. V 17.09.2012 n. 4317, ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo, “rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale” il quale va identificato “in funzione dell'intrinseca natura della controversia dedotta in giudizio, individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto all'interno del quale essi si manifestano”.
10. In tali termini, è allora chiaro che la domanda di annullamento in questione, essendo volta, come obiettivo concreto, a contestare il carattere comunale della via Quarenghi, va riqualificata come domanda di accertamento negativo di tale carattere, fondata sull’incertezza che l’atto comunale, ancorché non provvedimentale, ha creato in merito, e come tale, per quanto detto, appartiene alla giurisdizione dell’A.G.O. In tal sede, quindi, si dibatterà anche delle eventuali questioni che coinvolgono Santo Gandolfi.
11. Va invece decisa nel merito, e risulta fondata, la domanda di annullamento della nota 23.10.2006 prot. n. 8340, che come risulta a semplice lettura intende disciplinare autoritativamente la circolazione sulla via Quarenghi, nella specie diffidando i frontisti, sul presupposto evidente che di strada pubblica si tratti, dal posizionarvi segnali di divieto a protezione dei loro domicili.
12. L’unico motivo dedotto in rapporto a tale atto, incentrato sul carattere invece privato della via sulla quale il Comune è intervenuto, è fondato e va accolto. In generale, costante giurisprudenza amministrativa afferma che per classificare una data strada come pubblica l’atto di inclusione nei relativi elenchi, che come ricordato ha valore soltanto dichiarativo, costituisce una presunzione semplice, superabile avuto riguardo alla concreta situazione della strada stessa. La strada pubblica, infatti, si caratterizza per essere interessata dal passaggio di una collettività di persone appartenenti ad un medesimo gruppo territoriale, tipicamente i cittadini del Comune o di una frazione; per essere in concreto idonea a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse; per essere assistita da “titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile”: così fra le molte C.d.S. sez. V 04.02.2004 n. 373 nonché TAR Lazio Roma sez. II 03.11.2009 n. 10781; Lazio Latina 14.03.2008 n. 199 e Marche 10.10.2007 n. 1595.
13. A tali elementi, la recente C.d.S. sez. V 07.12.2010 n. 8624 ne aggiunge uno ulteriore, ovvero la necessità di considerare “il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica”, ovvero in termini banali di verificare se il Comune il quale assume l’uso pubblico si sia mai preoccupato di garantirlo, curando la manutenzione della strada ed eventualmente adeguandola al transito della generalità dei cittadini.
14. A fronte di tutto ciò, i ricorrenti (cfr. loro documenti f-h, copie atti notarili) hanno provato la loro proprietà del sedime, e non è controverso che, allo stato, la strada in questione serva solo ad accedere ai loro domicili privati. Di contro il Comune non è stato in grado di provarne un generalizzato uso pubblico, né un impegno pubblico nella relativa manutenzione, a ciò non bastando (v. memoria Comune 10.03.2014 p. 4) l’eventuale carattere di opera di urbanizzazione della strada stessa, carattere che in astratto può essere proprio anche di strade private.
15. Per completezza, va aggiunto che tutto ciò prescinde da successivi eventuali interventi del Comune, fermo che gli interessati potranno, secondo le regole generali, tutelarsi in giudizio nei confronti dei relativi atti e provvedimenti, e che quindi è infondata l’eccezione di improcedibilità che su tale asserito ulteriore intervento si fonda (memoria Gandolfi 14.03.2014) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.04.2014 n. 451 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Legittimità conferma della destinazione agricola per il contenimento del consumo di suolo.
La conferma della destinazione agricola di determinate aree non può essere ritenuta illogica per il solo fatto della loro contiguità a lotti edificati, sia perché tale ubicazione non giustifica da sé sola l’estensione dell’urbanizzazione, sia perché la contestata scelta urbanistica costituisce applicazione del principio ispiratore di interesse pubblico, espresso nel piano strutturale, preordinato al contenimento dell’ulteriore consumo del suolo.
Del resto, la giurisprudenza amministrativa ha più volte evidenziato che la destinazione agricola del suolo non deve rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione urbana.

Con la prima censura il ricorrente, considerata l’ubicazione della sua proprietà (limitrofa al tessuto urbanizzato) e ritenuta sussistente una sua vocazione edificatoria derivante dal contesto in cui è inserita, deduce che l’impugnato provvedimento, nella parte in cui conferma la destinazione non edificabile della proprietà stessa, è inficiato da macroscopici errori di fatto e da abnormi illogicità.
Il motivo è infondato.
La conferma della destinazione agricola di determinate aree non può essere ritenuta illogica per il solo fatto della loro contiguità a lotti edificati, sia perché tale ubicazione non giustifica da sé sola l’estensione dell’urbanizzazione, sia perché la contestata scelta urbanistica costituisce applicazione del principio ispiratore di interesse pubblico, espresso nel piano strutturale, preordinato al contenimento dell’ulteriore consumo del suolo (Cons. Stato, IV, 27.11.2008, n. 5881).
Invero, l’art. 17 del piano strutturale (documento n. 11 depositato in giudizio), nella parte riguardante la zona in cui ricade la proprietà del ricorrente (UTOE n. 5 del territorio urbanizzato di Orbetello), pone l’obiettivo primario di “contrastare l’ulteriore espansione urbana lungo la viabilità e di aggressione alle pendici collinari, dando invece valore a queste e alle aree libere che sono comprese nell’UTOE e salvaguardandone l’integrità assegnando loro un ruolo non più propriamente agricolo ma ambientalmente significativo”.
Coerentemente, da un lato il piano strutturale (nelle tavole del quadro conoscitivo) classifica i terreni del deducente come “seminativo semplice”, dall’altro il regolamento urbanistico li configura come facenti parte degli “ambiti del territorio rurale o prevalentemente non urbanizzato di valore ambientale”.
Trattasi di destinazione che non corrisponde ad un uso strettamente e necessariamente agricolo, ma che appare finalizzata a scopi di tutela ambientale da perseguire sottraendo a nuove edificazioni una parte del territorio contigua ad un compendio urbanizzato.
Orbene, la predetta scelta urbanistica, in quanto giustificata dalle linee programmatiche del piano strutturale e preordinata al perseguimento di una finalità pubblica di rilievo, risulta priva di elementi di illogicità o erroneità.
Del resto, la giurisprudenza amministrativa ha più volte evidenziato che la destinazione agricola del suolo non deve rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione urbana (Cons. Stato, IV, 27.07.2011, n. 4505; idem, 13.10.2010, n. 7478; TAR Sicilia, Palermo, I, 05.07.2012, n. 1407) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 17.04.2014 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il momento in cui l’interessato può presentare il proprio apporto collaborativo circa le scelte di governo del territorio è quello successivo all’adozione dello strumento urbanistico.
Solo nella fase successiva alla delibera di adozione e antecedente a quella di approvazione definitiva l’ordinamento (art. 18 della L.R. n. 1/2005) prevede la facoltà del privato di presentare osservazioni, il cui rigetto peraltro non richiede una confutazione analitica.

Infatti, il momento in cui l’interessato può presentare il proprio apporto collaborativo circa le scelte di governo del territorio è quello successivo all’adozione dello strumento urbanistico. Solo nella fase successiva alla delibera di adozione e antecedente a quella di approvazione definitiva l’ordinamento (art. 18 della L.R. n. 1/2005) prevede la facoltà del privato di presentare osservazioni, il cui rigetto peraltro non richiede una confutazione analitica (Cons. Stato, IV, 30.06.2004, n. 4804; TAR Sicilia, Palermo, I, 23.12.2013, n. 2551) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 17.04.2014 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’attività di pianificazione urbanistica è espressione di un apprezzamento di merito, connotato da elevata discrezionalità, sicché la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella desumibile dai criteri generali seguiti nell’impostazione del regolamento urbanistico e attinti dal piano strutturale, con l’avvertenza che la motivazione ulteriore e specifica va riferita esclusivamente a particolari situazioni in cui emergano aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifica considerazione.
In sostanza, le uniche evenienze richiedenti una più incisiva e singolare motivazione della scelta urbanistica sono date dal superamento degli standard minimi ex D.M. 02.04.1968, dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato scaturente da convenzioni di lottizzazione o altri accordi tra Comune e proprietari, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di uno spazio limitato, intercluso da fondi edificati in modo non abusivo.

Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’attività di pianificazione urbanistica è espressione di un apprezzamento di merito, connotato da elevata discrezionalità, sicché la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella desumibile dai criteri generali seguiti nell’impostazione del regolamento urbanistico e attinti dal piano strutturale, con l’avvertenza che la motivazione ulteriore e specifica va riferita esclusivamente a particolari situazioni in cui emergano aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifica considerazione.
In sostanza, le uniche evenienze richiedenti una più incisiva e singolare motivazione della scelta urbanistica sono date dal superamento degli standard minimi ex D.M. 02.04.1968, dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato scaturente da convenzioni di lottizzazione o altri accordi tra Comune e proprietari, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di uno spazio limitato, intercluso da fondi edificati in modo non abusivo (Cons. Stato, IV, 18.11.2013, n. 5453; TAR Piemonte, I, 24.07.2013, n. 927)
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 17.04.2014 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Silenzio “devolutivo” del soprintendente nel procedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D.Lgs. n. 42/2004.
Il termine assegnato al soprintendente per esprimere il parere (obbligatorio e vincolante) nel procedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D.Lgs. n. 42/2004, commi 8 e 9, ha carattere perentorio, il cui infruttuoso decorso comporta l’obbligo per l’amministrazione procedente di provvedere autonomamente.
Il ricorso è fondato.
L’amministrazione comunale ha negato l’autorizzazione paesaggistica ponendo a fondamento del proprio diniego il parere negativo della soprintendenza.
Questo Tribunale ha precisato che la soprintendenza deve esprimere il proprio parere entro quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, trascorsi i quali senza che sia stato dato il suddetto parere, l’amministrazione può indire una conferenza di servizi entro il successivo termine perentorio di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta gironi dalla ricezione degli atti da parte della soprintendenza, l’amministrazione provvede sulla domanda. Qualora, la soprintendenza non provveda nel termine perentorio a lei assegnato il parere non ha più portata obbligatoria e vincolante e l’amministrazione deve motivare autonomamente a prescindere dall’eventuale portata del parere tardivo (Tar Lecce, sez. I, 15.06.2011, n. 1069).
Nel caso in esame, è la stessa soprintendenza a dichiarare, nel provvedimento impugnato, che il parere è stato rilasciato oltre il termine perentorio e, quindi, l’amministrazione comunale non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante (Cons. St., sez. VI, 15.03.2013).
In sostanza, il provvedimento impugnato è carente di motivazione, proprio perché si è limitato a richiamare il parere negativo della soprintendenza senza motivare adeguatamente (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 24.07.2013 n. 1739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interesse a ricorrere contro rilascio concessione edilizia.
E’ pacifico fin da giurisprudenza risalente, che certamente sussiste l’interesse per il vicino che riceve una lesione per diminuzioni di luce, di aria, di visuale o di insolazione, in quanto portatore di un interesse giuridicamente tutelato ad insorgere contro il rilascio di una concessione edilizia anzi, è portatore di interesse anche chi, confinante o vicino, denunzia il deterioramento della zona dal punto di vista urbanistico o il danno derivante da un aumento dell'addensamento edilizio.
Va rigettato anche l’altro motivo di appello, contenuto nel primo dei due appelli, con il quale si lamenta la inammissibilità del ricorso originario per difetto di interesse da parte delle ricorrenti, in quanto le medesime non avrebbero ricevuto una effettiva lesione dalla costruzione assentita.
Se è vero che il solo richiamo al criterio della vicinitas, idoneo come tale a supportare la legittimazione, non è in grado di esaurire ogni aspetto attinente alla sussistenza dell’interesse concreto alla impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e documentata da parte del titolare, nella specie le ricorrenti originarie, odierne appellate, avevano lamentato un minore irradiamento solare delle loro abitazioni, diminuzione del valore degli immobili, maggiore consumo di energia elettrica e termica e altro.
Tale doglianza è sufficiente a radicare l’interesse ad agire.
E’ pacifico fin da giurisprudenza risalente (si veda già Consiglio Stato sez. V, 11.07.1980, n. 696) che certamente sussiste l’interesse per il vicino che riceve una lesione per diminuzioni di luce, di aria, di visuale o di insolazione, in quanto portatore di un interesse giuridicamente tutelato ad insorgere contro il rilascio di una concessione edilizia; (così anche Consiglio Stato sez. V, 15.12.1986, n. 643); anzi, è portatore di interesse anche chi, confinante o vicino, denunzia il deterioramento della zona dal punto di vista urbanistico o il danno derivante da un aumento dell'addensamento edilizio
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.06.2013 n. 3101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo una generale considerazione, in materia di impugnativa di titoli edilizi abilitativi da parte di terzi il termine decorre dalla piena conoscenza della lesività dell’intervento (tra tante, si veda Consiglio Stato sez. IV, 18.06.2009, n. 4015, secondo cui tranne i casi di anteriore e piena conoscenza dell'atto, il termine di impugnazione della concessione di costruzione decorre dal momento in cui è percepibile la lesività dell'opera realizzata).
---------------
In generale, comunque, in base agli ordinari criteri di riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 c.c., la dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione.
Se quindi in genere la conoscenza effettiva e completa del titolo edilizio da parte del terzo si verifica di regola con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile, e non solo con il loro inizio, a maggior ragione non può equipararsi la conoscenza del progetto presentato alla già avvenuta conoscenza del permesso che sarà rilasciato in seguito.
Una cosa è la conoscenza della documentazione allegata alla istanza; ben altra cosa è la conoscenza del contenuto del provvedimento lesivo, una volta emanato, e delle sue modalità di esecuzione.

Al di là della generale considerazione secondo cui, in materia di impugnativa di titoli edilizi abilitativi da parte di terzi, il termine decorre dalla piena conoscenza della lesività dell’intervento (tra tante, si veda Consiglio Stato sez. IV, 18.06.2009, n. 4015, secondo cui tranne i casi di anteriore e piena conoscenza dell'atto, il termine di impugnazione della concessione di costruzione decorre dal momento in cui è percepibile la lesività dell'opera realizzata), deve ritenersi che, anche a desumere la piena lesività già dalla conoscenza del contenuto dell’atto lesivo, bene ha fatto il primo giudice a ritenere che la decorrenza poteva aversi soltanto dalla piena e completa conoscenza dell’atto di permesso lesivo, non potendosi invece essa conoscenza farsi retroagire dal momento della conoscenza del mero progetto, allegato come tale all’istanza presentata.
Infatti, è evidente che la piena conoscenza del progetto, per un permesso ancora da emanare, non può essere equiparata alla conoscenza dell’atto impugnato (successivo) che ben potrebbe essere emesso con prescrizioni o a seguito di modifiche.
In generale, comunque, in base agli ordinari criteri di riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 c.c., la dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione (così, da ultimo, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 19.12.2012 n. 6557).
Se quindi in genere la conoscenza effettiva e completa del titolo edilizio da parte del terzo si verifica di regola con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile, e non solo con il loro inizio, a maggior ragione non può equipararsi la conoscenza del progetto presentato alla già avvenuta conoscenza del permesso che sarà rilasciato in seguito.
Una cosa è la conoscenza della documentazione allegata alla istanza; ben altra cosa è la conoscenza del contenuto del provvedimento lesivo, una volta emanato, e delle sue modalità di esecuzione
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.06.2013 n. 3101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Illegittimità ordinanza contingibile per il prolungamento della canna fumaria.
E’ Illegittima l’ordinanza per il prolungamento della canna fumaria oltre 1,00 ml. il colmo del tetto con la proprietà confinante.
Nel caso di specie, l'atto impugnato non è stato preceduto da alcuna puntuale istruttoria, ma ha fatto seguito solo alle "lamentele" di alcuni cittadini, non suffragate da accertamenti tecnici sull’effettiva presenza di fumi nocivi, pure ritenuti necessari dalla ASL e dalla Provincia, che sul punto si sono limitate a rendere consulti preliminari e interlocutori.
L’ordinanza impugnata non indica nemmeno la concreta situazione di pericolo e di danno limitandosi a far riferimento genericamente a “gas”, senza specificarne la natura, l'effettiva sussistenza e il grado di pericolosità.

3. Nel merito va premesso che l’ordinanza qui impugnata è stata adottata ai sensi dell’art. 50 d.lgs. 267/2000.
Al quinto comma della citata disposizione si prevede che “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale".
4. Ciò posto, il ricorso appare fondato e meritevole di accoglimento.
4.1. L'ordinanza impugnata ha pacificamente natura "contingibile ed urgente", come induce chiaramente a ritenere sia l’espresso richiamo all’art. 50, sia l'adozione dell'atto da parte del sindaco, sia l'espressa finalizzazione del provvedimento alla prevenzione ed eliminazione di pericoli da immissioni nocive.
4.2. Ciò posto, è principio giurisprudenziale consolidato e condiviso quello per cui il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti, essendo espressione di un potere atipico e residuale, può essere esercitato solo per affrontare situazioni di carattere eccezionale ed impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità e unicamente in presenza di un preventivo accertamento della situazione che deve fondarsi su prove concrete e non su mere presunzioni (TAR Piemonte, sez. I 27.06.2013 n. 843; id., sez. II, 12.06.2009, n. 1680; TAR Bari, sez. III, 26.08.2008, n. 1986).
Ulteriore presupposto indefettibile per l'adozione di siffatte ordinanze sindacali è la necessità di intervenire urgentemente con misure eccezionali e imprevedibili di carattere "provvisorio", non fronteggiabili con gli "ordinari" mezzi previsti dall'ordinamento giuridico e a condizione della "temporaneità dei loro effetti" (Corte Cost., sentenze 07.04.2011 n. 115 e 01.07.2009, n. 196 e Cons. St., sez. VI, 31.10.2013, n. 5276).
4.3. Nel caso di specie, l'atto impugnato:
- non è stato preceduto da alcuna puntuale istruttoria, ma ha fatto seguito solo alle "lamentele" di alcuni cittadini, non suffragate da accertamenti tecnici sull’effettiva presenza di fumi nocivi, pure ritenuti necessari dalla ASL e dalla Provincia, che sul punto si sono limitate a rendere consulti preliminari e interlocutori;
- non si è fondato su prove concrete, ma su presupposti generici, non essendo mai stato acquisito l’approfondimento istruttorio poc’anzi menzionato, come si desume dalle stesse premesse dell’ordinanza, ove si dà atto della presenza immissioni di immissioni aeree di gas “presumibilmente nocive o pericolose”. L’ordinanza impugnata non indica nemmeno la concreta situazione di pericolo e di danno limitandosi a far riferimento genericamente a “gas”, senza specificarne la natura, l'effettiva sussistenza e il grado di pericolosità (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 07.07.2010, n. 3000; TAR Catania, sez. I 29.09.2011, n. 2371);
- non ha fornito riscontro della necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile, cui fosse impossibile fare fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Non è configurabile, pertanto, il requisito della contingibilità, tenuto conto che l'ordinanza gravata non reca alcuna motivazione in ordine all'impossibilità, per il Comune -nei limiti della propria competenza- di utilizzare gli ordinari strumenti di accertamento e contestazione, nel rispetto delle regole procedimentali di partecipazione;
- appare insussistente, infine, qualsiasi profilo di tutela dell’interesse diffuso, posto che il provvedimento è limitato alle possibili immissioni della canna fumaria dirette verso la proprietà confinante, incidendo, quindi, esclusivamente nei rapporti tra i privati.
4.4 Superare i segnalati limiti che circoscrivono l’esercizio del potere di cui all’art. 50 d.lgs. 267/2000, equivarrebbe ad ampliare in maniera incongrua –oltre che lesiva del principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi e dello stesso principio di legalità dell'azione amministrativa- i poteri di ordinanza extra ordinem del Sindaco, che vanno invece circoscritti, come esposto, a situazioni di carattere tendenzialmente eccezionale non fronteggiabili con gli ordinari strumenti previsti dall'ordinamento (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 21.02.2014 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - TRIBUTI: Competenza della Giunta Comunale in materia di I.C.I..
Poiché la L. n. 446 del 1997, art. 59, riconosce al Consiglio Comunale, in materia di ICI, la facoltà di "determinare periodicamente e per zone omogenee i valori venali in comune commercio delle aree fabbricabili, al fine della limitazione del potere di accertamento del Comune qualora l'imposta sia versata sulla base di un valore non inferiore a quello predeterminato", i regolamenti comunali adottati in proposito, à sensi del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52, lett. q), pur non avendo natura imperativa, sono assimilabili agli studi di settore, nel senso che si tratta di fonti di presunzioni dedotte da dati di comune esperienza idonei a costituire supporti razionali offerti dall'Amministrazione al giudice, e utilizzabili, quali indici di valutazione, anche retroattivamente, analogamente al cd. "redditometro" (Cass. 9137/2005).
Analogamente, di tale potere può fare uso la Giunta Comunale, cui la competenza in materia di ICI, già del Consiglio Comunale, è stata riassegnata dal D.Lgs. 267 del 2000.

Il D.Lgs. 30.12.1992, n. 504, art. 5, dispone che "per le aree fabbricabili, il valore è costituito da quello venale in comune commercio - avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all'indice di edificabilità, agli oneri per eventuali lavori di adattamento ..., ai prezzi medi rilevati sul mercato della vendita di aree aventi analoghe caratteristiche".
Il Comune ricorrente, con riferimento ad aree inserite in comparto consortile industriale, ha sopperito alle indicazioni previste dalla legge mediante una delibera con cui ha fatto propria la valutazione in proposito del proprio Ufficio tecnico.
Poiché la L. n. 446 del 1997, art. 59, riconosce al Consiglio Comunale, in materia di ICI, la facoltà di "determinare periodicamente e per zone omogenee i valori venali in comune commercio delle aree fabbricabili, al fine della limitazione del potere di accertamento del Comune qualora l'imposta sia versata sulla base di un valore non inferiore a quello predeterminato", i regolamenti comunali adottati in proposito, à sensi del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52, lett. q), pur non avendo natura imperativa, sono assimilabili agli studi di settore, nel senso che si tratta di fonti di presunzioni dedotte da dati di comune esperienza idonei a costituire supporti razionali offerti dall'Amministrazione al giudice, e utilizzabili, quali indici di valutazione, anche retroattivamente, analogamente al cd. "redditometro" (Cass. 9137/2005). Analogamente, di tale potere può fare uso la Giunta Comunale, cui la competenza in materia di ICI, già del Consiglio Comunale, è stata riassegnata dal D.Lgs. 267 del 2000 (Cass. 12345/2005; 9216/2007).
Nella specie, dunque la delibera di Giunta con cui sono stati indicati i valori di riferimento delle aree in questione, pur essendo atto di carattere generale, ha assunto il valore di presunzione, ancorché suscettibile di prova contraria, presunzione che il Comune ha supportato mediante l'indicazione di ulteriori elementi di valutazione, desumibili dalla lettura degli statuti -sostanzialmente analoghi- del Consorzio Industriale di cui fa parte l'area della contribuente, e di quello del Consorzio Industriale di comparazione ("la Graziosa 2"), Statuti riportati in stralcio nell'odierno ricorso.
A fronte di tali dati testuali, nessun elemento probatorio ha addotto la contribuente, cui incombeva l'onere di contrastare non soltanto il contenuto della delibera comunale richiamata, ma i valori di comparazione concretamente riportati dal Comune, valori che la Commissione Regionale ha, senza effettuarne una coerente disamina, disatteso limitandosi a valutare le restrizione imposte nell'atto di cessione dell'area dal Consorzio Industriale, restrizioni comuni a fattispecie analoghe.
Il ricorso deve dunque essere accolto con cassazione della sentenza impugnata (Corte di Cassazione, sentenza 27.07.2007 n. 16702).

AGGIORNAMENTO AL 07.10.2014

ã

E la telenovela continua...

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 24.09.2014 si dava risalto a quel ben fatto servizio televisivo de "LE IENE" (Italia Uno) laddove un dipendente pubblico, in congedo, per il sol fatto di essersi fatto distaccare presso un sindacato (alla fine della carriera lavorativa) per pochi mesi "beccava" una pensione integrativa di migliaia di euro.
     Ebbene, con un 2° servizio andato in onda lo scorso 01.10.2014 hanno intervistato l'ex Ministro Tiziano Treu (papà della famigerata legge 564 ... recte D.Lgs. 16.09.1996 n. 564) nonché i leader nazionali della UIL (Angeletti) e della CGIL (Camusso).
     Guardate (ascoltate) attentamente questa 2^ puntata e, soprattutto, quello che dicono gli intervistati:
RIBREZZO ALLO STATO PURO!!
     A questo punto ci poniamo un interrogativo:
a cosa servono i sindacati??

IN EVIDENZA

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Non retroattivi i nuovi incentivi ai progettisti.
La nuova disciplina degli incentivi alla progettazione non ha efficacia retroattiva, ma si applica solo a decorrere dal 19.08.2014
Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, che con il parere 19.09.2014 n. 183 si è pronunciata sulla decorrenza della riforma introdotta dalla legge 114/2014, di conversione del dl 90/2014.
In particolare, viene in considerazione l'art. 13-bis, che ha abrogato i commi 5 e 6 dell'art. 92 del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) e ha inserito 4 nuovi commi (da 7-bis a 7-quinquies) al successivo art. 93.
In base a questi ultimi, ciascuna amministrazione deve istituire (con apposito regolamento) un fondo in cui far confluire una somma fino al 2% degli importi a base di gara. Di tali somme, l'80% verrà ripartito al progettisti interni, mentre il restante 20% sarà destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento ed efficientamento dell'ente e dei servizi ai cittadini.
In ogni caso, i premi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non potranno superare il 50% trattamento economico complessivo annuo lordo.
Gli incentivi, inoltre, sono ora espressamente collegati alla sola realizzazione di opere pubbliche e non anche a mete attività di pianificazione territoriale e, in ossequio al principio della onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, non spettano ai dirigenti.
Tuttavia, hanno chiarito in magistrati contabili, la nuova disciplina non è applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica, ma scatta solo dall'entrata in vigore della l. 114 e quindi, come detto, dal 19 agosto. Il parere in commento suggerisce anche come regolarsi rispetto al pregresso chiarendo che fino al 19 agosto continuano ad applicarsi le regole previgenti. Rimane il dubbio se la novella si applichi per le sole opere progettate dopo tale data (facendo quindi salvi tutti gli impegni assunti prima) o valga, invece, per tutte le liquidazioni successive, anche se riferite a opere progettate quando era in vigore la precedente normativa. A parere di chi scrive è preferibile la prima lettura (articolo ItaliaOggi del 03.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: a) l’ambito applicativo degli incentivi per la progettazione di cui agli artt. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 riguarda non un'attività di semplice pianificazione territoriale ma esclusivamente progettazione collegata direttamente con la realizzazione di un'opera pubblica;
b) fino all’entrata in vigore della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, anche il dirigente di ruolo di un ufficio tecnico del Comune potrebbe beneficiare degli incentivi, in quanto il contratto collettivo nazionale di lavoro dell’Area II prevede espressamente quale deroga al principio dell’onnicomprensività la spettanza di incentivi per la progettazione (come detto, strettamente riferibile alla realizzazione di un’opera pubblica);
c) in base al principio dell’alterità, il beneficiario dell’incentivo non può coincidere con il soggetto (ad esempio, il capo dell’Ufficio tecnico) che provvederà all’accertamento del buon esito del progetto;
d) l’art. 93, comma 7-ter, ultimo periodo, del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come inserito dall’art. 13-bis “Fondi per la progettazione e l'innovazione” della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 –disposizione non applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica– ha espunto dall’ordinamento il comma 5 (al quale il CCNL dell’Area II faceva richiamo) e il comma 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163; in base a tale nuova disciplina il riparto del fondo per la progettazione non trova più applicazione per il personale con qualifica dirigenziale.

---------------
Il Comune di Cesenatico chiede di conoscere se è legittimo corrispondere, per attività svolte nell’anno 2013, incentivi di progettazione ai sensi dell’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 al dirigente del settore urbanistica incaricato per l’Ente, ai sensi dell’art. 110, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000, individuato specificamente nel procedimento di redazione e progettazione di “Variante generale al PRG 98, ai sensi dell’ex art. 15 della l.r. n. 47 del 1978 e successive modificazioni” come “progettista”, laddove il regolamento comunale vigente espressamente prevede che “progettisti” si identificano nei dipendenti di ruolo facenti parte dell’ufficio tecnico.
...
2.1. Al riguardo, giova premettere che il Comune richiedente, come è possibile desumere dal preambolo dell’allegato A alla richiesta di parere (che richiama la giurisprudenza di questa Corte in materia, in particolare i pareri delle Sezioni di controllo della Regione Toscana,
parere 29.07.2013 n. 252 e parere 23.10.2013 n. 276 e della Regione Veneto parere 22.11.2013 n. 361), è avveduto –ma come si vedrà in modo insufficiente– della complessa questione interpretativa concernente la spettanza degli incentivi di progettazione ai sensi dell’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 a favore dei dirigenti - nel senso che la previsione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 conterrebbe, per i dirigenti, una norma di incentivazione autonoma derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività contenuta nel comma 5 del medesimo articolo.
In particolare, nel citato
parere 22.11.2013 n. 361, la Corte dei conti Sezione regionale per la Regione Veneto ha ritenuto che: “che la previsione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 contenga una esplicita norma di incentivazione che deroga al principio di onnicomprensività. La norma introduce quindi una previsione derogatoria autonoma e distinta rispetto a quella contenuta nel comma 5, ricavabile da numerosi fattori. Tale conclusione è avvalorata, in particolare, sia dalla analisi dell’evoluzione storica della norma che dalla verifica della sua trasposizione nel corpus del codice dei contratti. Essa trova conferma altresì nella esplicita previsione testuale della norma (atto di pianificazione comunque denominato), nonché dalla previsione di una diversa commisurazione del compenso rispetto a quanto previsto in tema di progettazione di opere pubbliche. L’oggettiva e dimostrata maggiore complessità delle funzioni di pianificazione trova una sua esplicitazione a livello normativo nella documentazione che viene allegata alle varianti agli strumenti urbanistici rispetto alle modifiche puntuali di essi connesse alla progettazione delle opere pubbliche. Tali attività di elaborazione sono pertanto di uno scrutinio comparativo alla luce dei principi dell’ordinamento e in particolare di ragionevolezza e di quelli enunciati all’art. 36 della Costituzione. Anche sul piano soggettivo, le mansioni di pianificazione generali –a differenza di quelle di progettazione di opera pubblica– non sono ascrivibili alla specifica competenza di un solo soggetto, ma richiedono una attività multidisciplinare, che non potrebbe trovare deroga alcuna attese le tassatività delle competenze professionali stabilite dalla legge. Peraltro, esse richiedono comunque una intensa attività di coordinamento che trova esplicita conferma testuale nella norma del comma 6 nel rinvio alle modalità e criteri del regolamento di cui al comma precedente. La stessa commisurazione del compenso, in modo sensibilmente diverso rispetto a quella di progettazione dell’opera pubblica, dimostra come l’intenzione del legislatore è stata quella di attribuire la giusta retribuzione all’attività di pianificazione, anche mediata, a prescindere dal suo collegamento con un’opera pubblica”.
2.2. Tale questione interpretativa non costituisce, invero, il petitum del quesito, essendo quest’ultimo volto a conoscere se il Comune sia legittimato ad estendere al dirigente del Settore urbanistica del Comune medesimo (come previsto dalla delibera a firma dello stesso dirigente del Comune allegata alla richiesta di parere) la corresponsione degli incentivi per la progettazione, laddove, invece, il Regolamento comunale, emanato ai sensi dell’art. 110, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000, identifica i progettisti beneficiari “nei dipendenti di ruolo facenti parte dell’ufficio tecnico”, (v. art. 3, comma 1, lettera b, del Regolamento comunale per la corresponsione degli incentivi per la progettazione del 06.10.2006).
2.3. Tuttavia, occorre qui svolgere una importante precisazione circa la validità dell’orientamento formulato in proposito dalla Corte dei conti, Sezione di controllo per la Regione Veneto -
parere 22.11.2013 n. 361, citato nel preambolo della Determinazione n. 841 allegata alla richiesta di parere, evidentemente non a conoscenza del Comune richiedente.
2.3.1. La Corte dei conti, Sezione autonomie, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7 ha risolto la questione di massima circa la corretta interpretazione delle disposizioni recate dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (in prosieguo Codice dei contratti) ed, in particolare, della definizione ivi riportata “atto di pianificazione comunque denominato”.
Due erano gli indirizzi interpretativi formatisi nella giurisprudenza della Corte:
il primo considerava i corrispettivi previsti dalle citate disposizioni di cui all’art. 92, comma 6, a favore dei dipendenti, a titolo di incentivi alla progettazione interna, necessariamente collegati alla realizzazione di opere pubbliche e la partecipazione alla redazione di un atto di pianificazione di carattere generale quale attività rientrante nell’espletamento di funzioni istituzionali (cfr. ex multis: Sez. contr. Toscana parere 18.10.2011 n. 213 e
parere 19.03.2013 n. 15; Sez. contr. Piemonte parere 30.08.2012 n. 290; Sez. contr. Puglia Puglia, parere 16.01.2012 n. 1, parere 09.11.2012 n. 107; Sez. contr. Lombardia parere 24.10.2012 n. 452 e parere 27.09.2013 n. 391; Sez. contr. Campania parere 10.04.2013 n. 141; Sez. contr. Emilia Romagna parere 25.06.2013 n. 243; Sez. contr. Marche parere 04.10.2013 n. 67; Sez. contr. Umbria parere 09.07.2013 n. 119 e parere 23.10.2013 n. 125); il secondo, di recente espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto (deliberazione n. 361/2013), e richiamato nel preambolo della determinazione n. 841 del 04.12.2013, allegata alla richiesta di parere del Comune di Cesenatico, affermava che “con l’utilizzo della locuzione atto di pianificazione comunque denominato, lungi dall’autorizzare interpretazioni restrittive, il legislatore ha inteso utilizzare una dizione sufficientemente generale ed aperta, tale da consentire di ascrivere all’ambito oggettivo della norma ogni atto di pianificazione, prescindendo dal suo collegamento diretto con la progettazione di un’opera pubblica”, concludendosi per un’applicazione dell’istituto premiale estesa ad ogni atto di pianificazione “anche di carattere mediato”.
2.3.2. Nel merito, la Sezione autonomie, nella citata
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha risolto la questione di massima e dunque il contrasto tra le pronunce delle Sezioni regionali di controllo della Corte nel senso che gli incentivi di cui al citato art. 92, commi 5 e 6, devono essere necessariamente riferiti alla progettazione di opere pubbliche e non invece a meri atti di pianificazione non collegati direttamente alla realizzazione di un'opera pubblica, come invece risulterebbe dalla citata determinazione n. 841 allegata alla richiesta di parere del Comune di Cesenatico, che, appunto, fa riferimento alla progettazione della “variante generale al PRG 98, ai sensi dell’ex art. 15 l.r. n. 47/1978 e s.m.i.”.
2.4. Tanto premesso, in considerazione del tenore della richiesta di parere, occorre comunque stabilire se l’attuale formulazione del Regolamento comunale per la corresponsione degli incentivi per la progettazione osti, in via di principio, a legittimare il Comune a corrispondere, per attività svolte nell’anno 2013, incentivi per la progettazione (riferibile alla realizzazione di opere pubbliche) al dirigente responsabile della struttura, dato, come si è visto, che il citato regolamento individua i beneficiari degli incentivi nei progettisti “dipendenti di ruolo facenti parte dell’ufficio tecnico”, come individuati dal dirigente.
2.5. Al riguardo occorre ricordare che il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Personale Dirigente del comparto Regioni e autonomie locali (Area II Regioni e Autonomie locali) Quadriennio normativo 2006-2009, Biennio 2006-2007 prevede all’art. 20 (Onnicomprensività del trattamento economico) quanto segue: “In aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, ai dirigenti possono essere erogati direttamente, a titolo di retribuzione di risultato, solo i compensi previsti da specifiche disposizioni di legge, come espressamente recepite nelle vigenti disposizioni della contrattazione collettiva nazionale e secondo le modalità da queste stabilite: art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163 del 12.04.2006; art. 37 del CCNL del 23.12.1999; art. 3, comma 57, della legge n. 662 del 1996; art. 59, comma 1, lett. p), del d.lgs. n. 446/1997 (recupero evasione ICI); art. 12, comma 1, lett. b), del d.l. n. 437 del 1996, convertito nella legge n. 556 del 1996. L'ente definisce l'incidenza delle suddette erogazioni aggiuntive sull'ammontare della retribuzione di risultato sulla base criteri generali oggetto di previa concertazione sindacale, ai sensi dell'art. 6 del CCNL del 22.02.2006.”.
Tale clausola negoziale riproduce quelle già inserite nel CCNL del 23.12.2009 (art. 26, comma 1, lett. e), e nel CCNL del 10.04.1996 (art. 37, comma 1, lett. e).
Nell’orientamento applicativo del 27.11.2007, l’Aran ha anche chiarito che “le risorse derivanti dalla applicazione dell’art. 18 della legge 109/1994 (ora art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006) possono confluire nel fondo di posizione e di risultato della dirigenza (per essere erogate come retribuzione di risultato) solo a condizione che sussistano i finanziamenti destinati alla esecuzione delle relative opere pubbliche e, naturalmente, limitatamente al solo anno di riferimento temporale dello stesso finanziamento”.
2.6. Quanto alla individuazione dell’Ufficio tecnico, l’organigramma del Comune di Cesenatico non individua espressamente l’”Ufficio tecnico”, bensì diversi Uffici con competenze di progettazione urbanistica tra cui l’Ufficio diretto dal dirigente arch. Vittorio Foschi Edilizia privata-vigilanza (cfr. determinazione n. 841 del 04.12.2013, allegata alla richiesta di parere del Comune di Cesenatico); sicché, quest’ultimo sembra riconducibile nell’ambito applicativo della disposizione comunale.
2.7. Sulla base del ricostruito quadro normativo di riferimento, la formulazione della norma regolamentare del Comune di Cesenatico non sembra di per sé di ostacolo alla destinazione nell’an degli incentivi di cui al Fondo per la progettazione al personale dirigenziale di ruolo di un Ufficio tecnico del Comune, in quanto come si è visto, sulla base delle vigenti clausole contrattuali, la cd. onnicomprensività del trattamento dei dirigenti appartenenti all’ Area II (Dirigenti di Regioni ed Enti locali) non esclude l’eventuale destinazione, anche a loro beneficio, degli incentivi di cui all’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006.
3. Un ulteriore profilo merita di essere evidenziato sebbene esso non formi oggetto del quesito.
La citata determinazione n. 841 del 04.12.2013, allegata alla richiesta di parere, prevede che il dirigente capo dell’Ufficio risulta beneficiario nella misura del 40% dell’incentivo; e tuttavia,
tenuto conto del disposto di cui al quarto periodo dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006 “La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”, la determinazione omette di indicare il soggetto deputato ad “accertare” che le attività da remunerare saranno svolte in modo positivo, potendo invero ipotizzarsi che, nel silenzio della determina, il capo dell’Ufficio beneficiario dell’incentivo possa coincidere con il soggetto che provvederà all’accertamento del buon esito del progetto.
In proposito, occorre segnalare che il Comitato consultivo dell’Avvocatura generale dello Stato, nel
parere 21.12.2013 n. 513720/23 di prot. (CS 4955-6145/13, Sez. VII, avv. Marco Stigliano Messuti), in riferimento al quesito su “chi debba intendersi per membro interno ovvero esterno alla stazione appaltante ai fini dell’applicazione rispettivamente degli incentivi ex art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163/2006”, ha ritenuto che "[…] gli aventi diritto potevano essere solo le figure tecnico-professionali espressamente richiamate ai fini del riparto, ossia il responsabile del procedimento, il progettista, il direttore dei lavori, i collaudatori, nonché i loro collaboratori"; il citato parere aggiunge che [nella fattispecie esaminata] "il convenuto ha percepito il fondo come collaboratore di sé medesimo in evidente violazione dell'art. 92, comma 5, nella parte in cui, invece, stabiliva la destinazione ad 'economia' non solo per la quota d'incentivo riguardante le attività conferite a soggetti esterni, ma anche per quelle prive del dovuto “accertamento" da parte del dirigente, e non vede il Collegio come il ... abbia potuto sindacare, valutare e, dunque, 'accertare' la propria auto-collaborazione".
4. Occorre aggiungere che la disciplina in tema di riparto del fondo per l’incentivazione per la progettazione interna è stata riconsiderata ad opera dell’art. 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90 “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari”, convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114, che ha abrogato i commi 5 e 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, che ha inserito, dopo il comma 7 dell'articolo 93 del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, il comma 7-ter, il quale così dispone “L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.”.
Per effetto di questa innovazione normativa:
a) la disciplina del regime dell’incentivazione è ora espressamente da ricondurre alla sola realizzazione di opere pubbliche e non anche ad attività di pianificazione territoriale;
b) in base all’ultimo periodo del citato comma 7-ter, il legislatore, evidentemente ispirato alla ratio del principio della onnicomprensività della retribuzione, prevede ora che non spetta al “dirigente” il riparto degli incentivi dal Fondo per la progettazione.
5. Conclusivamente, deve ritenersi che:
   a) l’ambito applicativo degli incentivi per la progettazione di cui agli artt. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 riguarda non un'attività di semplice pianificazione territoriale (come sembra avvenire nel caso all’esame), ma esclusivamente progettazione collegata direttamente con la realizzazione di un'opera pubblica;
   b) fino all’entrata in vigore della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, anche il dirigente di ruolo di un ufficio tecnico del Comune potrebbe beneficiare degli incentivi, in quanto il contratto collettivo nazionale di lavoro dell’Area II prevede espressamente quale deroga al principio dell’onnicomprensività la spettanza di incentivi per la progettazione (come detto, strettamente riferibile alla realizzazione di un’opera pubblica);
   c) in base al principio dell’alterità, il beneficiario dell’incentivo non può coincidere con il soggetto (ad esempio, il capo dell’Ufficio tecnico) che provvederà all’accertamento del buon esito del progetto;
   d) l’art. 93, comma 7-ter, ultimo periodo, del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come inserito dall’art. 13-bis “Fondi per la progettazione e l'innovazione” della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 –disposizione non applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica– ha espunto dall’ordinamento il comma 5 (al quale il CCNL dell’Area II faceva richiamo) e il comma 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163; in base a tale nuova disciplina il riparto del fondo per la progettazione non trova più applicazione per il personale con qualifica dirigenziale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 19.09.2014 n. 183).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIPersonale, l'in house non vale. Consorzi e aziende speciali nel calcolo delle spese. La Corte conti Lombardia ribadisce l'esigenza di consolidamento dei bilanci locali.
Gli enti locali, ai fini del rispetto dell'obbligo di contenimento delle spese di personale, devono considerare anche quelle dei consorzi e delle aziende speciali da essi partecipati, ma non quelle delle proprie società in house.

Lo ha chiarito (confermando il proprio orientamento sul punto) la Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con il parere 29.09.2014 n. 237.
La pronuncia ribadisce l'esigenza del consolidamento delle spese di personale del «gruppo ente locale», che comprende i diversi sistemi organizzativi nei quali, ormai, si articola l'amministrazione pubblica. Tale esigenza, tuttavia, non può essere assolutizzata, ma deve essere sempre letta alla luce del contesto e dell'evoluzione normativa.
Da qui l'esclusione delle spese di personale delle società in house, tenuto conto delle controproducenti rigidità gestionali che ne deriverebbero: tali compagini, infatti, di norma, gestiscono servizi caratterizzati da picchi di attività ultra-annuali, che rischierebbero di falsare le serie storiche.
Al contrario, vanno consolidate le aziende speciali, alla luce del rapporto di immedesimazione organica e funzionale con l'ente partecipante che le caratterizza. Stesso discorso per i consorzi, vista la loro stretta strumentalità (che rasenta l'immedesimazione organica e funzionale).
Ricordiamo che i limiti alle spese di personale sono quelli previsti dall'art. 1, commi 557 e 562, della l 296/2006: gli enti soggetti al Patto di stabilità interno devono garantire il contenimento rispetto al valore medio del triennio 2011-2013, mentre quelli non soggetti non devono superare il valore del 2008. Fanno eccezione i soli enti (soggetti al Patto) che nel 2012 partecipavano alla sperimentazione del nuovo sistema contabile.
In tal caso, come chiarito dal recente parere n. 73024/2014 del Mef, la base di calcolo è pari al doppio della spesa 2011 + la spesa 2013 diviso 3. Ciò per sterilizzare gli effetti derivanti dall'applicazione del nuovo principio della competenza finanziaria potenziata (articolo ItaliaOggi del 03.10.2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U. 03.10.2014 n. 230 "Individuazione delle prestazioni principali in relazione alle caratteristiche essenziali dei beni e servizi oggetto delle convenzioni stipulate da Consip S.p.A., ai sensi dell’articolo 10, comma 3, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 15.09.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 40 dell'01.10.2014, "Adempimenti derivanti dagli obblighi nei confronti dell’Unione Europea relativi alle attività estrattive di cava" (L.R. 01.10.2014 n. 27).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 40 dell'01.10.2014, "Norme per la promozione e lo sviluppo delle attività motorie e sportive, dell’impiantistica sportiva e per l’esercizio delle professioni sportive inerenti alla montagna" (L.R. 01.10.2014 n. 26).

VARI: G.U. 29.09.2014 n. 226 "Disciplina del Fondo di garanzia «prima casa» di cui all’articolo 1, comma 48, lett. c), della legge 27.12.2013, n. 147" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 31.07.2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: D. Tramutoli, L'interpretazione del principio di concentrazione e continuità delle operazioni di gara d'appalto” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, sentenza n. 4605 del 10.09.2014) (01.10.2014 - link a www.diritto.it).

APPALTI: R. De Nictolis, Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014 (01.10.2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Il D.L. n. 90/2014, e le sue modifiche intervenute con il D.L. n. 114/2014, hanno ridisegnano in modo signi-ficativo il rito degli appalti pubblici disciplinato dall’art. 120 c.p.a. Nel testo si opera una ricostruzione siste-matica del rito, alla luce delle novità introdotte.

NOTE, CIRCOLARI  E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Legge n. 114 dell’11.08.2014: modifiche in ambito di appalti pubblici. Certificazioni antimafia; ANAC; AVCPass; Centrali di committenza; varianti in corso d’opera; ulteriori disposizioni (ANCE Bergamo, circolare 03.10.2014 n. 187).

ENTI LOCALI: OGGETTO: Sperimentazione armonizzazione contabile - triennio di riferimento ai fini del contenimento spese di personale (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, nota 16.09.2014 n. 73024 di prot.).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Portatrice di handicap.
Domanda
Sono un dipendente pubblico affidatario di un bambino portatore di handicap grave e vorrei sapere di quali permessi lavorativi posso beneficiare.
Risposta
L'handicap gravità viene riconosciuta nel caso di riduzione dell'autonomia personale, correlata all'età, che renda necessario un intervento assistenziale permanente e continuativo.
In merito ai permessi lavorativi la legge n. 53/2000 prevede nei confronti dei genitori anche adottivi di persona portatrice di handicap i seguenti permessi:
1) la madre, o in alternativa, il padre di minore con handicap in situazione di gravità, possono astenersi dal lavoro in astensione facoltativa fino al compimento del 3° anno di età del bambino, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti ospedalieri;
2) in alternativa, il lavoratore può chiedere 2 ore di permesso giornaliero retribuito fino al compimento del 3° anno di vita del bambino;
3) successivamente al compimento del 3° anno di età del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, ha diritto a tre giorni di permesso mensile, coperti da contribuzione figurativa, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata in Istituto di cura.
Inoltre va ricordato che il genitore che assiste un figlio portatore di handicap, ha diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso. Tutti i permessi e benefici sopra citati sono riconosciuti anche nei confronti degli affidatari di persona portatrice di handicap grave (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: 65% anche con comodato verbale.
Domanda
È indispensabile redigere per iscritto e registrare un contratto di comodato di immobile al fine di poter beneficiare della detrazione Irpef del 65% per interventi di risparmio energetico dei quali il comodatario, nipote del comodante, si farebbe carico?
Risposta
A termini di legge, anche un contratto di comodato verbale, spesso posto in essere in ambito familiare o parentale, non registrato, del tutto legittimo sul piano civilistico e fiscale (l'obbligo di registrazione, in termine fisso e a tassa fissa, è previsto solo per i contratti scritti), appare idoneo a legittimare il diritto alla detrazione Irpef del 65%.
Infatti, la normativa primaria e secondaria (art. 1, commi da 344 a 349, legge n. 296/2006 e dm 19.02.2007, art. 2, lettera a), non prevedono particolari condizioni circa il titolo giuridico di possesso o di detenzione, ma stabiliscono semplicemente la spettanza della detrazione, per una quota degli importi «rimasti a carico del contribuente», «per le spese documentate» e fanno riferimento unicamente alla situazione «di fatto» di materiale disponibilità dell'immobile, concretantesi nel possesso o nella mera detenzione, limitandosi a richiedere (art. 4, comma 1, lett. d) del dm) che, se i lavori sono effettuati dal detentore, dev'essere conservata ed esibita la dichiarazione del possessore di consenso all'esecuzione dei lavori, oltre ai bonifici dai quali risulti la causale del versamento ed il codice fiscale del beneficiario della detrazione.
Allo stesso modo, anche la fondamentale circolare 37/E/2007, nel richiamare il comodato, non ne richiede la registrazione.
Conferma di quanto sopra è stata data di recente dalla Ctp di Como (sent. n. 43/5/2013) che ha dichiarato non legittimo l'accertamento dell'Ufficio in un caso come quello oggetto del quesito sottolineando -in modo condivisibile- che è evidente la ratio della normativa, consistente nell'agevolare -oggettivamente- gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, beneficiando della relativa detrazione il contribuente che sostiene le relative spese, restando a tal fine irrilevanti il titolo giuridico (proprietà, o altro diritto reale, o contratto a effetti obbligatori), la forma del contratto (scritta o verbale) in base al quale il contribuente che ha sostenuto le spese detiene l'immobile e, a maggior ragione, la circostanza che tale titolo abbia data certa opponibile al fisco.
Nel caso di specie, il consenso del possessore (la società locatrice) all'esecuzione dei lavori risultava da una scrittura privata e da una dichiarazione, non sussistevano contestazioni sul fatto che le spese fossero state concretamente sopportate dal comodatario, e quest'ultimo, ad abundantiam, fosse divenuto, successivamente, locatario dell'unità immobiliare in forza di contratto di locazione regolarmente registrato.
Tutto ciò precisato, laddove si voglia fugare «all'origine» il rischio di siffatte contestazioni da parte dell'Ufficio, con conseguenti costi per la difesa, patemi d'animo e perdite di tempo, può avere senso registrare a tassa fissa (euro 200) e nel termine fisso di 20 giorni un contratto di comodato scritto, ove potrà essere già inserita l'autorizzazione a effettuare i lavori (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Spese di ristrutturazione.
Domanda
I costi di ristrutturazione sono stati sostenuti da due sorelle conviventi. Una delle due non compare però nell'intestazione della fattura emesse dalla ditta edile a fronte dei lavori effettuati. Come può costei usufruire della detrazione per spese che ha effettivamente sostenuto?
Risposta
La sorella non indicata in fattura potrà usufruire della quota parte di detrazione che le spetta mediante apposita annotazione, da apportare su detta fattura, indicante le percentuali di spesa effettivamente sostenute dalle due sorelle.
Si veda al riguardo la ris. n. 353/2008, con la quale venne chiarito come, in presenza di più soggetti che intendono fruire della detrazione, l'eventuale indicazione sul bonifico del solo codice fiscale di uno di essi non pregiudica comunque il diritto degli altri aventi diritto (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

TRIBUTI: Appartamento da sopraelevazione.
Domanda
Si chiede se, nel caso, di appartamento risultante da sopraelevazione, il comune poteva assoggettare a imposizione Ici l'area su cui si sviluppava la cubatura, in relazione alla quale era stata conseguita la concessione edilizia per l'appartamento al primo piano dato che non vi è altra area fabbricabile se non quella su cui insiste l'appartamento a suo tempo realizzato al piano terreno.
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza dell'08.05.2013, numero 10735, alla luce anche della precedente sentenza della stessa Corte del 23.10.2006, numero 22808, ha affermato che, ai fini dell'Imposta comunale sugli immobili (Ici), la nozione di fabbricato, di cui all'articolo 2, del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, rispetto all'area su cui esso insiste, è unitaria nel senso che, una volta che l'area edificabile sia comunque utilizzata, il valore della base imponibile, ai fini dell'imposta, si trasferisce dall'area stessa all'intera costruzione realizzata. Infatti, per i giudici, la norma, per l'applicazione dell'imposta comunale sugli immobili, sul fabbricato di nuova costruzione, individua due soli criteri alternativi: la data di ultimazione dei lavori, ovvero, se antecedente, quella di utilizzazione, senza alcun riferimento alla divisione del fabbricato, in piani o porzioni.
Pertanto, secondo la Suprema corte, richiamata la sua precedente sentenza del 15.12.2004, numero 23347, per la determinazione della base imponibile di un appartamento in costruzione al primo piano dell'edificio, non trova applicazione la normativa portata dall'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, che disciplina l'utilizzazione edificatoria dell'area, individuando come base imponibile il valore dell'area stessa, ma l'articolo 2, comma 1, lettera a), che, per l'assoggettabilità a imposta del fabbricato di nuova costruzione individua due criteri alternativi. Il primo criterio è la data di ultimazione dei lavori di costruzione, l'altro, se antecedente, quello di utilizzazione.
Ora, nel caso, di appartamento risultante da sopraelevazione, non essendosi, per Giudici, realizzato alcuno dei due presupposti, il comune non avrebbe dovuto assoggettare a imposizione Ici l'area su cui si sviluppava la cubatura, in relazione alla quale era stata conseguita la concessione edilizia per l'appartamento al primo piano, non essendovi altra area fabbricabile che quella su cui insisteva l'appartamento a suo tempo realizzato al piano terreno (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Variazione della rendita catastale.
Domanda
Per i provvedimenti di variazione della rendita catastale di unità immobiliare, emessi dall'Ufficio del territorio, su richiesta del Comune, ai sensi dell'articolo 3, comma 58, della legge 23.12.1996, numero 662, sussiste un rigoroso obbligo di motivazione?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con l'ordinanza del 03.02.2014, numero 2357, ha affermato, anche alla luce di quanto deciso dalla stessa Corte con la sentenza numero 9629, del 13.06.2012 e a modifica di precedente orientamento della stessa Corte di cassazione, che, l'Agenzia delle entrate, Ufficio del territorio, quando procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classamento a una unità immobiliare a destinazione ordinaria, deve specificare se tale mutato classamento sia dovuto a trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione oppure a una risistemazione dei parametri relativi alla microzona, in cui si colloca l'unità immobiliare.
Nel primo caso, l'Agenzia delle entrate deve indicare le trasformazioni edilizie intervenute. Nel secondo caso, il predetto Ufficio deve indicare l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano, rendendo così possibile la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del contribuente.
La Suprema corte, quindi, con la citata sentenza ha riconfermato il proprio recente indirizzo circa la idonea motivazione degli atti impugnati; motivazione non integrabile dall'Ufficio, convenuto in giudizio, nel corso del giudizio medesimo. Per i giudici, pertanto, non è più da condividere la tesi, secondo la quale gli atti dell'Ufficio, impugnati, debbano avere soltanto il requisito della provocatio ad apponendum, necessaria per far conoscere al contribuente gli elementi essenziali della pretesa impositiva (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

TRIBUTI: Chi paga Imu e Tasi.
Domanda
Vorrei sapere chi è tenuto al pagamento dell'Imu e della Tasi in presenza della seguente fattispecie: firma di un preliminare di vendita con immissione anticipata del promissario acquirente nel possesso dell'immobile.
Risposta
Il pagamento dell'Imu sarà a totale carico del proprietario, promittente venditore, dell'immobile. Per quel che concerne la Tasi invece, la stessa sarà in parte a carico del proprietario dell'immobile (promittente venditore) e in parte dell'occupante lo stesso (promittente acquirente), secondo le percentuali al riguardo fissate dall'apposita delibera del Comune competente (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGOOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità limitate. Niente analogia per le norme sull'ineleggibilità. I divieti previsti per i dipendenti comunali non si applicano alle unioni.
Sussiste una causa d'incompatibilità di cui al combinato disposto degli artt. 60, comma 1, n. 7) e 63, comma 1, n. 7), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nei confronti del dipendente di un comune che sia anche amministratore di un altro comune, entrambi facenti parte di un'unione, e che abbia altresì la gestione di un servizio associato?

Il legislatore ha delineato l'istituto dell'unione di comuni, disciplinandolo nei suoi elementi essenziali e inderogabili, e demandando all' autonomia statutaria e regolamentare dell'unione medesima la disciplina dei propri organi e della propria organizzazione.
In particolare, l'art. 32, comma 3, del decreto legislativo n. 267 del 2000, come da ultimo modificato dall'art.1, comma 105, della legge 07.04.2014, n. 56, stabilisce che «gli organi dell'unione, presidente, giunta e consiglio, sono formati da amministratori in carica dei comuni associati (omissis). Il presidente è scelto tra i sindaci dei comuni associati e la giunta tra i componenti dell'esecutivo dei comuni associati. Il consiglio è composto da un numero di consiglieri definito nello statuto, eletti dai singoli consigli dei comuni associati tra i propri componenti, garantendo la rappresentanza delle minoranze ed assicurando la rappresentanza di ogni comune».
Tale previsione normativa persegue l'intento di consolidare l'appartenenza dell'ente associativo ai comuni che lo compongono, attraverso l'identità dei soggetti amministratori.
Il successivo comma 4 stabilisce che «l'unione ha potestà statutaria e regolamentare e ad essa si applicano, in quanto compatibili e non derogati con le disposizioni della legge recante disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, i principi previsti per l'ordinamento dei comuni, con particolare riguardo allo stato degli amministratori (omissis)».
In base a tale ultimo richiamo, le norme di cui al menzionato art. 63, in quanto compatibili e non derogate nei termini sopra indicati, devono ritenersi applicabili anche in materia di unioni di comuni.
Alla luce della citata normativa, si potrebbe delineare la fattispecie dell'incompatibilità nell'eventualità in cui un medesimo soggetto sia dipendente dell'unione di comuni e, nel contempo, componente degli organi di governo della stessa.
Il caso che qui ci occupa riguarda, invece, un dipendente comunale che andrebbe a gestire un servizio associato nell'ambito di un'unione di comuni, di cui fa parte l'ente presso il quale presta servizio, e che contemporaneamente riveste la qualità di amministratore in un altro ente, pure facente parte della predetta unione.
Sul punto, costituisce ius receptum il principio in virtù del quale le cause d'ineleggibilità e d'incompatibilità, sostanziandosi in una limitazione al diritto di elettorato passivo, costituzionalmente garantito, sono di stretta interpretazione e applicazione (ex multis, Corte costituzionale, sentenza 20.02.1997, n. 44; Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 22.12.2011, n. 28504; Id., sentenza 11.03.2005, n. 5449).
L'ipotesi prevista dall'art. 63, comma 1, n. 7), del decreto legislativo n. 267 del 2000 si riferisce esclusivamente ai dipendenti del comune e della provincia per i rispettivi consigli; va escluso, pertanto, nel caso di specie, il delinearsi di una causa d'incompatibilità nei confronti dell'amministratore di un ente locale, che sia dipendente di un altro ente, entrambi facenti parte di un'unione di comuni, e che assuma la gestione di un servizio associato.
Il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 ha, peraltro, dettato una specifica disciplina in materia di inconferibilità di incarichi, anche dirigenziali, presso pubbliche amministrazioni, della quale gli enti interessati dovranno eventualmente tenere conto, ove ne ricorrano in concreto i presupposti (articolo ItaliaOggi del 03.10.2014).

APPALTI: Cessione di ramo d'azienda relativo a servizi cimiteriali.
Atteso che il codice dei contratti ha coordinato e chiarito il rapporto tra le fattispecie di 'cessione del contratto' e di 'cessione di ramo d'azienda', riaffermando il divieto di cessione del contratto ex art. 118, comma 1 e facendo al contempo espressamente salva la disciplina sulle modificazioni soggettive dell'appaltatore-esecutore del contratto ex art. 116, la cessione del ramo d'azienda non pare configurare una violazione della clausola del capitolato speciale d'appalto, relativa alla previsione del divieto di cessione e subcessione del contratto.
Il Comune, che ha in essere un contratto per i servizi cimiteriali con una società la quale ha di recente operato una cessione di ramo d'azienda relativamente a tali servizi, chiede di conoscere se detta cessione costituisca violazione della clausola contrattuale del capitolato speciale d'appalto che vieta espressamente la cessione e la sub-cessione del contratto.
Esaminato il quadro normativo di riferimento, si formulano le seguenti considerazioni.
La cessione di ramo di azienda, così come l'azienda è definita dall'art. 2555 del codice civile, comporta il trasferimento del 'complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa'. La cessione del contratto, invece, riguarda il solo mutamento del soggetto esecutore dello stesso.
Il divieto di cessione del contratto è previsto dall'articolo 118, comma 1 del codice dei contratti, ai sensi del quale: '1. I soggetti affidatari dei contratti di cui al presente codice sono tenuti ad eseguire in proprio le opere o i lavori, i servizi, le forniture compresi nel contratto. Il contratto non può essere ceduto, a pena di nullità, salvo quanto previsto nell'articolo 116.'.
[1]
La disciplina del mutamento dell'esecutore del contratto, determinata dalla cessione del ramo di azienda da parte dell'aggiudicatario, è contenuta, invece, nell'articolo 116 del d.lgs. 163/2006. In particolare, ai fini dell'odierno quesito, rilevano i commi 1 e 2 e 3 del citato articolo 116, i quali prevedono che '1. Le cessioni di azienda e gli atti di trasformazione, fusione e scissione relativi ai soggetti esecutori di contratti pubblici non hanno singolarmente effetto nei confronti di ciascuna stazione appaltante fino a che il cessionario, ovvero il soggetto risultante dall'avvenuta trasformazione, fusione o scissione, non abbia proceduto nei confronti di essa alle comunicazioni previste dall'articolo 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11.05.1991, n. 187, e non abbia documentato il possesso dei requisiti di qualificazione previsti dal presente codice.
2. Nei sessanta giorni successivi la stazione appaltante può opporsi al subentro del nuovo soggetto nella titolarità del contratto, con effetti risolutivi sulla situazione in essere, laddove, in relazione alle comunicazioni di cui al comma 1, non risultino sussistere i requisiti di cui all'articolo 10-sexies della legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni.
3. Ferme restando le ulteriori previsioni legislative vigenti in tema di prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale, decorsi i sessanta giorni di cui al comma 2 senza che sia intervenuta opposizione, gli atti di cui al comma 1 producono, nei confronti delle stazioni appaltanti, tutti gli effetti loro attribuiti dalla legge
.'.
Come osservato dall'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici
[2], 'L'articolo 116 citato, quindi, non esclude mutamenti soggettivi in fase di esecuzione del contratto, ma prevede un'ipotesi di inefficacia relativa, perché subordina l'efficacia della cessione nei confronti dell'amministrazione all'adempimento di obblighi informativi e all'assolvimento di oneri probatori per comprovare il possesso dei requisiti. La possibilità di subentro nel contratto da parte del cessionario di un ramo d'azienda è, dunque, normativamente subordinata al positivo accertamento del possesso dei requisiti di ordine generale e speciale, al fine di garantire la stazione appaltante circa la permanenza, in caso di modificazione soggettiva dell'esecutore del contratto, dei requisiti accertati in capo al soggetto affidatario del contratto.'.
Con le disposizioni di cui agli articoli 118, comma 1 e 116, il codice dei contratti ha definitivamente operato un coordinamento e chiarito il rapporto tra le due fattispecie 'cessione del contratto' e 'cessione di ramo d'azienda' riaffermando per un verso il divieto di cessione del contratto ex art. 118, comma 1 e facendo al contempo espressamente salva la disciplina sulle modificazioni soggettive dell'appaltatore-esecutore del contratto ex art. 116 del codice stesso.
Per quanto in premessa, la cessione di ramo d'azienda in commento non pare configurare una violazione della clausola del capitolato speciale d'appalto, relativamente al divieto di cessione e sub-cessione del contratto ivi previsto.
---------------
[1] Per un approfondimento si veda il parere AVCP AG35-08, 06.11.2008, Oggetto: cessione di ramo di azienda ex art. 116 D.Lgs. n. 163/2006 relativo al servizio di pulizia, consultabile al sito internet: http://www.avcp.it .
[2] Così AVCP, parere 24.10.2012 (AG 20/12)
(30.09.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE: Limitazioni di spesa per acquisto arredi.
Il testo vigente dell'art. 1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel limitare la spesa per l'acquisto di mobili e arredi da parte delle amministrazioni pubbliche al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011, consente una deroga, qualora l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili previa verifica che i risparmi realizzabili con l'acquisto degli arredi siano maggiori rispetto alla minor spesa che deriverebbe dall'applicazione del citato limite.
Compete, quindi, a ciascuna amministrazione verificare, nell'ambito della propria autonomia, la presenza delle condizioni per l'applicazione della deroga descritta, tenendo conto che la violazione della norma in commento è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare.

Il Comune formula una serie di quesiti in ordine alla possibilità di arredare i locali di un edificio in procinto di essere ristrutturato, per essere utilizzato come centro civico polifunzionale, atteso che nell'ambito della progettazione non risulta contemplato l'arredamento delle sale.
In particolare chiede di conoscere:
- se trovano applicazione le previsioni di cui all'articolo 1, comma 141 della l. 228/2012 e s.m.i., che, per gli anni 2013 e 2014, limitano la spesa per l'acquisto di mobili e arredi ad un importo non superiore al 20% di quella media sostenuta per il medesimo fine negli anni 2010 e 2011;
- se sia possibile 'impiegare, per l'acquisto degli arredi in argomento, il probabile ribasso d'asta, da applicare con una perizia di variante';
- se vi siano altre soluzioni praticabili;
- se, operando il divieto normativo per gli anni 2013 e 2014, nel corso dell'anno 2015 sia possibile procedere liberamente ai necessari acquisti.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni di carattere generale.
La restrizione delle spese in argomento è stata introdotta dall'art. 1, comma 141, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, successivamente modificato dall'art. 18, comma 8-sexies, del d. l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla l. 09.08.2013, n. 98. La norma, nella sua attuale versione, prescrive: 'Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014, le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della l. 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei revisori dei conti o l'ufficio centrale di bilancio verifica preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del presente comma. La violazione della presente disposizione è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti'.
La norma in discorso consente di derogare al limite in questione qualora 'l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili', prevedendo, all'uopo, la verifica preventiva che i risparmi realizzabili con l'acquisto degli arredi siano effettivamente maggiori rispetto alla minor spesa che deriverebbe dall'applicazione del divieto di acquisto disposto in via generale dallo stesso comma 141.
Si osserva che la Corte dei conti, Sezione Regionale di Controllo per la Toscana, con riferimento ad analoga questione ha stabilito (Del. n. 277/2013/PAR) che: 'Resta da chiarire il punto del quesito inerente la possibilità di derogare al limite di cui al citato art. 1, comma 141, in relazione all'acquisto di arredi che si configuri quale intervento funzionale e indispensabile all'utilizzo di opere pubbliche ultimate, ma non ancora arredate.
La norma in discorso consente di derogare al limite in questione qualora 'l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili', prevedendo, all'uopo, la verifica preventiva che i risparmi realizzabili con l'acquisto degli arredi siano effettivamente maggiori rispetto alla minor spesa
[1] che deriverebbe dall'applicazione del divieto di acquisto disposto in via generale dallo stesso comma 141.
Ritiene il collegio che spetti all'ente richiedente di verificare, nell'ambito della propria autonomia, la presenza delle condizioni per l'applicazione alla fattispecie della deroga appena descritta, tenendo conto, a tal fine, che la violazione della norma di cui si discute è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare
.'.
Tali affermazioni sembrano portare a ritenere che il termine 'conduzione', utilizzato dalla norma in commento, si riferisca alle diverse spese cui l'Ente andrebbe incontro per l'effettivo utilizzo dell'immobile da arredare
[2]. In questi termini, atteso che per l'effettivo utilizzo dell'immobile sembra necessario dotare i relativi locali (sala riunioni, la sala feste e le stanze destinate alle associazioni locali, sale per corsi ecc.) di idoneo mobilio, l'Ente potrà effettuare l'acquisto in deroga degli arredi in commento solo previa valutazione e quantificazione dei risparmi di spesa che potrebbero o meno derivare dalla scelta di acquistare i beni mobili (seppur eccedendo il limite del 20% indicato dalla norma) rispetto ad esempio a quella alternativa di noleggiare i medesimi per il periodo di vigenza del vincolo di finanza.
Si tenga tuttavia presente che, da quanto si evince dalla parafrasi della norma operata dalla Corte dei conti, pare potersi ritenere che l'effettivo risparmio derivante dall'acquisto in deroga debba essere superiore a quello derivante dall'applicazione della norma (quantificato nell'80% della spesa media sostenuta negli anni 2010 e 2011).
A parere di chi scrive, inoltre, il periodo di riferimento per la valutazione del risparmio dovrebbe essere quello indicato dalla norma per ciascuno degli anni 2013 e 2014. Infatti, scopo della norma è quello di conseguire i risparmi di spesa indicati nell'arco temporale da essa considerato.
Sembra, pertanto, che nel caso in commento l'effettivo risparmio da conseguirsi, in caso di acquisto in deroga, debba essere superiore all'importo corrispondente all'80% della spesa media sostenuta nel biennio 2010-2011.
[3]
Con riferimento alla possibilità di un eventuale ribasso d'asta da effettuarsi con perizia di variante, nell'osservare che le varianti progettuali sono consentite soltanto nei casi previsti alle lettere a), b), c), d) ed e) del comma 1 dell'articolo 132 del Codice dei contratti di cui al d.lgs. 163/2006, cui il caso in questione non pare poter essere ricondotto
[4], resta fermo che il comma 141 prevede espressamente le deroghe alle limitazioni finanziarie ivi previste, nei contenuti sopra rappresentati, non suscettibili di interpretazione estensiva.
Infine, circa la possibilità a partire dall'anno 2015 di effettuare o meno gli acquisti in commento senza restrizioni, essa dipenderà, ovviamente, dall'intervento di eventuali disposizioni legislative che stabiliscano anche per tale annualità limitazioni di spesa per l'acquisto di arredi.
---------------
[1] Dalla lettura del Dossier DV0028-I della Camera dei Deputati sulla l. 228/2012, paragrafo rubricato 'ARTICOLO 1, comma da 141 a 145 Acquisto di mobili, arredi ed autovetture' si evince che il termine 'minor spesa' viene utilizzato nel senso di 'risparmio' per ciascuno degli anni 2013 e 2014.
[2] Un tanto è confermato dall'Ufficio Studi CODAU (www.codau.it/ufficio_studi/commenti.php) nel Commento sintetico del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (decreto del fare), in cui esaminando l'articolo 18 di tale decreto, con riferimento all'art. 1, comma 141, della legge di stabilità 2013 afferma che: «Inoltre è possibile derogare al limite imposto dalla disposizione alla presenza di acquisti finalizzati alla valorizzazione del patrimonio a condizione che gli immobili siano entrati nella disponibilità dell'Ateneo prima dell'entrata in vigore della legge di stabilità per l'anno 2013 e che a seguito della verifica degli organi di controllo i risparmi siano superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del comma 141. In questo caso, infatti, può essere applicata l'eccezione prevista con il termine 'conduzione' dove per conduzione si intende non la conduzione nell'ambito della locazione degli immobili ma come sinonimo di 'utilizzo'.»
[3] Per esemplificare: se la spesa media nel biennio 2010-11 è stata 1.000, il comma 141 prescrive un risparmio annuo di 800. Qualora si proceda ad un acquisto in deroga, funzionale alla riduzione delle spese di utilizzo dell'immobile, il risparmio (risultante dalla differenza tra le spese che si sosterrebbero senza procedere all'acquisto e quelle che si sosterrebbero procedendo all'acquisto) deve risultare maggiore di 800 per ciascuno degli anni.
[4] Per un approfondimento, si veda l'articolo 'Codice dei contratti: perizie di variante e ribassi d'asta' di Paolo Oreto, consultabile sulla rivista on-line 'Lavori Pubblici.it'
(19.09.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Gruppi consiliari. - Quesito.
Con nota in data…., inviata anche a codesta Prefettura, il consigliere di minoranza del comune di …., ha posto un quesito in materia di costituzione di gruppi consiliari.
In particolare, ha rappresentato che dal proprio gruppo, formato da tre componenti, si è distaccato un consigliere comunale il quale, accettando la nomina ad assessore ha dichiarato di voler formare un gruppo autonomo.
Ciò, in contrasto con la previsione dell’art. 11, comma 1, dello statuto comunale il quale prevede che i gruppi debbano essere composti da almeno tre consiglieri.
Al riguardo, si evidenzia che l’esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3 – art. 39, comma 4 e art. 125 del d.lgs. n. 267/2000). La materia, pertanto, è regolata dalle apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell’ambito dell’autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall’art. 38 citato.
I mutamenti che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l’adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell’ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, atteso che non si è reso possibile accedere al contenuto del regolamento in ordine alla disciplina di dettaglio dei predetti gruppi, si rileva che la norma statutaria, oltre a fissare il numero minimo di tre componenti, dispone, altresì, che i gruppi consiliari “devono essere espressione politica della lista di partecipazione alle elezioni del Consiglio”. Oltre al vincolo numerico sussisterebbe, dunque, l’obbligo di cristallizzare i gruppi all’esito elettorale, senza alcuna possibilità di variazione successiva all’insediamento del Consiglio.
Tale disposizione statutaria qualora venga interpretata anche nel senso di vietare i movimenti all’interno dei singoli gruppi costituiti, sembrerebbe violare il principio fondamentale, confermato dalla giurisprudenza (cfr. TAR Lazio, sentenza n. 649 del 21.07.2004) secondo il quale “non è configurabile alcun obbligo giuridico che vincoli l’eletto al proprio partito ovvero ai propri elettori che non permetta, nel corso della consiliatura, l’abbandono della coalizione d’origine ed il contemporaneo transito in altra coalizione”.
Va da sé che gli eventuali mutamenti, oltre ad incidere sul numero dei gruppi, ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, influiscono sulla composizione delle commissioni consiliari, modificando i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio.
Fatta salva la verifica dell’effettivo contenuto delle disposizioni regolamentari, i vincoli statutari non consentirebbero le modificazioni evidenziate, sicché appare opportuna da parte dell’Ente, la modifica delle stesse disposizioni dello statuto, ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 267/2000 ed, eventualmente, delle norme regolamentari, sia per eliminare il possibile divieto di mobilità tra gruppi che per il necessario adeguamento alle successive prescrizioni di legge che hanno variato la composizione dei consigli comunali, in quanto la norma statutaria (art. 11) appare “rapportata ad una diversa composizione numerica del Consiglio comunale”.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione all’ente interessato (12.08.2014 - link a http://incomune.interno.it).

NEWS

TRIBUTI: Tasi, base imponibile ristretta. Sono escluse dal prelievo le aree scoperte e i terreni. I criteri per la corretta determinazione della nuova imposta sui servizi indivisibili.
Base imponibile Tasi meno ampia rispetto alle previsioni iniziali contenute nella legge di Stabilità (147/2013) che l'ha istituita. Nel corso del 2014 sono state escluse dal prelievo le aree scoperte, che non rientrano più nel campo di applicazione del tributo. La nuova imposta sui servizi comunali indivisibili, infatti, si paga solo sui fabbricati, comprese le abitazioni principali, e le aree edificabili. Esclusi espressamente dall'imposizione anche i terreni. La base imponibile è la stessa dell'Imu.
Per la sua determinazione occorre fare riferimento alla disciplina Ici. Del resto l'articolo 13 del dl Monti (201/2011), istitutivo dell'Imu sperimentale, dispone che la base imponibile è costituita dal valore dell'immobile calcolato ai sensi dell'articolo 5, commi 1, 3, 5 e 6 del decreto legislativo 504/1992. Mentre il valore dei fabbricati si determina facendo riferimento alla rendita catastale, per le aree edificabili il parametro da utilizzare è il valore di mercato.
I fabbricati. Il metodo di calcolo della base imponibile è uguale a quello già stabilito per l'Ici, ma si differenzia per l'applicazione alla rendita catastale, rivalutata del 5%, di coefficienti di moltiplicazione ben più gravosi, aumentati mediamente del 60%, con conseguente notevole incremento dell'imposizione. Per i fabbricati iscritti in catasto, il valore è calcolato sulla base delle rendite catastali, vigenti al 1° gennaio dell'anno di imposizione, moltiplicate per coefficienti individuati dalla legge per ogni singola categoria catastale.
In particolare la rendita catastale rivalutata va moltiplicata per:
a. 160 nel caso di fabbricati classificati nel gruppo catastale A e nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, con la sola esclusione della categoria catastale A/10;
b. 140 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale B e nelle categorie catastali C/3, C/4 e C/5;
c. 80 per i fabbricati classificati nella categoria catastale D/5;
d. 80 per i fabbricati classificati nella categoria catastale A/10;
e. 60 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale D, a eccezione dei fabbricati classificati nella categoria catastale D/5, relativamente all'anno di imposta 2012, mentre a partire dall'01/01/2013, il moltiplicatore verrà elevato a 65;
f. 55 per i fabbricati classificati nella categoria catastale C/1.
C'è già stato un generale incremento dell'imposizione dell'Imu rispetto all'Ici, i cui effetti si estendono alla Tasi, che vede penalizzate in misura maggiore le case di abitazione e le relative pertinenze, le botteghe e i negozi, laboratori per arti e mestieri. L'aumento dei moltiplicatori relativi agli immobili abitativi, Cat. A, ha subito, infatti, un incremento del 60% (da 50 a 80 per gli immobili classificati come A/10, da 100 a 160 per i restanti immobili della categoria A). Nel caso delle pertinenze, il moltiplicatore è aumentato del 40% (da 100 a 140). Uguale aumento percentuale hanno subito i laboratori per arti e mestieri (Cat. C/3), i fabbricati e locali sportivi (Cat. C/4) gli stabilimenti balneari (Cat. C/5) il cui coefficiente passa da 100 a 140.
L'aumento per i negozi, Cat. C/1 è invece pari al 61,76%, considerato che il moltiplicatore viene portato da 34 a 55. Meno incisivo, invece, è stato l'aumento sui fabbricati a destinazione speciale (categoria D) che hanno visto un minore aumento del moltiplicatore, che è passato da 50 a 60 nell'anno 2012 e a 65 a partire dal 2013, con l'eccezione solo degli immobili adibiti per l'esercizio delle funzioni di credito, cambio ed assicurazione per i quali l'aumento incide per il 60% (da 50 a 80).
Diverso è il metodo di calcolo della base imponibile nelle ipotesi di demolizione di fabbricato o di interventi di recupero a norma dell'articolo 31, comma 1, lettere c), d) ed e), della legge 05.08.1978, n. 457, così come per l'ipotesi di utilizzo edificatorio del terreno. In questi casi la base imponibile è costituita, ai sensi dell'art. 5, comma 6, dlgs 504/1992, dal solo valore dell'area, sino a quando sono ultimati i lavori di costruzione o ricostruzione dell'edificio o comunque fino al momento del suo effettivo utilizzo.
In presenza dell'edificazione di un fabbricato la base imponibile è data dal valore dell'area (non viene computato il valore del fabbricato in corso d'opera), dalla data di inizio dei lavori di costruzione fino a quella di ultimazione dei lavori, oppure fino al momento in cui il fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente a quello di ultimazione. Se il fabbricato non è ultimato o effettivamente utilizzato manca il presupposto per pagare la Tasi sul fabbricato, che è dovuta sul valore dell'area.
Le aree edificabili. Sono soggette all'imposta sui servizi indivisibili, dunque, anche le aree edificabili. Nulla è cambiato per l'imposizione delle aree edificabili con la disciplina Imu rispetto all'Ici. Le stesse regole valgono per la Tasi. Il legislatore, infatti, ha richiamato espressamente le disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. Sia per quanto riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta sia per la determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla normativa Ici. Il valore dell'area si determina prendendo a base il valore di mercato.
Per definire gli aspetti controversi della nozione di area edificabile, il legislatore è intervenuto due volte con norme di interpretazione autentica. L'Imu e la Tasi sono dovute se l'area è inserita in un Piano regolatore generale adottato dal consiglio comunale, ma non approvato dalla Regione. L'articolo 36, comma 2 del decreto-legge legge 223/2006 (manovra Bersani) ha chiarito che un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale deliberato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione della Regione e dall'adozione di strumenti attuativi. La qualificazione vale non solo per l'Ici, ma anche per l'Imu, la Tasi, le imposte erariali, dirette e indirette.
E questa è una norma di interpretazione autentica con effetti retroattivi (si veda Corte di cassazione, sentenza 25506 del 30.11.2006 e Ctr Lazio, sentenza 238 del 03.10.2006). L'articolo 36 ha interpretato la norma che disciplinava l'Ici (articolo 2 del decreto legislativo 504/1992), che a sua volta viene richiamata per l'Imu per quanto concerne la definizione e qualificazione giuridica di area edificabile. In effetti, che non fosse necessario un piano di lottizzazione per il pagamento dell'Ici era già stato disposto dall'articolo 11-quaterdecies, comma 16 del collegato alla Finanziaria 2006 (legge 248/2005).
Non a caso, nella circolare 28/2006 l'Agenzia delle entrate ha precisato che con la norma del decreto Bersani (articolo 36) è stato esteso alle imposte sui redditi, all'Iva e al registro, il concetto di area edificabile contenuto nell'articolo 11-quaterdecies, il cui ambito applicativo era riservato alla sola imposta comunale sugli immobili. Pertanto, un'area è soggetta all'imposta sui servizi indivisibili quando è inserita nel piano regolatore generale, anche se non approvato. Inoltre, il tributo è dovuto anche se la potenzialità edificatoria è solo parziale.
---------------
Zone edificabili, conta il valore di mercato.
Per la Tasi il valore di un'area edificabile deve essere determinato in base ai criteri fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992. Quindi, occorre stabilire il valore venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato.
La norma prevede che occorra fare riferimento a: zona territoriale di ubicazione dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche. I valori possono essere deliberati anche dalla giunta comunale, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico.
Anche per la nuova imposta sui servizi indivisibili, come per l'Imu, i comuni sono tenuti a fornire informazioni ai contribuenti sulle variazioni urbanistiche e i cambi di destinazione dei terreni in aree edificabili.
Nel caso in cui non venga inviata la comunicazione, non devono essere irrogate al titolare dell'area né sanzioni né interessi moratori sul tributo dovuto. Dunque, la regola imposta dall'articolo 31, comma 20, della legge 289/2002 (Finanziaria 2003) vale sia per l'Imu che per la Tasi. Questa norma prevede che debba essere informato il contribuente delle variazioni apportate agli strumenti urbanistici. Quando i comuni attribuiscono a un terreno la natura di area fabbricabile sono obbligati a darne comunicazione al contribuente, a mezzo posta, con modalità idonee a garantire l'effettiva conoscenza (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, è già conto alla rovescia. Esteso il bacino di soggetti obbligati a tenere i registri. Tra 90 giorni scattano il nuovo sistema di tracciabilità e quello tradizionale rinnovato.
Scattano tra 90 giorni, ossia il 01.01.2015, sia la piena operatività del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti (meglio noto come «Sistri»), sia l'applicazione della riformulata disciplina sul (residuale) regime di tracciamento tradizionale costituito dagli storici registri di carico/scarico e formulario di trasporto.
Con la fine del 2014, infatti, entra in vigore il regime sanzionatorio per la violazione degli obblighi Sistri previsto dal «Codice Ambientale» e acquistano efficacia le parallele nuove norme sulla tenuta delle scritture ambientali previste dallo stesso dlgs 152/2006 per i soggetti non operanti nel sistema telematico (ma con il quale avranno comunque punti di contatto).
Il regime ordinario Sistri. Lo spirare dell'anno in corso comporterà, in base al dl 101/2013 (l'ultimo provvedimento in materia di termini di operatività del Sistri), la fine dell'attuale regime transitorio a c.d. «doppio binario» che prevede la sospensione dell'applicazione delle sanzioni per le violazioni Sistri fino al 31.12.2014 imponendo però ai soggetti obbligati al tracciamento telematico (partito nel 2013) di continuare a osservare (sotto minaccia, in questo caso, delle relative pene) anche le tradizionali regole costituite da registri di carico/scarico, formulario di trasporto, dichiarazione ambientale «Mud».
L'entrata a pieno regime del Sistri interesserà, oltre ai soggetti che utilizzano volontariamente il sistema, la vasta platea di quelli obbligati per legge, ossia: enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi (a eccezione, purché non stocchino i propri rifiuti, delle aziende agricole conferenti rifiuti a sistema di raccolta e le piccole strutture individuate dal dm 24.04.2014); enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale, di trattamento, recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi produttori di rifiuti pericolosi; operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi; comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione Campania.
Uno strascico del citato regime transitorio si protrarrà tuttavia anche nel prossimo anno, poiché (come ricordato anche dal Minambiente con circolare 31.10.2013) entro il 30.04.2015 i soggetti operanti in Sistri dovranno comunque effettuare la (ultima) comunicazione «Mud» in relazione ai rifiuti prodotti e gestiti nel corso del 2014 e non già in tal modo dichiarati tramite il «modello unico di dichiarazione» ambientale presentato lo scorso 30 aprile.
Le sanzioni Sistri. Articolato e greve (seppur mitigato da meccanismi calmieranti) il regime sanzionatorio previsto dall'articolo 260-bis del «Codice ambientale» in vigore dal prossimo 01.01.2015, sistema che punisce a titolo amministrativo la violazione degli obblighi di iscrizione e comunicazione dati imposti dal dlgs 152/2006 e a titolo penale gli altri. In particolare, saranno perseguiti con sanzioni amministrative pecuniarie (fino a 93 mila euro unitamente, in alcuni casi, a provvedimenti interdittivi): la mancata iscrizione al Sistri entro i termini; l'omesso pagamento del contributo annuale; la mancata o scorretta compilazione delle schede Sistri; l'inadempimento degli «ulteriori» obblighi Sistri (compresi, evidentemente, quelli sanciti dal dm 52/2011, il c.d. «Testo unico sistri» che regola il funzionamento del sistema in attuazione del dlgs 152/2006).
Sono invece colpiti da sanzioni penali (con reclusione fino a due anni): la predisposizione e l'utilizzo di falsi certificati di analisi dei rifiuti; il trasporto senza copia cartacea della relativa scheda Sistri e, quando richiesto, dal certificato di analisi dei rifiuti (con conseguente confisca dei veicoli utilizzati). A mitigare, come accennato, le pesanti sanzioni due istituti previsti dallo stesso articolo 260-bis: il «cumulo giuridico», che in caso di più violazioni prevede l'applicazione della sola sanzione più grave aumentata fino al triplo; il «ravvedimento operoso», che rende indenne dalle (sole) sanzioni amministrative chi entro 30 giorni dalla commissione dell'illecito vi pone riparo adempiendo agli obblighi sottesi e lo ammette al pagamento di delle sanzioni (con esclusione di quelle accessorie) se definisce la controversia entro 60 giorni dalla contestazione.
Una volta in vigore, è bene sottolinearlo, il citato regime sanzionatorio colpirà tutte le violazioni alla disciplina Sistri in essere dal 01.01.2015 in poi, dunque anche i persistenti omessi pagamenti dei contributi annuali di iscrizione dovuti (salvo deroghe di legge) negli anni pregressi. Ancora, gli illeciti penali ex articolo 260-bis del «Codice ambientale» assumeranno rilevanza anche ai sensi della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle imprese prevista dal dlgs 231/2001.
Le novità sul tracciamento tradizionale. Con il nuovo anno, come accennato, diventeranno operative anche le riformulate disposizioni su registri di carico/scarico e formulario di trasporto dei rifiuti introdotte nel «Codice ambientale» dal dlgs 205/2010 (e successive modifiche), disposizioni che rimodulano il sistema di tracciamento tradizionale, allargandone i confini e sincronizzandolo con il Sistri.
Filosofia della nuova disciplina sarà la sostanziale sottoposizione alle storiche scritture ambientali di tutti i produttori e gestori professionali di rifiuti che non operano, per assenza di obbligo e di adesione volontaria, al Sistri (si veda la tabella in pagina). In base al nuovo articolo 190 del dlgs 152/2006 resteranno, infatti, fuori dall'obbligo di tenuta dei registri di carico e scarico unicamente: attività di raccolta e trasporto di propri rifiuti speciali non pericolosi effettuate da enti e imprese produttori iniziali; enti e imprese produttori iniziali di speciali non pericolosi derivanti da attività agricole, commerciali, di servizio, sanitarie; limitatamente ai non pericolosi, i «centri di raccolta» di rifiuti urbani.
Stretta anche sulle tempistiche per la compilazione iniziale, che verrà ridotta (da 10) a due giorni dalle operazioni per intermediari e commercianti. Esordirà, infine, un regime semplificato per i produttori di rifiuti pericolosi non inquadrati in enti o imprese e per quelli coincidenti con imprese agricole ex articolo 2135 del codice civile, che assolveranno gli obblighi dei registri con la tenuta delle schede Sistri rilasciate dai trasportatori dei rifiuti.
Analoga filosofia di controllo sarà quella sottesa al formulario di trasporto dei rifiuti, che a mente del nuovo articolo 193 del dlgs 152/2006 dovrà essere tenuto da tutti gli enti e imprese che raccolgono e trasportano rifiuti non aderenti al Sistri (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

VARIMutui, lo Stato si fa garante. Finanziamenti fino a 250 mila euro per l'acquisto. In G.U. il decreto che regola il Fondo di garanzia per la prima casa. Ecco come funziona.
Il mercato dei mutui per l'acquisto della casa mostra segnali di ripresa (+30% di erogazioni nei primi sette mesi del 2014 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno) e un'ulteriore spinta potrebbe arrivare anche dallo Stato.
È stato, infatti, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che regola il Fondo di garanzia per i finanziamenti fino a 250 mila euro destinati all'acquisto e alla ristrutturazione della prima casa.
Vediamo come funziona e quali sono le condizioni.
Come funziona. Il Fondo di garanzia per la prima casa è stato introdotto dalla legge di Stabilità per il 2014 (lettera c, comma 48, articolo 1, legge 147/2013) e sarà attivato a breve. Il
decreto 31.07.2014 che lo istituisce è stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 226 del 29.09.2014; per renderlo effettivamente operativo manca ora solo il protocollo d'intesa tra il ministero dell'economia e l'Associazione bancaria italiana che disciplinerà l'accesso degli istituti di credito alle garanzie e darà avvio alla concessione dei mutui.
Il Fondo potrà contare su uno stanziamento complessivo di 600 milioni di euro per il triennio 2014/2016 e potrà concedere garanzie da parte dello Stato nella misura massima del 50% della quota capitale sui mutui ipotecari per l'acquisto, la ristrutturazione e il miglioramento dell'efficienza energetica degli immobili destinati a prima casa.
Le condizioni di accesso. Per poter accedere occorre rispettare alcune condizioni. In primis, l'importo dei mutui ipotecari non può superare i 250 mila euro. L'abitazione da acquistare o riqualificare non deve inoltre appartenere alle categorie catastali A1 (abitazioni di tipo signorile), A8 (abitazioni in ville) e A9 (castelli, palazzi di eminenti pregi artistici o storici) né presentare caratteristiche riconducibili agli immobili di lusso.
Il decreto stabilisce inoltre che alcune categorie hanno priorità di accesso al fondo. Tra queste, le giovani coppie, i nuclei familiari con un solo genitore con figli minori e i giovani con età inferiore a 35 anni inquadrati con un contratto di lavoro atipico. Alla data di presentazione della domanda è necessario poi che il mutuatario non sia proprietario di altri immobili a uso abitativo (a eccezione di quelli acquisiti per successione o in uso a titolo gratuito a genitori o fratelli).
La gestione del Fondo sarà affidata a Consap, concessionaria servizi assicurativi pubblici controllata al 100% dal ministero dell'economia e delle finanze, che procederà a esaminare le domande, istruire le pratiche ed erogare le somme dovute in caso di esito positivo.
Cosa avviene in caso di inadempimento. Nel caso di accesso al fondo e di inadempimento da parte del mutuatario, trascorsi 90 giorni dalla scadenza della prima rata (rimasta anche parzialmente insoluta), il soggetto finanziatore informa il gestore. Entro dodici mesi dalla comunicazione, invia al mutuatario l'intimazione al pagamento. Se quest'ultimo non salda il debito entro sei mesi, il soggetto finanziatore può chiedere al gestore l'intervento della garanzia del Fondo. A quel punto il mutuatario avrà l'obbligo di restituire le somme pagate dal Fondo e gli interessi maturati a decorrere dal giorno del pagamento fino alla data del rimborso.
Un fondo in aiuto di chi perde il lavoro. A fianco del Fondo di garanzia operano inoltre altri strumenti che offrono tutela ai mutuatari. Uno di questi è il Fondo di solidarietà per la sospensione del pagamento (fino a 18 mesi) dell'intera rata del mutuo per l'acquisto dell'abitazione principale. La possibilità è riservata a chi si trova a vivere situazioni di temporanea difficoltà.
In particolare, la sospensione può essere chiesta in caso di morte o riconoscimento di handicap grave dell'intestatario del mutuo ovvero di invalidità civile non inferiore all'80%; cessazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato (a eccezione delle ipotesi di risoluzione consensuale, di risoluzione per limiti di età con diritto a pensione di vecchiaia o di anzianità, di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, di dimissioni del lavoratore non per giusta causa). Cause di impedimento valide anche nel caso in cui si chieda di sospendere le rate per la cessazione di rapporti di lavoro parasubordinato e di rappresentanza commerciale o di agenzia (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA - VARIDal consulente al valutatore, le opportunità del mattone. Il mercato immobiliare, con l'intervento anche delle Casse, apre nuovi spazi ai professionisti.
Il mercato immobiliare continua a regalare opportunità di lavoro, anche in tempo di crisi. Certo, non si tratta di costruire nuovi immobili, ma di valorizzare quelli esistenti, pubblici o privati che siano, di riqualificarli al meglio e poi metterli sul mercato. Oppure di venderli rispettando determinati standard riconosciuti anche dall'Europa.
Dunque il mattone continua a pagare, seppure in modo differente rispetto al passato. Ecco, quindi, che si può entrare a far parte di un elenco di consulenti esperti per valutare e valorizzare il patrimonio immobiliare di piccoli e grandi comuni e, in generale, delle amministrazioni pubbliche. Oppure si può prendere la qualifica o la certificazione di valutatore immobiliari. E garantire così i finanziamenti delle banche o anche le operazioni più complesse.
Diventare consulenti per la pubblica amministrazione. Collaborare con le pubbliche amministrazioni per censire e valorizzare i loro immobili d'ora in poi si può. Un'opportunità concreta per utilizzare i fabbricati scarsamente valorizzati che, con la buona volontà delle pubbliche amministrazioni, porta nuovo lavoro ai professionisti e alle imprese del settore immobiliare. A scendere in campo in aiuto dei professionisti la Cassa dei geometri e quella dei periti industriali che con il sostegno dei rispettivi consigli nazionali hanno affiancato l'iniziativa messa in atto dalla Fondazione patrimonio comune.
Come fare in concreto. Per diventare consulenti è necessario abilitarsi alla piattaforma Vol, Valorizzazione online. Si tratta di una procedura online sviluppata dalla Cassa depositi e prestiti a seguito di convenzioni con l'Associazione dei comuni italiani (Anci), con la partecipazione di Cassa e Fondazione geometri e con l'Ente di previdenza dei periti industriali (Eppi) come soci sostenitori della Fondazione patrimonio comune costituita da Anci. Dopo essersi abilitati alla procedura Vol. (tramite il sito ww.abitantionline.it) e aver seguito un corso di formazione e-learning ad hoc (gratuito per chi è in regola con i contributi previdenziali) si entrerà a far parte di un elenco dei consulenti della p.a.
I comuni e le altre pubbliche amministrazioni quindi avranno a disposizione un elenco, su base provinciale, di tutti i professionisti iscritti all'albo e alle due casse che avranno completato la formazione e si sono accreditati come consulenti esperti, al quale potranno accedere per affidare le prestazioni che non saranno in grado di eseguire direttamente con le proprie strutture.
La formazione. Prima di diventare consulenti è necessario seguire uno specifico corso. Per i geometri la formazione riguarda, in particolare, la normativa di riferimento, la standardizzazione delle procedure per l'espletamento degli incarichi, l'utilizzo dell'applicativo e la costruzione del dossier del fabbricato. Per i periti industriali, invece, il corso sarà dedicato in particolare alla verifica della parte impiantistica. Il tutto realizzato tramite supporti audiovisivi e un corso di e-learning con test di apprendimento finale.
Quanti sono i beni su cui lavorare. Le opportunità di lavoro sono legate ai soli beni di proprietà dei comuni. Da un rilevamento campionario effettuato dal ministero dell'economia del 2013 al quale ha risposto circa il 60% delle amministrazioni comunali, il patrimonio pubblico complessivo è pari a oltre 1 milione di unità immobiliari, di cui circa il 70% di proprietà dei comuni. Nel dettaglio si tratta di 750 mila unità immobiliari su cui si può lavorare.
Poi c'è tutta la fetta di beni di proprietà statale in trasferimento ai comuni, circa 5 mila beni che rientrano nel sistema del federalismo demaniale che permette ai comuni, province e regioni (escluse quelle a statuto speciale) di richiedere all'Agenzia del demanio i beni immobili di proprietà dello stato presenti sul proprio territorio, con il solo scopo di valorizzarli attribuendogli nuove destinazioni. Il supporto per tutto il processo di valorizzazione e di gestione attiva del patrimonio viene garantito da Fpc attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro. Mentre ai professionisti residenti nella provincia dei comuni coinvolti è offerta questa nuova possibilità.
---------------

Perizie immobiliari più rigorose.
Valutatori immobiliari in cerca di una certificazione. Senza un registro nazionale né uno specifico percorso formativo, per gli esperti di estimo diventa importante acquisire un attestato che riconosca professionalità ed esperienza. Così come detta l'Europa.
Il punto è che attualmente sulla carta non ci sono barriere per intraprendere la professione di valutatore. E a fare questo lavoro attualmente ci sono gli iscritti agli albi professionali: geometri in testa, periti edili, ingegneri, architetti e agronomi. Ma anche le categorie economico-giuridiche (commercialisti, avvocati) o gli operatori del real estate (agenti immobiliari, promotori, investitori). Lo stesso caos vale per la formazione: gli organismi che propongono corsi per valutatori sono molti e vari, si passa dalle università, alle camere di commercio, dagli ordini professionali al mondo bancario.
Le diverse certificazioni. Ma qualcosa per distinguersi in Italia già c'è. Si tratta di una certificazione accreditata (ISO17024) specifica per il valutatore immobiliare e che si colloca in linea con altri paesi europei. L'unica società in Italia che ha introdotto questo tipo di certificazione è la Crif certification services (Ccs) e attualmente i professionisti certificati sulla base di questa norma sono 257. C'è chi poi si è mosso per un bollino di qualità.
E in questo caso c'è il percorso della Royal institution of chartered surveyors (Rics) e quello della Recognised european valuer (Rev), designazione rilasciata dal Tegova in base a standard comunitari e valida in tutti i Paesi Ue. Con queste qualifiche si contano rispettivamente 400 163 professionisti. Ma l'Europa obbliga il valutatore immobiliare italiano a voltar pagina. Sarà un soggetto qualificato e valuterà gli immobili secondo standard internazionali.
La direttiva europea per le valutazioni immobiliari. All'inizio del 2014 il Consiglio ha adottato una nuova direttiva sul credito ipotecario che sarà applicata a tutti i prestiti concessi ai consumatori ai fini dell'acquisto di una casa di abitazione e a tutti i prestiti concessi ai consumatori garantiti da ipoteca o da altra garanzia simile in tutta l'Unione europea.
L'obiettivo generale è di garantire che i mercati ipotecari operino in maniera responsabile, aumentando la tutela dei consumatori e contribuendo alla stabilità finanziaria. In questo senso è, tra l'altro, imposto agli stati membri di provvedere affinché siano elaborati standard per la valutazione dei beni immobili residenziali affidabili per la concessione del credito.
Il sistema bancario. L'Italia è avanti per le valutazioni immobiliari fatte per il sistema bancario. Lo standard di riferimento, in questo caso, sono le «Linee guida per la valutazione degli immobili in garanzia delle esposizioni creditizie» volute dall'Abi, l'Associazione bancaria italiana, elaborate con Tecnoborsa e con i consigli degli ordini delle categorie tecniche (agrotecnici, dottori agronomi e dottori forestali, geometri, ingegneri, periti agrari, periti industriali).
Queste riprendono gli standard internazionali sviluppati dall'International valuation standard council e si sono affermate nel mercato delle valutazioni immobiliari con l'adesione di 172 banche o gruppi bancari (rappresentative in termini di sportelli di circa il 73% del settore bancario), gli ordini e collegi rappresentativi dei professionisti abilitati alla valutazione, da numerose società di valutazione (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAPer le terre da scavo oneri ridotti. Procedura di smaltimento proporzionata alla grandezza del cantiere. Decreto sblocca Italia. In attesa del riordino difficoltà legate alla successione di normative diverse.
Oneri proporzionati alle dimensioni del cantiere: questo è l'obiettivo della ennesima riforma della normativa sulle terre e rocce da scavo, delineata nel decreto sblocca Italia (Dl 133/2014)
L'argomento è fonte di incertezza permanente tra gli operatori in edilizia, anche per via delle modifiche normative succedetesi negli ultimi anni.
Gli ultimi interventi
Dopo che la materia era stata temporaneamente regolamentata dall'articolo 186 del Dlgs n. 152/2006, il ministero dell'Ambiente, con il Dm 161/2012, ha introdotto specifiche procedure di gestione delle terre e rocce da scavo volte a garantire una maggior tutela ambientale.
Ma il nuovo regolamento ha sollevato una levata di scudi da parte degli operatori a causa degli eccessivi oneri economici e procedurali che derivavano dai nuovi adempimenti. Le forti critiche hanno oscurato anche i contenuti positivi del Dm che forniva indicazioni sulla gestione dei riporti e permetteva anche il deposito temporaneo dei terreni in attesa di riutilizzo.
Le problematiche maggiori riguardavano l'applicazione della nuova disciplina ai piccoli cantieri, i quali -in effetti- sarebbero stati negativamente condizionati dai nuovi oneri procedurali.
Con il "decreto emergenze" (Dl 43/2013), dunque, il legislatore è intervenuto per far chiarezza, precisando che il Dm 161 non deve trovare applicazione nei piccoli cantieri, ma solo per le opere soggette ad Aia (autorizzazione integrata ambientale) o Via (valutazione di impatto ambientale).
Il correttivo, tuttavia, non è risultato tra i più felici poiché, da un lato, anche interventi sottoposti ad Aia o Via potevano prevedere scavi di piccole dimensioni, e dall'altro, si creava un vuoto normativo per i "grandi" cantieri non soggetti ad Aia o Via, rispetto ai quali si è ipotizzata una resurrezione del vecchio articolo 186.
Un nuovo correttivo, dunque, è stato inserito nel decreto "del Fare," (Dl 69/2013) il cui articolo 41-bis ha confermato l'applicazione del Dm 161 solo agli interventi sottoposti a Aia e Via, prevedendo invece per tutti gli altri una autodichiarazione del privato, che è tenuto ad attestare la sussistenza dei requisiti per il riutilizzo dei terreni scavati come sottoprodotti.
La materia, poi, risulta ulteriormente complicata dalla specifica regolamentazione dei riporti che possono essere equiparati al suolo naturale e, quindi, rientrare nel campo di applicazione delle terre e rocce da scavo. L'equiparazione, però, non è scontata e lo stesso decreto "del Fare" (articolo 41) ha definito le condizioni che i riporti devono soddisfare per non essere considerati rifiuti o fonti di contaminazione.
I problemi interpretativi e applicativi hanno spinto il Governo Renzi a programmare un riordino della materia in ottica di semplificazione. L'articolo 8 del Dl sbocca Italia, dunque, prevede che entro 90 giorni dalla conversione in legge (prevista entro inizio novembre) sia emanato uno specifico regolamento (sotto forma di decreto del Presidente della repubblica) che coordini, sia formalmente che sostanzialmente, le diverse disposizioni vigenti in materia e apporti anche le modifiche necessarie a rendere coerente il sistema di gestione delle terre e rocce da scavo.
Questo Dpr dovrà quindi indicare espressamente le norme abrogate e garantire proporzionalità tra le procedure da seguire e l'entità degli interventi da realizzare. Inoltre, dovrà vietare che vengano introdotti livelli di regolamentazione superiori a quelli minimi previsti dalla normativa comunitaria e in particolare a quella sulla gestione dei rifiuti.
La fissazione di questi obiettivi e principi indirettamente conferma il caos legislativo che si è creato negli ultimi due anni e che sta complicando non poco la realizzazione di opere pubbliche e private.
Gli scavi
Sempre il decreto sblocca Italia all'articolo 34 (commi 8 e seguenti) introduce nuove disposizioni sui terreni movimentati che cercano di coordinare le attività di scavo con la procedura di bonifica sia rispetto alla fase di caratterizzazione, sia in caso di messa in sicurezza.
Le nuove disposizioni prevedono anche una novità rilevante, ossia la possibilità di riutilizzare in sito terreni potenzialmente contaminati (con superamenti delle concentrazioni soglia di contaminazione) previo accertamento del rispetto delle soglie di rischio (approvate dalle autorità competenti) e valutato l'impatto sulla falda acquifera.
Ovviamente, anche queste previsioni dovranno essere considerate nel Dpr destinato a riordinare la materia
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIABonifica urgente con iter negoziato. Appalti. Non occorre sempre la gara.
Dopo la procedura di bonifica semplificata introdotta dal Dl 91/2014 (si veda il Sole 24 Ore del 15 settembre scorso), anche il decreto sblocca Italia introduce ulteriori previsioni volte a favorire il recupero dei siti contaminati.

L'articolo 34 del Dl 133/2014, in particolare, cerca di semplificare gli interventi di bonifica da parte della pubblica amministrazione (o comunque connessi alla realizzazione di opere pubbliche) prevedendo semplificazioni e deroghe alle procedure di affidamento degli appalti pubblici.
Una semplificazione sicuramente rilevante -da confermare però in sede di conversione in legge- è la possibilità di affidare i lavori di bonifica e messa in sicurezza urgenti attraverso la procedura negoziata senza preventiva pubblicazione di un bando.
In questo caso, però, non è chiaro se l'urgenza debba dipendere dal pericolo ambientale o possa anche essere ricollegata all'urgenza dell'intervento principale di cui la bonifica rappresenta un presupposto.
Sicuramente di portata più generale è l'estensione dell'ambito di applicazione dell'articolo 70 del Dlgs 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) alle procedure di affidamento di lavori di bonifica o messa in sicurezza in generale, con conseguente abbreviazione dei termini di ricezione delle offerte.
In senso restrittivo, invece, è l'intervento modificativo della disciplina sull'avvalimento. Quest'ultimo istituto, infatti, viene espressamente escluso rispetto al requisito di iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali, quindi solo le società iscritte all'albo e in possesso dei requisiti economico-finanziari potranno partecipare alle gare di bonifica.
Infine, una ulteriore modifica di rilievo è quella introdotta all'articolo 132 del Dlgs 163/06 secondo cui la disciplina delle varianti in corso d'opera si applica anche agli interventi di bonifica. Tuttavia, in questo caso risulta difficile inquadrare il concetto di variante in corso d'opera, atteso che ogni modifica al progetto di bonifica deve essere espressamente approvata dalla conferenza di servizi.
Per rendere efficace questa previsione, occorrerebbe modificare il Dlgs 152/2006 introducendo una previsione specifica che disciplini le varianti in corso d'opera ai progetti di bonifica o messa in sicurezza.
Le ulteriori novità previste dal Dl sblocca Italia rispetto alle bonifiche sono sempre contenute nell'articolo 34 e hanno ad oggetto il coordinamento degli interventi di bonifica o messa in sicurezza con l'eventuale esecuzione di attività edilizie.
La norma, in particolare, consente espressamente di attuare interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria su impianti e infrastrutture o rispetto ad opere lineari interessate su siti potenzialmente contaminati a condizione che gli interventi non pregiudichino la futura bonifica e non creino rischi per la salute dei lavoratori e fruitori.
Invero, questa previsione, inserendo un elenco espresso di interventi edilizi ammessi, esclude indirettamente ogni altro diverso intervento edilizio su aree potenzialmente contaminate, anche se propedeutico alla stessa bonifica (es. demolizioni). È, dunque, auspicabile una rivisitazione della norma in fase di conversione, in quanto l'attuale previsione potrebbe creare non pochi problemi operativi e, soprattutto, blocchi di cantieri
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2014).

ENTI LOCALIComuni montani, pronto l'elenco. In arrivo il decreto che riporta l'Imu su molti terreni oggi esenti. Bilanci. La nuova lista, più corta dell'attuale, deve produrre un gettito di 350 milioni già a dicembre.
Arriverà nei prossimi giorni il decreto dell'Economia con il nuovo elenco (più snello) dei Comuni considerati «montani e collinari» in cui continua ad applicarsi l'esenzione Imu per i terreni. Il provvedimento, elaborato dopo aver raccolto i dati sui terreni a proprietà collettiva che rimangono esenti, è pronto per la firma del ministro, e permetterà di capire in quali Comuni i proprietari dei terreni saranno chiamati a pagare l'Imu 2014 entro il 16 dicembre.
Il decreto sui Comuni montani colloca un tassello importante nel puzzle della finanza locale 2014, ma arriva a bilanci ormai chiusi dopo la scadenza del termine al 30 settembre. Un provvedimento con il rinvio al 30 novembre era pronto per il Consiglio dei ministri di mercoledì scorso, ma non è arrivato al traguardo e ora si discute della possibilità di riaprire un termine scaduto (come già avvenuto fa con gli obblighi di gestione associata, per esempio). Il problema non è da poco: le esperienze recenti dicono che probabilmente anche questo nuovo meccanismo di tagli al fondo di riequilibrio da compensare con i soldi raccolti dai contribuenti farà zoppicare i conti in molti Comuni, a causa di stime diverse da quelle ministeriali, tanto più che a due mesi dalla scadenza del saldo bisognerà chiamare alla cassa i proprietari di terreni che finora sono sempre stati esenti sia dall'Ici sia dall'Imu.
Questa incognita vale 350 milioni, e si aggiunge alle tante che costellano in questa fase i conti di molti Comuni. L'ultima in ordine di tempo è rappresentata dal taglio di 172 milioni prodotta dalla verifica del gettito da fabbricati D, comunicata dall'Economia l'11 settembre e decurtata ai singoli comuni dal ministero dell'Interno il 16 settembre, nonostante l'opposizione dell'Anci.
Un'altra partita non del tutto definita è quella aperta dal comma 711 della legge 147/2013, che riconosce ai Comuni di un contributo di 110,7 milioni a compensazione del minor gettito Imu conseguente alla riduzione del moltiplicatore dei terreni agricoli dei coltivatori, passato da 110 a 75, e all'esenzione dei fabbricati rurali. Gli importi spettanti ai Comuni sono stati concordati nella Conferenza Stato-città ed autonomie locali dell'11 settembre e sul sito del Viminale è pubblicato l'elenco, anche se manca la formalizzazione con decreto ministeriale (che avrebbe dovuto essere emanato in realtà entro il 31 gennaio).
Nella stessa condizione si trova la questione sollevata dall'articolo 1, comma 6, del Dl 133/2013, dove si prevede il riparto di 348,5 milioni di euro a compensazione del minor gettito Imu sull'abitazione principale, anche in base ai gettiti effettivi da mini-Imu (in questo caso la scadenza del decreto era fissata al 28 febbraio).
L'articolo 2-bis, comma 2 del Dl 102/2013 prevede invece il riparto di 18,5 milioni per i Comuni che nel saldo Imu 2013 hanno assimilato all'abitazione principale quella data in comodato. C'è stato l'accordo in Conferenza unificata il 5 agosto, ma l'elenco dei Comuni beneficiari non è stato pubblicizzato e manca il decreto che avrebbe dovuto essere emanato entro il 14.12.2013.
A bocce ferme, l'unica possibilità per i Comuni per rivedere i propri conti è data dall'assestamento di bilancio, possibile fino al 30 novembre, ma al di là dei problemi contabili a ostacolare molti è l'assenza delle risorse necessarie a coprire i buchi prodotti da stime errate o altri inciampi. Lo stesso accade alle Province, che dal decreto attendevano l'ammorbidimento della spending da 100 milioni sulla scorta delle indicazioni maturate in conferenza Unificata
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale, limiti ad hoc per gli enti sperimentatori. Ragioneria generale. Si considerano il 2011 (due volte) e il 2013.
Ora che gli enti locali soggetti a Patto di stabilità hanno trovato un parametro di riferimento, ai fini della riduzione delle spese di personale, iniziano i primi dubbi operativi. Il Dl 90/2014 ha infatti previsto che, per applicare l'obbligo di riduzione in valore assoluto delle spese di personale previsto dal comma 557 della legge 296/2006 si debba fare riferimento al «valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione».
Con nota 16.09.2014 n. 73024 di prot., la Ragioneria Generale dello Stato ha confermato che si tratta degli anni 2011, 2012 e 2013.
Fino al 2013, in virtù di quanto stabilito dalla Corte dei conti Sezione Autonomie, con la deliberazione n. 3/2010, la base per la riduzione delle spese era il consolidato dell'anno precedente. Un limite, quindi, dinamico destinato a mutare di anno dopo anno, creando non pochi problemi agli enti locali, sempre alle prese con la necessità di ridurre (ma non troppo) la spesa di personale. Basti pensare a tutta la vicenda correlata ai cosiddetti effetti prenotativi. Finalmente, con il Dl 90/2014, viene fornito un tetto entro il quale, dal 2014, le spese vanno "contenute" (termine previsto dal legislatore) e non ridotte. In termini pratici, stabilita la media del triennio 2011/2013, l'ente potrà anche scendere anno dopo anno, non precludendosi, però, la possibilità di risalire fino a questo limite.
Poiché il comma 557-quater, si applica solo a decorrere dal 2014, il legislatore fa salvo quanto operato in passato, spiegando però alle amministrazioni come procedere da ora in poi. Rimangono, quindi, confermate le voci di spesa da includere e da escludere, anche se ci si chiede se, questa, non sia l'occasione per «ripartire da zero». In altre parole, il dubbio riguarda se sia necessario prendere i dati del triennio 2011/2013, dai questionari già inviati alla Corte dei conti, relativi ai rispettivi bilanci, oppure se sia più corretto ripartire dagli impegni dei tre anni in esame e ricostruire la spesa. Questo, soprattutto in un'ottica di revisione degli importi relativi ai rinnovi contrattuali, per i quali non avrebbe senso fare confronti con gli anni passati.
In attesa, quindi, di maggiori istruzioni operative provenienti dalle sezioni regionali della Corte dei conti, la Ragioneria Generale dello Stato, con la nota del 16 settembre scorso, risolve la questione del calcolo del triennio per gli enti che, dall'anno 2012, hanno iniziato la sperimentazione dell'armonizzazione contabile. I valori del triennio, proprio perché "misti", non permetterebbero un esaustivo e corretto calcolo della media.
Pertanto, secondo la Rgs, gli impegni degli enti a sperimentazione contabile del 2012, non costituiscono una base corretta per calcolare il valore medio del triennio, ai fini della verifica del contenimento della spesa di personale. Perciò, in tali enti, invece che al triennio 2011, 2012, 2013, si dovrà fare riferimento al triennio costituito dagli esercizi 2011, 2011 e 2013
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2014).

APPALTIExpo, gare al massimo ribasso. Stop alla discrezionalità nell'aggiudicazione degli appalti. Il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, detta le linee per l'acquisto di beni e servizi.
Massima riduzione della discrezionalità negli affidamenti di Expo 2015; aggiudicazione con il massimo ribasso per appalti di beni e servizi standardizzati; limitazione dei requisiti troppo selettivi per l'accesso alle gare e congrua motivazione per i fatturati aziendali; preferire le procedure competitive anche per piccoli incarichi; comunicazione tempestiva delle varianti e dei subappalti.

Sono queste le indicazioni per la corretta gestione delle procedure d'appalto connesse all'Expo 2015 contenute nel documento di proposte indirizzate al Commissario di Expo 2015 dall'Autorità nazionale anticorruzione - Unità operativa speciale Expo 2015, presieduta da Raffaele Cantone. Tutto ciò alla vigilia della visita di Matteo Renzi che, oggi, a Milano firma un protocollo tra l'Autorità nazionale anti corruzione (Anac) e l'Ocse in vista di Expo 2015.
Le indicazioni vengono formulate prevalentemente in termini negativi (cosa va evitato) iniziando dagli atti di gara con l'invito a non utilizzare il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa tutte le volte in cui si debbano acquisire «beni e servizi standardizzati, o lavori che non lasciano margini di discrezionalità all'impresa»; via libera quindi al massimo ribasso, ovviamente molto meno soggetto a valutazioni discrezionali e quindi più oggettivo. Quando invece si utilizza il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa l'indicazione di Cantone è di una stretta correlazione e congruità fra regole e punteggi di valutazione, da un lato, e oggetto del contratto; necessario quindi evitare graduazioni arbitrarie delle regole valutative.
Da evitare l'assegnazione ai commissari di gara di una eccessiva discrezionalità nell'attribuzione dei punteggi e quindi i criteri dovranno consentire giudizi «quanto più possibile, misurabili e verificabili in termini oggettivi e non arbitrari». Per quel che attiene all'accesso alla gara, andrà assicurata la più ampia partecipazione e quindi si chiede di evitare di «prevedere requisiti di ammissione di carattere economico-finanziario e/o tecnico-professionale troppo stringenti». Non si esclude la possibilità di chiedere fatturati aziendali ma devono essere sempre motivati e conformi al principio di proporzionalità.
Si afferma anche il divieto di presentare in gara varianti progettuali quando si aggiudica l'appalto con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e l'attribuzione di premi di accelerazione (che però se ritenuti necessari, dovranno essere motivati da un «apprezzabile interesse» e calcolati analogamente ai criteri usati per le penali). In positivo, invece, si suggerisce di prevedere esatti tempi di esecuzione nella fase di progettazione e penali in caso di ritardi, anche in corso di esecuzione, se vi sia scostamento con il cronoprogramma.
Per la nomina dei commissari di gara l'indicazione è di scegliere, garantendo adeguata rotazione, tra professori universitari e professionisti (iscritti all'albo da almeno dieci anni all'albo) «con consolidata esperienza nella specifica materia, previo esame dei relativi curricula vitae e mediante estrazione a sorte dei componenti tra un'ampia rosa di candidati (rapporto non inferiore a 1 a 5)».
Sulle modalità di affidamento il documento invita a preferire modalità di aggiudicazione competitive a evidenza pubblica ovvero affidamenti mediante cottimo fiduciario, con consultazione di almeno cinque operatori economici anche per procedure di importo inferiore a 40.000 euro. In fase esecutiva occorrerà comunicare «tempestivamente» le richieste di subappalto e le eventuali varianti (articolo ItaliaOggi del 03.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAImpianti termici, verifica uniforme. L'Enea detta le linee guida per i controlli.
Regole più uniformi su tutto il territorio nazionale per gli accertamenti sugli impianti termici degli edifici. Suggerimenti alle regioni per tempistiche e tariffe delle ispezioni in vista dell'adeguamento dei libretti entro il 15 ottobre. Modulistica per le comunicazioni tra l'utente e l'autorità competente circa la nomina o cessazione del terzo responsabile.

Questo è quanto contenuto nelle linee guida per l'esecuzione degli accertamenti delle ispezioni sugli impianti termici degli edifici redatte dall'Enea, agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia, dallo sviluppo economico sostenibile, dal ministero dello sviluppo economico e dal Comitato termotecnico italiano (Cti) che costituiranno un riferimento per le autorità competenti.
All'interno del documento sono stati inseriti anche possibili modelli per le comunicazioni tra l'utente e l'autorità competente circa la nomina o cessazione del terzo responsabile, la nomina o la cessazione dell'amministratore del condominio, la disattivazione dell'impianto, l'avvenuto adeguamento alle prescrizioni e la sostituzione del generatore di calore, e infine un promemoria circa gli adempimenti spettanti al responsabile, al terzo responsabile, al manutentore e al conduttore dell'impianto.
Per quanto riguarda le ispezioni il documento contiene due modelli di rapporto di prova, generatori a fiamma e macchine frigorifere, comprensivi delle istruzioni di compilazione. Il documento inoltre suggerisce, alle regioni una possibile struttura delle tariffe, sia per la trasmissione dei rapporti di controllo di efficienza energetica che per le ispezioni.
La legislazione italiana, in merito alle ispezioni degli impianti termici riguardanti l'osservanza delle norme relative al contenimento dei consumi di energia nell'esercizio e manutenzione, ha subito nel tempo cambiamenti importanti che, via-via, hanno snellito il compito delle autorità competenti, diminuito l'onere a carico dei cittadini e responsabilizzato di più gli installatori e i manutentori (articolo ItaliaOggi del 03.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAUn albero per ogni neonato. E a fine mandato arriva il bilancio arboreo.
Dopo il bilancio per antonomasia (quello contabile), il bilancio sociale, il bilancio di genere e quello di fine mandato arriva pure il bilancio arboreo. Che accenderà i riflettori su come l'amministrazione comunale uscente ha gestito il verde pubblico con particolare riferimento all'obbligo imposto da una legge del 1992 (finora poco attuata dai sindaci) di piantare un albero per ogni neonato registrato all'anagrafe.

Lo ha chiarito il Ministero dell'ambiente nella deliberazione 22.09.2014 n. 2.
Secondo il dicastero guidato da Gianluca Galletti, l'ora X per l'entrata in vigore della norma che impone ai sindaci, due mesi prima della scadenza del mandato, di censire e classificare il verde pubblico, indicando il rapporto fra il numero degli alberi piantati all'inizio della legislatura e quello lasciato in eredità alla cittadinanza, è entrato pienamente in vigore il 16.02.2014. Ossia un anno dopo la legge n. 10/2013 («Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani») che ha dato ai comuni 12 mesi di tempo per avviare il sistema di rendicontazione «verde», circoscrivendo però l'ambito di applicazione dell'obbligo di piantare un albero per ogni neonato ai comuni con più di 15 mila abitanti.
Il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico presso il Minambiente ha precisato che il censimento e la classificazione degli alberi piantumati (propedeutici al bilancio arboreo) non sono condizionati «ad alcun adempimento da parte di autorità terze». Quanto alle modalità con cui il bilancio arboreo dovrà essere reso pubblico, il ministero dell'ambiente ha chiarito che tale documento «si indirizza all'intera comunità locale, piuttosto che solamente agli amministratori», perché in caso contrario «resterebbe frustrato l'obiettivo di elevare questo tema a terreno di potenziale competizione fra le diverse offerte politiche a confronto».
I comuni che non dispongono di aree idonee alla messa a dimora delle piante potranno utilizzare, mediante concessione, aree demaniali che però in futuro non potranno essere destinate a funzione diversa da quella di verde pubblico (articolo ItaliaOggi del 03.10.2014).

APPALTI: Trasparenza sugli appalti: Cantone e Ance alleati. Legalità. Confronto tra i costruttori e il presidente dell'Anac.
Massima trasparenza nelle gare con meno deroghe possibili alle procedure ordinarie. Non hanno fatto fatica a trovare un terreno di incontro i costruttori dell'Ance e il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone. La lotta alla corruzione negli appalti è stata al centro del primo faccia a faccia ufficiale ieri a Roma. Un incontro «molto cordiale e fattivo» l'ha definito il presidente dell'Ance Paolo Buzzetti.
«Ci siamo confermati l'interesse comune a far si che gli appalti si svolgano nella massima trasparenza e assicurando la massima concorrenza -ha commentato al termine Buzzetti-. Troppo spesso, anche in questa fase di massima difficoltà del mercato, accade che a vincere non sia l'impresa che offre le migliori garanzie. Dobbiamo fare si che accada sempre meno». Un incontro «molto proficuo» anche agli occhi di Cantone. «Abbiamo toccato molti punti nevralgici del settore. Su tanti ci siamo trovati d'accordo. Abbiamo impostato una discussione, su cui ci ritroveremo in seguito».
Tra gli argomenti al centro della discussione anche il progetto di riforma del codice dei contratti pubblici, innescato dall'obbligo di recepire le nuove direttive europee entro aprile 2016, sulla base del disegno di legge delega approvato dal governo il 29 agosto. Il Ddl dovrebbe a breve varcare la soglia di Palazzo Madama per essere discusso in Senato.
Tra i criteri su cui si basa la delega al governo, Buzzetti segnala il richiamo a evitare le deroghe rispetto alle procedure ordinarie. «Non possiamo prendercela comoda quando si tratta di pianificare gli interventi e poi chiedere alle imprese di correre con le gare dimezzando i termini e facendo saltare i paletti ordinari». Esempi che tornano di attualità anche ora, con la nuove scorciatoie rispetto ai percorsi ordinari sugli appalti inserite nel decreto Sblocca Italia per gli interventi sulle scuole, la difesa del suolo e le bonifiche, dopo le deroghe previste in passato per l'Expo (con la possibilità di disapplicare ben 80 articoli sui 257 del codice appalti) e per gli interventi urgenti di restauro di Pompei decise con il cosiddetto «decreto Cultura» (Dl 83/2014).
Per Cantone, sulla necessità di ridurre il ricorso alle deroghe «c'è una stretta vicinanza, direi di tipo culturale» con i costruttori. Discorso simile per le procedure con cui vengono assegnate le gare. Cantone -anche nelle linee guida per la gestione delle gare dell'Expo appena inviate al commissario Sala (si veda l'articolo a fianco)- non fa mistero di guardare con una certa diffidenza all'uso ricorrente dell'offerta economicamente più vantaggiosa, che rispetto al massimo ribasso offre ampi margini di valutazione discrezionale alle commissioni giudicatrici.
Non poteva mancare un accenno alle varianti, che gli uffici dell'Anac sono chiamati a verificare una per una, quando il valore del contratto supera i 5,2 milioni e la correzione al progetto produce un aumento di costi superiore al 10 per cento. «Non nego che le varianti sono spesso utili alla buona riuscita dell'opera -dice il presidente dell'Autorità anticorruzione-, ma l'eccesso produce distorsioni: dal mio punto di vista vanno limitate al massimo».
Guardando alla riforma del codice un passaggio ha riguardato anche il sistema di qualificazione delle imprese attive nei lavori pubblici. Cantone, molto critico in passato con le società private (Soa) che rilasciano i certificati ai costruttori ora sembra voler aggiustare il tiro. «I meccanismi di controllo sulle Soa vanno rafforzati il più possibile -dice- ma non sono certo un nostalgico del vecchio albo nazionale costruttori»
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIANTICORRUZIONE/ Regolamento Anac sulla mancata adozione. Multa in contraddittorio. Il procedimento deve chiudersi in 120 giorni.
La sanzione fino a 10.000 euro in caso di mancata adozione dei piani di prevenzione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni potrà essere adottata a seguito di procedimento in contraddittorio avviato dall'Anac, da concludersi entro 120 giorni.

È quanto prevede il regolamento emesso dall'Autorità nazionale anti corruzione in materia di esercizio del potere sanzionatorio di propria competenza per l'omessa adozione dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di trasparenza, dei Codici dì comportamento.
È infatti l'articolo 19, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito nella legge 114/2014 che stabilisce, salvo che il fatto costituisca reato, che l'Autorità Nazionale Anticorruzione applichi una sanzione amministrativa di importo compreso fra 1.000 e 10.000 euro, nel caso in cui sia stata omessa l'adozione del Piano triennale di prevenzione della corruzione, del Programma triennale per la trasparenza e l'integrità o dei Codici di comportamento.
Il responsabile del procedimento dell'Anac avvia l'iter di accertamento sulla base delle segnalazioni pervenute e svolge una articolata istruttoria, che può anche comprendere l'audizione dei soggetti interessati. Alla fine dell'istruttoria si potranno avere tre esiti: archiviazione, diffida ad adottare i provvedimenti omessi, entro un termine breve, non superiore ai 60 giorni e infine irrogazione, per ciascuno dei soggetti obbligati, di una sanzione pecuniaria di cui si definisce la quantità, in relazione alle responsabilità accertate nella omessa adozione del provvedimento.
L'importo della sanzione pecuniaria (da 1.000 a 10.000 euro) è definito in rapporto a diversi profili: gravità dell'infrazione; rilevanza degli adempimenti omessi, anche in relazione alla dimensione organizzativa dell'amministrazione e al grado di esposizione dell'amministrazione, o di sue attività, al rischio di corruzione; eventuale reiterazione di comportamenti analoghi a quelli contestati; opera svolta dall'agente per l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze dell'infrazione contestata.
Il procedimento deve concludersi entro il termine massimo di 120 giorni dalla data di comunicazione del suo avvio (articolo ItaliaOggi del 02.10.2014).

LAVORI PUBBLICIAppalti, contributi ampi. Interrogazione.
I contributi erogati dalla stazione appaltante a titolo di contributo per la realizzazione di opere per le quali è prevista l'aliquota Iva agevolata del 10% scontano tale aliquota indipendentemente dal momento in cui sono erogati. È quindi irrilevante che le somme siano corrisposte durante la fase della costruzione oppure successivamente.
In ogni caso, l'aliquota agevolata non può applicarsi alle somme non correlate alla realizzazione dell'opera, ad esempio per la gestione del servizio.

Lo ha chiarito ieri, 01.10.2014, il vice-ministro all'economia, Casero, rispondendo a un question-time in commissione finanze della camera all'INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE n. 5/03676 dell'On. Laffranco.
L'interrogante rappresentava che la remunerazione del concessionario per la realizzazione e gestione di un'opera pubblica «fredda», ai sensi dell'art. 153, comma 19, del dlgs n. 163/2006, è normalmente composta da: contributo dell'appaltante sul costo di costruzione; canone di disponibilità residuale, da versare periodicamente dall'appaltante; canone di servizio, da versare periodicamente dall'appaltante; ricavo dello sfruttamento dell'opera da parte del concessionario.
Premesso che sulle prime tre voci la stazione appaltante deve corrispondere al concessionario anche l'Iva e che è pertanto necessario quantificare le risorse necessarie all'intervento, il quesito mirava a sapere se, in caso di concessione di costruzione e gestione di un'opera pubblica, per le somme corrisposte in conto investimento l'aliquota Iva del 10% si renda applicabile a prescindere dal momento di erogazione, cioè in fase di costruzione o dopo l'ultimazione del collaudo. Nella risposta si evidenzia anzitutto che la genericità del quesito non consente di individuare con precisione la fattispecie e di rispondere quindi in modo circostanziato.
Tuttavia, in relazione alla specifica questione, viene precisato che, qualora l'opera rientri fra quelle agevolate ai sensi della tabella A, parte III, allegata al dpr 633/1972, l'aliquota Iva del 10% tornerà applicabile alle somme erogate a titolo di partecipazione al costo indipendentemente dal momento di erogazione (articolo ItaliaOggi del 02.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA - VARIImpianti «fuori norma», il rogito rimane valido. Chiavi in mano/guida all'acquisto.
Per evitare contestazioni su vizi della casa, nel preliminare e nel definitivo va scritto che le parti conoscono lo stato di conformità.

Gli obblighi sulla certificazione energetica degli edifici hanno guidato, in questi ultimi anni, a una maggior attenzione verso il tema della conformità degli impianti alle norme di sicurezza. «Un corollario importante: acquirenti e venditori sono molto più consapevoli e il discorso dell'impiantistica, prima più spesso sottovalutato, viene ora tenuto in gran conto –spiega Piercarlo Mattea, del Consiglio Notarile di Milano–.
A differenza dell'Ace (l'Attestato di certificazione energetica che individua la classe di appartenza dell'immobile, dalla A alla G a seconda dei consumi, ndr) la cui menzione è obbligatoria, non c'è legge che imponga di dar atto di tale conformità nel contratto di compravendita. D'altra parte lo stato degli impianti non influisce sulla commerciabilità di un immobile. Ma per evitare future contestazioni relative ai vizi della casa e alla responsabilità di provvedere alla messa a norma, è opportuno che sia nel preliminare di compravendita sia nel definitivo venga esplicitato che le parti sono a conoscenza della conformità o meno».
Ma di quale conformità parliamo? Gli impianti esistenti (elettrici, termici, idrici, eccetera) dovrebbero essere tutti a norma. I requisiti sono però variati nel tempo e di conseguenza possono essere diverse le prescrizioni da osservare. Il principio generale prevede che gli impianti siano conformi alla normativa vigente all'epoca in cui sono stati realizzati, rifatti o adeguati. Se precedenti al 13.03.1990 (entrata in vigore della legge 46/1990) devono rispettare alcuni criteri minimi come il "salvavita" e la "messa a terra" nel caso di impianti elettrici. Se successivi a quella data, devono –anche dopo l'entrata in vigore del Dm 37/2008 che ha sostituito la legge 46/1990– essere adeguati alle norme Uni e Cei in vigore al momento dei lavori.
«Per gli edifici di nuova costruzione si deve tener presente che, se gli impianti non sono conformi alle norme di sicurezza, non viene rilasciata l'agibilità e l'edificio non può essere utilizzato. Le eventuali certificazioni –prosegue Mattea– non devono comunque essere allegate al rogito, ma consegnate (insieme all'eventuale libretto di uso e manutenzione) alla parte acquirente in occasione della stipula dell'atto di compravendita».
La legge consente però che siano oggetto di compravendita immobili con impianti non a norma o in ogni caso "non garantiti conformi". La conformità non influisce infatti sulla commerciabilità giuridica ma, così come il certificato di agibilità, incide sulla parte economica. Un aspetto che, unito allo necessità di far subito chiarezza sul soggetto responsabile dei necessari adeguamenti, impone che lo "stato di cose" risulti dal rogito o ancor prima dal compromesso.
Se gli impianti sono conformi, il venditore lo dichiara in atto e presta la relativa garanzia: ogni responsabilità per eventuali incidenti causati dall'impianto ricade sull'impresa che ha eseguito i lavori di realizzazione o adeguamento e che deve essere dotata di copertura assicurativa. «Quando invece gli impianti non sono conformi –spiega il notaio Mattea– bisogna verificare la volontà delle parti. L'acquirente può chiedere la messa a norma e quindi il rinvio della stipula del definitivo al momento in cui saranno completati i lavori di adeguamento. O può accettare un immobile con impianto non in regola, perché ad esempio intende comunque ristrutturarlo e così facendo ottiene uno sconto sul prezzo».
Allo stesso modo, se il venditore non conosce lo stato degli impianti e non è in grado di definire la conformità, l'acquirente può accettare l'acquisto assumendo l'onere della verifica e di un eventuale adeguamento (anche qui "ridiscutendo" il prezzo) oppure pretendere la verifica dello stato degli impianti, la loro messa a norma o –in caso di conformità– la dichiarazione di rispondenza. Quest'ultima, resa sempre da un professionista abilitato, è possibile solo per gli impianti eseguiti prima del 27.03.2008 (entrata in vigore del Dm 37/2008)
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.10.2014).

LAVORI PUBBLICIProject financing con Iva al 10% sul costo delle opere. Il question time. L'aliquota applicabile.
L'aliquota Iva ridotta del 10% spetta solo sulle somme erogate per partecipare alla copertura del costo delle opere rientranti nel cosiddetto project financing.

Lo ha detto ieri 01.10.2014 il viceministro Luigi Casero in commissione Finanze alla Camera rispondendo, in un question-time, al deputato Renate Gebhard (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE N. 5/03674) sul trattamento da riservare ai fini Iva alle somme corrisposte per opere che siano finanziate ai sensi dell'articolo 153, comma 19, Dlgs n. 163/2006, e cioè strutture d'interesse pubblico nelle quali l'amministrazione concede a un soggetto la possibilità di costruire e gestire una certa infrastruttura per un dato periodo di tempo, in una prospettiva di equilibrio economico finanziario.
Nella risposta, pur sottolineandosi che non è possibile fornire indicazioni circostanziate in mancanza di riferimenti specifici al caso concreto, è tuttavia precisato che, per beneficiare della misura agevolata dell'imposta, l'opera deve rientrare in una delle fattispecie previste dal numero 127-quinquies della Tabella A, parte III, allegata al decreto n. 633/1972 (opere di urbanizzazione primaria e secondaria, linee di trasporto metropolitane, impianti di produzione e reti di distribuzione di calore-energia eccetera).
Verificata la riconducibilità dell'intervento fra quelli oggettivamente agevolati dalla disposizione, il momento in cui le somme sono erogate dalla stazione appaltante al concessionario per la realizzazione dell'opera, risulta del tutto irrilevante per la misura dell'imposta. Allo specifico fine, pertanto, non conta che l'erogazione delle somme intervenga nella fase di costruzione o anche successivamente, per esempio, dopo il collaudo dell'opera. In tal senso, gli uffici ministeriali richiamano le conclusioni già raggiunte nella risoluzione n. 395/E del 2002, con ciò volendo probabilmente fare riferimento alla precisazione secondo cui il prezzo è pagabile “anche” in un'epoca antecedente l'ultimazione dell'opera.
Restano invece fuori dall'ambito applicativo della riduzione di aliquota le somme che l'appaltante eroga al concessionario, ma che non sono collegate alla realizzazione dell'opera, bensì versate ad altro titolo. Potrebbe trattarsi, per esempio, dei canoni versati per la gestione dell'infrastruttura costruita con il progetto finanziato. Tali importi, sempre se riconducibili al corrispettivo di un'operazione rilevante agli effetti impositivi (normalmente una prestazione di servizi), scontano il relativo regime Iva con la pertinente aliquota d'imposta
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTIBeni inagibili, mezza Tasi. Imposta ridotta del 50% come per l'Imu. La tesi del Mef non è però suffragata da una norma di legge.
Disciplina della Tasi lacunosa anche sulle agevolazioni. I fabbricati inagibili, inabitabili e dimore storiche sono soggetti al pagamento dell'imposta sui servizi indivisibili, ma con lo sconto. Secondo il Ministero dell'economia e delle finanze, i titolari di questi immobili sono tenuti a pagare il nuovo balzello con la riduzione del 50%, come per l'Imu, anche in assenza di una norma che attesti il diritto a fruirne.
Dunque, chi possiede un immobile inagibile, inabitabile o di interesse storico-artistico può calcolare il tributo sul 50% della base imponibile, determinata con le stesso modalità con cui ha calcolato l'Imu, nonostante nella legge di Stabilità (147/2013) non vi sia una disposizione ad hoc che riconosca questo beneficio fiscale.
Del resto, i proprietari hanno tutto l'interesse ad allinearsi alla tesi ministeriale secondo la quale se la base imponibile di Imu e Tasi è la stessa, non c'è alcun motivo di dubitare che la riduzione si applichi anche a quest'ultimo tributo.

È evidente, però, che questa interpretazione rappresenti una forzatura del dato normativo, perché quando il legislatore ha voluto riconoscere un'agevolazione lo ha fatto espressamente. Infatti, mentre per l'Imu non c'è alcun dubbio che l'imposta si paghi in misura ridotta, qualche incertezza sussiste sullo sconto per la Tasi. La base imponibile dei due tributi ex lege è la stessa, ma le agevolazioni non sono le stesse. Ciò premesso, al di là delle incertezze normative, non si capisce perché questi immobili debbano pagare l'Imu ridotta al 50% e la Tasi per intero. L'articolo 4 del dl 16/2012 ha disposto la riduzione al 50% della base imponibile Imu, che si dovrebbe estendere all'imposta sui servizi.
Va ricordato che l'inagibilità o inabitabilità dell'immobile deve essere accertata dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, che è tenuto ad allegare idonea documentazione alla dichiarazione. In alternativa, il contribuente ha facoltà di presentare una dichiarazione sostitutiva. L'agevolazione, per la quale è richiesta un'apposita istanza, è però limitata al periodo dell'anno durante il quale sussiste lo stato di precarietà dell'immobile. Le condizioni per ottenere la riduzione alla metà della base imponibile non possono essere disciplinate dai comuni, i quali non hanno più la facoltà di fissare, con regolamento, le caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta del fabbricato, non superabile con interventi di manutenzione.
Lo stato di precarietà deve essere accertato dall'ente impositore sia se il contribuente alleghi idonea documentazione alla richiesta di riduzione dell'imposta, sia se presenti dichiarazione sostitutiva e autocertifichi questa situazione. Per avere diritto al beneficio previsto dalla legge l'istanza deve essere inoltrata nel momento in cui il fabbricato è inagibile o inabitabile, al fine di consentire all'ente di verificare la dichiarazione da parte del soggetto interessato. La richiesta dovrebbe sempre precedere la concessione del beneficio.
Tuttavia, nel rispetto dei principi dello Statuto dei diritti del contribuente (articolo 10 della legge 212/2000), l'interessato non è tenuto a provare per via documentale all'ente impositore fatti e circostanze note e conosciute (Cassazione, sentenza 23531/2008). È espressione del principio di collaborazione e buona fede, che deve improntare i rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, anche la regola in base alla quale non può essere richiesta la prova di fatti noti al fisco.
Per l'Ici, ma il principio è applicabile anche a Imu e Tasi, la giurisprudenza ha sostenuto che spetti il trattamento agevolato anche nei casi in cui l'interessato non abbia presentato la dichiarazione d'inagibilità o inabitabilità, purché sia noto all'amministrazione comunale lo stato dell'immobile. In queste situazioni la base imponibile deve essere ridotta al 50%, a condizione che il fabbricato non venga di fatto utilizzato (articolo ItaliaOggi dell'01.10.2014).

TRIBUTIL'invenduto paga la Tasi. Non si applica l'esenzione prevista per l'Imu. Nulla impedisce ai comuni di deliberare agevolazioni per i beni merce.
I fabbricati invenduti delle imprese sono soggetti al pagamento della Tasi. Non si applica, infatti, l'esenzione prevista per l'Imu.

Un legislatore a dir poco confuso esonera questi immobili dall'Imu, che è un'imposta patrimoniale, purché non siano locati, e li assoggetta alla Tasi, il cui gettito è destinato a finanziare i servizi forniti dall'ente dei quali gli stessi immobili per la condizione in cui si trovano non possono fruire.
Stando così le cose, a normativa vigente, non c'è alcuno dubbio che l'esenzione Imu non possa essere estesa all'imposta sui servizi in assenza di una disposizione ad hoc.
Le norme che prevedono agevolazioni sono di stretta interpretazione. L'articolo 2 del dl 102/2013, oltre al concedere il beneficio dell'esclusione del pagamento della seconda rata a saldo dell'Imu dovuta per il 2013, ha stabilito che i beni merce delle imprese non pagano l'Imu dal 2014. L'agevolazione è condizionata dal fatto che gli immobili non siano locati. Se dati in affitto anche per un breve periodo perdono lo status imposto dalla norma di legge e sono sottoposti all'imposta municipale.
Dunque, mentre prima dell'intervento normativo per gli immobili costruiti dalle imprese e destinati alla vendita il legislatore demandava ai comuni il potere di concedere l'aliquota agevolata, il dl 102 ha previsto un beneficio fiscale differenziato per il 2013 e il 2014. Per il 2013, al fine di dare una mano al settore dell'edilizia che è in forte crisi, è stata abolita la seconda rata dell'imposta, mentre da quest'anno gli immobili delle imprese costruttrici non sono più tenuti al pagamento «sine die», vale a dire fino a che non saranno venduti.
Inoltre, con l'aggiunta all'articolo 2 del comma 5-bis, in sede di conversione del dl 102, è stato imposto ai titolari di presentare una dichiarazione nella quale devono attestare il possesso dei requisiti e devono elencare dettagliatamente gli immobili che hanno diritto a fruire del beneficio fiscale, indicando i relativi identificativi catastali. Il mancato riconoscimento della stessa agevolazione per la Tasi fa emergere, se mai ce ne fosse bisogno, una totale mancanza di strategia del nostro legislatore.
In effetti, se gli immobili invenduti e non locati devono essere esclusi dal prelievo, e se proprio l'agevolazione deve essere limitata a un solo tributo, è più corretto che l'esonero si applichi alla Tasi che all'Imu. La condizione di immobili inutilizzati dovrebbe escludere l'assoggettamento a un'imposta la cui finalità è quella di finanziare i servizi indivisibili (trasporto locale, illuminazione, manutenzione stradale, verde pubblico e così via).
Peraltro, l'esenzione Tasi si applica in molti casi in cui il beneficio spetta per l'Imu. Nello specifico, sono esonerati gli immobili posseduti da stato, regioni, province, comuni, comunità montane, consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, purché destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Inoltre, le agevolazioni si estendono agli immobili adibiti al culto, nonché a quelli utilizzati dagli enti non commerciali. Per questi ultimi viene ribadito che l'esenzione, totale o parziale, è condizionata dalla destinazione degli immobili allo svolgimento delle attività elencate dall'articolo 7, comma 1, lettera i) del decreto legislativo 504/1992, con modalità non commerciali.
C'è da sottolineare, infine, che nulla impedisce ai comuni di deliberare con regolamento eventuali agevolazioni. Le amministrazioni locali possono stabilire riduzioni senza un tetto massimo. E possono tener conto della situazione familiare dei contribuenti soggetti al prelievo. In base al comma 679 della legge di Stabilità (147/2013) detrazioni e esenzioni possono essere concesse per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo (articolo ItaliaOggi del 30.09.2014).

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOConsiglieri comunali concussori. Gli interessati avevano ceduto alla minaccia per non perdere un risultato lecito. Cassazione. Reato «maggiore» se l'amministratore chiede soldi o incarichi per trattare una pratica.
Concussione e non induzione per l'amministratore comunale che chiede soldi o incarichi per trattare una pratica, con la minaccia in caso di rifiuto del "favore" di insabbiarla.

La Corte di Cassazione con la sentenza 03.10.2014 n. 41110 non fa sconti ai consiglieri comunali che decidevano del destino delle richieste di varianti urbanistiche non in base alla legittimità della domanda ma in funzione della disponibilità del privato a cedere ai loro ricatti.
Le pretese variavano a seconda del campo di "interesse" del pubblico ufficiale: dai soldi, agli appalti per installare ascensori, agli incarichi. Minacce alle quali gli interessati avevano ceduto per non veder sfumata la possibilità di conseguire un risultato che comunque era lecito.
Malgrado il comportamento non proprio esemplare i ricorrenti negavano di aver costretto le loro "vittime" a pagare o fare altri favori e, forti di questa convinzione, pretendevano di essere puniti per il meno grave delitto di induzione (articolo 319-quater del Cp) escludendo la concussione (articolo 317 del Cp). Ma la Cassazione non li accontenta. I giudici della Sesta sezione analizzano le differenze tra le due ipotesi, in base alla nuova formulazione della legge Severino (190/2012), e spiegano la ragione della loro scelta. La concussione scatta quando un pubblico agente minaccia, in maniera implicita o esplicita, di danneggiare ingiustamente il privato, che può evitare il pregiudizio dando del denaro od offrendo un'altra utilità indebita.
Diversa l'ipotesi dell'induzione che si realizza in maniera più sottile, con la persuasione, la suggestione, l'inganno o la pressione morale. Due gli elementi fondamentali che distinguono l'induzione dalla concussione: la pressione più leggera "non irresistibile" esercitata dal pubblico ufficiale e il vantaggio indebito in gioco. Nel caso dell'induzione, infatti, il destinatario pressato persegue uno scopo non lecito, e gode di un maggior margine di autodeterminazione.
Chiarita la portata delle due ipotesi criminose la Cassazione motiva il suo verdetto. Gli imputati avevano «avvertito» gli imprenditori che le varianti urbanistiche alle quali erano interessati potevano trovare una corsia preferenziale per una rapida attuazione o perdersi nei meandri degli uffici comunali. Per far avverare la prima ipotesi servivano soldi, appalti e anche un incarico di amministratore di condominio su diversi stabili. Il danno minacciato di non mettere all'ordine del giorno la pratica, bocciare la domanda o rinviarne la discussione era senz'altro ingiusto, i privati si sono trovati dunque a un bivio: subire il ricatto o perdere la possibilità di conseguire un risultato lecito in tempo utile.
La Cassazione sottolinea come la gestione del tutto arbitraria della cosa pubblica, piegata agli scopi personali, abbia indotto i privati a piegarsi agli abusi per scongiurare il rischio di vedere compromessi i loro interessi a causa di un'eventuale ribellione. E i giudici a confermare il reato di concussione, anche se per alcuni è scattata le prescrizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAIl necessario riesame dell'abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso.
E’ qui appena il caso di richiamare il maggioritario -e qui condiviso- orientamento secondo cui il necessario riesame dell'abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso (sul punto –ex plurimis-: Cons. Stato, IV, 28.11.2013; id., V, 31.10.2012, n. 5553; id., IV, 12.05.2010, n. 2844).  (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.10.2014 n. 4966 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe è pur vero che la presentazione di un’istanza di sanatoria non inficia la legittimità dell’ordine di demolizione impartito in precedenza quando la domanda di sanatoria sia stata poi respinta, è altresì vero che la presentazione di una siffatta richiesta impedisce che l'amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato e determina –di conseguenza– la temporanea sospensione degli effetti dell’ordine di demolizione già impartito.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha recentemente chiarito, al riguardo, che la presentazione di una domanda di sanatoria di abusi edilizi determina l’inefficacia dei precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori) atteso che, sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto ad esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione.

Al riguardo deve essere richiamato il consolidato –e qui condiviso– orientamento secondo cui, se è pur vero che la presentazione di un’istanza di sanatoria non inficia la legittimità dell’ordine di demolizione impartito in precedenza quando la domanda di sanatoria sia stata poi respinta, è altresì vero che la presentazione di una siffatta richiesta impedisce che l'amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato e determina –di conseguenza– la temporanea sospensione degli effetti dell’ordine di demolizione già impartito (in tal senso –ex plurimis-: Cons. Stato, V, 31.03.2014, n. 1546; id., VI, 14.03.2014, n. 1292; id., VI, 07.05.2009, n. 2833).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha recentemente chiarito, al riguardo, che la presentazione di una domanda di sanatoria di abusi edilizi determina l’inefficacia dei precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori) atteso che, sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto ad esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione (Cons. Stato, V, 23.06.2014, n. 3143) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.10.2014 n. 4963 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Ricorso in sede giurisdizionale. Tempestività. Onere della prova. Ricade sulla parte che eccepisce la tardività. Realizzazione di canna fumaria a servizio di ristorante. Certificato di collaudo e scontrini fiscali. Irrilevanza.
1.1. In tema di ricorsi in sede giurisdizionale promossi dal proprietario di immobile confinante con quello interessato dall'avversato intervento edilizio, la prova della tardività dell'impugnazione incombe sulla parte che la eccepisce, secondo i generali criteri di riparto del relativo onere, ed essa deve essere assistita da rigorosi e univoci riscontri, ossia da elementi documentali dai quali possa arguirsi con assoluta certezza il momento della piena conoscenza dell'atto o del fatto, nella specie del completamento funzionale dell'impianto.
1.2. Al fine di valutare la tempestività o meno del ricorso promosso dal proprietario di immobile confinante con quello interessato da intervento edilizio volto a realizzare una canna fumaria, non assume rilievo il certificato di collaudo della canna fumaria, che costituisce dichiarazione di tecnico di parte che non può assumere nel giudizio amministrativo alcun valore privilegiato, né la documentazione fiscale attestante l'esercizio dell'attività di ristorazione al cui servizio è posta l'avversata canna fumaria, trattandosi di documentazione che indica solo l'esercizio di un'attività ma non può ex se comprovare che l'impianto fosse stato completato in ogni sua parte (ben potendo, in ipotesi, funzionare, sia pure in modo irregolare, senza l'elemento di completamento).
La prima eccezione pregiudiziale spiegata dagli appellanti, e proposta altresì dall'appellata Roma Capitale, concerne la pretesa tardività del ricorso in primo grado, in quanto proposto oltre il termine decadenziale, il cui dies a quo andrebbe ricondotto, se non all'avvio dei lavori, successivi alla presentazione della prima d.i.a. (20 dicembre 2007) e delle due successive in variante (rispettivamente del 29.04.2008 e 06.05.2008), quantomeno alla data di ultimazione dei lavori (08.05.2008), come desunta dal certificato di collaudo dell'impianto, con conseguente individuazione del dies ad quem al più tardi al 07.07.2008, laddove il ricorso è stato notificato solo il 16.12.2008.
In tal senso si censura il rilievo svolto dal giudice capitolino, secondo il quale "...dalla documentazione fotografica allegata all’atto introduttivo si evince, come al momento della presentazione del ricorso l’opera non risultava completata, risultando mancante del comignolo di scarico", sostenendo che tale documentazione non avrebbe data certa, mentre per un verso s'invoca il certificato di collaudo, per altro documentazione fiscale relativa all'esercizio dell'attività di ristorazione.
Osserva il Collegio che la prova della tardività dell'impugnazione incombe sulla parte che la eccepisce, secondo i generali criteri di riparto del relativo onere, ed essa deve essere assistita da rigorosi e univoci riscontri, ossia da elementi documentali dai quali possa arguirsi con assoluta certezza il momento della piena conoscenza dell'atto o del fatto, nella specie del completamento funzionale dell'impianto (cfr. solo tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV, 13.12.2013, n. 6007 e 27.03.2013, n. 1740).
Non è quindi possibile, con un rovesciamento logico-giuridico, censurare la sentenza nella parte in cui ha valorizzato documentazione, comunque obiettiva, proveniente dal ricorrente, e tesa solo a contrastare l'avversa eccezione, quando quest'ultima non sia stata, a sua volta e anzitutto, confortata da una prova piena, persuasiva e conclusiva.
Tali caratteri non possono riconoscersi né al certificato di collaudo, che costituisce dichiarazione di tecnico di parte che non può assumere nel giudizio amministrativo e in relazione alla specifica eccezione alcun valore privilegiato, né alla documentazione fiscale, che indica solo l'esercizio di un'attività ma non può ex se comprovare che l'impianto fosse stato completato in ogni sua parte (ben potendo, in ipotesi, funzionare, sia pure in modo irregolare, senza l'elemento di completamento).
In difetto, quindi, di rigorosa prova in ordine alla compiuta realizzazione dell'impianto completo in ogni sua parte, e anzi in relazione al contrario riscontro fornito dalla documentazione fotografica, non può sostenersi la tardività dell'impugnazione (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2014 n. 4962 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. D.I.A. edilizia. Ricorso in sede giurisdizionale avverso provvedimento tacito abilitativo dell'intervento. Ammissibilità e procedibilità se ricorso ante A.P. n. 15/2011.
Tenuto conto che, sino alla decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011, era maggioritario l'orientamento giurisprudenziale che qualificava la D.I.A. in materia edilizia come una fattispecie a formazione progressiva costituita dalla presentazione della d.i.a., dal decorso del termine dilatorio per l'avvio dei lavori, e dall'inerzia dell'amministrazione in ordine all'esercizio dei poteri inibitori, come un provvedimento tacito abilitativo dell'intervento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1474 e 25 novembre 2008 n. 5811, Sez. VI, 5 aprile 2007, n. 1550; n. 5811; vedi anche Sez. II, 28.5.2010, parere n. 1990; CONTRA Cons. Stato, Sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717, secondo cui la D.I.A. sarebbe invece atto di natura privata che abilita il dichiarante all'esercizio di un diritto riconosciutogli direttamente dalla legge il potere dell'amministrazione di vietare lo svolgimento dell'attività -e ordinare l'eliminazione degli effetti già prodotti- entro un ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di pubblico interesse), va ritenuto ritualmente introdotto nell'anno 2008 il ricorso impugnatorio avverso provvedimento tacito, abilitativo dell'intervento edilizio, volto a censurare, oltre al supposto provvedimento tacito positivo, anche l'inerzia dell'Amministrazione Comunale in relazione al mancato esercizio dei poteri inibitori doverosamente correlati al denunciati carenti presupposti per la formazione di legittima ed efficace fattispecie abilitativa della realizzazione del manufatto.
2. (segue): novella dell'art. 19 legge n. 241/1990 ad opera dell'art. 6 del d.l. 13.08.2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14.09.2011, n. 148. Irrilevanza per i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore.
L'art. 19 legge n. 241/1990, come novellato dall'art. 6 del d.l. 13.08.2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14.09.2011, n. 148, ha portata innovativa, e non già interpretativa, e soprattutto sostanziale e non già processuale. Ne consegue che il riconoscimento dell'esperibilità, previa sollecitazione all'Amministrazione in ordine all'esercizio dei poteri inibitori, dell'azione disciplinata dall'art. 31 c.p.a., e quindi dell'azione di accertamento dell'obbligo di provvedere corrispondente alla tradizionale impugnativa del silenzio-rifiuto quale inadempimento dell'obbligo, non può che essere rivolta de futuro e non può incidere, per giunta frustrando i principi di pienezza, effettività, tempestività della tutela giurisdizionale, sulle controversie pendenti, anche secondo una lettura costituzionalmente orientata rispettosa dei principi costituzionali relativi al diritto di difesa (art. 24 Cost.), al giusto processo (art. 111 Cost.), alla tutela giurisdizionale amministrativa (art. 113 comma 2 Cost.).
3.2) La seconda eccezione pregiudiziale si articola, in effetti, in due profili distinti, attinenti rispettivamente:
- all'ammissibilità del ricorso, in funzione delle domande con il medesimo proposte;
- all'improcedibilità del ricorso, in ragione del disposto del comma 6-ter dell'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241, come aggiunto dall'art. 6 del d.l. 13.08.2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14.09.2011, n. 148.
3.2.1.) Quanto al primo profilo, si sostiene che in modo del tutto erroneo l'impugnativa sarebbe stata rivolta avverso un supposto provvedimento tacito di assenso, mentre la d.i.a., proprio alla luce della chiarificante sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15 del 29.07.2011, è invece "...un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge...", potendo al limite ammettersi, in aderenza all'insegnamento del massimo consesso giurisdizionale amministrativo, soltanto l'impugnazione dell'inerzia dell'amministrazione in ordine all'esercizio dei poteri inibitori, ivi configurato, come noto, alla stregua di "...provvedimento tacito negativo equiparato dalla legge ad un, sia pure non necessario, atto espresso di diniego dell'adozione del provvedimento inibitorio".
Osserva il Collegio che l'eccezione è infondata sotto duplice aspetto.
Al momento della proposizione del ricorso (dicembre 2008) era maggioritario, se non addirittura esclusivo l'orientamento giurisprudenziale che qualificava la fattispecie a formazione progressiva costituita dalla presentazione della d.i.a., dal decorso del termine dilatorio per l'avvio dei lavori, e dall'inerzia dell'amministrazione in ordine all'esercizio dei poteri inibitori, come un provvedimento tacito, abilitativo dell'intervento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2009, n. 1474 e 25.11.2008 n. 5811, Sez. VI, 05.04.2007, n. 1550; n. 5811; vedi anche Sez. II, 28.05.2010, parere n. 1990), laddove parte affatto minoritaria della giurisprudenza, peraltro successiva all'introduzione dell'impugnativa (cfr. Sez. VI, 09.02.2009, n. 717) aveva ritenuto che essa fosse "...atto di natura privata che abilita il dichiarante all'esercizio di un diritto riconosciutogli direttamente dalla legge il potere dell'amministrazione di vietare lo svolgimento dell'attività (e ordinare l'eliminazione degli effetti già prodotti) entro un ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di pubblico interesse", epperò riconducendo la tutela giurisdizionale del terzo ad una azione di accertamento autonomo in ordine all'insussistenza dei presupposti legittimanti l'attività.
In effetti quest'ultima è la prospettiva ermeneutica accolta dall'Adunanza Plenaria, salva la ricostruzione del contenuto della tutela giurisdizionale in termini impugnatori, essenzialmente attraverso la fictio del provvedimento tacito negativo in ordine all'esercizio del potere inibitorio.
Ne consegue che il ricorso è stato ritualmente introdotto in forma impugnatoria censurandosi, bensì, oltre al supposto provvedimento tacito positivo, anche l'inerzia dell'Amministrazione Comunale in relazione al mancato esercizio dei poteri inibitori doverosamente correlati al denunciati carenti presupposti per la formazione di legittima ed efficace fattispecie abilitativa della realizzazione del manufatto.
Sotto quest'ultimo rilievo, poi, e al di là delle espressioni utilizzate dal ricorrente, è indubbio che la domanda sia volta all'accertamento dell'illegittimità dell'attività edilizia siccome non assistita dai presupposti cui è condizionato il perfezionamento di una valida fattispecie riconducibile al paradigma dell'art. 23 del d.P.R. 06.06.2011, n. 380.
La sentenza gravata, ancorché nel dispositivo abbia annullato in senso generico e impreciso il "silenzio-significativo maturatosi sulla d.i.a. presentata dalla controinteressata", nella motivazione all'opposto ha ben compreso e qualificato il contenuto della domanda, riferendola sia alla carenza di uno dei presupposti condizionanti la formazione della fattispecie abilitativa ("...la dichiarazione presentata in assenza del predetto parere non poteva essere assentita dall’Amministrazione...") sia al mancato illegittimo esercizio del potere inibitorio ("... si appalesa illegittimo il mancato esercizio da parte dall’Amministrazione comunale dell’attività di controllo, cui consegue la necessità che l’Amministrazione si attivi successivamente nell’ambito dei poteri di autotutela").
3.2.2) Non ha maggior fondatezza l'altra eccezione d'improcedibilità, formulata in relazione alla novella dell'art. 19 della legge n. 241/1990, come introdotta dall'art. 6 del d.l. 13.08.2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14.09.2011, n. 148.
Tale disposizione, come noto, ha stabilito che: "La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all' art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104".
Orbene, ad avviso del Collegio, in disparte ogni considerazione sul rapporto tra lo schema generale ex art. 19 e la disciplina speciale di cui all'art. 23 del d.P.R. n. 380/2001, la norma, in quanto intesa a qualificare la fattispecie ha portata innovativa, e non già interpretativa, e sopratutto sostanziale e non già processuale; del pari il successivo riconoscimento dell'esperibilità, previa sollecitazione all'Amministrazione in ordine all'esercizio dei poteri inibitori, dell'azione disciplinata dall'art. 31 c.p.a., e quindi dell'azione di accertamento dell'obbligo di provvedere corrispondente alla tradizionale impugnativa del silenzio-rifiuto quale inadempimento dell'obbligo, non può che essere rivolta de futuro e non può incidere, per giunta frustrando i principi di pienezza, effettività, tempestività della tutela giurisdizionale, sulle controversie pendenti, anche secondo una lettura costituzionalmente orientata rispettosa dei principi costituzionali relativi al diritto di difesa (art. 24 Cost.), al giusto processo (art. 111 Cost.), alla tutela giurisdizionale amministrativa (art. 113, comma 2, Cost.) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2014 n. 4962 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’autorizzazione paesistica, la quale è preordinata a garantire un armonioso sviluppo della zona protetta che si vuole tutelare per la particolarità ed unicità della sua bellezza, costituisce atto autonomo e presupposto del permesso di costruire, i cui lavori è onere della parte provare nella loro legittimità sulla base di precisi e persuasivi indizi.
---------------
La produzione di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio non può assurgere al rango di prova, seppure presuntiva, sull'epoca di anteriore realizzazione dell'abuso edilizio-paesaggistico rispetto al vincolo apposto, in assenza di minimi riscontri documentali o di altri elementi di prova eventualmente anche indiziari ma concordanti.
Pertanto, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c., chi realizza interventi ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza, posto che, in tali casi, solo il privato dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di valutazione quali fotografie con data certa dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il progetto originario e i suoi allegati, e quant’altro di utile.
Di conseguenza, va ritenuto sufficientemente motivato il provvedimento che, a fronte di un abuso edilizio-paesaggistico, ne ordina la demolizione con richiamo al verbale di sopralluogo dei tecnici comunali dato che, com'è noto, il provvedimento sanzionatorio in materia edilizia ha natura del tutto vincolata giacché è conseguente ad un accertamento tecnico della consistenza delle opere abusive realizzate.
Infatti, il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del comune a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate, sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante.
In punto di diritto va invece osservato come l’autorizzazione paesistica, la quale è preordinata a garantire un armonioso sviluppo della zona protetta che si vuole tutelare per la particolarità ed unicità della sua bellezza, costituisca atto autonomo e presupposto del permesso di costruire, i cui lavori è onere della parte provare nella loro legittimità sulla base di precisi e persuasivi indizi.
La giurisprudenza di questo Consiglio è concorde nell’affermare che la produzione di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio non può assurgere al rango di prova, seppure presuntiva, sull'epoca di anteriore realizzazione dell'abuso edilizio-paesaggistico rispetto al vincolo apposto, in assenza di minimi riscontri documentali o di altri elementi di prova eventualmente anche indiziari ma concordanti (Cons. St., sez. VI, 05.08.2013, 4075; Sez. IV, 14.02.2012, n. 703; Sez. V, 06.06.2001, n. 3067).
Pertanto, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c., chi realizza interventi ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza, posto che, in tali casi, solo il privato dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di valutazione quali fotografie con data certa dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il progetto originario e i suoi allegati, e quant’altro di utile.
Di conseguenza, va ritenuto sufficientemente motivato il provvedimento che, a fronte di un abuso edilizio-paesaggistico, ne ordina la demolizione con richiamo al verbale di sopralluogo dei tecnici comunali dato che, com'è noto, il provvedimento sanzionatorio in materia edilizia ha natura del tutto vincolata giacché è conseguente ad un accertamento tecnico della consistenza delle opere abusive realizzate.
Infatti, il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del comune a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate, sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante.
Ciò comporta che in questa sede, tanto l’atto impugnato in primo grado quanto la sentenza criticata, si configurino esenti dalle censure mosse, in particolare da quelle di difetto di istruttoria e di motivazione perché, nella mancanza di allegazioni idonee a smentire i presupposti di fatto dell'ordinanza e in assenza della querela di falso, erroneamente le ricorrenti pretendono, con inammissibile inversione dell'onere della prova, che sia l'Amministrazione a provare giudizialmente i fatti posti a base della sua azione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.10.2014 n. 4957 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'incameramento della cauzione e la segnalazione all'Autorità sono consequenziali all'esclusione ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, configurandosi come attività affatto vincolata alla ricognizione dei presupposti legali, né potrebbe revocarsene in dubbio la piena legittimità in relazione alla carenza del requisito in capo al progettista, posto che sul concorrente grava onere di diligenza in ordine alla scelta del professionista e alla verifica dei requisiti di quest'ultimo, onde la sanzione si ricollega a fatto proprio colpevole (su tale profilo, e con riferimento al dovere di diligenza assunto dai concorrenti che "...con la domanda di partecipazione, sottoscrivono e si impegnano ad osservare le regole della relativa procedura, delle quali hanno piena contezza...".
4.) L'appello in epigrafe è destituito di fondamento giuridico e deve essere rigettato con la conseguente conferma della sentenza gravata.
4.1) Il punto III.2.3 lettera e) del bando di gara richiedeva espressamente una "dichiarazione relativa al numero medio annuo, con riferimento ai migliori tre anni (anche non consecutivi) del quinquennio antecedente la data di pubblicazione del presente bando, del personale tecnico componente l'unità richiedente (comprendente i soci attivi, i dipendenti ed i consulenti con contratto di collaborazione su base annua, ai sensi della normativa vigente di riferimento); tale requisito dovrà risultare almeno pari a 2 (due) volte le unità stimate per lo svolgimento dell'incarico, indicate al punto II.2.1 del bando".
Trattasi di clausola riproduttiva dell'art. 263, comma 1, lettera d), del d.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante "Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163"), che pure, tra i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi per la partecipazione alle gare, si riferisce "al numero medio annuo del personale tecnico utilizzato negli ultimi tre anni (comprendente i soci attivi, i dipendenti, i consulenti su base annua iscritti ai relativi albi professionali, ove esistenti, e muniti di partiva IVA e che firmino il progetto, ovvero firmino i rapporti di verifica del progetto, ovvero facciano parte dell'ufficio di direzione lavori e che abbiano fatturato nei confronti della società offerente una quota superiore al cinquanta per cento del proprio fatturato annuo, risultante dall'ultima dichiarazione IVA, e i collaboratori a progetto in caso di soggetti non esercenti arti e professioni), in una misura variabile tra 2 e 3 volte le unità stimate nel bando per lo svolgimento dell'incarico".
4.2) Orbene non è contestabile, secondo i condivisibili rilievi del giudice amministrativo salernitano, che il possesso di tale requisito non sia stato documentato, in sede di verifica a sorteggio, non potendosi revocare in dubbio la nozione di "collaboratori su base annua", in quanto denotante un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa almeno annuale, ancorché non necessariamente coincidente con l'anno solare, a tal fine non assumendo rilievo le generiche indicazioni, carenti di specificazioni sulla natura e sulla durata temporale delle collaborazioni, rivenienti dai modelli di dichiarazione fiscale dei redditi della società di persone, né e per le medesime ragioni da fatture passive emesse nei confronti della Piemme Engeneering.
4.3) Né la motivazione del provvedimento di esclusione può considerarsi carente o insufficiente, dovendo rapportarsi relazionalmente al requisito richiesto e alla documentazione prodotta, in disparte la contestata applicabilità dell'art. 21-octies, come opinata dal giudice amministrativo salernitano con evidente riferimento a un orientamento giurisprudenziale più recente, ancorché non univoco (nel senso che anche la motivazione possa essere fornita in sede di giudizio, senza violazione del divieto di integrazione in sede giudiziale, cfr. Cons. Stato, Sez. V 20.08.2013, n. 4194 e Sez. IV 09.10.2012, n. 5257; in senso contrario Sez. IV 27.05.2010, n. 3377 e Sez. VI, 03.03.2010, n. 1241).
4.4) L'incameramento della cauzione e la segnalazione all'Autorità sono consequenziali all'esclusione ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, configurandosi come attività affatto vincolata alla ricognizione dei presupposti legali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2013, n. 2832 e 16.02.2012, n. 810, Sez. V, 06.03.2013, n. 1373), né potrebbe revocarsene in dubbio la piena legittimità in relazione alla carenza del requisito in capo al progettista, posto che sul concorrente grava onere di diligenza in ordine alla scelta del professionista e alla verifica dei requisiti di quest'ultimo, onde la sanzione si ricollega a fatto proprio colpevole (su tale profilo, e con riferimento al dovere di diligenza assunto dai concorrenti che "...con la domanda di partecipazione, sottoscrivono e si impegnano ad osservare le regole della relativa procedura, delle quali hanno piena contezza..." vedi Cons. Stato, Sez. V, 18.04.2012, n. 2232 e 10.09.2012, n. 4778) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2014 n. 4951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIDivieto di quota lite solo per i difensori. Professionisti. La modalità di determinazione del compenso.
Il divieto del patto di quota lite, già previsto dal Codice civile e poi reintrodotto dalla riforma dell'ordinamento forense, si riferisce a chi svolge un'attività difensiva. Ne è pertanto escluso il consulente del lavoro che punta a ottenere un risparmio per la società sua cliente e che non svolge certo un'attività di assistenza e rappresentanza in giudizio.

Lo chiarisce la Corte di Cassazione con la sentenza 02.10.2014 n. 20839 della II Sez. civile.
Il patto di quota lite prevede che l'avvocato o il professionista percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione professionale. Il divieto era prima previsto dal Codice civile (momento cui si riferisce la pronuncia della Cassazione), poi rivisto nel l'ambito delle "lenzuolate" del l'allora ministro Pier Luigi Bersani e infine reintrodotto dal nuovo ordinamento forense.
Il consulente era stato ingaggiato da una società per l'individuazione di soluzioni giuridiche che permettessero alla stessa di godere del beneficio delle agevolazioni (sgravio degli oneri sociali sui contributi Inps) previste per le aziende industriali del Mezzogiorno. A titolo di compenso veniva previsto il 25% dei contributi già pagati e recuperati. Ottenuta l'agevolazione, però, la società aveva citato il consulente per vedere annullato il contratto di prestazione d'opera professionale sostenendo il divieto del patto di quota lite. Sia in primo grado sia in appello il professionista aveva visto sconfitta la propria tesi e negato il compenso.
Ora la Cassazione ribalta i verdetti e precisa che il divieto, anche nella vecchia versione del Codice civile, si riferiva solo al professionista che svolge attività difensiva. Non solo l'avvocato, ma anche il dottore commercialista, il ragioniere e il consulente quando svolgono attività di patrocinio davanti alle commissioni tributarie.
La prestazione svolta dal consulente del lavoro, nel caso esaminato dalla Cassazione, non rientrava certo nell'attività di assistenza e di rappresentanza in giudizio della società, quanto piuttosto in un impegno a ottenere dall'Inps il riconoscimento in via amministrativo contabile del diritto della società a ottenere lo sgravio
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Il divieto del cosiddetto patto di quota lite tra l’avvocato ed il cliente, sancito dalla norma di cui all’art. 2233 cod. civ., trova il suo fondamento nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità e la moralità della professione forense, che risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, sia, comunque, ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione, giudiziale o stragiudiziale, richiestagli.
Ne consegue che detto patto (legittimamente ravvisabile anche sotto forma di promessa unilaterale, costituendo questa una fattispecie negoziale ove l’astrazione della causa risulta limitata all’ambito processuale) va rinvenuto non soltanto nella ipotesi in cui il compenso del legale consista in parte dei beni o crediti litigiosi, secondo l’espressa previsione della norma (che costituisce, in relazione alla ratio della tutela, soltanto la tipizzazione dell’ipotesi di massimo coinvolgimento del legale e che, pertanto, non esaurisce il divieto), ma anche qualora tale compenso sia stato, comunque, convenzionalmente correlato al risultato pratico dell’attività svolta, realizzandosi, cosi, quella (non consentita) partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni della prestazione.
Ne consegue che la nullità di quel patto, sancita dall’art. 2233 terzo comma cod. civ., prescinde dalla circostanza del verificarsi di un indebito lucro per il professionista, e può essere fatta valere da ciascuno dei contraenti, senza che si richieda la deduzione e dimostrazione di uno specifico interesse a rimuoverne gli effetti
(tratta da http://renatodisa.com).

APPALTI: Sulla dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare d'appalto, ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006: principi giurisprudenziali consolidati.
In tema di dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare d'appalto, ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006, possono ritenersi ormai consolidati i seguenti principi:
a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro, ciò implicando un giudizio meramente soggettivo inconciliabile con la ratio della norma;
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresenta lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito proprio con la gara di appalto, così che la sola omessa dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla relativa gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara;
c) anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex specialis, stante la sua eterointegrazione con la norma di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale;
d) in caso di omessa dichiarazione di precedenti penali non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione, con la precisazione che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del bando non può determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4932 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Le concessioni di servizi possono essere affidate solo all'esito di una procedura caratterizzata dalla predeterminazione dei criteri selettivi.
L'art. 30, c. 3, del d.lgs. n. 163/2006, dispone che: "La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi".
Pertanto, sebbene la normativa comunitaria abbia tendenzialmente escluso dal proprio ambito le concessioni di servizi, le stesse non si sottraggono al rispetto dei principi fondamentali del Trattato tra i cui corollari si apprezza proprio quello della predeterminazione dei criteri selettivi. Strumento quest'ultimo indispensabile per assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità.
Di conseguenza, sia pure nell'ambito di una gara informale, le concessioni di servizi possono essere affidate solo all'esito di una procedura caratterizzata dalla predeterminazione dei criteri selettivi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4913 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: E' da escludere un falso 'innocuo' quando il bando di una gara d'appalto prevede una dichiarazione dal contenuto completo, anche sui 'carichi pendenti', e il partecipante rende una autodichiarazione non veritiera.
Non è configurabile un falso 'innocuo' quando il bando di una gara d'appalto prevede una dichiarazione dal contenuto completo, anche sui 'carichi pendenti', e il partecipante rende una autodichiarazione non veritiera, atteso che, nelle procedure di evidenza pubblica, la completezza delle dichiarazioni sul possesso dei requisiti generali è già di per sé un valore da perseguire, perché consente, anche in ossequio al principio di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità, la celere decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara; conseguentemente una dichiarazione inaffidabile perché, al di là dell'elemento soggettivo sottostante, è falsa, deve ritenersi già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2014 n. 4896 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di una costruzione abusiva integra una sanzione di natura oggettiva e reale che costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi pubblici coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né, infine, è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
---------------
In ragione del carattere vincolato dell’atto, non occorre alcun avviso di avvio del procedimento per gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l’ordine di demolizione della costruzione abusiva; così come nel caso di diniego di concessione in sanatoria su istanza di condono, la successiva ordinanza di demolizione non è viziata per violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 in quanto, essendo stata adottata all’esito del procedimento avviato con istanza di condono dell’interessato, non si verte nell’ambito di applicazione dello stesso art. 7

Tutte le questioni sottoposte al giudice d’appello sono infondate.
In ordine alla prima la giurisprudenza, ancora di recente, ha avuto modo di osservare: “L’ordine di demolizione di una costruzione abusiva integra una sanzione di natura oggettiva e reale che costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi pubblici coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né, infine, è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi” (Cons. St. VI, 15.10.2013, 5011).
In ordine alla seconda è stato ribadito il costante orientamento secondo il quale: “In ragione del carattere vincolato dell’atto, non occorre alcun avviso di avvio del procedimento per gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l’ordine di demolizione della costruzione abusiva; così come nel caso di diniego di concessione in sanatoria su istanza di condono, la successiva ordinanza di demolizione non è viziata per violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 in quanto, essendo stata adottata all’esito del procedimento avviato con istanza di condono dell’interessato, non si verte nell’ambito di applicazione dello stesso art. 7” (Cons. St. VI, 04.03.2013, n. 1268) (Consiglio di Stato, Sez. IVI, sentenza 01.10.2014 n. 4878 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’edificazione in zone sottoposte a vincolo paesistico deve essere rispettosa dei valori estetici difesi dal vincolo. Nell’applicare questo principio, in particolare quando si tratti di un intervento di demolizione e ricostruzione, si pongono due questioni:
(a) se sia necessario che l’impatto della nuova edificazione non superi quello degli edifici preesistenti;
(b) se la tutela paesistica possa trasformarsi in un vincolo di immodificabilità dello stato dei luoghi.
---------------
Relativamente al primo problema si osserva che la costruzione di nuovi edifici in zone vincolate non è subordinata alla dimostrazione dell’impatto zero sullo stato dei luoghi, ma richiede più semplicemente l’individuazione di un rapporto accettabile tra l’edificazione e la perdita delle caratteristiche ambientali preesistenti.
Possono quindi essere assentiti anche fabbricati più impattanti per volume o caratteristiche costruttive rispetto a quelli preesistenti, purché il vincolo paesistico rimanga nel complesso ancora leggibile. Poiché il vincolo cade non su singoli particolari ma sull’insieme degli elementi che compongono un determinato paesaggio, occorre valutare se nel contesto le innovazioni risultino adeguatamente diluite.
Per quanto riguarda il secondo problema, occorre sottolineare che la valutazione paesistica può certamente essere anche sfavorevole al privato, ma non può essere svolta con un metodo talmente conservativo da imporre la cosiddetta opzione zero, ossia la sostanziale vanificazione delle potenzialità edificatorie del lotto.
Le aspettative edificatorie fondate sulla disciplina urbanistica costituiscono una posizione giuridica opponibile anche ai soggetti pubblici che effettuano la valutazione paesistica, i quali hanno il potere di conformarle attraverso prescrizioni e limitazioni in modo che risultino coerenti con il vincolo paesistico, senza tuttavia poterle cancellare del tutto.

Sulle valutazioni paesistiche.
22. L’edificazione in zone sottoposte a vincolo paesistico deve essere rispettosa dei valori estetici difesi dal vincolo. Nell’applicare questo principio, in particolare quando si tratti di un intervento di demolizione e ricostruzione, si pongono due questioni: (a) se sia necessario che l’impatto della nuova edificazione non superi quello degli edifici preesistenti; (b) se la tutela paesistica possa trasformarsi in un vincolo di immodificabilità dello stato dei luoghi.
23. La risposta a entrambi i quesiti è negativa. Relativamente al primo problema si osserva che la costruzione di nuovi edifici in zone vincolate non è subordinata alla dimostrazione dell’impatto zero sullo stato dei luoghi, ma richiede più semplicemente l’individuazione di un rapporto accettabile tra l’edificazione e la perdita delle caratteristiche ambientali preesistenti (v. TAR Brescia Sez. I 11.01.2010 n. 9). Possono quindi essere assentiti anche fabbricati più impattanti per volume o caratteristiche costruttive rispetto a quelli preesistenti, purché il vincolo paesistico rimanga nel complesso ancora leggibile. Poiché il vincolo cade non su singoli particolari ma sull’insieme degli elementi che compongono un determinato paesaggio, occorre valutare se nel contesto le innovazioni risultino adeguatamente diluite.
24. Per quanto riguarda il secondo problema, occorre sottolineare che la valutazione paesistica può certamente essere anche sfavorevole al privato, ma non può essere svolta con un metodo talmente conservativo da imporre la cosiddetta opzione zero, ossia la sostanziale vanificazione delle potenzialità edificatorie del lotto (v. TAR Brescia Sez. I 10.04.2012 n. 598; TAR Brescia Sez. I 08.03.2010 n. 1146). Le aspettative edificatorie fondate sulla disciplina urbanistica costituiscono una posizione giuridica opponibile anche ai soggetti pubblici che effettuano la valutazione paesistica, i quali hanno il potere di conformarle attraverso prescrizioni e limitazioni in modo che risultino coerenti con il vincolo paesistico, senza tuttavia poterle cancellare del tutto.
25. Nello specifico, la decisione negativa del Comune, e prima ancora della Soprintendenza, sembra sconfinare in una difesa sproporzionata del vincolo paesistico. Come si è visto sopra, l’elevata sensibilità paesistica riconosciuta dal PGT all’area in esame non deve far dimenticare che è lo stesso PGT ad ammettere l’edificazione, prevedendo una disciplina comunque rigorosa ma meno penalizzante per i privati rispetto ad altre parti del territorio. Allo stesso modo, dal fatto che la nuova porcilaia sia più impattante delle strutture demolite non si può desumere automaticamente un giudizio negativo circa la compatibilità paesistica, perché occorre dimostrare in concreto l’insostenibilità del nuovo fabbricato.
26. In proposito, il provvedimento di diniego omette di considerare dati importanti quali: (a) la riduzione delle previsioni di sbancamento (v. nota di controdeduzioni del 27.05.2010); (b) la vicinanza della nuova porcilaia alle strutture aziendali storiche, che hanno già introdotto una significativa alterazione dello stato dei luoghi in questo punto del paesaggio; (c) le similitudini costruttive che accomunano la nuova porcilaia all’analoga struttura presente presso l’allevamento e destinata a rimanere al suo posto (v. relazione del dott. agronomo Claudio Leoni del 28.03.2011); (d) la presenza di barriere naturali che schermano la nuova porcilaia rispetto ai principali punti di osservazione e anche rispetto al fondovalle, dove si trovano il borgo storico e il lago di Castellaro Lagusello (v. ancora la citata relazione del 28.03.2011); (e) la previsione di misure di mitigazione concordate con il Parco del Mincio.
27. In definitiva, sembra che il provvedimento di diniego esponga un rischio paesistico superiore a quello reale, e non individui in modo corretto le criticità che normalmente segnalano un irrimediabile contrasto tra il progetto e l’insieme paesistico tutelato dal vincolo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 01.10.2014 n. 1024 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl diritto pubblico di transito può coincidere con una servitù privatistica a favore di un ente pubblico, ma può anche emergere in modo autonomo dalla sistemazione dei luoghi impressa dall’amministrazione per una finalità di interesse collettivo.
Normalmente il tempo di formazione di un diritto pubblico di transito coincide con quelli dell’usucapione ordinaria. Si può tuttavia osservare la costituzione del diritto pubblico in un termine molto inferiore, se il titolo in base al quale è stata acquisita la proprietà lo consente e se sull’area si è insediata un’attività di interesse collettivo.

Sul diritto pubblico di transito.
14. Passando al punto centrale del ricorso, occorre precisare che il diritto pubblico di transito può coincidere con una servitù privatistica a favore di un ente pubblico, ma può anche emergere in modo autonomo dalla sistemazione dei luoghi impressa dall’amministrazione per una finalità di interesse collettivo.
15. Normalmente il tempo di formazione di un diritto pubblico di transito coincide con quelli dell’usucapione ordinaria. Si può tuttavia osservare la costituzione del diritto pubblico in un termine molto inferiore, se il titolo in base al quale è stata acquisita la proprietà lo consente e se sull’area si è insediata un’attività di interesse collettivo (v. TAR Brescia Sez. II 08.05.2013 n. 440).
16. Questo è quanto si è verificato nel caso in esame. L’atto di acquisto del 15.06.1989 menziona espressamente un diritto di transito sui mappali n. 416 e 737. Si tratta di una ricognizione di diritti costituiti o acquisiti in epoca anteriore, che corrisponde allo stato dei luoghi, rimasto immutato. Pertanto, anche se il contratto è intercorso tra il Comune e soggetti diversi dai danti causa dei ricorrenti, si può ravvisare in questo documento la prova dell’esistenza di una servitù di passo, o quantomeno il presupposto materiale di un simile diritto. Da qui in avanti gli approfondimenti sul piano privatistico spettano al giudice ordinario, ma per quanto rileva nel presente giudizio occorre sottolineare che su questo presupposto si è innestata l’azione amministrativa. Il Comune ha infatti ristrutturato gli edifici acquistati e ha attribuito agli stessi una funzione pubblica, nella specie dell’edilizia residenziale pubblica. Di conseguenza, essendo intervenuta una finalità di interesse collettivo, il transito ha acquistato un rilievo pubblicistico.
17. Si sono dunque combinati gli elementi (titolo privatistico non contrastante, apparenza dei luoghi, asservimento a una funzione pubblica) che, indipendentemente dal tempo trascorso, consentono di individuare la presenza di un diritto pubblico di transito. Questa conclusione trova sostegno nell’art. 22, comma 3, della legge 2248/1865 all. F. In base a tale norma devono essere qualificati come parte della viabilità pubblica tutti gli spazi e i vicoli interni all’abitato, a meno che il titolo di proprietà non vi si opponga, e purché ricorrano le seguenti caratteristiche: (a) adiacenza alla via pubblica; (b) accesso dalla via pubblica; (c) potenziale utilizzazione collettiva.
18. Si può quindi ritenere che sui mappali n. 416 e 737 si sia stabilito, da quando il condominio comunale è stato integrato nel programma di edilizia residenziale pubblica, un diritto pubblico di transito.
19. La presenza di un accesso diretto tra il condominio comunale e via Libertà non appare in contrasto con questa ricostruzione. Si tratta infatti di un accesso autonomo, che non è mai stato messo in qualche relazione con il transito sui mappali n. 416 e 737. Inoltre, le caratteristiche e le dimensioni di questo accesso non sono tali da consentire il passaggio agevole dei veicoli, e neppure la sicurezza dei pedoni. È quindi ragionevole supporre che il transito con veicoli si sia sempre indirizzato verso i mappali n. 416 e 737.
20. In quanto titolare di un diritto pubblico di transito, il Comune è tenuto a esercitare i poteri di regolamentazione secondo gli ordinari principi che dirigono l’azione amministrativa. Di conseguenza, il Comune non può limitarsi a reprimere i tentativi di chiusura del percorso, ma deve assicurarsi, attraverso la predisposizione di norme di comportamento e l’effettuazione di controlli, che il transito avvenga in condizioni di sicurezza e che i disagi per i proprietari del sedime e dei fabbricati circostanti siano ridotti al minimo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 01.10.2014 n. 1023 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZINelle gare aventi ad oggetto servizi esclusi dall'applicazione del Codice dei contratti pubblici (allegato II B), <<la mancanza nel bando di una previsione specifica non esenta i concorrenti dal dovere di indicare gli oneri della sicurezza aziendali e dall'osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro, ma comporta soltanto che, ove la stazione appaltante non si sia autovincolata nella legge di gara ad osservare la disciplina di dettaglio dettata dagli artt. 86, commi 3-bis e 3-ter, e 87, comma 4, del succitato Codice dei contratti pubblici, il concorrente, che non abbia indicato i suddetti oneri della sicurezza nella propria offerta, deve essere chiamato a specificarli successivamente, nell'ambito della fase di verifica della congruità dell'offerta, all'evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di adempiere al suo onere (che sussiste anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei fondamentali interessi dei lavoratori in relazione all'entità ed alle caratteristiche del servizio>>.
Evidenziato:
- che è parimenti infondato il secondo motivo di ricorso;
- che anzitutto la lex specialis non conteneva alcuna regola specifica sull’indicazione degli oneri di sicurezza aziendali;
- che la recente giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. III – 21/1/2014 n. 280) ha statuito che, nelle gare aventi ad oggetto servizi esclusi dall'applicazione del Codice dei contratti pubblici (allegato II B), <<la mancanza nel bando di una previsione specifica non esenta i concorrenti dal dovere di indicare gli oneri della sicurezza aziendali e dall'osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro, ma comporta soltanto che, ove la stazione appaltante non si sia autovincolata nella legge di gara ad osservare la disciplina di dettaglio dettata dagli artt. 86, commi 3-bis e 3-ter, e 87, comma 4, del succitato Codice dei contratti pubblici, il concorrente, che non abbia indicato i suddetti oneri della sicurezza nella propria offerta, deve essere chiamato a specificarli successivamente, nell'ambito della fase di verifica della congruità dell'offerta, all'evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di adempiere al suo onere (che sussiste anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei fondamentali interessi dei lavoratori in relazione all'entità ed alle caratteristiche del servizio>>;
- che ad analoghe conclusioni era pervenuto il Consiglio di Stato, sez. V – 06/08/2012 n. 4510, che ha affrontato una vicenda analoga riguardante un appalto di refezione scolastica;
- che merita di essere richiamata altresì la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. III – 04/03/2014 n. 1030;
- che l’art. 7 del disciplinare di gara, evocato in giudizio dalla ricorrente, richiama gli artt. 87 e 88 del Codice dei contratti esclusivamente ai fini delle giustificazioni sulla congruità dell’offerta;
- che la controinteressata ha peraltro evidenziato l’avvenuta esibizione degli oneri di sicurezza aziendale nei chiarimenti resi nell’ambito del sub-procedimento di verifica dell’anomalia, con un importo (25.288,65 €) che non risulta in alcun modo contestato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.10.2014 n. 1016 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1. ATI. Offerta. Garanzia fideiussoria. Riconducibilità a tutti i componenti dell'ATI. Criteri ermeneutici.
1.1. In tema di polizza fideiussoria prodotta ex art. 75 cod. contratti pubblici a corredo dell’offerta presentata da ATI, al fine di verificare se la polizza sia intestata alla mandataria o anche agli altri soggetti facenti parti del raggruppamento concorrente, è necessaria l’interpretazione complessiva della polizza, anche alla luce dei canoni interpretativi di cui all’art. 1362 c.c..
1.2. Legittimamente la stazione appaltante ammette a gara pubblica ATI che, a corredo della propria offerta, abbia allegato ex art. 75 cod. contratti pubblici una polizza fideiussoria riconducibile a tutti i componenti della costituenda ATI, siccome emerga che la garanzia prestata dal fideiussore sia ben riferibile, oltre che alla ditta mandataria, la cui denominazione figura nel riquadro della scheda intestato “contraente (obbligato principale)”, anche alle imprese mandanti (nella specie la polizza recava un distinto riquadro intestato come “descrizione opera”, in cui era specificato che si trattava di un intervento in ATI; inoltre in calce alle pagine della medesima polizza, sotto la dicitura “il contraente”, erano presenti le firme di tutti i soggetti componenti la costituenda ATI).

2. Dichiarazioni sulla c.d. moralità professionale. Direttore tecnico cessato dalla carica. Dichiarazione resa dall'attuale direttore tecnico anche con riguardo al precedente. Sufficienza. Soccorso istruttorio. Necessità.
In tema di dichiarazioni sulla c.d. moralità professionale, legittimamente la Commissione di gara ritiene che la dichiarazione dell’attuale direttore tecnico possa rendere specifiche dichiarazioni, ai sensi dell’art. 47 del DPR 445/2000, circa l’assenza di pregiudizi di cui all’art. 38, co. 1, lett. b) e c), D.Lgs. n. 163/2006 anche a carico del precedente direttore tecnico, cessato dalla carica nell’ultimo triennio, anche perché se pure il seggio di gara avesse diversamente opinato (sulla base di un rigoroso formalismo), stante l’assimilabilità delle due tipologie di dichiarazioni (quelle previste in bando e quelle effettivamente rese) e l’evidente intento dei soggetti dichiaranti di affermare l’inesistenza di cause ostative alla partecipazione, essa avrebbe comunque dovuto attivare l’istituto del soccorso istruttorio e richiedere alla partecipante integrazioni sul punto, e non certo procedere ad una sua immediata esclusione.
3. Lex specialis di gara. Ricorso in sede giurisdizionale. Interesse al ricorso. Salvo clausole impeditive la partecipazione, sorge con l'aggiudicazione.
3.1. In tema di ricorsi in sede giurisdizionale avverso atti di procedura di gara pubblica di appalto, opera la regola generale secondo cui i bandi di gara e le lettere invito vanno, normalmente, impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare l’effettivo soggetto leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato: pertanto, pur in presenza di una clausola illegittima del bando di gara, il partecipante non è ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, non potendo egli stabilire se l’astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo per la sua partecipazione alla procedura, determinandosi così un’effettiva lesione del suo interesse.
3.2. Ogni questione concernente i requisiti soggettivi dei partecipanti, diversa da quella relativa alle clausole impeditive della partecipazione, è suscettibile di essere proposta in sede di impugnazione dell'atto di aggiudicazione.

4. Divieto di subappalto di opere specialistiche di valore superiore al 15% dell'intero importo dell'appalto. Ambito applicativo. Beni ricadenti in zona paesaggisticamente vincolata. Irrilevanza.
4.1. Posto che l’art. 37, comma 11, D.Lgs. n.163/2006 (riproduttivo del precedente art. 13, comma 7, legge n. 109/1994), nel testo vigente anteriormente alla novella di cui all'art. 1, comma 1, lettera h), del D.Lgs. 11.09.2008, n. 152, stabiliva il divieto di subappalto per le opere per le quali sarebbero stati necessari lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica, ove tali lavorazioni avesse superato in valore il 15 % dell'importo totale dell'appalto, deve escludersi che i lavori rientranti nella categoria OG2 rientrino nell’ambito applicativo dell’art. 37, comma 11, D.Lgs. n. 163/2006, dal momento che, alla stregua del DPR 34/2000, risultano incontestatamente riconducibili ad una categoria di opere generali (OG2) e non alle opere speciali (OS).
4.2. La circostanza che l'appalto di lavori riguardi beni ricadenti in zona paesaggisticamente vincolata ex D.Lgs. n. 42/2004 non è sufficiente a ricondurre lavorazioni rientranti nella categoria OG2 tra le opere speciali OS.
Ancorché vi siano più norme che prendono in considerazione i casi in cui i lavori da eseguirsi riguardano immobili vincolati ai sensi del Decr. Leg.vo 42/2004, tuttavia ciò non comporta –non sussistendo i caratteri espressamente previsti dall’art. 37, co. 11, D.Lgs. n. 163/2006– l’automatica applicabilità di tale norma nei descritti frangenti: occorre all’uopo, infatti, previamente verificare che si tratti di lavori di “contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica”.
Quindi, ciò che rileva ai fini dell’applicabilità della norma in commento è la connotazione dell’intervento e non le caratteristiche del bene su cui l’intervento va effettuato; né la particolarità del bene fa sì che l’intervento debba necessariamente qualificarsi come tecnicamente complesso (come desumibile proprio dal fatto che il DPR 34/2000 preveda per i beni immobili sottoposti a tutela culturale e ambientale un’apposita categoria di opere, ma di tipo generale -proprio la OG2- e non speciale): perciò, la detta peculiarità presenta sì rilievo, ma solo ai limitati fini previsti di volta in volta dalle norme che la prendono in considerazione (e tra queste –si ribadisce– non è annoverabile l’art. 37, co. 11, D.Lgs. n. 163/2006).

Invero, in ordine al primo dei motivi articolati, va detto che dalla prodotta copia della polizza fideiussoria presentata in sede di gara a titolo di cauzione provvisoria dalla costituenda ATI avente come capofila la Edilverde di Michele Genovese, emerge che la garanzia prestata nell’occasione dalla Compagnia Italiana Assicurazioni era ben riferibile, oltre che alla ditta mandataria, la cui denominazione figura nel riquadro della scheda intestato “contraente (obbligato principale)”, anche alle due imprese mandanti, poiché nel distinto riquadro intestato come “descrizione opera” appare specificato che si tratta di un intervento “in ATI con Cuzzolino Costruzioni scarl/Consorzio Corona”; nonché perché in calce ad entrambe le pagine dell’atto, sotto la dicitura “il contraente”, sono presenti le firme di tutti e tre i soggetti componenti l’ATI in commento: è pertanto l’interpretazione complessiva della polizza, anche alla luce dei canoni interpretativi di cui all’art. 1362 c.c., che consente di affermare la riconducibilità della prestata garanzia a tutti i componenti della costituenda ATI (cfr. Cons. di Stato Ad. Plen. n. 8 del 04.10.2005; Cons. di Stato sez. V, n. 2169 del 07.04.2011).
Quanto al secondo dei motivi articolati, osserva il Collegio che dalle depositate copie della domanda di partecipazione alla gara del Consorzio Corona e dell’allegato atto scritto contenente dichiarazioni dell’attuale direttore tecnico di questo, arch. Nadia Paragliola (atti entrambi prodotti in sede concorsuale), emerge che oggetto di specifiche dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 47 del DPR 445/2000 è stata l’assenza di pregiudizi di cui all’art. 38, co. 1, lett. b) e c), del Decr. Leg.vo 163/2006 a carico tanto appunto dell’attuale direttore tecnico del Consorzio citato, quanto a carico dell’arch. Rosario Savarese, precedente direttore tecnico, cessato dalla carica nell’ultimo triennio: ebbene, deve dirsi corretto il giudizio della Commissione di gara che ha ritenuto tali dichiarazioni idonee al rispetto delle previsioni del bando in proposito (dichiarazioni da rendere esclusivamente in ordine alle risultanze del certificato del Casellario Giudiziale e a quello dei Carichi Pendenti), anche perché se pure avesse diversamente opinato (sulla base di un rigoroso formalismo), stante l’assimilabilità delle due tipologie di dichiarazioni (quelle previste in bando e quelle effettivamente rese) e l’evidente intento dei soggetti dichiaranti di affermare l’inesistenza di cause ostative alla partecipazione, essa avrebbe comunque dovuto attivare l’istituto del soccorso istruttorio e richiedere alla partecipante integrazioni sul punto, e non certo procedere ad una sua immediata esclusione.
Può, a questo punto, passarsi all’esame delle problematiche involte dal ricorso principale.
In proposito, vanno preliminarmente disattese le eccezioni in rito sollevate dal Comune di Napoli (incentrate su di un’asserita tardività dell’impugnazione del bando e di un’acquiescenza della ricorrente principale rispetto alle previsioni di questo, determinata dalla sua partecipazione alla gara senza alcuna riserva), in quanto deve dirsi che le clausole del bando interessate dal proposto gravame principale non presentavano alcun carattere “escludente” per l’ATI avente come capogruppo/mandataria la Edilverde di Michele Genovese, cosicché, prima del concreto svolgimento delle operazioni che hanno portato all’aggiudicazione alla società controinteressata, esse non presentavano alcuna lesività suscettibile di determinare un onere di immediata impugnazione: conseguentemente, non può che trovare applicazione nella fattispecie la regola generale secondo cui i bandi di gara e le lettere invito vanno, normalmente, impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare l’effettivo soggetto leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato: pertanto, pur in presenza di una clausola illegittima del bando di gara, il partecipante non è ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, non potendo egli stabilire se l’astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo per la sua partecipazione alla procedura, determinandosi così un’effettiva lesione del suo interesse (cfr. Cons. di Stato Ad. Plen. n. 1 del 29.01.2003; Cons. di Stato Sez. V, n. 3203 del 25.06.2014; Cons. di Stato Sez. V, n. 1665 dell’08.04.2014; Cons. di Stato Sez. V, n. 5155 del 24.10.2013).
In giurisprudenza, è stato poi, in particolare, chiarito che ogni questione concernente i requisiti soggettivi dei partecipanti, diversa da quella relativa alle clausole impeditive della partecipazione, è suscettibile di essere proposta in sede di impugnazione dell'atto di aggiudicazione (Cons. di Stato Sez. III, 13.01.2011 n. 2463; TAR Lombardia-Milano n. 1240 del 13.05.2014).
Nel merito, il ricorso principale è infondato e va respinto.
Quanto al primo dei due motivi di ricorso proposti, va rilevato che la Edilverde di Michele Genovese esattamente individua “il fulcro della presente controversia in ordine all’illegittimità dell’impugnato bando di gara… nella ricomprensione dei lavori rientranti nella categoria OG2 nell’ambito applicativo dell’art. 37, comma 11, del Decr. Leg.vo n. 163/2006” (cfr. memoria depositata in data 11.01.2007, pag. 5); tesi che, tuttavia, così come prospettata non può essere condivisa.
Posto, infatti, che l’art. 37, co. 11, Decr. Leg.vo 163/2006 (riproduttivo del precedente art. 13, co. 7, L. 109/1994), di cui parte ricorrente invoca l’applicazione, si riferisce a “opere per le quali sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica, quali strutture, impianti e opere speciali”, osserva il Collegio che i lavori di cui si discute non presentano in realtà alcuna di dette caratteristiche, tant’è che essi, alla stregua del DPR 34/2000, risultano incontestatamente riconducibili ad una categoria di opere generali (OG2) e non alle opere speciali (OS); tra le quali ultime è sì ricompresa una categoria di opere a farsi su immobili oggetto di vincolo culturale, ma aventi un ambito limitato e caratteristiche altamente specifiche, ovvero quelle riguardanti “superfici decorate e beni mobili di interesse artistico” (OS2, che però non figurano tra quelle qui in discussione).
Né ai fini dell’applicazione del comma 11 dell’art. 37 Decr. Leg.vo 163/2006 appaiono decisivi, sul presupposto che trattasi di lavori da eseguire in zona paesaggisticamente vincolata ai sensi del Decr. Leg.vo 42/2004, i diversi indici cui fa riferimento la difesa di parte ricorrente (ovvero l’essere tali opere descritte, nel medesimo DPR 34/2000, come “insieme coordinato di lavorazioni specialistiche necessarie a recuperare, conservare, consolidare, trasformare, ripristinare, ristrutturare, sottoporre a manutenzione gli immobili di interesse storico soggetti a tutela a norma delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali”; la circostanza che il Codice degli Appalti dedichi specificamente il capo II del titolo IV ai “contratti relativi ai beni culturali”; l’aver la sentenza del TAR Campania-Napoli n. 11259 del 26.08.2003, sottolineato la specificità di questo tipo di lavori, consistente “non tanto nella peculiarità tecnica e oggettuale degli interventi, ma nella particolarità del bene oggetto di tali interventi”; il riferimento al disposto di cui all’art. 72, co. 4, lett. a), del DPR 554/1999, secondo il quale “si considerano strutture, impianti e opere speciali, le seguenti opere specializzate se di importo superiore a quelli indicati all’articolo 73, comma 3: a- il restauro, la manutenzione di superfici decorate di beni architettonici, il restauro di beni mobili, di interesse storico, artistico ed archeologico”).
In contrario, per vero, deve dirsi che, se pure vi sono più norme che prendono in considerazione i casi in cui i lavori da eseguirsi riguardano immobili vincolati ai sensi del Decr. Leg.vo 42/2004 (e, peraltro, nel caso di specie si tratta di un vincolo d’insieme e non individuo), tuttavia ciò non comporta –non sussistendo i caratteri espressamente previsti dall’art. 37 co. 11 citato– l’automatica applicabilità di tale norma nei descritti frangenti: occorre all’uopo, infatti, previamente verificare che si tratti di lavori di “contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica”; caratteristiche che però nella specie mancano, come in sostanza riconosce la stessa parte ricorrente allorché punta a sopperire al difetto di tale requisito mediante la valorizzazione dell’intrinseca particolarità del bene oggetto d’intervento.
Quindi, ciò che rileva ai fini dell’applicabilità della norma in commento è la connotazione dell’intervento e non le caratteristiche del bene su cui l’intervento va effettuato; né la particolarità del bene fa sì che l’intervento debba necessariamente qualificarsi come tecnicamente complesso (come desumibile proprio dal fatto che il DPR 34/2000 preveda per i beni immobili sottoposti a tutela culturale e ambientale un’apposita categoria di opere, ma di tipo generale - proprio la OG2 - e non speciale): perciò, la detta peculiarità presenta sì rilievo, ma solo ai limitati fini previsti di volta in volta dalle norme che la prendono in considerazione (e tra queste – si ribadisce – non è annoverabile l’art. 37 co. 11 citato). A quest’ultimo proposito, per di più, non può non notarsi come la sentenza n. 11259 del 26.08.2003 di questo Tribunale, pure richiamata dalla ricorrente, si limiti ad affermare l’ascrivibilità all’appropriata categoria generale OG2 ( e non alla parimenti generale categoria OG1) di opere da eseguirsi su di un bene immobile sottoposto a tutela storico-artistica, e non ad affermare il carattere assolutamente speciale delle stesse.
Neppure, infine, appaiono in contrasto con la descritta ricostruzione le affermazioni giurisprudenziali ricordate dalla ricorrente, secondo cui il divieto di subappalto posto dall’art. 37 Decr. Leg.vo 163/2006 non si applicherebbe solo alle categorie di opere specializzate, bensì anche a quelle generali, purché connotate da un elevato grado di specificità e complessità: va notato, infatti, che tutte le pronunzie richiamate riguardano la sola categoria di opere OG11, rispetto alla quale però la cosa è ben spiegabile proprio perché questa ha ad oggetto la fornitura, il montaggio e la manutenzione di impianti tecnologici, così da consentire la sostanziale valutazione (conformemente alla lettera dell’art. 37, co. 11, Decr. Leg.vo 163/2006) delle modalità degli interventi a farsi, e non delle sole caratteristiche dei beni sui quali operare.
Del resto, l’impostazione qui seguita risulta anche conforme ad un precedente giurisprudenziale richiamato dalla società controinteressata e del tutto in termini, (TAR Marche n. 127 del 04.02.2005) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.09.2014 n. 5122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAllorquando una tettoia sia di notevoli dimensioni ed incida in modo significativo sull’assetto del territorio, pur se connessa ad altro bene (c.d. principale) e di facile rimozione, si sottrae per ciò stesso ad una definizione in termini di pertinenza, il che implica il rilascio del titolo concessorio.
Ed, infatti, con riguardo al concetto di «pertinenza» assoggettata a mera «autorizzazione», detta giurisprudenza ha evidenziato, da un lato, la diversità rispetto all’articolo 817 c.c. che evoca un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, dall’altro, che per potersi avere pertinenza è indispensabile che il manufatto destinato sia di dimensioni ridotte ragion per cui, «soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree diverse rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d’ornamento nei riguardi di essa».
Nel caso, è facile osservare come le dimensioni del manufatto, lungi dal poter essere definite “modeste”, devono invece ritenersi considerevoli in quanto la superficie della tettoia in discussione è pari a mq. 70.

La giurisprudenza si è costantemente orientata nel senso che, allorquando una tettoia sia di notevoli dimensioni ed incida in modo significativo sull’assetto del territorio, pur se connessa ad altro bene (c.d. principale) e di facile rimozione, si sottrae per ciò stesso ad una definizione in termini di pertinenza, il che implica il rilascio del titolo concessorio (Consiglio di Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2196; 19.07.2013. n. 3939).
Ed, infatti, con riguardo al concetto di «pertinenza» assoggettata a mera «autorizzazione», detta giurisprudenza ha evidenziato, da un lato, la diversità rispetto all’articolo 817 c.c. che evoca un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, dall’altro, che per potersi avere pertinenza è indispensabile che il manufatto destinato sia di dimensioni ridotte ragion per cui, «soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree diverse rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d’ornamento nei riguardi di essa».
Nel caso, è facile osservare come le dimensioni del manufatto, lungi dal poter essere definite “modeste”, devono invece ritenersi considerevoli in quanto la superficie della tettoia in discussione è pari a mq. 70, come si evince dal rapporto distinto con il n. 346 del 20.07.2010 (TAR Lazio-Latina, sentenza 30.09.2014 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione, comporta la nascita di una posizione di affidamento nel privato cittadino, in relazione alla quale l’esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all’entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, diverso da quello relativo al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Il ricorrente censura quindi l’ordinanza per difetto di motivazione ed eccesso di potere con riguardo alla mancata indicazione di un interesse pubblico specifico e diverso rispetto a quello del ripristino della legalità violata. Il motivo è fondato.
Dal rapporto n. 346 in data 20.07.2010, della Polizia Municipale del comune di Settefrati emerge, infatti, che «presumibilmente l’opera è stata iniziata e terminata dopo il sisma del 08/05/1984» il che sostiene la circostanza fondante la censura.
Ciò posto, deve allora applicarsi il pacifico orientamento secondo il quale, il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione, comporta la nascita di una posizione di affidamento nel privato cittadino, in relazione alla quale l’esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all’entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, diverso da quello relativo al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (Consiglio di Stato, sez. V, 03.10.2013, n. 4889; sez. V, 24.10.2013, n. 5158) (TAR Lazio-Latina, sentenza 30.09.2014 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANelle gare di appalto, l’aggiudicazione provvisoria è atto endoprocedimentale che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario della gara.
La possibilità che ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del D.Lgs. n. 163 del 2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile e obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell'operato dell'Amministrazione, a prescindere dall'inserimento nel bando di apposita clausola che preveda l'eventualità di non dare luogo alla gara o di revocarla.
Legittimamente la Stazione appaltante provvede alla revoca di procedura di gara senza che occorra una completa istruttoria e un'adeguata motivazione circa l'interesse pubblico, laddove il provvedimento di revoca intervenga anteriormente alla aggiudicazione provvisoria, nonché laddove risulti che nella lex specialis di gara era inserito l'avviso ai partecipanti della facoltà della P.A. di non dar luogo alla gara o revocarla; in siffatta ipotesi infatti non sussiste alcun affidamento in capo ai partecipanti alla gara pubblica di appalto, meritevole di tutela.
---------------
La responsabilità precontrattuale -seppur configurabile in astratto anche in presenza di una revoca legittima degli atti di gara nel caso di affidamento suscitato nell'impresa- non è configurabile anteriormente alla scelta del contraente, nella fase, cioè, in cui gli interessati non abbiano ancora la qualità di futuri contraenti, ma soltanto quella di partecipanti alla gara e vantino esclusivamente una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione, mentre non sussiste una relazione specifica di svolgimento delle trattative.

La censura è infondata e da disattendere.
Occorre, in via prioritaria, chiarire che la revoca della procedura di gara è intervenuta prima dell’aggiudicazione provvisoria della stessa, come si evince chiaramente dalla lettura del provvedimento impugnato laddove si afferma testualmente “di non dover riconoscere alcun indennizzo nei confronti dei ricorrenti, in quanto la revoca interviene in una fase antecedente all’aggiudicazione provvisoria in cui non si sono consolidate le posizioni dei concorrenti stessi e non è maturato alcun vincolo giuridicamente perfezionato”.
Né tale circostanza, ribadita dall’Ente Parco nella memoria difensiva depositata il 29.06.2013, è stata smentita dalla ditta ricorrente.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, nelle gare di appalto, l’aggiudicazione provvisoria è atto endoprocedimentale che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario della gara. La possibilità che ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del D.Lgs. n. 163 del 2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile e obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell'operato dell'Amministrazione, a prescindere dall'inserimento nel bando di apposita clausola che preveda l'eventualità di non dare luogo alla gara o di revocarla (Cfr. Consiglio di Stato Sez. III - sentenza 24.05.2013, n. 2838).
Ne discende che nel caso di specie, in assenza anche della sola aggiudicazione provvisoria, nonché in presenza dell’avviso ai partecipanti nella determinazione n. 646 del 14.12.2012 della facoltà della P.A. di non procedere all’aggiudicazione in caso di perfezionamento dell’intesa con il Comune di San Martino D’Agri per la realizzazione unitaria degli interventi finanziati dal PSR regionale, non sussiste alcun affidamento ingenerato nei partecipanti e, quindi, nella ditta ricorrente e conseguentemente sotto tale profilo appaiono del tutto destituite di fondamento le censure dalla stessa sollevate.
---------------
Né, infine, alla luce della richiamata posizione di mero partecipante alla gara, può dirsi ravvisabile nella fattispecie un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, che, pur configurabile in astratto anche in presenza di una revoca legittima degli atti di gara nel caso di affidamento suscitato nell'impresa (in tal senso la più recente giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, Ad. plen., 05.09.2005, n. 6; Id., sez. V, 30.11.2007, n. 6137; Id., sez. V, 08.10.2008, n. 4947), secondo un consolidato orientamento, dal quale il Collegio non ritiene di discostarsi (Cass. Civ., Sez. I, 18.6.2005, n. 13164; Cons. St., A.P. 05.09.2005, n. 6; Sez. IV, 11.11.2008, n. 5633; da ultimo, Cons. St., V, 08.09.2010, n. 6489), non è configurabile anteriormente alla scelta del contraente, nella fase, cioè, in cui gli interessati non hanno ancora la qualità di futuri contraenti, ma soltanto quella di partecipanti alla gara e vantano esclusivamente una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione, mentre non sussiste una relazione specifica di svolgimento delle trattative (Cass. S.U. 26.05.1997, n. 4673) (TAR Basilicata, sentenza 30.09.2014 n. 707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer la configurazione della qualità di soggetto controinteressato risulta necessaria sia la presenza di un interesse al mantenimento della situazione esistente (cd. elemento sostanziale), sia l’espressa indicazione dei titolari di tale interesse nel provvedimento impugnato (cd. elemento formale).
Più precisamente, nella materia dell’edilizia i proprietari confinanti hanno la legittimazione attiva in relazione all’impugnazione delle autorizzazioni edilizie, rilasciate ai vicini, ma non rivestono la qualità di controinteressati nelle controversie, azionate dai vicini destinatari dei provvedimenti repressivi, anche se sono stati proprio loro a denunciare le irregolarità.

Secondo un prevalente e condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. C.d.S. Sez. IV n. 5776 del 04.12.2013 e n. 4233 del 13.07.2011) per la configurazione della qualità di soggetto controinteressato risulta necessaria sia la presenza di un interesse al mantenimento della situazione esistente (cd. elemento sostanziale), sia l’espressa indicazione dei titolari di tale interesse nel provvedimento impugnato (cd. elemento formale).
Più precisamente, nella materia dell’edilizia i proprietari confinanti hanno la legittimazione attiva in relazione all’impugnazione delle autorizzazioni edilizie, rilasciate ai vicini, ma non rivestono la qualità di controinteressati nelle controversie, azionate dai vicini destinatari dei provvedimenti repressivi, anche se sono stati proprio loro a denunciare le irregolarità (sul punto cfr. per es. C.d.S. Sez. IV n. 3380 del 06.06.2011)
(TAR Basilicata, sentenza 30.09.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine decadenziale ex art. 29 Cod. Proc. Amm. di 60 giorni per l’impugnazione del permesso di costruire, con riferimento alle violazioni diverse dalle distanze tra i fabbricati, decorre dopo che siano avvenute sia la pubblicazione nell’Albo Pretorio dell’apposito avviso, sia l’effettivo inizio dei lavori con l’esposizione nel cantiere del cartello con gli estremi del permesso di costruire rilasciato.
Sul punto va evidenziato che secondo questo Tribunale (cfr. Sentenze nn. 515 e 517 del 04.09.2007, n. 337 del 27.06.2008, n. 65 del 05.03.2009; n. 202 del 15.05.2009 e n. 27 del 20.01.2010), tenuto conto del combinato disposto di cui agli artt. 20, comma 6, penultimo ed ultimo periodo, DPR n. 380/2001 e 41, comma 2, Cod. Proc. Amm. ed eccetto il caso in cui il Comune impedisce l’accesso agli atti, il termine decadenziale ex art. 29 Cod. Proc. Amm. di 60 giorni per l’impugnazione del permesso di costruire, con riferimento alle violazioni diverse dalle distanze tra i fabbricati, decorre dopo che siano avvenute sia la pubblicazione nell’Albo Pretorio dell’apposito avviso, sia l’effettivo inizio dei lavori con l’esposizione nel cantiere del cartello con gli estremi del permesso di costruire rilasciato
(TAR Basilicata, sentenza 30.09.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 4, comma 2, DPR n. 380/2001 la Commissione Edilizia non costituisce più un organo obbligatorio, in quanto i Comuni devono contemplarla in un apposito Regolamento, che ne disciplina la composizione ed il funzionamento, indicando soprattutto “gli interventi sottoposti al preventivo parere di tale organo consultivo”.
Inoltre, la Commissione Edilizia non può più essere composta da politici, ma solo da professionisti e/o esperti del settore, atteso che dopo l’entrata in vigore del principio della separazione tra poteri di indirizzo e controllo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e l’emanazione di tutti gli atti di gestione amministrativa, attribuita esclusivamente ai Dirigenti, sancito prima dalla Leggi n. 142/1990 e n. 127/1997 e poi dall’art. 107 D.Lg.vo n. 267/2000 (cfr. pure art. 4 D.Lg.vo n. 165/2001), sia l’istruttoria, sia l’emanazione del provvedimento conclusivo dei procedimenti edilizi compete solo ai Dirigenti e/o funzionari comunali.
Comunque, tale censura risulta pure irrilevante, sia perché il parere endoprocedimentale della Commissione Edilizia e/o del competente funzionario comunale non è mai di natura vincolante, sia perché la normativa in materia di edilizia è sempre di tipo vincolato e mai di carattere discrezionale.

Sul punto, va rilevato che ai sensi dell’art. 4, comma 2, DPR n. 380/2001 la Commissione Edilizia non costituisce più un organo obbligatorio, in quanto i Comuni devono contemplarla in un apposito Regolamento, che ne disciplina la composizione ed il funzionamento, indicando soprattutto “gli interventi sottoposti al preventivo parere di tale organo consultivo”.
Inoltre, la Commissione Edilizia non può più essere composta da politici, ma solo da professionisti e/o esperti del settore, atteso che dopo l’entrata in vigore del principio della separazione tra poteri di indirizzo e controllo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e l’emanazione di tutti gli atti di gestione amministrativa, attribuita esclusivamente ai Dirigenti, sancito prima dalla Leggi n. 142/1990 e n. 127/1997 e poi dall’art. 107 D.Lg.vo n. 267/2000 (cfr. pure art. 4 D.Lg.vo n. 165/2001), sia l’istruttoria, sia l’emanazione del provvedimento conclusivo dei procedimenti edilizi compete solo ai Dirigenti e/o funzionari comunali.
Comunque, tale censura risulta pure irrilevante, sia perché il parere endoprocedimentale della Commissione Edilizia e/o del competente funzionario comunale non è mai di natura vincolante, sia perché la normativa in materia di edilizia è sempre di tipo vincolato e mai di carattere discrezionale (TAR Basilicata, sentenza 30.09.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione può essere effettuata soltanto nel caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, cioè di un immobile in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre la ricostruzione di un rudere e/o di un immobile diruto costituisce a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, risulta assoggettata ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica.
Sul punto, va rilevato che secondo un condivisibile e prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr. C.d.S. Sez. V n. 3221 dell’11.06.2013; C.d.S. Sez. V n. 1452 dell’08.03.2011; Cd.S. Sez. IV n. 7476 del 13.10.2010; C.d.S. Sez. IV n. 5375 del 15.09.2006; C.d.S. Sez. IV n. 5791 dell’08.07.2004; C.d.S. Sez. V n. 2142 del 15.04.2004; C.d.S. Sez. V n. 475 del 10.02.2004; C.d.S. Sez. V n. 2021 dell’01.12.1999; C.d.S. Sez. V n. 740 del 10.03.1997; C.d.S. Sez. V n. 1261 del 04.11.1994; TAR Salerno Sez. I n. 2244 del 05.12.2012; TAR Catanzaro n. 581 del 13.06.2012; TAR Umbria n. 159 del 27.04.2012; TAR Napoli Sez. III n. 1645 del 05.04.2012; TAR Lecce Sez. III n. 491 del 12.03.2012; TAR Catania Sez. I n. 73 del 13.01.2012; TAR Palermo Sez. III n. 1 del 04.01.2012; TAR Napoli Sez. II n. 1593 del 21.03.2011; TAR Milano Sez. II n. 3968 dell’11.06.2009; TAR Molise n. 98 del 27.03.2009; TAR Veneto Sez. II n. 1667 del 05.06.2008; TAR Trento n. 84 del 15.03.2005; TAR Liguria Sez. I n. 451 del 03.04.2003) la ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione può essere effettuata soltanto nel caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, cioè di un immobile in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre la ricostruzione di un rudere e/o di un immobile diruto costituisce a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, risulta assoggettata ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica (TAR Basilicata, sentenza 30.09.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIComodato revocabile per crisi. L'immobile può essere riassegnato per motivi economici. La Corte di cassazione sull'occupazione della casa coniugale a seguito di separazione.
Comodato revocato causa crisi finanziaria. Motivi seri e urgenti come, ad esempio, la mancanza di liquidità e il crollo dei consumi, possono giustificare la revoca del comodato della casa coniugale assegnata dal giudice della separazione a nuora e nipoti.
Confermando l'orientamento generale sancito dalle Sezioni unite della Suprema corte poco più di dieci anni fa, il Massimo consesso del Palazzaccio, con la sentenza 29.09.2014 n. 20448, Sezz. Unite civili, ha respinto il ricorso del proprietari della casa data in comodato al figlio e alla nuora che, dopo la separazione, ne era divenuta l'assegnataria.
I Supremi giudici hanno dato torto all'anziano che non era riuscito a provare la necessità urgente del rilascio dell'immobile, come una accertata crisi finanziaria.
In particolare, secondo l'orientamento confermato, «in ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la forma e il contenuto del titolo di godimento sull'immobile, ma determina una concentrazione in capo alla persona dell'assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto dal contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c.».
Né una successiva decisione opposta del 2007, rimasta peraltro isolata, né i dubbi sollevati con l'ordinanza di remissione della questione, nuovamente alle Sezioni unite, sono riuscite a far vacillare l'ormai consolidato principio.
Di fatto, però, questa volta il Massimo consesso di Piazza Cavour ha suggerito quali potrebbero essere dei validi motivi per il rilascio dell'immobile: uno, fra tutti, la necessità di vendita e di locazione per mancanza di liquidità. In un passaggio chiave della sentenza, infatti, si legge espressamente che «il bisogno per la revoca del contratto non deve essere grave, ma solo imprevisto», quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente. Urgenza, quest'ultima, da intendersi come imminenza. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né capriccioso o ritorsivo.
«Pertanto», hanno affermato i giudici, «non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare» (articolo ItaliaOggi del 30.09.2014).
---------------
MASSIMA
Il comodante può richiedere la restituzione dell’immobile della “casa familiare” quando c’è un bisogno ex art. 1809 c.c. La portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente.
L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né capriccioso o artificiosamente indotto.
Pertanto. non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare.
È da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario
(massima tratta da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATASul piano urbanistico, la costruzione o il posizionamento di una canna fumaria costituisce un intervento che nella previgente normativa richiedeva un’autorizzazione edilizia (v. art. 7, comma 2-a, del DL 23.01.1982 n. 9) e attualmente è subordinato a DIA semplice (v. art. 4, comma 7-f, del DL 05.10.1993 n. 398; art. 22, commi 1 e 2, del DPR 380/2001).
Questo inquadramento si fonda sull’assimilazione delle canne fumarie ai volumi tecnici e sul collegamento funzionale tra le canne fumarie e gli impianti tecnologici. Ne consegue che l’esecuzione senza titolo di tali opere ricade nella disciplina sulla regolarizzazione di cui all’art. 37 del DPR 380/2001.
Più in dettaglio, sembra applicabile l’ipotesi prevista dal comma 4 dell’art. 37 del DPR 380/2001 (regolarizzazione in presenza di conformità urbanistica), in quanto la nota dirigenziale del 22.01.2010, con la quale sono stati comunicati i motivi ostativi al rilascio del titolo edilizio per il prolungamento della canna fumaria, non menziona impedimenti di natura urbanistica.
---------------
Sul piano paesistico, parimenti, la canna fumaria è sanabile ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, non essendo idonea a formare volume o superficie utile.
---------------
Quanto è sanabile sul piano urbanistico e paesistico potrebbe però non esserlo in relazione alla normativa igienico-sanitaria. Questo è precisamente il problema nel caso in esame, in quanto la collocazione della canna fumaria al di sotto e in prossimità delle finestre degli appartamenti comunali si pone in diretto contrasto con gli art. 3.4.32 e 3.4.43 del titolo III del regolamento locale di igiene.
Il contrasto con una norma igienico-sanitaria può essere risolto in vari modi: con una deroga, con la modifica del manufatto non conforme, o con la rimozione dello stesso.
Esclusa l’ipotesi della deroga, che non è stata chiesta neppure dalla ricorrente, l’amministrazione è tenuta, per il principio di proporzionalità, ad applicare la misura meno afflittiva per il privato, a parità di beneficio per l’interesse pubblico.
La particolarità del caso in esame consiste nel fatto che la misura meno afflittiva, ossia la sopraelevazione della canna fumaria oltre il colmo dell’edificio di proprietà comunale, richiede anche un assenso di natura privatistica da parte del Comune. Quest’ultimo dovrebbe infatti concedere una servitù di appoggio del tubo al muro dell’edificio comunale.
Il rifiuto del Comune di concedere tale servitù non appare condivisibile. L’elemento privatistico si inserisce in realtà in una fattispecie amministrativa, e dunque viene attratto negli schemi pubblicistici applicabili a quest’ultima. Occorre infatti sottolineare che l’utilizzo privatistico dei propri beni da parte del Comune è comunque sottoposto ai principi generali di buona fede e di astensione dai comportamenti emulativi. Questi principi si trasformano in un obbligo rafforzato di collaborazione quando la concessione di un diritto marginale sui beni comunali potrebbe mettere il privato nella condizione di risolvere un problema che arreca danno all’interesse pubblico. A maggior ragione, l’obbligo di collaborazione si manifesta quando il problema che il privato potrebbe risolvere incide negativamente sugli stessi beni comunali.
Il Comune come autorità locale in materia igienico-sanitaria deve quindi imporre la sopraelevazione della canna fumaria che disturba gli appartamenti vicini, e come proprietario dell’edificio a cui può essere appoggiato il tubo è tenuto a permettere tale operazione attraverso la costituzione di un’apposita servitù. In questo quadro il diniego della servitù non è affatto insindacabile, e potrebbe giustificarsi solo in relazione a un prevalente interesse pubblico, che nello specifico non è stato indicato.
La servitù di appoggio non deve essere necessariamente a titolo gratuito, né incondizionata o perenne. Il Comune può infatti esigere un corrispettivo adeguato all’utilità concessa al privato, e allo stesso modo può stabilire prescrizioni o condizioni a tutela del proprio bene e delle future utilizzazioni.

... per l'annullamento:
- dell’ordinanza del responsabile del Settore Edilizia Privata n. 62 del 20.07.2010, con la quale è stata ingiunta la rimozione di una canna fumaria realizzata in assenza di titolo edilizio;
- della nota del responsabile del Settore Edilizia Privata prot. n. 1224 del 22.01.2010, nella quale sono esposti i motivi ostativi al rilascio del titolo edilizio per il prolungamento in altezza della canna fumaria;
...
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) un titolo edilizio che autorizzi la canna fumaria esistente non è stato rintracciato. Occorre quindi esaminare la vicenda contenziosa sul presupposto della mancanza di un titolo specifico;
(b) sul piano urbanistico, la costruzione o il posizionamento di una canna fumaria costituisce un intervento che nella previgente normativa richiedeva un’autorizzazione edilizia (v. art. 7, comma 2-a, del DL 23.01.1982 n. 9) e attualmente è subordinato a DIA semplice (v. art. 4, comma 7-f, del DL 05.10.1993 n. 398; art. 22, commi 1 e 2, del DPR 380/2001). Questo inquadramento si fonda sull’assimilazione delle canne fumarie ai volumi tecnici e sul collegamento funzionale tra le canne fumarie e gli impianti tecnologici (v. TAR Bari Sez. III 30.10.2012 n. 1859). Ne consegue che l’esecuzione senza titolo di tali opere ricade nella disciplina sulla regolarizzazione di cui all’art. 37 del DPR 380/2001 (v. TAR Brescia Sez. II 16.01.2013 n. 37);
(c) più in dettaglio, sembra applicabile l’ipotesi prevista dal comma 4 dell’art. 37 del DPR 380/2001 (regolarizzazione in presenza di conformità urbanistica), in quanto la nota dirigenziale del 22.01.2010, con la quale sono stati comunicati i motivi ostativi al rilascio del titolo edilizio per il prolungamento della canna fumaria, non menziona impedimenti di natura urbanistica;
(d) è vero che tale nota deve ancora essere seguita da un formale provvedimento di diniego, il quale almeno in astratto potrebbe anche argomentare sulla mancanza di conformità urbanistica. Tuttavia, considerato il tempo trascorso, si può ritenere che la posizione del Comune abbia ormai assunto un contenuto definitivo;
(e) sul piano paesistico, parimenti, la canna fumaria è sanabile ai sensi dell’art. 167, comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, non essendo idonea a formare volume o superficie utile. Del resto, circa il prolungamento della canna fumaria il Comune si è già espresso favorevolmente con l’autorizzazione paesistica dell’11.05.2009, e dunque non sembrano esservi ostacoli neppure alla regolarizzazione del manufatto esistente, che ha dimensioni più contenute;
(f) quanto è sanabile sul piano urbanistico e paesistico potrebbe però non esserlo in relazione alla normativa igienico-sanitaria. Questo è precisamente il problema nel caso in esame, in quanto la collocazione della canna fumaria al di sotto e in prossimità delle finestre degli appartamenti comunali si pone in diretto contrasto con gli art. 3.4.32 e 3.4.43 del titolo III del regolamento locale di igiene;
(g) il contrasto con una norma igienico-sanitaria può essere risolto in vari modi: con una deroga, con la modifica del manufatto non conforme, o con la rimozione dello stesso;
(h) esclusa l’ipotesi della deroga, che non è stata chiesta neppure dalla ricorrente, l’amministrazione è tenuta, per il principio di proporzionalità, ad applicare la misura meno afflittiva per il privato, a parità di beneficio per l’interesse pubblico;
(i) la particolarità del caso in esame consiste nel fatto che la misura meno afflittiva, ossia la sopraelevazione della canna fumaria oltre il colmo dell’edificio di proprietà comunale, richiede anche un assenso di natura privatistica da parte del Comune. Quest’ultimo dovrebbe infatti concedere una servitù di appoggio del tubo al muro dell’edificio comunale;
(j) il rifiuto del Comune di concedere tale servitù non appare condivisibile. L’elemento privatistico si inserisce in realtà in una fattispecie amministrativa, e dunque viene attratto negli schemi pubblicistici applicabili a quest’ultima. Occorre infatti sottolineare che l’utilizzo privatistico dei propri beni da parte del Comune è comunque sottoposto ai principi generali di buona fede e di astensione dai comportamenti emulativi. Questi principi si trasformano in un obbligo rafforzato di collaborazione quando la concessione di un diritto marginale sui beni comunali potrebbe mettere il privato nella condizione di risolvere un problema che arreca danno all’interesse pubblico. A maggior ragione, l’obbligo di collaborazione si manifesta quando il problema che il privato potrebbe risolvere incide negativamente sugli stessi beni comunali;
(k) il Comune come autorità locale in materia igienico-sanitaria deve quindi imporre la sopraelevazione della canna fumaria che disturba gli appartamenti vicini, e come proprietario dell’edificio a cui può essere appoggiato il tubo è tenuto a permettere tale operazione attraverso la costituzione di un’apposita servitù. In questo quadro il diniego della servitù non è affatto insindacabile, e potrebbe giustificarsi solo in relazione a un prevalente interesse pubblico, che nello specifico non è stato indicato;
(l) la servitù di appoggio non deve essere necessariamente a titolo gratuito, né incondizionata o perenne. Il Comune può infatti esigere un corrispettivo adeguato all’utilità concessa al privato, e allo stesso modo può stabilire prescrizioni o condizioni a tutela del proprio bene e delle future utilizzazioni.
12. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati. L’effetto conformativo della presente pronuncia impone al Comune di concedere la servitù di appoggio, come sopra specificato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.09.2014 n. 999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA(a) i divieti di edificazione e movimento terra previsti dall’art. 96, comma 1-f, del RD 523/1904 a tutela del vincolo idraulico (integrati a livello locale dalla disciplina regionale di cui alla DGR n. 7/7868 del 25.01.2002, e successive modifiche, sulla polizia idraulica di competenza comunale) devono essere intesi non tanto come strumenti di protezione dello stato attuale dei luoghi, ma come misure dirette a impedire l’alterazione del regolare deflusso delle acque;
(b) per alcuni interventi edilizi le due situazioni tendono a coincidere (ad esempio, una nuova costruzione altera lo stato dei luoghi e pone con la sua sola presenza un ostacolo al regolare deflusso delle acque, talvolta un ostacolo attuale, talvolta un ostacolo connesso al verificarsi di particolari eventi meteorologici). Per altre opere è invece più agevole tenere distinto l’aspetto della modifica dello stato dei luoghi da quello del regolare deflusso delle acque;
(c) la necessità di questa distinzione si manifesta specificamente nei movimenti terra finalizzati a riparare o modificare le infrastrutture presenti. La sistemazione o l’ampliamento di una strada possono in effetti comportare la modifica dell’alveo di un torrente, ma questo non significa che tali interventi siano automaticamente in contrasto con il vincolo idraulico. In realtà, il compito dei comuni nell’esercizio delle funzioni di polizia idraulica è proprio quello di individuare le condizioni tecniche idonee a garantire il potenziamento delle infrastrutture e allo stesso tempo il mantenimento (e se possibile il miglioramento) del regolare deflusso delle acque;

... per l'annullamento dell’ordinanza del dirigente del Servizio Tecnico n. 1 del 04.01.2007, con la quale è stato annullato il permesso di costruire rilasciato il 06.05.2005 ed è stata ingiunta la demolizione di alcune opere abusive realizzate nei pressi di via Odas;
...
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) i divieti di edificazione e movimento terra previsti dall’art. 96, comma 1-f, del RD 523/1904 a tutela del vincolo idraulico (integrati a livello locale dalla disciplina regionale di cui alla DGR n. 7/7868 del 25.01.2002, e successive modifiche, sulla polizia idraulica di competenza comunale) devono essere intesi non tanto come strumenti di protezione dello stato attuale dei luoghi, ma come misure dirette a impedire l’alterazione del regolare deflusso delle acque;
(b) per alcuni interventi edilizi le due situazioni tendono a coincidere (ad esempio, una nuova costruzione altera lo stato dei luoghi e pone con la sua sola presenza un ostacolo al regolare deflusso delle acque, talvolta un ostacolo attuale, talvolta un ostacolo connesso al verificarsi di particolari eventi meteorologici). Per altre opere è invece più agevole tenere distinto l’aspetto della modifica dello stato dei luoghi da quello del regolare deflusso delle acque;
(c) la necessità di questa distinzione si manifesta specificamente nei movimenti terra finalizzati a riparare o modificare le infrastrutture presenti. La sistemazione o l’ampliamento di una strada possono in effetti comportare la modifica dell’alveo di un torrente, ma questo non significa che tali interventi siano automaticamente in contrasto con il vincolo idraulico. In realtà, il compito dei comuni nell’esercizio delle funzioni di polizia idraulica è proprio quello di individuare le condizioni tecniche idonee a garantire il potenziamento delle infrastrutture e allo stesso tempo il mantenimento (e se possibile il miglioramento) del regolare deflusso delle acque;
(d) nello specifico, la circostanza che l’amministrazione abbia rilasciato l’originario permesso di costruire in data 06.05.2005 dimostra l’esistenza di un interesse pubblico alla sistemazione dell’alveo del torrente e alla messa in sicurezza della strada demaniale, che risulta esposta alle esondazioni. Questo interesse è compatibile con quello dei privati a migliorare il transito sulla medesima strada, ampliandone il sedime e prolungandone il tracciato verso le loro proprietà. Al vantaggio per la sicurezza della viabilità si aggiunge l’assenza di oneri per l’amministrazione;
(e) naturalmente, non devono essere causati danni alla proprietà di terzi, né la stessa deve essere invasa senza uno specifico atto di assenso, ma su questo punto i ricorrenti avevano già provveduto a formulare alcune correzioni con la richiesta di variante. Una volta ricevuta l’istanza, era compito degli uffici comunali verificare l’adeguatezza del nuovo progetto e imporre eventuali modifiche tramite prescrizioni tecniche. Un’eventuale ordinanza di demolizione avrebbe potuto riguardare solo i lavori già eseguiti non approvati in sede di variante;
(f) in definitiva, la presenza del vincolo idraulico non impedisce la realizzazione di un intervento come quello proposto dai ricorrenti, a condizione che il Comune (anche avvalendosi delle competenti strutture tecniche regionali e provinciali) stabilisca esattamente le prescrizioni tecniche in grado di preservare, e possibilmente migliorare, il regolare deflusso delle acque;
(g) non sussiste alcun impedimento neppure sotto il profilo urbanistico, in quanto la classificazione della strada in zona agricola non determina l’immodificabilità della stessa. In realtà, il divieto di interventi edilizi desumibile dagli art. 43 e 46 delle NTA deve essere riferito alle nuove opere, ossia agli interventi che alterano per la prima volta lo stato dei luoghi. Gli interventi di sistemazione e ampliamento di infrastrutture esistenti, anche se non espressamente menzionati nella disciplina urbanistica, sono invece da considerare pienamente ammissibili quando siano collegati a un preciso interesse pubblico, che nel caso in esame è ravvisabile nella messa in sicurezza della viabilità comunale.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati. L’effetto conformativo derivante dalla presente pronuncia comporta l’obbligo per il Comune di esaminare la richiesta di variante al permesso di costruire originario, fermo restando il potere di imporre modifiche al progetto per salvaguardare e migliorare il regolare deflusso delle acque, e comunque per minimizzare l’impatto ambientale dell’intervento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 29.09.2014 n. 998 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI L’incameramento della cauzione provvisoria, se l'aggiudicatario non stipula il contratto, ex art. 30 della l. 109/1994 (di contenuto analogo al vigente art. 75 del d.lgs. 163/2006), garantisce l'obbligo di serietà dell'offerta e, sempre “nella ratio della disposizione, l'incameramento della cauzione non esclude, però, la possibilità del committente di richiedere il maggior danno per la lesione patrimoniale derivatagli dal comportamento dell'aggiudicatario… Nella scia dell'art. 332 della legge sui lavori pubblici, l'art. 30 della legge n. 109/1994 configura la garanzia fideiussoria come una vera e propria caparra confirmatoria e non già come semplice clausola penale o pegno irregolare”.
Invero, diversamente da tali istituti, “ove il danno sopportato dal creditore è risarcito con l'assegnazione, sino a concorrenza, del pegno ad opera del giudice ovvero con la promessa di una prestazione di una somma di danaro o cose fungibili (art. 1382 c.c.), la caparra confirmatoria consente all'amministrazione non solo di rivalersi immediatamente sulle somme oggetto di cauzione che vengono incamerate, sebbene di richiedere che le venga anche risarcito il maggior danno da inadempimento”.
Tale interpretazione è stata espressamente condivisa da successive decisioni dello stesso giudice, fino alla più recente, per cui la cauzione provvisoria “oltre a svolgere la funzione di garantire la serietà dell'offerta, sicché ove l'aggiudicatario non stipuli il contratto decade dall'aggiudicazione e la stessa [cauzione] viene incamerata dall'appaltante, si configura come caparra confirmatoria, e non come clausola penale o come pegno irregolare; conseguentemente (…) al contraente beneficiario è consentito, non solo di incamerare immediatamente le somme oggetto della cauzione, ma anche di richiedere il risarcimento del maggior danno da inadempimento”.
---------------
Come noto, l’art. 2932 c.c. stabilisce che, se colui il quale è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso.
Ordinariamente, la norma si applica per conseguire il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, ma il rimedio “deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione a un negozio unilaterale, sia in relazione a un atto o fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege”.
A sua volta, come si è già accennato, l’art. 1385, II comma, c.c., nel disciplinare l’istituto della caparra confirmatoria, dispone che, se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l'esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.
Ora, il rimedio di cui all’art. 2932 c.c. è finalizzato a dare esecuzione a un contratto –ovvero ad un negozio equivalente- ed è dunque alternativo alla scelta della ritenzione della caparra confirmatoria, che appunto esclude l’esecuzione.
A sua volta, come si è visto, secondo l’interpretazione prevalente, la cauzione provvisoria è una caparra confirmatoria: ma, diversamente da quella comune, essa per legge –segnatamente l’art. 75, VI comma, d.lgs. 163/2006- deve, e non può, essere incamerata dall’Amministrazione, nel caso in cui l’aggiudicatario non voglia più sottoscrivere il contratto.
 Non sembra esservi dunque, per i contratti pubblici, se è prescritta la cauzione provvisoria, la possibilità di preferire l’esecuzione, e così, di avvalersi del rimedio di cui all’art. 2932 c.c..
La regola è invece quella dell’incameramento della cauzione, seguito, di norma, dalla stipulazione del contratto con il concorrente seguente in graduatoria, se esistente, fatta salva la richiesta dei danni ulteriori: d’altronde, l’azione ex art. 2932 c.c. per la sua inevitabile durata, è tendenzialmente incompatibile con le esigenze di efficienza e di efficacia dell’attività amministrativa.

4.3.3. Tale soluzione è stata tuttavia contrastata dal Consiglio di Stato, anzitutto con la decisione 29.03.2001, n. 1840, della IV Sezione.
Dopo aver rilevato che l’incameramento della cauzione provvisoria, se l'aggiudicatario non stipula il contratto, ex art. 30 della l. 109/1994 (di contenuto analogo al vigente art. 75 del d.lgs. 163/2006), garantisce l'obbligo di serietà dell'offerta, la sentenza aggiunge che, sempre “nella ratio della disposizione, l'incameramento della cauzione non esclude, però, la possibilità del committente di richiedere il maggior danno per la lesione patrimoniale derivatagli dal comportamento dell'aggiudicatario… Nella scia dell'art. 332 della legge sui lavori pubblici, l'art. 30 della legge n. 109/1994 configura la garanzia fideiussoria come una vera e propria caparra confirmatoria e non già come semplice clausola penale o pegno irregolare”.
Invero, prosegue la motivazione, diversamente da tali istituti, “ove il danno sopportato dal creditore è risarcito con l'assegnazione, sino a concorrenza, del pegno ad opera del giudice ovvero con la promessa di una prestazione di una somma di danaro o cose fungibili (art. 1382 c.c.), la caparra confirmatoria consente all'amministrazione non solo di rivalersi immediatamente sulle somme oggetto di cauzione che vengono incamerate, sebbene di richiedere che le venga anche risarcito il maggior danno da inadempimento”.
4.3.4. Tale interpretazione è stata espressamente condivisa da successive decisioni dello stesso giudice (C.d.S., V, 01.10.2003, n. 5676; C.d.S., VI, 03.03.2004 n. 1058: ma contra, nel senso della riconducibilità alla clausola penale, C.d.S., V, 11 dicembre 2007, n. 6362), fino alla più recente, per cui la cauzione provvisoria “oltre a svolgere la funzione di garantire la serietà dell'offerta, sicché ove l'aggiudicatario non stipuli il contratto decade dall'aggiudicazione e la stessa [cauzione] viene incamerata dall'appaltante, si configura come caparra confirmatoria, e non come clausola penale o come pegno irregolare; conseguentemente (…) al contraente beneficiario è consentito, non solo di incamerare immediatamente le somme oggetto della cauzione, ma anche di richiedere il risarcimento del maggior danno da inadempimento” (C.d.S., V 15.04.2013, n. 2061; esattamente negli stessi termini si è anche pronunciata Cass. s.u., 04.02.2009, n. 2634; sulla funzione della cauzione provvisoria, v. anche C.d.S., a.p. 04.10.2005, n. 8).
5.1. Il Collegio non ritiene di potersi discostare da tale conclusione, che porta linearmente, come si vedrà, ad escludere la compatibilità dell’esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, ex art. 2932 c.c. con l’istituto della cauzione provvisoria, quale caparra confirmatoria, sia pure sui generis poiché non esclude il risarcimento del danno ulteriore, rispetto alla somma versata come cauzione, in contrasto con il combinato disposto dell’art. 1385, II e III comma, c.c., che sembra –v. ultra– considerarli come alternativi.
5.2.1. Invero, come noto, l’art. 2932 c.c. stabilisce che, se colui il quale è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso.
5.2.2. Ordinariamente, la norma si applica per conseguire il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, ma il rimedio “deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione a un negozio unilaterale, sia in relazione a un atto o fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege” (Cass. 30.03.2012, n. 5160; e, nello stesso senso, 08.08.1987, n. 6792).
5.2.3. A sua volta, come si è già accennato, l’art. 1385, II comma, c.c., nel disciplinare l’istituto della caparra confirmatoria, dispone che, se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l'esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.
5.2.4. Ora, il rimedio di cui all’art. 2932 c.c. è finalizzato a dare esecuzione a un contratto –ovvero ad un negozio equivalente- ed è dunque alternativo alla scelta della ritenzione della caparra confirmatoria, che appunto esclude l’esecuzione.
5.2.5. A sua volta, come si è visto, secondo l’interpretazione prevalente, la cauzione provvisoria (quale parte integrante dell’offerta, ex C.d.S., V, 12.09.2012, n. 4841) è una caparra confirmatoria: ma, diversamente da quella comune, essa per legge –segnatamente l’art. 75, VI comma, d.lgs. 163/2006- deve, e non può, essere incamerata dall’Amministrazione, nel caso in cui l’aggiudicatario non voglia più sottoscrivere il contratto.
5.2.6. Non sembra esservi dunque, per i contratti pubblici, se è prescritta la cauzione provvisoria, la possibilità di preferire l’esecuzione, e così, di avvalersi del rimedio di cui all’art. 2932 c.c..
La regola è invece quella dell’incameramento della cauzione, seguito, di norma, dalla stipulazione del contratto con il concorrente seguente in graduatoria, se esistente, fatta salva la richiesta dei danni ulteriori: d’altronde, l’azione ex art. 2932 c.c. per la sua inevitabile durata, è tendenzialmente incompatibile con le esigenze di efficienza e di efficacia dell’attività amministrativa.
5.3. In ogni caso, ove pure non si volesse riconoscere la generale incompatibilità, secondo l’ordinamento positivo, tra la cauzione provvisoria e l’esecuzione coattiva, non c’è dubbio che, nel caso in esame, il rimedio ex art. 2932 c.c. è comunque precluso, poiché il Comune di Commezzadura ha proceduto –in corretta applicazione del bando di gara- all’incameramento della cauzione, rinunciando all’esecuzione e, pertanto, allo strumento processuale che ora indebitamente invoca
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 29.09.2014 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn materia di contratti pubblici, la giurisprudenza –sia pure per l’ipotesi, decisamente più comune, che la richiesta risarcitoria provenga dal privato e non dalla stazione appaltante– ha chiarito che anche dopo l’aggiudicazione, se questa sia successivamente revocata prima della stipulazione del contratto, la responsabilità è di natura precontrattuale: così, sussiste tale responsabilità della stazione appaltante se questa, dopo aver bandito e aggiudicato una gara, decida di non concludere il contratto (e di revocare quindi gli atti di gara) a causa di una sopravvenuta carenza di risorse finanziarie, imputabile a una scelta consapevolmente e volontariamente effettuata, “compiuta in un momento in cui già vi era un provvedimento di aggiudicazione e, quindi, era configurabile in capo all'aggiudicatario un tale affidamento meritevole di tutela e di prudente considerazione”.
Ne consegue che dove al contratto non si è giunti, si può astrattamente prendere in considerazione soltanto una responsabilità precontrattuale della Gentilini, ex art. 1337 c.c. (“Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”).
Ora, come già accennato, nelle ipotesi di culpa in contrahendo, il danno risarcibile non comprende ciò che la parte avrebbe ricavato dalla stipulazione del contratto, ma è costituito unicamente dalle perdite che sono derivate dall'aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perdute; l’interesse negativo, è, invero quello “a non essere coinvolto in trattative inutili, a non investire inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a trattative (o, nello specifico, a gare d'appalto) destinate poi a rivelarsi del tutto inutili a causa del recesso scorretto della controparte”.
Per quanto concerne la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante, vi sono così inclusi:
   a) il rimborso delle spese inutilmente sopportate in vista della conclusione del contratto (cosiddetto "danno emergente");
   b) la perdita di ulteriori occasioni di stipula di contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi (cosiddetta perdita di "chances") - per queste ultime ricercando la prova attraverso il processo deduttivo elaborato dalla Cassazione del "più probabile che non";
   c) il danno curricolare, liquidato in via equitativa, ove sia già sicura l'individuazione del contraente, per essere intervenuta la revoca dopo l'aggiudicazione: non è invece risarcibile “il mancato utile relativo alla specifica gara d'appalto revocata, invece da considerare in caso di revoca illegittima”, ciò che costituisce invece l’oggetto principale della domanda dell’Ente qui ricorrente.
In particolare, sempre per il caso che sia la stazione appaltante a recedere, “all'impresa aggiudicataria deve essere risarcita la perdita della cd. chance contrattuale alternativa, consistente nella rinuncia, a seguito dell'aggiudicazione dell'appalto, ad altre proposte contrattuali provenienti da altre possibili committenti”, danno per cui è sufficiente “che si dimostri che vi era una reale e concreta possibilità di concludere un diverso e fruttuoso contratto e che questo non è stato concluso proprio per effetto dell'affidamento concretamente e seriamente ingenerato dall'aggiudicazione poi indebitamente ritirata dalla stazione appaltante”; e, se i possibili contratti alternativi sono molteplici, andrà preso in considerazione soltanto “un contratto di importo assimilabile, per importanza, a quello oggetto della gara revocata”.

6.3.1. In materia di contratti pubblici, la giurisprudenza –sia pure per l’ipotesi, decisamente più comune, che la richiesta risarcitoria provenga dal privato e non dalla stazione appaltante– ha chiarito che anche dopo l’aggiudicazione, se questa sia successivamente revocata prima della stipulazione del contratto, la responsabilità è di natura precontrattuale: così, sussiste tale responsabilità della stazione appaltante se questa, dopo aver bandito e aggiudicato una gara, decida di non concludere il contratto (e di revocare quindi gli atti di gara) a causa di una sopravvenuta carenza di risorse finanziarie, imputabile a una scelta consapevolmente e volontariamente effettuata, “compiuta in un momento in cui già vi era un provvedimento di aggiudicazione e, quindi, era configurabile in capo all'aggiudicatario un tale affidamento meritevole di tutela e di prudente considerazione” (C.d.S., VI, 01.02.2013, n. 633).
6.3.2. Ne consegue che, nella fattispecie, dove al contratto non si è giunti, si può astrattamente prendere in considerazione –come rilevato peraltro dalla parte resistente nelle sue difese– soltanto una responsabilità precontrattuale della Gentilini, ex art. 1337 c.c. (“Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”).
6.4.1. Ora, come già accennato, nelle ipotesi di culpa in contrahendo, il danno risarcibile non comprende ciò che la parte avrebbe ricavato dalla stipulazione del contratto, ma è costituito unicamente dalle perdite che sono derivate dall'aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perdute (ex multis, Cass. 10.06.2005, n. 12313); l’interesse negativo, è, invero quello “a non essere coinvolto in trattative inutili, a non investire inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a trattative (o, nello specifico, a gare d'appalto) destinate poi a rivelarsi del tutto inutili a causa del recesso scorretto della controparte” ( C.d.S., VI 01.02.2013, n. 633).
6.4.2. Per quanto concerne la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante, vi sono così inclusi “a) il rimborso delle spese inutilmente sopportate in vista della conclusione del contratto (cosiddetto "danno emergente"); b) la perdita di ulteriori occasioni di stipula di contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi (cosiddetta perdita di "chances") - per queste ultime ricercando la prova attraverso il processo deduttivo elaborato dalla Cassazione del "più probabile che non"; c) il danno curricolare, liquidato in via equitativa, ove sia già sicura l'individuazione del contraente, per essere intervenuta la revoca dopo l'aggiudicazione” (C.d.S., IV, 07.02.2012, n. 662; in termini, id. III, 19.01.2012, n. 253): non è invece risarcibile “il mancato utile relativo alla specifica gara d'appalto revocata, invece da considerare in caso di revoca illegittima” (C.d.S., VI, 05.09.2011, n. 5002), ciò che costituisce invece l’oggetto principale della domanda dell’Ente qui ricorrente.
6.4.3. In particolare, sempre per il caso che sia la stazione appaltante a recedere, “all'impresa aggiudicataria deve essere risarcita la perdita della cd. chance contrattuale alternativa, consistente nella rinuncia, a seguito dell'aggiudicazione dell'appalto, ad altre proposte contrattuali provenienti da altre possibili committenti”, danno per cui è sufficiente “che si dimostri che vi era una reale e concreta possibilità di concludere un diverso e fruttuoso contratto e che questo non è stato concluso proprio per effetto dell'affidamento concretamente e seriamente ingenerato dall'aggiudicazione poi indebitamente ritirata dalla stazione appaltante”; e, se i possibili contratti alternativi sono molteplici, andrà preso in considerazione soltanto “un contratto di importo assimilabile, per importanza, a quello oggetto della gara revocata” (C.d.S., VI, n. 633/2013 cit.)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 29.09.2014 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIChi ha debiti col fisco può conservare l'appalto. Il Consiglio di stato sulle irregolarità dei vincitori di gara.
Anche chi ha debiti col fisco può non perdere l'appalto che ha vinto. A patto che l'irregolarità tributaria che la stazione appaltante ha rilevato sia di un importo tale da non mettere a rischio la solvibilità di chi contratta con la pubblica amministrazione. E ciò anche prima che il decreto sviluppo introducesse il requisito della «gravità» dell'esposizione del privato verso l'erario per far scattare la revoca dell'aggiudicazione di un servizio pubblico: il principio comunitario della proporzionalità e lo stesso trattato di funzionamento dell'Unione europea escludono interpretazioni troppo formalistiche del codice degli appalti.
Risultato: per una pendenza di 30 mila euro con le entrate la banca non può perdere la gestione dei servizi di cassa dell'Asl.

È quanto emerge dalla sentenza 26.09.2014 n. 4854, pubblicata dalla III Sez. del Consiglio di Stato.
Situazione complessiva. Accolto il ricorso dell'istituto di credito che si è visto estromettere dal contratto pubblico in favore di un concorrente in base all'acquisizione dei debiti esistenti presso l'Agenzia delle entrate: la stazione appaltante l'ha compiuta con riferimento alla scadenza del termine per la partecipazione alla gara.
In base all'articolo 45, comma 2, lett. f), della direttiva CE 2004/18 il requisito dell'affidabilità e della solidità finanziaria di chi lavora per la pubblica amministrazione deve tuttavia essere valutato nel concreto: bisogna dunque tenere conto della complessiva dimensione societaria di chi partecipa alla procedura a evidenza pubblica così come non si può ignorare l'eventuale ravvedimento operoso intervenuto nelle more.
Insomma: chi ha pendenze con il fisco ma appare in grado di pagarle senza problemi può ben conservare l'appalto ancora prima dell'avvento del decreto legge 70/2011, che ha imposto di escludere gli aggiudicatari soltanto in casi di gravi violazioni e di cospicui importi dei debiti con il fisco.
Nella specie l'istituto di credito ha dimensioni notevoli, mentre l'esposizione verso l'erario risulta ora modesta grazie al pagamento avvenuto nel corso del procedimento di verifica del requisito: l'esclusione dalla procedura può invece scattare soltanto di fronte a un effettivo inadempimento tributario in atto che abbia una certa consistenza in relazione alla complessiva situazione patrimoniale dell'aggiudicatario.
In seguito è intervenuto il decreto sviluppo che ha sì puntato ad ampliare la platea dei soggetti ammessi alle procedure di gara ma senza perdere di vista la necessaria tutela del contraente pubblico, che ha interesse a evitare di mettersi in affari con soggetti gravati da debiti tributari che incidono in modo significativo sulla loro solidità finanziaria. Spese di lite compensate (articolo ItaliaOggi del 03.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Sulla causa di esclusione ex art. 38, c. 1, lett. g), del D.lgs. 163/2006.
Solo i debiti tributari che mettano seriamente in dubbio la complessiva affidabilità patrimoniale e professionale del concorrente, e quindi che compromettano seriamente la prospettiva di una puntuale esecuzione dell'appalto, sono idonee ad integrare la causa di esclusione ex art. 38, c. 1, lett. g), del D.lgs 163/2006 (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.09.2014 n. 4854 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Esclusione dalle gare: l’irregolarità fiscale deve essere grave.
Negli appalti pubblici l’esclusione di una ditta concorrente per irregolarità fiscale è legittima solo in presenza del requisito della gravità della violazione; la garanzia di solvibilità e solidità finanziaria della ditta concorrente con la contestuale “sistemazione” dell’irregolarità tramite l’istituto del ravvedimento operoso, rappresenta un sufficiente motivo per non procedere alla esclusione dell’impresa.
L’interpretazione dell’art. 38, comma 1, lett. g) del codice degli appalti fatta propria dal primo giudice appare all’appellante avulsa dalle disposizioni e principi comunitari invocati.
Osserva il Collegio che l’art. 38, comma 1, lett. g), del D.lgs 163/2006 citato, nel testo vigente all’epoca di pubblicazione del bando e di svolgimento della gara di cui trattasi, prevedeva che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi i soggetti “che hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”.
La ratio della norma risponde all'esigenza di garantire l'amministrazione pubblica in ordine alla solvibilità e alla solidità finanziaria del soggetto con il quale essa contrae (C.d.S. A.P. 20.08.2013, n. 20).
Secondo l’interpretazione dell’A.P., inoltre ( riferita al nuovo testo della norma, che ha introdotto l’ulteriore elemento della “gravità” della irregolarità fiscale) l'attribuzione di un effetto rigidamente preclusivo all'inadempimento fiscale legislativamente qualificato risponde all'esigenza di contemperare la tendenza dell'ordinamento ad ampliare la platea dei soggetti ammessi alle procedure di gara, alla stregua del canone del favor partecipationis, con la necessaria tutela dell' interesse del contraente pubblico ad evitare la stipulazione con soggetti gravati da debiti tributari “che incidono in modo significativo sull'affidabilità e sulla solidità finanziaria degli stessi” (C.d.S., A.P., 05.06.2013, n. 15).
La sentenza richiamata evidenzia, in altri termini, sebbene nell’esegesi del nuovo testo della lett. g) dell’art. 38 cit. e in una prospettiva più sostanzialistica fatta propria da ultimo dal legislatore, come solo i debiti tributari che mettano seriamente in dubbio la complessiva affidabilità patrimoniale e professionale del concorrente, e quindi che compromettano seriamente la prospettiva di una puntuale esecuzione dell’appalto, siano idonee ad integrare la causa di esclusione.
Ritiene il Collegio che l’interpretazione più conforme alla ratio della norma, anche nel testo vigente nel 2009, tenuto conto della evoluzione legislativa successiva, e letta alla luce della norma europea che ne costituisce la fonte (l’art. 45, comma 2, lett. f), direttiva CE 2004/18), sia quella che tenga conto concretamente della sussistenza del requisito dell’affidabilità e solidità finanziaria del concorrente e attribuisca rilievo, pertanto, ancora prima della modifica legislativa di cui al D.L. 70/2011, che ha introdotto il detto requisito della “gravità” della violazione, sia all’importo del debito tributario, che non deve essere irrisorio in relazione alla complessiva dimensione societaria del concorrente, sia all’intervenuto ravvedimento operoso
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.09.2014 n. 4854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulle caratteristiche che debbono avere i provvedimenti interdittivi come base per giustificare la loro adozione da parte dell'autorità prefettizia competente, in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa.
L'informativa antimafia prescinde dall'accertamento della rilevanza penale dei fatti, e neppure occorre che il pericolo di condizionamento delle scelte dell'impresa sia concretamente provato, in quanto la finalità perseguita si concretizza nella massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto alla quale assumono rilievo fatti e vicende solo "sintomatici ed indiziari".
Sebbene il pericolo dell'infiltrazione mafiosa non deve essere immaginario, ma fondato su elementi presuntivi e indiziari concretamente individuati, la relativa valutazione è rimessa alla lata discrezionalità del Prefetto, sindacabile in sede di legittimità solo sotto il profilo della illogicità, incoerenza o inattendibilità. Tuttavia, la valutazione discrezionale, per non sconfinare in mero arbitrio, può dirsi ragionevole e attendibile se sorretta almeno da presunzioni semplici, ovvero da una pluralità di "indizi seri, precisi e concordanti", oggettivamente riscontrabili, che secondo l'esperienza comune assumono un significato univoco.
Anche di recente, si è sottolineata l'importanza che, seppure in ragione della speciale pervasività e pericolosità sociale riconosciuti al fenomeno mafioso sia giustificato il carattere preventivo/repressivo di provvedimenti di limitazione e contenimento della libertà di iniziativa economica, la deroga non può spingersi fino al punto da giustificare provvedimenti interdittivi basati su un "semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, pena, altrimenti lo stravolgimento dei principi di legalità e di certezza del diritto del nostro ordinamento democratico".
Pertanto, la giurisprudenza indica nella 'attualità' 'obiettiva congruità' e 'concretezza' i caratteri che debbono manifestare gli elementi assunti dai provvedimenti interdittivi come base per giustificare la loro adozione da parte dell'autorità prefettizia competente, in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.09.2014 n. 4852 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTISolo chi paga l'Erario recupera i crediti. Consiglio di Stato. Chi ha debiti iscritti a ruolo non può incassare dalle pubbliche amministrazioni.
L'etichetta di «soggetto inadempiente» si elimina solo pagando. Questa è l'arma che l'Erario usa per riscuotere i propri crediti, e solo saldando il debito si può ottenerne la cancellazione.

Lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.09.2014 n. 4694, decidendo una lite che contrapponeva un professionista a Equitalia.
La lite era per il pagamento di una parcella, fermata per l'esistenza del segnale di «soggetto inadempiente» dovuta a un debito di poco superiore a 10mila euro iscritto al ruolo. Il professionista lamentava l'omesso preavviso di inserimento nella lista degli inadempienti e la mancata proporzionalità fra debito tributario e credito vantato verso altro soggetto pubblico. Il Consiglio di Stato si pronuncia per il rispetto delle regole, poiché la norma sulla riscossione (articolo 48-bis Dpr 602/1973) prevede rigidi formalismi del rapporto tra creditori e debitori di Pa. Basta quindi una cartella superiore a 10mila euro non pagata per far scattare la qualifica di «contribuente inadempiente».
L'iscrizione a ruolo, peraltro, avviene per un ampio spettro di pretese eterogenee, per un complesso di titoli che cumulandosi possono agevolmente superare 10mila euro. Raggiunta la soglia, si blocca il pagamento anche di importi superiori e derivanti da titoli diversi. Non ha rilievo né l'eventuale sproporzione tra debito e credito, né la circostanza che il debito verso la Pa sia contestato. Il Consiglio di Stato sottolinea che controversie giurisdizionali o amministrative non hanno effetto sul l'iscrizione in elenco dei contribuenti inadempienti. Solo una sospensione dell'autorità (in autotutela) o una pronuncia della magistratura sui presupposti del l'iscrizione a ruolo possono impedire l'operatività del filtro.
Riemerge quindi la sentenza della Corte costituzionale (21 del 1961) con il principio del «solve et repete». Una circolare dell'Economia (27 del 2011) ritiene soggetti al filtro dell'articolo 48 bis e della compensazione anche i pagamenti a privati di somme dovute da soggetti pubblici in base a sentenza, mentre sfuggono (e quindi pagati) gli importi assegnati dal giudice dell'esecuzione dopo un pignoramento, nonché gli importi di incentivi o finanziamenti alle imprese. Chi riceve la cartella di pagamento per un debito iscritto al ruolo vedrà, decorsi 60 giorni, filtrate tutte le richieste di pagamento indirizzate alla Pa.
Tra i privati esiste un meccanismo (articoli 1241 e seguenti del Codice civile) ma le pubbliche amministrazioni sono avvantaggiate perché l'etichetta di contribuente inadempiente frena tutti i pagamenti a fronte di qualsiasi debito iscritto al ruolo.
La soglia di 10mila euro è in qualche modo coerente a quella che negli appalti pubblici consente l'accesso alle gare di chi ha pendenze economiche per tributi o per oneri previdenziali (articolo 38 Dlgs 163/2006 Codice appalti), con una differenza: l'irregolarità nei rapporti con il Fisco o con gli istituti previdenziali deve essere grave e definitivamente accertata, ammettendo un sindacato da parte del giudice (Consiglio di Stato, 5186/2011). Invece, nel caso del generico filtro a contribuenti inadempienti (articolo 48-bis Dpr 603) solo una dilazione rispettata o una sospensione della pretesa dell'ente pubblico possono sottrarre il contribuente dallo scomodo elenco degli inadempienti
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Per il conferimento di incarichi requisiti vincolati ai contratti. Cassazione. Pesano le indicazioni dei ccnl.
La pubblica amministrazione nel conferire incarichi di posizione organizzativa può legittimamente inserire dei criteri d'accesso, purché essi siano conformi alla contrattazione collettiva.
Il caso riguarda un caposervizio addetto alla manutenzione stradale di un Comune, che aspirava a ricoprire uno degli incarichi per i quali venivano richiesti il possesso del diploma di laurea e l'inquadramento nella categoria D3, due requisiti da lui non posseduti. Il caposervizio, ritenendo che la previsione di tali criteri lo escludesse illegittimamente dall'attribuzione della posizione organizzativa, tenuto anche conto delle mansioni che aveva ricoperto, aveva fatto ricorso prima al Tribunale di Macerata, che aveva respinto l'istanza, poi alla Corte d'appello, la quale aveva confermato quanto deciso in primo grado
Nell'esaminare i motivi di ricorso, la Cassazione, con sentenza 11.09.2014 n. 19223 (tratta da www.quotidianolavoro.ilsole24ore.com), preliminarmente non manca di ribadire un principio, ormai acquisito, che qualifica il bando di selezione per il conferimento delle posizioni organizzative non come atto amministrativo, ma come atto assunto con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro (ex art. 5, comma 2 del Dlgs 165/2001). La decisione in merito ai criteri da assumere ai fini dell'attribuzione delle posizioni organizzative costituisce, pertanto, un atto di gestione che afferisce alla sfera di discrezionalità del datore di lavoro.
Tale discrezionalità non può, tuttavia, trasformarsi in arbitrio e per questo non solo la scelta del soggetto a cui conferire l'incarico non può prescindere da una valutazione comparativa degli aspiranti (Cass. Civ. Sez. Lav. sentenza 16.07.2014 n. 16247), ma anche i criteri assunti ai fini dell'attribuzione della posizione organizzativa sono sottoposti al limite del rispetto dei principi di correttezza e buona fede che presiedono allo svolgimento del rapporto di lavoro (articoli 1175 e 1375 c.c.).
Nel verificare se, nel caso di specie, si fosse agito conformemente a tali principi i giudici di legittimità fanno salva la decisione dell'ente convenuto.
Tra i criteri che l'articolo 9, comma 2, del ccnl del comparto Regioni-Autonomie locali prevede ai fini del conferimento delle posizioni organizzative viene indicato, infatti, anche quello relativo ai «requisiti culturali posseduti». La valorizzazione del possesso della laurea e dell'inquadramento nella categoria D3 risulterebbe quindi conforme ai criteri indicati dalla contrattazione collettiva e ciò varrebbe ad escludere, secondo la Corte, che nel caso in esame abbia potuto verificarsi una violazione dei principi di correttezza e buona fede a danno del ricorrente.
Nell'indicare i criteri per il conferimento degli incarichi di posizione organizzativa, il contratto collettivo connette, tuttavia, la loro concreta regolamentazione da parte degli enti «rispetto alle funzioni e alle attività da svolgere». C'è da chiedersi, allora, se nel caso di specie la restrizione ai soli soggetti in possesso di laurea e inquadrati nella categoria D3 fosse realmente giustificabile in relazione all'oggetto dell'incarico di posizione organizzativa che si andava ad assegnare.
Ma è questo un aspetto che avrebbe dovuto essere oggetto di specifiche allegazioni e di comprovate circostanze da parte del ricorrente nei pregressi gradi di merito, non più valutabile, qualora non tempestivamente dedotto, in sede di legittimità
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare che per “edificio di interesse pubblico”, proprio ai fini del rilascio del titolo edilizio in deroga, deve intendersi ogni manufatto edilizio idoneo, per caratteristiche intrinseche o per destinazione funzionale, a soddisfare interessi di rilevanza pubblica, potendo in tale categoria ricomprendersi anche una struttura alberghiera ed il suo ampliamento.
D’altra parte, se è vero che la concessione edilizia in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, quale espressione di un potere di natura eccezionale, necessita di un’adeguata e congrua motivazione, è altrettanto vero che nel caso di specie la lettura della impugnata delibera consiliare (ed in particolare il contenuto degli interventi svolti dai consiglieri comunali sullo specifico argomento all’ordine del giorno) esclude, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sussistenza del dedotto vizio di motivazione del predetto provvedimento, emergendo in modo chiaro ed in equivoco l’iter logico–giuridico che determinato la scelta dell’organo consiliare; tanto meno poi sono ictu oculi apprezzabili macroscopiche contraddittorietà della delibera in questione, esse non potendo coincidere con il soggettivo dissenso degli appellanti alla deroga concessa dall’amministrazione.
Neppure, sotto altro concorrente profilo, può condividersi l’assunto secondo cui la deroga non avrebbe riguardato le previsioni urbanistiche generali, bensì quelle contenute nel piano di recupero edilizio di iniziativa privata che disponeva l’obbligo di aderenza tra edifici ad una minore altezza, con sua conseguente illegittimità, manifestamente erronea essendo, sempre secondo gli appellanti, anche l’affermazione circa l’intervenuta scadenza del piano attuativo per decorso del termine decennale, tale scadenza riguardando esclusivamente gli interventi dichiarati di pubblica utilità.
---------------
Va richiamata la giurisprudenza consolidata secondo cui il piano di recupero costituisce uno strumento attuativo delle previsioni urbanistiche contenute nel piano regolatore generale, equivalente ad un piano particolareggiato e di livello gerarchicamente subordinato.
E’ pertanto inconciliabile, dal punto di vista logico–giuridico, ammettere la derogabilità del piano regolatore generale e l’inderogabilità di quello attuativo, per sua natura subordinato al primo, ciò senza contare che nel caso di specie, come correttamente rilevato dai primi giudici, le deroghe (che concernono il distacco dai fabbricati contermini, indicato in ml. 3,80, anziché in aderenza, e l’altezza massima, prevista in ml. 13, come peraltro già disciplinato dalle N.T.A., indipendentemente dalla sagoma dei fabbricati contermini) non attengono affatto al piano di recupero (attuativo), ma alle stesse previsioni del piano regolatore generale ed alla sua concreta e particolare attuazione quanto alla specifica area interessata dalla concessione edilizia in deroga.

E’ innanzitutto destituita di fondamento la tesi degli appellanti circa l’inammissibilità del rilascio della concessione edilizia in deroga per un albergo, in quanto quest’ultimo non potrebbe essere considerato un edificio o impianto pubblico o di interesse pubblico, mancando in tal senso qualsiasi adeguata motivazione.
La giurisprudenza ha invero avuto modo di evidenziare che per “edificio di interesse pubblico”, proprio ai fini del rilascio del titolo edilizio in deroga, deve intendersi ogni manufatto edilizio idoneo, per caratteristiche intrinseche o per destinazione funzionale, a soddisfare interessi di rilevanza pubblica (Cons. St., sez. V, 20.12.2013, n. 6136), potendo in tale categoria ricomprendersi anche una struttura alberghiera ed il suo ampliamento (Cons. St., sez. IV, 29.10.2002, n. 5913; 28.10.1999, n. 1641; 15.07.1998, n. 1044).
D’altra parte, se è vero che la concessione edilizia in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, quale espressione di un potere di natura eccezionale, necessita di un’adeguata e congrua motivazione (Cons. St., sez. V, 20.12.2013, n. 6136; sez. IV, 23.07.1999, n. 4664; 03.02.1981, n. 128), è altrettanto vero che nel caso di specie la lettura della impugnata delibera consiliare (ed in particolare il contenuto degli interventi svolti dai consiglieri comunali sullo specifico argomento all’ordine del giorno) esclude, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sussistenza del dedotto vizio di motivazione del predetto provvedimento, emergendo in modo chiaro ed in equivoco l’iter logico–giuridico che determinato la scelta dell’organo consiliare; tanto meno poi sono ictu oculi apprezzabili macroscopiche contraddittorietà della delibera in questione, esse non potendo coincidere con il soggettivo dissenso degli appellanti alla deroga concessa dall’amministrazione.
Neppure, sotto altro concorrente profilo, può condividersi l’assunto secondo cui la deroga non avrebbe riguardato le previsioni urbanistiche generali, bensì quelle contenute nel piano di recupero edilizio di iniziativa privata che disponeva l’obbligo di aderenza tra edifici ad una minore altezza, con sua conseguente illegittimità, manifestamente erronea essendo, sempre secondo gli appellanti, anche l’affermazione circa l’intervenuta scadenza del piano attuativo per decorso del termine decennale, tale scadenza riguardando esclusivamente gli interventi dichiarati di pubblica utilità.
Al riguardo va richiamata la giurisprudenza consolidata secondo cui il piano di recupero costituisce uno strumento attuativo delle previsioni urbanistiche contenute nel piano regolatore generale, equivalente ad un piano particolareggiato e di livello gerarchicamente subordinato (ex multis, sez. IV, 29.12.2010, n. 9537; 29.07.2009, n. 4756; 05.03.2008, n. 922).
E’ pertanto inconciliabile, dal punto di vista logico–giuridico, ammettere la derogabilità del piano regolatore generale e l’inderogabilità di quello attuativo, per sua natura subordinato al primo, ciò senza contare che nel caso di specie, come correttamente rilevato dai primi giudici, le deroghe (che concernono il distacco dai fabbricati contermini, indicato in ml. 3,80, anziché in aderenza, e l’altezza massima, prevista in ml. 13, come peraltro già disciplinato dalle N.T.A., indipendentemente dalla sagoma dei fabbricati contermini) non attengono affatto al piano di recupero (attuativo), ma alle stesse previsioni del piano regolatore generale ed alla sua concreta e particolare attuazione quanto alla specifica area interessata dalla concessione edilizia in deroga
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4518 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha affermato che, ferma restando l'inderogabilità, da parte della concessione edilizia, delle norme della l. 17.08.1942, n. 1150, l'art. 1 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, esclude espressamente che le disposizioni contenute nei successivi articoli si applichino direttamente e con immediata forza precettiva in assenza della necessaria mediazione rappresentata dal loro recepimento in uno strumento urbanistico o in un regolamento edilizio, cosa che implica la novazione della fonte regolatrice dei rapporti esterni tra pubblica amministrazione e privati o tra privati, che s'identifica nelle specifiche norme d'attuazione del piano regolatore, con la conseguenza che queste ultime, per la tipica natura di dettaglio (tale, cioè, da non involgere i criteri generali e le linee direttrici su cui il piano regolatore si basa), rientrano pacificamente tra le previsioni derogabili, ai sensi dell'art. 41-quater, l. n. 1150 del 1942 e dell'art. 3 l. 21.12.1955, n. 1357, dalla pubblica amministrazione per assentire un intervento edilizio destinato al preminente soddisfacimento di un interesse pubblico o generale.
Quanto poi alla pretesa illegittimità della concessione edilizia in deroga per la violazione dell’art. 8, comma 1, punto 1, del D.M. 02.04.1968, va rilevato che la giurisprudenza (Cons. St., sez. V, 05.11.1999, n. 1841) ha affermato che, ferma restando l'inderogabilità, da parte della concessione edilizia, delle norme della l. 17.08.1942, n. 1150, l'art. 1 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, esclude espressamente che le disposizioni contenute nei successivi articoli si applichino direttamente e con immediata forza precettiva in assenza della necessaria mediazione rappresentata dal loro recepimento in uno strumento urbanistico o in un regolamento edilizio, cosa che implica la novazione della fonte regolatrice dei rapporti esterni tra pubblica amministrazione e privati o tra privati, che s'identifica nelle specifiche norme d'attuazione del piano regolatore, con la conseguenza che queste ultime, per la tipica natura di dettaglio (tale, cioè, da non involgere i criteri generali e le linee direttrici su cui il piano regolatore si basa), rientrano pacificamente tra le previsioni derogabili, ai sensi dell'art. 41-quater, l. n. 1150 del 1942 e dell'art. 3 l. 21.12.1955, n. 1357, dalla pubblica amministrazione per assentire un intervento edilizio destinato al preminente soddisfacimento di un interesse pubblico o generale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4518 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo procedimento di verifica sono da considerare acquisiti i seguenti principi:
a) il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto: esso mira piuttosto a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone l’effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell'offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta;
d) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione;
e) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica dell’amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidente errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione;
f) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono, non può considerarsi viziato il procedimento di verifica per il fatto che l’amministrazione appaltante e per essa la commissione di gara si sia limitata a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex art. 87, comma 1, D.Lgs, n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione della richiesta di giustificazioni.

Occorre premettere che in tema di valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo procedimento di verifica (che costituisce l’oggetto della controversia in esame) sono da considerare acquisiti i seguenti principi:
a) il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto: esso mira piuttosto a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto (ex multis, C.d.S., sez. III, 14.12.2012, n. 6442; sez. IV, 30.05.2013, n. 2956; sez. V, 18.02.2013, n. 973, 15.04.2013, n. 2063), così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone l’effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell'offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto (ex pluribus, C.d.S., sez. IV, 22.03.2013, n. 1633; 23.07.2012, n. 4206; sez. V, 20.02.2012, n. 875; sez. VI, 24.08.2011, n. 4801; 21.05.2009, n. 3146);
c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta (Cons. Stato, sez. V, 26.06.2012, n. 3737; 22.02.2011, n. 1090; 08.07.2008, n. 3406; 29.01.2009, n. 497);
d) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732);
e) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica dell’amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidente errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 06.06.2012, n. 3340; 29.02.2012, n. 1183);
f) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono (Cons. Stato, sez. V, 27.08.2012, n. 4600; sez, V, 16.08.2011, n. 4785; sez. IV, 14.04.2010, n. 2070; sez. VI, 02.04.2010, n. 1893; sez. V, 18.03.2010, n. 1589; 12.06.2009, n. 3762), non può considerarsi viziato il procedimento di verifica per il fatto che l’amministrazione appaltante e per essa la commissione di gara si sia limitata a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex art. 87, comma 1, D.Lgs, n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione della richiesta di giustificazioni (Cons. Stato, A.P., 29.11.2012, n. 36) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2014 n. 4516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diritti di segreteria. Indennità shock, comune ko per discriminazione.
Cinquecento euro per un certificato di idoneità alloggiativa. Il salasso richiesto dal Comune di Bolgare è discriminatorio nei confronti dei cittadini stranieri, finendo per comprometterne i diritti fondamentali.

Per questo motivo il TRIBUNALE di Bergamo, I Sez.  civile, ha condannato l'ente lombardo (ordinanza 06.08.2014 - tratta da www.cgil.bergamo.it) a revocare la delibera n. 6 del 15 gennaio scorso, con la quale aveva elevato il costo del tributo, divenuto in breve tempo il più alto d'Italia. Basti dire che, appena tre anni fa, i diritti di segreteria per ottenere il documento ammontavano ad appena 30 euro, lievitati poi a 150 euro nel 2011, fino all'ultimo contestato aumento.
Un'operazione di tassazione punitiva su base etnica, secondo i legali dei tre stranieri che hanno presentato ricorso. L'amministrazione comunale, dal canto suo, aveva giustificato la manovra con la necessità di addebitare alle «individualità extracomunitarie» che chiedevano l'iscrizione all'Anagrafe i costi (peraltro non documentati) necessari per assicurare condizioni di sicurezza ai propri cittadini.
Una motivazione che, per il Tribunale, conferma la distinzione basata sull'origine nazionale, integrando la fattispecie prevista dall'art. 43 del Testo Unico sull'immigrazione. Per i cittadini stranieri, infatti, il certificato in questione è indispensabile per avviare una serie di procedimenti amministrativi, come il ricongiungimento familiare, la richiesta della carta di soggiorno, la sottoscrizione del permesso di soggiorno per lavoro subordinato.
La decisione, pertanto, riconosce il carattere discriminatorio del provvedimento amministrativo, sia nei confronti dei ricorrenti, «gravati da oneri maggiori e a condizioni non paritarie per una pratica amministrativa necessaria nell'esercizio di una serie di diritti fondamentali», sia nei confronti di tutti i cittadini stranieri che vogliono risiedere nel comune, chiedendo un importo «sproporzionato e ingiustificato» per la certificazione.
Da qui la condanna alla revoca della delibera n. 6/2014, alla restituzione di 350 euro a titolo di risarcimento a tutti gli stranieri che avevano versato l'importo nel periodo di validità della delibera, nonché alla pubblicazione dell'ordinanza (articolo ItaliaOggi del 04.10.2014).

VARIQuote rosa per gli avvocati. Si dimette la consigliera? Subentra un'altra donna. Per il Tar Lazio non rileva la mancanza del regolamento: basta la Costituzione.
Quando a dimettersi dall'Ordine forense è una consigliera, deve subentrarle un'altra donna, anche se il primo dei non eletti è un uomo. E ciò benché il regolamento previsto dal nuovo statuto dell'avvocatura non sia stato ancora approvato: da qualche giorno è approdato in Parlamento, all'esame delle commissioni competenti. La legge previgente non si può applicare perché nel 1944 non erano previste le quote rosa: l'equilibrio fra i generi, invece, è un principio costituzionale e dunque bisogna applicare i principi affermati dalla legge 247/2012, nonostante la norma secondaria stia completando il suo iter.

Lo stabilisce il TAR Lazio-Roma con la sentenza 05.08.2014 n. 8681, pubblicata dalla III Sez..
Immediata applicazione. Vince la sua battaglia l'avvocatessa romana dopo che la collega ha gettato la spugna abbandonando l'organo rappresentativo.
Irragionevole l'interpretazione dell'articolo 28, comma 6, della riforma forense sostenuta dall'Ordine degli avvocati (e dal controinteressato), secondo cui l'unica disposizione normativa dovrebbe essere scissa in due parti: la parte contenuta nel primo capoverso, sul subentro del primo dei non eletti in caso di dimissioni di un consigliere, sarebbe suscettibile d'immediata applicazione, mentre dovrebbe aspettare il regolamento attuativo la seconda parte, relativa al rispetto e mantenimento dell'equilibrio dei generi.
La riforma forense prevede che il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri eletti. La vecchia normativa disponeva le elezioni suppletive per le dimissioni rassegnate nel corso del mandato. Ma va disapplicata per un evidente contrasto con la novella, che afferma la parità dei sessi come principio fondamentale. Fra le due norme astrattamente applicabili si configura un'incompatibilità: mentre il sistema di elezione (e, di conseguenza, anche di sostituzione) dei consiglieri è sostanzialmente «neutro» rispetto ai generi nel disegno normativo del 1944, il meccanismo deve comunque essere orientato a rispettare l'equilibrio nel sistema voluto dal legislatore del 2012 (Tar Lazio 7632/2014).
Sono allora le norme sulle quote rosa, secondo i giudici, che devono ritenersi di immediata applicazione, nelle more del via libera al regolamento. Spese compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 04.10.2014).

CONDOMINIOAcqua, conteggio millesimale. No al pagamento in proporzione al numero di occupanti. La Cassazione: in mancanza di contatori si ricorre al principio all'art. 1123 del c.c..
Il criterio da utilizzare per il riparto della spesa per il consumo dell'acqua rimane, in alcuni casi, quello generale (di cui all'art. 1123 del codice civile), ovvero il riferimento ai millesimi di proprietà. In mancanza dei contatori di sottrazione nelle singole unità immobiliari, le spese per il consumo dell'acqua, infatti, non possono essere suddivise in base al numero delle persone che le occupano, salvo che risulti uno specifico accordo sottoscritto da tutti i condomini.
Nemmeno si può stabilire con delibera assembleare a maggioranza che gli appartamenti vuoti siano sottratti a tale onere di contribuzione.

Il principio è stato pronunciato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 01.08.2014 n. 17557.
Nella specie alcuni condomini avevano impugnato siccome illegittimo il preventivo di gestione approvato dall'assemblea condominiale e che, tra le altre cose, ripartiva le spese per il consumo dell'acqua sulla base del numero di occupanti le singole unità abitative, con esonero totale dei proprietari di quelle vuote. Nel condominio in questione i singoli appartamenti erano privi di contatori di sottrazione (si veda altro articolo in pagina) e anche il regolamento condominiale non conteneva alcuna disposizione specifica. Sia in primo che in secondo grado i giudici avevano però respinto l'impugnazione, ritenendo che il criterio sotteso al riparto del bilancio preventivo fosse «idoneo (non meno di altri) a commisurare, in via preventiva, l'entità dei rispettivi usi dei condomini».
La decisione della Corte di appello era stata quindi impugnata dinanzi alla Suprema corte che, con la sentenza in questione, ha chiarito come il criterio del numero di occupanti di ciascun immobile ai fini del riparto delle spese dell'acqua sia valido e utilizzabile soltanto nei casi in cui ogni appartamento sia dotato di un contatore che permetta di verificare in maniera oggettiva l'effettivo consumo di ogni unità immobiliare (soluzione tecnica evidentemente preferita dall'ordinamento in considerazione della conseguente razionalizzazione dei consumi e dell'eliminazione degli sprechi). In caso contrario, e salva diversa specifica convenzione, non si può che fare applicazione del normale criterio del riparto millesimale, suddividendo la spesa in base all'incidenza di ciascuna proprietà esclusiva sullo stabile condominiale.
Di conseguenza anche l'eventuale delibera con cui l'assemblea approvi a maggioranza la ripartizione delle spese per l'acqua sulla base del numero di occupanti delle singole unità immobiliari non può che essere ritenuta illegittima per violazione del menzionato criterio generale di cui all'art. 1123 c.c., basato su una corrispondenza proporzionale tra l'onere contributivo e il valore della proprietà di cui ciascun condomino è titolare.
Per gli stessi motivi la Suprema corte ha ritenuto che il criterio in contestazione non possa nemmeno essere ascritto nel campo applicativo di cui al secondo comma della disposizione or ora citata, poiché il sistema di riparto basato sul numero di occupanti «appare inidoneo, per la sua irrazionalità, a fissare un congruo rapporto tra la spesa e l'uso individuale». Infatti, come evidenziato dalla Cassazione, anche l'appartamento vuoto può portare a usi, seppure minimi, di acqua e le relative tariffe prevedono comunque un costo minimo quale quota fissa per la disponibilità del servizio da parte del gestore e che è indipendente dal consumo effettivo.
---------------
La disciplina. Meglio conoscere il consumo effettivo.
Per ripartire le spese relative all'acqua si utilizzano generalmente dei contatori individuali che consentono di misurare il consumo effettivo da parte dei singoli condomini. Quindi ogni unità abitativa deve possedere un proprio contatore (c.d. di sottrazione) che permetta di verificare il consumo effettivo. Naturalmente il consumo complessivo condominiale viene rilevato dal contatore generale di cui è dotato ogni impianto centralizzato di adduzione dell'acqua.
Il principio applicabile per la ripartizione delle spese dell'acqua (fredda) è dunque quello del pagamento in base al consumo. In particolare, qualora la consegna e la misurazione dell'acqua avvenga per utenze raggruppate, la ripartizione interna dei consumi deve essere organizzata, a cura e spese dell'utente, tramite l'installazione di singoli contatori per ciascuna unità immobiliare. Ogni condomino ha diritto di pretendere, se del caso ricorrendo al giudice di pace, il rispetto di questo principio.
A questo proposito è opportuno evidenziare come sia stato ritenuto pienamente legittimo che l'assemblea decida la rimozione dell'impianto idrico obsoleto e la trasformazione dello stesso in altro più moderno ed efficiente ad acqua diretta, anche se ciò comporti l'inapplicabilità della previsione contenuta nel regolamento condominiale circa la ripartizione della relativa spesa in parti uguali e il passaggio ai consumi di acqua individuali previa installazione di appositi contatori.
La realizzazione di un nuovo e diverso impianto comportante la ripartizione delle spese dell'acqua in misura proporzionale al consumo stesso si deve quindi intendere legittimamente deliberata a maggioranza dall'assemblea condominiale, anche nel caso di diversa previsione regolamentare. In ogni caso la mera sostituzione del precedente impianto idrico condominiale non costituisce innovazione, ai sensi dell'art. 1120 c.c., ma solo una modifica diretta a un miglior godimento dell'impianto comune, incidente sulle modalità di svolgimento del servizio, ma non sul diritto dei singoli condomini di usufruirne.
Rientra, infatti, nelle attribuzioni dell'assemblea l'intera gestione delle cose e dei servizi comuni in modo per così dire dinamico, nel senso, cioè, di un loro adattamento nel tempo al fine di una più razionale ed efficiente utilizzazione, con eventuale dismissione di beni comuni e ciò anche se il servizio sia disciplinato da un regolamento contrattuale. Al contrario è annullabile la delibera che adotti a maggioranza criteri iniqui per la ripartizione del costo dell'acqua, ad esempio imponendo agli studi professionali o ai proprietari dei locali destinati ad attività commerciali una maggiorazione del servizio dell'acqua potabile comune.
Agevolazioni tariffarie. Si è posto in ambito condominiale il problema di come ripartire eventuali riduzioni tariffarie derivanti da accordi contrattuali di favore ottenuti con l'ente erogatore dell'acqua. L'applicazione delle tariffe agevolate discende da un determinato consumo di acqua complessivo, ma può accadere che non tutti i condomini giungano al consumo minimo per appartamento che consente l'applicazione delle stesse. Ma è giusto attribuire il beneficio tariffario derivante dalla contabilizzazione complessiva solo ai condomini che, individualmente, abbiano superato il consumo minimo per appartamento che da diritto all'applicazione delle tariffe agevolate e di quella unificata?
Secondo i giudici l'amministratore che abbia stipulato con l'ente erogatore un contratto avente a oggetto il consumo complessivo del fabbricato per beneficiare dell'applicazione di una tariffa agevolata, può poi, del tutto legittimamente, calcolare la ripartizione interna delle spese pro quota in considerazione dei singoli ed effettivi consumi di ciascuno dei condomini, a prescindere dalla circostanza che questi, singolarmente considerati, non avrebbero garantito l'applicazione della suddetta tariffa di favore.
Se, quindi, il consumo complessivamente è tale da ottenere la tariffa agevolata, nell'ambito di tale tariffa ciascun condomino pagherà secondo il proprio consumo effettivo, così da escludere che chi sia rimasto sotto il livello minimo contrattualmente previsto paghi per intero la tariffa del servizio.
Acqua calda centralizzata. Secondo l'attuale legge nei condomini riforniti da una fonte di riscaldamento centrale o da una rete di teleriscaldamento devono essere installati entro il 31 dicembre 2016 contatori individuali per misurare il consumo di calore o di acqua calda per ciascuna unità, se tecnicamente possibile ed efficiente in termini di costi.
La procedura di ripartizione della spesa totale di riscaldamento e acqua calda sanitaria avviene secondo la norma Uni 10200, cioè dividendo la spesa dell'energia termica utile prodotta in base ai consumi volontari (quota variabile), che vanno ripartiti in base alle indicazioni fornite dai contatori e consumi involontari (quota fissa), ovvero quelli indipendenti dall'azione dell'utente e cioè principalmente le dispersioni di calore della rete di distribuzione, che vanno ripartiti in base ai millesimi di riscaldamento.
Le controversie sulla quantità di acqua consumata. Nel caso di controversia circa la quantità di acqua consumata è pacifico che il condomino non possa rifiutarsi di corrispondere la quota di spese per la fornitura in quanto l'eccezione di inadempimento nei rapporti tra condominio e condomini non è applicabile e, in ogni caso, il richiamo a detto principio presuppone la dimostrazione che non sia stato erogato il servizio del quale sia stata ripartita la spesa.
Del resto, come è stato precisato dalla giurisprudenza, qualora la controversia con la restante parte della collettività condominiale non riguardi la fruizione del servizio dell'acqua erogata, ma semplicemente la quantità di acqua consumata, e cioè il corrispettivo della prestazione ricevuta, la delibera condominiale di approvazione e riparto del consuntivo di spesa, se non impugnata nei termini di legge, assume efficacia vincolante e non può più essere contestata dal condomino (articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Dipendente pubblico naviga su siti porno? C'è doppio reato.
Il delitto di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) è integrato anche qualora la persona offesa non abbia concretamente subito un danno, essendo sufficiente per la sussistenza del reato de quo che il soggetto attivo si appropri di un bene entrato nell’altrui patrimonio.
È quanto emerge dalla sentenza 25.06.2014 n. 27528 della II Sez. penale della Suprema Corte.
Il caso vedeva come protagonista il dipendente di una società, il quale, al fine di visualizzare taluni siti internet dal contenuto pedopornografico, si appropriava della linea telefonica presente nel posto di lavoro. Nel fare ciò, inoltre, lo stesso distoglieva il computer dalla gestione dell'impianto pubblico di illuminazione comunale, così determinando il blocco di tale servizio pubblico.
La questione centrale affrontata dagli Ermellini concerne la necessità o meno che il soggetto attivo abbia, con la propria condotta, cagionato un danno alla persona offesa dal reato. Nel dare risposta negativa, i Giudici di Piazza Cavour si sono mantenuti nel solco di un orientamento già espresso in precedenti pronunce all’uopo richiamate (Cass. sez. 6A, 23/10/2000 n. 3879; sez. 6A, 9/5/2006 n. 25273; sez. 6A, 26/2/2007 n. 21335).
Il problema, nel caso di specie, risultava particolarmente rilevante, poiché la società-datore di lavoro godeva di un c.d. contratto “
flat” con il fornitore del servizio di telecomunicazione, tale per cui un maggiore o minore uso della linea non avrebbe determinato alcun aumento dell’importo dovuto o diminuzione della qualità o quantità della linea stessa e, di conseguenza, una concreta diminuzione della capacità del patrimonio di soddisfare gli interessi del suo titolare.
Nel confermare la sentenza d’Appello, il percorso seguito dalla Corte è stato il seguente: anzitutto, essa ha affermato che risulta <<irrilevante>> l’accertamento di un danno al titolare del bene protetto. In secondo luogo, che il fatto, così come ricostruito dal giudice di merito, è consistito non tanto nell’uso dell’apparecchio telefonico quale oggetto fisico, così come aveva prospettato il ricorrente, quanto piuttosto <<delle energie costituite da impulsi elettronici>> già entrate a far parte del patrimonio dell’offeso.
L’iter argomentativo del Supremo Consesso impone alcune riflessioni.
Nulla da eccepire in ordine alla seconda affermazione. Il corpus che può divenire oggetto materiale della condotta, infatti, è non solo la <<cosa mobile>>, intesa come porzione materiale della realtà fisica, ma anche, ai sensi dell’art. 624, comma 2, c.p. <<l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico>>. La ricostruzione operata dal giudice di prime cure, dunque, coglie nel segno.
Meno chiara, anche in punto di connessione logica, è la prima affermazione, secondo cui non rileverebbe la mancanza di un danno alla persona offesa per il fatto che questa, in virtù del contratto flat, sostenesse un costo unico e fisso per il servizio internet. Più esattamente, non si comprende anzitutto in cosa dovrebbe consistere l’asserita <<irrilevanza>> del danno; le conclusioni lasciano intuire che, con tale espressione, i giudicanti si riferiscano al fatto che l’art. 646 c.p., diversamente da altre disposizioni (es. art. 640 c.p.), non prevede il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie. In altri termini, il danno non sarebbe necessario per integrare una appropriazione indebita.
Sul punto occorre esprimere alcune perplessità.
Il sistema dei delitti del Titolo XII ruota attorno al bene giuridico <<patrimonio>>. Questo svolge, principalmente, una funzione garantista, quella, cioè, di escludere la rilevanza penale di fatti che ad esso non arrechino una reale offesa. Tale assunto è tanto più vero alla luce del principio di offensività (ritenuto oramai unanimanente accolto da dottrina e giurisprudenza; art. 49 c.p.), in base al quale il reato sussiste (nullum crimen sine iniuria) solo se esso si traduce in una reale offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, offesa, si badi, che può arrestarsi alla fase del pericolo, o giungere fino a quella della lesione. Tale principio emerge come espressione di un diritto penale a base (prevalentemente) oggettivistica, come il nostro, in cui, cioè, la risposta penale scatta non già di fronte alla semplice volontà antigiuridica, ma solo come conseguenza di condotte realmente offensive. Una deroga nell’ottica di un diritto penale a base soggettivistica, inteso come anticipazione della soglia di punibilità ad atti ancora non concretamente offensivi, può giustificarsi solo per ragioni di contingente eccezionalità o per la tutela di beni primari.
Alla luce di tali considerazioni, dunque, può agevolmente concludersi che i delitti contro il patrimonio, nel silenzio della norma, vanno interpretati nel senso che è sempre necessario l’accertamento di un danno concreto (salvo che sia richiesto il semplice pericolo: es. artt. 630 e 642 c.p.). Prova, questa, non fornita nel caso in esame.
La sentenza in commento va infine evidenziata per un ulteriore profilo, questa volta di natura processuale. Tra gli elementi di prova su cui si fonda la condanna, rientrano anche quelli che emergono dalle videoriprese effettuate dalla persona offesa, sul luogo del lavoro, in maniera autonoma e successivamente all’apertura delle indagini.
La Corte dimostra come ormai sia divenuto ius receptum l’approdo raggiunto dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 26795/2006 in materia di videoriprese, con la quale è stato chiarito in modo netto il discrimen tra atti e documenti. Anche nella pronunzia in esame, infatti, si ribadisce che l’art. 234 c.p.p. si riferisce ai soli documenti formati fuori, pur se non necessariamente prima, del processo; in altre parole, è documento la sola rappresentazione di fatti, persone o cose, contenuta su una base materiale, e formata per finalità extraprocessuali.
Gli Ermellini hanno dunque correttamente ritenuto ininfluente l’elemento temporale, poiché esso non rileva ai termini della fattispecie ex art. 234 c.p.p.
Per completezza, vale ricordare che neppure un richiamo (mancante) all’art. 4, L. 300/1970, nella parte in cui vieta gli impianti volti al controllo dell’attività dei lavoratori, avrebbe potuto escludere l’utilizzabilità dei risultati probatori. Tralasciando l’annosa questione dell’irrilevanza processuale di violazioni sostanziali nell’iter di acquisizione della prova, è sufficiente notare che le finalità di tutela del patrimonio aziendale e di prevenzione dei reati sono idonee, di per sé, ad escludere l’illiceità e l’inutilizzabilità dei risultati delle videoriprese effettuate nel luogo di lavoro.
In questi termini si è espressa più volte la stessa Cassazione (Cass. Sez. V n. 20722/2010; Cass. Sez. V n. 34842/2011), affermando che l’art. 4, L. 300/1970 vieta i soli impianti audiovisivi tesi al controllo dell’attività dei lavoratori, e non anche, invece, quelli impiegati per tutelare il patrimonio aziendale da offese altrui, inclusi i lavoratori. Di conseguenza, conclude la Corte, i risultati probatori delle videoriprese effettuate per tali ultime finalità sono pienamente utilizzabili nel processo
(link a www.altalex.com).

ATTI AMMINISTRATIVILa Pec non aspetta il software. Notifica valida anche con l'impossibilità tecnica di aprire gli allegati. Processo telematico. Non si può invocare la mancata ricezione se il programma non è stato installato.
La volontaria mancata installazione del software per leggere gli allegati della posta elettronica certificata (Pec) rappresenta un comportamento colposo in senso lato. Se si tiene questa condotta, pertanto, non si può invocare la forza maggiore in caso di mancata conoscenza di un allegato decreto ingiuntivo ricevuto ritualmente via Pec. È quindi inammissibile l'opposizione tardiva allo stesso decreto ingiuntivo.

Lo ha affermato il TRIBUNALE di Mantova con la sentenza 03.06.2014.
La vicenda
Un artigiano ha aperto, come richiede la normativa, una casella di Pec. Il 26 febbraio scorso ha visto l'e-mail di un avvocato, senza, però, riuscire ad aprire gli allegati. Ha chiesto chiarimenti al professionista, ma non ha ricevuto risposta. Il 27 marzo ha fatto intervenire un tecnico di computer, apprendendo solo allora che l'allegato era la notifica di un decreto ingiuntivo per un suo debito verso un dipendente.
Solo il 7 aprile scorso, pertanto ben oltre i termini di legge, ha proposto opposizione contro il decreto, adducendo come giustificazione che nessuno gli aveva segnalato la necessità di installare programmi ad hoc per "scaricare" notifiche e sostenendo, comunque, la tempestività dell'opposizione perché il termine utile era decorso dal 27 marzo, data di effettiva conoscenza della notifica.
Il lavoratore, da parte sua, ha sostenuto che la notificazione via Pec è legittima dal 24.05.2013, data di entrata in vigore delle modifiche alla legge 53/1994 sulla facoltà di notificazione da parte degli avvocati, e, considerato che erano trascorsi i termini per l'opposizione, ha chiesto al tribunale di dichiarare inammissibile l'opposizione per tardività.
La decisione
In primo luogo, il tribunale ha affermato, sulla base degli articoli 1 e seguenti della legge 53/1994, che:
- l'avvocato, rispettando i presupposti di legge, può notificare atti con Pec, salvo che l'autorità giudiziaria disponga la notifica di persona;
- la notificazione telematica va eseguita all'indirizzo del destinatario risultante da pubblici elenchi;
- la notifica va fatta allegando, al messaggio Pec, l'atto da notificare;
- la notifica si perfeziona, per il notificante, al momento della generazione della ricevuta di accettazione prevista dall'articolo 6, comma 1, del Dpr 68/2005, e, per il destinatario, nel momento in cui è generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall'articolo 6, comma 2, dello stesso Dpr.
Il tribunale ha non solo constatato che la notificazione è avvenuta secondo legge, ma anche che non è emersa una causa di forza maggiore, essendo la mancata conoscenza del decreto ingiuntivo dovuta a comportamento volontario e "lato sensu" colposo dell'ingiunto, che non ha installato il software per leggere gli allegati.
Il tribunale ha stabilito che l'opposizione è stata tardiva e, quindi, inammissibile, determinando il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo. L'inammissibilità del ricorso ha precluso valutazioni sul merito. Inoltre, il giudice ha comunque osservato che l'opponente, avendo pagato in udienza, ha riconosciuto l'obbligazione.
Verso la telematica
La normativa sulla notifica via Pec è in vigore dal 24.05.2013. Si tratta, quindi, di disposizioni che hanno preceduto l'obbligatorietà del deposito telematico del decreto ingiuntivo e degli atti endoprocessuali, che si applica ai procedimenti iniziati dal 30 giugno scorso
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO: Riscaldamento centralizzato: condomino che si distacca concorre alle spese?
Con la sentenza che si annota la Suprema Corte torna a occuparsi del distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento e della misura del contributo alle spese di esercizio da parte del soggetto che rinuncia all’impianto condominiale.
La questione è già stata ampiamente affrontata, per stabilire quali oneri possano essere addebitati al condomino che si è distaccato dall’impianto condominiale.
Un tema ampiamente dibattuto che ha visto la S.C. assumere posizioni ormai consolidatesi nel tempo. Secondo i più recenti e costanti orientamenti “Il condomino può legittimamente rinunziare all’uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto termico comune, senza necessità di autorizzazione od approvazione degli altri condòmini, e, fermo il suo obbligo di pagamento delle spese per la conservazione dell’impianto, è tenuto a partecipare a quelle di gestione, se e nei limiti in cui il distacco non si risolve in una diminuzione degli oneri del servizio di cui continuano a godere gli altri condòmini” (Cass. civ., sez. VI, sentenza n. 5331/2012).
Conformandosi a tale orientamento, con la sentenza n. 9526 del 30.04.2014, la Suprema Corte pone l’accento sulle novità in materia introdotte con la L. 220/2012 evidenziando che “[…], un orientamento giurisprudenziale che ha assunto, adesso, veste di diritto positivo in ragione del quarto comma del nuovo art. 1118 c.c. […] il quale, ha, espressamente, ammesso la possibilità del singolo condomino di distaccarsi dall’impianto centralizzato di riscaldamento o di raffreddamento qualora dimostri che dal distacco non derivino notevoli squilibri di funzionamento od aggravi di spesa per gli altri condòmini”.
In altri termini, e in sintesi, […], continuano ad essere obbligati a partecipare alle spese di consumo del carburante o di esercizio […] perché se il costo di esercizio dell’impianto (rappresentato anche dall’acquisto di carburante necessario per l’esercizio dell’impianto) dopo il distacco non è diminuito e se la quota non sarebbe posta a carico del condomino distaccante, gli altri condòmini sarebbero aggravati nella loro posizione dovendo farsi carico anche della quota spettante al condomino distaccato”.
Premesso che il pronunciamento è riferito ad un caso ante L. 220/2012, a parere di chi scrive, appare improprio il riferimento ai costi per l’acquisto del combustibile, non potendosi fare riferimento in termini di aggravio o risparmio ai costi sostenuti per il combustibile, poiché i costi di esercizio di una centrale termica per i quali concorrono diversi elementi, tra cui anche il combustibile, sono annualmente vincolati a fattori esterni non dipendenti dalla volontà dei soggetti utilizzatori del servizio.
L’andamento più o meno rigido di ogni stagione invernale va a incidere in maniera sostanziale sui costi di esercizio e gestione dell’impianto e, pertanto, l’aggravio o un ipotetico risparmio in conseguenza di un distacco non può essere ricondotto a una semplice operazione aritmetica.
Altrettanto poco calzante il riferimento al novellato art. 1118 c.c. che, nonostante sia stato salutato favorevolmente dai primi commentatori, pur esplicitando il diritto del condomino al distacco dall’impianto di riscaldamento condominiale, nella realtà pone limiti difficilmente superabili perché il distacco possa concretizzarsi.
Al contrario della normativa previgente quando, sulla base dei principi giurisprudenziali della S.C., il condomino poteva staccarsi dall’impianto pur restando tenuto a concorrere alle spese di conservazione ed a quelle di gestione “se e nei limiti in cui il distacco non si risolve in una diminuzione degli oneri del servizio di cui continuano a godere gli altri condòmini”, il novellato art. 1118 non recepisce in toto la posizione giurisprudenziale e, quindi, esclude la possibilità per il condomino di distaccarsi dall’impianto condominiale se non è in grado di fornire prova dell’assenza delle condizioni che, se presenti anche singolarmente, determinano l’impossibilità del distacco.
La novellata norma contenuta nell’art. 1118 c.c. anziché rispondere alle aspettative di quanti l’hanno salutata con favore, appare al contrario foriera di nuove dispute e contenziosi in ambito condominiale.
Il Giudice adito non potrà che limitarsi al vaglio dell’inesistenza o meno delle condizioni che ne impediscono il distacco, senza poter prevedere, contrariamente alle posizioni giurisprudenziali ante legge di riforma della disciplina in materia di condominio, un obbligo di contribuzione alle spese di gestione per il condomino distaccante.
Giova anche sottolineare come il condomino distaccante, prima di operare materialmente il distacco, sia tenuto a formalizzare la sua intenzione poiché ex art. 1122 c.c. “[…] il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni […]”. “In ogni caso è data preventiva notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea”.
E’ fuor di dubbio che l’intervento sull’impianto di riscaldamento possa recare un pregiudizio “notevole o trascurabile” e da ciò l’esigenza della preventiva informazione al condominio.
In considerazione del fatto che il novellato art. 1118 c.c. prevede che il condomino che intende distaccarsi deve fornire prova che “dal suo distacco non derivino notevoli squilibri o aggravi di spesa per gli altri condòmini”, la preventiva informazione dovrà necessariamente essere corredata dalla documentazione tecnica attraverso la quale egli possa dare prova dell’assenza di “notevoli squilibri” e di “assenza di aggravi” per i condomini che continueranno a servirsi dell’impianto condominiale.
Tuttavia, poiché il quarto comma del novellato art. 1118 c.c. non è rientrante tra le norme inderogabili richiamate all’art. 1138 c.c., non è escluso che i partecipanti al condominio possano in via convenzionale concludere accordi che consentano comunque il distacco, anche in presenza di aggravi, addivenendo anche alla determinazione della partecipazione del distaccante alle spese di gestione.
A parere dello scrivente, tale possibilità resterà circoscritta alla determinazione delle parti, mentre sarà da escludersi che ciò possa essere oggetto di un provvedimento del giudice.
Quanto alla sentenza che si annota, per risultare più aderente ad una corretta applicazione del principio giurisprudenziale, senza l’improvvido riferimento alla novella introdotta dalla L. 220/2012, la S.C. avrebbe potuto individuare elementi utili nella norma UNI-CTI n. 10200:2013, peraltro richiamata, nella precedente versione del 2005, anche nel DPR n. 569/2009 in materia di contabilizzazione e ripartizione delle spese di riscaldamento, potendosi con essa quantificare con esattezza i costi di gestione per i quali, in vigenza della disciplina ante L. 220/2012, sarebbero stati chiamati a partecipare i distaccati, al fine di non determinare aggravi per i condòmini ancora allacciati all’impianto centralizzato condominiale.
Per la norma UNI alla spesa per l’impianto centralizzato concorrono due componenti: 1) il consumo volontario; 2) il consumo involontario. E’ su quest’ultima componente che dovrebbe focalizzarsi l’attenzione per la determinazione di quei costi, non dipendenti dalla volontà del singolo condomino che, in caso di distacco, determinerebbe un aggravio per i restanti condòmini allacciati. A titolo esemplificativo e non esaustivo possiamo ricondurre a questa voce le perdite al camino e le dispersioni termiche della rete di distribuzione alle singole unità immobiliari.
Un richiamo alla suddivisione delle spese di riscaldamento in una “quota fissa” da deliberarsi in assemblea e in una “quota a consumo”, si rinviene anche nel Decreto della Giunta Provinciale di Bolzano n. 573 del 15.04.2013 che al n. 5 dell’Allegato “A”, in vigore da gennaio 2015, impone da quella data la contabilizzazione dei costi per il riscaldamento e il raffrescamento secondo “una quota fissa per coprire le spese fisse per la gestione dell’impianto, determinata in sede di assemblea condominiale, ripartita tra le utenze in funzione dei millesimi” e “una quota variabile, ripartita tra le utenze in base al consumo individuale determinato dagli strumenti”. Definizioni di “quota fissa” e “quota variabile” mutuate dalla norma UNI 10200:2005 che oggi, nella versione più recente sono meglio definite in “consumo involontario” e “consumo volontario”.
Da ciò appare evidente come qualsiasi distacco dall’impianto centralizzato comporta un aggravio di spesa per gli altri condòmini.
Pertanto, venendo meno una delle due condizioni poste dal legislatore perché sia ammissibile il distacco dall’impianto centralizzato, la possibilità di distaccarsi appare scarsamente praticabile.
Infatti, se da un verso è riconosciuto che possa verificarsi un qualche squilibrio che, finché non sarà notevole, dovrà essere sopportato dal resto della compagine condominiale, dall’altro, qualunque aggravio, a prescindere dalla sua entità, farebbe venir meno le condizioni che consentono il distacco.
Il principio contenuto nella sentenza in commento, circa gli obblighi di contribuzione anche sulle spese di esercizio e gestione, appare superato proprio per effetto del novellato art. 1118 c.c., che tale obbligo/possibilità non contempla, e con le riserve espresse in merito ad un’individuazione sic et simpliciter meramente aritmetica dei costi di esercizio che si vorrebbe fossero da addebitare comunque al condomino distaccatosi.
Oggi colui che intenda distaccarsi dovrà, in presenza di “aggravi” per i restanti condòmini, rinunciare dal porre in essere il distacco onde evitare che possa essere chiamato al ripristino dello status quo ante.
In via residuale, dovrà preventivamente manifestare la disponibilità a concorrere alla voce di spesa “involontaria” legata a tutte le unità immobiliari, a prescindere dall’uso che in concreto possano aver fatto o possano continuare a fare i condòmini, giungendo ad un accordo in via convenzionale con tutte le altre parti.
Né l’interessato potrà eccepire che ex art. 1118 c.c. “il distaccato è tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”, poiché tale possibilità è prevista solo per quei soggetti che abbiano potuto distaccarsi, dopo aver superato le forche caudine, per essere riusciti a provare che dal loro distacco “non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini”.
Per altro, già nei fabbricati con impianto termico centralizzato a distribuzione orizzontale, i condòmini possono gestire autonomamente i consumi interni alla loro unità immobiliare, operando de facto un distacco dall’impianto e limitandosi a concorrere ai costi ascrivibili ai consumi “involontari”.
Principio questo che rinveniamo in Cass. sez. II, n. 11857/2011 che, accogliendo il ricorso avverso la sentenza del Tribunale di merito, "esclude il configurarsi di uno squilibrio termico nella variazione di temperatura all’interno degli appartamenti prossimi a quelli distaccati. […], in quanto nell’ambito di un condominio ogni unità immobiliare confina con almeno un’altra unità immobiliare, per cui il distacco dall’impianto centralizzato da parte di uno dei condòmini provocherebbe sempre quel tipo di squilibrio termico […], anche in considerazione che la stessa situazione, senza che il condominio potesse lamentarsi per lo squilibrio termico conseguente, si sarebbe potuta verificare ove il S. avesse chiuso i propri radiatori.”
Situazione questa che rinveniamo sovente in quei condomìni a destinazione mista residenziale/periodica, ove i condòmini che utilizzano la loro unità immobiliare solo per limitati periodi nell’arco dell’anno, comunque partecipano ai costi “involontari” in proporzione alla loro caratura millesimale.
Per analogia identico trattamento potrebbe essere riservato al condomino che intenda distaccarsi, se frutto del citato accordo convenzionale.
Appare opportuno che la quota di consumo involontario dell’intero edificio in condominio venga quantificata attraverso una perizia termotecnica, in modo che la relativa quota spettante al condomino che intenda distaccarsi possa essere ragguagliata a un “X”% rispetto ai costi complessivi annuali dell’impianto di riscaldamento centralizzato.
Una valutazione di tal fatta consentirebbe di poter rapportare in termini percentuali quelli che sono i costi involontari, con un margine di errore molto contenuto e ciò a prescindere dai fattori esterni legati all’andamento climatico delle stagioni invernali, diversamente da quanto richiamato dalla Suprema Corte che ipotizzerebbe la necessità di un risparmio in termini di costi dopo il distacco da parte di un condomino.
L’adozione da parte dell’assemblea condominiale di rapporti percentuali dei consumi involontari, senza il supporto della perizia tecnica, esporrebbe la delibera alla contestazione da parte del soggetto distaccante che potrebbe eccepire il vizio del deliberato dell’assemblea per eccesso di potere.
Al contrario, la delibera adottata sulla base della perizia termotecnica sarebbe immune da vizi e tale da mettere al riparo da contestazioni da parte del condomino distaccante e renderebbe meno irto di ostacoli il percorso per giungere ad un accordo.
Traendo spunto dalla sentenza in commento, appare evidente come la problematica relativa al distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento e raffrescamento condominiale resti di piena attualità ed anche l’intervento del legislatore, con le modifiche apportate all’art. 1118 c.c. e la poco felice formulazione della norma, non contribuisce a dirimere il contenzioso in materia e, al contrario, le frizioni all’interno della compagine condominiale sono destinate ad ampliarsi maggiormente.
Allo stesso modo va sottolineato che la possibilità concessa al singolo di rinunciare all’impianto comune si pone in contrasto con quel complesso di norme emanate, anche quale recepimento di Direttive della U.E., dirette al raggiungimento di obiettivi di risparmio energetico e di riduzione delle emissioni di CO2 (Cfr. D.Lgs. n. 192/2005, art. 1, n. 1; D.Lgs. n. 311/2006, all. A, n. 34; D.P.R. n. 59/2009).
Ciò traspare anche dai lavori preparatori della II Commissione permanente Giustizia del Senato – resoconto del 11.07.2012, pag. 118: “[…] rilevando come il distacco dall’impianto di riscaldamento centralizzato, per come è formulata la disposizione, contrasta con le direttive europee sull’efficienza energetica e l’emissione di anidride carbonica”.
Solo parzialmente più condivisibile l’emendamento all’art. 1118 c.c., che si rinviene nel resoconto citato, ma non inserito nel testo definitivo della L. 220/2012, che limitava il distacco in presenza di oggettive situazioni: “Il condomino, ove venga oggettivamente constatato che il proprio immobile non gode della normale erogazione di calore, a causa di problemi tecnici dell’impianto condominiale, e questi, nell’arco di un’intera stagione di riscaldamento, non sono risolti dal condominio, può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato[…]”.
Lascia perplessi il fatto che beffardamente, pur consentendo (obbligando) il distacco per oggettive carenze dell’impianto non sanabili dal condominio, il distaccato resterebbe obbligato a partecipare ai costi di conservazione e manutenzione di un impianto non in grado di erogare calore sufficiente nella sua unità immobiliare.
La materia in discussione, suscettibile di far sorgere ulteriore contenzioso, meriterebbe una rivisitazione da parte del legislatore.
Il D.Lgs. n. 102/2014 (G.U. n. 165 del 18/07/2014) approvato di recente dal Consiglio dei Ministri, che intende stabilire misure dirette alla promozione ed al miglioramento dell’efficienza energetica, avrebbe potuto essere occasione propizia per apportare le opportune modifiche al testo dell’art. 1118 c.c., con il parziale recepimento di quell’emendamento che, se introdotto, potrebbe consentire di limitare la possibilità della rinuncia all’impianto di riscaldamento centralizzato solo ai casi in cui ci si trovi in presenza di oggettive carenze dell’impianto condominiale che non consentano ad una unità immobiliare di poter godere della normale erogazione di calore e non sia possibile intervenire sull’impianto per ovviare alle disfunzioni lamentate. Ovviamente con le opportune modifiche che evitino al distaccato(obbligato) di aggiungere al danno anche la beffa.
Modifica questa che risulterebbe più rispondente alle esigenze di contenimento dei consumi energetici e di riduzione delle emissioni di CO2, allineandosi ai provvedimenti di legge in materia di risparmio energetico (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.04.2014 n. 9526  - link a www.altalex.com).

TRIBUTIIl vincolo abbatte la Tasi. I limiti del Prg riducono il valore di mercato. I chiarimenti da sentenze di Cassazione e commissioni tributarie.
La presenza di vincoli nei piani regolatori comunali non fa venir meno il regime fiscale dei suoli edificabili, ma ha un'incidenza sul loro valore venale e sulla base imponibile dei tributi locali. Pertanto la Tasi è dovuta, anche se in misura ridotta, poiché i limiti imposti dai piani urbanistici alle aree edificabili comportano una diminuzione del loro valore di mercato.
L'edificabilità di un'area, dunque, non può essere esclusa dalla presenza di vincoli o di particolari destinazioni urbanistiche. In questi casi l'area è comunque soggetta al pagamento dell'Ici e dell'Imu, anche se la presenza di vincoli ne riduce il valore di mercato.

In questi termini si è espressa la Corte di Cassazione, con la sentenza 05.03.2014 n. 5161.
Il principio è applicabile anche al nuovo tributo sui servizi indivisibili, la cui base imponibile è analoga a quella dell'imposta municipale. Si tratta di una questione controversa e dibattuta da tempo quella che riguarda l'assoggettabilità all'imposta municipale delle aree vincolate. Anche la posizione della Cassazione non è stata univoca.
Con quest'ultima pronuncia, però, ha chiarito che l'edificabilità non può essere esclusa dalla ricorrenza di vincoli o destinazioni urbanistiche che condizionino, in concreto, l'edificabilità del suolo. La presenza di vincoli, però, ha un'incidenza sul valore venale in comune commercio dell'area e sulla base imponibile. Questo comporta che l'imposta va versata in misura ridotta.
Con la sentenza 25672/2008, invece, la Cassazione aveva affermato che se il piano regolatore generale del comune prevede che un'area sia destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al privato di poter edificare. L'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità risulta dallo strumento urbanistico. Mentre con la sentenza 19131/2007 aveva sostenuto che l'Ici fosse dovuta su un'area edificabile sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore di mercato dell'immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione.
Con questa decisione, tra l'altro, i giudici avevano precisato che l'Ici non ricollega il presupposto dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla sua attitudine a incrementare il proprio valore. Il valore dell'immobile assume rilievo solo per determinare la misura dell'imposta. L'area deve essere considerata edificabile anche se qualificata «standard» e vincolata a esproprio.
L'orientamento non è uniforme neppure nella giurisprudenza di merito. Per esempio, secondo la commissione tributaria regionale di Milano (sentenza 71/2013) un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici. Il vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione del bene. Per il giudice d'appello lo strumento urbanistico destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport, rendendo palese il vincolo di utilizzo meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità.
Sempre la Cassazione, con l'ordinanza 15729 del 09.07.2014, ha chiarito un altro aspetto importante. In particolare, i vincoli urbanistici o paesaggistici non escludono che un'area possa essere qualificata edificabile e che sia soggetta al pagamento delle imposte locali. Tuttavia, l'amministrazione comunale deve verificare se i vincoli posti dal piano regionale impediscono l'edificabilità dell'area o se le limitazioni ne riducono il valore di mercato. I piani paesaggistici regionali prevalgono sugli strumenti urbanistici comunali.
Per quantificare il valore dell'area occorre fare riferimento ai criteri fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992: zona territoriale di ubicazione, indice di edificabilità, lavori di adattamento del terreno, destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione. Una particolare rilevanza, infine, viene attribuita dai comuni ai valori medi di mercato indicati dalle parti negli atti di compravendita di beni similari (articolo ItaliaOggi del 03.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Titoli abilitativi e poteri del giudice penale.
Il giudice penale, nel valutare la sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal titolo abilitativo edificatoria. Deve escludersi infatti che, qualora sussista difformità a previsioni normative statali o regionali ovvero a prescrizioni degli strumenti urbanistici, il giudice debba comunque concludere per la mancanza di illiceità penale qualora sia stata rilasciata concessione edilizia o permesso di costruire, in quanto detti provvedimenti non sono idonei a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda.
Il ricorso deve essere rigettato, perché infondato. 1. L'illiceità del permesso di costruire è stata ricondotta, nella fattispecie in esame, alle seguenti vantazioni:
- il titolo abitativo era stato rilasciato per un intervento di demolizione integrale e ricostruzione da eseguirsi in zona "A", individuata dal piano regolatore come "residenziale conservativa, vecchio centro, soggetta a piani di recupero";
- la relazione al PRG vigente aveva evidenziato che nel vecchio centro cittadino si imponeva la "ristrutturazione dell'intera zona per comparti mediante risanamento edilizio o demolizione e ricostruzione, secondo modalità e quantità da stabilire in sede di piano particolareggiato esecutivo (PPE)", in quanto erano "carenti ed inadeguate le infrastrutture primarie (fogne, acquedotto, strade) e secondarie", mancavano del tutto spazi di verde attrezzato per il gioco e lo sport, nonché parcheggi pubblici adeguati al numero degli abitanti ed erano insufficienti le attrezzature scolastiche e quelle di interesse comune;
- sempre secondo la relazione al PRG, gli strumenti urbanistici esecutivi dovevano essere redatti "nel rispetto della volumetria complessiva preesistente, che si assume come tetto non superabile";
- la necessità del piano particolareggiato di esecuzione era ribadita anche dall'art. 7 delle norme tecniche di attuazione (NTA) del P.R.G., ove si stabiliva che, nelle more dell'adozione del PPE, erano consentiti esclusivamente interventi di manutenzione ordinaria e di risanamento igienico dei singoli edifici (comma 12). La difesa ha sostenuto -e ribadisce in ricorso- che non tutta l'edificazione della zona "A" sarebbe stata subordinata alla redazione di un piano attuativo, ma solo quella relativa agli immobili che nella grafica di lottizzazione ricadevano nel puntinato scuro; nella restante parte delta zona "A" (ove si trovava il fabbricato demolito) sarebbero stati realizzabili anche interventi di "sostituzione edilizia", ai sensi dell'art. 7, commi da 13 a 16, delle NTA, che consentivano anche la demolizione e ricostruzione con cubatura aggiuntiva.
Tali argomentazioni difensive sono state disattese dai giudici del merito, i quali hanno illustrato come i commi da ultimi citati -nel contesto di una complessiva disciplina che a priori escludeva l'implementazione edilizia della zona "A" senza un'adeguata ridefinizione delle opere urbanizzative primarie e secondarie- non potessero ritenersi razionalmente riferiti ad una possibilità di immediata realizzazione di nuove costruzioni, ma riguardassero piuttosto le disposizioni che avrebbero dovuto essere introdotte dai redigendi piani attuativi.
Trattasi di argomentazioni la cui logicità è inconfutabile e non risulta smentita dalla riproposizione, nei motivi di ricorso, delle eccezioni già ineccepibilmente respinte dalla Corte territoriale. Con valenza assorbente va evidenziato, inoltre, che -pure avendo il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), come modificato dal d.Lgs. n. 301/2002, esteso la nozione di "ristrutturazione edilizia" ricomprendendovi anche gli interventi ricostruttivi "consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica"- in ipotesi siffatte, comunque, volumetria e sagoma debbono rimanere identiche.
Nella vicenda in esame, al contrario, l'attività demolitorio-ricostruttiva autorizzata non coincide, nella volumetria e nella sagoma, con il manufatto precedente ed è stata permessa la realizzazione di un piano abitabile in più e di locali commerciali che prima non esistevano (con parziale mutamento della destinazione d'uso); ne consegue che l'intervento eseguito è stato esattamente qualificato come "nuova costruzione", e tale tipo di intervento edilizio sicuramente non era consentito nel centro storico dal PRG vigente nel Comune di Crispano.
2. Va poi ribadito il principio secondo il quale il giudice penale, nel valutare la sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dai titolo abitativo edificatorio (vedi Cass., Sez. Un., 28.11.2001, Salvini).
Deve escludersi infatti che -qualora sussista difformità dell'opera edilizia rispetto a previsioni normative statali o regionali ovvero a prescrizioni degli strumenti urbanistici- il giudice debba comunque concludere per la mancanza di illiceità penale qualora sia stata rilasciata concessione edilizia o permesso di costruire, in quanto detti provvedimenti non sono idonei a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell'opera realizzanda.
Nel caso di accertata difformità da disposizioni legislative o regolamentari, ovvero dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici, non si configura una non consentita "disapplicazione", da parte del giudice penale dell'atto amministrativo concessorio (vedi Cass., Sez. Un., 12.11.1993, Borgia), in quanto lo stesso giudice, qualora come presupposto o elemento costitutivo di una fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo ovvero l'autorizzazione del comportamento dei privato da parte di un organo pubblico, non deve limitarsi a verifica re l'esistenza ontologica dell'atto o provvedimento amministrativo, ma deve verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale, "in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo" (vedi Cass.: Sez. Un., 28.11.2001, Salvini; nonché Sez. 6^, 18.03.1998, n. 3396, Calisse).
Punto fermo è, dunque, che il reato di esecuzione di lavori edilizi in assenza di permesso di costruire può ravvisarsi anche in presenza di un titolo edilizio illegittimo (si vedano le ampie argomentazioni svolte in proposito da questa Sezione con la sentenza 21.03.2006, Di Mauro, che il Collegio Integralmente condivide).
Vanno ribaditi altresì i principi (enunciati già da Cass., Sez. 3^, 28.09.2006, Consiglio) secondo i quali:
a) Il giudice penale, allorquando accerta profili di illegittimità sostanziale di un titolo abitativo edilizio, procede ad una identificazione in concreto della fattispecie sanzionata e non pone in essere alcuna "disapplicazione" riconducibile alla L. 20.03.1865, n. 2248, art. 5, allegato E), ne' incide, con indebita ingerenza, sulla sfera riservata alla Pubblica Amministrazione, poiché esercita un potere che trova fondamento e giustificazione nella stessa previsione normativa incriminatrice;
b) la non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto medesimo sia illecito, cioè frutto di attività criminosa, ed a prescindere da eventuali collusioni dolose del soggetto privato interessato con organi dell'amministrazione. Il sindacato del giudice penale, al contrario, è possibile tanto nelle ipotesi in cui l'emanazione dell'atto sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge quanto in quelle di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere.
3. Quanto al delitto di abuso d'ufficio, ribadisce il Collegio che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi -ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1,- "alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente".
3.1 Dall'espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore integra, certamente, una "violazione di legge", rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 323 c.p..
È chiaro però che, a tal fine, occorre verificare se detta "violazione di legge" non violi il principio di "stretta legalità", secondo i contenuti delineati, in materia penale, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 282/1990.
Tale principio, infatti, può ritenersi soddisfatto, sotto il profilo delta riserva di legge, allorquando la legge determini, con sufficiente specificazione, il fatto cui la sanzione penale è riferita, essendo necessario che la stessa legge consenta di poter distinguere la sfera del lecito da quella dell'illecito, ponendo ai riguardo un'indicazione normativa sufficiente a poter orientare la condotta degli agenti.
Il Giudice delle leggi testualmente ha rilevato che: "non contrasta, perciò, con il principio della riserva, sia la funzione integrativa svolta da un provvedimento amministrativo, rispetto ad elementi normativi del fatto, sottratti alla possibilità di un'anticipata individuazione particolareggiata da parte della legge, sia l'ipotesi in cui il precetto penale assume una funzione latu sensu sanzionatoria, rispetto a provvedimenti emanati dall'autorità amministrativa, ove sia la legge ad indicarne i presupposti, contenuti, caratteri e limiti, in modo che il precetto penale riceva intera la sua enunciazione con la imposizione dei divieto".
Ciò posto -e ribadito che la norma di cui all'art. 323 c.p., richiede, per la sanzionabilità della condotta del pubblico ufficiale, che la stessa sia caratterizzata da sostanziale e non solo formale o meramente procedimentale inosservanza di norme introdotte da leggi o da regolamenti, in rapporto di necessario nesso causale con l'ingiusto vantaggio patrimoniale (che, nella specie, emerge motivatamente evidente dal testo della impugnata sentenza)- nel caso di specie, avuto riguardo agli univoci termini della contestazione ed agli accertamenti in fatto compiuti dai giudici del merito, non vi è dubbio della sussistenza del reato contestato di abuso di ufficio. Infatti, per disposizione di legge, in senso proprio, a fronte del dovere di chi voglia edificare di munirsi del permesso di costruire, sussiste il dovere della competente autorità amministrativa di provvedere D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 13, secondo te procedure e con gli effetti di cui al successivi art. 20.
Ed è proprio sulla base di tali dati normativi che il principio discriminante la condotta lecita da quella illecita è fissato con precisione tale da non essere soggetta ad interpretazioni ambigue o incerte. Detto principio deriva dalla impostazione della volontà statuale a mezzo dello strumento della legge e, quanto alla norma di mediazione, sempre nella legge tale principio fa riferimento agli elementi descrittivi dell'obbligo di comportamento con rinvio di quest'ultimo proprio agli strumenti urbanistici esistenti.
Si deve, dunque, ritenere che gli strumenti della pianificazione comunale partecipino soltanto a determinare il contesto applicativo materiale dell'attività del pubblico ufficiale, pienamente descritta, sotto il profilo della doverosità della condotta, da specifica disposizione di legge, la quale soltanto costituisce oggetto della violazione contemplata dall'art. 323 c.p., ai fini della sussistenza dell'elemento materiale del reato. Ne consegue che, come già affermato da questa Corte (cfr. Cass., Sez. 6^, 02.05.1999, n. 7581, Fravili), "consumandosi la mediazione dell'elemento normativo, fissato dalla legge per le concessioni edilizie, all'interno di un circuito normativo di fonti primarie, l'apparato prescrittivo degli strumenti urbanistici si definisce in funzione di presupposto di fatto della norma di legge violata, che delimita la possibilità di concessione edilizia" alla conformità di questa alle previsioni degli strumenti urbanistici anzidetto di guisa da impedire possibili, residui margini di incertezza sulla individuazione della condotta contra legem.
3.2 Nella vicenda che ci occupa, ove si riscontra una decisione dei giudici della Corte territoriale sostanzialmente corretta alla stregua dei rilievi e principi di diritto innanzi tracciati, le contrarie deduzioni articolate con i motivi di gravame sono infondate.
Né è dato cogliere -a fronte di una puntuale motivazione attinente gli elementi, anche in punto di logica, supportanti la sussistenza pure dell'elemento psicologico del reato de quo- la fondatezza dell'asserita buona fede nella condotta del ricorrente medesimo. 3.3 Ai fini dell'integrazione del reato di abuso d'ufficio è necessario che sussista la cosiddetta doppia ingiustizia -nel senso che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia (vedi, ex multis, Sez. 6^, n. 35381 del 27.06.2006; Sez. 5^, n. 16895 del 02.12.2008, dep. il 21.04.2009)- mentre nessuna intesa preventiva è richiesta tra l'agente ed il beneficiano dell'illecita condotta, dovendosi ritenere sufficiente, al riguardo, che il beneficiario stesso sia specificamente individuato (Sez. 6^, n. 21085 del 28.01.2004).
La sussistenza di entrambi tali elementi, nella specie, è stata correttamente illustrata dai giudici del merito e, allo stesso modo, congruamente motivato ed esente da censure deve ritenersi l'apprezzamento della Corte territoriale in ordine al requisito della intenzionalità del dolo, desunto dal succedersi di evidenti anomalie procedimentali: assunzione, da parte dell'architetto Minichino, della doppia funzione di istruttore della pratica e di firmatario del permesso di costruire; presenza di un parere favorevole al rifascio del permesso di costruire rilasciato da un responsabile del procedimento mai nominato; tempi inusitatamente brevi di svolgimento e conclusione della procedura.
Anche al riguardo, pertanto, l'impugnata pronuncia si è doverosamente attenuta al quadro dei principi fissati da questa Suprema Corte, secondo i quali: - in tema di elemento soggettivo del defitto di abuso di ufficio, il dolo intenzionale riguarda soltanto l'evento del reato, mentre gli altri elementi della fattispecie sono oggetto di dolo generico (vedi Cass., Sez. 6^, 20.04.2011, n. 34116);
- la prova del dolo intenzionale, che qualifica (a fattispecie criminosa dell'abuso d'ufficio, non richiede l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, perché l'intenzionalità del vantaggio, voluto dall'agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (vedi Cass., Sez. feriale, n, 38133 del 25.08.2011);
- il dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio non è escluso dalla mera compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, essendo necessario, per ritenere insussistente l'elemento soggettivo, erte il perseguimento del pubblico interesse costituisca il fine primario dell'agente (vedi Cass., Sez. 3^, 24.02.2011, n. 18895)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.10.2012 n. 39462 - link a www.lexambiente.it).

inizio home-page